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Verso una teoria dei bisogni dell'assistenza infermieristica

Date post: 27-Mar-2023
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VERSO UNA TEORIA DEI BISOGNI DELL ASSISTENZA INFERMIERISTICA Duilio F. Manara D. F. Manara Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica Rilanciando in questo saggio le tematiche più urgenti della riflessio- ne infermieristica nei settori della metodologia, della clinica e dell’eti- ca, l’Autore si pone l’obiettivo di rivalutare il pensiero infermieristico sul “bisogno” e di proporre una riformulazione della sua struttura teorica. Si compie così una formidabile ricerca per rintracciare nella disci- plina infermieristica quel filo conduttore che concepisce l’assisten- za come il “prendersi cura dei bisogni” di colui che, trovandosi in uno stato di non autosufficienza, richiede aiuto per il soddisfaci- mento delle sue necessità di vita essenziali. Il percorso metodologico si articola prima con la presentazione dello statuto epistemologico dell’infermieristica, ossia delle caratte- ristiche generali del sapere specifico; viene poi analizzato critica- mente il concetto di bisogno ed infine, alla luce di quanto esamina- to, viene formulato un concetto di bisogno di assistenza infermieri- stica originale, evidenziando nel contempo nuove problematiche sul fronte metodologico, clinico ed etico. Un libro impegnativo, ricco di materiale prezioso per l’aggiorna- mento e per la formazione infermieristica sia di base che speciali- stica, dove l’assistenza - è bene ribadirlo - non è mai concepita come espletamento di prestazioni o applicazione meccanica di teorie e modelli, e dove l’infermiere ne è sempre il protagonista. LAURI Edizioni Duilio F. Manara , Infermiere professionale dal 1984, è anche Infermiere Insegnante Dirigente, Ostetrica e si è specializzato in Medicina Tropicale ad Anversa (Belgio). Ha lavorato in Italia ed in Africa soprattutto nel campo materno- infantile. Dal 1996 è docente di “Infermieristica generale e Teorie del Nursing” all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. euro 25,00 (i.i.) copertina.qxp 23/11/2010 19.06 Pagina 1
Transcript

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Rilanciando in questo saggio le tematiche più urgenti della riflessio-ne infermieristica nei settori della metodologia, della clinica e dell’eti-ca, l’Autore si pone l’obiettivo di rivalutare il pensiero infermieristicosul “bisogno” e di proporre una riformulazione della sua strutturateorica.Si compie così una formidabile ricerca per rintracciare nella disci-plina infermieristica quel filo conduttore che concepisce l’assisten-za come il “prendersi cura dei bisogni” di colui che, trovandosi inuno stato di non autosufficienza, richiede aiuto per il soddisfaci-mento delle sue necessità di vita essenziali. Il percorso metodologico si articola prima con la presentazionedello statuto epistemologico dell’infermieristica, ossia delle caratte-ristiche generali del sapere specifico; viene poi analizzato critica-mente il concetto di bisogno ed infine, alla luce di quanto esamina-to, viene formulato un concetto di bisogno di assistenza infermieri-stica originale, evidenziando nel contempo nuove problematichesul fronte metodologico, clinico ed etico. Un libro impegnativo, ricco di materiale prezioso per l’aggiorna-mento e per la formazione infermieristica sia di base che speciali-stica, dove l’assistenza - è bene ribadirlo - non è mai concepitacome espletamento di prestazioni o applicazione meccanica di teoriee modelli, e dove l’infermiere ne è sempre il protagonista.

LAURI Edizioni

Duilio F. Manara, Infermiere professionale dal 1984, è anche InfermiereInsegnante Dirigente, Ostetrica e si è specializzato in Medicina Tropicale adAnversa (Belgio). Ha lavorato in Italia ed in Africa soprattutto nel campo materno-infantile. Dal 1996 è docente di “Infermieristica generale e Teorie del Nursing”all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

euro 25,00 (i.i.)

copertina.qxp 23/11/2010 19.06 Pagina 1

Verso una teoria dei bisogni

dell’assistenza infermieristica

Duilio F. Manara

LAURI Edizioni

Copyright © 2000 Lauri srl, Milano

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in alcunaforma e con qualsiasi mezzo senza il permesso scritto dell’editore.

Stampato nel luglio 2000 presso le Arti Grafiche Passoni, Milano

In memoria di A . M .

Molte persone hanno contribuito alla preparazione di questo testo: gli studenti e moltiinfermieri dell’IRCCS San Raffaele di Milano, i colleghi Antonietta Baratta, LuciaColombi, Gabriella Miretta e Maria Sblattero nonché i membri del Gruppo di lavoro delProgetto Salus infirmi. Tra le persone che hanno direttamente espresso il loro contribuitoall’opera dobbiamo ringraziare in particolar modo gli amici e colleghi Anna Gasparini,Emidio Lamboglia, Lucia Lovecchio, Fulvio Manara, Paolo Motta e Roberta Sala.Ultimi, ma primi per il sostegno e l’incoraggiamento, preme inoltre ricordare e ringrazia-re i vertici dell’Università Vita- Salute San Raffaele, nelle persone del Magnifico Rettoredon Luigi Maria Verzé e della dottoressa Raffaella Voltolini.Vorrei infine ricordare tutta la mia famiglia e soprattutto coloro che hanno subìto il pesodiretto di questi ultimi anni di studio e di lavoro: mia moglie Ornella e i miei figliAgnese, Daniele e Simone - la migliore famiglia che mi poteva capitare.

R i n g r a z i a m e n t i

“Il bisogno nell’uomo segna la sua più profonda povertà e la più alta ricchezza ... Il bisogno corrisponde alla mancanza, e pur tuttavia

non possiamo dir nulla di più alto del poeta e dell’oratore che questo:è un bisogno per lui di cantare e di parlare”

Søren Kierkegaard

VI

IN T R O D U Z I O N E

CAPITOLO PRIMO

LA DISCIPLINA INFERMIERISTICA

Il problema della disciplina infermieristicaLa crisi dell’assistenza e la crisi della medicina contemporaneaIl problema disciplinare degli infermieriIl contesto professionale e disciplinare italiano

Scienza, Discipline e Teorie scientificheUna contestualizzazione di ordine generaleLa Metodologia dei programmi di ricerca scientifica di Imre LakatosL’elaborazione di teorie scientifiche per gli infermieri: i “fatti” dell’infermieristicaSul pericolo del “mito della cornice” anche per gli infermieri

Le caratteristiche fondamentali del sapere infermieristicoIl problema della demarcazione e il ventaglio conoscitivo delle scienzeL’oggetto di studio. L’infermieristica è una disciplina umanisticaLo scopo. L’infermieristica è una disciplina prescrittivaI metodi. L’infermieristica utilizza metodi dialogico-strategiciIl problema ermeneutico della relazione tra l’infermiere e l’altro

CAPITOLO SECONDO

LA “S C U O L A D E I B I S O G N I” C O M E P R I N C I PA L E P R O G R A M M AD I R I C E R C A D E L L’I N F E RMIERISTICA

Alcuni cenni sull’evoluzione storica del pensiero e della prassi assistenziale nelcorso dei secoli e nelle differenti cultureMarie Françoise Collière: nella storia dell’umanità assistere significa“ p r o m u o v ere la vita” L’assistenza nelle diverse culture: l’etnonursing di Madeleine M. LeiningerL’assistenza nell’occidente cristiano

La costruzione della disciplina infermieristica secondo la “Scuola dei bisogni”La definizione della “Scuola dei bisogni”Vi rginia Avenel Henderson: il pensiero e le intuizioni di un’apripista indiscussaAnalisi del concetto di “bisogno” nelle principali teorie della “Scuola”Il riflesso della “Scuola dei bisogni” nella produzione di alcuni autori italiani

Analisi critica della “Scuola dei bisogni”Una prima analisi attraverso i criteri della MPRS di Imre LakatosUna possibile traccia comparativa attraverso i criteri della comprensione e dellapartecipazione

I n d i c e

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VII

CAPITOLO TERZO

IL CONTESTO CULTURALE DELLA “SCUOLA DEI BISOGNI”La socializzazione e la naturalizzazione del bisogno umanoIl concetto di bisogno nel pensiero filosoficoIl concetto di bisogno nell’antropologia culturaleIl concetto di bisogno nella psicologiaIl concetto di bisogno nella sociologia

CAPITOLO QUARTO

LA S T R U T T U R A C O N C E T T U A L E D E L L A T E O R I A D E I B I S O G N ID E L L’A S S I S T E N Z A I N F E R M I E R I S T I C A

Il nucleo della TeoriaIl primo livello: il “bisogno” e la competenza personaleIl secondo livello: il “bisogno di assistenza” e la competenza culturaleIl terzo livello: il “bisogno di assistenza infermieristica” e la competenzad i s c iplinare

Una rilettura problematica del concetto di bisogno di assistenza infermieristicaL’alterità del bisogno assistenziale La a\normalità del bisognoIdentità e alterità nella relazione infermieristicaLa teoria dei bisogni come teoria costruttivista

I tre princìpi fondamentali dell’assistenza secondo la Teoria dei bisogniIl principio olistico (il concetto di Persona)Il principio dialogico (i concetti di identità-alterità e di Ambiente)Il principio della personalizzazione dell’assistenza infermieristica (il concettodi Salute)

CONCLUSIONI (Invito all’azione)

POSTFAZIONE (Introduzione all’infermieristica in venti punti o poco meno)

NOTE E BIBLIOGRAFIA

I n d i c e

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VIII

Le seguenti annotazioni di carattere generale possono chiarire alcune scelte dell’autore.

1. Con il termine generico di assistenza s’intende designare tutte le forme e le espressio-ni dell’assistenza umana che riguardi singoli o comunità; per assistenza infermieristi -ca si intende invece l’assistenza prestata esclusivamente dall’infermiere, con tutto ciòche questo comporta. Salvo ulteriori specificazioni, l’uso del termine nursing vienelimitato al solo contesto della realtà, in genere anglosassone o nordamericana, chenello specifico si vuole richiamare.

2. Viene usato indistintamente il termine infermiere o infermiera per indicare l’insiemedelle figure che si riconoscono nella matrice assistenziale infermieristica: le proposi-zioni interessanti il termine “infermiere” in tutto lo scritto hanno quindi la pretesa diessere estendibili - per molti versi seppur con i necessari distinguo - a figure del pano-rama professionale italiano quali l’assistente sanitaria e la vigilatrice d’infanzia.L’utilizzo del genere maschile o femminile, per definire il professionista dell’assisten-za infermieristica, è puramente casuale e va inteso con estensione anche al genereopposto.

3. Per definire il nostro assistito non si è scelto un unico termine, ma si è invece optatoper quella definizione che, di volta in volta e a seconda del contesto discorsivo, evi-denzi meglio delle altre la dimensione che più si vuole sottolineare in quel momento.Così, il termine più frequentemente utilizzato è “paziente”, non certo nella sua acce-zione di “malato”, ma piuttosto in quanto soggetto centrale di tutto il nostro sapere edi tutta la nostra prassi. Ancora, l’assistito è “uomo”, o più frequentemente è “perso-na”, quando il riferimento vorrà esplicitamente richiamarsi alla definizione che, diquesto concetto centrale dell’assistenza, viene fornita. Infine, ma molto più raramen-te, con il termine “cliente” si vorrà intendere quella dimensione dell’assistito in quan-to beneficiante di una prestazione professionale inserita in un rapporto lavorativo.

4. L’ultima nota consiste in un’avvertenza: la teoria che viene presentata è laica, nelsenso di aconfessionale, ma - trattando dell’uomo - non può ovviamente essere neu-tra. All’autore il compito di chiarire la sua concezione e al lettore il compito di valu-tarla, criticarla ed eventualmente approfondirla.

L’Autore

Nota per il Lettore

Verso una teoria dei bisogni

dell’assistenza infermieristica

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IN T R O D U Z I O N E

N ella medicina contemporanea - piena di nuove scoperte, possibilità affascinanti econfini di ricerca fino a pochi anni fa impensabili - la nostra ricerca propone di riscoprirele potenzialità legate all’a s s i s t e n z a in generale e all’assistenza infermieristica in particola-re. A molti, forse, una tale ricerca potrebbe apparire semplice o di poco conto. Né l’una nél’altra cosa; anche solo ad un’analisi superficiale o alla prima esperienza personale, l’assi-stenza - la vicinanza solidale con l’altro - si rivela sorprendentemente un’opera tutt’altroche facile sino a diventare - nelle sue espressioni più alte - un’esperienza umana fonda-mentale, tanto per l’assistito quanto per colui che assiste.

Come ormai sostengono in molti, anche per noi l’umanizzazione della medicina passada una sfida conoscitiva che ponga la centralità del soggetto umano nella relazione dicura; e chi più dell’infermiere ha fatto esperienza di questa centralità e delle potenzialitàche ne possono derivare?

Ancora troppo poche persone, infatti, hanno capito che ciò che sta accadendo agli infer-mieri italiani non sono semplici rivendicazioni sindacali o di status professionale, ma unavera e propria rivoluzione nei contenuti del nostro essere infermieri. Una vera e propriarivoluzione culturale. Questi contenuti sono la nostra disciplina, la riscoperta - ancoraoggi solo abbozzata - di un nostro antichissimo quanto specifico, originale ed esclusivomodo di assistere la persona umana.

Ma che cosa significa “assistere un altro”? Cos’è l’assistenza infermieristica? Tutta lanostra riflessione sulla “teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica” è svolta all’in-terno del ben più vasto tema concernente il “sapere infermieristico”, introducendo il let-tore digiuno di queste nozioni alle diverse risposte alla domanda fondamentale di questo“sapere”: Che cos’è l’assistenza infermieristica?

La produzione speculativa internazionale che tenta di rispondere a questa domanda havisto svilupparsi, nella seconda metà del novecento, un numero notevole di teorie e dimodelli concettuali che spiegano l’originalità dell’approccio infermieristico all’uomo,benché attraverso sguardi a volte molto differenti tra loro. Tale prolificità di pensiero èspiegabile con il fatto che l’infermieristica - unanimemente riconosciuta come disciplinaumanistica - non può essere completamente assiomatizzata e racchiusa in un’unica corni-ce teorica che possa essere condivisa dalla maggioranza della comunità scientifica inter-nazionale.

Queste teorie sono state quindi raggruppate in “Scuole” o “correnti di pensiero”, sullequali, di nuovo, non c’è ancora un accordo unanime tra gli studiosi. Pur non avendo confi-ni netti con le altre correnti, la “Scuola” storicamente più importante in Italia - e forse lapiù importante in assoluto - è quella che interpreta l’assistenza in funzione dei b i s o g n ia s s i s t e n z i a l i del paziente. La capofila di questa “Scuola” è stata Vi rginia Henderson, senza

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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dubbio una delle autrici infermieristiche che maggiormente hanno influenzato l’infermie-ristica nel nostro Paese. Obiettivo principale del testo è quindi quello di r i l e g g e re critica -mente la produzione speculativa di questa “Scuola” attorno al termine “bisogno di assi -stenza” e pro p o rre una riformulazione della sua struttura teorica.

Nell’affrontare questo argomento abbiamo subito constatato due ordini di complicazio-ni: il primo è relativo al suo carattere di effettiva novità nel contesto nazionale. Il secon-do è invece la d i f f i c o l t à concettuale - a tratti considerevole - di certi passaggi peraltroobbligati. Come abbiamo cercato di risolvere tali problematiche? Anzitutto, con una chia-ra opzione di fondo si è scelto di non indietreggiare minimamente sulla complessità deldiscorso ed allo stesso tempo di “non dare nulla per scontato”. Ecco di conseguenzal’ampiezza dei capitoli introduttivi, la lunghezza forse tediosa di alcune spiegazioni - atratti riprese o ripetute in una circolarità che, a nostro avviso, non è del tutto negativa - eil fastidio di un sostanzioso apparato bibliografico. È nostra convinzione che nessuna diqueste conseguenze sia in realtà un limite del testo, quanto semmai un suo pregio, cosìcome la progressiva messa a fuoco dei numerosi punti critici che necessiteranno in futurodi nuovi apporti o approfondimenti. Infine - per facilitare ulteriormente la lettura o lo stu-dio - le tesi sostenute nel testo ed i principali passaggi argomentativi sono stati riassunti informa assertiva in una P o s t f a z i o n e dal titolo “Una teoria infermieristica in venti punti opoco meno” (da leggersi o rileggersi nei momenti di difficoltà - come ha fatto d’altrondel’autore in sede di stesura).

Il filo conduttore della nostra ricerca è dunque il concetto di bisogno nell’assistenza epuò essere riassunto in pochi passaggi: 1) presentare lo statuto epistemologico dell’infer-mieristica, ossia le caratteristiche generali del sapere infermieristico; 2) analizzare critica-mente il concetto di “bisogno” nell’infermieristica e, brevemente, in alcune principalidiscipline umanistiche e infine 3) proporre una riformulazione teorica del concetto di biso-gno di assistenza infermieristica rilanciando nuove problematiche sul fronte metodologicoed etico. Questi punti sono quasi parallelamente rintracciabili nell’articolazione del testoche si divide, infatti, in quattro capitoli.

Il primo capitolo presenta un’ampia introduzione alle principali problematiche dell’in-fermieristica sotto la prospettiva prettamente epistemologica. Il punto di partenza dellanostra argomentazione consiste in una breve analisi della “crisi dell’assistenza” accusatadalle società occidentali contemporanee, seguita da un’ampia finestra di carattere intro-duttivo ai temi - e ai limiti - della scienza come “modalità di risolvere i problemi dell’uo-mo”. In questo capitolo evidenzieremo i due piani conoscitivi che di continuo s’intrecce-ranno nel “sapere” legato all’assistenza: il piano della scienza, cioè della conoscenza cor-roborata da fatti empirici, ed il piano dell’e r m e n e u t i c a, cioè della c o m p re n s i o n e d e l-l’altro.

Nel secondo capitolo ci si è concentrati sull’analisi della produzione teorica della“Scuola dei bisogni”, studiando una selezione di autori europei e nordamericani. Masenza dimenticare la storia. Partendo da molto lontano, infatti, in un specifico paragrafosi sono voluti ricercare, ancorché succintamente, gli antefatti storico-culturali che hannopremesso ed accompagnato nel corso dei secoli la riflessione assistenziale in quanto“risposta ai bisogni dell’altro”.

Introduzione

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Il terzo capitolo è riservato invece ad una breve esamina di alcune discipline umanisti-che che, nel corso della loro storia interna, hanno sviluppato programmi di ricerca imper-niati sul concetto di bisogno. La lettura di questo capitolo fornisce approfondimentiimportanti per cogliere gli influssi, le contaminazioni, le influenze che queste disciplinehanno mosso sugli autori della “Scuola dei bisogni”.

Nel quarto capitolo , infine, si propone una riformulazione della struttura concettualedella teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica - ossia il suo nucleo teorico ed isuoi principali asserti e principi etico-deontologici.

Da un punto di vista contenutistico dobbiamo ammettere l’influenza ricevuta dellaScuola Universitaria di Discipline Infermieristiche (SUDI) dell’Università degli Studi diMilano. Come spesso avviene in questi casi, mentre si riconoscono le origini, si percepi-scono altresì con maggiore acutezza le differenziazioni rispetto al proprio e personalepercorso intellettuale. Tale percorso, infatti, è stato accompagnato in questi ultimi anni dauna lunga sperimentazione del “Modello delle prestazioni infermieristiche” della SUDIin diverse Unità operative dell’IRCCS H San Raffaele di Milano. Il Progetto Salus infir -mi HSR - resosi possibile da un lato per la leadership del San Raffaele, dall’altro per l’ec-cezionale impegno di un folto gruppo di infermieri, caposala e dirigenti - è forse la piùestesa sperimentazione del Modello delle prestazioni infermieristiche finora compiuta epuò contare ormai su una banca dati di diverse migliaia di ricoveri.

Tuttavia, ormai è chiaro che l’apporto principale del testo al dibattito infermieristicoitaliano non riguarda la sperimentazione applicativa, quanto l’approfondimento delle basiteoriche di queste sperimentazioni. Come si noterà, è soprattutto in questo - cioè nelnucleo della teoria - che è possibile riscontrare i principali motivi di diff e r e n z i a z i o n edagli altri programmi di ricerca della “Scuola dei bisogni dell’infermieristica”.

Nella sua strutturazione complessiva il testo viene offerto in primis agli studenti deiDiplomi Universitari per Infermiere - in particolare per l’attuale Corso integrato di“Infermieristica generale e teorie del Nursing” - ed agli infermieri, nella misura in cuivogliano aggiornarsi su una tematica così complessa e ancora così poco conosciuta. Mapoi, proprio in considerazione del taglio particolarmente impegnativo dato alla trattazione,abbiamo la presunzione di credere che possa essere utilizzato nella sua interezza anchecome esercizio di avvicinamento critico all’infermieristica da parte dei futuri “laureati disecondo livello” nella nostra disciplina - gli attuali studenti delle scuole per “dirigenti” oda chi dirigente lo è già. Ai responsabili delle Unità operative e dei Servizi infermieristici,quindi, in quanto il management di un servizio infermieristico impostato sui criteri dellaconoscenza scientifica (che, pur ammettendola umanistica, è ugualmente affidabile, validae intersoggettiva) è comprensibilmente ben differente da un management di un’attivitàpseudo-professionale ancora fondata su esoteriche abitudini di reparto e sulla pedissequaesecuzione di ordini decisi da altri. Infine, per la diffusa confusione che contorna la figuradell’infermiere ed il suo servizio, crediamo che alcune parti del testo possano interessaretutti coloro che stanno accanto agli infermieri ed ai loro pazienti: ci riferiamo ovviamenteagli altri professionisti della sanità - soprattutto ai medici, ma anche ai fisioterapisti, oste-triche, dietologi, ecc. - e a chi li supporta dall’esterno - il personale amministrativo, o piùsemplicemente tutti coloro che s’interessano dell’assistenza all’altro.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Nella nostra riflessione sosteniamo che l’originalità e l’esclusività dell’approccio infer-mieristico alla persona sia, come già intuito dalla Henderson, il bisogno di assistenzainfermieristica e la considerazione che ogni bisogno - anche quello apparentemente piùbanale e più umile - riflette la totalità della persona, nelle sue tre dimensione costitutive:bio-fisiologica, psicologica e socio-culturale. Il bisogno di assistenza infermieristica èquindi, di per sé, un “fatto relazionale” che è segno dell’unicità, dell’irripetibilità e del-l’insondabilità oltre che dell’autodeterminazione della persona umana. Attraverso larisposta ai bisogni di assistenza infermieristica del paziente l’infermiere si pone comescopo ultimo quello di aiutarlo a ritrovare la salute intesa non tanto come recupero fun-zionale di un organo od apparato, ma piuttosto come equilibrio di tutte le componentidell’uomo - bio-fisiologica, psicologica e socio-culturale.

Ma una tale concezione dell’assistenza pone immediatamente e primariamente delleproblematiche di ordine metodologico ed etico alle quali si aggiungono i confini dellaricerca applicata che vede gli infermieri, le Caposala ed i responsabili dei Serviziinfermieristici porsi interrogativi di gestione quotidiana dei processi assistenziali.Come coniugare la centralità della persona assistita con gli standard economico-quan-titativi dell’odierna organizzazione della sanità - nei quali l’infermiere, peraltro, è il“grande assente”? Come aggiungere alla tendenza contemporanea della qualità sanita-ria come p ro d o t t o la qualità come v i s s u t o? È possibile, poi, e come, monitorare quoti-dianamente il carico di lavoro infermieristico ottimizzando le risorse - sfruttando leeconomie di scala e diminuendo gli sprechi - per mobilitarle verso la ricerca e la spe-rimentazione continua?

Non potremo certo far altro che sfiorare tali problematiche, ma una cosa deve esserechiara: prima di rispondere a tali interrogativi occorre rispondere alla domanda Che cos’èl’assistenza infermieristica? Non si illudano quindi coloro che rimpiangono le vecchiescuole “paramediche” e i vecchi standard formativi o che sminuiscono la portata di que-sta rivoluzione culturale degli infermieri, quelli che rimpiangono i bei tempi andati neiquali “il principale dovere delle infermiere era l’obbedienza” o che dicono “sono tuttebelle idee che poi nessuno riesce a mettere in pratica”. Acostoro rispondiamo che “non viè miglior prassi di una buona teoria”.

Ma se non facciamo nulla al di fuori di cornici teoriche, allora quanto più queste sonoscientifiche - ben definite, falsificabili, intersoggettive - tanto migliori e benefici sarannoi risultati pratici, ma con la condizione che nulla venga tolto a quello che chiamere m oil processo di produzione di significato (sensemaking) insito nei processi assistenziali.La qualità dell’assistenza, il management, la formazione (di base, complementare e divertice), la ricerca e q u i n d i la piena p rofessionalizzazione dell’infermiere non possonoessere raggiunti senza una previa esplicitazione di una forte teorizzazione che rispondaalla domanda Che cos’è per noi - per i nostri pazienti, per la nostra Unità operativa,per la nostra Università o per il nostro Servizio Sanitario Nazionale - l’assistenzai n f e r m i e r i s t i c a ?

D’altronde tale programma non è nuovo agli infermieri. È esattamente ciò che feceFlorence Nightingale quando, per mostrare l’efficacia dell’intervento delle sue infermieredurante la guerra di Crimea diede un impulso determinante alla statistica applicata. In

quanto infermieri siamo e vogliamo diventare sempre di più gli “esperti” dell’assistenza,di questo quid avvertito come “problematico”, come “necessario” e “salutare” in primisdallo stesso paziente. Emulando Nightingale, vogliamo poter dire anche in termini falsifi-cabili quali sono le variabili, le regolazioni tra variabili, le cause e concause (e finanche icosti in termini economici) di una buona o di una cattiva assistenza, di una buona o catti-va soddisfazione dei bisogni di assistenza del paziente. Vogliamo poter misurare in termi -ni oggettivi i margini di “salute possibile” che può re c u p e r a re il paziente grazie allanostra assistenza. Ma nel far questo, indubitabilmente, non vogliamo per nulla scalfirequel rapporto privilegiato di intimità che l’infermiere può instaurare con il paziente econfermiamo con forza il valore immediatamente morale che acquista l’assistenza inquanto “prendersi cura di”, “vicinanza solidale con” colui che ha bisogno.

Insomma, quella che gli infermieri italiani si trovando oggi ad affrontare è certamente unas f i d a professionale. Ma, lo ricordiamo, l’etimo della parola “professione” rimanda a signi-ficati di testimonianza, dichiarazione, riconoscimento pubblico non solo di un s a p é re , m aanche di s à p e re, di un modo cioè di concepire e di assaporare “l’armonizzazione tra pro-gresso scientifico e progresso del v a l o re persona”. Nightingale diceva che la nostra è “lapiù bella fra le arti belle”. Noi affermiamo che l’infermieristica è una conoscenza i n t r i n s e -camente di tipo sapienziale e che l’assistenza è p h r ó n e s i s, “saggezza pratica” tesa trascienza, arte ed etica. «Scienza - scrive don Luigi M. Verzé - è s a p é re, conoscere, e siacquista con lo studio e la ricerca. Sapienza è s à p e re. È la proprietà del sapore, che acqui -sta chi ha il senso del gusto». Scienza e Sapienza, anche se non sempre lo fanno, dovreb-bero crescere insieme. Noi infermieri partiamo da una posizione privilegiata per questoprogetto di ricerca verso la Sapienza - ed è bello notare che per esprimere questo altogrado di perfezione umana si ricorra nuovamente ad una dimensione tutt’altro che biologi-ca del bisogno di mangiare.

Introduzione

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Capitolo primo

LA D I S C I P L I N A I N F E R M I E R I S T I C A

Q ueste pagine introducono alla conoscenza di un “nuovo” sapere: quello legato all’assistenzain generale e all’assistenza infermieristica in particolare. In realtà questo tipo di sapere dell’uomo,legato all’aiuto reciproco, alla vicinanza solidale con l’altro, è antichissimo e possiamo facilmenterintracciarne le origini fino agli albori dell’umanità, in particolare nelle conoscenze e nelle tradi-zioni più tipicamente femminili.

Ma qui, senza indugio, vogliamo esplicitare la tesi sostenuta in questo capitolo. La definizionedell’oggetto di studio, dello scopo e dei metodi dell’infermieristica - cioè la sua struttura epistemi-ca o conoscitiva - ci porteranno ad affermare che essa non può essere annoverata fra le scienzedella natura, ma piuttosto si costituisce come una forma particolare di disciplina umanistica.Benché possegga un indiscutibile ed ampio margine di oggettivabilità (sul quale peraltro non si èancora lavorato a sufficienza, men che meno in Italia), la conoscenza dell’infermiere si caratteriz-za per l’accettare l’insondabilità del suo oggetto di studio. Trattandosi come vedremo dellapersona e della persona in una particolare condizione di b i s o g n o, essa è, ad un tempo, oggetto d icure (e quindi oggetto di conoscenza applicata) ma - proprio perché oggetto di cure - sempre edimprescindibilmente soggetto della propria salute (e dunque soggetto di una conoscenza partecipa-tiva necessariamente ermeneutica). Ecco quindi i due grandi piani sui quali si svolgerà l’argomen-tazione della tesi di questo capitolo: il piano della scientificità (essenzialmente con il contributodel falsificazionismo post-popperiano) e il piano della comprensione ermeneutica dell’altro (conil contributo della filosofia ermeneutica gadameriana). Come vedremo, tale connubio si realizzanella p r a x i s assistenziale e impedisce l’uso delle teorie infermieristiche in senso meramente“applicativo” a scapito dell’individualità della persona, invitandoci piuttosto, in senso “costrutti-vo”, all’interpretazione della singola situazionalità assistenziale.

A ben vedere, infatti, è proprio quando l’ammalato diviene “oggetto” delle attenzioni curative(e non solamente “riparative”) dell’altro che può sentirsi ancora - o di nuovo - “soggetto”, personau m a n a, nonostante la malattia e la sofferenza, l’handicap e l’angoscia, la vecchiaia e la morte.Soggetto della propria salute perché la salute è - come ad esempio nel pensiero di Gadamer - unmodo di esprimere la condizione esistenziale dell’esserci.

In tal modo la persona si afferma quale protagonista centrale ed insostituibile della relazioneassistenziale mentre l’infermiere diviene, tra le varie figure professionali che compongono la rela-zione assistenziale in senso lato, la figura privilegiata per favorire nell’altro la ricerca della suasalute. Egli, infatti, secondo l’impostazione che adottiamo in questo testo, è l’esperto dei bisognipiù quotidiani e più intimamente “personali” dell’uomo quali il mangiare e il bere, il dormire e ilriposarsi, il lavarsi e il vestirsi, l’evacuare e il mingere, il muoversi ed il dialogare, ecc. È coluiche, fra tutti i professionisti della salute, è quello che resta più a lungo e più interiormente a con-tatto con il paziente e che, proprio attraverso la comprensione di tali bisogni, possiede una chiaved’accesso privilegiata all’intimo dell’altro.

Noi sosteniamo quindi che lo scopo dell’assistenza infermieristica non sia solamente la guari-gione della patologia, la riabilitazione o la sua eventuale prevenzione - in questo accompagnandoper un certo tratto di strada la prassi medica1. Non è neppure la sola riappropriazione dell’autono-mia di alcune funzioni basilari del malato, per alleviarlo da quella forma particolare di sofferenzache è la dipendenza dagli altri. Il suo scopo è la soddisfazione dei “bisogni di assistenza infer-mieristica”, bisogni primari e fondamentali che, come vedremo - proprio per il loro legame con

la sussistenza vitale dell’uomo - non sono mai solo bisogni bio-fisiologici, ma si ricoprono disignificati personalissimi che vanno opportunamente interpretati.

Il concetto di bisogno di assistenza infermieristica diviene così il concetto centrale di tutta l’im-palcatura teorica dell’infermieristica, determinandone di conseguenza la stessa struttura epistemica.La teoria che descrive la sua risoluzione - come vedremo nel quarto capitolo - ha un h a rd core i ngran misura falsificabile ma che si concretizza all’interno di una relazione infermiera-paziente ditipo dialogico che prevede ed integra su uno stesso piano di dignità (perché entrambe indispensabi-li al raggiungimento dello scopo) tanto le metodologie quantitative e rigide ereditate dalle scienzebio-mediche (che lo rendono appunto falsificabile in senso stretto, quali ad esempio i protocolliinfermieristici, la valutazione oggettiva del risultato, la standardizzazione delle procedure, ecc.),quanto le metodologie qualitative traslate dalle scienze umanistiche (quali ad esempio, nei diversilivelli di applicazione, le tecniche relazionali, l’approccio biografico, l’osservazione partecipante, ilprocesso interculturale, ecc.), le uniche a permettere la personalizzazione dell’assistenza.

