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Tre inediti di Valentina Calista da "Carne sacra", su Gradiva (n°48- Fall 2015), International...

Date post: 11-Mar-2023
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Italian Poetry
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Italian Poetry

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Mamma 2: la vendetta

Come tornai da la Madon-dell’Orto […]G. G. Belli

Anche a volerti dimenticare,ecco il baleno di un’ombra sulla spiaggiae appare il tuo profilo dentro il mio,che porta il tuo profilo, nascosto teschio,dentro di me. Ognuno porta in testa una testa di morto,ma non una qualsiasi:io nascondo la tuache ovunque vada, avanza.Rimprovero e colpa – matrice.

Valerio Magrelli

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Felicino

Tradotta navetta settebello frecciarossa ronzano in testa i treni che ho persoda bardascione un po’ scilito coi leccidella costa ad ombreggiarmi amori avversicoi vachi del rosario imbrigliati in trecciatosta per flagellarmi quelle riversechiappe seminariste nel chiuso andronedi un semenzaio che smaniava in pulsioni.

Padre Giustino padre Oreste e Dantel’addetto al giardino e alle mie polluzionispicciate a tanfo di ascelle e diserbantePater Noster pappardellati in fiatonidi chierici afasici o febbricitantie mio padre in acquavelva e linde azioniche alle pie feste impicciottava saltuariosbertucciando le piaghe del mio calvario.

Prevetucce prevetèlle Felicino mi appellavano al paese nel breviariodei ritorni presagendomi un destino:nel diminutivo è tutto il mio scenariodi tragedie irrise in farse e cavatinetrillate svelte sul velo del sudario:in minore sfumano toni e contorni gli sbandori d’anima son capostorni.

MARCELLO MARCIANI

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Ho un setoso viso ad O d’arcaico putto.Più che un viso è un piatto di sedati scornio meglio uno stemma di rimpianti asciutti.Ai fedeli balbetto il fiato dei giornifra grazia e pena sniffate in usufruttoda uno straccato Dio in ferie che ci storna.Oh non dovrebbe un prete così parlarese no mi si smorzano i ceri all’altare.

Domine obliviōse abscondite in coeloPater perterrite a meo disonorarevotum exsolvis in toto, sgarrami il velopietatis simulatae a meo svagare.Ho un’anima parvula stretta nel telofrustro d’una chiesascianna, fammi andarede retro, a treni persi a navette a treccerosse d’un amore avverso... oddio sì sfrecciami.

28 ottobre – 4 novembre 2014

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Rinascimento siciliano

Quattro passi giù in centro, dove ogni travaglioriposa a denti strettie c’è abbastanza terra sotto di voise pur cedesse la rete.

Quella gioia che tiene, è senza fondigliodi sogno o sentimento (tornasse Giuni Russo tra noia ipnotizzare i gabbiani...)

E ad un cenno, il vecchio albergo delle intimitàsontuoso – salta in ariavolano i falsi da Messina, e tu...

Ma si sbaglia, si sbaglia di piùmani giunte alle cavigliea rimetterlo in piedi in segreto.

GIORGIO MOBILI

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Dimenticare un hotel

Quei due – quando parlanoscimmiottano la lingua di nessuno.Suoni migliori: se si avvertono, è soltanto in quantouno sognò di lei.

L’hotel – senza limitiimpalma il panorama del ritornoa quattro muri, e l’assenza sagomata in centrosalda dentro di lui.

Salvare i denti del sabato, già in bocca al lunedì:farne dei parafulminio un rosario per i pensieri neri.

Poi lasciarlo su un cofano, o in un monte di pietà;e farsi passanteche vede tutto, e tutto dimentica.

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Nord

Cade l’inverno, e il senso ritornadi una strana equità, come sechiedesse pazienza, per procura, di un mondoche calchiamo a metà. Stai qui, che passano i mortiintanto prendiamo un soffio d’aria.

(Che gelo, quel fonendoscopioe i bambini camminano sull’acqua.)

Taglia la nebbia, e insieme il ricordodi un amore astenuto, come per reciproco accordo, riassorbito dal gorgodella notte oltrepò.

Ma tu, nell’ora più stornainsegui il nord – oltre la notte e il giorno.

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Alla stazione di Wellington

Chiama l’altoparlante nomi di partenze e forse anche di arrivi;pochi i binari e i treni tutti uguali, corti e tozzi come bruchi,poca gente che va e viene;eppure io pensoalla Stazione Centrale di Milano:in qualsiasi stagione a qualsiasi oradel giorno o della nottepersino nei suoi pochi momentidi nulla di fatto—in manoun long black bollenterispedisce al mittente questa strana nostalgia. Davanti a me picconapaziente una gang di piccioni gonfi di freddo e quasi tutti zoppi: s’avvicinano col piede buono,l’altro corroso dai loro stessi escrementis’amputerà presto.È una domenica mattina in pieno inverno in fondo al mondo, cerchiamo casa.

MARCO SONZOGNI

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Veglia

Sembrano bronchi sfiatati i rami della pianta nel cortile del vicino eppure i galli e le galline la risalgono, a sera, come albero di cuccagna:sembrano gomitoli di notte dalla mia finestra in mansarda or che volge l’anno. Capovoltasi,una cimice rantola il suo SOS dalle mie carte:la vedo e la rigiro e mi rigiro anch’io. Sono qui e sono altrove, dove il mio sangue si scioglie nel seme più pieno. Inzuccherato di nevischio l’aratro respinge ritardi: che domani è già ora,è già tempo di scoprire la verità che t’incinta.

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Singapore Blues

in memoriam Ida Sonzogno Accastello

La volta di cielo che osservo da Singapore si è fatta stretta:si sono esaurite le tue ore,Ida, zia prediletta.

Rimarrà per sempre vacanteil tuo scranno,Regina madre. E io, distanteper il tiranno schiaffo del destino, errante

attraverso i fusie gli itinerari, risalgo le scaleche felice discesi l’anno scorso, era già Natale,quando mi presi

un’ora del tuo tempo per me, nipote assenteche ora si rifugia in un carmecosì impotente da lasciarmi inutile e inerme.

So sleep in heavenly peace,oh yeah, in heavenly peace.

Essays & Notes

PIETRO MONTORFANI

FROM LARBAUD TO SERENI. A BRIEF JOURNEY THROUGH THE IDEA OF EUROPE IN POETRY 1

The father and chief of the gods [...] adopted the guise of a bull [...]Agenor’s daughter was truly amazed that this beautiful bull did not seem tomanifest any hostility. [...] he offered his chest for her virginhand to caress and his horns to be decked with fresh flowers. The royalmaiden, not knowing on whom she was sitting, was even so bold asalso to climb on the back of the bull. As the god very slowlyinched from the shore and the dry land he planted his spurious footprintsdeep in the shallows. Thus swimming out farther, he carried his prey offinto the midst of the sea. Almost fainting with terror she glanced back,as she was carried away, at the shore left behind.2

The few lines I have quoted, by the Latin poet Ovid, are probably the most famous version of the Rape of Europa, one of Zeus’s love affairs – one among many – as it is told in Greek mythology. How this story became the founding myth of the Old Continent is still something of a mystery: from the first ac-counts of it (in the 5th century Before Christ) to the Middle and Modern ages, too much has been lost in time, and thus it is difficult for us to look at this story today with feelings of sympathy and shared values. Grounded in an ancient culture for which bulls and cows had special meanings (think of the Minotaur and the labyrinth of Knossos), it is in fact a story of rape and sweet violence, the story of a beautiful young girl leaving home forever against her will. Love,

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1 This speech has been read at the Latvian National Library in Riga on May 1st, 2015, during the conference Between Truth and Power: the Role of Authors in Building and Changing Europe, organized by the Latvian Presidency of the Council of the European Union.

2 Ovid, The Rape of Europa (from Metamorphoses, Book II, 846-875), translated by Daryl Hine, «Poetry», April 2008, pp. 30-31.

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desire, power, trust, travel, homesickness: all these topics are somehow linked to the history and to the idea of Europe – if there is any – but what could a writer of today make of this myth without sounding rhetorical or empty? Echoing this story, in the Fifties Hungarian poet Gyula Illyes compared Europe to «a wandering male spirit / who seduced virgin nations»: is this a right and reason-able way, at the beginning of the third millennium, to speak seriously about our identity? Probably not – at least, this is my personal opinion – but what is cer-tain is that, since we are dealing with mythology and literary imagery, writers will always have the right to raise their voice any time European identity is at stake, any time there is an issue about the meaning of our present or our past.

More importantly, the contribution of writers to a «sense of common identity» could also strengthen the European project itself: literature and culture – that’s to say – could give politics a hand in unifying nations around a strong and powerful center. According to Tzvetan Todorov,

[...] a political idea is more effective if it is borne nor just by common interests,

but also by shared passions; but passions are unleashed only if we feel that our very identities are affected. To feel a European solidarity, we also need to feel that we share a common identity. However, in that case we need to begin by clarifying the content of this identity.3

Clarifying the content of European identity – Todorov knows – is easier

said than done. One ought at least to recall the debate about the Christian roots that, according to many, should be remembered in the European Con-stitution, and which are currently not part of it. The «unfinished business» of studying European identities, as a recent European Commission project calls it, seems not to be very open to this question.4

A long time has passed since the German poet Novalis identified the true heart of the Continent with Christianity itself:

Those were beautiful, magnificent times – I am quoting from the very beginning

of Die Christenheit oder Europa (1799) – when Europe was a Christian land, when one Christianity dwelled on this civilized continent, and when one common interest joined the most distant provinces of this vast spiritual empire.

3 Tzvetan tOdOrOv, In Search of Europe (“A la recherche de l’Europe”), European Identity Debate Series (2013-2014) – Eighth Debate, Strasbourg, Palais de l’Europe, 13 February 2014.

4 eurOpean COmmissiOn, The Development of European Identity/Identities: Unfinished Busi-ness, A Policy Review, 2012.

The «vast spiritual empire» Novalis was dreaming of was not even apt to describe his own time: his idealization of the Europe of the Middle Ages has been disproved by history itself, by religious and political divisions from the Renaissance on. If Christian tradition has something to do with European identity, it won’t be through a revival of the Middle Ages alone. It is even more difficult for us to accept Novalis’ idea of Europe – «one Christianity», «one common interest», unity as an ideological starting point rather than the final goal – since we live in an era of renewed and stern studies on European history, mostly by authors belonging to minorities, both from inside and out-side the Continent: Catalan historian Josep Fontana, Dutch historian Henk Wesseling or Bengali historian Dipesh Chakrabarty – to mention only the most representative ones – have recently been working hard to “provincialize” Eu-rope, to put it before the mirror of its own fragility and faults.5 According to them (and many others), Eurocentrism, along with the so-called superiority of Western civilisation, cannot be an issue anymore.

Just how critical, over the Twentieth Century, the question about the “true spirit” of Europe was, is evident if we look at the group of wonderful minds that have tried to answer it: from Hermann Keyserling to José Ortega y Gasset and his student Maria Zambrano, from Gonzague de Reynold to Jürgen Habermas, from Edmund Husserl to Johan Huizinga. But since we are questioning the contribution of writers, I cannot avoid mentioning that the title itself of the provoking essay by Henk Wesseling, A Cape of Asia, comes from a famous sentence by Paul Valéry, «L’Europe n’est qu’un petit cap de l’Asie». Indeed, Valéry was, among the prominent European writers of his time, one of the most concerned with the question:

Wherever the European spirit dominates – he wrote in La crise de l’Esprit (1922) – one sees the appearance of the maximum of needs, the maximum of work, the maximum of capital, the maximum of return, the maximum of ambi-tion, the maximum of power, the maximum of alteration of external nature, the maximum of relationship and exchanges.

This set of maxima is Europe or image of Europe. Moreover, the source of this development, this astonishing superiority, is obviously the quality of the in-dividual man, the average quality of Homo Europaeus. It is remarkable that the European is defined not by race, or language, or customs, but by his aims and the amplitude of his will...

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5 JOsep FOntana, The Distorted Past: A Re-interpretation of Europe, New York, Wiley, 1995; Henk Wesseling, A Cape of Asia. Essays on European History, Amsterdam, Leiden Uni-versity Press, 2012; dipesH CHakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princeton University Press, 2007.

Valéry’s thought couldn’t be any clearer: “will” and “ambition” are the keywords of his reading of the European spirit, just a few years after one of its most tragic and corrupted manifestations: the First World War. Speaking of qualities, rather than of faults and mistakes, Valéry doesn’t entirely blame the Homo Europeus, he merely reminds him of the responsibilities which are linked to freedom and to his powerful condition.

A similar “Belle Epoque” enthusiasm, this time not even tempered by irony, shines in another French poet of the early twentieth century, Valery Larbaud, whose ode to Europe was published in the light-hearted years be-fore the war:

Europe! You satisfy the infinite appetitesof the mind, and those of the fleshand of the stomach, and the unspeakableand more than imperial appetites of Poets […]For meEurope is like one big townfilled with goods and all the urban pleasures,and the rest of the worldis an open country where, hatless,I rush into the wind with a wild wahoo.6

A very lucky and very rich man, Larbaud used to travel frequently through the whole Continent, renewing the old habit of the Grand Tour. Unlike Goethe’s and Byron’s, though, his Europe was a very fast one, crossed by numerous trains, so we can understand how to him the Continent could look like a single, undivided big city, compared to which the rest of the world is nothing but empty countryside.

In this sort of Europe, growing smaller and smaller as time goes by, it is an illusion to think that national differences or political and cultural borders have lost a bit of their power: at least, this is what a great European writer such as Czeslaw Milosz reminds us in his biographical essay Native Realm:

The revolving globe of the earth has become very small, and, geographically speaking, there are no longer any uncolored areas on it. In Western Europe, how-ever, it is enough to have come from the largely untraveled territories in the East

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6 valery larbaud, Poems of A. O. Barnabooth (1908), edited and translated by Ron Padgett and Bill Zavatsky, Boston, Black Widow Press, 2008, p. 107.

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or North to be regarded as a visitor from Septentrion, about which only one thing is known: it is cold. Standing beside the canopy bed, I felt both a native and a for-eigner. Undoubtedly I could call Europe my home, but it was a home that refused to acknowledge itself as a whole.7

As you might know, Milosz’s desire in this book was «to bring Europe closer to the Europeans»; as a matter of fact, he was trying to bring Eastern and Northern Europe close to Western and Southern Europeans, namely Lithuania and Poland to people from Switzerland, like those who were giv-ing him hospitality at the time. Being Swiss myself, I feel somehow called upon, as if this book had been written specially for me, for my ignorance of the rest of Europe. It may not be a coincidence if, these days, Swiss writers are dealing with this very problem, trying to let Europe know who they really are. Iso Camartin is a Swiss writer who belongs to one of the smallest minorities in the world, the Rumantsch speakers (just a few thousand people in a single Swiss canton, Grison); therefore he is in a good position to echo Milosz’s provocative point:

European self-consciousness shouldn’t be fixed in a doctrine. On the contrary, our belonging to Europe is something that could be better experienced through personal stories and real examples. These stories could be like the tiles of a mosaic or rather – to be more precise – the nerve cells of European consciousness.8

According to Camartin, what really is European are small communities, something he experienced himself and pushed him to write essays and speeches such as The consequences of discovering you are different (1992).

This very short and rather superficial journey through some Twentieth Century writers dealing with European identity was necessary to introduce the Italian poet I would like to briefly speak about, Vittorio Sereni. His per-sonal story was indeed a “tile” of a bigger mosaic of which he has always been aware, starting with his birth in Luino, on the Lake Maggiore, just few kilometers away from the Swiss border. Born in 1913, Sereni grew up in a pre-war Italy, he studied in Milan and published his first book of poetry at the age of twenty-eight, in 1941, when he was already enlisted in the army.

7 Written in Polish and first published in 1959 with the title Rodzinna Europa (“Family Europe”), the book has been translated in English by Catherine S. Leach: CzeslaW milOsz, Native Realm: a Search for Self-Definition, Los Angeles, University of California Press, 1981.

8 isO Camartin, Bin ich Europäer? Eine Tauglichkeitsprüfung, München, Beck Verlag, 2006.

Nevertheless, the poems of his youth are still set in a time of peace, mostly in Northern Italy, but with a keen consciousness of what was happening in the rest of the Continent:

At this hourthey’re watering gardens all over Europe.Hoarse trumpet of the spraygathers warlike children,echoes in sounds of waterfar as this bench’s shade.

On the children at war in the bordersit fans out, makes vortices;sound suspended in droplets [...]trains head southeastthrough fields of roses. [...] 9

Sereni might have been aware that one of the proposed etymologies for the word “Europe” is actually “well-irrigated”: while watching children playing like soldiers in public gardens (a premonition of the war to come), he cannot help asking himself about the destiny of other people in other nations at the same time, wandering with his mind across borders and boundaries. Frontiera, the Italian word for “border”, is indeed the title of his first collec-tion of poems, a “frontier” which he means not just as political boundary, but also as the juxtaposition of different cultures and languages, and even as the thin threshold between peace and war, life and death, time and space. Fol-lowing the thought of Dutch historian Johan Huizinga, according to whom «civilization is safeguarded by diversity», we might very well conclude that for Vittorio Sereni the border itself (the idea of it, the physical and mental crossing of it) is the core of European identity – something that separates the Old Continent from anywhere else in the world (above all, from the United States of America).

Meeting the part of Europe that was on the other side of the border was some-thing that happened in such a brutal and natural way that I couldn’t have thought of it before. [...] We had an idea of Europe like it had been, or like it still could have been, an idea that had nothing to do with what was actually going on during the occupation. Hence the feeling of guilt in us.10

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9 The Selected Poetry and Prose of Vittorio Sereni, edited and translated by Peter Robinson and Marcus Perryman, Chicago, University of Chicago Press, 2006.

10 Vittorio Sereni interviewed by FernandO CamOn, Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1965, pp. 142-143.

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Asserting that European identity lies where Nazi-fascism does not, means, at least, not listening to history as the ultimate teacher, on the con-trary, it means daring to look once more at Europe as a civilization, a myth, a utopia. It is not insignificant that particularly during World War II Erasmus of Rotterdam was chosen as a beacon against totalitarianism by writers and intellectuals such as Stefan Zweig and Johan Huizinga: according to them, humanism could – and still can – be seen as a way out of dark times. What Vittorio Sereni says at the end of the interview I just quoted, about the “feeling of guilt”, has to do not just with his being enlisted as a soldier fighting for the wrong side (Germany and Italy), but also, generally speaking, it reminds us about the responsibility Europeans always have in preserving that heritage of humanism and civilization.

A soldier-poet similar to what Giuseppe Ungaretti had been for Italy dur-ing the First World War, Sereni’s second book of poetry Diario d’Algeria is filled with wartime experiences. First in Greece, during the summer of 1942, then in North Africa as a prisoner of the Allies until 1945, Sereni kept watching Europe from the outside and – what is more important – he felt watched by it, venturing to link his own destiny to the destiny of the Continent itself:

First Athens evening, […]I’ve left summer on the curvesand sea and desert’s my tomorrowwith no more seasons.Europe Europe who watch medescending unarmed and absorbedin my slender myth within the ranks of brutes,I’m one of your sons in flight who knowsno enemy if not his own sorrowor some reawakened tendernessof lakes, of fronds behind the stepsthat are lost,I’m clothed in sun and dust,go to damn and bury myself in sand for years.

Franco Fortini, one of the prominent Italian intellectuals of the second half of the Twentieth Century, may be right when he sees in Sereni the ten-dency to «reduce as much as he can his own visual field», but this tendency does not prevent the poet “feeling” the proximity of European people to his own life. During his confinement in North Africa he kept a diary where he often questioned the progress of the Allied army in Italy and France.

Under an enormous tent we’re laid out just like in a ward. [...] A few nights ago I raised my head to the sky, rather cloudy around a flaccid and ambiguous moon. I was walking half-asleep. The half of me awake thought, “Perhaps tonight they’re landing in Europe”.

Some of these diary pages – the one above is dated June 1944 – are very close to the poems he was actually writing at the time. One of the most beauti-ful and fairly famous, He knows nothing anymore, imagines the D-Day seen like in a dream by a soldier who wakes up in the middle of the night, miles away.

He knows nothing anymore, is borne up on wingsthe first fallen splayed on the Normandy beaches.That’s why someone tonighttouched my shoulder murmuringpray for Europewhile the New Armadadrew on the coast of France.

I replied in my sleep : – It’s the wind,the wind which makes strange music.But if you truly werethe first fallen splayed on the Normandy beachesyou pray if you can, I am deadto war and to peace.This, the music now:of the tents that flap against the poles.It’s not the music of angels, it’s my ownmusic only and enough –.

Vittorio Sereni was, indeed, a real and serious European poet with a keen perception of what it meant to be one. Crossing borders without forgetting his own identity is what he did in all his poetry and prose, with both sharp-ness and gentleness. Before and after his death in 1983 he has been helped “crossing borders” by some wonderful translators, such as Peter Robinson who is the author (together with Marcus Perryman) of the English transla-tions I have been using in my essay. I would like to let Robinson have the last word, since I wouldn’t be able to say it better: «[Sereni] is not only a poet tied to historical circumstance, but one who can act in relation to it by means of ar-tistic responsibility, remorse, and regret. Further, and perhaps most important, reading his poems invites and fosters a reinvigorated and refreshed relation-ship to existence itself. [...] of what it means to be thoroughly alive».