Definiamo dunque la disciplina infermieristica quel campo strutturato del sapere umano che hacome oggetto di studio l’uomo e i suoi bisogni di assistenza infermieristica e che riconosce comescopo pratico la loro soddisfazione attraverso il processo di assistenza, principale metodo dell’a -g i re infermieristico. Nei tre paragrafi che compongono questo capitolo vedremo innanzitutto ilcontesto storico-sociale che fa da cornice alla nascita di questa nuova disciplina scientifica, perpoi studiare per sommi capi in un secondo momento - con l’ausilio degli strumenti offerti dall’epi-stemologia - la struttura e l’evoluzione del sapere scientifico, e, infine, tornare alla particolaritàdella nostra disciplina, inserendola nella problematica ermeneutica della relazione con l’altro.

1.1. Il problema della disciplina infermieristica“La scienza comincia con problemi” dice Popper, problemi teorici o pratici che deludono le nostreaspettative, problemi non più risolvibili con il solo senso comune, i miti e le tradizioni. Noi infer-mieri sosteniamo che il problema che muove la nascita dell’infermieristica è, sostanzialmente, lacrisi dell’assistenza della società contemporanea: quello iato che, nel tempo, si è venuto a crearetra la perdita delle tradizioni assistenziali delle nostre famiglie e culture locali ed un sapere medi-co che riesce a curare la malattia, ma non a ridare la salute ai propri pazienti.

Sono i p ro b l e m i, dunque, che fanno nascere la scienza - e non l’osservazione, la classificazione ol’esperimento come si pensava un tempo2. Presentare la struttura di un nuovo sapere scientificosignifica quindi non solo presentare i miti e le tradizioni dal quale è scaturito, ma soprattutto parlaredella complessità del problema che ne ha determinato il superamento proprio attraverso la produzio-ne di teorie che sempre meglio ne approfondiscano la comprensione e ne permettano la risoluzione.

Per inciso poi, ricordiamo che per molti epistemologi, ad esempio lo stesso Popper, le stessedivisioni tra discipline hanno poco significato, addirittura, «le discipline non esistono ingenerale3». Per Popper, infatti, «noi non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi. E iproblemi possono attraversare i confini di qualsiasi materia o disciplina. [...] Un problema sorgedalla discussione di una qualche teoria, o dai controlli empirici che la sostengono; e le teorie, con-trariamente agli oggetti di studio, possono costruire una disciplina (che potrebbe definirsi un grup-po non ben connesso di teorie, sottoposte a sfide, mutamenti e accrescimenti)4».

Ebbene, noi crediamo che il problema che muove la riflessione infermieristica - e coinvolge diconseguenza l’intera medicina - debba inserirsi nel più grande contesto della progressiva “crisidell’assistenza” vissuta dalla società post-moderna.

1.1.1 La crisi dell’assistenza e la crisi della medicina contemporaneaL’assistenza è divenuta, in quest’ultimo secolo della storia occidentale, un p ro b l e m a ed unproblema di difficile risoluzione. Eppure, mai nella storia dell’uomo si erano ottenuti traguard i

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di sopravvivenza e qualità della vita come quelli registrati negli ultimi cinquant’anni nellesocietà occidentali.

Se volessimo rintracciare le radici storiche della crisi dell’assistenza contemporanea dovremmoriconsiderare quel complesso insieme di sommovimenti sociali che va sotto il nome di “rivoluzio-ne industriale”. La rivoluzione industriale provocò infatti importanti modifiche nella “suddivisio-ne del lavoro” all’interno della famiglia ristretta; le donne si staccarono dalle consuete attività“domestiche” per il lavoro in fabbrica. L’ospedale stesso vide cambiare radicalmente le sue fun-zioni da “istituto di ricovero” a “istituto di cura”, nel quale poté prendere piede e svilupparsi lamedicina clinica contemporanea - con la rapidità esponenziale che conosciamo. Ma nell’ospedalemoderno - soprattutto in Italia come in altri Paesi latini solo sfiorati dall’effetto Nightingale - losviluppo della medicina avvenne a scapito del millenario sapere assistenziale delle donne, che tro-varono la loro collocazione in quanto personale d’ausilio all’opera medica, appunto “paramedico”.Non c’era posto nella medicina moderna per le famose e nobilissime istituzioni assistenziali fem-minili che si erano distinte nei secoli precedenti5.

La società contemporanea ha quindi progressivamente perduto il significato e la prassi degli usie costumi tradizionali legati all’assistenza, dello stare accanto in modo “adeguato” a chi soffre, achi ha bisogno. Lo si percepisce dall’impreparazione alla gestione della malattia nelle mura dome-stiche, dall’accentuato grado di medicalizzazione di tutte le fasi della vita e, più in generale, dal-l ’ e m a rginazione dal vissuto quotidiano della malattia, della sofferenza, della vecchiaia e dellastessa morte. Chi abbia vissuto in prima persona o si occupi, ad esempio, dell’assistenza a pazienticronici o terminali, sa dell’emarginazione, della superficializzazione anche istituzionale nei con-fronti di queste condizioni. Ma la crisi attuale dell’assistenza è espressione, in fondo, di una crisisociale più profonda nei confronti dell’altro, del malato in quanto “diverso” che ci coinvolge eprovoca con la sua sofferenza, malattia, e morte.

Cadute, o quantomeno relativizzatesi notevolmente, le grandi spiegazioni del mondo6, la nostravisuale, la nostra Weltanschauung si è ridotta alla visione personale del presente nel quale tentia-mo di nascondere ciò che il malato in quanto tale continuamente ci ribadisce. Alcuni sociologidicono che la nostra sia la società della “gratificazione istantanea” nella quale il senso del precario- dell’incertezza, dell’insicurezza ad esempio nel lavoro o nella salute - quasi impongono l’indivi-dualismo ed uno stile di vita “alla giornata”, dove la massima antica del “cogli l’attimo” è assuntaa norma sociale. L’ansia del “divenire” e la paura della sofferenza riducono il nostro orizzonte e lenostre relazioni con gli altri, rischiando di anestetizzare la vita stessa.

Noi stessi siamo sempre più insufficienti ed incapaci nell’autoassisterci. «Tutti noi - scrive adesempio Hans-Georg Gadamer in una pagina che bene esprime la “crisi dell’assistenza” - dobbiamocu r a re noi stessi. Il tragico destino della civiltà moderna […] consiste proprio nella notevole diff i-coltà di questo compito, in quanto lo sviluppo e la specializzazione delle capacità tecnico-scientificaha indebolito le forze che ci permettono di prenderci cura di noi. […] Non sempre basta semplice-mente guarire, spesso si tratta di conservare l’idoneità al lavoro. Sono conseguenze inevitabilidella nostra civiltà industriale, alle quali tutti dobbiamo rassegnarci. Ben superiori a questi com -promessi sono le cure che dedichiamo a noi stessi, la capacità di auscultare di stare in ascolto di sée di assorbire l’intera ricchezza del mondo in un attimo intatto, non turbato dalla presenza deldolore. Sono momenti nei quali ciascuno è maggiormente vicino a sé stesso. Anche questo rappre-senta una forma di cura e, considerata l’importanza della guarigione, sono convinto che si debbafare il possibile nella nostra società per incrementare il valore di una simile prevenzione. In futurola nostra esistenza dipenderà in modo decisivo da questa attenzione dedicata a noi stessi, senza laquale non possiamo far fronte alle mutate condizioni di vita di un mondo tecnologico, e nonapprendiamo neppure a rianimare le forze che ci permettono di conservare e di ritrovare l’equilibrio,ossia la giusta misura, ciò che è adeguato a me e ad ogni individuo7».

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Non siamo certo i primi ad evidenziare come la nostra società cerchi di nascondere e di emarg i n a-re fenomeni quali la malattia, la sofferenza, la vecchiaia. Ed è anche ormai unanimemente ricono-sciuto come lo strumento di tale esorcismo sia stato, in buona misura e non senza una certa accondi-scendenza dei diretti interessati, lo stesso processo di medicalizzazione di questi fenomeni (ancheattraverso l’uso paradossale della spettacolarizzazione e della mediatizzazione del tragico, della sof-ferenza e della morte altrui). Il motivo di fondo sembra doversi ricercare proprio nella perdita di queiriferimenti culturali che dovrebbero riempire tali realtà di significato, soprattutto rispetto all’evento-avvento che esse evocano a ciascuno: la nostra stessa finitudine, la nostra stessa morte.

Dunque la stessa medicina moderna è in crisi di identità: la parcellizzazione che opera sull’unitàdella persona e la sua rigida prescrittività l’hanno progressivamente allontanata dal suo originariomandato ippocratico di guarigione di tutto l’uomo. E la crisi della medicina contemporanea non fache acuire la crisi dell’assistenza in quanto quest’ultima - come vedremo in alcune teorie infermieri-stiche - ha tentato di risollevarsi nella stessa prospettiva di sviluppo naturalista della medicina spessoignorando completamente ogni riferimento ed ogni riflesso sociale e culturale della propria pratica8.

Tra i critici della medicina contemporanea forse più citati dobbiamo necessariamente ricordareIvan Illich che in Nemesi medica, parlando del problema centrale del dolore, osserva proprio unasorta di acculturazione della scienza medica nei confronti delle società occidentali, definite appun-to “civiltà mediche”. «La civiltà medica moderna - scrive Illich - tende a trasformare il dolore inun problema tecnico e in tal modo spoglia la sofferenza del suo intrinseco significato personale.L’individuo diventa incapace di accettare la sofferenza come una componente inevitabile del suoconsapevole confronto con la realtà e impara a vedere in ogni malessere il segno di un propriobisogno di protezione e riguardo. Le culture tradizionali [viceversa] affrontano il dolore, e l’infer-mità e la morte, interpretandole come sfide che esigono una risposta dell’individuo stesso che sitrova in difficoltà; la civiltà medica le trasforma invece in richieste avanzate dagli individui all’e-conomia, cioè un problema che si può amministrare, o estrarre dal quadro esistenziale. Le culturesono sistemi di significati, la civiltà cosmopolita è un sistema di tecniche. La cultura rende tollera-bile il dolore integrandolo in una situazione carica di senso; la civiltà cosmopolita distacca il dolo-re da ogni contesto soggettivo o intersoggettivo per annientarlo9».

Un altro testimone del nostro tempo, lo storico e sociologo tedesco Norbert Elias, parlando dellepersone anziane così come di quelle in punto di morte riflette in particolare sulla loro condizionedi solitudine - solitudine che, a nostro avviso, non è altro che un’altra espressione della crisi del-l’assistenza nella quale versiamo. La morte è la cosa più propria per ciascuno; si muore indubbia-mente soli, ma - osserva Elias - quando la solitudine personale è aggravata dall’emarg i n a z i o n edegli altri, quando volontariamente si assiste al fraintendimento della riservatezza con la volontàdi schivare gli interrogativi che la persona stessa del morente è diventato per gli altri, «fino aindurli a misconoscere le sue più semplici necessità, allora la solitudine provata non è né potràmai essere lo spazio per ritrovarsi, per dare nel silenzio un significato a questo momento dellavita», ma diviene sinonimo di abbandono, diviene la negazione stessa della cura. Scrive Elias:«può darsi che per le persone anziane o in punto di morte gli aspetti sociali della loro vita e le rela-zioni con gli altri siano particolarmente importanti proprio perché esse sono cadute in balia dip r ocessi naturali ciechi e incontrollabili. Tuttavia, sapere che gli uomini in queste condizionihanno raggiunto il limite del loro controllo sui processi naturali spesso suscita nei medici, e forseanche nei familiari e amici del moribondo, un atteggiamento che entra in conflitto con il bisognodi socialità di quest’ultimo. Sembra che ci si dica qui non c’è più nulla da fare. Si scuotono lespalle e, pur dispiaciuti, si va per la propria strada. Sono soprattutto i medici - la cui professioneconsiste nel cercare di dominare le forze cieche e distruttive della natura - che spesso sembranoosservare con orrore come nei malati e nei moribondi queste cieche forze naturali spezzino la nor-male autoregolazione dell’organismo per poi distruggerlo».

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Non è certo facile assistere tranquillamente a questo processo di decadenza. Ma, osserva Elias,«sono proprio gli uomini che si trovano in tali condizioni ad aver soprattutto bisogno degli altri.Per essi, deboli e forse soltanto un’ombra di ciò che sono stati in passato, sono importantissimi isegni che manifestano il perdurare dei legami affettivi, del loro valore immutato nella cerchiadegli esseri viventi. Alcuni moribondi preferiscono stare soli; forse sognano e non vogliono esseredisturbati; sarà allora necessario prevenire le loro possibili necessità. Oggi la morte è diventata piùinformale ed è aumentato lo spazio delle necessità individuali, sempre che si riesca a riconoscerle.[...] Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono staticosì soli10». «La cura della persona umana - constata amaramente Elias - passa talvolta in secondopiano rispetto alla cura dei singoli organi».

La figura del medico è appunto emblematica di questa crisi sociale e culturale del “prendersicura”. Di fatto, la storia della medicina è stata un lento esproprio del sapere tradizionale legato al“prendersi-cura-dell’altro” a beneficio di quello man mano presunto come indiscutibilmente “vero”,“ e fficace”, “curativo”. Richiameremo più oltre la comune prospettiva che i cerusici del seicentoebbero con l’Inquisizione nella caccia alle streghe, mentre d’altro canto, è noto l’episodio diParacelso che, buttando alle fiamme i suoi testi di medicina, ammetteva di aver appreso la sua scien-za da maghi e fattucchiere.

Nel corso dei soli ultimi cinquant’anni, osservava recentemente Edouard Boné, due rivoluzioniessenziali - la prima terapeutica, la seconda biologica - hanno modificato il volto e la pratica dellamedicina più di quanto la pratica medica avesse potuto farlo in cinquanta secoli11. Tali modifica-zioni e gli indubitabili successi terapeutici conseguiti hanno anche prodotto una nuova immaginedi malato, che non è più “colui che si sente tale”, ma “colui al quale il medico ha diagnosticatouna malattia”. In un articolo di C.M.D. Meador, dal titolo “The last well person”12, l’autore ripor-tava al proposito un aforisma estremamente significativo di J. Freymann per il quale un medicoalla domanda “Che cos’è una persona sana?” rispose: “Una persona sana è un paziente che non èstato studiato completamente”. Il medico, insomma, non è più l’esperto della “salute” - posto chelo sia mai stato - quanto l’esperto della “malattia” dell’uomo.

Questo potere scientifico-tecnologico ha, ovviamente, modificato in profondità la relazione tramedico e paziente. Il malato ha perso quella centralità che nella relazione tradizionale tra sanita-rio ed ammalato era espressa dalla domanda: “Come si sente? come sta oggi?”. Oggi, al contra-rio, assistiamo allibiti a medici (e infermieri) che zittiscono il paziente quando questi cerca diesprimere un osservazione sul proprio stato, come a dire: “Sono io l’esperto: cosa vuole sapernelei di queste cose?”

Jean-François Malherbe avanza criticamente tre osservazioni alla medicina contemporanea:1) di aver integrato il concetto di morte nell’approccio operativo alla malattia - cosa che rendesordo il curante all’espressione della paura della morte che abita l’assistito; 2) di aver operato uncambiamento tecnico dell’uomo con i mezzi della bio-medicina - cosa che causa una sua crisi diidentità; 3) di operare grazie all’oggettivizzazione del malato - cosa metodologicamente necessa-ria alla bio-medicina, ma valida solo nel suo processo interno mentre si rivela essere addiritturapatogena se estrapolata a tutto il campo umano. Queste tre osservazioni, nota Malherbe, si posso-no riassumere in una sola: la medicina, mentre sviluppa i mezzi per trattare gli organismi umani,ha perso di vista la sua finalità, che è la cura delle persone. In altre parole, «sviluppando i mezzid’azione specificamente operativi, ciò che d’altronde ci si doveva aspettare da essa, la medicinacerca di proteggersi dalla morte negando l’esistenza del soggetto umano. [...] Ma in questo modoche cosa si dimentica con precisione, che cosa si passa sotto silenzio o si occulta? È la personaumana tridimensionale, con tutta la sua corporeità, la sua cultura, la rete di relazioni intersoggetti-ve in cui è presa. È il s o g g e t t o etico che la medicina ha perso di vista, il soggetto chiamato ac o l t i vare l’autonomia degli altri, il soggetto destinato ad assumere, attraverso le peripezie che

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c o s t i t u iscono l’intreccio della sua esistenza, la sua solitudine, la sua limitatezza e la sua incertez-za. La medicina ha perso sé stessa, perdendo di vista il soggetto. Senza dubbio, il paziente è ilprimo a soffrire l’oggettivizzazione di cui è vittima, ma la seconda vittima di quell’oblio è il medi-co: negando implicitamente il soggetto che dovrebbe servire, s’imprigiona in un’oggettività cheriduce al silenzio anche lui13».

Non crediamo certo che la critica debba essere rivolta alle conoscenze medico-scientifiche inquanto tali, ma esse mostrano manifestamente un aspetto importante della crisi della medicina cli-nica in generale e della crisi dell’assistenza in particolare. È diffusa infatti la convinzione che lesensazionali scoperte della medicina moderna abbiano, più o meno consapevolmente, operato unasorta di influsso scientista sulla cultura contemporanea, proprio nella direzione della “salvezza” -della vittoria sulla morte - di cui la nostra cultura avverte impellentemente la necessità. Si è dunquefrainteso lo scopo pratico della moderna medicina, che non è la s a l u t e - che di continuo sfugge alledefinizioni e alle oggettivazioni della scienza - bensì la m a l a t t i a, la sua diagnosi, terapia e riabilita-zione. Di conseguenza si è venuta a creare nel pensiero collettivo una sorta d’improprio sillogismotra medicina (come guarigione sic et simpliciter della malattia) e salute come completo e utopicobenessere (e come d o v e re del medico). Ma tale sillogismo medicina-salute non potrà mai essereritrovato nel vissuto di ciascuno. Tale vissuto, infatti, riporta inevitabilmente alla limitatezza e fini-tezza dell’uomo (come vedremo, anche attraverso la percezione dell’ineluttabilità del susseguirsidegli stessi bisogni fisiologici), diventando per molti un vissuto di debolezza, disagio, angoscia.

Nei confronti del dolore - e della morte che esso evoca - la tecnica e la scienza si rivelano infal-libilmente perdenti. Esse, ricorda il filosofo Salvatore Natoli in una pagina illuminante, possonoavere un significato come disegno di civiltà nella misura in cui illudono di soddisfare il bisogno disalvezza esacerbato dalla “morte di Dio”, ma per il singolo, per colui che soffre nell’adesso - nel“qui ed ora” - esse sono definitivamente limitate. Per chi è fuori dalla media, per chi è stato resounico dal dolore, tutto ciò che l’organizzazione sociale ha predisposto, quanto la scienza ha sco-perto, restano semplicemente qualcosa di scontato. «Se il dolore mette veramente in questione lavita, il conato d’esistenza sporge oltre l’assistenza. La tecnica consente l’occultamento del dolore,ma è anche vero che il dolore dà scacco alla tecnica. La tecnica è l’unica dimensione in cui l’uo-mo contemporaneo pensa il suo successo, o quanto meno riesce a prospettarsi il suo movimento,ma la tecnica può fallire. [Infatti] la vita degli uomini è una sola e se essi sono uguali lo sono perl’irripetibilità della loro vita. L’individuo sa e dice: se la tecnica fallisce per me, essa è per sempree definitivamente fallita. […] L’eco sorda del dolore l’uomo contemporaneo se la porta dentro, lavive nella forma dell’inquietudine, se la tiene nel cuore come ansia14».

Vi è una sostanziale concordia nell’indicare nel riduzionismo cartesiano l’origine tanto dei podero-si sviluppi terapeutici della medicina occidentale quanto dei suoi deprecabili effetti socio-culturali.Tra gli altri, Carlo Sini ha riflettuto in varie occasioni sul problema che vede opporsi paradossalmen-te la “salute” alla medicina contemporanea. In particolare, egli riflette su alcune conseguenze negati-ve della filosofia cartesiana nella cultura occidentale: una sorta di “superstizione scientifica” cheporta a considerare tutto ciò che funziona con ciò che è in sostanza. Per Sini la medicina, sulla basedella rivoluzione cartesiana, «riduce la sua azione a ciò che già Aristotele chiamava i a t re u s i s, cioèalla mera tecnica medica, dimenticando che il vero risanamento è quello che produce u g i e i a, ovverola salute naturale: quel risanamento che è una proprietà intrinseca dei corpi naturali e che la tecnicamedica può solo favorire e accompagnare, ma mai sostituire. In particolare poi, sulla inconsapevolee dimenticata base della rivoluzione cartesiana si tende a concepire la salute come un mero “essere infunzione” con le conseguenze ben note del cosiddetto “accanimento terapeutico” e con i molti pro-blemi connessi al campo delle sostituzioni degli organi. Ma per l’uomo la salute non è equivalente almero funzionare, se non altro perché l’essere in salute dell’uomo non può mai andar disgiunto dallasua consapevolezza di essere mortale. In quanto “animale autocosciente”, l’uomo “sa” di essere

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destinato, nella vita, a un cammino di trasformazioni biologiche e psicologiche che non ha il suosenso e scopo, o la sua “cura”, in una sorta di “eterna giovinezza” o di perdurante efficienza artificia-li, bensì nella accettazione di un destino di maturazione e di dedizione che ha il suo fine ultimo in ciòche sorpassa ogni individuo singolo e il circolo limitato della sua esistenza e che proprio per ciòimpone alla vita di ciascuno, perché conservi senso e sia degna di essere vissuta, un equilibrio quali-tativo irriducibile alla somma geometrica delle sue parti e funzioni quantitativamente intese1 5» .

Lo sguardo oggettivante della scienza contemporanea (e quindi anche della medicina) è spiegatoin un altro intervento di Sini a proposito della “natura umana”. Tali riflessioni, come vedremo,hanno un profondo significato anche per l’infermieristica. «La cosiddetta “natura umana” - scriveSini - è coinvolta in modo essenziale da ciò che modernamente l’uomo pensa quando nomina la“natura”, nonché dalla convinzione che prende luogo in lui relativamente a ciò che la natura sareb-be “in sé”. Anzitutto l’uomo si assegna allora la funzione del “soggetto”, funzione direttamentespeculare rispetto alla riduzione della natura a “oggetto”. In secondo luogo l’uomo si trova nellafatalità di vedere ambiguamente sdoppiata la sua natura in un essere soggetto (inobiettivabile einalienabile: ciò cui ci si riferisce anche col concetto di “persona”) e in un essere contemporanea-mente oggetto, cioè parte di quella natura obiettivata che è l’oggetto speculare della funzione sog-gettiva: qualcosa che è di principio (e di fatto) analizzabile, misurabile, utilizzabile, riproducibile,ecc. Da un punto di vista speculativo - continua Sini - tale duplicazione prende il nome di duali-smo cartesiano, con le conseguenti paradossalità e assurdità (dualismo che, negato a parola, è tut-tora l’unico fondamento e principio che tacitamente sottende l’ideologia scientifica contempora-nea, nonché la sua pratica essenziale). Da un punto di vista più generalmente etico, l’ambiguità simanifesta come impossibilità di arrestare l’obiettivizzazione in genere e l’obiettivizzazione delsoggetto in particolare. Da un lato si proclama il “valore”, e perciò l’inalienabilità della “perso -n a ”; dall’altro non si è più in grado di “riempire” concretamente questo supposto valore. E s s oinfatti non consiste in altro se non nell’essere soggetto del soggetto. Ma tale esser soggetto non è asua volta altro dal procedimento metodico del rendere la natura oggetto. Il soggetto, cioè, è la“sostanza (o meglio la funzione) di un’operazione” (e in particolare di un’operazione conosciti -va) e niente affatto una sostanza in senso ontologico o metafisico. Perciò esso sperimenta (con stu-pore, con angoscia, con orrore) che in realtà è esso stesso obiettivabile, cioè manipolabile, ripro-ducibile, ecc. attraverso le tecniche di investigazione fisiologiche e psicologiche, nonché di infor-mazione pedagogica e ideologica, enormemente potenziate dalla tecnica dei media16».

Come affrontare la crisi della medicina? Nelle esortazioni di alcuni autori possiamo rintrac-ciare soluzioni che, viste nella prospettiva infermieristica, riconoscono e leniscono contempora-neamente la più antica e primaria crisi dell’assistenza. Alcuni autori auspicano il ritorno di unamedicina ippocratica; tra questi ricordiamo in particolare il medico e filosofo Karl Jaspers che -con intuizioni che riprenderemo - vorrebbe la coniugazione della medicina scientifica con lafilosofia. Scrive Umberto Galimberti nell’I n t ro d u z i o n e dell’edizione italiana del testo Il mediconell’età della tecnica di Jaspers: «Se nell’età della tecnica la scienza medica “oggettivandol’uomo minaccia di trattarlo alla stregua dell’animale”, e se la psicoanalisi, nel tentativo di sal-vare il paziente dall’oggettivazione, finisce col ridurlo a “cieco seguace di una fede”, controquesti due modi di offendere la ragione, che insieme alla libertà è la conquista più alta dell’uo-mo, Jaspers propone il ritorno all’antica idea di medico che Ippocrate indicò quando disse:i a t ros philosophos isotheos, il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio. Come medico,infatti, si avvale del sapere scientifico, ma non con l’atteggiamento onnipotente del “Salvatoredesiderato in segreto da tanti malati”, ma con la consapevolezza propria del filosofo che cono-sce i limiti di ogni forma di sapere, per cui non si professa s o p h o s, ma p h i l o - s o p h o s, disponen-dosi nei confronti del sapere non come un possidente nei confronti del suo territorio, ma comeun viandante nei confronti della sua via1 7» .

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Ad una medicina normativista Malherbe vorrebbe contrapporre invece una medicina maieutica,che a nostro giudizio ben vedrebbe l’apporto infermieristico. Scrive Malherbe: «Pare che le pro-fessioni della salute, e il corpo medico in particolare, per lo più si comportino come se la loro mis-sione consistesse nel garantire e promuovere una normalità che in effetti è solo l’espressione con-densata di uno schermo che eleviamo tra la nostra sofferenza e noi stessi, nella speranza illusoriadi non soffrire. In tale prospettiva, che ha stretti legami con lo scientismo, ogni malattia, ogni inci-dente è interpretato come una richiesta di normalizzazione. [...] Non vorrei essere frainteso: nonintendo affatto patrocinare la riabilitazione del dolore. La medicina ha il dovere di lottare e vince-re il dolore con cure appropriate; ma ha anche il dovere di non occultare ciò di cui il dolore è allostesso tempo il segnale e la causa: la sofferenza di essere uomo destinato a morire. [...]

La medicina [infatti] non è l’arte di lottare a tutti i costi contro la sofferenza e la morte, ma èl’arte di adattare le scienze e le tecniche biomediche allo sviluppo dell’autonomia dei propri simi -li; l’arte di curare i propri simili, di aiutarli a vivere in pienezza, di aiutarli a partorire sé stessinonostante le inevitabili sofferenze del parto18».

1.1.2 Il problema disciplinare degli infermieriPuò capitare spesso, leggendo i brani citati o altri saggi o articoli di giornale, di pensare che inquesta crisi dell’assistenza, del “prendersi cura”, dello “stare accanto”, vi sia un grande assente. Siparla delle colpe della medicina e della malasanità. Si invoca l’umanizzazione degli ospedali e ladeontologia professionale degli operatori. Si affermano i diritti-doveri degli ammalati, dei variprofessionisti e degli scienziati. Ma pochi riflettono sul problema di fondo dell’assistenza. E fraquei pochi - in genere filosofi, medici, sociologi, antropologi, giornalisti o politici - compare raris-simamente la voce ed il parere degli infermieri. I più vicini al malato, i depositari di una millena-ria tradizione di vicinanza all’infermo (tanto vicini dall’ereditarne l’impronta etimologica), sonooggi i più silenti e certamente i meno ascoltati.

Noi infermieri siamo invece convinti che sia in questo iato tra un malinteso sapere “scientifico”- tipicamente e quasi monoliticamente biomedico - e crisi del sapere “culturale” legato alla curache si è venuta chiarendo la domanda che definisce il problema disciplinare degli infermieri: Checos’è l’assistenza infermieristica?

Florence NightingaleÈ raro trovare un infermiere che non conosca il nome della madrina della moderna professioneinfermieristica. Tuttavia, se ai più si chiedesse il perché di questo universale riconoscimento,credo sarebbe facile trovare confusione ed imbarazzo: forse la scuola, forse la guerra di Crimea,forse l’indubbio carisma personale, forse la solida fede religiosa.

Lungi da noi il voler affrontare un’analisi storica dei meriti della Nightingale, vorremmo piutto-sto centrare l’attenzione su un fatto di eccezionale importanza. Essa affrontò ogni ambito dellaprofessione - la c l i n i c a, la f o r m a z i o n e, la r i c e rc a e la p o l i t i c a professionale del suo tempo -a l l ’ a ltissimo livello che conosciamo con un’incessante sete di conoscenza sull’assistenza infer-mieristica. Basta richiamare il sottotitolo, ancora attualissimo, del suo scritto più famoso: unosplendido libretto del 1859 intitolato Notes on Nursing. What it is and what it’s not. A pagina diecidella traduzione italiana leggiamo: «Uso la parola nursing perché non ce n’è una migliore. Il suosignificato è stato limitato a poco più che somministrazione di medicine e applicazione di catapla-smi. Dovrebbe invece significare l’uso adeguato dell’aria fresca, della luce, del calore, della puli-zia, della tranquillità e la giusta scelta e somministrazione della dieta, il tutto con la minor spesa dienergia [vital power] da parte del paziente. È stato detto e scritto dozzine di volte che ogni donnaè una buona infermiera. Io credo, al contrario, che i fondamenti [the very elements] del nursingsiano quasi sconosciuti1 9». E più avanti aggiunge: «Il conoscere se veramente noi sappiamo il

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fatto nostro come infermiere è veramente un grande risultato della nostra preparazione e l’attribuir-sene la conoscenza, quando in realtà essa manchi, è una prova sicura di preparazione difettosa».

Si trattava quindi, già allora, di s a p e re e di i n s e g n a re agli studenti che cosa è l’assistenza infer-mieristica, convinti - come vedremo tra poco - che è la riflessione sugli aspetti teorici di una profes-sione a guidare quelli pratici ed attitudinali2 0. Come stupirsi allora se l’uscita di questa pubblicazio-ne e la quasi contemporanea apertura della St. Thomas’s Hospital School of Nursing (nel 1860)segnano a livello mondiale la data di nascita della moderna professione infermieristica? Perché dip ro f e s s i o n e si trattò sin d’allora, e non più di mestiere o di praticantato - come avveniva da millen-ni, sotto la spinta motivazionale della solidarietà culturale o religiosa. La stessa Nightingale in unafamosa lettera (ne scrisse centinaia soprattutto alle sue ex-allieve seguendole in tutto il mondo)a ffermò di non volere creare affatto un nuovo ordine religioso, quanto piuttosto una professione benp a g a t a2 1. I risultati di questa intera vita dedicata all’assistenza sono davvero impressionanti: se siconfrontano i dati degli ultimi censimenti svoltisi nel Regno Unito alla fine dell’ottocento, si puònotare come, grazie all’opera di questa pioniera, le n u r s e s passarono nel breve volgere di pochidecenni (dall’annuario delle professioni del 1861 a quello del 1901) dalla categoria delle “mansionidomestiche”, in numero di 27 mila, a quella delle “professioni mediche”, in numero di 64 mila.

Abbiamo accennato alla scuola fondata dalla Nightingale, ma è importante segnalare anchel’impegno politico-sanitario e il suo fondamentale contributo alla nascita della statistica medicaquale strumento della ricerca infermieristica. Con questi ausili ed intervenendo su fattori quali l’a-limentazione, la ventilazione e la salubrità delle camere, l’igiene ed il vestiario dei soldati median-te l’assistenza continua delle sue infermiere (come è noto, lei stessa passò alla storia come la“signora della lampada” per i suoi giri notturni nelle corsie dei degenti) la Nightingale riuscì adabbassare drasticamente il tasso di mortalità degli ospedali civili e militari del tempo, salvandomigliaia di vite umane22.

È dunque per questo che a livello mondiale Florence Nightingale è considerata la madrina dellamoderna professione infermieristica: non solo per i suoi meriti clinici, non solo per quelli formati-vi di una nuova élite professionale, non per l’innovativa politica sanitaria svolta, ma soprattuttoper aver chiarito per prima in modo esplicito l’originalità del problema di cui si occupa l’infermie-re: il nursing, ossia l’assistenza infermieristica.