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ENZO REGA

L’AMARA CONTEA DI VITTORIO BODINI

Dopo l’edizione mondadoriana delle Poesie 1939-1970, curata da Oreste Macrì e apparsa nel 1972, bisogna aspettare, nel disinteresse della grande edi-toria, che un editore meridionale, Besa di Nardò, nel 2004 (e poi nel 2010), ripubblichi Tutte le poesie di Vittorio Bodini, in un’edizione ampliata sempre per la cura di Macrì. Qui possiamo ritrovare le raccolte pubblicate in vita La luna dei Borboni e Altre poesie 1945-1961 e Metamor del 1967 (in realtà nella prima delle due sono confluite in La luna dei Borboni del 1952 e Dopo la luna del 1956; una serie di testi inediti che Bodini aveva già organizzato in eventuali raccolte; e poi poesie sparse o appunti di poesie.

Dunque, il volume curato da Macrì consente di conoscere tutta la pro-duzione poetica, nonché lo stesso laboratorio del poeta e ispanista pugliese, nato nel 1914 a Bari da famiglia leccese, e morto a Roma nel 1964. Come molti poeti e intellettuali meridionali, Bodini vive tra la patria originaria e le nuove patrie esistenziali e culturali a cui approda, dal Salento alla Toscana alla Spagna e a Roma, e vive la lacerazione tra la necessità e la volontà di ab-bandonare una terra, il Sud,1 che sembra sprofondare in sé stesso, e il richia-mo che da quei luoghi continua a provenire forte: come per quell’Alfonso Gatto che scrive “Salerno rima d’eterno” e al quale meglio Bodini può essere accostato, a dire di Macrì stesso, tra quanti conobbe nell’ambito del cosid-detto ermetismo fiorentino.

1 Si può leggere, nella quarta stanza de La luna dei Borboni: «e il fanciullo covava / il desiderio inquieto dei pidocchi / al passaggio del treno verso il Nord» (vittOriO bOdini, Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrì, Nardò (Lecce), Besa, 2004, 2010, p. 104; citiamo qui e dopo dall’edizione 2004).

Quello che mi propongo qui è analizzare qualcosa del rapporto che Bo-dini mantiene con i suoi luoghi elettivi attraverso il riflesso della memoria – specchio e deformazione inevitabile –, una memoria che da autobiografica si fa anche storica e collettiva. Scrive ad esempio Marco Forti: «Il Salento da lui ritrovato, pur carico di concreti e attuali contrasti, dal nero impellente degli umori, volge infine a ritrovare una mitica dimensione di evi storici, una forza dissotterrata del poeta, di leggenda che rompa il malefizio del sole dardeggiante».2

I primi versi che troviamo anche nell’edizione Macrì de La luna dei Bor-boni recitano: «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado».3 È l’immagine d’un meridione aspro dove la vita sembra affidata al caso, una condizione precaria e dolorosa, ma sanguigna, come possiamo vedere seguendo tutta la stanza 5 di questa stessa Foglie di tabacco (e un senso acre d’arsura, d’aridità ci viene da questo stesso titolo):

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sudun tramonto da bestia macellata.L’aria è piena di sangue,e gli ulivi, e le foglie del tabacco,e ancora non s’accende un lume.

Un bisbigliare fitto, di mille voci,s’ode lontano dai vicini cortili:tutto il paese vuole fare sapereche vive ancoranell’ombra in cui rientra decapitatoun carrettiere dalle cave. Il buio,com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendonole luci delle case e dei fanali.

Le bambine negli ortiad ogni grido aggiungono una fogliaalla luna e al basilico.

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2 marCO FOrti, La “Luna” di Bodini, in Le Terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, a cura di Oreste Macrì, Ennio Bonea e Donato Valli, Galatina (Lecce), Congedo, 1984, p. 11. Scrive ancora, nella stessa pagina, Forti (e il passaggio illumina quanto verrà esaminato tra poco): «La sua è una dimensione di paese e di origini, che si doveva perdere, slontanare realmente e meta-foricamente da parte del poeta per poterla ritrovare; un luogo il cui scadimento (e tramonto) è reale e allegorico».

3 vittOriO bOdini, Tutte le poesie, p. 93 (Foglie di tabacco). I prossimi versi sono tolti rispet-tivamente dalle pp. 95, 94, 96, 97, 98.

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È un Sud crepuscolare e notturno, su cui cade solo la luce della luna – quella luna borbonica che non a caso dà il titolo alla prima raccolta – o dei tardi fanali; e anche la vita che pur si vuole esibire si svolge, con il gioco dell’enjambement che per un momento lascia il senso sospeso, nell’ombra in cui fa ingresso la morte. Eppure le bambine sono ancora testimonianza di quella stessa vitalità delle mille voci che arrivano da lontano pur provenendo da cortili vicini. È lo «slontamento» (Forti), il dis-allontanamento che av-viene attraverso la “memoria” – termine che nel componimento compare nella stanza successiva –, che è un ritorno a distanza, prima che si compia quello effettivo, che pure al poeta risulta doloroso. Alla fine della stanza 4, infatti, possiamo leggere: «Quando tornai al mio paese nel Sud, / io mi sen-tivo morire», a conclusione di un passaggio nel quale il poeta confessa anche che tornando capisce come fosse stato necessario perdere invece il proprio paese («dove ogni cosa, / ogni attimo del passato / somiglia a quei terribili polsi di morti / che ogni volta rispuntano dalle zolle / e stancano le pale eter-namente implacati»), perché altrove s’era andata formandosi la fisionomia dell’esule – come per Alfonso Gatto che riconosce Milano quale patria della propria poesia, così è Firenze, e poi la Spagna, per Bodini.

Qui è la notte, si diceva. Ma, dove appare, la luce è implacabile, bestiale, così come in un Bestiario salentino (è il titolo della stanza 7): «La luce è un’altra bestia sulle case / da aggiungere al bestiario / la cui favola / sa di sputi e minacce, / il geco, la tarantola, / l’aggressiva cicala, / la civetta». L’animale notturno che conclude il bestiario ci reintroduce all’oscurità che ricompare, per restituirci, sotto la luna, come macchie le donne sulle soglie di casa, donne antiche dallo sguardo duro con le mani che poggiano come pietre sui grembi. Ma da questa immobilità si cerca di evadere; mentre le case sono addormentate, la mente va oltre: «Noi parliamo del logos e dell’amore, / sorpassando più volte le nostre case» e il sonno poi sarà animato da sogni, e «pesci d’oro» saranno partoriti dai petti per nuotare nel buio della stanza ad-dormentata. E si capisce, subito dopo, qual è la meta di discorsi serali e sogni notturni: «Ma tu, luna, le incognite finestre / illumini del Nord, / mentre noi qui parliamo, / nel fondo di quest’esule provincia / ove di te solo la nuca ap-pare». Così come, per dirla con le parole di altro poeta, «la morte si sconta vivendo», allo stesso modo l’esilio, qui, lo si subisce in patria: il volto stesso della luna guarda verso un altro punto cardinale, opposto al Sud. Il Sud è sì incantato, ma di un incantamento che sembra malefico:

Viviamo in un incantesimotra palazzi di tufo,in una grande pianura.Sulle rive del nulla

mostriamo le caverne di noi stessi– qualche palmizio, un santolordo di sangue nei tramonti, un librolento, di pochi fatti, nell’attesa che ci diatutte assieme la vitale cose che crediamo di meritare.

Il paesaggio concreto diventa dunque qui allegorico, sfondo psicologico di un malessere e un’inquietudine che spingono altrove. Ecco quindi, negli Altri versi, affacciarsi, in una poesia che fa riferimento al caffè Greco nel 1945, «il giallo delle case di Roma»,4 per poi spuntare quella Spagna che, come nota Oreste Macrì, fa ben poco capolino nelle poesie pubblicate da Bodini; e rimane stranito il viaggiatore che finalmente percorre l’Europa: Calle del Pez: «esiste una via di questo nome / in un paese d’Europa, / e su-bito non esiste più»; eppure subito prima è stato detto: «Ora dovrei sapermi in un quartiere straniero / dove nei vetri dei caffè, / in arancio o celeste, / pallidamente palpitano vite / parallele nel lutto d’una chitarra». In fondo, già il condizionale in apertura, e il pallido palpitare di queste vite anticipano lo straniamento. Ma l’apertura di questa Calle del Pez (ci sia consentito rico-struire à rebours questo testo) rendeva il falso movimento del viaggio: «Che ricamo di fiamme su un vuoto petto! / Che furia d’aghi da lontano, / e bat-tere a ogni porta: “Che sapete / voi del mio viaggio?”. (Tante cose / da cui non andavo lontano più che non fossi)».

La Spagna compare ancora, però, nelle poesie edite (in questo caso, in Dopo la luna), con un riferimento di tutto rilievo: Omaggio a Góngora, in-fatti, registra la ricerca della tomba del poeta sepolto a Cordova: e qui, al contempo, possiamo trovare l’incontro, la sovrapposizione, la condensazio-ne tra diversi Sud mediterranei; è quella salentizzazione della Spagna a cui fa d’altro canto l’ispanizzazione del proprio Salento: «Cordova è una dolce tempesta / di bianco verde e nero e in quell’accordo / di calce e di limoni e di freschi cancelli / trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza / con più aperta tristezza e più valore».5 Identità e differenza, dunque, e una differenza che conta, perché in essa ristà anche il bisogno di fuga dalla chiusura delle proprie terre per un Sud nel quale, come in questo arabo-andaluso, trovare un respiro maggiore. E anche Madrid, nella pagina successiva, si presenta come un luogo di scorribande, tra calle Fuencarral e Plaza Santa Ana che, come sa chi conosce la capitale, designano luoghi del centro: Plaza Santa

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4 Ibidem, p. 101; gli altri gruppi di versi che seguono sono poi a p. 102.5 Ibidem, p. 134.

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Ana a ridosso delle case abitate dai grandi scrittori spagnoli; ma qui ora è altro che il poeta nota e annota («Gamberi e Manzanilla, / olive verdi e alici. // S’accendono tutte le luci / e gli occhi delle madrilene»).

A seguire, nel testo dopo Madrid, ancora un Sud arabo-latino: siamo a Palermo, nella chiesa di San Giovanni degli Eremiti, per chiedersi «E tu che pensi, / funerea carne al vento viola, / persa / tra le cupole rosse mussulmane / e il pallore dei ruvidi limoni?». La discesa nei ricordi è anche calarsi in una memoria storico-araldica, oltre che immersione fisico-poetica nel mar Mediterraneo:

Come faròa diventare anticoalmeno fino ai secoli in cui un demonesvaniva in ogni bianco giglioe l’universo era già tutto scrittoin un rampante agreste mosaico?[...] Vi sono anime fatte per domandaree altre per rispondere:la mia è una persiana verde con due occhi dietro,la mia è un remo rosso tra i vivai di cozzeche il pescatore aggira sullo Ioniolentamente immergendoloin quell’azzurro che non sa mentire.

Sono tanti i posti nei quali il poeta fa “sosta” come in stazioni di posta della poesia stessa – e di questo rende conto anche l’ampia parte terza del volume curato da Macrì dedicata ad Appunti di poesie, residui e sparse, che raccoglie questi testi per luoghi di vita e di composizione del poeta e fasce cronologiche, una “calendarizzazione” significativa nell’ottica del nostro in-tervento e che riportiamo: Firenze (1939-1940); Lecce (1940-1944); Roma (1944-1946); Spagna – Roma – Spagna (1946-1949); Lecce-Bari (1949-1960); Roma-Versilia (1960-1970).

Vediamo così scorrere il cielo su San Miniato e accendersi le luci sui lun-garni (Firenze, 1940);6 una San Gimignano rievocata a Lecce nel 1941, una primavera del proprio Sud ricordata, forse nel 1944, da Roma con un gioco di rime («I campanili, bianche margherite / dei miei prati del Sud, sfogliano l’ore: / argento dolce in ciglia di pallore / che fra gli ulivi battono smarrite»); Piazza di Spagna nell’agosto 1944 che si fa Italia intera («Ecco la luna, / fra-

6 Cfr. ibidem, p. 213; e poi, a seguire: pp. 219, 231, 233, 245, 246, 256, 261-262.

tello: s’alza il nitido / armonioso uccello dietri i platani / di Trinità dei Monti, e si chiarisce / al canto la sua gola sul teatro dei tetti; e poter dire: / questa è l’Italia»); dai tetti di Roma a quelli di Madrid del 1949 («Sono quassù, / sulla terrazza d’un sesto piano, / indeciso da secoli, / dal Medio Evo»); per sovrapporre, di nuovo in una condensazione, Spagna e Puglia, che ritroviamo qui nella stessa pagina:

Alba in Castiglia

In fondo all’altipiano la città castiglianaspuntava contro il rosso d’una fervida auroracon il perlaceo albore d’un primo denteimbambolato entro una tenera bocca.Ma come al vento sceso dalla sierrail cielo si schiariva,anche noi, fatti torri di campanili,avvertivamo l’ansia e i passi di chi al buioper tortuosi gradini cercava di salireverso la nostra luce e le nostre campane.

Alba in Puglia

In fondo al Tavoliere, la cittàspuntava contro il verde dell’auroracon il perlaceo albore d’un primo denteimbambolato entro una tenera bocca.

Per di più, come in un formulario omerico, ritornano addirittura le stesse immagini, le stesse metafore. In questa sezione, compaiono numerosi testi dedicati alla Spagna, mai ripresi nei pochi volumi dati alle stampe da Bodini. Ma dopo una Lecce innevata del gennaio 1958, e un controcampo scher-zoso tra il capoluogo salentino e l’Ohio americano («Nell’Ohio / andrò a cavallo»), troviamo un’amara meditazione sulla disperazione di un arido Sud che non può far altro che affidare al caso ogni possibilità di riscatto. Se per Ernesto De Martino, l’etnologo di Sud e magia del 1959 quest’unica uscita da una condizione per altro immutabile è rappresentata dalla magia, qui, più “modernamente”, la chance è offerta dal gioco del lotto, laddove la cabalistica arte del cercare i numeri vincenti ha pur qualcosa di magico, e il ricorso al soprannaturale come antidoto all’aridità d’una misera vita si evince pure nell’allitterazione, o vero anagramma, preti/pietre (p. 263; febbraio 1958).

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Due cose non ha il Sud

Due cose non ha il Sud:non ha fiumi né angeli,ma preti e pietresulle calve speranze.Un grande cielo azzurro e senza paneNon lo vuole nessuno;son piccole le casee poverecome margherite gialle.

Sulla soglia di casa ecco dunque sedutoil monco artificiereche dava numeri al lotto: arido e astratto eroedi terre disperatecercatore di numericon cui sbancare lo Stato.

Ma subito dopo, impaginata a seguire, troviamo una Fiaba, che trasfigura un Sud che sa tanto di Puglia, quanto di Spagna, con una piazza di muri bian-chi e verdi persiane, con una seggiola di paglia e una chitarra che campeggia dall’inizio al centro della piazza stessa. L’ambientazione “fiabesca” si declina però amaramente nei muri che somigliano a «un sorriso dimenticato» e nella processione del venerdì santo che «passava solo di fianco» alla scena inqua-drata, come a negare la stessa resurrezione che, alla domenica, dovrebbe far seguito alla passione e morte.

Questo compito “resurrezionale” potrebbe sembrare allora della poesia, almeno a leggere certi passaggi del lungo testo che segue: «È notte, e dovrei lavorare e una poesia / lascerò sul tavolo, come un biglietto di scuse, diretto a me, per domani. Se mi desterò». Della poesia si parla, scrive l’autore, come di «storia d’umanità»: si tratta di parole – quelle “poetiche” – con le quali fare «inventari» buoni nello spazio e nel tempo («per nazioni e per secoli»). Questo scavo spazio-temporale avviene nella notte, come psicoanalitico grembo memoriale che si apre nella scrittura in essa riprendendo il diurno «filo dell’anima»: «Andiamo nel sonno. / Andiamo a vedere che succede»; versi che riprendono letteralmente, tranne che per la punteggiatura (qui c’è un punto a staccare più nettamente), la chiusa della settima stanza de La luna dei Borboni. La poesia appare in questo testo inedito come un’arma difensiva, forse l’unica: «Tu, Bodini, / come sei bravo a difenderti, / come sei bravo a tira pietre qui intorno!».

Un tirar versi come pietre che richiama la “rabbia di esistere” con cui pressappoco si apre la raccolta Dopo la luna, una rabbia esistenziale che pure si dispiega nelle parole, e con esse, in esse, si trasfigura traducendosi nel suo opposto, in un’ambivalenza che, anch’essa, potrebbe apparire psicoanalitica (p. 110): «Quanta rabbia di esistere diventa amore! / E qui bisognerebbe addurre casi, narrare / e anche narrarsi, scegliersi negli specchi / di foglie, d’acqua, di neve». Ma da psicoanalitica ch’appariva, questa conversione di rabbia in amore si fa forse piuttosto politica, a considerare anche solo il testo che segue in quella raccolta (e, in questo volume, nella pagina successiva). La rabbia nasce a petto della condizione di chi popola quei paesaggi meridio-nali, e l’amore, in uno, riguarda i paesaggi stessi e appunto chi, popolando quegli scenari, vi viene sfruttato. Già il «testo della rabbia» si chiude così: «Oh, vi sarete fermati anche voi qualche volta di notte / sotto un balcone o un albero, / udendo il grillo italico cantare, / e a quel brusco interrompersi dei vostri passi / schiudere false rughe, spingere come lontano / da sé il canto, o tacere / e subito riprendere da un altro punto illusorio», dove già l’enjambement «lontano / da sé» ci rende il senso d’una separazione.

Ciò che però è ancora chiuso nell’oscurità di questi versi, s’apre in quelli del testo successivo, in cui è alla donna di Puglia che viene chiesto di risol-levarsi dalla propria morte sociale e personale. E vale la pena considerare il componimento nel suo insieme, nel suo sviluppo dialettico morte/rinascita; ovvero, «Morta, non morire di più» – «Risorgi nell’Inutile», come legge-remo:

Morta in Puglia

Quando seppe l’aumento del prezzo dei pomodoricapì che il tempo dei palpiti era finito.Imparò a brontolareE a mettere le mani nella liscivia bollente.Nella casa imbiancata da poco tempoardeva su una parete un serto di pepe diavolo per i maschi.All’alba un muratore uscì tossendoe chiuse l’uscio di casa,le foglie di limone dentro il cuscinoricordarono un sole di giallo d’ossa.

Morta, non morire di più.Ricordati delle ulive nere.Lucida le maniglie e annaffia i garofani.

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Dimentica che i vetri delle finestresi lavano con acqua e aceto;che le macchie sui vestiti scurisi tolgono con la posa del caffè.Non è più la tua mano che destina ad altro usola cera ancora molle dei candelierio che scalda sul gas la cioccolata dei morti.Risorgi nell’Inutile, morta in Puglia:nei coralli del mare o negli urli del ventonella tua terra d’ostriche e di lupi mannari.

Non c’è qui un folclorico ridestarsi di una cultura materiale nei gesti delle donne di Puglia, quella cultura contadina che pure fa parte del sostra-to memoriale dell’uomo-Bodini. Piuttosto, il contrario. Si chiede loro, alle donne, di dimenticare, in nome d’una frattura storica, le consuete abitu-dini che le consegnano ad una morta vita, ad una morte in vita. «Risorgi nell’Inutile» può essere letto e come «risorgi dall’inutile vita», ma anche, appunto letteralmente, «risorgi in una vita inutile», inutile (dis-utile) rispetto all’utilità della presente condizione nella quale si impiega la propria esisten-za come quella d’un attrezzo al servizio d’altri. L’inutilità è dunque quella della bellezza suggerita dai «coralli del mare» (una rasserenante bellezza) o anche nell’inquietante sublime (kantiano) dell’ululato del vento. Il tutto in un paesaggio che appare quasi tropicale, nel repentino susseguirsi di bello e di orrido: “la terra d’ostriche e di lupi mannari, laddove quest’ultimi ci spro-fondano in una terra e in un tempo antropologicamente selvaggi.

La tensione politica della critica sociale fa tutt’uno con la riflessione filosofica (di un’antropologia filosofica, in questo caso) sulla condizione umana. Sul peso filosofico dello stesso paesaggio bodiniano si è soffermato, pur in un discorso diverso, Francesco Aymone in Filosofia ed estetica del paesaggio in Bodini, analizzando il rapporto cromatico tra cielo e terra con un’intenzione pitagorica (che riguarda tanto il paesaggio, quanto la vita che vi si svolge), per il quale, scrive Bodini, citato da Aymone, «il cielo è in cifra, l’aritmetica».7

Se il passo citato da Aymone è da un testo in prosa dedicato a Pitagora, utile per cogliere appieno la dimensione anche filosofica di Bodini, altre pagine in prosa permettono di mettere a fuoco ulteriormente la cifra civile a cui abbiamo accennato attraverso la poesia. Dalle collaborazioni alla rivi-sta leccese «Democrazia del lavoro» emergerebbe, a detta degli studiosi di

7 FranCesCO aymOne, Filosofia ed estetica del paesaggio in Bodini, in Le Terre di Carlo V, p. 522.

Bodini, un “repubblicanesimo socialista” (derivato più dalla matrice matrice laica di Cattaneo e Ferrari che da quella screziata di religiosità di un Mazzini) che lo spingerà verso l’antifascismo e l’odio per ogni retorica.8 Anche quella di altro stampo: Bodini rimprovera al Pertini-oratore (non al Pertini-politico) toni retorici con i quali il socialista ligure parla dei lavoratori di una «arsa Puglia»: per Bodini, «ciò che esiste è il lavoratore, l’operaio, il contadino che non vanno mitizzati né retoricizzati, pena la ricaduta nel fascismo degli antifascisti» (Invitto).