Considerazioni generali sul contesto storico-sociale e la nascita di una nuova professioneÈ ovvio che il contesto storico-culturale che vide la nascita e l’affermazione dell’infermiera comeuna nuova figura professionale non fu per nulla indifferente alla crisi dell’assistenza2 3.L’Inghilterra della seconda meta del XIX secolo, già culla della prima rivoluzione industriale,accusava un crescente abbandono del tipico ruolo assistenziale delle donne - ormai impegnatenelle fabbriche24. Veniva registrato un profondo cambiamento negli ospedali, sempre più sovracca-ricati e chiamati a divenire machines à guérir, senza dimenticare poi l’azione delle legislazionisociali. Insomma, questa nazione avvertì prima delle altre il sorgere di quella che i sociologi delleprofessioni chiamano una nuova necessità sociale legata all’assistenza degli infermi. Non già ibisogni dei malati si erano modificati, ma la loro presa in carico da parte della realtà micro emacro sociale. Occorreva, e Nightingale ne aveva piena coscienza, la formazione di un “esperto”dell’assistenza che elevasse qualitativamente gli standard assistenziali dell’epoca.

Nightingale intuì e dimostrò che non si nasce infermieri, lo si diventa. E lo si diventa, diciamooggi, in una situazione formativa che crea un’identità infermieristica attraverso un processo diassimilazione-adattamento delle caratteristiche di ogni studente rispetto ai contenuti conoscitivi,tecnici ed attitudinali della disciplina e dell’etica infermieristica.

L’approccio funzionalista della sociologia delle professioni ci insegna che una “professione” èriconosciuta dalla società se, e solamente se, essa riconosce nel professionista “l’autorità” in grado

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di risolvere quella particolare e complessa necessità sociale alla quale altri non sanno dare solu-zione. In altre parole ancora, una professione nasce quando il “buon senso”, le tradizioni o lenozioni popolari non bastano più a garantire la risoluzione di un particolare bisogno avvertitodalla popolazione. In questo contesto, un gruppo di persone si “specializza” nella risoluzione ditale “necessità sociale” o, per dirla con Popper si “innamora” di questo “Problema” e ne studiatutte le manifestazioni e le variabili. In conclusione, come sostengono i sociologi, una qualunqueattività lavorativa per potersi chiamare “professione” deve essere supportata da un proprio sapere,ossia da uno s p e c i f i c o ed e s c l u s i v o settore scientifico che studi in modo originale il particolareproblema che ne ha motivato la nascita25.

Ma quando, e in quale contesto socio-culturale, è sorta e cresciuta tra gli infermieri italiani lanecessità di riflettere in sede teorica sull’assistenza infermieristica?

1.1.3 Il contesto professionale e disciplinare italiano«Il tema di questa relazione propone l’introduzione della parola nursing nel nostro linguaggio pro-fessionale»: così iniziava nel 1972 un famoso intervento di Rosetta Brignone, una delle figurecentrali dell’infermieristica italiana del novecento. Brignone continuava chiedendosi il perché diquesta nuova parola. «È solo per amore di anglicismi che nursing viene utilizzato ed assimilatonel linguaggio professionale di tanti paesi?... ed ancora: l’adozione di questa parola è dovuta sol-tanto alla necessità di adeguare il proprio linguaggio a quello internazionale per potersi megliocapire? Di recente mi è stato domandato da parte di una nota esperta in scienze infermieristiche: per-ché in Italia continuate ad usare l’espressione assistenza infermieristica? credete che essa sia l’equi-valente di n u r s i n g? ... senza attendere la mia risposta mi ha subito detto che n u r s i n g è praticamenteintraducibile in altre lingue in quanto racchiude in sé tutti gli aspetti della attività infermieristica, tuttii livelli e le varie differenziazioni di funzioni infermieristiche; comprende, inoltre, il campo delleconoscenze e delle responsabilità, della formazione e della pratica professionale in qualunque settoredella salute, della prevenzione, cura e riabilitazione. È, infine, un sistema aperto al progresso scienti-fico ed alle spinte sociali che hanno attinenza con il problema della salute e della vita dell’uomo2 6».

Occorre dire subito che già a partire dagli anni cinquanta si discuteva in ambito internazionalesulle tematiche teoriche e cliniche legate all’assistenza infermieristica27. Questo famoso episodiodella nostra storia professionale ci invita allora a considerare più da vicino lo stretto legame trasocietà e nascita di una nuova professione e quindi porci l’inevitabile domanda su quando e comeè iniziato il processo di professionalizzazione degli infermieri nel nostro Paese. Con lo sguardodistaccato ed esterno del sociologo, Gian Paolo Prandstraller indica la data del 1973, motivandolacon l’emanazione della legge n. 795 del 15 novembre 1973, relativa alla ratifica degli A c c o r d ieuropei di Strasburgo sulla formazione di base delle infermiere del 25 ottobre 1967. La legge795/73 prevedeva infatti - anche se con sei anni di ritardo dagli Accordi di Strasburgo - un assettodi funzioni accompagnato da una formazione basata su materie di insegnamento riguardanti sia le“scienze fondamentali” sia, ed era la prima volta, le “cure infermieristiche”28. L’assistenza infer -mieristica compariva dunque come materia di insegnamento a sé stante, accanto e alla pari di tuttele altre discipline dell’ordinamento didattico, benché spesso denominata semplicemente - quantosignificativamente - “Tecniche infermieristiche”.

Quanto al persistere di uno scarso riconoscimento sociale della figura dell’infermiere nel nostropaese Prandstraller indica chiaramente le due cause principali nella carente formazione universita -ria adeguatamente centrata sulle scienze infermieristiche - tanto da farlo lamentare la mancanzadi cattedre in tali discipline nelle nostre facoltà - e nello scarsissimo contatto tra professione epubblico che a suo avviso non è stato informato adeguatamente né sulla natura delle funzioniinfermieristiche moderne né sull’importanza di queste per il buon funzionamento delle istituzionisanitarie. «Di conseguenza - nota Prandstraller - la professione infermieristica non è stata consider ata

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come una componente rilevante dei processi di health care. Questo fattore si è tradotto nel manca-to riconoscimento dell’autorità professionale perché l’opinione pubblica non ha visto negli infer-mieri dei soggetti sociali abilitati a compiti che nessun altro soggetto sociale poteva esperire alloro posto, ed ha privato il gruppo infermieristico di quella richiesta sociale che vi sarebbe stata sefossero state rivelate con chiarezza le ragioni per cui la professione infermieristica è di grande uti-lità per qualsiasi società civile29».

Resta, in sintesi, la constatazione che l’anzianità del nostro percorso verso la “professione”vanta poco più di un quarto di secolo. Tuttavia, a nostro parere, ciò non può bastare per spiegare ilfatto che, contrariamente ad altri paesi occidentali, continuiamo a soffrire dell’assenza di un dibat-tito di massa minimamente approfondito sui fondamenti del sapere (e poi della prassi) dell’infer-miere. Sentiamo molto spesso alcuni colleghi lamentarsi del nostro insoddisfacente status sociale,della limitata autonomia operativa, della poca riconoscibilità che hanno i nostri risultati assisten-ziali nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale. Molti pensano che, forse in virtù della forzadel nostro numero, oppure a conseguenza del nostro rapporto privilegiato con il paziente, lo statu-to di “professione” a pieno titolo ci debba essere riconosciuto a scatola chiusa, senza dimostrazio-ne alcuna, ma semplicemente sulla parola. Ci illudiamo di poter evitare il confronto e la criticacon gli altri protagonisti della sanità affermando ingenuamente, e pericolosamente, che “solo gliinfermieri possono parlare di tutto ciò che riguarda l’assistenza infermieristica”.

Eppure, la via da seguire dovrebbe essere abbastanza chiara. Già nel 1993, appena partita lanuova formazione di base universitaria con i Diplomi Universitari in Scienze Infermieristiche, dapoco ufficializzata all’ampio pubblico la richiesta di una laurea nello specifico disciplinare (edalla vigilia della discussione sul profilo professionale degli infermieri) Paolo Carinci, alloraPresidente della Conferenza permanente dei presidi delle facoltà di Medicina e Chirurgia nonpoteva esprimersi in modo più chiaro al X congresso Nazionale della Federazione dei CollegiI PA S V I. «È stata rivendicata a diversi livelli la specificità della disciplina infermieristica e lavolontà che le esperienze che si sono maturate nel tempo e le competenze personali che si sonoconsolidate vengano proiettate e continuate nella formazione universitaria. Bisogna scegliere sequesta è una prospettiva in cui si vuole mantenere isolata, nel contesto universitario, una specifi-cità, o si ritiene che questa possa essere invece mantenuta con l’inserimento nella dialettica uni-versitaria. Questo vuol dire che le competenze disciplinari e il livello di autonomia scientificasono il risultato di una dialettica che si instaura nel mondo universitario, a confronto con altrecompetenze. Quindi nel modello formativo, la sfida che la professione infermieristica deve accet -tare è quella di essere in grado - attraverso il confronto con altre discipline, le verifiche delle suebasi teoriche e delle sue impostazioni applicative - di diventare disciplina di livello universitario.E questo non si realizza con affermazioni di principio, né con riserve di legge su competenzedidattiche. Si conquista entrando nella dialettica universitaria e sviluppando al suo interno unrigoroso dibattito sulle basi teoriche e scientifiche di una disciplina30».

Ma il problema del misconoscimento dell’assistenza infermieristica non è riscontrabile solo inambito accademico. Ancora più evidente è la pregiudizialità negativa con la quale viene spessoconsiderata l’opera infermieristica nell’ambito dell’esercizio delle professioni sanitarie. Fra i moltiesempi che si potrebbero addurre a testimonianza di questo misconoscimento uno dei più esemplifi-cativi è a nostro parere il testo del ricorso con cui un noto sindacato medico si appellò al TAR con-tro la promulgazione del Decreto ministeriale sul profilo professionale dell’infermiere (D.M. n. 739del 14 settembre 1994, G.U. del 9 gennaio 1995)3 1.

Queste incomprensioni evidenziano, nonostante gli sforzi di molti, l’assenza di una riflessionei n t e r-disciplinare (e poi sociale e politica) attorno al problema dell’assistenza infermieristica.Ancora oggi, riferendoci unicamente alla realtà ospedaliera, gli infermieri sono schiacciati tra unagestione amministrativa sempre più legata alla matrice aziendale dei costi/benefici e un’org a n i z z azione

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sanitaria che sembra non avere alcun interesse alla crescita professionale degli infermieri. In Italiala costituzione di dipartimenti infermieristici autonomi ed integrati - tra clinica, ricerca e didattica- è ancora solo un progetto. Pressoché ovunque gli strumenti utilizzati per la gestione economicadegli ospedali misconoscono o comunque sottostimano il costo del lavoro dell’infermiere. A desempio, è ormai chiaro a tutti che il sistema attualmente implementato per la retribuzione del ser-vizio sanitario ospedaliero - il sistema dei DRGs, Diagnosis Related Gro u p s - semplicemente nonlo considera. O per meglio dire, essendo legato alla diagnosi medica non è strutturato per cogliereil fatto determinante che due pazienti con lo stessa qualifica di DRGs possano avere pesi assisten-ziali (e quindi carico di lavoro infermieristico e quindi costi) totalmente diversi fra loro, in quantodiversi possono essere i loro bisogni. Infine, constatare l’assenza di strumenti per la determina-zione oggettiva del costo del lavoro infermieristico dovrebbe bastare da sé a dire della pressochétotale mancanza di applicazione dei metodi e strumenti per una sua costante valutazione di ordinequalitativo. Ancora oggi, in opposizione alla creazione della “Dirigenza infermieristica” nelSistema Sanitario Nazionale, si leggono titoli di giornale in cui i giornalisti - manifestando chiara-mente di non conoscere la complementarietà delle professioni medica ed infermieristica - si chie-dono stupiti: “Ora chi comanderà in reparto?”.

Tuttavia, è nostra opinione che il più grave problema della professione infermieristica italiananon sia solo la scarsa presenza sul palcoscenico della politica sanitaria o l’ostracismo di altre cate-gorie professionali, quanto la nostra ignoranza, cioè il nostro stesso ignorare cosa sia davverol’assistenza che eroghiamo quotidianamente. Solo pochi anni fa, nel corso di una piccola ricercanon pubblicata, chiedemmo “Che cos’è l’assistenza infermieristica?” ad oltre 140 studenti delterzo anno di una scuola per infermieri professionali. Si sarebbero diplomati di lì a pochi giorni efornendo una griglia di risposte chiuse volevamo, tra l’altro, valutare il grado di difformità nellerisposte date rispetto a quella reputata “corretta” dalla “scuola” (e che doveva invece testimoniare,attraverso la sua attrattività, la bontà della formazione ricevuta su queste tematiche). Più del 40%degli studenti scelsero una risposta diversa e si lasciarono confondere dai distrattori.

Il nodo centrale e prioritario del problema resta quindi certamente la formazione e la formazio-ne di base dell’infermiere. Questa dovrebbe creare un professionista con un h a b i t u s in grado diorientare sempre la sua azione ponendo al centro il paziente e i suoi bisogni e non viceversa.Ecco l’i g n o r a n z a di cui sopra, da non intendersi certo in senso spregiativo, quanto nel suo signi-ficato etimologico di “inconsapevolezza”, di “incoscienza”, ovvero di “mancanza dic o n o s c e n z a ”3 2. Ma senza alcuna scienza, non resta che la coscienza del singolo a tutelare il benedell’ammalato. Il risultato? Il rapido adeguarsi del neo-diplomato alle “pratiche” lavorative, l’i-nevitabile appiattimento delle sensibilità alle abitudini del reparto, al “mestiere” trovatonell’Unità operativa nella quale viene inserito.

La prima responsabilità di questa ignoranza non è certo degli infermieri quanto delle scuole chehanno frequentato. Ancora prima che competenza o incompetenza tecnica o di scarsa eticità sitratta in moltissimi colleghi (di tutte le regioni e di tutti i livelli professionali, quindi anche diri-genti e formatori, e spesso senza che essi lo abbiano voluto o ne abbiano colpa alcuna) di una for-mazione lacunosa e colpevolmente carente proprio sulla struttura teorica dell’essere infermieri. Equesto a fronte di una responsabilità sociale in costante crescita. Sul fronte normativo, infatti, nonpossiamo non ricordare la recente abrogazione del DPR 225 del 1974 (il tristemente noto “man-sionario”) avvenuta con la Legge 42 del 26 febbraio 1999 (G.U. 3 marzo 1999) che, tra le altrecose, per indicare il binomio autonomia-responsabilità dell’infermiere richiama esplicitamenteoltre al citato profilo e al codice deontologico, i contenuti dei Corsi dei Diplomi Universitari.

In conclusione, con questa sintetica e forse sommaria contestualizzazione storico-culturale nonsi è voluto affatto stimolare i termini delle varie polemiche (sui fronti rispettivamente della ricer-ca, della politica professionale, del management sanitario e della formazione di base dell’infermiere),

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o fomentarne di nuove, quanto piuttosto evidenziare la centralità, l’attualità e l’impellenza politico-professionale, oltre che principalmente clinica, della famosa domanda: W h a t ’s nursing? D ’ a l t r ocanto, dobbiamo ammettere la novità di questi argomenti per la maggioranza degli infermieri ita-liani: basti pensare che la costituzione disciplinare dell’infermieristica (ossia l’istituzione di speci-fici settori scientifico-disciplinari) risale solamente al 1994 e che il primo incontro accademicoche trattò di questa nuovo ambito scientifico fu il Convegno o rganizzato dalla ScuolaUniversitaria di Discipline Infermieristiche nel giugno 1993 nella prestigiosa Aula Magnadell’Università degli Studi di Milano33.

Nel più ampio contesto socio-culturale della crisi dell’assistenza, il cammino per l’evoluzione pro-fessionale dell’infermiere italiano è dunque, a nostro avviso, ben tracciato: 1) costruzione o adozionedi teorie e modelli infermieristici - in un contesto ovviamente aperto al confronto ed alla critica contutte le scuole appartenenti alla disciplina; 2) loro applicazione nella pratica quotidiana tanto nellaf o r m a z i o n e, di base, complementare e di vertice quanto nella c l i n i c a , nel management e nella r i c e rc a- di base e applicata; e 3) misurazione oggettiva, diffusione e confronto critico sugli indicatori dirisultato in tutti i campi d’applicazione (sino alla costruzione di nuove teorie che meglio e più eff i c a-cemente consentano agli infermieri di raggiungere il fine della salute per l’assistito). Ma che cos’èuna disciplina scientifica? Come si costituisce e che strutture possiede? Che tipo di conoscenza puòfornire attorno ad un campo applicativo quale l’assistenza infermieristica? A ffronteremo queste que-stioni nel prossimo paragrafo; l’importante, potrebbe forse suggerirci Popper, è partire da una chiaraidentificazione dei termini del problema, come ci auguriamo di aver fatto.

1.2. Scienza, Discipline e Teorie scientificheNell’ambito dell’infermieristica internazionale la crisi dell’assistenza è stata affrontata con unavera esplosione di “teorie scientifiche” e di “modelli concettuali” - come avremo modo di vederenel secondo capitolo. Ma ancora prima di studiare gli antefatti storico-culturali che hanno permes-so la strutturazione di tali paradigmi e di analizzarne alcuni attraverso la loro concezione del“bisogno di assistenza” - e dunque ancor prima di poter cogliere la portata esplicativa di questeteorizzazioni - pare necessario fornire al lettore alcuni elementari strumenti della filosofia dellascienza che gli consentiranno di cogliere il piano della scientificità dell’infermieristica. È questoquindi l’obiettivo del presente paragrafo che adotta esplicitamente la prospettiva epistemologica diKarl Popper e il suo superamento ad opera di Imre Lakatos.

1.2.1 Una contestualizzazione di ordine generaleChe cos’è la scienza? A questa domanda potremmo rispondere senza timore di sbagliare che lascienza è uno dei modi che l’uomo si è dato nel corso della sua storia per acquisire una maggioreconoscenza sul mondo che lo circonda. Sin dall’antichità l’ideale di questo tipo di conoscenzad e ll’uomo corrispondeva con la “verità”, con la certezza data alle proprie affermazioni vagliate e“verificate” dalla prova dei fatti. Per Popper, la “conoscenza scientifica” può essere consideratacome senza oggetto, in quanto rivolta a tutti gli ambiti del reale. Essa, scrive Popper, «può essereconsiderata come un sistema di t e o r i e su cui noi lavoriamo come lavorano i muratori su una catte-drale. Lo scopo è di trovare teorie che, alla luce della discussione critica, si avvicinino il più possi-bile alla verità. Così lo scopo della scienza è l’aumento di contenuto di verità delle nostre teorie3 4» .

La teoria scientifica - come abbiamo già avuto modo di affermare - nasce dal tentativo di volerrisolvere un “problema”. «La mia tesi - scrive Popper - è che possiamo pienamente comprendere imetodi delle scienze sia naturali sia sociali solo se riconosciamo che la scienza prende le mosse dae approda sempre a problemi. Il progresso della scienza consiste, essenzialmente, nell’evoluzionedi questi ultimi. E può essere misurato considerando la loro crescente precisione, ricchezza, fecon-dità e profondità. [...] Comprendere una teoria significa, sostengo, considerarla come un tentativo

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di risolvere un certo problema. […] Il problema che una teoria si propone di risolvere può esseresia pratico (come trovare una cura o un modo per prevenire la poliomielite o l’inflazione), sia teo-rico, ossia un problema di spiegazione (per esempio, spiegare come si trasmette la poliomielite osi produca l’inflazione)35».

Lo studio scientifico di un certo problema implica dunque necessariamente lo sviluppo di unateoria, cioè di una “rappresentazione concettuale” della realtà che ci permetta di descrivere, spie-gare e prevenire, o risolvere, il problema che ha mosso il nostro studio. Certo in maniera sempreprovvisoria, ma si spera - grazie alla costante opera critica interna ed esterna - sempre più prossi-ma alla “verità” sul fenomeno che vogliamo studiare. Chiamiamo dunque questa complessa “rap-presentazione mentale” del nostro problema teoria - o, nel linguaggio di un altro noto epistemolo-go, Thomas Kuhn, “paradigma” di riferimento. Essa copre tutto il campo della specifica disciplinascientifica ed anzi ne determina la stessa costituzione. Per Kuhn, addirittura, è l’esistenza stessadel “paradigma” che sancisce il passaggio da una riflessione pre-scientifica ad una scientifica36.Il costruirsi di una “comunità scientifica” avviene per il coagularsi degli “esperti” attorno ad unparadigma - paradigma senza il quale ogni ricerca, per avere luogo, dovrebbe chiarire ogni voltain partenza i termini di riferimento essenziali del problema oggetto di studio.

Una comunità scientifica consiste infatti per Kuhn di tutti coloro «che praticano una specializzazio-ne scientifica. In una misura che non ha riscontri in altri campi, costoro hanno ricevuto educazione eaddestramento simili; nel corso della formazione hanno assimilato la medesima letteratura tecnica ene hanno tratte in gran parte le medesime lezioni. [...] Nelle varie scienze vi sono diverse scuole, ossiacomunità che studiano il medesimo insieme di argomenti da punti di vista tra loro incomparabili. Mal’esistenza di scuole è, nella scienza, più rara che in altri campi; esse sono sempre in competizione traloro; e la loro competizione, di solito, ha breve durata. [...] All’interno di gruppi siffatti la comunica-zione è relativamente completa, e il giudizio professionale è relativamente unanime3 7» .

Per usare l’espressione di un’importante epistemologa kuhniana, Margaret Mastermann, occorredistinguere tre importanti “stadi” di questo sviluppo scientifico: la scienza del non-paradigma, lascienza del paradigma multiplo e la scienza del paradigma duale38. La scienza del non-paradigmaè lo stato di cose proprio dell’inizio dello sviluppo del pensiero su ogni aspetto del mondo; cioèallo stadio in cui non vi sono paradigmi che descrivano, spieghino e predicano l’oggetto studiatoed il suo campo applicativo. Questo stato di cose prescientifico è in netto contrasto, tuttavia, conla scienza del paradigma multiplo, con quello stato di cose in cui, lungi dal non esservi paradigmi,ve ne sono, al contrario, troppi. Questo stato di cose termina quando qualcuno inventa un paradig-ma che riesce a comprendere in modo più approfondito la natura del campo, probabilmenterestringendolo, ma comunque consentendo in esso ricerche più rigide e precise. Questo paradigmafa “crollare” o convergere paradigmi rivali, magari più superficiali o troppo generali, iniziando unlavoro scientifico avanzato entro una diminuzione dei paradigmi in competizione. Mastermannarriva ad ipotizzare uno stadio ideale nel quale vi siano unicamente due paradigmi in competizio-ne: è questo lo stadio della scienza del paradigma duale.

Dunque, mentre esiste u n a disciplina - intesa come campo strutturato del sapere attinente undato problema, o oggetto di studio - possono facilmente esistere diverse e diversificate teorie chela interpretano, la indagano e la attualizzano. Ma nel pensiero kuhniano, ciò che differenzia unadisciplina da una pre-disciplina, non è tanto la numerosità dei paradigmi o delle scuole di pensieroall’interno della comunità scientifica, quanto piuttosto l’assenza di disaccordo sulla comunematrice disciplinare dei loro sostenitori.

Una comunità pre-scientifica, secondo Kuhn, «è caratterizzata da una completa divergenza e daun disaccordo continuo sui fondamenti, al punto che riesce impossibile passare ad un lavoro parti-colareggiato e specialistico: le teorie saranno quasi tante quanti i ricercatori del settore e ciascunricercatore sarà obbligato a ricominciare da capo a giustificare il proprio particolare approccio.

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[…Al contrario, uno scienziato] deve essere acritico nei confronti del paradigma in cui lavora:solo così può concentrare i propri sforzi nell’accurata elaborazione del paradigma e nell’esecuzio-ne del lavoro altamente specializzato necessario a scrutare la natura in profondità39».

Il primo segnale di attività concettuale attorno ad un “problema” è certamente l’attenzione allinguaggio che lo definisce. Proprio come fanno gli infermieri italiani in questi anni, spaccando ilcapello in quattro e continuando a chiedersi cosa significa la tal cosa (il bisogno di assistenza, ladiagnosi, il protocollo, la cartella infermieristica, ecc.) e cosa la differenzi da tal altra (il problemadi salute, l’obiettivo, la procedura, il piano di assistenza, ecc.). Gli epistemologi definiscono latecnicità di questo lessico come “monosemica”, tale cioè da non lasciare spazio di fraintendimentosul significato cui vuole alludere.

Per l’epistemologo italiano Evandro Agazzi «la ragione [...] per cui la creazione di un lin-guaggio tecnico appare condizione fondamentale per il costituirsi di una scienza si può ritenerela seguente: la creazione di un linguaggio tecnico risponde, prima ancora che ad esigenze diconcisione e di chiarezza, a finalità di “circoscrizione” degli ambiti di significato entro cui ogniscienza intende istituirsi come discorso fornito di senso, il che equivale, d’altro canto, al prov-vedersi di propri “oggetti”. In altri termini, non si tratta per nulla di aver bisogno di superareuna presunta “imprecisione” del linguaggio comune, quanto piuttosto di “determinare” un usodi termini che istituisca un ben delimitato orizzonte semantico e quindi, in ultima istanza, u na l t ro l i n g u a g g i o4 0». Ogni disciplina, infatti, si costituisce perché «nel vasto ambito della“realtà”, ritaglia dei suoi propri “oggetti”, e ciò avviene mediante fissazione di criteri particolariper attribuire significati ai termini del linguaggio, per eseguire verifiche circa l’accettabilità omeno di proposizioni, per ammettere certe generalizzazioni, inferenze, ecc.; inoltre, ciascunadisciplina ha un proprio corpo di ipotesi interpretative, in base alle quali viene tentata una spie-gazione dei fatti che essa indaga4 1» .

1.2.2 La Metodologia dei programmi di ricerca scientifici di Imre LakatosA più di venticinque anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1974, il contributo di Lakatos all’epi-stemologia è ancora fonte di profondo interesse. Per il nostro scopo ci soffermeremo su una delleintuizioni più importanti del suo pensiero - la Metodologia dei programmi di ricerca scientifici -servendocene per fornire una chiave interpretativa della storia interna dell’infermieristica, e più inparticolare, per disegnarne la sua struttura concettuale.

Giustificazionismo e falsificazionismoLa Metodologia dei programmi di ricerca scientifici di Lakatos (di seguito anche MPRS) è unasorta ad un tempo di superamento e di sintesi di due importanti scuole epistemologiche: il giustifi -cazionismo e il falsificazionismo popperiano. Tanto il giustificazionismo quanto il falsificazioni-smo sono forme di conoscenza “attiva” - opposte alle teorie della conoscenza passiva, per le qualila mente dell’uomo è una tabula rasa nella quale l’esperienza costruisce il conoscere.

Ma queste scuole sono anche entrambe avverse alla corrente - peraltro antichissima - degli scet -tici, cioè di coloro che affermavano che siccome non c’è, e non può esserci, alcuna forma di cono-scenza pienamente dimostrata, allora non esiste alcun tipo di conoscenza42. Il principale sostenito-re contemporaneo di questa scuola - nota anche come anarchismo o relativismo epistemologico - èPaul Feyerabend, autore, tra l’altro, di Contro il metodo43. Per la cronaca, nonostante le posizioniintellettualmente avverse, Feyerabend fu anche un intimo amico di Lakatos - come testimonia ilsaggio curato recentemente da M. Motterlini che racchiude alcune lezioni ed un interessantissimoepistolario scambiatosi tra i due44.

Ma torniamo alle tesi contrapposte del giustificazionismo e del falsificazionismo. Il g i u s t i f i c a z i o -n i sm o è stato una forma debole della scuola induttivista - che non staremo in questa sede a riprend e r e4 5.

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Per le sue due principali espressioni, il razionalismo e l’empirismo “classico”, la conoscenza scien-tifica consisteva in proposizioni dimostrate. Per i razionalisti la dimostrazione avveniva in quantole proposizioni dovevano essere “verificate” innanzitutto dalla logica, mentre per gli empiristi lagiustificazione di una teoria o di una proposizione avveniva unicamente dagli h a rd facts, da propo-sizioni fattuali “pure e semplici”, rigettando come “metafisiche” e come “prive di senso” tutte quel-le affermazioni che non lo fossero. L’onestà scientifica dei giustificazionisti richiedeva di conse-guenza che non si potesse affermare scientificamente nulla che non fosse dimostrato. È questo ilcontenuto del “principio di verificazione”46 proposto dal positivismo logico, per il quale, in sostan-za, un enunciato è significante se e solo se può essere verificato dai fatti4 7.

Tuttavia il giustificazionismo subì delle pesanti smentite: i razionalisti vennero sconfitti dallageometria non-euclidea e dalla fisica non-newtoniana, gli empiristi dal crollo del metodo indutti-vo. Il risultato fu, come scrisse Popper, la smentita del “principio di verificazione”: «Il vecchioideale scientifico dell’epistéme - della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile - si è rivelatoun idolo48». Le teorie scientifiche «sono, e restano, delle ipotesi, delle congetture (dòxa), contrap-poste alla conoscenza indubitabile (epistéme)49».

Un ultimo tentativo di salvataggio del principio di verificazione fu attuato dal p ro b a b i l i s m o, oneogiustificazionismo, che - principalmente con la scuola di Cambridge - affermava diversi gradidi probabilità all’evidenza empirica disponibile in una teoria. Di conseguenza, per i probabilisti,l’onestà scientifica consisteva semplicemente nel sostenere unicamente teorie altamente probabi-li. Ma anche il probabilismo si rivelò insufficiente. Per Lakatos, fu proprio il pensiero di Poppera rivelare «che in condizioni assolutamente generali tutte le teorie hanno probabilità zero, qua-lunque sia l’evidenza; tutte le teorie non solo sono egualmente non dimostrabili, ma ancheegualmente impro b a b i l i5 0» .

Dal canto suo, il principio di falsificazione, formulato da Karl Popper in opposizione al princi-pio di verificazione dei giustificazionisti, afferma che un’ipotesi o una teoria è già genuinamentescientifica se permette la sua smentita una volta messa alla prova dei fatti. Mentre il principio diverificazione neopositivista del circolo di Vienna asseriva il non-senso della conoscenza nonscientifica in quanto non empirica, il principio di falsificazione popperiano è proposto come crite-rio di demarcazione (e quindi non di significato) tra affermazioni falsificabili, e dunque scientifi-che, e affermazioni non falsificabili, e dunque non-scientifiche - come ad esempio tutte le formedi conoscenza culturale, prima fra tutte la metafisica che non viene di conseguenza ad essere nega-ta o vilipesa, ma semplicemente separata dalla scienza. Scrive Popper: «Io ammetterò certamentecome empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere c o n t ro l l a t o d a l l ’ e s p e r i e n z a .Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere laverificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esi-gerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la suaforma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in sensonegativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza51».

Tra il ragionamento tipicamente verificazionista e quello falsificazionista è da segnalare unafondamentale differenza detta assimmetria logica . Questa assimmetria è evidente dalla sempliceconstatazione del fatto che pur con miliardi e miliardi di conferme, una teoria non potrà mai dirsicerta, mentre un solo evento o fatto negativo, ossia contrario alla teoria, basta per falsificarla.L’assimmetria logica ci porta ad approfondire un potente strumento della logica classica “alservizio del controllo delle teorie”: il modus tollens . «Lo schema argomentativo di una conferma- spiega infatti Antiseri - è logicamente non conclusivo, mentre quello di una smentita è logica -mente conclusivo (anche se non lo è metodologicamente). Il ragionamento che porta alla smentitadi una teoria è una vecchia conoscenza della logica classica: è il modus tollens, un’argomentazio -ne logica (un’argomentazione, cioè, in cui la conclusione segue necessariamente dalle premesse)

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che dalla falsità di almeno una delle conseguenze risale alla falsità delle premesse». In realtà ilmodus tollens - che ha la sua classica esplicitazione nella formula riportata nella Tabella I - è unamacchina logica al servizio del controllo delle teorie. «Ovviamente - continua Antiseri - nel con-trollo di una teoria non esiste solo la logica; la metodologia - con la precisazione di scopi, lo stabi-limento di regole, ecc. - è di certo più ricca della logica. E nella storia della ricerca ci sono sem-pre più cose che in logica e in metodologia52».