Da qui l’asciuttezza, un’asciuttezza pur barocca, di un testo come Morta in Puglia, che abbiamo letto poco più su, come baroccamente asciutte sono le volute della memoria che vanno recuperando i frammenti di un mondo. Un mondo che – l’abbiamo visto – non riguarda solo la Puglia delle origini, ma gli scorci ovunque intravisti. Così, ne I pini della Salaria il poeta si chiede: «Che posto troverò per voi / nella memoria, / per voi e per le colme cupole / che ammaìna Roma nell’ombra?» (p. 140).

Una luna pencola a sottrarre all’ombra scorci dell’ amara/amata contea di Bodini.

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8 Cfr. giOvanni invittO, Bodini politico e «Democrazia del lavoro», in Le Terre di Carlo V, pp. 767-771. La cit. successiva è in particolare dalla p. 770.

ADELE DESIDERI

IL TORMENTATO ERRARE DI UN CACCIATORE DI SUONI.A PROPOSITO DI LIGHT STONE DI PAOLO LAGAZZI

Paolo Lagazzi è critico d’arte, saggista d’ampio respiro, poliedrico narratore. Ha curato i “Meridiani” Mondadori delle opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012). Studioso di buddhismo, pittura, musica, cinema, illusionismo – è un intellettuale ben conosciuto in Giappone: tradotto da Yasuko Matsumoto, ha allestito diverse antologie di poesia giapponese per i tipi di Guanda, Rizzoli e Mondadori.

Light stone (Passigli, 2015) è il suo primo romanzo – influenzato, a tratti, dagli autori giapponesi Yukio Mishima e Kikuo Takano.

Disarmanti sono le vicende qui descritte, proprio in quanto quasi ine-sistenti: rivelano la non-storia dell’amore provato dall’attempato, virtuoso, violinista improvvisatore – Francesco Alberti – per la giovanissima Shoko Mitabe.

Un amore consumato in due brevi incontri – nel 2000 e nel 2009; numerose, insistenti, mail inviate da Francesco a Shoko; sporadiche risposte, sempre tramite mail, da parte della reticente giapponese; rare missive cartacee, lun-ghi silenzi che straziano la vita di Francesco; e un flusso continuo di avvincenti riflessioni filosofico-antropologiche – l’andamento è leggero, fluido, intenso; le tonalità accese, struggenti, di ardente poeticità – del disperato Francesco, nelle quali Lagazzi pare spesso identificarsi col protagonista.

Un testo non semplice, Light stone: immerge il lettore nei più cupi anfratti della psiche di un uomo folgorato da un femminile seducente e ambiguo.

«Se avessi vent’anni ti verrei a cercare, se ne avessi quaranta, ragazzo, ti potrei comprare, a cinquanta, come invece ne ho, ti sto solo a guardare...», canta Roberto Vecchioni ne La bellezza, ispirata al racconto di Thomas Mann, Morte a Venezia: affine è la temperie ossessiva, tragica, sensuale ep-pure ascetica, invasiva, che ammalia – e lacera – in Light stone.

Ma chi è, davvero, Francesco?

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Discepolo del Buddhismo Zen – «votato [...] a vivere in bilico, [...] creatura concepita forse per sbaglio» – Francesco percepisce «con chiarezza dentro sé [...] la sostanza coriacea [...] di una malformazione congenita». E si rivolge, talvolta appena pregando, a un Dio enigmatico. Ma non riesce a colti-vare – ne è cosciente – i sentimenti dell’empatia, della generosità, della pietà.

Non ha quiete, si abbrutisce – assopito sul freddo pavimento dello stu-dio – o s’acquatta nelle notturne vie di Milano, in compagnia di strampalati clochard.

Folle «cacciatore di suoni» (e di vane speranze), si annienta nel baratro di una dissennata passione, immedesimandosi infine – «mischiato con lo sterco del Diavolo, [...] subissato dagli applausi deliranti della Demenza» – nel pre-diletto Borsalino, giacente a terra, schiacciato: massa informe e quasi oscena. Simile, però – per ironia beffarda della sorte – a una ossimorica light stone, pietra leggera, che emana bagliori di luce, forse non propria.

E la ventunenne Shoko, chi è, in realtà? «Splendida, sensuale» – un «corpo da sirena anoressica» – «arresa e svet-

tante nel suo misto di pudore e risolutezza», Shoko – il cui nome significa bambino felice – è una ragazza sconosciuta al protagonista, e in parte, proba-bilmente, anche allo stesso narratore.

Universitaria, hostess plurilingue, remissiva geisha – strapazzato angelo in esilio – tenta di evitare, o piuttosto di aggirare, la bramosia di Francesco, tanto accanita, quanto chimerica.

«Anima annidata chissà dove, tenue come il respiro del nulla» – non svela, anzi nasconde, il suo bambino felice – offeso dalla nascita. E lui, il bambino felice, scorge attonito l’universo umano, mentre rovina silente in un’attesa impossibile, in una ferita, in un sospiro.

L’immagine di Shoko, tuttavia, rimanda a quella di Elena – l’unica, sedi-cenne, figlia di Francesco: egli l’ha amata, bimba delicata e giocosa, quale padre-folletto, quale «fiocco di zucchero filato da affidare agli scherzi del vento». Elena si accinge, nel divenire donna, a distanziarsi affettivamente da Francesco.

E vorrebbe, chissà, Elena, un padre che dei giochi infantili facesse arcaica memoria – un padre che le permettesse di andare, adulta, nel mondo. Un padre-rifugio sicuro – non già di balocchi, ma di posati consigli, di condivisi, concreti, progetti.

Francesco – incapace di elaborare il legame edipico che lo avvicina alla figlia – sembra proiettare l’inconscia gelosia e l’istintivo dolore per la per-dita di Elena-bambina nell’erotica devozione verso l’assente, eppure “sua” Shoko: «amava davvero quella ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia» – l’aveva amata «fin da quella prima sera».

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Infatti, nell’epilogo, Shoko sparisce dalla vita di Francesco, senza avviso di congedo, così come dovrà ineluttabilmente accadere a Elena-bambina.

Si eleva, invece, oltre il limite del dramma, la moglie di Francesco, Patri-zia – «il corpo curvilineo da cacciatrice e la saettante tenerezza, la tenera asprezza»: con ferma indulgenza cerca di trattenere Francesco «alle corde dure, tese del buonsenso», per assicurare «almeno un po’ di speranza» tra le «briciole quotidiane» della loro famiglia.

Sullo sfondo dei tormentati paradossi emotivi di Francesco, Lagazzi si dilunga in eccellenti descrizioni riguardanti il Sol Levante, «l’impareggiabile tocco nipponico, quella specie di sfioramento tra polpastrelli o tra anime possibile solo in guanti immacolati, refrattari ai pensieri, ai pesi e alle misure dell’Occidente».

Analizza «la severità tradizionale dell’educazione nipponica – i forti codici maschili, il padre come totem o tabù, la famiglia primo luogo del dovere».

Ed è affascinato dal «sentimento del pudore o della vergogna», dal «timore del giudizio degli altri» che ispirano eticamente ogni gesto dei giapponesi; dall’ambivalenza comunicativa e relazionale che ne consegue, giacché la «pa-rola in Giappone oscilla tra l’esplicito e l’implicito [...] il pubblico e il pri-vato».

D’altronde, «perfino il termine amae, che richiama la dolcezza dei rap-porti tra la mamma e il bambino, si può tradurre anche come [...] oscuro, equivoco, incerto».

Se l’esistenza dell’uomo è quindi coltivata, dall’inizio, nell’ambivalenza, con il «pane azzimo del dolore quotidiano», e «l’anima è come il mare”, in perigliosa burrasca; e Dio è «un’onda, un violino, un mago del delirio [...], una paura» – non v’è, allora, scampo, né laica redenzione?

Restano solo i tediosi riti dell’ordinaria realtà, intessuti troppo spesso di ingannevoli, amorose, suggestioni?

Oppure – attraverso la parola, la musica – qualcosa si può salvare, una flebile luce può indicare il cammino faticoso dei giorni a venire, nella consa-pevolezza che, comunque vada, vale la pena di scriverla, la vita, e di tradurla nella propria complessa partitura?

Lagazzi non risolve i quesiti, e lascia inconcluso lo spartito – non il romanzo.Sarà il lettore, terminata la lettura dell’ultima pagina, a meditare – per

trovare le note più vellutate, il ritmo più certo, affinché il suo tempo interiore si trasformi in armonia di suoni e significati, passato e presente, perdono e futuro.

Intermezzo

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Ricchezza

I corpi si disperdono nella nebbia...si sono radunati, è vero, hanno risoe sofferto; si sono baciaticon la lingua, hanno condiviso ma forseè stato un sogno, altro tempoche sale dai secoli, è stataricchezza, capisci?

LORENZO BABINI

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Cosa hai amato

E quando i figli chiederanno «cosa hai amato»gli parlerò dei bardella solitudine e della compagniadelle donne. E sempre più dei ritorniio ho amato i viaggidi ritorno, degli autogrill, di quelle soste fatte appostaper ritardare la meta.

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Dal tuo viso la pioggiaracconta Settembre,dell’umido intercederee delle mani fredde.Siamo state quasi eternequando il sole ci chiamavanel suo schianto sulle roccetra le crepe degli ulivi.L’umido nei capellidissesta i pensieri.Mi rivolgo alla tua voceper risanare questa crepa.Ho le mani distaccatedalle solite tranquillità.Adesso il nido è vortice,quotidiane calamità

VALENTINA CALISTA

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Non pretendo di appartenerti– perla nella conchiglia – ma di morire nelle tue rughe futureper ritrovarmi giovane e sentirele mie stesse rughe benedirsi.Un giorno, preteso, smisi di creartinell’istante che ti ho avuto.Ho sorpreso i miei dubbiorigliare alle porte del reale.

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Quando la cena è pronta, nei nostri piattis’apre la danza delle nostre intese terrestri.La passeggiata – breve – dona sapore al sognoestivo che ci ha scoperte in viaggio,verso Istanbul.Poi, Gerusalemme bianca ci aspetta. Le sue bracciasono terra e avorio, ulivi radicati nelle preghiere di secoli.Ci pieghiamo alla differenza con le mani più strette,l’una nell’altra, poi l’una nell’altra ancora. La mia pauralegata da una litania al tuo antico dolore di nascita.Nei piatti i colori sorseggiano le nostre amarezze,le gioie delle nere iridi che silenziose si dilatano.

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Per un altro giro della lanterna magica

per Liu Xiaobo, cui la carta è negata ma bisogna scendere in strada,curvi a terra, a scrivere versisul selciato, con in mano il bicchiere,con il dito intinto nell’acqua

parole d’acqua essenzialiche restino quando il suolo è già asciutto;poca è l’acqua in questa prigionedell’animo, dove siamo rinchiusi

senza potere con l’acqua nel cieloscrivere versi tra il guizzare dei voliinvisibili goccioline sospesenel disperdersi d’un arcobaleno

versi con cui si poteva ancora il mondo cambiaree lo spazio che prima non c’eraaprire in noi, dove sguscia la luce;

un solo raggio da un arcata nell’ombratuffato nell’acque del Fontanonecento soli abbaglianti vi accendebaluginanti nell’estinguersi breve

SERGIO DORALDI

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foglia secca si leva col vento,lieve, adesso ch’è spenta l’attesaimpaziente d’essere spentaper volare tra gli uccelli nel cielo

bianco di nuovo e lontano il Velino leggero galleggia sui profili di Romaquasi fosse nell’immobile voloappagato in un sogno d’amore

arrotolate le nubi ritrattedietro ai colli come bassa marea,scogli incrostati tra ruggine e mitiliquei momenti riaffiorano più lucenti di allora

ma potevano essere i preliminariancora più cari, quasi adorarela dolce compagna con baci inauditi,indugiare felice nello slancio al cadere;

a quest’altri abbandonareora vorrei i miei pochi pensieril’assenza presente l’attesae l’essenza cercar di sentire

di quell’incontro che non può avvenire,ma tutto cancella come il fine d’amore,al quale ansanti si corre a crollarein un attimo sulle soglie del nulla;

ora a varcarle presto esauditodispero trovare un’ombra di senso;le foglie sull’asfalto saltellanoa mo’ di cavallette sul prato,

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nere dai rami pendono e volanocontro il candore dei cirri abbagliantiinfiammati da un motivo per esserci, nel dissolversi sempre inseguito;

con il vento i rimpianti si destano,nubi e ricordi si annodanonel cielo sulla navata diruta,il passato tra le onde del mare

affonda con pensieri e ragioni per sempre, ma rinuncio a capiree sulle selci asciutte a cercarele parole d’acqua svanite (novembre 2014)

– 51 –

A sere dolci, velate, a passi notturni, felpati,t’aspetto, vergine roccia del mio cuore,ultimo stremo nell’ore stregateche insidiano il giorno, d’azzurro ghiacciato,d’un tratto a sorprenderci che l’amore resta, sospeso, e non c’è ritorno...

(30 aprile 2011)

Sono lì, un punto nei tuoi dintorni,mi azzero, a volte,pur di nutrirti con la mia fame,affamato ancora d’un amorediafano, virgineo quasi,ostentato forse, eppur dolentein questo transito di luce e ombrache è la mia vita a un dipresso da te...

(2 dicembre 2013)

PASQUALE GIONTA

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Assenza

Ora sei tu che parli.Nel ricordo la tua voce è chiarae il dolore è lebbra che corrode. L’ombra del tempo lascia traccein ogni oggettole lenti rotte degli occhialii vestiti appesi nell’armadio la radio, i libri, le poesie, i quadri.Ciò che sei stato.O ciò che ancora seiIn un altrove assolutoche ti nega a chi ti ha amato.

LAURA GARAVAGLIA

– 53 –

Absence

Now it’s you who speaks.In recollectionYour voice is clearAnd grief is eroding Leprosy.Time’s shadowLeaves tracesIn every object:The broken lenses of your glassesYour clothes hanging in the wardrobeYour radio, books, poems, paintings.What you were.Or what you still areIn an absolute elsewhereWhich takes you away From those who loved you.

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Domani

L’inizio mi squarciava i ricordi,il sangue scendeva le pendici rovinose.Abbiamo provato a distruggereil tempo nel tempo,ma adesso la penna non sa fermarsie non esiste la fine del passato iniziato per caso.Costruisci lo sai di momentii tuoi baci.Gli avanzi di squarci aspettatisussurravano parole insensate.Nel sogno, domani sarai un’aquila in volo.

DARIO MARAVIGLIA

– 55 –

Tomorrow

The beginning was destroyingmy memories,the blood was descendingthe ruined slopes.We have triedto destroythe time in age,but now the penin unable to stopand there isno end to the pastbegun by chance.Build you knowmomentswith your kisses.Torn remnantsawaitedwere whisperingnonsense words.In dreams,tomorrow you will bean eagle in flight.

(translated by S. Cutts)

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Merenda

Ecco, iniziano le ore,in cui prevale il chiaroscurodiffuso, vespertinoche filtra sull’anima tormentata.Fuori c’è il lago che aiuta.Se ne conosce la lineache chiude le voci,le placa tra i quattro cantoni.A volte è questione di ghiaia,dichiararla o non dichiararlamentre si adagia sui soprammobilie da lì ci occhieggia.Non cerchiamo l’esatta censura,se appena si finge un nome,anche la denuncia acquietalo scempio dell’eco passata.

ALBERTO TRENTIN

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Adularia

Sono giornate nelle qualifa tardi presto e vanno viatra le ombre comitalile ombre di cui ho nostalgia:tra tutte, la tua distante boccache ovunque intravedomentre gatteggia e peccae ancora mi fa predadell’adularescenza.Sapere dire per conoscenzale poche cose giusteè l’arte rara di chi ricusala tua chiara lucedonna di luna immaginaria.Le notti in cui ti daialle serene eclissiè come se ascoltassiuna pura fantasiache racconta del rimorsosia che io mi dolgasia che tu mi vogliaa questo punto del doloredi troppa notte e vegliaperdonare.

Translations

MARK STRAND

FOR JESSICA, MY DAUGHTER AND OTHER POEMS

Ho conosciuto Mark Strand circa sette anni fa, una fredda sera del 3 dicem-bre 2008, presso l’Italian Academy della Columbia, nel corso di un evento dal titolo Poetry in Italy / Poetry in America, organizzato dal collega Paolo Valesio (in effetti fu una simpatica occasione per presentare al pubblico la rivista Italian Poetry Review da lui diretta).

Fu un evento assai stimolante sia sul piano intellettivo sia su quello pura-mente emotivo, con una sua “aura” raccolta e meditativa, al quale partecipa-rono, fra gli altri (a parte il sottoscritto), poeti, traduttori e direttori di altre riviste letterarie, da Francesca Cadel, ad Alfredo de Palchi, Richard Howard, Mario Moroni, Alessandro Polcri, Davide Rondoni, Graziella Sidoli, Susan Stewart e, appunto, Mark Strand.

Alto, magro, leggermente smunto nella faccia, Strand lesse alcune sue poesie, una delle quali – molto struggente – ispirata a una sua visita fatta in un cimitero. Mi colpì e coinvolse immediatamente il tono sommesso e con-centrato, vagamente dark, del suo reading: un’emozione profonda che a un tratto mi rimandò, sia pure di sfuggita, a un altro reading di tanti anni prima, quando, studente ad Harvard, una sera del 1979, andai ad ascoltare Josif Brodskij, il quale in quegli anni era “Poet-in-Residence” al MIT; una circo-stanza per me sconvolgente, che ho raccontato altrove, dovuta soprattutto al fatto che Bodskji recitava a memoria le sue poesie, e lo faceva in modo leg-germente cantilenante, “orizzontale”, ipnotico, quasi una sorta di brontolìo di intensa seduzione.

Tornando a Strand, dopo la lettura, ebbi modo di conversare con lui, ci scambiammo gli indirizzi e io mi ripromisi di contattarlo, anche perché mi avrebbe fatto piacere ospitare – sempre che lui, così riservato, avesse accet-tato il mio invito – qualche sua poesia in “Gradiva”. Ma poi, preso da mille impegni intrecciati, rimandai di volta in volta la cosa...

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Pochi mesi fa, del tutto inaspettata, mi giunge la notizia della sua morte, avvenuta a Brooklyn il 29 novembre scorso, dovuta a un liposarcoma. Strand aveva appena fatto in tempo a vedere il bellissimo volume, contenente la sua opera complessiva, uscito a settembre (Collected Poems, New York, Alfred A. Knopf, 2014), dal quale sono tratte le poesie qui pubblicate. When I Turned A Hundred è l’ultimo testo scritto da Strand poco prima della sua morte.

Quanto segue è un piccolissimo, doveroso omaggio, al grande poeta di Blizzard of One, Premio Pulitzer 1998, la cui opera si è sempre mossa all’insegna di una pregnante narratività, attraversata da sbocchi visionari, e improvvisi lampi metafisici.

Luigi FontanellaMount Sinai, NY, maggio 2015

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Mark Strand (foto di Timothy Greenfield-Sanders)

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For Jessica, my daughter

Tonight I walked, lost in my own meditation, and was afraid, not of the labyrinth that I have made of love and self but of the dark and faraway. I walked, hearing the wind in the trees, feeling the cold against my skin, but what I dwelled on were the stars blazing in the immense arc of sky.

Jessica, it is so much easier to think of our lives, as we move under the brief luster of leaves, loving what we have, than to think of how it is such small beings as we travel in the dark with no visible way or end in sight.

Yet there were times I remember under the same sky when the body’s bones became light and the wound of the skull

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Per mia figlia Jessica

Stanotte camminavo,perso nei miei pensieri,e avevo paura,non tanto del labirintofatto d’amore e di me stessoquanto del buio e della lontananza.Camminavo e udivo il vento negli alberi,sentivo il freddo dentro la pelle,ma ciò su cui riflettevoerano le stelle sfavillantinell’immenso firmamento.

Mia cara Jessica, quanto è molto più facilepensare alle nostre vite, mentreci muoviamo sotto il fugace splendore delle foglie,amando ciò che abbiamo,che pensare a come piccolinoi siamo mentreviaggiamo nel buiosenza un cammino visibileo un punto d’arrivo vicino.

Eppure c’erano momenti che ricordosotto lo stesso cieloquando le nostre ossa divenivano leggeree la ferita del cranio

opened to receive the cold rays of the cosmos, and were, for an instant, themselves the cosmos, there were times when I could believe we were the children of stars and our words were made of the same dust that flames in space, times when I could feel in the lightness of breath the weight of a whole day come to rest.