Tuttavia, nel suo saggio su La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifi -ci, Lakatos compie alcune importanti diversificazioni all’interno del programma falsificazionista:in primo luogo tra falsificazionismo dogmatico e metodologico, e in quest’ultimo tra un falsifica-zionismo “ingenuo” ed uno “sofisticato” dal quale muove la riflessione verso la sua M P R S. Ilpunto di partenza è comunque, per Lakatos, a favore del falsificazionismo popperiano: questi era«in un certo senso, una nuova e considerevole ritirata per il pensiero razionale. Ma poiché era unaritirata da standard utopistici, spazzò via molta ipocrisia e pensiero confuso, e così rappresentò inrealtà un passo avanti53».

Tra falsificazionismo ingenuo e sofisticato spiccano differenze importanti soprattutto in meritoalle regole per la falsificazione di una teoria. Per l’ottica ingenua una teoria è falsificata semplice-mente da un asserto “osservativo” consolidato che sia in conflitto con essa (o in altre parole che sidecide di interpretare come in conflitto con la teoria). Per l’ottica sofisticazionista, invece, unateoria scientifica è falsificata solo in presenza di un’altra teoria che manifesti più contenuto dellaprecedente. «Per il falsificazionista sofisticato - spiega Lakatos - una teoria scientifica T è falsifi -cata se, e soltanto se, è stata proposta un’altra teoria T I con le seguenti caratteristiche: 1) T I haeccedenza di contenuto empirico rispetto a T, ossia, essa prevede fatti nuovi, ossia fatti improbabi-li alla luce di T o anche da essa vietati; 2) T I spiega il successo precedente di T, ossia, tutto ilcontenuto confutato di T è incluso (entro i limiti dell’osservabile) nel contenuto di T I; 3) parte delcontenuto eccedente di T I è corroborato54».

Le prime regole per l’accettabilità di una teoria sono date dal suo aumento di contenuto empiri -co rispetto alle precedenti teorie: in altre parole deve portare alla scoperta di fatti nuovi, spiegandotutti quelli della teoria rivale. Mentre queste regole possono essere controllate istantaneamente daanalisi logiche la terza, che concerne la richiesta di una verifica quantomeno parziale di questoeccesso, può richiedere un lasso di tempo indeterminato.

Il falsificazionismo sofisticato, pur riconoscendo i propri debiti alle scuole epistemologiche chel ’ hanno preceduto, fornisce dunque un nuovo criterio di onestà intellettuale: specificare con

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Tab. I. La formula logica del modus tolles.

[(t → p) ^ ¬ p] → ¬ t

dove: → significa: “implica”^ significa: “e”¬ significa: “non”

La formula, quindi, viene letta in questo modo: “Data la teoria t ne deduciamo la conseguenza p; e vediamoche p non si dà; ciò implica che neppure t si dà”, e quindi la teoria t sotto controllo è falsa, o meglio èstata fatta-falsa, cioè falsificata.

Modificato da Dario Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet Libreria, Torino, 1996, pp. 55-56.

p r e c isione le condizioni alle quali si accetta di rinunciare alle proprie posizioni, con la regolaassoluta di Popper: «Escogita congetture che abbiano un contenuto empirico superiore alle prece-denti: non preoccuparti degli errori, ma sii spietato nell’eliminarli55».

Di fronte alle anomalie Popper ammette che si possa tentare il salvataggio della teoria medianteipotesi ausiliarie che cerchino di spiegare e superare progressivamente tali anomalie. Tuttavia, vi ère g resso scientifico quando si ricerca la sopravvivenza di una teoria opponendo alla critica semplicistratagemmi convenzionalistici che nulla aggiungono ai fatti predetti, ricorrendo ad esempio a sem-plici artifici linguistici. Tali ipotesi, che Popper definisce ad hoc, sono negative in quanto non per-mettono l’eliminazione della teoria e soprattutto, ne impediscono il superamento ritardando l’elabo-razione di una teoria più complessa, comprensiva delle spiegazioni alle anomalie di quest’ultima.

La ricerca scientifica secondo Popper esige dunque regole “oneste” nella difesa e “severe” nel-l’accusa. Contro le ipotesi ad hoc e l’epistemologia conservatrice di coloro che si “incancrenisco-no” in una teoria divenuta preconcetto, Popper richiama l’onestà intellettuale del ricercatore chedovrebbe operare la critica in primis contro il suo stesso impianto concettuale. Antiseri nota alproposito: «L’imperativo supremo dell’epistemologo conservatore è: salvate le teorie in auge, inogni possibile modo. L’imperativo supremo dell’epistemologo falsificazionista è rovesciate le teo-rie in auge in ogni possibile modo e cercate di inventare e provarne sempre di migliori56».

Ponendosi all’interno dell’ottica falsificazionista, Lakatos ne approfondisce il pensiero e neindividua i punti deboli. In una serie di Lezioni sul metodo tenute alla LSE (London School ofEconomics) nel 1973, pone due critiche di ordine storiografico al pensiero popperiano57. La primaconsiste nel fatto che Popper non spiega razionalmente la presenza di eventuali anomalie nella sto-ria di una teoria. Piuttosto tali anomalie, constata Lakatos, vengono di fatto accantonate inveceche essere utilizzate per la sua confutazione. La seconda osservazione direttamente conseguentealla prima è il dogmatismo nella scienza, ossia la tenacia con la quale una teoria viene mantenutain uso, ben al di là di quello che prevedeva Popper. Tuttavia, sostiene Lakatos, da un punto di vistalogico è invece possibile “giocare il gioco della scienza” secondo le regole di Popper: si evidenziaun problema, si elabora una teoria o un’ipotesi falsificabile per la sua risoluzione, si produce l’e-sperimento, si rigetta la teoria, se ne costruisce un’altra che viene anch’essa rigettata, e così via.Tutto ciò, annota Lakatos, è logicamente possibile: il problema è che nella realtà nulla di simile èmai successo; secondo il falsificazionismo popperiano dovremmo concludere che la scienza è irra-zionale e gli scienziati, rispetto all’onestà intellettuale del principio di demarcazione, immorali.

Con il falsificazionismo “sofisticato”, invece, la scientificità o meno di una teoria non concerneunicamente la teoria analizzata, ma anche tutte le teorie contemporanee ad essa, ed in particolarequelle che l’hanno preceduta e quelle che ne sono originate. Viene studiata non una teoria isolata,ma una serie di teorie. La centralità del concetto di “serie di teorie” nel falsificazionismo sofisti-cato come concetto basilare per la logica della scoperta, impone che si analizzino gli elementi dicontinuità che legano tali serie in programmi di ricerca, e le modalità per il continuo migliora-mento delle congetture. Tali riflessioni, per Lakatos, non possono avvenire proficuamente cheall’interno di una metodologia dei programmi di ricerca scientifici.

Innanzitutto il “Programma di ricerca scientifica” è individuato dal suo “nucleo” composto all’in-circa da un minimo di due ad un massimo di cinque postulati5 8 che è stato reso inconfutabile da unadecisione metodologica dei suoi pro t a g o n i s t i5 9. Esso costituisce l’h a rd core di tutta l’impalcatura con-cettuale della teoria e la sua caratterizzazione originale. Attorno al nucleo, con funzioni applicative edosservative, il programma di ricerca costruisce un’impalcatura di ipotesi ausiliarie, detta “cintura pro-tettiva”. Tale costruzione è quindi d’ordine applicativo e difensivo: verso di essa la comunità scientifi-ca indirizzerà la freccia del modus tollens piuttosto che contro l’intoccabilità dei postulati del nucleo.

Per Lakatos, è lo stesso programma di ricerca ad orientare metodologicamente il lavoro dei suoiappartenenti. Saranno vietate quelle ricerche che possano invalidare l’h a rd core della teoria,

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m e ntre verranno accolte quelle che, ponendo sotto controllo la cintura protettiva, mirano più celer-mente alla crescita del programma. «Un programma di ricerca - scrive infatti Lakatos - consiste diregole metodologiche: alcune indicano quali vie della ricerca evitare (euristica negativa), altrequali vie perseguire (euristica positiva)».

L’euristica negativa svela dunque, in negativo, quella porzione sostanziale del programma posta inposizione talmente centrale al tutto - ossia talmente coinvolgente l’intero impianto concettuale dellateoria - da essere resa “non confutabile” con una decisione previa dei suoi protagonisti. Tutti i pro-grammi scientifici hanno questo “hard core”, e tutti, attraverso l’euristica negativa, impongono ai pro-pri ricercatori, pena l’allontanamento dal programma, di non volgere le proprie speculazioni contro diesso, ma bensì contro l’articolato di ipotesi ausiliarie che, poste attorno a questo come una vera e pro-pria cintura di protezione, vengono di continuo sottoposte a verifica, migliorate e riadattate o, infine,sostituite del tutto. È dunque ovviamente questa seconda parte quella intesa come euristica positiva.

L’euristica positiva - scrive Lakatos - consiste in un insieme abbastanza articolato di proposte odi suggerimenti su come cambiare e sviluppare le “varianti confutabili” del programma di ricerca,su come modificare e sofisticare la cintura protettiva “confutabile.” L’euristica positiva del pro-gramma risparmia lo scienziato dal perdersi in un mare di anomalie ed ha inoltre l’importante fun-zione di permettere ai ricercatori la costruzione di modelli applicativi, cioè di rappresentazionisempre più complicate che simulano la realtà del fenomeno studiato: l’attenzione dello scienziatoè volta a costruire i suoi modelli seguendo le istruzioni che sono stabilite nella parte positiva delsuo programma. Un “modello” è dunque un insieme di condizioni iniziali che già all’inizio si sache si sarà obbligati a sostituire nell’ulteriore sviluppo del programma - e si sa anche, più o meno,come. Ciò mostra una volta di più, secondo Lakatos, come siano trascurabili le “confutazioni” diqualsiasi specifica variante in un programma di ricerca: la loro esistenza è pienamente prevista,l’euristica positiva funge qui da strategia che serve sia a prevederle, sia ad assimilarle.

Consideriamo quindi una serie di teorie T1, T 2 , T 3 , . . .TN. Ogni teoria aggiunge o modifica leclausole ausiliarie della teoria che la precede per meglio “accomodare” le anomalie rilevate da que-sta. Per Lakatos questa serie di teorie è p ro g ressiva teoricamente (ossia “costituisce unos l i t t a m e n t o-di-problema progressivo teoricamente”) se ogni nuova teoria ha contenuto empiricoeccedente rispetto alle teorie che la precedono. In altre parole, deve predire qualche fatto nuovo einaspettato. Diciamo poi che una serie di teorie progressiva teoricamente è anche p ro g re s s i v ae m p i r i c a m e n t e (ossia “costituisce uno slittamento-di-problema pro g ressivo empiricamente”) separte di questo contenuto empirico eccedente è anche, in certa misura, corroborato. In altre paro-le, se ogni nuova teoria conduce alla scoperta reale di qualche fatto nuovo. Infine, aff e r m i a m oche uno slittamento-di-problema è p ro g re s s i v o se è progressivo sia teoricamente che empirica-mente, e regressivo se non lo è60.

In conclusione, non solo le teorie scientifiche non nascono dal nulla, né tantomeno restanoimmutate per sempre, ma non potranno mai neppure essere definitivamente falsificate. La “cresci-ta della conoscenza” non avviene per accumulazione, come pensavano i positivisti, né per l’alter-narsi di periodi di “scienza normale” a periodi di rivoluzionari cambiamenti di paradigma comepensavano i kuhniani. Avviene invece per mezzo di s l i t t a m e n t i - d i - p ro b l e m a che possono essereprogressivi o regressivi e che determinano il crearsi di una “serie di teorie” che costituisce l’unicoparametro, storicamente dato, per la valutazione della validità o meno di una certa teoria spazio-temporale. L’intera storia della scienza - ed a maggior ragione la storia interna di una singoladisciplina - è stata e dovrebbe essere la storia dei vari programmi di ricerca in competizione: anzi,aggiunge Lakatos, quanto prima inizia la competizione tanto meglio è. La storia della scienza,soggiunge, non è mai stata e non deve diventare una successione di “periodi di scienza normale”61.Attraverso la storia dei programmi di ricerca così intesi, sarà possibile rintracciare a ritroso il filodella loro continuità, sino ai primordi della disciplina, ove esso era in genere adombrato.

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1.2.3 L’elaborazione di teorie scientifiche pergli infermieri: i “fatti” dell’infermieristica Ormai anche nel nostro Paese si è iniziato a parlare diffusamente dei dati di “evidenza scientifica”relativi all’assistenza. Sempre più spesso, per motivare le scelte assistenziali, ci si riferiscea l l ’Evidence Based Nursing, come a quell’insieme di conoscenze avvalorate da studi empirici con-trollati, che rafforzano la nostra conoscenza teorico-pratica su un certo problema assistenziale6 2.

Pur non avendo il tempo di presentare più approfonditamente l’EBN questo argomento ci invitaa meglio ribadire la necessità della teorizzazione anche nella prospettiva della clinica (ossia illegame tra la teoria e la pratica assistenziale al letto del malato) e dell’euristica (ossia il legame trala teoria e la ricerca di base ed applicata). Proviamo infatti a chiederci quali sono i “dati”, gli“eventi” o meglio i “fatti” del mondo reale che, in quanto infermieri, decidiamo di risolvere (nellanostra pratica clinica) o di mettere sotto la lente d’ingrandimento (nella nostra ricerca) per poterli“descrivere”, “misurare” e presentare sotto forma di “dati” scientifici. Chiediamoci allora, a titolodi esempio: che cosa ci interessa sapere di un paziente appena ricoverato? A quali domande loesporremo per pianificare la nostra assistenza? Gli chiederemo se fa il tifo per l’Inter? Se è con-tento del suo lavoro? Forse il suo numero di scarpe?

Il guaio è, come scrive Antiseri, che «i fatti nel mondo sono infiniti. Ma cos’è che ha il potere distrappare un fatto qualsiasi dal limbo dei fatti del mondo per farlo diventare un fatto di rilievo, unfatto import a n t e? A questa domanda non è difficile rispondere. Non è difficile poiché è facilecomprendere come un fatto è sempre un fatto relativo a una teoria e una teoria è sempre relativaad un problema. Sono le teorie o congetture (avanzate quali proposte ad una domanda, cioè ad unproblema) a comandarci di guardare a certi fatti piuttosto che ad altri, di prendere in considerazio-ne determinati eventi piuttosto che altri, di puntare l’attenzione su certi fenomeni piuttosto che sua l t r i6 3». Anche Nietzsche afferma che di per sé i fatti sono stupidi: sono le teorie ad essere, omeno, intelligenti. Senza teorie, insomma, i fatti restano muti; senza teorie, anche l’infermiere nellasua pratica e nella sua ricerca non saprebbe che cosa cercare (e questo, come vedremo meglio nelproseguo, non perché la teoria viene “applicata” alla pratica, ma al contrario perché viene di conti-nuo ri-costruita e ri-formulata nella pratica: in altre parole è essa stessa una forma di pratica).

In precedenza abbiamo visto come una teoria innanzitutto descrive il proprio problema - ancorprima di poterlo spiegare, predire e risolvere - attrezzandosi all’uopo con un linguaggio monose-mico per circoscrivere il proprio campo applicativo e permettere di vederlo sotto un’ottica diversae più approfondita. In tal modo la teoria permette al professionista o al ricercatore, di scegliere enominare propriamente i fatti importanti in esso contenuti consentendogli di diventare “dati” dievidenza scientifica, che a loro volta potranno essere falsificati e confutare, in tutto o in parte, lateoria che ne ha consentito l’identificazione.

Continua Antiseri: «il termine “fatto” è participio passato del verbo “fare”. Ed è epistemologica-mente corretto parlare, sia nella vita quotidiana che nella scienza, di “fatti” piuttosto che di “dati”,anche perché ogni “dato” è un “fatto”. I f a t t i sono f a t t i perché s o n o stati f a t t i. Ma: “Fatti” dachi?, “Fatti” da che cosa? Ebbene, la risposta corretta a tale interrogativo è che i fatti della scien -za sono stati fatti dagli scienziati e che gli strumenti con cui gli scienziati istituiscono i “fatti”, licostituiscono e ne specificano eventualmente il comportamento sono concetti e teorie. [... In altreparole] se esistono “fatti scientifici”, fatti che il ricercatore sceglie per il controllo delle sue ipote-si, è perché altri concetti ed altre teorie li hanno prima istituiti e costituiti: li hanno cioè fatti64».Consideriamo un oggetto qualsiasi, una mela, per esempio. Una mela è una mela: questo è certoperché tautologico. Che cosa sia una mela in sé e per sé, nella sua immutabile essenza (se questac’è), lo sa solo Iddio. Cosa, invece, sia una mela per noi che cerchiamo di conoscerla attraverso ilragionamento scientifico, ce lo dicono i diversi predicati di essa predicabili, inseriti in specificheteorie, controllabili con tipiche tecniche di prova, e che di volta in volta (cioè storicamente) ci per-mettono di individuare sempre meglio (cioè sempre più approfonditamente e sempre più

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e s a t t amente) una mela e di distinguerla (definirla) dagli altri tipi di frutta o dagli infiniti oggettidel mondo. «Una mela - continua Antiseri - è un fatto che viene continuamente rifatto (dalle teo-rie); la mela di Adamo non è quella di Newton; e la mela di oggi, dopo le teorie di fisiologia vege-tale e genetiche, è molto di più della mela di Newton. E quel che vale per la mela, vale per l’ato -m o, l’o c c h i o, la b a l e n a, la m a t e r i a, il l i n g u a g g i o, il M e d i o e v o, la s p e c i e b i o l o g i c a, la s i f i l i d e,C a r l o M a g n o, lo s p a z i o, P l a t o n e, la re s p i r a z i o n e, il R i n a s c i m e n t o [ed infine, aggiungiamo noi,vale anche per l’assistenza infermieristica e per gli stessi filosofi della scienza...]; ogni fatto è unacostruzione (o, come si dice, un’interpretazione); ogni “dato” è un costrutto che viene dato perchéè stato prima fatto. Ogni fatto, in questo senso, è un artefatto. E questi artefatti, che sono i “fatti”della scienza, non sono mai dati una volta per tutte, non sono mai finiti: i fatti sono artefatti che dicontinuo vengono rifatti attraverso demolizioni e ricostruzioni concettuali».

Queste considerazioni ribadiscono il grandissimo potere e l’intrinseco limite congetturale delleteorie; potere e limiti che possiamo facilmente rintracciare nella storia di tutte le grandi disciplinescientifiche. Domandiamoci, a titolo d’esempio, “che cos’è l’atomo”. Noi potremmo rispondere atale quesito con la storia delle teorie che lo hanno studiato. Era la particella elementare indivisibileper gli antichi greci (appunto l’a-tomo), era solo una finzione per molti fisici ancora all’inizio delsecolo scorso (per Mach, ad esempio) mentre era una realtà per altri (Boltzmann, Bohr) che hannoelaborato successive teorie (e modelli) man mano più complessi attorno alla sua difficile struttura.I fatti della scienza, dice Antiseri, sono la loro storia.

Ora, per concludere questo paragrafo sull’importanza della teorizzazione per l’emergere dei fattidella scienza, se provassimo a sostituire alla parola “fatti” la parola “assistenza infermieristica” o,meglio ancora, se ci domandassimo cosa siano questi fantomatici “bisogni di assistenza infermie-ristica” (e come possono avere l’ardire di costituirsi quali “fatti” osservativi al di fuori della teoriamedica), potremmo misurare immediatamente il margine della nostra ignoranza. La risposta a taliinterrogativi, infatti, non è per nulla avulsa dalla formazione, dal vissuto personale e dall’idea checiascuno di noi si è autonomamente creato su di essi. Eppure la realtà dell’assistenza benché nonancora interpretata è una realtà che tocchiamo con mano tutti i giorni, nella quale operiamo quoti-dianamente e dalla quale riportiamo il convincimento che ci sia “qualcosa di più”, o di diverso,dalle altre professioni sanitarie che concorrono alla salute del paziente.

Già vent’anni fa, Evelyn Adam annotava nel suo libro Essere infermiera: «le nostre radici stori-che e tradizionali sono certamente profonde; la nostra eredità religiosa e militare, conosciuta; lenostre radici teoriche sono, tuttavia, meno solide e meno nutrite. Un albero mal radicato rischia dipresentare dei rami e delle foglie dall’apparenza fragile, che si lasceranno scuotere facilmente daicambiamenti climatici; la stessa cosa succede anche ad una professione: senza fondamenti teoricisolidi, essa si vede sballottata dai venti di contestazione prevenienti dai mutamenti profondi di unasocietà in evoluzione. La nostra identità si preciserà rafforzando le radici teoriche che trovano illoro punto di partenza in una concezione globale della professione. […] Quanto alla scienza infer -mieristica, essa è da sviluppare; secondo Roy e Roberts65, si avrà scienza infermieristica quandola disciplina infermieristica avrà definito la parte di conoscenze che le è propria. […] Pertanto, lamaggior parte delle infermiere, le più rivoluzionarie come le più sottomesse, sono d’accordo neldire che il loro lavoro non si limita all’esecuzione delle prescrizioni mediche, ma che “è più diquesto”. Ora è necessario esplicitare questo “più di questo” 6 6».

Dunque, l’adozione esplicita di un “quadro teorico” di riferimento si rivela condizione indispen-sabile al completamento del processo di professionalizzazione degli infermieri italiani. Ed è pari-menti chiaro che la migliore teoria - adottata o costruita ex novo - sarà sempre un obbligo, unacondizione vincolante che se da un lato permette l’inquadramento del problema, l’utilizzo di unlinguaggio monosemico e la critica interna ed esterna alla comunità scientifico-professionale, dal-l’altro è pur sempre percepibile come una delimitazione concettuale. Ma attenzione: non riconoscere

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alcun paradigma disciplinare per la propria pratica non significa affatto essere liberi da ognicondizionamento: in assenza di una teoria esplicita valgono le abitudini, le credenze ed il buonsenso preesistenti, essi stessi facenti funzione di “modelli”, o “cornici” di riferimento per l’agirequotidiano dell’infermiere.

Chiedete ad un gruppo di infermieri di rispondere su un foglietto anonimo alla ormai notadomanda “Che cos’è l’assistenza infermieristica?”. È probabile che non pochi avranno difficoltà adefinire lo specifico della loro attività professionale e, nella maggioranza dei casi, il risultato com-plessivo che otterrete sarà un vastissimo ventaglio di “opinioni” solo in minima parte confrontabilicon le teorie riconosciute in letteratura. Ebbene, tutte queste “opinioni” esprimono altrettante “cor-nici” intellettuali alcune delle quali sicuramente ricchissime di contenuto esperienziale ed umano,ma non certo in grado di intendersi e di confrontarsi l’un l’altra. È poi probabile che proverete unconforto passeggero nel constatare che la parola più frequentemente utilizzata nelle risposte siaproprio la parola “bisogno” o un suo sinonimo. Ma subito si apre un nuovo orizzonte di confusio-ne quando dovrete affrontare l’ampiezza semantica che gli infermieri danno a questo termine,andando dai bisogni fisici, psicologici e sociali, ai bisogni di salute; dai bisogni complessivi aquelli globali; dai bisogni di assistenza a quelli di educazione sanitaria; dai bisogni fondamentalie/o non fondamentali a quelli prioritari e/o secondari; dal bisogno di aiuto a quelli non megliodefiniti che “bisogni specifici”, e via di questo passo.

Gli stessi infermieri intervistati, di fronte ad una tale variabilità di opinioni personali, di termini e did i fferenti prospettive professionali, resteranno perplessi e un po’inibiti. Eppure, potrebbero chiedersi,essi prestano quotidianamente assistenza, si confrontano e si capiscono con i colleghi della propriaUnità operativa. Dopo un attimo di disorientamento la prima giustificazione che in genere sorge dalgruppo è che, in fondo, “ai nostri tempi nessuno ci ha mai parlato di queste cose”. Per queste genera-zioni di infermieri - che includono la nostra - l’assistenza infermieristica non si imparava a scuolacome la medicina o la farmacologia. Essa veniva appresa “sul campo”, inserendosi nella routine deireparti e facendo e rifacendo ciò che facevano gli infermieri. L’apprendimento clinico del tirocinioavveniva per imitazione, mentre la sua valutazione avveniva in virtù della conformità o meno dell’in-sieme del comportamento dello studente ad un chiaro - ma mai esplicitato - ideale di infermiere posse-duto dalla caposala, dai monitori o dalla direttrice della Scuola. Tale “ideale” era variamente compo-sto di aspetti personali e professionali che comprendevano l’operosità, la moralità, la devozione, lasottomissione, l’efficacia e l’efficienza. Così poteva avvenire che, a seconda di quale di questi ele-menti fosse prevalente in questa o quella caposala i giudizi di merito dello studente potessero variarenotevolmente, ingenerando nello studente insicurezza e un certo grado di preoccupazione.

Eppure assistiamo i pazienti e, probabilmente, anche ad un buon livello qualitativo, ma nellamaggioranza delle Unità operative la nostra assistenza è ancora e solo un “saper fare”, un sapere“praticamente pratico”, direbbe Maritain, piuttosto che “speculativamente pratico”, come dovreb-be essere per le discipline pratiche. In questo stadio di evoluzione della nostra professione, la pras-si, le abitudini e le tradizioni organizzative - spesso di dubbia efficacia - guidano tanto l’erogazio-ne clinica dell’assistenza quanto l’apprendimento e la valutazione della qualità professionale deisingoli infermieri. A proposito di qualità, un vecchio detto del management dice che essa si risolvein tre passaggi ben documentati: «Saper dire quello che si fa. Fare quello che si dice. Dimostrarequello che si fa». Ebbene: come facciamo a dimostrare la qualità delle nostre prestazioni (maanche il loro carico di lavoro o la loro efficacia ed efficienza, ecc.) se non sappiamo nemmenodescrivere cosa facciamo in modo univoco e condiviso?

Così, se volessimo aprire una parentesi ed usare gli stadi evolutivi della Mastermann per leggerela nostra realtà disciplinare, dovremmo convenire che a livello internazionale - e in una frangiaminoritaria della riflessione accademica italiana - siamo indubbiamente nel secondo stadio evolutivodella nostra disciplina, quello definito appunto lo stadio del “paradigma multiplo”. A l i v e l l o

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o p e r ativo, invece, dovendo considerare l’uso di tali paradigmi a livello empirico nelle nostreUnità operative, dobbiamo riconoscere che nella stragrande maggioranza delle realtà si sia ancoranel livello precedente, quello “pre-paradigmatico” - che essendo appunto tale, è per definizioneanche pre-scientifico e quindi, pre-professionale...

Certamente una tale constatazione non fa piacere. Gli infermieri della vecchia guardia, quellidella nostra generazione formatasi nelle scuole regionali, hanno un aggettivo qualificativo sul tito-lo di studio a cui tenevano moltissimo e che ormai è giustamente decaduto divenendo lapalissiano:“Infermiere professionale”. Come è noto tali scuole e questo titolo risalgono al lontano 1925: illegislatore, e poi la stessa gente comune, hanno iniziato a chiamarci “professionali” trent’anniprima dell’istituzione dei Collegi, cinquant’anni prima che venisse introdotta nei programmi dellescuole regionali la materia di “tecniche infermieristiche” (con gli accordi di Strasburgo) e ses-sant’anni prima dell’inserimento della formazione di base nelle Università.

Anche a causa di questa particolare storia interna, tra gli infermieri permane radicata l’illusione dipoter parlare ancora dell’assistenza infermieristica senza prima aver chiarito di quale condizionamentovogliamo soffrire: se di tipo disciplinare (e quindi esplicitando una t e o r i a di riferimento attraverso laquale permettere la critica dei risultati pretesi) oppure pre-disciplinare. Perché infatti, nell’uno e nell’al -t ro caso non possiamo agire al di fuori di una “cornice” anche solo tradizionale, abitudinaria, norma -tiva o religiosa che definisca la nostra identità accanto al paziente. In altre parole, dobbiamo fortemen-te ribadire che sono “cornici” di riferimento anche l’idea di assistenza magari implicita o ingenuamenteespressa come tale dell’anziana infermiera o caposala che mai ha sentito parlare di disciplina infermie-ristica - eppure è una bravissima infermiera - o quella, espressa sempre indirettamente, ma meno inno-centemente, da alcuni medici (o da altre figure sanitarie o amministrative) che hanno dell’infermieraun’idea ancillare meramente esecutiva (“paramedica” sic et simpliciter, così ben descritta ad esempiodal DPR 225 del 1974, il vecchio “mansionario” dell’infermiere professionale), o ancora infine quell’i-dea chiara e ben delineata presente negli ordini religiosi dedicati all’assistenza agli infermi.

Tutte queste sono “cornici”, sono “teorie” che offrono una risposta ideale e pratica alla domandasu cosa sia l’assistenza infermieristica e su cosa sia e cosa debba fare di conseguenza l’infermiere.Occorre dunque chiedersi: quale è la differenza tra una cornice che abbia la presunzione di dirsiscientifica ed una che non lo sia? La differenza, risponderebbe Popper, è che la cornice scientifica- a differenza di quella opinionale dettata dal buon senso, dall’opportunità, dalla religione o dallanormativa - offre, attraverso le proprie regole, la possibilità di falsificare i propri asserti fonda -mentali (e di identificare chiaramente quelli che non lo sono): essa, infatti, deve esplicitare e ricer-care quelle condizioni empiriche che, se realizzate, conseguiranno la sua falsificazione.

Ritorneremo più avanti - nel secondo e soprattutto nel quarto capitolo - a questa concezionedella scienza come “progresso di teorie”. Innanzitutto studiando la “Scuola dei bisogni”, che defi-niremo proprio come uno dei principali programmi di ricerca scientifici dell’infermieristica.L’analisi critica di questa “Scuola” ci porterà in un secondo momento a proporre una rilettura pro-blematica del concetto di “bisogno di assistenza infermieristica” all’interno di un nucleo teoricoche non nasconda le difficoltà concettuali di questo termine.

Adottando quindi l’impostazione falsificazionista, dobbiamo concludere che una teoria infer -mieristica potrà dirsi scientifica se viene permessa la critica ed il confronto empirico sui suoiasserti, in quanto per definizione si riconosce ogni teoria come approssimativa e perfettibile. Seinvece permaniamo nelle nostre cornici tradizionali, nelle nostre preconcezioni inespresse - e dun-que insindacabili - allora ogni sforzo per rendere confrontabile e criticabile il nostro agire saràvano, e l’apprendimento della professione (di base, complementare o apicale) non sarà acquisizio-ne critica del sapere, ma sarà - come è stato per secoli per le stesse donne, prima ancora che pergli infermieri ad esempio della nostra generazione - semplice imitazione comportamentale,p e d i s s equo adeguamento del sentire e del fare alle abitudini dominanti.

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1.2.4 Sul pericolo del “mito della cornice” anche per gli infermieriDi fatto, «noi affrontiamo qualsiasi cosa alla luce di teorie preconcette67». Come Nightingale risol-vette il problema dell’altissima mortalità da “malattie zimotiche” negli ospedali militari diCrimea, così l’infermiere contemporaneo risolverà, ad esempio, il problema della certificazionedella qualità della propria assistenza (in un regime di risorse limitate) se saprà rendere visibile edeconomizzabile il servizio che gli compete e sul quale egli è l’unica figura in grado di esprimeredecisionalità. Ma, di nuovo, egli potrà far questo solo quando sarà in grado di esplicitare ed imple-mentare un quadro teorico che gli permetta di generalizzare e confrontare i propri risultati conquelli di altre esperienze e dunque, se potrà consentire, tramite la discussione critica, la falsifica-zione dei propri asserti teorici.

Così, se da un lato necessitiamo di teorie o “cornici” che ci permettano di operare in modoscientifico, d’altro canto il proliferare delle teorie può portare al difficile o secondo alcuni filosofiimpossibile confronto tra cornici differenti. È questo il tema dell’incommensurabilità, ossia del-l’impossibile dialogo e paragone tra differenti teorie che è stato sostenuto da importanti filosofidella scienza tra i quali Kuhn e Feyerabend, mentre è stato combattuto vivacemente da altri, qualiad esempio Popper e Lakatos. Nel pensiero di Feyerabend la caratteristica fondamentale delloscienziato non è la razionalità, ma l’opportunismo, per cui la crescita della conoscenza avviene peropposizione (per “controinduzione”) a punti di vista che si ritengono diametralmente opposti ainostri - giungendo così non solo a ricondurre a pari dignità tutte le tradizioni all’interno dellascienza, ma anche a negare la superiorità di questa rispetto alle altre forme del sapere dall’arte allaastronomia, dai riti etnici alla cartomanzia68.

Popper è certamente il filosofo che meglio di altri, pur ammettendo la difficoltà del dialogo traparadigmi diversi, ha saputo evidenziare il rischio irrazionalista dell’incommensurabilità, che inmolti suoi scritti presenta come il “mito della cornice”. La possibilità di dialogo e confronto tra cor-nici diverse, afferma Popper, non è facile - e noi stessi constateremo questa difficoltà all’internodella “Scuola dei bisogni dell’infermieristica” - ma neppure impossibile, grazie allo strumento elet-to della c r i t i c a. Il primo passo consta nel rendersi conto della presenza e dell’influenza delle cornici(esplicitate in teorie o latenti nelle abitudini tradizionali) all’interno dei nostri gesti quotidiani enelle nostre relazioni con gli altri. Per Popper la nostra stessa civiltà occidentale «è l’esito di unoscontro o confronto tra culture diverse, e perciò di uno scontro o confronto tra cornici diff e r e n t i6 9» .

Le nostre stesse abitudini culturali possono essere concepite come una prigione, di cui a volteneppure ci accorgiamo. «Sono pronto ad accettare questa metafora - afferma Popper - per quantodebba aggiungere che si tratta di una strana prigione; normalmente non sappiamo di esservi rin-chiusi. Possiamo diventarne consapevoli attraverso lo scontro tra culture. Ma allora questa sempli-ce consapevolezza ci consente di uscirne. Se ci proviamo con sufficiente determinazione, possia-mo trascendere la nostra prigione studiando la lingua con cui veniamo in contatto e confrontando-la alla nostra. Certo, il risultato sarà una nuova prigione. E tuttavia, sarà più ampia e spaziosadella precedente. E di nuovo non ne soffriremo, o piuttosto, quando ci capiterà di farlo, saremoliberi di esaminarla criticamente, di evaderne e di passare a una prigione nuova e ancora piùampia. Le prigioni di cui parlo sono le cornici, e chi non ama restarsene recluso si opporrà al loromito. Poiché ciò gli assicura l’opportunità di scoprire le sue insospettate catene, di romperle e per-ciò di trascendere sé stesso, sarà felice di discutere con chi proviene da un mondo diverso, daun’altra cornice, sebbene evadere dalla propria prigione non sia certo questione di routine: nonpuò che essere il risultato di uno sforzo critico e creativo70».

Insomma, Popper ammette che in qualsiasi momento «siamo prigionieri, catturati nella retedelle nostre teorie; delle nostre aspettative; delle nostre esperienze passate; del nostro linguaggio.Siamo prigionieri in un senso pickwickiano: se tentiamo, possiamo fuggire dal nostro quadro inqualsiasi momento. Innegabilmente, ci troveremo ancora in un quadro, ma sarà un quadro

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m i g l i ore e più spazioso; e potremo di nuovo fuggire da esso in qualsiasi momento. Il punto centra-le è che una discussione critica e un confronto dei vari quadri è sempre possibile. È solo undogma, un dogma pericoloso quello secondo cui i diversi quadri concettuali sono come linguereciprocamente intraducibili. Il fatto è che perfino lingue totalmente differenti (come l’inglese,l’hopi o il cinese) non sono intraducibili e che ci sono parecchi hopi o cinesi che hanno imparato apadroneggiare molto bene l’inglese. Il mito del quadro è, nel nostro tempo, il baluardo centraledell’irrazionalismo che semplicemente esagera una difficoltà facendola divenire un’impossibilità.Si deve ammettere la difficoltà di discutere tra gente educata in diversi quadri. Ma niente è piùfruttuoso di una tale discussione, dell’urto di culture diverse che ha stimolato alcune delle piùgrandi rivoluzioni intellettuali71».

Ma perché insistere sul mito della cornice anche in campo infermieristico? Due ci sembranoi motivi principali. Il p r i m o è che l’infermieristica italiana va incontro giocoforza a quello sta-dio del suo sviluppo che la Mastermann chiamava “del paradigma multiplo”, ossia dell’esplo-sione di teorie e modelli concettuali di cui noi stessi riprenderemo una piccola selezione nelsecondo capitolo. Occorre quindi premunirsi ed avviare sin d’ora campi neutri di c o n f ro n t o edi dibattito critico, attraverso Convegni, riviste e ricerche specifiche, per evitare da un lato ilrischio della crescita a comparti stagni e dall’altro l’incomprensione della maggior parte degliinfermieri, che non comprenderebbe probabilmente queste diversità e critiche intestine. Ta l econfronto, evidentemente, trova nelle Università - più che nelle associazioni o nei centri di for-mazione - le sedi privilegiate.

Il s e c o n d o motivo per parlare del mito della cornice, è invece un costante esercizio di autocontrollo,un atteggiamento dubbioso ed autocritico che ciascuno di noi dovrebbe coltivare nei c o n f ronti dellep roprie convinzioni, delle proprie presunte certezze per evitare il rischio di credersi arrivato o “al disopra” di ogni miglioramento. Popper chiama “tossicomania da cornice” l’atteggiamento di chi è tal-mente avvinto dalla propria cornice (e qui vale la pena ricordare ancora che la cornice può essere inte-sa come teoria scientifica o come credenza, abitudine o cultura) che si reputa dispensato dal confrontocon gli altri, si convince di aver capito tutto o quasi e di aver finalmente fatto piazza pulita di tutti isuoi pregiudizi. Al proposito, riassumiamo le nostre conclusioni con un ultimo passaggio di Popper.1. L’idea che noi possiamo, volendolo, e in via preparatoria rispetto alla scoperta scientifica,

p u rgare la nostra mente dai pregiudizi - cioè da idee o teorie preconcette - è ingenua e sbaglia-ta. Soprattutto dalla ricerca scientifica impariamo che alcune delle nostre idee - l’idea che laterra è piatta o che il sole si muove - sono pregiudizi. Scopriamo che una delle nostre creden-ze è un pregiudizio solo dopo che il progresso della scienza ci ha portato ad abbandonarla;non esiste infatti nessun criterio in grazia del quale potremmo riconoscere i pregiudizi in anti-cipo rispetto a questo progresso.

2. La regola baconiana “purgatevi dai vostri pregiudizi” può dunque solo avere il pericoloso risul-tato che, dopo aver fatto uno o due tentativi, pensiamo realmente di essere finalmente liberi dapregiudizi, e questo naturalmente significa soltanto che ci attaccheremo più tenacemente ainostri pregiudizi e ai nostri dogmi inconsci.

3. Inoltre, la regola significa: “purgate la mente da tutte le teorie”. Ma la mente, così purgata, nonsarà una mente pura: sarà solo una mente vuota.

4. Noi operiamo sempre con teorie, anche se spesso non ne siamo consapevoli e l’importanza diquesto fatto non dovrebbe mai essere sminuita. Piuttosto dovremmo tentare, per ciascun caso,di formulare esplicitamente le teorie che sosteniamo: ciò infatti ci dà la possibilità di creareteorie alternative, e di discriminare criticamente fra due teorie.

5. L’osservazione “pura”, cioè l’osservazione priva di una componente teorica (e a maggior ragio-ne ogni classificazione) non esiste. Tutte le osservazioni - e, specialmente, tutte le osservazionisperimentali - sono osservazioni di fatti compiute alla luce di questa o quella teoria72.

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1.3 Le caratteristiche fondamentali del sapere infermieristicoFinora abbiamo trattato dell’infermieristica come se fosse a tutti gli effetti una disciplina naturali-stica. Al contrario, sin dal suo apparire in ambito accademico, essa è sempre stata universalmentericonosciuta come espressione di una sapere scientifico di tipo umanistico, senza con ciò negare osottostimare gli ormai indubbi margini di falsificabilità dei suoi asserti. L’infermieristica, infatti,condivide con molti altri saperi il problema dell’alterità e della insondabilità dell’uomo; in altreparole riconosce il limite della propria conoscenza nell’unicità della persona umana. Per tali moti-vi, in questo paragrafo cercheremo di delineare le caratteristiche fondamentali dell’infermieristicaspingendoci sino a studiare il contributo che l’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer può dareall’uso delle teorie infermieristiche nella prassi.

Come già per Jaspers nei confronti della medicina7 3, così noi - con rinnovata convinzione -affermiamo che l’infermieristica si costituisce come scienza e come ethos umanitario, facilitati inciò dal nostro stesso campo applicativo - per definizione l’assistenza stessa, lo “stare accanto”, lavicinanza solidale con l’altro che non può facilmente, né tantomeno impunemente, essere total-mente assorbito dallo sguardo oggettivante e tecnico della scienza moderna74.

Mentre la medicina ha progressivamente scelto di occuparsi dell’aspetto oggettivo della patolo-gia75, piuttosto che del suo versante soggettivo - e nella lingua inglese, ad esempio, tale differen-ziale semantico è reso dalla distinzione dei termini disease e illness - l’infermieristica, sin dai suoiesordi, ha affermato di occuparsi più della “cura” (to care) che della “guarigione” (to cure), pro-clamando come strettamente connesso alla sua pratica scientifica una componente di volta in voltachiamata artistica, spirituale o, infine, esistenzialista.

Per questo rinnovato slancio degli aspetti curativi dell’assistenza, oggi si usano molti slogancome ad esempio quello che reclama per l’assistenza un maggior investimento in higth touch piut-tosto che in higth tech. Ma certo in questa sede non possiamo accontentarci degli slogan.Inizieremo quindi cercando di collocare le grandi caratteristiche del sapere infermieristico nelleclassiche definizioni circa il suo oggetto di studio, il suo scopo e il suo metodo, non senza averrichiamato il problema irrisolto della distinzione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, ovvero lavexata quæstio sul problema della demarcazione.

1.3.1 Il problema della demarcazione e il ventaglio conoscitivo delle scienzeAbbiamo già avuto modo di notare come nel corso della storia della scienza siano stati propostidue principi risolutivi alla questione della demarcazione tra scienza e pseudoscienza: il principiodi verificazione e il principio di falsificazione. Il primo, lo ricordiamo, afferma ciò che è spessocondiviso dal senso comune: “la scienza dice la verità”. In termini più corretti il principio di veri-ficazione afferma che gli enunciati scientifici sono portatori di “significato” solo quando sianostati “verificati” da un severo controllo empirico, ossia resi “veri” alla prova dei fatti. Tutto il resto(ed è un “resto” importante; pensiamo alla filosofia, all’arte, alla mitologia ed alle varie convin-zioni religiose) è scientificamente parlando “privo di significato”. Tuttavia, come ormai sappiamo,questo principio assoluto si è dimostrato indifendibile: “verità scientifiche” che in un certomomento storico erano sembrate assolute ed eterne, sono state immancabilmente migliorate dadifferenti affermazioni, a loro volta apparentemente assolute ed eterne.

Il principio di f a l s i f i c a z i o n e, al contrario, propone di considerare come criterio di semplicedemarcazione (e non, attenzione, di significanza) la falsicabilità dell’asserto, dell’ipotesi o dellateoria che si dice scientifica. In altre parole, un enunciato o un’intera teoria è scientifica quando èsuscettibile di essere smentita dai fatti dell’esperienza, senza nulla togliere con ciò alla legittimitàe dignità di significato dei discorsi metafisici. Non vi è alcuna certezza di verità nella scienza, masolo il desiderio di avvicinarsi progressivamente alla verità, attraverso congetture teoriche semprepiù complete ed approfondite, ma non per questo meno provvisorie. Karl Popper scrisse al

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p r o p osito: «Con l’idolo della certezza [...] crolla una delle linee di difesa dell’oscurantismo [...]perché la venerazione che tributiamo a quest’idolo è di impedimento non solo all’arditezza dellenostre questioni, ma anche al rigore dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza sitradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta. Perché non il possesso dellaconoscenza [...] fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente ed inquieta della verità76».

Ma entrambi questi principi, come abbiamo visto, hanno incontrato difficoltà ed è diffusa tra ifilosofi della scienza la convinzione che non sia possibile distinguere in modo netto e definitivo lariflessione scientifica da quella metafisica. Il nuovo partecipato dibattito sposta l’attenzione deglistudiosi dal problema della demarcazione al problema della crescita della conoscenza, e dunqueprincipalmente alla questione della razionalità o meno del metodo scientifico. A Popper va il rico-noscimento della rivoluzionaria idea per cui “non possiamo mai sapere veramente, ma solo faredelle congetture” (sicché la tradizionale domanda dell’epistemologo come lo sai? appare solo “unvecchio quesito dogmatico”)77. Al post-popperismo va invece il merito di aver indicato il nuovoproblema della filosofia della scienza - ossia la sua nuova domanda centrale: come si migliora unacongettura? - convinti che essa darà abbastanza da fare ai filosofi per secoli. Ma ad essi va inoltreil merito di aver segnalato per tempo un problema che a parere di chi scrive non potrà non riguar-dare da vicino - oltre che i filosofi del diritto e della politica, gli educatori e i sociologi - coloroche assistono infermieristicamente l’uomo: «il problema di come vivere, agire e lottare, m o r i requando non ci si può affidare che a congetture78».

Possiamo allora concludere con Agazzi che «il concetto di scienza non è “univoco”, ma “analo -g i c o ”; ossia si applica con sfumature e accenti diversi ai diversi campi di oggetti. Ciò che restacostante nelle differenti applicazioni, è in primo luogo l’intento specificamente “conoscitivo” e, insecondo luogo, l’a s p i r a z i o n e a raggiungere una conoscenza oggettiva e rigoro s a. Ora, i punti divista concettuali mediante i quali si delimita l’ambito di oggetti che si vuole indagare, i metodi e glistrumenti con cui si stabiliscono oggettivamente i dati relativi a quel campo d’indagine e si control-la la veridicità delle affermazioni “fattuali”, e infine i tipi di argomentazione mediante i quali siespongono rigorosamente le “ragioni” delle affermazioni non immediatamente fattuali, variano dascienza a scienza. Quindi non è affatto vero che i discorsi scientifici debbano tutti basarsi sullaquantificazione, sulla misurazione, sull’uso di formule matematiche e non è detto quindi che chi sisente piuttosto allergico alle formule debba per questo sentirsi estraneo alla dimensione della scien-tificità (anche se, come di tutte le allergie, anche di questa sarebbe meglio non soff r i r e )7 9» .

Dunque le discipline scientifiche sono campi strutturati del sapere che ricercano una conoscen-za che si vuole massimamente oggettiva e rigorosa, ma non sono uniformemente definibili unavolta per sempre. In questo senso possiamo dire che l’infermieristica è scientifica non nel sensodelle discipline biomediche, ma nel senso delle discipline sociali, cioè nella misura in cui esprimereteorie ed ipotesi, in parte, ma non del tutto falsificabili. Ciò detto, è tuttavia possibile ricercare inogni disciplina alcune caratteristiche comuni che ci aiutino a confrontarle tra loro e a classificarle.Tre infatti sono i punti cruciali che differenziano ogni disciplina: a) il particolare e proprio o g g e t t odi studio, b) il suo s c o p o principale e c) il particolare p e rcorso metodologico, e gli strumenti e letecniche che, nel procedere del suo cammino, quel dato settore della conoscenza scientifica si ècostruito per meglio descrivere, spiegare e predire il proprio campo applicativo e raggiungere il suofine. Oggetto di studio, scopo e metodo costituiscono il più elementare schema d’analisi per l’ap-proccio a qualsiasi disciplina, e, nel contempo, permettono una prima - benché sommaria e provvi-soria - classificazione nella quale leggere l’originale posizione dell’infermieristica.

1.3.2 L’oggetto di studio. L’infermieristica è una disciplina umanisticaAttraverso l’oggetto di studio è possibile operare un’importantissima distinzione in base alla qualehanno trovato spazio per una progressiva affermazione le cosiddette scienze “umanistiche” a

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f i a nco delle consolidate e secolari scienze “naturalistiche” - già a loro tempo definite con unacerta affettazione “esatte” o ancora “positive” - quali la fisica, la chimica, la biologia, ecc. Come ènoto, infatti, le discipline umanistiche (le “scienze dello spirito”, o Geisteswissenschaften) hannonel corso degli ultimi secoli centrato la propria attenzione sui vari aspetti della realtà “uomo”, cosìparticolare, unica e diversa da ogni altra realtà conosciuta, da creare nel tempo sistemi integrati diconoscenze teorico-pratiche in settori ormai divenuti classici quali la psicologia, la sociologia,l’antropologia, la storiografia, ecc.

Invero, la tipizzazione attuale delle scienze umane è stata una conquista molto travagliata. Duesecoli fa, alle origini delle scienze etnologiche, il francese J.M. De Gérando scrisse ad esempioche la scienza umana non è altro che la più nobile fra le scienze d’osservazione della natura. Così,per evitare il fastidio del viaggio, del caldo e degli insetti, propose di “trapiantare” i selvaggi aParigi, ma con tutta la famiglia e la tribù, onde garantire le migliori condizioni ambientali per l’os-servazione. «Avremo in piccolo l’immagine di questa società - scrive de Gérando - dalla qualesarebbero stati prelevati. Nello stesso modo, il naturalista, non si accontenta di portare via un ramoo un fiore, che presto diverranno secchi; egli cerca di trapiantare la pianta, l’albero intero, per dar-gli, sotto il nostro sole, una seconda vita80».

Ben presto ci si accorse che la semplice inclusione delle scienze dell’uomo nelle scienze dellanatura riduceva facilmente l’uomo alla condizione di oggetto spersonalizzato. Come ebbe a scri-vere Husserl - in un passaggio citatissimo - le scienze positive sono impotenti nel fronteggiare «iproblemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. [...] Le mere scienzedi fatti creano uomini di fatto81»; e, forse, l’esempio a noi più chiaro è proprio quello di una certamalintesa sanità. L’infermieristica al contrario, sin dai suoi esordi accademici, si collocò presso -ché unanimemente sul versante umanistico delle scienze, e questo è certamente un fatto significa-tivo per la nostra riflessione.

Per approfondire ulteriormente la specificità delle scienze umane, faremo riferimento a piùriprese al pensiero di Michail Bachtin (1895-1975) un filosofo russo che, pur partendo dalla suaprincipale attività di critico letterario, rifletté molto e con intuizioni solo recentemente riscopertesulla peculiarità di queste discipline8 2. Bachtin scrisse ad esempio nel 1959: «le scienze umanesono scienze che studiano l’uomo nella sua specificità e non la muta cosa e il fenomeno naturale.L’uomo nella sua umana specificità si esprime sempre (parla), cioè crea un testo (sia pure poten-ziale). Quando l’uomo è studiato al di fuori del testo e indipendentemente da esso, non si hannopiù scienze umane ([ma] l’anatomia, la fisiologia dell’uomo, ecc.)83».

Si potrebbe anche dire semplicemente che nelle scienze naturalistiche si cerca di conoscere uno g g e t t o, e nelle scienze umane un s o g g e t t o. «Le scienze esatte sono una forma monologica disapere: l’intelletto contempla una c o s a e si pronunzia su di essa. Qui c’è soltanto un soggetto: coluiche conosce (contempla) e parla (si pronuncia). Di fronte gli sta soltanto la cosa muta. Ogni oggettodel sapere (compreso l’uomo) può essere percepito e conosciuto come cosa. Ma il soggetto cometale non può essere percepito e studiato come cosa poiché, nella sua qualità di soggetto, esso nonpuò, restando soggetto, diventare muto e quindi la sua conoscenza può essere soltanto d i a l o g i c a8 4».

Torneremo sul problema della positivizzazione delle scienze umane attraverso la presentazionedel pensiero di Gadamer che ci spinge a considerare il circolo ermeneutico in ogni tipo di “com-prensione”, e a maggior ragione nelle scienze umane. Per il momento basti riflettere sull’assenzadi dialogo che spesso caratterizza le relazioni tra sanitario e paziente, dove al più non si ha comu-nicazione, ma scambio di informazioni. A questo proposito, come non pensare al giro visita dicerti medici (e infermieri), e all’imbarazzo che ci prende nel sentirli parlare tra loro di sintomi eindagini, diagnosi e terapie senza curarsi del malato che sta di fronte, come se non avesse orecchiper udire, intelletto per capire, sentimenti da comunicare?

In un testo datato approssimativamente 1941, ma che Bachtin riprenderà nel 1974, si trova un

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altro tentativo di definire la specificità delle scienze umane; come si noterà, in questo passaggionon si distingue più fra le cose e i segni, ma fra le cose e le persone. «La conoscenza della cosa ela conoscenza della persona. È necessario caratterizzarle come limiti: la pura morta cosa, che hasoltanto un aspetto esteriore, esiste soltanto per l’altro e può essere svelata tutta, da cima a fondo,dall’atto unilaterale di questo altro (conoscente). [...] Il secondo limite è [il pensiero della personain presenza dell’altro], il dialogo, l’interrogazione, la preghiera. Due limiti del pensiero e dellapratica (dell’atto) o due tipi di rapporto (la cosa e la persona). Quanto più profonda è la persona,cioè quanto più si è vicini al limite personalistico, tanto più inapplicabili sono i metodi generaliz -zanti: la generalizzazione e la formalizzazione cancellano i confini tra il genio e la nullità [...]. Ilnostro pensiero e la nostra pratica, non quella tecnica, ma quella morale (cioè i nostri atti respon-sabili), si compiono tra due limiti: i rapporti con la cosa e i rapporti con la persona. Reificazione ep e r s o n i f i c a z i o n e. Alcuni nostri atti (conoscitivi e morali) tendono al limite della reificazione,senza mai raggiungerlo, mentre altri atti tendono al limite della personificazione, senza raggiun-gerlo interamente85». Oppure ancora, come dice in un’altra nota scritta negli ultimi anni della suavita: «le scienze dello spirito; il loro oggetto è non uno spirito, bensì due “spiriti” (quello studiatoe quello studiante, che non devono fondersi in uno spirito solo). Il vero oggetto è costituito dal-l’interrelazione e dall’interazione degli “spiriti”8 6».

Questa insistenza sulla “persona” nel pensiero di Bachtin non deve essere intesa nel senso di unadifesa dell’individualità psicologica. Si tratta piuttosto di i n s i s t e re sul carattere unico, irripetibile deifatti che formano l’oggetto delle scienze umane. «La personalizzazione - per Bachtin - non è in alcunmodo soggettivizzazione. Il limite qui non è l’i o, ma l’i o nell’interrelazione con le altre personalità,cioè l’io e l’a l t ro, l’io e il t u8 7». Insomma, in quanto infermieri dovremmo definitivamente acquisireun dato di fatto: nessuna autentica relazione assistenziale potrà mai ripetersi due volte. Una cardiopa-tia può restare uguale a sé stessa in ogni latitudine del globo, ma un cardiopatico, in quanto persona,non sarà mai uguale ad un altro. Passa il tempo e può cambiare il luogo geografico; ad ogni momento,nella situazione che sta vivendo, il paziente può mutare la percezione dei propri bisogni; in ogni gestodella relazione si esprimono significati che rendono l’assistenza molto di più di ciò che si fa in essa.Chi non è stato mai ammalato - oppure chi non ha capito cosa significhi fare l’infermiere - non puòsapere cosa può valere per il paziente un tocco su una spalla, un sorriso o una battuta al momento giu-sto e nel modo giusto. L’irripetibilità di ogni fatto assistenziale ci orienta nel dire che ogni momentodell’assistenza deve essere centrato sulla indissociabile totalità della persona del paziente.

1.3.3 Lo scopo. L’infermieristica è una disciplina prescrittivaL’epistemologia contemporanea è tuttora concentrata sull’esame dei modi e delle forme del sapere,ma non viene ignorata la diversificazione delle intenzionalità del sapere. Si tratta infatti di unad i fferenziazione tutt’altro che di scarso rilievo e, in particolare, essenzialissima per vedere conchiarezza non solo alcune diversificazioni tra le diverse discipline, ma anche all’interno di un datof r a m e w o r k concettuale, il suo impianto complessivo. Quest’opera di differenziazione risale adAristotele che per primo propose una caratterizzazione della “scienza” (intesa come sapere affida-bile e fondato) per la cultura occidentale. Egli distingue infatti tre tipi di scienze: le scienze teore -tiche o speculative, le scienze poietiche e le scienze pratiche. Tale distinzione non si basa sull’og-getto o sul metodo, bensì sullo scopo o sull’intenzionalità cui è orientato il sapere che, entro cia-scun tipo, si vuol conseguire. Le scienze teoretiche, o “speculative”, sono quelle in cui la cono-scenza è fine a sé stessa e in cui si vuol soddisfare specificamente il puro desiderio di sapere. Lescienze poietiche riguardano il produrre e in esse il sapere mira a stabilire le condizioni ottimaliper raggiungere certi risultati concreti. Le scienze pratiche sono quelle intenzionate all’agire, incui si mira a sapere che cosa si deve fare, come è bene comportarsi.

Naturalmente, si tratta di distinzioni e non di separazioni: esse delimitano la prospettiva specifica

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di un certo tipo di scienze, ma non escludono reciproche interferenze, connessioni, implicazioni,specialmente quando il sapere che esse offrono viene utilizzato nelle situazioni concrete dell’esi-stenza88. In altre parole, una disciplina scientifica, mentre ha sempre una finalità di tipo conosciti -vo, può avere anche uno scopo di tipo descrittivo, normativo o prescrittivo. Possiamo chiamare“formali” quelle discipline che abbiano uno scopo conoscitivo di carattere prettamente speculati-vo, quali classicamente la logica e le varie branche della matematica, mentre “applicate” o “reali”tutte quelle che, viceversa, abbiano un oggetto di studio tratto dal mondo reale. Tra queste ultimepossiamo distinguere le scienze “descrittive” da quelle “prescrittive” o “pratiche”; le prime, comeè facilmente intuibile, si pongono unicamente il fine di descrivere e spiegare nel miglior modopossibile il proprio campo di indagine senza tuttavia modificarlo direttamente: l’esempio più clas-sico è forse la biologia di Charles Darwin o l’antropologia culturale (la disciplina che studia lediverse forme culturali dei popoli). Le scienze prescrittive, invece, sono quelle che, non limitando-si al solo approfondimento conoscitivo del proprio oggetto di studio, si pongono in qualche modol’obiettivo di modificarlo, agendo direttamente su di esso. È chiaro che questo è il caso di moltediscipline ben note agli infermieri: la medicina in generale e, ovviamente, la stessa infermieristicache - come dicevamo all’inizio - nasce storicamente come “sapere praticamente pratico”.

Secondo un’ottica teleologica questa caratterizzazione può essere utilmente applicata alle scien-ze umane. In questo caso le discipline descrittive studiano la “perfettibilità” dell’uomo in relazio-ne a condizioni psico-fisiche e/o socio-ambientali, mentre le discipline normative (quali la filoso-fia o la teologia), al contrario, studiano la “perfezione ideale”, il destino storico ed eterno dell’uo-mo e dell’umanità; le discipline prescrittive, infine, studiano il “perfezionamento possibile” del-l’uomo e come raggiungerlo. La disciplina infermieristica è dunque, una disciplina pratica e pre -scrittiva in quanto si propone di studiare, in ultima analisi, “l’essere possibile” dell’uomo posto inuna particolare situazione di bisogno e in un dato contesto (storico, culturale, sociale, ecc.).Tuttavia, secondo Agazzi, una disciplina che abbia per oggetto l’uomo si struttura ricercando unacompletezza delle conoscenze sull’oggetto studiato - completezza che però non potrà mai essereraggiunta in toto, per la caratteristica insondabilità dell’uomo - e nel rispetto di un criterio di coe -renza interna, per il quale non possono esservi, all’interno della medesima costruzione teorica diuna disciplina, due asserzioni incoerenti o contraddicentesi l’un l’altra89.

Dal canto suo, Bachtin ci invita a meglio indagare l’ideale conoscitivo a cui ci si ispira nellescienze naturalistiche ed in quelle umanistiche. Per le prime, dice Bachtin, ciò che conta più ditutto è l’esattezza, e «l’esattezza presuppone la coincidenza della cosa con sé stessa90». Di conse-guenza «il limite dell’esattezza nelle scienze naturali è l’identificazione», A uguale ad A, diagnosimedica uguale alla malattia reale (ed ecco un esempio dell’importanza di un linguaggio tecnicofortemente strutturato). Per le scienze umane, invece, l’essenziale è la profondità della compren-sione: «la domanda [in questo caso conoscitiva] è posta dal conoscente non a sé e non a un terzoin presenza di una cosa morta, ma al conosciuto stesso. Il criterio qui non è l’esattezza della cono-scenza, ma la profondità della penetrazione» ed il suo limite è dato dall’insondabilità della perso-na umana, e dunque dal problema (che altri definiranno ermeneutico) dell’alterità. «Nelle scienzeumane - afferma ancora Bachtin - l’esattezza è il superamento dell’alterità dell’altrui senza tra -sformarlo in qualcosa di puramente proprio91».

Ecco, a parer nostro, la diversità fondamentale che corre tra la diagnosi medica ed il momentodiagnostico del processo assistenziale infermieristico: là dove la prima cerca la conoscenza dellamalattia, indicandola appunto con l’ipotesi diagnostica, la seconda dovrà ricercare la comprensio -ne della richiesta assistenziale, comunque essa venga definita dalla teoria in uso. Ma ecco anche led i f f e renze sostanziali tra i due momenti “prescrittivi”: là dove la medicina occidentale imponeprotocolli terapeutici rigidi e standardizzati per la guarigione della malattia, l’infermieristica pro-pone al paziente piani di assistenza partecipativi, nella ricerca della sua salute ancora possibile.

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Non si tratterà allora solamente di un “conoscere-per-fare”, quanto piuttosto di un “comprendere-per-fare-con”. Che utilità ne ricaveremmo dal nostro sapere se fossimo in grado, ad esempio, dicalcolare perfettamente il fabbisogno calorico di un gruppo di bambini se poi la nostra prescrizio-ne non tenesse conto delle loro abitudini alimentari, delle famiglie di provenienza e magari anchedei loro precetti religiosi o culturali? Nightingale aveva intuito l’importanza del nascondimentodell’infermiere nell’assistenza quando in una delle sue lettere scrisse di «non desiderare con ansiaeccessiva che gli ammalati si rendano conto dell’opera mia: al contrario, l’opera mia sarà perfettaquando l’ammalato non l’avvertirà quasi e si accorgerà della mia presenza soprattutto rilevando dinon aver bisogni insoddisfatti».

C o m p rensione e part e c i p a z i o n e. Questi due concetti, che tanto differenziano le scienze dellanatura da quelle umanistiche e che ritroveremo anche nel pensiero di Gadamer, ritornerannospesso nei capitoli successivi della nostra riflessione. «Nella s p i e g a z i o n e - scrive ancora Bachtin- si ha soltanto una coscienza, un soggetto; nella c o m p re n s i o n e si hanno due soggetti, duecoscienze. […] Il criterio della profondità della comprensione [è] uno dei criteri supremi dellaconoscenza nelle scienze umane9 2». In Bachtin si preferisce parlare di c o m p re n s i o n e quando sitratta delle scienza umane - piuttosto che di “conoscenza” - restando in ciò fedeli alla tradizioneinaugurata da Dilthey. Già nei suoi scritti giovanili Bachtin descrive la comprensione come unatrasposizione che mantiene l’autonomia di due coscienze - lungi dal confonderle. «La parola“comprensione” - scrive Bachtin nel 1922 - nella sua comune accezione ingenua e realisticainduce sempre in errore. Non si tratta affatto di un preciso rispecchiamento passivo, di una dupli-cazione dell’esperienza vissuta di un altro in me (duplicazione che, del resto, è impossibile), madel trasferimento dell’esperienza vissuta su un piano completamente diverso di valore, in unanuova categoria di valutazione e di forma9 3» .

Nel pensiero di Bachtin, la caratteristica peculiare della c o m p re n s i o n e nelle scienze umanerisiede nel fatto di “tendere ad assumere la forma di una replica”, cioè di un continuo dialogo traconoscente e conosciuto, tra testo ed interprete. Per meglio cogliere il linguaggio a volte cripticodi questo autore non dobbiamo dimenticare che il “conosciuto”, prima ancora che persona fisica,è immediatamente visto da Bachtin come “testo”, come opera letteraria. Di fronte ad un testo -così come di fronte alla persona umana - «qualsiasi tipo genuino di comprensione sarà attivo ecostituirà il germe di una risposta. Soltanto la comprensione attiva può afferrare il tema [il sensodell’enunciato] - un processo generativo può essere compreso soltanto con l’aiuto di un altro pro-cesso generativo [...]. Qualsiasi vera comprensione è di natura dialogica. La comprensione staall’espressione come una battuta di dialogo sta alla successiva. La comprensione si sforza diaccoppiare la parola del parlante ad una p a rola contraria9 4» .