But tonight it is different. Afraid of the dark in which we drift or vanish altogether, I imagine a light that would not let us stray too far apart, a secret moon or mirror, a sheet of paper, something you could carry in the dark when I am away.

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si apriva per riceverei raggi freddi del cosmo,e per un attimoerano essi stessi il cosmo,momenti in cui io potevo credereche eravamo figli delle stellee le nostre parole composte della stessapolvere che luccica nello spazio,momenti in cui potevo sentire, nella levità del respiro,il peso di un intero giorno arrestarsi.

Ma stanotte è diverso.Impaurito dal buioin cui vaghiamo o svaniamo del tutto,io immagino una luceche non ci allontani troppo l’una dall’altrouna luna segreta o uno specchio,un foglio di carta,qualcosa che tu possa portare con tenel buioquando io sono via.

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Another place

I walkinto what lightthere is

not enough for blindnessor clear sightof what is to come

yet I seethe waterthe single boatthe man standing

he is not someone I Know

this is another placewhat light there isspreads like a netover nothing

what is to comehas come to thisbefore

this is the mirrorin which pain is asleepthis is the countrynobody visits.

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Un altro luogo

Vado camminandoin una luce tale

da non cancellarené far distinguerequanto appare

eppure scorgol’acquala barca solitarial’uomo ritto

nessuno ch’ io conosca

questo è un altro luogodove la lucesi stende come retesul nulla

quello che sta per rivelarsisi è qui già rivelato

questo è lo specchioin cui il dolore è sospesoquesto è il paesedove nessuno va.

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Lines for winter

for Ros Kraus

Tell yourselfas it gets cold and gray falls from the airthat you will go onwalking, hearingthe same tune no matter whereyou find yourself—inside the dome of darkor under the cracking whiteof the moon’s gaze in a valley of snow.Tonight as it gets coldtell yourselfwhat you know which is nothingbut the tune your bones playas you keep going. And you will be ablefor once to lie down under the small fireof winter stars.And if it happens that you cannotgo on or turn backand you find yourselfwhere you will be at the end,tell yourselfin that final flowing of cold through your limbsthat you love what you are.

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Versi per l’inverno

per Ros Kraus

Ripeti a te stessache quando arriverà il freddo e dal cielo calerà il grigioandrai avanticamminando, ascoltandola stessa melodia ovunqueti trovi –sotto la buia volta del cielo o sotto il bianco splendente sguardo della luna in una valle innevata.Stanotte, quando arriverà il freddoripeti a te stessache quanto sai è nientema le tue ossa sanno con armonia accordarsi mentre vai avanti. E riusciraiper una volta a distendertisotto il pallido fuocodi stelle invernali.E se capita che tu non possa andare avanti né tornare indietroe scopra di esseredove dovrai essere alla fine ripeti ancora a te stessain quest’ultimo gelido fluire attraverso le membrache ami ciò che sei.

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When I turned a hundred

I wanted to go on an immense journey, to travel night and day into the un-known until, forgetting my old self, I came into possession of a new self, one that I might have missed on my previous travels. But the first step was be-yond me. I lay in the bed, unable to move, pondering, as one does at my age, the ways of melancholy – how it seeps into the spirit, how it disincarnates the will, how it banishes the senses to the chill of twilight, how even the best and worst intentions wither in its keep. I kept staring at the ceiling, then sud-denly felt a blast of cold air, and I was gone.

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Quando compii cent’anni

Volevo imbarcarmi per un cammino infinito, viaggiare notte e giorno nell’ignoto, immemore del mio vecchio io, fino a impossessarmi di un nuovo io, uno che mi era sfuggito nei viaggi precedenti. Ma il primo passo era al di là di me stesso. Sono disteso a letto, incapace di muovermi, percorrendo, come si fa alla mia età, le strade della melancolia – come essa ti penetra dentro l’anima, come scardina la volontà, come scaccia i sensi nel freddo del crepuscolo, come perfino le migliori e le peggiori intenzioni avvizziscono nelle sue mani. Ho continuato a fissare il soffitto, poi all’improvviso ho sentito una raffica d’aria gelida, e sono scomparso.

(traduzioni di Luigi Fontanella e Annalisa Macchia)

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To Those Who Stayed

Brand us exiles, emigrants if you like.It may make your life easier, may buttressYou, shield you, maybe even help hikeYour spirits up, help you feel superior to us.

You will need it as you traverse streetsThat you brag you can walk blindfold on.But where’s that shop, that bar? No one greetsYou any more; so many are dead, or, like us, gone.

Perhaps we were shrewder, wiser, more cunning.Perhaps not. What’s certain is that moreAnd more your city is abandoning you, forgettingYou, as if the city itself is crossing to another shore,

Leaving you nothing and no one, an immigrantIn your own place, the oblivious emigrant.

GREG DELANTY

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A chi è rimasto

Mettici il marchio di esiliati, emigranti se ti va.Può renderti più facile la vita, può rafforzarti,proteggerti, forse anche servire a tirartisu il morale, servire a farti sentir superiore.

Ne avrai bisogno quando attraversi le stradeche ti vanti di poter far bendato.Ma dov’è quel negozio, quel bar? Nessuno più ti saluta:così tanti sono morti o, come noi, andati via.

Forse siamo stati noi più avveduti, più saggi, più scaltri.Forse no. Quel che è certo è che la tua cittàsempre di più ti abbandona, ti dimentica,come se a passare a un’altra sponda fosse proprio la città,

lasciandoti niente e nessuno, un immigrantea casa tua, l’inconsapevole emigrante.

(traduzione di Antonello Borra)

Poets & Poetics

Mario Santagostini (foto di XXX Ferroni)

MARIO SANTAGOSTINI

(titolo?) L’ORDINE DELLA LINGUA (?)LA MATRICE DEI PARADOSSI (?)

Che cosa è, in fondo, il linguaggio? Detto in maniera colpevolmente sem-plificata: una maniera di istituire un ordine sul mondo, dunque di orientarci. A volte, a chi scrive versi accade di rintracciare delle forme di ordine che, in maniera inattesa, fanno il contrario di quello che ci aspettiamo: scombinano il nostro senso comune. A quel punto, la realtà appare “ricca e strana”, o solo più complicata di quello che si credeva. E allora ci si trova, letteralmente, diso-rientati. Nel senso che (per esempio) il passato si incrocia con il presente, chi manca sembra più vicino, chi è andato via per sempre potrebbe essere perfino sul punto di tornare. Non c’è nessuna elaborazione visionaria, in tutto questo. Accade solo che la nostra lingua ha ricombinato i suoi costituenti un ordine di-verso, insolito. Il punto, credo, sta tutto lì. Nel mettere la lingua in condizione arrivare a dettarci quell’ordine che modificherà, ribalterà il modo di vedere le cose. Il genio lo raggiunge (o si fa raggiungere...) con poche mosse, o ci piace pensare che sia così. Il parlante normale deve avere pazienza, molta: è una forma di ascesi. Ma le forme di ordine istituite dalla lingua della poesia hanno questo di grandioso e impressionante: che per un gioco che ha qualcosa di combinatorio prima o poi raggiungeranno sia il genio sia il parlante standard e paziente. E a quel punto, tutti e due saranno in condizione di dire (o solo pensare) qualcosa che potrebbe rivoluzionare il loro sguardo sul tutto, la loro maniera di stare nel mondo: la loro vita. Più che pensare a scrivere, bisogna pensare ad ascoltare quello che sta fuori di noi. E niente è più fuori di noi della nostra lingua. Viene sempre prima, ci precede. Quando riusciamo a “sentirla” poeticamente, a quel punto ci sembra di essere stati noi, a gestirla, piegarla, manovrarla. Credo che nemmeno questo sia vero. Ma è inevitabile pensare che lo sia. È un paradosso? Certo. E che cosa è la lingua, se non la matrice dei paradossi? Li abbiamo creati noi, i paradossi? No: nascono direttamente dalla lingua. Quell’istanza non riusciremo mai a governare.

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... 13 aprile del ’97. Una domenicaariosa. Mio padre sta morendo. Si muovea scatti nel letto. Forsei suoi respiri terminali altrove sono giàle euforiche, gioiosissime,pure contrazionidi chi sta per tornare,e per un attimo in chi assiste passaun sottile senso d’invidia.

(da L’idea del bene, Parma, Guanda, 2001)

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Non so, davvero, cosa stai facendo.probabilmente, nulla.O guardi mucchi di arance andate a male, calce spenta in cortile,ascolti piccioni, ventole, sfiatatoi.Forse ci rivedremo, o nessunovedrà più nessuno,o c’è un finale dovel’eterno ha rottamato l’eterno,vivi e morti parlano,tutti vivi, ai morti.

(da Versi del malanimo, Milano, Mondadori, 2007)

– 82 –

Non amano la luce

Certo, adesso non amano la luce,e nemmeno c’è una luce che li ha amati:zoppicavano dentro una rissa beceratra pochi anni e l’eterno.E l’eterno ha perso.Chiunque tu sei, dismetti la certezza che la vitaè stata il loro momento migliore.

(da Versi del malanimo, Milano, Mondadori, 2007)

– 83 –

L’ex-comunista

Sono tornato a Cinisello,una domenica afosa.Un motocarro scoperto portava via un cane.Questa è stata zona operaia.E io ero, come tanti, comunista.E pensavo a un avveniresenza il lavoro, a quando i corpici sarebbero serviti a poco,quasi a niente. Sonoarrivato a chiedermi di cosa è fatto un corpo, se merita soltanto la vita, o già altro.

(da Felicità senza soggetto, Milano, Mondadori, 2014)

– 84 –

Van Gogh, verso Arles

Sono stanco dei mangiatori di patate: esprimonofame e sono e maiun volto, non ne hanno bisogno.Fanno rumori in terra per spaventare le rondini,i piccioni. Tolleranosolo i prati invasi dai cardi,quelle piante-spazzino ammazzaerbae veleno per le api.

(da Felicità senza soggetto, Milano, Mondadori, 2014)

– 85 –

(una persona conosciuta e amata anni fa mi scrive. O sembra farlo)

L’albero che segnala la primaveraforse sta dicendo– non voglio andare avanti, fermatemi, lasciatemi stare qui, per sempre o più a lungo.E fiorire è una forma di disperazione. Ma a te sembra gioia.Così è stato per i miei segni di scarso interessee di più scarso amore.Come tante donne, non ti ho amato.Sei felice lo stesso?Sì.

Tua R.V.