Qualsiasi vera comprensione è di natura dialogica: ed in effetti non c’è alcuna differenza fra ildiscorso che si tratta di conoscere e il discorso conoscente: nella comprensione dell’altro “sonoconsustanziali”, cosa che, evidentemente, non accade nelle scienze della natura. «Pensieri che trat-tano di pensieri, esperienze interiori di esperienze interiori, [discorsi] che trattano di [discorsi],testi che trattano di testi. Sta qui la differenza principale tra le nostre discipline (umane) e quellescientifico-naturali (riguardanti la natura), anche se neppure qui ci sono confini assoluti ed impe-netrabili95». Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, queste differenze fondamentali fannosì che gli stessi termini “scienza”, “conoscenza”, ecc., non abbiano lo stesso senso, quando sonoapplicati all’uno o all’altro campo. È dunque per tali motivi - cioè sostanzialmente per il problemadell’alterità del nostro paziente - che il piano della evidenza scientifica non può essere sufficienteall’infermiere. Scrive ancora Bachtin riferendosi alle discipline umanistiche: «l’interpretazionedelle strutture simboliche è costretta a entrare nell’infinità dei sensi simbolici e quindi non puòdiventare scientifica nell’accezione che la scientificità ha nelle scienze esatte. L’ i n t e r p re t a z i o n edei sensi non può essere scientifica, ma è profondamente conoscitiva96».

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Bachtin non si accontenta di questa constatazione negativa e propone, come abbiamo già visto,di introdurre due termini diversi per descrivere l’ideale cui ci si deve rivolgere nell’uno e nell’al-tro caso. Si tratterà allora di affrontare il limite non dell’esattezza della conoscenza, come se lapersona fosse una cosa, ma quello della profondità della comprensione. Certo, già Bachtin - comealtri - riconosce che in questa prospettiva veniamo a trovarci al di fuori del campo delle comuniscienze, per entrare nella filosofia, o meglio, con le sue parole, in una sorta di eteroscientificità97.

Non solo ogni comprensione è dialogo; con Gadamer vedremo che ogni comprensione è ancheapplicazione - azione con, azione per. Per le Geisteswissenschaften (le scienze dello spirito), affer-ma Gadamer, la p a rt e c i p a z i o n e del soggetto conosciuto al processo conoscitivo e prescrittivo èaddirittura il più sensibile indicatore di ricchezza o di povertà di una teoria umanistica98. Per ilmomento è sufficiente lasciare questi criteri di tipicità delle scienze umane in prospettiva, conl’intento di ampliarli più oltre nel paragrafo sull’ermeneutica e leggerli compiutamente all’internodella teoria dei bisogni nell’ultimo capitolo del libro.

1.3.4 I metodi. L’infermieristica utilizza metodi dialogico-strategiciDopo aver visto in che misura si differenziano le discipline scientifiche attraverso i rispettivioggetti di studio e scopi, è del tutto naturale che a tali differenze corrisponda una sostanziale diffe-renza di metodo.

Etimologicamente la parola “metodo” deriva dal greco méthodos, parola composta dai terminimeta “oltre, dopo” e hodós che significa “strada, via, percorso da seguire”, e viene utilizzata nellinguaggio comune con un’estrema generalità d’uso. Tuttavia, il concetto di metodo in ambitofilosofico è storicamente legato soprattutto al problema della certezza in campo conoscitivo. Unm e t odo, infatti, si può presentare in diversi modi: nella sua relazione con la verità scientifica ingenerale; nella formulazione dei principi propri di esso (assiomi, postulati, definizioni); nello studiodei procedimenti di ricerca che vi corrispondono; nella precettistica da seguire per adoperarli; nellaclassificazione delle nozioni fondamentali così ottenute, e valutazione della loro finalità. Questedeterminazioni del termine si sono venute precisando nel corso della storia del pensiero e dellascienza. Nelle Regulae ad directionem ingenii del 1626, René Descartes così si esprimeva riguardoal metodo: «Regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciòche sia falso, e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumen-tando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace».

In ambito disciplinare il metodo si configura come la forma mentis di colui che opera all’internodi una particolare comunità scientifico-professionale. Esso ha la finalità di porre in relazione,attraverso un procedimento puramente teorico, il corpus di conoscenze con la finalità pratica delladisciplina, dunque con la risoluzione di un problema disciplinare. In questo senso, già a partiredalla fine del XVII secolo, il metodo diventa tecnica, cioè trasposizione dei metodi della scienzaad ogni tipo di pratica.

Quello che sembra fondamentale, e che domina ogni tipo di metodo, è la riduzione dei fenomeniche la percezione già isola nell’esperienza vissuta a degli schemi astratti. Questa riduzione consi-ste sempre nello stabilire ed operare all’interno di un quadro più o meno rigido nel quale si posso-no annotare sistematicamente le informazioni complesse e talvolta confuse dell’esperienza. Ilprimo passo del metodo consiste nel rassegnarsi a non descrivere tutto, a non ritenere tutto e a sce-gliere degli aspetti sufficientemente chiari e distinti per dissociarli senza equivoco e trasmetterneil tenore mediante il linguaggio o un simbolismo creato ad hoc.

Per Granger, il metodo scientifico, per quanto differenziato nei vari ambiti disciplinari, presentaalcune caratteristiche ricorrenti: A- deve precisare il numero ed il tipo di regole che occorre segui-re in modo corretto - dove il concetto di regola si associa non solo all’idea di correttezza (rispettoalla regola), ma anche a quello di efficacia, ossia della relazione fra una situazione e uno scopo;

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B- deve orientare costantemente verso un fine (pensare o agire metodicamente è un procedere atappe, in cui ogni tappa segna un progresso verso lo scopo); in questo senso è un mezzo per com-battere l’aleatorietà ed evitare il più possibile gli errori; C- deve economizzare le forze e stabilizza-re l’azione per poter affrontare anche gli imprevisti; e infine, D- deve accrescere progressivamentele cognizioni se lo scopo è la conoscenza, oppure ottenere risultati parziali se lo scopo è pratico9 9.

Il dibattito attorno al metodo scientificoDall’antica Grecia ai giorni nostri il dibattito attorno all’esistenza di un unico metodo scientificoha diviso filosofi ed epistemologi. Platone, Aristotele, Bacone e Cartesio, ed in tempi più recentifilosofi come John Stuart Mill, credevano che esistesse un metodo per trovare la verità scientifica.In un periodo più recente e un po’più scettico, ci furono dei metodologi che credevano che esistes-se un metodo, se non per t ro v a re una teoria vera, almeno per accertare se una data ipotesi fosse ono vera; o (in un modo ancor più scettico) se una data ipotesi fosse almeno “probabile”, in qualchemodo accettabile. Popper, dal canto suo, era solito iniziare le sue lezioni affermando: «Sono profes-sore di metodologia della scienza, ma ho un problema: il metodo scientifico non esiste…». Egli, insostanza, sostiene che non esiste alcun metodo scientifico in nessuno dei tre sensi citati, ovvero:1) non c’è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica; 2) non c’è alcun metodo per accertarela verità di un’ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di “verificazione” e 3) non c’è alcun metodoper accertare se un’ipotesi è “probabile”, o “probabilmente vera”100.

Per Popper le modalità con cui la scienza opera sono molto simili alle modalità che l’uomocomune si da per risolvere i propri problemi. Anzi. «un problema sorge, cresce e diventa rilevanteattraverso gli insuccessi dei nostri tentativi di risolverlo». Per Popper, «il solo modo per comincia-re a conoscere un problema consiste nell’imparare dai nostri errori. Ciò vale per la conoscenzaprescientifica e per quella scientifica. […] Il metodo scientifico è, molto semplicemente, ciò cherende sistematico il modo prescientifico di imparare dai nostri errori. E lo fa attraverso un espe-diente chiamato discussione critica101».

La concezione del metodo scientifico secondo Popper può essere sintetizzata dicendo che consi-ste nei tre passi che seguono: 1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, peresempio proponendo qualche nuova teoria (o ipotesi, all’interno di una teoria data); e 3) imparia-mo dai nostri errori, in particolare da quelli su cui ci richiama la discussione critica dei nostri ten-tativi di soluzione, che a sua volta approfondirà il problema o ne farà emergere di nuovi. «Perdirla in tre parole: problemi-teorie-critiche. Credo che queste tre parole possano da sole riassume-re l’intero modo di procedere della scienza razionale102».

Di queste importantissime categorie, quella che meglio caratterizza la s c i e n z a per Popper è l’elimi-nazione dell’errore attraverso la c r i t i c a. Ciò che, infatti, in modo vago, chiamiamo oggettività dellas c i e n z a e razionalità della scienza non sono che aspetti della discussione critica delle teorie scienti-fiche. Quanto all’oggettività scientifica essa consiste in un fatto: nessuna teoria scientifica vieneaccettata come un dogma. Tutte le teorie sono provvisorie e sempre aperte alla discussione più rigo-rosa, a una discussione critica razionale che aspira a eliminare gli errori. Quanto alla r a z i o n a l i t àdella scienza, essa consiste semplicemente nella razionalità della discussione critica. A questo propo-sito è importante ricordare che una discussione critica si occupa sempre di più teorie contemporanea-mente. Infatti, nel cercare di accertare i meriti o i demeriti anche di una sola teoria, si deve sempretentare di verificare se essa rappresenti un a v a n z a m e n t o , ossia se spieghi cose che fino a quelmomento - vale dire, con l’aiuto delle teorie precedenti - non siamo stati in grado di chiarire, in altreparole ancora se abbia o meno un reale aumento di potenziale esplicativo rispetto alle rivali1 0 3.

Di parere contrario, altri filosofi - tra cui spicca senz’altro Paul Feyerabend - sostengono invecela totale assenza di un unico metodo della scienza e tantomeno l’esistenza di regole universali peril procedere scientifico. Essi basano questa loro convinzione su ponderati studi di storia della

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scienza. «La stima esagerata di cui gode la scienza poggia sull’equazione (falsa) tra scienza erazionalità, dove per razionalità si intende la facoltà di elaborare un metodo universalmente validoe di attenersi ad esso. Nella realtà però gli scienziati si sono comportati e si comportano in modoassai diverso: all’occorrenza violano le regole del metodo e le sostituiscono con altre; se necessa-rio rinunciano all’argomentazione razionale per avvalersi della propaganda104». Il motto di questianarchici dell’epistemologia è di conseguenza molto significativo: anything goes (“tutto vabene”). Ma attenzione: ciò non significa la negazione di qualsiasi regola, bensì la necessità di ade -guare le norme al caso concreto con cui lo scienziato - od il professionista - ha a che fare, inter -pretandole in modo originale o addirittura discostandosene nettamente105.

Metodi algorimici e metodi strategiciConviene effettivamente distinguere due poli del tutto irriducibili dell’idea di metodo. Per il filo-sofo francese Gilles Gaston Granger: «l’uno corrisponde alle nozioni di “ricette”, procedure”,“ a l g o r i t m o ” che descrivono dettagliatamente la concatenazione di ciò che deve essere fatto.L’altro corrisponde al concetto di strategia, che non necessariamente dà un’indicazione circostan-ziata degli atti da compiere ma solo dello spirito globale nel quale le azioni devono aver luogo.Tuttavia, i due aspetti del metodo hanno un tratto in comune, che consiste nella rappresentazionenecessaria delle circostanze e modalità dell’azione di un sistema di simboli106».

L’algoritmo deve il suo nome al matematico arabo del sec. IX al-Khuwarizmi, ed è un procedi-mento di carattere rigorosamente standardizzato e generalizzato per la risoluzione dei problemi.Altrimenti chiamato “albero decisionale” l’algoritmo fu definito da Leibniz un «Procedimento diragionamento quasi meccanico che conduce infallibilmente alla scoperta di nuovi concetti a parti-re da elementi dati».

I metodi strategici, invece, sono caratterizzati secondo Granger: 1) da una veduta globale, siste -mica, delle situazioni, nei limiti e in rapporto a un tipo di azione dato, in contrasto con una vedutaframmentaria e deliberatamente estemporanea e particolarista; 2) dalla capacità di discernere“punti singolari” nel tessuto dell’azione e nel suo contesto; 3) da una ripartizione delle “forze”mobilitate e più spesso da una concertazione mobile di queste forze; e 4) dalla determinazione diun ordine di priorità delle azioni.

È evidente che, una volta evidenziati questi importanti aspetti, il metodo può presentarsi solo informe e gradi che possono variare moltissimo da un campo applicativo all’altro del sapere scienti-fico. L’essenziale è cogliere i compiti del metodo che, da un lato, riguardano la sempre miglioredelimitazione del proprio oggetto di studio e dall’altro la definizione delle specifiche regole edesigenze cui dovrà sottostare l’attività conoscitiva ed applicativa. Quanto al primo punto, il suocarattere riduzionista ha sollevato notevoli dubbi rispetto all’effettiva conoscenza della specificitàdell’uomo. Quanto al secondo, essendo fortemente caratterizzato dalle categorie della logica, sem-bra che il metodo scientifico in senso hard debba essere necessariamente messo in relazione con ilpolo algoritmico piuttosto che con quello strategico107.

Torneremo più avanti su queste problematiche in quanto direttamente interconnesse col rischioriduttivista di alcune teorie infermieristiche. Per ora vorremmo esemplificare le metodologie algo-ritmiche dialogiche e strategiche senza tuttavia perdere di vista le suggestioni relative alla specifi-cità delle scienze umane già evidenziate nei paragrafi precedenti. I protocolli diagnostico-terapeuticidi una Unità di cure intensive sono strumenti di tipo algoritmico; essi, infatti, sono in buona p a r t epreconizzati, rigidi e generalizzati. Il problema dell’alterità del paziente non è compreso, se nonattraverso macro categorie quali il sesso, l’età, ecc. - comunque già previste dal protocollo (e nonè compreso perché lo scopo prioritario è la lotta contro la specifica patologia, non la salute delpaziente…). In questo caso è il soggetto che si adatta al metodo di cura: non per niente si usa direche il tal paziente “è stato inserito” in quel dato protocollo.

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Tutt’altro scenario offrono i metodi strategici, ad esempio una lezione partecipativa o una sedutadallo psicanalista (anche se bisognerebbe specificare a che tipo di scuola appartiene…). In questicasi i metodi e gli strumenti sono aperti, dinamici e personalizzati in quanto di fronte ad essi nonv’è il continuo ripetersi di una medesima alterazione biochimica di un organo, ma la particolaritàdi una persona umana. Di fatto, in questi casi non è la persona che si adatta al metodo, ma, alcontrario è quest’ultimo che considera l’alterità della persona. Prendiamo ad esempio un bravoinsegnante: pur ripetendo le stesse lezioni più volte lungo l’arco dell’anno non farà mai due lezio-ni identiche l’una con l’altra, ma, cambiando l’uditorio, egli modifica di conseguenza anche lelezioni, adattando i contenuti, gli strumenti didattici, i tempi, gli esempi (e le battute) in funzionedelle persone che ha di fronte.

I metodi delle scienze della natura e delle scienze dell’uomoForse il più grande fraintendimento tra scienze naturalistiche e scienze umanistiche è dovuto alfatto che queste ultime si sono sviluppate pensando di dover ripercorrere la strada tracciata dalleprime verso una conoscenza delle generalità, scoprendosi poi inevitabilmente destinate alla com -prensione di una individualità. Gli aspetti legati all’alterità del comportamento e della vastità sim-bolica dell’umano sfuggono ai metodi quantitativi della statistica.

Ed è proprio nei confronti della malattia che le esemplificazioni si fanno pregnanti. Abbiamo giàvisto come la malattia sia vissuta dal soggetto che la percepisce secondo modalità che influisconosul suo decorso, quando non addirittura sulla sua insorgenza e sulla sua prognosi. Su questo fron-te, conoscenza scientifica e abilità tecnica del medico e dell’infermiere sono insufficienti: vi èquindi un margine per leggere da un punto di vista metodologico, la distinzione tra spiegazione ecomprensione. Scrive Umberto Galimberti nella sua introduzione all’edizione italiana del già cita-to saggio di Jaspers:

«L’ordine della spiegazione, che dice come l’alterazione si è prodotta, non è in grado di com -p re n d e re p e rc h é si è prodotta, dove il “perché” non rinvia a una c a u s a, ma a un s e n s o. Se gliuomini non sono cose, il modo in cui sono al mondo e il senso che il mondo assume per loro sonocausa di malattia non meno delle componenti fisico-chimiche che lo sguardo clinico, per le regoleimposte dal metodo scientifico che lo esprime, individua come uniche cause. Percorrendo questavia, ciò che è possibile accertare sono i fatti non i significati, la successione causale non la produ-zione di senso, l’ordine della spiegazione, non l’ordine della comprensione, per cui, dice Jaspers:“Conoscenza scientifica e abilità tecnica si trovano sempre nella condizione di spiegare qualcosasenza nulla comprendere, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto chegli si è assegnato un nome”. [...] Se lo statuto dell’uomo non è lo statuto della cosa, se il suo“comportamento” non è “movimento” analogo a quello delle cose naturali, la medicina che acco-stasse l’uomo con le metodiche positive della scienza della natura spiegherebbe dei fatti, ma noncomprenderebbe dei significati, l’umano resterebbe fuori dalla sua portata, perché un fatto, spo-gliato del suo significato, è per definizione in-umano. [...] Il fatto non è in grado di esprimere dasé il suo significato. Significare è indicare qualcosa che trascende il fatto, e che si scopre non ana-lizzando le modalità con cui il fatto accade, ma il senso a cui il fatto rinvia. Per questo fatti fisiolo-gici, considerati in sé stessi, ci sono, ma non significano nulla. Il corpo che li registra è puro orga-nismo, è cosa, non intenzionalità dispiegata in un mondo108».

Siamo così arrivati ad un passaggio essenziale per la nostra riflessione. L’assistenza infermieristicanon può accontentarsi dei pur importantissimi f a t t i oggettivi e quali/quantitativamente ineccepibilidella sua pratica (le tecniche assistenziali, i parametri di riferimento, le procedure ed i protocolli, ecc.).Essa ha un versante non meno importante della s p i e g a z i o n e dei fatti - “Perché il signor Carlo non siscarica da tre giorni?”, “perché la signora Maria ha sviluppato un principio di lesione da decubito?”,

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“di che malattia sta morendo il signor Andrea?” - ed è il versante della c o m p re n s i o n e che porta l’infer-miere a chiedersi: “come valuta il signor Carlo la sua stipsi?”, “che importanza e che significato haper la signora Maria la sua piaga?”, “come sta morendo il signor Andrea?”. In una malattia, ci diconogli psicologi e gli antropologi, oltre la ricerca delle cause e della terapia, si pone anche il problema delsuo senso, del suo significato in rapporto all’insieme della vita ed anche in rapporto all’insieme dellecredenze e dei valori. «Trovare un senso rassicura, fa della malattia qualche cosa che non è più l’orro-re ma che ha una coerenza che permette l’accesso all’universo delle cure1 0 9».

Di conseguenza, il significato originale e proprio di ogni assistenza non è unicamente la lotta allamalattia, ma forse, e soprattutto, è la nostra partecipazione all’esperienza del malato. Scrive al pro-posito una collega francese: «A s s i s t e re è un atto essenziale dell’esistenza, che consiste nell’e n t r a rein re l a z i o n e con qualcuno per aiutarlo a sviluppare ciò che lo fa vivere e a lottare contro ciò che lominaccia di morte. Domanda a coloro che assistono di cercare di scoprire ciò che fa vivere e morireuna persona, e a t e n e re in considerazione il senso che questa da alla sua vita e alla sua morte11 0» .

Possiamo a questo punto riprendere il pensiero di Bachtin quando afferma che due sono i limitial nostro pensiero e alla nostra pratica (i nostri atti responsabili), o ancora due sono i tipi di rap-porto che si possono instaurare a seconda che il nostro oggetto sia la cosa o la persona111: “reifica-zione e personalizzazione”, scrive Bachtin, dove il limite delle scienze umane è intrinseco allarelazione stessa con un altro da me. Ed è proprio per questa centralità del dialogo con l’altro cheBachtin, per spiegare il fenomeno della “comprensione” è costretto ad elaborare il concetto di“ extralocalità” - o “essotopia” come propone di chiamarlo To d o r o v, traducendo dal russov n an a k h o d i m o s t ’. Per Bachtin, infatti, la comprensione dialogica fatta di domande e risposteognuna delle quali muove altre domande ed altre risposte non possono in alcun modo essere rac-chiuse in un’unica delle due coscienze in gioco. Lo spazio dove avviene la comprensione dell’al-tro - come vedremo nel dettaglio anche nel paragrafo dedicato alla relazione infermieristica - è diconseguenza uno spazio di confine che non è totalmente né mio proprio, né totalmente dell’altro.

E ffettivamente, avremmo potuto tranquillamente chiamare questo paragrafo “Il metodo speri-mentale e il metodo clinico”, per gli evidenti tratti distintivi che li caratterizzano - e che probabil-mente muoveranno la riflessione infermieristica su questi temi verso un chiarimento dei suoi“metodi per conoscere” opposti ai “metodi per fare”. Infatti, esaminando le varie differenze che èpossibile rintracciare tra i metodi “sperimentali” e i metodi “clinici”, dobbiamo certamente richia-mare l’uso delle procedure statistiche nella raccolta ed elaborazione dei dati. Nell’uso della stati-stica, infatti, risalta pienamente la distanza che separa l’oggetto della conoscenza scientifica daifatti come vengono sperimentati nella loro singolarità, ivi compreso il problema dell’alterità dellapersona umana. «Il fatto è - scrive a questo proposito Granger - che quando si tratta di sottoporre aun metodo d’indagine scientifica i comportamenti e l’opera dell’uomo, la drastica riduzione del-l’evento singolare al fatto generico o statistico si scontra con la preoccupazione contraddittoria diconservargli la sua individualità. […] Bisogna riconoscere […] che è necessario un orientamentodel tutto diverso quale complemento di una conoscenza dell’uomo che, persistendo nel voler esse-re scientifica, cerca tuttavia di preservare il carattere specifico del suo oggetto. L’individuale, ilsingolare sembra effettivamente che giochino qui un ruolo essenziale, dal quale si può fare astra-zione solo in via del tutto provvisoria112».

È per questo che, prendendo a prestito il vocabolario della medicina, Granger suggerisce dichiamare metodo clinico l’orientamento strategico della conoscenza che voglia costituirsi in modoscientifico verso l’individuale. Questo atteggiamento presuppone anzitutto che il soggetto cono-scente stabilisca con l’oggetto individuale una relazione che fa di lui un portatore di “significati”.Che si tratti di un evento, di un’opera o di una persona, questo oggetto individuale rimanda a unarete di rappresentazioni più o meno ricca, più o meno coerente relativa all’osservatore.Neutralizzando il carattere individuale il naturalista fa astrazione da questa rete, e in questo

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appunto consiste principalmente la riduzione dell’oggetto a oggetto di natura. Per lo psicologo,per il sociologo e per l’infermiere si tratta invece di conservare questo aspetto significante dando-gli una forma rappresentabile in un quadro; se vogliono fare un’opera scientifica devono anch’essitentare di sostituire al vissuto gli schemi astratti manipolabili del loro pensiero logico.

In questa sede vorremo limitarci a sottolineare uno dei tratti che paiono più importanti di questaspecificità dell’uso “clinico” di teorie e modelli, e cioè nella loro molteplicità necessaria. Sembrache il rappresentare un fatto umano mediante un unico tipo di sapere, che si dispiega su un solopiano, lo spogli immancabilmente del suo carattere singolare, lo riduca alla piattezza dell’oggettofisico. Al contrario, pare che lo “spiegamento” su più livelli delle strutture proposte dalle scienzeumane per descrivere e chiarire l’organizzazione di un fatto umano permetta la convergenza versouna conoscenza dell’individuale. Non che questa sovrapposizione e questo incastro di modelliastratti restituisca effettivamente l’individualità dell’oggetto vissuto dall’osservatore; l’individuoper la scienza non è mai altro che un punto di fuga, un limite mai raggiunto. Ma il carattere indivi-duale dell’oggetto si riflette in questa strategia convergente mai del tutto compiuta. «Tale metododi approssimazione all’individuale - scrive ancora Granger - benché orientato verso la conoscenza,sfocia necessariamente in una conoscenza applicata. Il suo limite è il contatto con questa realtàindividualizzata, contatto che non si può effettuare nel cerchio stesso della scienza. Questo contat-to naturalmente ha luogo per lo più nella forma di una pratica che nulla deve al metodo scientifico,ma se si deve costruire una scienza dell’uomo, si pensa che lo si possa fare solo tracciando que-st’altra “via all’individuale”, solo costruendo quei filtri […] che convergono verso l’oggetto indi-vidualizzato come verso il proprio limite». Rimane il fatto che le indicazioni date su questo meto-do clinico sono l’espressione di una speranza più che la descrizione di esempi riusciti.Ciononostante, sembra che una tale conoscenza scientifica dell’uomo «si orienti in questa direzione,e che il suo successo non dovrebbe sembrare più improbabile del successo del metodo sperimentalenelle scienze della natura nel momento in cui quel metodo è uscito dalle mitologie e dai bestiari».

Infine, quando a valle dell’applicazione tecnica di un metodo si incontra il contatto diretto conl’individuale (uomo o cosa che sia), Granger afferma che ogni procedimento tecnico termina esfocia in un’arte, designando con questa parola tutte le modalità che questo contatto effettivo conl’individuale può rivestire. Le evidenti differenziazioni non sono quindi imputabili a questioni dimetodo, ma di stile. A posteriori si può certo descrivere uno stile come una strategia che il profes-sionista o il ricercatore mette in atto per raggiungere il suo scopo, ma questa descrizione non puòin alcun caso dar luogo a ricette, a soluzioni preconfezionate, in quanto il volerle applicare ad unnuovo caso eluderà necessariamente dei fatti di stile che la prima descrizione non poteva com-prendere. E se è vero che il metodo scientifico, come si è visto sopra, è essenzialmente una lottacontro l’aleatorio, come stupirsi se la sua applicazione si arresta proprio dove la percezione e l’a-zione finiscono con l’accettare la particolarità del caso?

Il processo di assistenza infermieristicaIn Ostetricia viene utilizzato un vocabolo specifico per descrivere l’andamento basculante dellatesta del feto quando si ritrova impegnata in un canale del parto troppo stretto. In alcuni di questicasi, infatti, la testa si muove avanzando prima un parietale e poi l’altro, piegandosi leggermenteora verso una ora verso l’altra spalla con un movimento detto appunto “asinclitico” cioè, letteral-mente, “al di fuori della linea direttiva” del parto. Non preoccupatevi: le nostre reminiscenze oste-triche non andranno oltre. Semplicemente, vorremmo utilizzare l’immagine del movimento asin-clitico del feto in un parto difficile come metafora del rapporto tra teoria e metodi nella crescitadella nostra disciplina. In questo paragrafo, infatti, vorremmo presentare, seppur per sommi capi,il principale metodo della nostra disciplina: il processo di assistenza infermieristica.

Nel secondo e nel terzo capitolo avremo modo di valutare l’ambiguità intrinseca al concetto di

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bisogno di assistenza . Senza questa ambiguità - dovuta come vedremo al “problema dell’alterità”- non ci sarebbe neppure stato il prolificare di teorizzazioni e di metodi che constatiamo, ma,molto probabilmente, saremmo tutti da tempo d’accordo su un impianto teorico di tipo naturalisti-co e su metodologie di tipo algoritmico. Così non è. Ecco quindi il pluralismo teorico e metodolo-gico. Ed ecco anche una possibile spiegazione dell’asinclitismo di cui sopra: lo sbilanciamento oraverso il polo naturalistico ora verso il polo umanistico delle teorizzazioni infermieristiche ha gio-coforza provocato anche un accavallarsi di proposte metodologiche spesso distanti fra loro. Persovrappiù, occorre dire che in alcuni Paesi, come in Italia, si è tentato di introdurre il processo diassistenza infermieristica, con varie denominazioni, in totale assenza di una preliminare riflessio -ne sullo specifico oggetto di studio e sulle più opportune modalità di implementazione dei modelliconcettuali di riferimento. Si è cioè ragionato sul “come” prima ancora di definire il “cosa”,spesso limitandosi a tradurre i contributi della letteratura scientifica di altri Paesi. Il metodo si ècosì sviluppato secondo un percorso relativamente indipendente dalle teorie infermieristiche equesto fenomeno non ha favorito una chiara definizione dello specifico infermieristico, cioè di unsistema di intervento sanitario non subordinato al modello biomedico, che concepisce la salutecome assenza di malattia. Affrontare questioni metodologiche senza aver premesso una necessariariflessione sui contenuti disciplinari è a tutt’oggi un errore non totalmente superato che rischia dibloccare a lungo questo travaglio di parto: un esempio per tutti sono i tentativi di proporre unarigida ed acritica adozione nel contesto italiano di tassonomie diagnostiche nordamericane fondatesul canone induttivo, cioè a partire da una prassi sostanzialmente diversa da quella italiana113.

Un dato storico a nostro avviso importante è che il processo di assistenza infermieristica, sin dalsuo apparire negli anni sessanta, si è profondamente radicato nella strategicità della relazione conl’altro, piuttosto che nell’algoritmicità della conoscenza dell’oggetto. Ai nostri giorni non v’èd i fficoltà alcuna nel sostenere, come per esempio in un recente ed importante contributo di PaoloMotta, che «il processo di assistenza infermieristica è il metodo che la disciplina infermieristicaadotta per identificare i bisogni del singolo cliente o del gruppo sociale e per pianificare unarisposta efficiente ed efficace a tali problemi, attraverso un complesso di prestazioni. Tale meto -do [ … ] si caratterizza come clinico, ipotetico-deduttivo, dialogico e strategico. Esso è strutturatoin due momenti fondamentali: il p rocesso diagnostico, cioè l’insieme delle operazioni logichefinalizzate ad un giudizio clinico circa i problemi di salute di competenza infermieristica, e lap i a n i f i c a z i o n e, cioè l’insieme delle operazioni dedicate alla scelta e alla realizzazione degli inter-venti che il professionista ritiene possano condurre in modo efficace ed efficiente alla soluzionedei problemi posti. Il processo diagnostico ha la principale finalità di orientare l’infermiere nellasistematizzazione delle informazioni raccolte e nell’identificazione dei bisogni di assistenzainfermieristica. La pianificazione orienta l’infermiere nella scelta dei mezzi necessari ad assicu-rare prestazioni infermieristiche in un percorso che abbia come finalità il recupero della rispostaautonoma ai propri bisogni da parte della persona11 4». Nel processo assistenziale, insomma, sievidenziano e si giocano le problematiche epistemologiche dell’infermieristica contemporanea:Come compre n d e re e re n d e re intersoggettiva l’alterità del paziente? Come “diagnosticare i biso -gni”? Come personalizzare l’assistenza?

D’altro canto, dovrebbe ormai risultare più chiara l’affermazione di Agazzi dalla quale siamopartiti: l’insieme di queste differenze di oggetto, di scopo e di metodo - che sono altrettanti distin -guo tra scienze della natura e scienze dell’uomo - fa sì che gli stessi termini “scienza”, “cono -scenza”, “metodo”, ecc., non possano avere lo stesso significato quando sono applicati all’uno oall’altro campo conoscitivo. Il problema dell’alterità nelle discipline umane, infatti, seguendo ilpensiero bachtiniano, le obbliga come abbiamo visto all’interpretazione delle strutture simbolichecostringendole ad entrare nell’infinità dei significati anche a costo di non poter diventare “scienti-fica” nell’accezione che la scientificità ha nelle scienze della natura115.

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Ma lasciamo in sospeso, ancora per poco, il discorso ermeneutico provocato dall’alterità delnostro paziente per soffermarci su un aspetto solo apparentemente marginale: ossia il rapporto trauna disciplina ed i suoi strumenti.

Scienza, metodo e strumentiSe il processo di assistenza infermieristica è il principale metodo della nostra disciplina, la cartellainfermieristica, come è noto, è il suo più prezioso strumento. Oggi sappiamo che il legame tra glistrumenti ed i metodi di una disciplina è una relazione di tipo gerarchico, ma la storia della scien-za ci dice che ad esempio la rivoluzione scientifica del seicento, con la nascita del metodo scienti-fico, fu certamente una rivoluzione non solo nella cultura, ma anche negli strumenti e nella tecni-ca. La trasformazione del cannocchiale in telescopio ed il suo uso a scopi scientifici da parte diGalileo Galilei è uno dei momenti emblematici di questa rivoluzione. Ma ovviamente, non voglia-mo divagare sulle peraltro interessantissime origini della scienza moderna, quanto cogliere già inquei primi esperimenti una stretta relazione ed una decisa linea di continuità tra l’oggetto di studioa cui si appassiona uno studioso, il suo fine, le regole ed i percorsi metodologici di cui si dota perraggiungerlo, e i mezzi che egli costruisce per realizzarlo.

Il problema dell’alterità del paziente, da sviscerare in sede teorica, richiede che l’infermiereconsideri necessariamente e contemporaneamente gli aspetti quantitativi e qualitativi dell’assi-stenza. Ciò rende evidente l’intrinseca complessità del metodo infermieristico ed è fonte di conti-nuo dibattito nella comunità scientifica nazionale ed internazionale. Un esempio di questo dibatti-to è la controversia sull’applicazione nella pratica professionale delle diagnosi infermieristiche,cioè sull’adozione di un sistema finito ed esaustivo di segni e sintomi cui riferirsi per esprimeregiudizi clinici circa i problemi di salute di competenza infermieristica. Tale questione è il principa-le terreno di divisione tra sostenitori ed oppositori dell’opportunità di m i s u r a re con tecniche estrumenti quantitativi o qualitativi i dati attinenti all’assistenza infermieristica. La questione nonè di poco conto: è del tutto evidente che la scelta di un gruppo di indicatori e degli strumenti dimisura ad esso adeguati influenza considerevolmente i risultati, secondo il principio “wymiwyng”(what you measure is what you get: si ottiene ciò che si misura)116.

D’altronde, questa stessa osservazione sull’inadeguatezza, o meglio sulla limitatezza delle misu-razioni rigide e quantitative proprio nei confronti della salute dell’uomo ricorre costantementenelle critiche rivolte alla medicina occidentale, tesa costantemente alla ricerca di un’alterazione,della misurazione dell’assenza di qualcosa, del “cosa c’è che non va”. Per Gadamer, ad esempio,«conosciamo ormai molto di più sulla m a l a t t i a che non sulla s a l u t e delle persone». «Ci vienespiegato - continua Gadamer - che oggettivare nella scienza moderna significa “misurare”. Ine ffetti negli esperimenti, con l’aiuto dei metodi quantitativi, vengono misurate manifestazioni efunzioni vitali. [...] Dobbiamo chiederci: cos’è la misura? [... Nel Politico] Platone distingue duemisure: la prima si ottiene quando si misura un oggetto accostandosi dall’esterno, l’altra invece èinsita nella cosa stessa. Le voci greche suonano così: métron, che significa misura, e métrion, cheindica ciò che è misurato, appunto adeguato. Ma cosa vuol dire “adeguato”? Evidentemente desi-gna la misura interiore di una totalità vivente. Consideriamo quindi la salute come un’armonia,come la giusta misura, così come la vedevano anche i greci. Al contrario, in caso di malattia vienepercepito il turbamento della cooperazione, dell’equilibrio tra il sentirsi bene e l’aprirsi al mondoesterno. Ponendo il problema in questi termini, il métrion, la giusta misura, appare solo limitata-mente accessibile mediante la semplice misurazione». A tal fine - conclude Gadamer - sarebbe«necessario anzitutto osservare ed ascoltare con attenzione il paziente, ma sappiamo bene quantoquesto sia difficile nei grandi ospedali moderni117».

Sotto una certa prospettiva, noi abbiamo affermato che le stesse teorie e gli stessi modelli con-cettuali svolgono una funzione stru m e n t a l e rispetto alla crescita della conoscenza. A m a g g i o r

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ragione ora, parlando più semplicemente dei mezzi tecnici, occorre ricordare il pungente pensierodi Feyerabend. «Per vedere le cose giuste - nota Feyerabend, come sempre in polemica con ognisorta di razionalismo assoluto - o c c o rrono gli strumenti giusti. Per vedere le lontane galassieoccorre il telescopio. Per vedere gli dei ci vogliono uomini adeguatamente preparati. Le galassienon scompaiono quando scompaiono i telescopi: gli dei non scompaiono quando gli uomini per-dono la facoltà di entrare in contatto con loro118». Per Feyerabend, questo è un modo elementareper sostenere un’idea a lui cara, ossia che le teorie scientifiche (attraverso gli strumenti tecnici cheesse stesse si costruiscono per sostenersi) non descrivono l’interezza di ciò che vi è nel mondo:egli, continuamente, ci ricorda che la scienza non è che uno dei modi di conoscere il mondo chel’uomo ha inventato durante la sua storia (e neppure il più importante)119.

In quanto infermieri, utilizziamo l’anarchismo di questo filosofo per meglio comprendere lanostra specificità epistemologica nell’ambito delle scienze e soprattutto per evitare il rischio ridu-zionista occorso ad altre scienze assistenziali. La stessa medicina - nata nel V sec. a C. conIppocrate per ricostruire l’equilibrio della natura nell’uomo, peraltro con una ben precisa concezio-ne della t e c h n e - rischia di divenire oggi, per la parossistica specializzazione e frammentazione delsuo operato, un’eccellente esecuzione tecnica di riparazione organica e uno strumento di normaliz-zazione sociale1 2 0. L’impostazione mentale e gli strumenti di cui si è dotata la medicina occidentalenon possono permettere al medico di cogliere altro che ciò per cui sono stati costruiti: la malattia,la sua causa organica, la sua terapia chirurgica, farmacologica o genetica. L’uomo-paziente, la suaindividualità, resta esclusa dall’azione professionale del medico contemporaneo, perché il suooggetto non è più, come prima, l’uomo malato, ma la malattia dell’uomo. Il suo scopo è la lotta allamalattia e non più, come per Ippocrate, la guarigione pseudo sacerdotale di tutto l’uomo.

In questo processo di progressiva emarginazione del paziente un ruolo non marginale lo giocaronoproprio gli strumenti tecnici man mano messi a disposizione del medico. L’introduzione dello stetosco-pio nel 1819 da parte di R.T.H. Laënnec, ad esempio, se da un lato costituì una “rottura epistemol o g i c a ”con la concezione precedente della malattia, dei suoi segni e dei suoi sintomi, costituì anche unprimo passo per una conoscenza spersonalizzata del paziente a beneficio dell’esame detto poi,appunto, “obiettivo”, proprio attraverso la frapposizione di uno strumento tra l’orecchio del medicoed il torace del suo paziente. Scrive a questo proposito Cosmacini: «L’epoca del rapporto umanointerpersonale [tra medico e paziente] incomincia l’arrischiato trapasso nell’epoca in cui l’antropolo-gia medica del malato cede gradatamente il passo alla tecnologia medica della sua malattia1 2 1» .

Certamente il malato non cessa di essere una individualità - di avere un nome ed un cognome, diavere emozioni, di avere intelletto e di dare significato alle cose che gli capitano, insomma, nondiviene una cosa smettendo di essere una persona - solo perché l’infermiere, o il medico, non pos-siedono gli strumenti concettuali e tecnici per cogliere i suoi bisogni di assistenza, così come nes-suno vuole negare l’importanza della tecnicità nell’opera infermieristica. Ma questa competenzatecnico-pratica deve essere costantemente orientata verso un fine esplicito e condiviso che ciimpedisca di impoverirci in uno sterile ed abitudinario “fare per fare”.

Ecco perché, ai colleghi che rincorrono la moda dei protocolli piuttosto che della cartella infermie-ristica - strumenti operativi ed informativi indispensabili quanto di complessa formulazione - e chelavorano costruendoli ex novo - senza consulenza alcuna e come se si trattasse s o l o di mettere nerosu bianco “quello che fanno tutti i giorni” - è necessario consigliare di attenersi ad alcune regole edimparare dagli errori degli altri. Anche se si pensa di voler unicamente descrivere “l’assistenza ditutti i giorni”, è bene sapere che porsi tale obiettivo in un contesto pre-scientifico - che non riconoscecioè alcuna teoria infermieristica di riferimento - significa enucleare dalle abitudini, dalle tradizionidel reparto tutte quelle categorie epistemologiche che abbiamo sin qui descritto e senza alcuno scon -t o su nessuno dei criteri di scientificità che abbiamo richiamato (di monosemia, di coerenza e digerarchia interna, di corroborazione e di completezza, oltre che di profondità e di partecipazione).

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In altre parole significa esplicitare, volenti o nolenti, in modo cosciente o incosciente, qual è il nostroo g g e t t o di studio, quali gli s c o p i e i m e t o d i, le regole e i p r i n c i p i, il linguaggio e infine l’o r i g i n a l i t àdel nostro agire. E perché questo? Perché se vogliamo descrivere la nostra assistenza i n f e r m i e r i s t i c ain modo generalizzabile e criticabile dall’esterno, la loro definizione è indispensabile e p recede l acostruzione degli strumenti informativi od operativi che vogliamo creare.

1.3.5 Il problema ermeneutico nella relazione tra l’infermiere e l’altroDopo aver presentato il piano della razionalità scientifica, o meglio della falsificabilità del sapereinfermieristico, e indicato in più di un passaggio il suo limite nel “problema dell’alterità” delpaziente, affrontiamo ora il piano della comprensione ermeneutica dell’altro, rivolgendoci princi-palmente al pensiero di Hans-Georg Gadamer.

Prima di affrontare questo difficile ma importante argomento vogliamo richiamare brevementeil celebre “mito di Cura”- come se ne costituisse una premessa indispensabile, o, meglio, come adisegnare lo sfondo indelebile nel quale collocare ogni tipo di rapporto con l’altro. In quanto infer-mieri, leggiamo in questo antico mito richiami che da sempre hanno caratterizzato il nostro senti-re: la relazione con l’altro, la vicinanza e la lontananza di qualcosa che è ancora da nominare, l’u-nità e l’equilibrio della salute, come anche la sensibilità ed il potere curativo della donna…L’assistenza, lo stare accanto a chi è nel bisogno, significa più comprendere che conoscere e spie-gare, più dialogare e partecipare che prescrivere e ordinare. Un tale programma richiede un tipodi “scienza” che si caratterizzi originalmente rispetto alle attuali discipline biomediche. E che siaall’altezza del proprio mito: Cura enim quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit122.

Il mito di Cura: la relazione curativa al centro delle relazioni umaneIl mito di Cura è riportato in un libro latino di fiabe, il Liber fabularu m, raccolte da un editore di nomeHiginus, o Igino, vissuto con tutta probabilità nel II sec. d.C. Ecco un breve riassunto di questo mito.

Mentre Cura stava attraversando un certo fiume, vide del fango argilloso. Lo raccolse pensosae cominciò a dargli forma. Ora, mentre stava riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove.Cura gli chiese di dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri. Maquando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle chefosse imposto il proprio nome. Mentre Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne ancheTe rra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa, laTerra, gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il qualecomunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu Giove, che hai dato lo spirito, almomento della morte riceverai lo spirito. Tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Mapoiché fu Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda Cura. Perquanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo, poiché dall’humus è stato tratto.

I personaggi di questo mito sono tutti ben noti. Giove è, come si sa, il fondatore e il primo deglidei dell’Olimpo; Terra è la dea nutrice e Saturno (o Crono), identificato con il tempo, è famoso perla sua devozione alla causa della giustizia e dell’equità; per questo egli è depositario del verdettofinale. Quanto a Cura, si tratta di un personaggio mitologico di grande importanza. Che cosa signi-fica il suo nome? In questo mito la parola “cura” riflette il significato storico del termine, denotan-do l’attività di colei che si prodiga, s’avvince in un “darsi da fare” sollecito e inesausto. A t t r a v e r s oun racconto, questo mito riflette una profonda comprensione della natura umana e fornisce al tempostesso una chiave interpretativa della tensione profonda che attraversa l’esistenza. È appunto la ten-sione tra l’elemento terrestre, corporeo che richiama continuamente homo alla sua origine (h u m u s) ,e l’elemento spirituale, “Cura”, quale principio formante, che mantiene l’essere umano fatto di terrae spirito in una unità sempre sfuggente. Nel suo “mantenere la presa” su entrambi gli elementicostitutivi, “Cura” - unico personaggio femminile del racconto - guarisce, in un certo senso, il male

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radicale dell’uomo: la separazione, la perdita, la divisione assicurandogli il bene grande, sebbeneinstabile, dell’unità - con il proprio corpo, con la propria individualità1 2 3.

Warren Thomas Reich, nello stesso saggio nel quale commenta da un punto di vista etico il mitodi Cura, ne intravede una sua versione moderna nel racconto di un’infermiera americana. Questacollega, di nome Claire Hasting, racconta di un suo incontro con un’anziana signora affetta da unagravissima forma reumatica. Attraverso la sola raccolta dati e l’esame fisico della paziente essariuscì ad introdursi nel suo dramma. Interpretò i dati e tutta la relazione dal punto di vista infer-mieristico, comprese in profondità la sua assistita facendo emergere il significato che la malattiaaveva per q u e l l a persona. Questo caso, riallacciandosi al mito di cura, ci pare esemplificativo,oltre che della tensione morale insita nell’assistenza, anche delle problematiche ermeneutichedella relazione fra infermiere e alterità del paziente che tratteremo più oltre. Ecco il racconto.

«Ebbi un’esperienza clinica sconvolgente quando stavo lavorando in una clinica reumatologica.Questa esperienza cambiò la mia comprensione del modo con cui le infermiere possono avere unprofondo effetto sui pazienti, anche solo grazie a degli incontri molto brevi. Il fatto cui mi riferi-sco avvenne in questa clinica dove i pazienti vengono esaminati e presi in considerazione qualipossibili candidati per dei protocolli di ricerca. [...]

Ora, venne una signora anziana in carrozzella accompagnata dalla figlia. Mi ricordo che avevauna terribile artrite reumatoide. Quando dico “terribile artrite reumatoide”, mi riferisco a un vero eproprio caso da manuale: una persona con molte deformità, che non può camminare, tutta contortae in un continuo dolore. […] La paziente venne da noi dopo essere stata curata da numerosi medi-ci, ma senza aver ricevuto, purtroppo, ciò che avremmo raccomandato come terapia medica appro-priata. Il che significa che era passata attraverso molti anni di sofferenze inutili. Quando vedo deipazienti in questa situazione, comincio normalmente con domande di fondo: Perché sono qui,quale è la loro storia, da quanto tempo sono ammalati e così via. La prima cosa che le chiesi fu seusava normalmente la sedia a rotelle e se quello era il suo modo di spostarsi. A questa domandasembrò molto sorpresa. Apparentemente, infatti, benché la pensassi completamente deforme ehandicappata, quella era stata la prima volta in vita sua in cui aveva avuto bisogno della sedia arotelle. In qualche modo, era riuscita a far fronte a tutto ciò che la sua artrite comportava, andarein giro per la casa, prendersi cura della sua famiglia, fare il suo lavoro, senza dover ricorrere allacondizione simbolica dell’“essere in una sedia a rotelle”.

Subito entrammo in contatto l’un con l’altra e l’incontro si spostò su di un livello emotivo moltoprofondo. Prima ancora di aver raccolto informazioni da lei, stavamo già parlando di come lei sisentiva, di quello che stava attraversando. È difficile da esprimere, ma ti accorgi quando staientrando in contatto col paziente. Non so se sia un certo modo di parlare della malattia, o di acco-stare il paziente, o di fare domande, o il linguaggio che usi. Ma certo i pazienti capiscono che tustai capendo ciò di cui parlano, che hai una esperienza delle cose che dicono. In una parola, che tucapisci ciò che essi sono. Essi capiscono che la malattia, così terribile per tanta gente, è qualcosacon cui tu hai già fatto i conti, una cosa che conosci, e quindi non così terribile. Potevo percepirequesto tra noi, questo contatto.

Successivamente passai a un esame fisico e guardai alle condizioni delle sue articolazioni.Pensandoci più tardi, mi resi conto che uno dei modi con cui riuscii a comunicare con lei e ad arri-vare a capire veramente le cose che sentiva fu semplicemente il modo con cui esaminai le sue artico-lazioni. Feci distinzioni sul tipo di gonfiore, il livello di infiammazione e così via. È possibile toccareuna persona, muovere la sua mano e il polso e dire: “ Deve essere molto doloroso”, o: “Sembra pro-prio che non abbia potuto usare questa mano per molto tempo”, o ancora: “Che cosa fa con questodito qui? Deve essere difficile per lei quando fa il bagno”... Le chiesi di muovere le braccia e vidiche non riusciva ad alzarle nemmeno fino alla spalla. Man mano che procedevamo con l’esame di

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tutto il corpo, si emozionava sempre di più. Probabilmente non aveva mai discusso con nessuno diqueste cose personali. Forse fu il fatto che sua figlia era lì. Ma fino a quel momento non era maiandata oltre cose del tipo: “Mi fa male un ginocchio” o “Questo dito è gonfio”. Non aveva mai parla-to di ciò che questi sintomi significavano per lei. Non aveva mai detto: “Ciò significa che non potròandare in bagno da sola, o vestirmi, o persino uscire dal letto senza l’aiuto di qualcuno?”. Quandofinimmo dissi qualcosa del tipo: “l’artrite reumatoide non è stata molto carina con lei”. Ella si mise apiangere, e sua figlia con lei. Io rimasi lì, anch’io sul punto di scoppiare. Poi mi disse: “Sa, nessunomi aveva mai parlato della mia malattia come di una cosa personale, come se tutto ciò importassequalcosa, un fatto personale”. Questa fu la cosa veramente significativa di quell’incontro. Non avevomolto altro da offrirle. [...] Le diedi alcuni consigli su come trovare aiuto, ma non fu questo l’aspettoimportante di quell’incontro. Piuttosto, qualcosa di veramente significativo era avvenuto tra noi,qualcosa che aveva valore per lei e che essa avrebbe portato via con sé1 2 4» .

«Solo quando sa di essere diventata ‘oggetto di cura’, la donna del racconto sente, finalmente,di essere curata»; solo quando diventa o g g e t t o delle p re m u re di qualcuno, il paziente può riconsi-derarsi come s o g g e t t o, e può finalmente permettersi di ricercare quell’unità e quel significato delvivere che altrimenti la malattia, la separazione e la sola quantificazione del sussistere non per-metterebbero di ricercare. L’infermieristica, legandosi per statuto ontologico alla Cura dell’altronon può dimenticare l’indissociabile unità della persona, non può non considerare l’aspetto rela-zionale in quanto di per sé terapeutico, non può non cercare di adeguare le proprie prestazionialle richieste dell’altro. Questa nostra collega, infatti, non si è limitata alla sola “spiegazione”della malattia, alla “misurazione esterna” dei danni e dei deficit da questa provocati nella suapaziente. Essa è anche riuscita a intuire, se non c o m p re n d e re , che significato avessero questideficit e questa malattia per quella persona; è riuscita a p a rt e c i p a re, e far part e c i p a re il malatoalla sua propria assistenza.

Notiamo subito un aspetto fondamentale: ponendoci nella prospettiva della “Scuola dei biso-gni”, noi possiamo cogliere nel bisogno la chiave d’accesso alla persona utilizzata dalla Hasting.La “prima cosa” che chiese alla signora fu se la carrozzella era il suo modo abituale per spostar-si: quella era stata la prima occasione in cui la signora “ne aveva avuto bisogno”. “Subitoentrammo in contatto”, si riconobbero come p e r s o n e prima ancora che come infermiera epaziente: è questo un bisogno di i d e n t i t à e di reciproco rispetto. La signora parlava liberamente“di come si sentiva” e capiva che l’infermiera comprendeva “ciò che voleva dire, ciò che leiera” e che non provava imbarazzo di fronte alla deformità e alla malattia, alla sofferenza e allelacrime. Capiva che l’infermiera aveva “esperienza di queste cose”, che per lei non erano cosìterribili perché con esse “ci aveva già fatto i conti” che poteva tranquillamente toccare il corpoprovato della signora senza alcun disagio. Anzi “forse fu proprio il m o d o” con cui esaminò lesue articolazioni che le permise di comunicare e comprendere “veramente le cose” (bisogno dicomunicare, di essere ascoltati e capiti, di essere accettati per quello che si è). Non solo distinsee classificò i sintomi ed i segni della malattia, ma questo gli servì per parlare di cose “personali”delle quali la signora non aveva mai avuto modo di parlare con nessuno. Non aveva mai potutoesprimere “ciò che questi sintomi significavano” per lei. Le discrete considerazioni e le doman-de dell’infermiera: “Sembra proprio che non abbia potuto usare questa mano per molto tempo”,o “Che cosa fa con questo dito qui? Deve essere difficile per lei quando fa il bagno”, e ancora“Come riesce a sopportare il dolore?” suscitano nella paziente una nuova consapevolezza suipropri deficit autoassistenziali: “Ciò significa che non potrò andare in bagno da sola, o vestirmi,o persino uscire dal letto senza l’aiuto di qualcuno?”. Far emergere le nuove modalità con cuiessa dovrà rispondere a questi suoi bisogni, permise alla paziente di muovere un primo passoverso l’accettazione del suo nuovo stato di salute, sentendosi - nonostante l’artrite e nelle cose

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più intime del suo quotidiano - accettata e compresa. L’emotività di cui si carica via via la rela-zione assistenziale è, d’altronde, un chiaro segnale di questa nuova consapevolezza: “Nessunomi aveva mai parlato della mia malattia come di una cosa personale, come se tutto ciò importas-se qualcosa, un fatto personale”.

L’infermiera è colei che riesce ad aiutare gli altri nella misura in cui “ha già fatto i conti” con ipropri bisogni, la propria paura della sofferenza e della malattia, con la propria angoscia dellamorte. Ma, chiediamoci, come fa l’infermiera ad entrare in relazione con l’altro, a comprendere isuoi bisogni? Come può aiutarlo ad accettare la sua propria salute ancora possibile? Acausa di taliinterrogativi, nel quarto capitolo sosterremo la necessità che la teoria dei bisogni dell’infermieri-stica si costruisca in quanto teoria costruttivista, in grado cioè di interpretare i bisogni dell’altronella particolare situazionalità di ogni caso, re-interpretando, o meglio, ri-costruendo ex-novo leproprie categorie (pre-comprensioni) scientifiche attraverso la relazione con l’altro.

A questo riguardo è importante ricordare come Martin Heidegger richiamandosi esplicitamenteall’antica mitologia latina, indicò proprio nella “cura” la struttura fondamentale dell’esistenza.L’aver cura di sé, delle cose del mondo e degli altri, era per Heidegger l’unica determinante strut-turale dell’essere-nel-mondo; l’unico modo che l’uomo ha di comprendere sé stesso è aiutare glialtri ad essere liberi di assumersi le proprie cure, ossia di comprendere sé stessi. Sempre seguendoil pensiero di Heidegger, la Cura esprime in tal modo la condizione fondamentale di un essere che,gettato nel mondo progetta in avanti le sue possibilità. L’esistenza, infatti, è in primo luogo perHeidegger un essere possibile; ma questo stesso gettarsi in avanti lo riconduce incessantemente edineluttabilmente alla sua situazione di essere-gettato-nel-mondo. La Cura chiude e conclude que-sta circolarità dell’esistenza che - tra tutte le possibilità che pongono l’uomo in mezzo alle cose eagli altri - trova nell’ineluttabiltà della m o rt e il suo essere autentico. La possibilità della morteisola l’uomo con sé stesso. Soltanto nel riconoscere la possibilità della propria morte,n e l l ’ a s s umerla su di sé con una scelta anticipatrice che l’uomo ritrova il suo essere autentico ecomprende veramente sé stesso come essere-per-la-morte125.

Nell’autoassistenza quotidiana, nella giornaliera risposta ai nostri ineliminabili bisogni fisiologi-ci e nella nostra saltuaria percezione di piccoli e grandi fastidi o dolori ciascuno di noi - paziente,medico od infermiere che sia - dovrebbe soffermarsi ogni tanto a riflettere che sono altrettanti“segnali” che ci ammoniscono di ritrovare l’equilibrio, l’adeguatezza interna del nostro vivere.Non già unicamente nella soddisfazione istantanea del bisogno o nell’alleviamento del dolore, manel significato che diamo a questa nostra autoassistenza. Richiamandoci ad Heidegger potremmoarrivare a dire che la definizione dell’uomo nell’infermieristica è quella di un essere che ha consa -pevolezza dei propri limiti, di un essere-nel-bisogno che, avendone coscienza, ne ricerca la risolu-zione ogni giorno, per tutta la vita, con le risorse che abbiamo e che siamo. Parafrasando un passodi Gadamer si può affermare che il bisogno, o la sofferenza, si collegano direttamente con il lorosuperamento in una connessione che costituisce l’essenza della vita. L’ineliminabilità dei bisognifondamentali dell’uomo e della sua sofferenza e morte pone un limite intrinseco alla modernamedicina occidentale: l’accettazione del proprio destino, attraverso i suoi bisogni, la sofferenza ela morte, è infatti, un affare di senso appartenente al singolo126.

Siamo ormai convinti che la sola oggettivazione degli aspetti assistenziali sia un passaggioimportante ma non sufficiente e che tutto l’impianto epistemologico dell’infermieristica - se vorràrispondere alla domanda “Che cos’è l’assistenza?” - dovrà giocoforza risolvere il problema del-l’alterità del paziente e della sua interpretazione. C’è quindi qualcosa di più del solo ricercare laspiegazione e risoluzione di un problema assistenziale, poiché nel far questo si tratta ormai anchedi comprendere gli sforzi verso la salute dell’altro, il suo vivere attraverso il manifestarsi e la riso-luzione di bisogni ineliminabili ai quali, forse, non riesce più a rispondere da sé, come saprebbe oc ome vorrebbe. Di conseguenza, dedicheremo un lungo paragrafo all’approfondimento

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d e l l ’ e r m eneutica in quanto determinante, a nostro avviso, per capire l’assistenza infermieristica ingenerale - e non meno che essenziale, come constateremo nel quarto capitolo, per la costruzionedella t e oria dei bisogni dell’infermieristica in particolare.

La filosofia ermeneutica di Hans-Georg GadamerL’ermeneutica è il termine che già nella filosofia greca designa l’arte o la tecnica dell’interpreta-zione, il procedimento cioè che consente di risalire da un segno al suo significato. L’ermeneuticaha dunque un’antichissima storia; nella teologia innanzitutto e poi nella storiografia e nella lettera-tura. La stessa esegesi biblica - dal greco heisegesis, “tirar fuori” - nella sua formulazione estrema,è composta da fasi progressive che richiamano l’interpretazione: l e g g e re, s p i e g a re ( d i s t i n g u e r e ,interpretare, dare significato), comprendere. Le origini di questa metodologia sono antichissime: ilcapitolo ottavo del Libro di Neemia (V sec. a C.), ad esempio, ci illustra attraverso la successionedi sette semplici verbi (poi suddivisi in due movimenti), l’antica modalità di lettura della Torah:l e g g e re (distinguere ed i n t e r p re t a re), s p i e g a re, c o m p re n d e re (primo movimento scientifico-e s e g etico), ascoltare, vedere, agire e gioire (secondo movimento teologico-spirituale).

Ben più recentemente, a partire dal romanticismo con l’opera di F. Schlegel e di F. S c h l e i e r m a c h e r,si intese dare all’ermeneutica un posto di rilievo all’interno della filosofia. Dopo di loro, W. Diltheyha cercato di porre l’ermeneutica a fondamento dell’intero edificio delle “scienze dello spirito”.Dilthey concepì l’ermeneutica non solo come un insieme di questioni metodologiche - regole etecniche - ma anche come una prospettiva di natura filosofica da porre alla base della c o s c i e n z as t o r i c a dell’uomo e della storicità dell’uomo. Tuttavia è stato Heidegger a comprendere lo statutofilosofico delle concezioni di Dilthey, nel senso che ha visto l’ermeneutica o “il comprendere” nontanto come uno s t ru m e n t o a disposizione dell’uomo quanto piuttosto come una s t ruttura costitutivadell’Esistere (o meglio ancora dell’esser-ci, del D a - s e i n)1 2 7, come una dimensione intrinseca d e l-l’uomo. L’uomo cresce su sé stesso, è “un gomitolo di esperienze”, ed ogni nuova esperienza èun’esperienza che nasce sullo sfondo di quelle precedenti e che le reinterpreta.

Quanto alla circolarità del comprendere, non possiamo non richiamare un notissimo passo diEssere e tempo di Heidegger: “In ogni comprensione del mondo è con-compresa l’esistenza e vice-versa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del “pre” che abbiamo descritta.L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compresol ’ i n t e r p r e t a n d o”1 2 8. Ma il filosofo contemporaneo che ha sviluppato maggiormente il pensiero diHeidegger sull’ermeneutica è Hans-Georg Gadamer nell’opera Verità e Metodo. Lineamenti diun’ermeneutica filosofica (1960). Gadamer non si pone il problema della verità in una formaastratta, ma nel senso “delle possibilità che l’uomo ha di farne concretamente e s p e r i e n z a”. Lariflessione di Gadamer è rivolta principalmente ai temi dell’arte, della storiografia e della lettera-tura, ma vi è, costante e a volte critico, il riferimento ai metodi delle scienze della natura soprattut-to quando applicati all’umano.

La sua “ermeneutica ontologica”, tra l’altro, intende offrire alle “scienze dello spirito” non giàmetodi o tecniche preconfezionati quanto piuttosto una giustificazione teore t i c a più adeguata.Queste scienze, afferma infatti Gadamer, a p p a rtengono allo stesso patrimonio ereditario dellaf i l o s o f i a, e si differenziano dalle scienze della natura non solo per il loro modo di procedere,bensì anche «per il loro riferimento processuale alle cose, per il loro p render parte alla tradizio -n e, che esse fanno sempre di nuovo parlare per noi». Per questa ragione Gadamer ha proposto diintegrare l’ideale della conoscenza obiettiva, che, come abbiamo visto, domina i nostri concettidi sapere, scienza e verità, con l’ideale del prender parte, della p a rt e c i p a z i o n e . E in un librointervista arriva a dichiarare che «la p a rtecipazione alle espressioni essenziali dell’esperienzaumana - come si sono sviluppate nella tradizione artistica, religiosa e storica non solo dellanostra, ma di tutte le culture - questa partecipazione possibile è l’autentico criterio per valutare

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la ricchezza o la povertà dei risultati delle scienze dello spirito. Lo si potrebbe esprimere anchein altro modo e dire: in ogni scienza dello spirito c’è la filosofia, che non può mai giungeretotalmente al concetto1 2 9».

Lo scopo dell’ermeneutica filosofica, o ontologica, di Gadamer è dunque quello di mettere inluce le strutture trascendentali del comprendere, superando il limitato sapere di una scienza che,ridotta al proprio metodo, egli ritiene inadatta a spiegare il procedimento tipico delle scienze dellospirito e la specifica esperienza di verità che ne sta alla base. Egli non ha inteso quindi costruireuna nuova epistemologia o filosofia della scienza, bensì descrivere non soltanto la comprensionedi uno specifico argomento, ma anche l’autocomprensione di qualsiasi ricerca, che influisce sullaformulazione delle domande e delle conclusioni130.

Pur coscienti della limitatezza del nostra presentazione - considerata la vastità dell’argomento ela difficoltà dei contenuti - affrontiamo la tematica in sei passaggi: a) il circolo ermeneutico delcomprendere; b) comprensione, spiegazione e applicazione; c) ermeneutica e filosofia pratica;d) comprensione ed esperienza; esperienza e sofferenza; e) sul problema della validità e dell’o-biettività della comprensione; f) tra dogmatismo e relativismo: l’atteggiamento della docta igno -rantia, il dialogo e il contestualismo.

a) Il circolo ermeneutico del comprendereIl circolo ermeneutico è il punto centrale di tutta la filosofia gadameriana. In esso si sostiene chel’interpretante non è mai neutro nei confronti dell’interpretazione, non è affatto una tabula rasa ,ma accede all’interpretato solo tramite una sua particolare pre-comprensione (Vo rv e r s t ä n d n i s) ,cioè con i suoi pre-giudizi (Vorurteile), le sue pre-supposizioni, le sue attese. Dato quel particolaretesto (ma noi possiamo subito leggere: data quella particolare persona) e date le pre-comprensionidell’interprete, l’interprete abbozza un preliminare significato del testo: siffatto abbozzo si ha pro-prio perché il testo viene letto dall’interprete con certe attese determinate, derivanti dalla sua pre-comprensione. Tutto il successivo lavoro ermeneutico consiste nell’elaborazione di questo proget-to iniziale che viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazionedel testo. La comprensione, insomma, non è un evento circolare che si svolge all’interno del testo,come credeva l’ermeneutica del XIX secolo: secondo Gadamer, già per Heidegger «il circoloermeneutico è caratterizzato dal fatto che la comprensione del testo è permanentemente determi-nata dal movimento anticipante della precomprensione dell’interprete. La comprensione è deter-minata dalla precomprensione. Il circolo di parti e tutto non si risolve dissolvendosi nella com-prensione raggiunta, ma piuttosto proprio in tale comprensione si realizza nel modo più pieno131».