(inedita)

– 86 –

L’uomo che ha rovinato mio padreaveva nome e cognome.E un figlio che ha tentatola politica. E non passerà alla storia.Non intendo vederlo,e forse sbaglio: l’incrocio di vite ostili, anni o generazioni dopo, o in città diverseè già una forma di perdono.Stasera cammino sul corso, e mi ritrovo con tantagente odiata, non odiata prima che nascesse.E non esiste più una massa urbana e anonima. Solo gente seduta ai tavolini, e le sedie impagliate.

Ricordano quando erano massaurbana e anonima? No.

(inedita)

– 87 –

Alcuni, qui confondono ancora la sirenacon l’allarme antiaereo.Ma sono sempre meno. Pochi anni, e non ce ne saranno più. Sotto casa, una speciedi campo di papaveri. A volte arriva gente.Non capisco da dove, e se per imbiancare le pareti, cambiare le persiane o portarmi via.Dipende da chi sono io, da quale momento è della mia vita.O quale è stato.O quale non è ancora.

È davvero tutto, per ora.

(inedita)

Italian Poets in/of Americaa cura di Michael Palma

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Little Towel Thieves

When had she settled for impermanenceCalled other-woman-hood? Affairs had noBuild to them, frail foundations spun thought-sewn From sugar—a shady borrowed residence.

His wife will never give him a divorce, Unless the stars align, he likes to say.Compliance and deceit can’t pave love’s way. Contacting Mrs. X was one recourse.

The hope chest she’d inherited (a tableau Of joyful possibilities) accusedA faith fed by bad intentions. What excused Her for sustaining a wrongful status quo?

Driving to meet his wife, her prologue spins, Rehearsing. Shouldn’t she apologize? Some poplars groomed a lesson in disguise:Like sheltering trees, marriage broke the wind

At a couple’s back. Attention cultivatesRoots—not this daze of stolen interludes. Approaching his house (their home) inner feuds Pause when she sees a group of children: eight

LINDA ANN LOSCHIAVO

– 92 –

Sweet little girls in heels played “dressing up.”One swipes white towels from a clothesline. Friends Affix this bridal veil and MendelssohnHer down imaginary aisles, disrupt

Roses—a shower acted out in mime. The little towel thieves then flee, disperseBefore the laundress sees linen coerced Into their crime, abandoned, left behind.

Returning home, hands shift into neutral, Orderly trees receding. Boundaries Are blurred. Red petals meet the breeze that freesThem. Night falls on retired rituals.

– 93 –

JAMES B. NICOLA

Ofena

There’s one road to Ofena. As you driveinto town, up the mountain, it becomes a switchback,lined with homes and shells of former homes that could be homes again, wall-to-wall on the hill side, first on your left, then on your right,left, right, and so on to the top. In oneof the boarded-up ones, my mother had livedbetween the ages of two and eight, or so.

She said she’d recognize it by the view,but didn’t. There were no people visible,no one to ask if anyone might know,nowhere to go, at the top, but back to the bottom,nothing to do but go on or find a souland inquire. Which, when we did, was followed byanother and another. Every pairof unseen eyes had seen our car ascend and came out to greet us, now that they knew who we were,and meet the other sister who’d left as a child,born American, to go back to America.They’d met my aunt ten years before, or so.

Two hundred swarmed, I counted, within moments.Several were cousins born after she had leftand looked like her father or sister, one like my brother.

– 94 –

The man whose bar we’d stopped at owned the housethat was built since she’d left, across the street from ours,and blocked the view. She’d recalled looking over the valleyfrom a window for her father returning from New York or Rome or sometimes L’Aquila with his cartload of groceries, bright coins, and picture books.That was the view that was gone. And now the housewas here to go in or not as she wished.

But the boards were thick, the key remote, the sun was low, and ghosts got suddenly palpable.And we’d booked a hotel on the coast already, so did not go in. The house stayed sealed.

At the bottom we parked by the olive groves and lookedback up and watched the glittering grow with nightlike kernels popping in slow motion, in a swelling coolness.Then Ofena turned into a dowagerwho’d refused to miss the ball, now missing sequinsfrom her indigo gown, which in turn reminded meof my grandfather’s smile, so many teeth come out.Then it became his memory. Then my mother’s, as she exhaled, half of a sigh. And now, so much having happened since then, mine.

The one road to Ofena, like the tide,goes up and down and back and forth. It brought us in.It brought us out.

– 95 –

The Mean Time

If nothing else, Art takes us through the mean timeand gives us Something about which to speakwhen there is nothing, nothing, Nothing really, save the saving appreciation of Technique.

For those who will not bear and cannot bear itthere’s only Something, and the bitter Rest.So we imagine sweetly and imaginewe too might be miraculously blessed.

La giovane poesia italianaa cura di Giancarlo Pontiggia

Semina lumina

– 99 –

EDOARDO GINO

Densità di pensiero, forza meditativa delle immagini, fermezza dello stile sono le qualità che subito si impongono nei versi di Edoardo Gino: un esor-dio già compiuto, maturato in quel formidabile catino di energie poetiche che è stato – e continua ad essere – «Atelier», di cui Gino è tuttora redattore insieme con altri giovani di sicuro valore.

Gino parte da una condizione classica dell’io lirico che si volge alle cose del mondo, medita sul senso della vita, interpreta il verso come uno spazio interiore in cui sensazioni, pensieri, passioni si addensano e trovano forma. I paesaggi – una presenza costante di questa poesia – sono nudi, spogli, es-senziali; la loro dimensione fisica, naturalistica – mai smorzata – si carica quasi per necessità di valori ulteriori, simbolici: nelle cose del mondo è una «geometria nascosta» che ora si cela ora si rivela, «risacca / inestinguibile tra senso e no», come leggiamo nel terzo componimento (Se l’aria ferma ai bronchi la sua corsa). Immagini e concetti si attivano in una costante dia-lettica tra fuori (i segni creaturali del mondo) e dentro (la mente «contusa dall’accumulo dei segni»): il creato stesso è un corpo traversato da vertebre, vene, arterie; gli occhi della donna amata un paesaggio; i ricordi un «regno»; i pensieri acquistano una loro austera fissità minerale. Il tema della semina, dell’aratura, del germogliare (i «pii semi» del componimento iniziale) con-trastano – in una vividezza tutta visiva – l’eliotiano emblema di una terra arida, desertificata (dove «tutti sono morti» e «non c’è necessità di una salvezza»), l’insidia del «vuoto» (lemma ricorrente tre volte, al pari – con evidente valore contrastivo – di «senso»). Echi luziani e ungarettiani («Mi chino sulla zolla / e invoco») si travasano con naturalezza in una sintassi tesa e sorvegliata, nella quale a proposizioni retoricamente scandite («il vento li mortifica / la grandine li frusta / la notte li consuma») si alternano stacchi più prosastici, a volte di tonalità gnomica («La semina è completa. / Ora non resta che attendere il giorno»). Un poeta che sa isolare nella loro luce irradiante le parole-guida di ogni componimento, tracciare un orizzonte di figure e di pensieri, misurare lo spazio di un verso e di una strofe, dar giusto peso all’immagine, evitando che trabocchi fuori dall’ordine coerente del discorso.

Giancarlo Pontiggia

– 100 –

1

Non homai raccontato quei giorni a nessuno.Non credevo nel ritmo, non provavo passione,amavo solo il sole secco che lava la tua terra,la mia Era del ferro,il lancio di pii semi in terra arida.

Fu il deserto nel giorno di viaggio.La Puglia è luogo di molti calanchi,le ossa della terra, come vertebresporgenti; e dappertutto sono fossili,cose già morte un tempo viventi,l’accento di tuo padre, il tuo crogiolodi affetti come gli aghi di un abete,gli insetti che friniscono invisibilisui pini del tuo patio, nella lucedi un sole anch’esso fossile, in mezzo al pomeriggio.Qui tutti sono morti e non lo sanno.

E il mare, che ci veglia mormorandomentre noi a notte alta sulla spiaggiaparliamo e non smettiamo di stupirciche non ci sia nessun disagio, qui,non significa nulla, è solo acquae il vento è solo ariae tu sei mia – ma senza possesso,com’è mio il respiro.

In questa terra, in questo tempo, oranon c’è necessità di una salvezza.È un amore prosciugato di tutto.

(10 dicembre 2012)

– 101 –

2

Sei mesi di aratura basteranno.Dall’ultimo raccolto ho scordatol’odore delle spighe. Non è stranoche ora ami l’odore della terra.

La semina è completa.Ora non resta che attendere il giorno.

Quando si affacciano i primi germogliil vento li mortificala grandine li frustala notte li consuma.

Mi chino sulla zollae invoco dalla terra nuova linfa.

Ma è sorda e ineluttabile la terra.Si vince solo se ci si conforma.

Guardavo con speranza quei germogli seduto su una pietra.Sudore, aria buona, movimento. Non attendevo nulla.Ho visto il sole sbocciare innocente in un punto del tempo.

Il sole era già alto: mi ha sorpreso che meditavo il vuoto. È fuori del tempo il senso del tempo.

(novembre 2014)

– 102 –

3

Se l’aria ferma ai bronchi la sua corsaraggiando tra le costole un amarodi azioni impaludate nell’inerzia,

la geometria nascosta nelle cosesi cela e si rivela, la risaccainestinguibile tra senso e no.

La sanguificazione del creatosi ferma troppo a monte della mentecontusa dall’accumulo di segninel regno iperurbano dei ricordi.

Intanto sotto lastre opalescentidi cieli troppo azzurri e soli fredditrascorre un proto inverno milanesetremendo nel reprimere la grazia.

(dicembre 2013)

– 103 –

4 (canto d’amore per una cometa)

Si alza dai tuoi occhi un vento articoche gela le radici, appende l’esistenza,spirando dal tuo nucleo criogemmante.

Riposerai al fondo di una stellacompagna tanto amata di notti senza vuoti,rare di voci, dense come tuorli.

Cometa, ti disperdi nella chiomasoffiando in vita il ghiaccio, in un vortice di stasi,innamorandomi d’ansia e di vuoto.

(9 novembre 2014)

– 104 –

5

Risalivamo il naviglio. Pensavoche ho bevuto il tuo vino troppo in frettache non si edifica l’uomo sui raptuse che la luna ti scava il diaframmae che pensare è un ostacolo al verose da te stesso non svincoli il fuoco –e poi ho fatto, né sono pentito.

Forse i tuoi occhi blu azzurri resistonoa ciò che ci disgrega.Intuisco montagne nei tuoi occhidi sabbia in cui affondare le manie poi scorrere i grani tra le ditae spargere ricordi sul terrenochiedendo alle mie dita di trovareun senso per noi due nella cascata.

Guardando nell’azzurro ho visto altro:nel cortile in penombra a notte altaappoggiandomi al muro ho percepitola discronia sibilante di un attimoche apre alla non esistenza del tempo.

(dicembre 2013)


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