In questi semplici tratti sta tutta la profondità e la difficoltà di questa “ontologia ermeneutica”.Svolgendo il suo pensiero Gadamer concentra l’attenzione su due concetti centrali: i pregiudizi ela tr a d i z i o n e - non senza intenti riabilitativi nei loro riguardi. Per tali intenti Gadamer è statodefinito “il filosofo dei p re g i u d i z i”, di quelle “idee” preconcette che intessono una tradizione ocultura. Il “pregiudizio”, per Gadamer, non ha un significato spregiativo; equivale a “idea”, “con-gettura”, “presupposizione”. Quelli che oggi chiamiamo “giudizi”, saranno domani pre-giudizi,mentre i pre-giudizi di ieri o di oggi potranno essere i giudizi di domani. Per questo, egli dice, «ipregiudizi dell’individuo sono costitutivi della sua realtà storica più di quanto non lo siano i suoigiudizi». Mentre Bacone affermava di voler purificare la mente dai pregiudizi (o i d o l a), Gadamersostiene che, una volta divenuti consapevoli dei nostri i d o l a, dobbiamo senza sosta provarli, cor-reggerli ed eventualmente eliminarli, ma per rimpiazzarli con dei migliori. È con l’Illuminismoche il concetto di pregiudizio acquista l’accentuazione negativa che ora gli è abitualmente con-nessa. Kant esortava: “abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto”, senonché, fa presen-te Gadamer, il “superamento di tutti i pregiudizi” - che è una specie di precetto generaledell’Illuminismo - apparirà esso stesso un pregiudizio «dalla cui revisione dipende la possibilità

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di una adeguata conoscenza della finitezza che costituisce non solo la nostra essenza di uomini,ma anche la nostra conoscenza storica».

Quanto alla t r a d i z i o n e, Gadamer chiarisce come sia la critica illuministica alla tradizione (inquanto considerata una forma di a u t o r i t à avversa alla ragione), sia la sua pretesa riabilitazioneromantica non colgono la verità della sua essenza storica. Di fronte all’ingenuità dell’Illuminismonel volersi sbarazzare della tradizione, il romanticismo oppone la pretesa di stabilire delle “tradi-zioni radicate” davanti alle quali la ragione dovrebbe “soltanto tacere”, dimenticando che la tradi-zione per essere umanamente tale, ha bisogno di essere razionalmente e liberamente accettata,adottata e coltivata. In ogni caso, dunque, l’uomo non può collocarsi fuori dalla tradizione, poichéquest’ultima fa parte della sostanza storica del suo essere.

L’ermeneutica affronta seriamente il problema delle condizioni per cui è possibile ottenere unaconoscenza storica della cultura e delle tradizioni del passato. Una di queste condizioni è la nasci-ta della comprensione in una situazione. Secondo Hoy, «nell’ermeneutica filosofica di Heideggere di Gadamer è il primato ontologico conferito alla storicità umana a determinare l’approccio allaquestione della conoscenza storica. Ciascuna generazione, non soltanto è destinata a comprenderesé stessa in un modo diverso da quello in cui la generazione precedente aveva compreso sé stessama comprenderà anche quella generazione passata in modo diverso da quello in cui essa stessa sicomprendeva. […] L’ermeneutica di Gadamer insiste sul fatto che l’effetto, o la Wirkung, di untesto è una costituente importante del suo significato. La Wirkung differisce da un’epoca all’altra:essa ha dunque una storia ed una tradizione, che Gadamer chiama Wirkungsgeschichte [tradizione,o “Coscienza della determinazione storica”, o ancora, letteralmente: “storia degli effetti”]. Per uninterprete contemporaneo, questa storia è ancora operante, e anzi, la sua stessa comprensione deltesto ne dipende e ne è condizionata132».

Tornando ora alla questione del circolo ermeneutico si può meglio comprendere come esso nonabbia dunque un carattere formale - non è soggettivo né oggettivo - ma caratterizza la comprensio-ne come “un’interazione del movimento della trasmissione storica e del movimento dell’interpre-te”, giacché il compito dell’ermeneutica «è chiarire questo miracolo della comprensione, che nonè una segreta comunicazione fra le anime, bensì un p a rt e c i p a re al senso condiviso1 3 3» .L’anticipazione di senso che guida la nostra comprensione di un testo, scrive Gadamer, «non è unatto della soggettività, ma si determina in base alla comunanza che ci lega alla tradizione. Questacomunanza, però, nel nostro rapporto con la tradizione, è in continuo atto di farsi. Non è semplice-mente un presupposto già sempre dato; siamo noi che la istituiamo in quanto comprendiamo, inquanto partecipiamo attivamente al sussistere e allo svolgersi della tradizione e in tal modo la por-tiamo noi stessi avanti. Il circolo della comprensione non è dunque affatto un circolo “metodico”,ma indica una struttura ontologica della comprensione134».

Abbiamo visto che l’interprete non affronta l’interpretato con una mente libera dai pregiudizi;più che una tabula rasa, la sua mente è una tabula plena , piena di pregiudizi, di Vorverständnissenza i quali la comprensione non potrebbe nemmeno iniziare. Secondo Gadamer, infatti, il lavoroermeneutico implica sempre una “tensione” fra “estraneità” e “familiarità”, una sorta di urto tra lepre-comprensioni dell’interprete e la realtà dell’interpretato.

Come vedremo nel quarto capitolo, nella relazione infermieristica questa tensione tra identità ealterità si realizza nel confronto tra il piano della competenza autoassistenziale del paziente (equindi obbligatoriamente anche il piano della sua competenza etnoassistenziale) con il piano dellacompetenza infermieristica. Se infatti l’interpretato ci fosse totalmente estraneo l’impresa erme-neutica sarebbe condannata allo scacco, se ci fosse completamente familiare non avrebbe senso losforzo interpretativo. «Chi vuol comprendere un testo - afferma Gadamer - deve essere pronto alasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preli -m i narmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva

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“ n e utralità” né un oblio di sé stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi. Bisogna essere consapevoli delle proprie prevenzioni perchéil testo si presenti nella sua alterità e abbia concretamente la possibilità di far valere il suo conte-nuto di verità nei confronti delle presupposizioni dell’interprete1 3 5». Solo così può pro g re s s i v a -mente e m e rg e re l’alterità dell’altro; solo se l’interprete riconosce e man mano riflette sui propri pre-g i u d i z i - pur senza cadere nella neutralità o nell’oblio di sé - e se permette di “lasciarsi dire qual-cosa” dall’altro. L’alterità dell’altro (del testo nel caso della letteratura, del paziente nel caso del-l’infermieristica) non è un pretesto perché parli solo l’interprete! Questi deve continuamente pro-porre un “senso” dopo l’altro, continuamente rivedendo e migliorando le proprie pre-comprensio-ni, per adeguarle all’altro, permettergli di rivelarsi per quello che è, in tutta la sua alterità. Dunque,non si tratta affatto di “mettersi al sicuro” contro la voce che ci parla dal testo, quanto piuttosto ditener lontano tutto ciò che ci impedisce di ascoltarla adeguatamente: «Sono i pregiudizi di cui nonsiamo consapevoli quelli che ci rendono sordi alla voce dell’altro».

Ma in cosa consiste il fenomeno dell’interpretazione? Una volta appurata la situazionalità e lastoricità invalicabile del nostro essere e del nostro comprendere l’incontro ermeneutico non potràpiù consistere, secondo Gadamer, in un “ingenuo” tentativo di mettere tra parentesi sé stessi ed ilproprio presente, ma consisterà piuttosto in una “fusione di orizzonti” dove la propria particola -rità non è annullata ma posta al servizio della comprensione della particolarità altrui. Tale fusio-ne è resa possibile non in virtù di qualche artificio “metodico”, ma, come ben sappiamo, da quelnesso vivente fra passato e presente, fra identità e alterità, che è la tradizione storica. Questo nessoè il fondamento della specifica “verità” extra-metodica delle scienze dello spirito, ed esclude pro-grammaticamente la possibilità di un sapere assoluto.

b) Comprensione, spiegazione e applicazioneUn principio fondamentale della filosofia di Gadamer è che la separazione tra interpretazione ecomprensione è del tutto astratta. “Alles Vertehen ist Auslegung”, insiste ripetutamente Gadamer:ogni comprensione è interpretazione. Ogni comprensione, compresa quella scientifica, è radicatain una situazione, e dunque rappresenta un punto di vista, una prospettiva, su ciò che viene cono-sciuto. Non esiste alcun punto di vista assoluto o non prospettico, a partire dal quale vedere ognipossibile prospettiva. L’interpretazione è necessariamente un processo storico, che di continuodeve essere rielaborato sui significati appresi durante il processo conoscitivo, e sul significato stes-so di tale processo. In questo senso la comprensione non è una mera ripetizione del passato, ma“partecipa dei significati presenti” in entrambi i protagonisti. Di più: occorre aver chiaro che “nonc’è un’unica interpretazione giusta” e giusta una volta per tutte, in quanto l’interpretazione implica- per ogni protagonista - una continua mediazione di passato e presente (un continuo dialogo tra lecompetenze in campo)1 3 6. E questo dovrebbe consolare quegli infermieri che si lamentano di discu-tere animatamente con i colleghi sulla pianificazione assistenziale di certi pazienti. Come di un’o-pera musicale si possono dare differenti interpretazioni (ed ogni interpretazione è a suo modo unarielaborazione personale dell’artista di un brano storico), così gli infermieri possono ed anzi devonoaccettare l’incontro e la difficile interpretazione dell’alterità del paziente, lasciando che la scientifi-cità delle loro decisioni non si ritrovi unicamente nell’evidenza delle prescrizioni diagnostico-assi-stenziali, ma anche nell’intersoggettività dei significati condivisi nella relazione con l’altro.

L’ermeneutica classica distingueva il procedimento ermeneutico in tre distinti e tipici momenti:il primo della subtilitas intelligendi (il comprendere), la subtilitas explicandi (lo spiegare) e dellasubtilitas applicandi (l’applicare). Tutti erano costitutivi dell’atto interpretativo ed è caratteristicoche tutti e tre siano chiamati subtilitas, il che significa per Gadamer che non sono da intendersicome metodi o procedimenti tecnici di cui si dispone, ma piuttosto come facoltà, come competen -ze che esigono una particolare finezza di spirito. Dobbiamo notare subito che anche questo aspetto

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dell’ermeneutica trova riscontro nella storia dell’infermieristica, ad esempio nell’importanza cheda sempre attribuiamo al tirocinio pratico degli studenti - che dovrebbe essere quel periodo nelquale, condotti per mano da infermieri esperti, si affinino non solo la manualità dell’apparato tec-nico del futuro infermiere, ma anche quella sensibilità ed apertura all’altro che è la premessa allasua comprensione.

Per Gadamer questi tre momenti non sono per nulla suddivisibili e ciascuno è indispensabile alcomprendere in quanto pressoché istantanei l’uno con l’altro. L’applicazione, in particolare, è il“problema centrale di ogni ermeneutica” ed è parte integrante di ogni comprensione. Esattamentecome “la comprensione è sempre interpretazione” (Auslegung), essa è “sempre già applicazione”(Anwendung)137. Hoy, commentando questo passaggio, presenta l’interprete come un regista tea-trale che deve mettere in scena un dramma, o come un giudice, che deve pronunciare un verdetto.Il testo letterario, il dramma, il codice, derivano tutti da epoche precedenti, e di solito ne esistonogià altre interpretazioni anteriori, ma nessuno, e neppure il giudice, può semplicemente limitarsi aripetere un precedente. Per essere giusto, il giudice, come gli altri, deve reinterpretare la storia deiprecedenti in base ai nuovi fattori che appartengono al contesto attuale.

L’importanza che Gadamer attribuisce all’a p p l i c a t i o è dunque una conseguenza della sua tesicentrale: che la comprensione sia fondata e costituita da una concreta situazione storico-t e m p o r a l e. Tuttavia, per Hoy è chiaro che sarebbe un errore ritenere che la tesi di Gadamer impli-chi una mera lettura, da parte dell’interprete, dei propri significati all’interno del testo, o che l’in-terprete comprenda soltanto i significati che il testo ha per lui (e non quelli che ha in sé stesso).L’obiettivo dell’interpretazione può essere ancora l’i n t e l l i g e re - dal latino i n t u s - l e g e re, “leggeredentro” - ossia la ricostruzione di quelle domande a cui il testo stesso tenta di rispondere(Heidegger dice a proposito che “interpretare è dire il non detto”).

Non sarà sufficiente allora che l’infermiere ponga dogmaticamente al paziente le proprie domande,l’interrogativo di cui la persona del paziente costituisce una risposta si aprirà a sua volta per l’infer-miere in ulteriori domande. Scrive Hoy: «L’a p p l i c a t i o che, insiste Gadamer, è implicata nella com-prensione non è dello stesso genere di quella prevista dall’epistemologia tradizionale. Non si tratta dia p p l i c a re concetti o teorie a una situazione pratica, o a una serie di osservazioni. Anzi, il termine nonè usato nello stesso senso in cui si dice “scienze applicate” o “applicazioni tecnologiche”. Gadamersi assume il compito di spiegare come la comprensione ha luogo in generale, e non come può essereapplicata correttamente. Dal momento che la comprensione è sempre inserita in una situazione, il pro-blema non consiste nell’adattare alla situazione idee preconcette, ma vedere cosa accade n e l l a s i t u a-zione, e, cosa più importante, che cosa si deve fare. La connessione tra comprensione e praxis è perGadamer molto stretta. La sua nozione di prassi non è però quella moderna: essa risale ad Aristotele, esi colloca nella Wi r k u n g s g e s c h i c h t e [Storia degli eff e t t i ]della filosofia aristotelica1 3 8» .

c) Ermeneutica e filosofia pratica Per Gadamer la distinzione moderna tra teoria e prassi, azione e pensiero, è essa stessa più teoricache pratica. Si tratta di una distinzione altamente astratta, fondata su una netta biforcazione, chedifficilmente ritroviamo nell’esperienza concreta. Interviene però una frattura quando la riflessio-ne viene paragonata all’attività fisica implicata nell’espletamento di un’azione. La riflessione nonfornisce mai una ragione del tutto sufficiente per l’azione. In effetti, la vita ordinaria dà moltiesempi di azioni che non concordano affatto con le riflessioni che le precedono; e spesso è neces-sario distinguere tra le decisioni cui si arriva per riflessione, e quelle esibite da azioni effettive. Ilragionare pratico, nella vita ordinaria, non agisce nello stesso modo della ragione teorica. Unesempio molto pregnante di questo ragionare pratico avviene quando alcune infermiere ci diconodi non ritrovare nel piano di assistenza la complessità del paziente assistito e la profondità dir e l azione e di scambio che si è avuto con questi. “L’esperienza vissuta è più di quanto scritto” è

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come dire “l’assistenza è più del fatto scientifico”: vi sarà sempre qualcosa che “non riusciremoad esprimere con il linguaggio tecnico della teoria” e che resterà inciso solo nella nostra persona, abeneficio dei prossimi pazienti che assisteremo.

Chiarificare la relazione tra comprensione e prassi è un obiettivo importante dell’ermeneutica diGadamer, e la sua idea che l’applicazione sia implicita in ogni comprensione gioca un ruolo cen-trale. «“Non vi è assolutamente alcun dubbio che tutta la nostra conoscenza cominci con l’espe-rienza”. Questo famoso inizio della Critica della ragione pura di Kant - scrive Gadamer - certa-mente vale anche per quello che sappiamo sull’uomo. Da un lato vi è ciò che definiamo “scienza”,ovvero la totalità dei risultati della ricerca scientifica, che sono in costante progresso. Dall’altro sitrova il sapere empirico, frutto della cosiddetta prassi che ognuno è in grado di accumulare inces-santemente: il medico come il sacerdote, l’educatore, il giudice, il militare, il politico, il commer-ciante, l’impiegato, il funzionario. L’esperienza che l’uomo acquista di sé e dei propri simili cre-sce di continuo, non solo nella vita professionale, ma anche nella vita privata. Un immenso patri-monio di sapere che ha per oggetto l’uomo affluisce inoltre a ciascuno di noi a partire dalla tradi-zione culturale, dalla poesia e dalle arti in genere, dalla filosofia, dalla storiografia e dalle discipli-ne storiche. Tale sapere è di certo “soggettivo”, cioè ampiamente incontrollabile e instabile, tutta-via la scienza non può negargli la propria attenzione. Quindi è da sempre, dai tempi della “filoso-fia pratica” di Aristotele fino all’epoca romantica e post-romantica delle cosiddette scienze dellospirito, che si tramanda un ricco sapere intorno all’uomo. A differenza delle scienze naturali, però,tutte queste diverse fonti di esperienza sono caratterizzate da un comune aspetto. Il loro sapere èesperienza solo quando viene nuovamente integrato nella coscienza pratica di chi agisce139».

Naturalmente, Gadamer non è l’unico a cogliere l’essenziale situazionalità della comprensione eil suo legame intrinseco con le azioni e gli interessi pratici. Anche Ludwig Wittgenstein sottolineail modo in cui la comprensione è fondata e costituita nei contesti significativi delle diverse formedi vita, e neppure lui ritiene che si possa stabilire una netta differenza tra comprensione e applica-zione. Nelle Ricerche filosofiche sostiene che comprendere una regola è allo stesso tempo com-prendere come applicarla: per Wittgenstein, imparare una regola significa disporre di una tecni-ca140, e ciò vale anche per la teoria gadameriana della comprensione.

A parere di Hoy, il tentativo di Gadamer di mostrare i legami tra comprensione e prassi è, comequello di Wittgenstein, inteso come correttivo al problema “teorico” posto dall’apparente antitesifilosofica tra teoria e prassi. A d i fferenza di Wittgenstein, però, Gadamer cerca nella tradizionefilosofica una più valida nozione di prassi, e la trova in Aristotele.

Innanzitutto, chiarisce nuovamente Gadamer, «per quel che riguarda la parola prassi, bisognaaver chiaro che essa non deve essere intesa qui in senso troppo ristretto, ad esempio nel senso del-l’applicazione pratica di teorie scientifiche. È vero che il confronto per noi usuale di teoria e prassisi avvicina a quell’accezione, e certamente alla nostra prassi appartiene anche l’applicazione delleteorie. Ma questo non è tutto. “Prassi” significa qualcosa di più. In tale termine si raccoglie la tota-lità delle nostre faccende pratiche, ogni agire e comportarsi umano, l’autoregolazione complessivadegli uomini di questo mondo, quindi anche la loro politica, il dibattito politico e la legislazione.La nostra prassi è la nostra forma di vita. E in questo senso essa è il tema della filosofia praticache Aristotele ha fondato. […] In Aristotele la razionalità che guida la prassi si chiama phrónesis:essa si verifica solo nella situazione concreta e inoltre si trova già sempre in una connessionevivente di convinzioni, di consuetudini e valutazioni comuni, in un ethos141».

Per Aristotele la prassi non è, in effetti, antitetica alla teoria, poiché la teoria stessa è una formadi prassi142. Il compito della filosofia pratica consiste nel portare alla coscienza quella specificacaratteristica dell’uomo che è la capacità di preferire e di scegliere riflessivamente, cosicché gliuomini, nell’esercizio effettivo della scelta o della discriminazione, possano divenire coscienti inmodo adeguato del rapporto tra le loro scelte o discriminazioni e il Bene143.

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È a questo punto che secondo Gadamer, subentra il problema ermeneutico. Nella concretasituazionalità nella quale ci si viene a trovare - situazione che può avere certamente qualchesomiglianza con altre situazioni, ma che non è mai completamente simile alle altre - può accade-re di trovarsi nella condizione di essere sprovvisti di “istruzioni per l’uso”, di mancare o di doverammettere la limitatezza delle linee guida che descrivono adeguatamente il caso, di riconoscereche gli ordinamenti generali sul bene e sul male che ci sono stati impartiti non ci aiutano: siamonoi stessi che dobbiamo decidere quello che si deve fare. E precisamente nel far questo noi dob-biamo intenderci riguardo alla s i t u a z i o n e nella quale ci troviamo: dobbiamo comprenderla, inaltre parole dobbiamo i n t e r p re t a re. Questa - afferma Gadamer - è la dimensione ermeneutica del-l’etica e della ragione pratica. L’ermeneutica è l’arte dell’intesa. E subito possiamo osservareche tale intesa sulla nostra situazione pratica e sul da farsi in essa non è affatto «una faccendamonologica, bensì ha il carattere del dialogo. Si ha a che fare gli uni degli altri. La nostra formadi vita ha il carattere dell’Io-Tu, dell’Io-Noi e del Noi-Noi. Nelle nostre cose pratiche dipendia-mo dall’intesa. E l’intesa avviene nel dialogo1 4 4» .

La phrónesis, o saggezza pratica, combina la generalità della riflessione sui principi con la par -ticolarità della percezione all’interno di una data situazione. Essa si distingue dalla conoscenzateoretica (epistéme) in quanto ha a che fare non con qualcosa di universale ed eternamente identi-co, ma con qualcosa di particolare e mutevole145. Richiede esperienza così come conoscenza. Inquesto senso, è analoga al sapere di un artigiano (téchne), salvo per il fatto che gli individui nonhanno un controllo di sé stessi e del proprio destino così come lo ha un artigiano sul proprio pro-dotto. Inoltre, la saggezza pratica differisce dalla téchne per il fatto che «della creazione artistica(téchne) v’è un fine diverso da essa stessa, dell’azione invece non ci può essere: il fine è infatti labontà dell’azione1 4 6». La p h r ó n e s i s non è solo intuizione quanto piuttosto implica il “ragionaredella deliberazione”: per questo Aristotele specificamente la distingue dalla ragione intuitiva ointelletto: «l’intelletto infatti è proprio della definizione prima, di cui non si dà ragionamento147».

D’altra parte la deliberazione della saggezza pratica non deve neppure essere identificata total-mente con il ragionare teoretico, in quanto esso conduce alla spiegazione scientifica e alla dimo-strazione della cosa conosciuta. Il concetto gadameriano di applicazione è dunque molto similealla nozione di phrónesis, perché non implica l’applicazione di qualcosa a qualcosa d’altro, comesi direbbe che un artigiano applica la sua concezione mentale alla materia fisica, quanto piuttosto«implica la percezione di che cosa è in gioco in una data situazione». A differenza della téchne,l’arte dell’artigiano, il quale possiede un sapere insegnabile, la saggezza pratica non può essereinsegnata. Non è neppure una acquisizione razionale, perché «di siffatte disposizioni vi può esseredimenticanza, ma non già della saggezza148». Per Gadamer, insomma, la comprensione è come laphrónesis perché è materia non solo di riflessione ma anche di percezione e di esperienza. Il feno-meno della saggezza pratica mostra che nella comprensione in generale l’azione e il pensiero (o intermini ermeneutici, la subtilitas intelligendi e la subtilitas applicandi) non sono momenti comple-tamente separati, ma sono dialetticamente uniti. Gadamer elabora questa struttura dialettica dellacomprensione sviluppando l’idea che la comprensione e l’esperienza siano inseparabili149.

d) Comprensione ed esperienza; esperienza e sofferenzaIn Verità e metodo, nella sezione intitolata “Il concetto di esperienza e l’essenza dell’esperienzaermeneutica” Gadamer esordisce in questo modo: «proprio questo dobbiamo tenere ben presenteper l’analisi della coscienza della determinazione storica: essa ha la struttura dell’esperienza. Il con-cetto di esperienza - per quanto ciò possa suonare paradossale - mi pare da annoverare tra i menochiari che possediamo1 5 0». Gadamer sostiene che tutta la teoria dell’esperienza soffre finora delfatto di essere pensata in base alla scienza, dimenticando perciò l’intima storicità dell’esperienza.Lo scopo della scienza, scrive: «è quello di oggettivare l’esperienza a tal punto che non agisca più

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alcun elemento di storicità. L’esperimento scientifico realizza questo carattere attraverso la suao rganizzazione metodica». Ma la nostra vita, afferma Gadamer, non è così: non siamo immuni dallecrisi e dai dubbi, non viviamo in programmi garantiti, ma dobbiamo fare le nostre esperienze.

Per chiarire la portata del termine esperienza, Gadamer fa una interessante analisi del significatoche in Eschilo ha la celebre frase p a t h e i - m a t h o s, “imparare dalla sofferenza”. Eschilo, sostieneGadamer, non intende soltanto che i fallimenti e le esperienze negative possono condurre alla sag-gezza e ad una più corretta linea d’azione (“sbagliando s’impara”), benché una piatta interpreta-zione del detto normalmente suggerisca tale messaggio. Eschilo intende in realtà esprimere i fon-damenti di tale verità. «Ciò che l’uomo deve apprendere attraverso la sofferenza - scrive Gadamer- non è una nozione qualunque, è l’intendimento giudizioso dei limiti dell’uomo, la comprensionedell’insopprimibilità della sua distanza dal divino. […] Esperienza è dunque esperienza della fini -tezza umana151». Nel suo senso più autentico, fare esperienza significa sapere che non siamo noistessi padroni del tempo e del futuro. Questa coscienza porta l’uomo saggio a una più grande aper-tura, tanto nei confronti delle vicissitudini della vita, quanto nei confronti della sua situazione pre-sente e - per quanto ci riguarda - lo mette in condizione di assistere il prossimo.

Le scienze dello spirito, afferma Gadamer, assumo il loro particolare significato sulla base del-l’inconclusività di ogni esperienza. Adifferenza delle scienze della natura, esse non hanno risultati“garantiti”, che ci lasciamo dietro come se fossero indiscutibili. Nelle scienze dello spirito impa-riamo sempre di nuovo dalla tradizione. Ed è tipico dell’esperienza il non essere dogmatica, ma diprodurre una continua disponibilità ed apertura all’esperienza, cioè alla pretesa verità che ci vieneincontro nella tradizione152.

e) Sul problema della validità e dell’obiettività della comprensioneAlcuni critici di Gadamer hanno visto nell’ermeneutica un rifiuto alla metodologia, ed il titolo delsuo più famoso saggio è stato interpretato come “Truth versus method”. Gadamer risponde a que-ste osservazioni affermando che le scienze dello spirito producono e vivificano la cultura deltempo attraverso la partecipazione alla tradizione, e dunque l’ermeneutica è una riflessione chemira all’autocomprensione metodologica delle discipline proprie delle scienze dello spirito, al lorocontenuto filosofico, che relativizza il concetto di metodo, ma non lo supera. Tuttavia, aff e r m aGadamer, il vero dilemma rimane sempre questo: «bisogna chiedersi seriamente perché il libro sichiami Verità e metodo; il metodo non definisce infatti la verità. Non la esaurisce153».

G a d a m e r, come peraltro abbiamo appena visto, spiega che l’ermeneutica ha più somiglianze conla p h r ó n e s i s - con la “saggezza pratica” - di Aristotele, piuttosto che con la t é c h n e (la tecnica e l’ar-te) da un lato e con l’é p i s t e m e (il sapere scientifico) dall’altro, ed afferma che essa è una f i l o s o f i a , omeglio una c r i t i c a f i l o s o f i c a nei confronti non già della scienza nella sua totalità, ma delle sue fon-damenta in quanto si pone come chiarimento - appunto non anti-scientifico - delle basi, degli scopie dei presupposti dell’impresa scientifica, specialmente per le scienze umanistiche e per quellesociali. L’ermeneutica è una filosofia e non una scienza particolare. Essa non può fornire concre t econdizioni di validità per i singoli contesti interpre t a t i v i. Non può essere talmente legata alla prati-ca da poter stabilire un canone per le norme interpretative, o una dottrina, una “scuola” o un “meto-do” per la critica. Ciò nondimeno, essa ha un’essenziale connessione con la pratica, poiché è inte-ressata a un genere speciale di condizioni di validità: quello che comprende gli interrogativi discus-si normalmente dalla f i l o s o f i a: come possiamo dire di possedere certe conoscenze; di quali frasipossiamo dire che sono vere; di quali espressioni si può dire che hanno un significato1 5 4.

Secondo Hoy si tratta di riconoscere che un’ermeneutica ontologica, come quella di Heideggere di Gadamer, non elude le questioni della “verità” e della “validità”, ma le colloca ad un diver -so livello, e in una prospettiva differente da quelle delle scienze naturali. Per trattare tali questioniè necessario “tradurre” la teoria ontologica della comprensione in un linguaggio epistemologico

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più tradizionale, come tenteremo di fare nel quarto capitolo, utilizzando l’ermeneutica all’internodi una teoria dei bisogni di assistenza infermieristica.

Ma una tale traduzione - nota Hoy - deve assumere come presupposto che la conoscenza non èesattamente lo stesso fenomeno della c o m p re n s i o n e. C’è una chiara differenza tra le domande:“conosci la poesia?” e “comprendi la poesia?” (così come c’è una netta differenza nel dire “cono-sci questa patologia?” e “comprendi questo malato?”). È possibile conoscere la poesia nel senso diessere in grado di recitarla e persino dare un certo numero di informazioni intorno ad essa, ma ciònon equivale alla comprensione. La conoscenza si riduce generalmente ad asserzioni fattuali, men-tre la comprensione implica “qualcosa di più”. Anche se tale “in più” può sembrare vago in rap-porto al carattere esplicito delle asserzioni cognitive, esso ciò nondimeno è costituito da aspettimolto reali dell’esperienza, senza i quali spesso le stesse asserzioni fattuali perdono la loro forza:tra essi vanno inclusi infatti «il senso dell’intero, la visione d’insieme con le sue miriadi di presen-timenti, associazioni, connotazioni, che rimangono sullo sfondo, ma che tuttavia determinano lamisura in cui l’intensità e il rilievo di un testo sono colti in modo appropriato155».

f) Tra dogmatismo e relativismo: l’atteggiamento della docta ignorantia, il dialogo e il contestualismoPer Gadamer la linguisticità come dialogo è il tramite con cui si realizza l’esperienza ermeneutica,tra il rischio del dogmatismo e quello della soggettività (il peggiore), ossia il rischio del relativi-smo. Due sono le formule per ricusare entrambi questi rischi secondo Gadamer: contro il dogmati-smo viene invocato l’atteggiamento della docta ignorantia, contro il relativismo viene chiarito chela struttura stessa della comprensione ermeneutica attraverso la contestualizazione dialogica delsuo procedere consente il rifiuto di un relativismo radicale156.

L’apertura all’esperienza ed alla sua verità implica nell’interprete il celebre atteggiamento, giàaffermato nel medioevo ad esempio da Cusano, della “dotta ignoranza”. Si tratta di una program-matica posizione di ignoranza assunta nel tentativo di eliminare gli inconsapevoli pregiudizi radi-cati nell’educazione. Chi guida il dialogo, se veramente interroga per raggiungere la verità nonpuò ancora saperla; il dialogo trascenderà ciò che egli stesso conosce. Gadamer può così conclu-dere che il dialogo genuino è precluso al soggettivismo: «Ciò che viene in luce nella sua verità è illogos stesso, che non è né mio né tuo, e che perciò sta al di là di ogni opinionare soggettivo degliinterlocutori, al punto che anche colui che guida il dialogo rimane sempre uno che non sa157». Ilsoggettivismo poi non può accedere al dialogo genuino per la priorità del fenomeno dell’ascolto.A differenza di quanto avviene per il vedere, in cui si può effettivamente “distogliere lo sguardo”,non è possibile “distogliere l’udito”, ma si è obbligati ad ascoltare, a meno che il linguaggio nonci sia ignoto, o che sia pura chiacchiera. Ascoltare significa già appartenere l’uno all’altro, tantoche si è messi in causa da ciò che viene detto. Il senso non si costruisce arbitrariamente, e un mes-saggio è sempre ascoltato come giudizio su qualcosa di particolare, non semplicemente su unaqualunque cosa, in generale.

La docta ignorantia ha l’effetto di allontanare la minaccia del dogmatismo, mentre lo sforzo dicreare un dialogo genuino, orientato all’oggetto, ha la funzione di evitare il relativismo cheinterverrebbe nel momento in cui fossero all’opera le opinioni soggettive degli interlocutori.Certamente nel dialogo sono ancora in gioco le soggettività di entrambi, dal momento che cia-scun interlocutore non può fare a meno di vedere la verità per sé stesso, e nella sua situazione.Ma per essere disponibile alla verità trascendente dell’oggetto, l’interlocutore deve anche esa-minare sé stesso. Non si tratta di giustificare qualcosa che si è già scelto, sul quale si sono giàformate valutazioni e decisioni, ma di orientarsi verso una decisione, una scelta, una valutazio-ne, e renderla possibile. Il dialogo non può essere semplicemente una questione di retorica per-suasiva e autogratificazione per la vittoria conseguita nell’argomentazione. Lo scopo non è vin-cere ma cercare la verità1 5 8.

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La comprensione - come già dice Bachtin - è sempre una forma di dialogo: è un evento del lin-guaggio in cui si verifica la comunicazione. La comprensione ermeneutica è un fenomeno lingui-stico anche nel senso che la tradizione culturale (letteraria, politica, giuridica, e così via) è essastessa ampiamente presente come “linguaggio” (in senso lato), e spesso sotto forma di testi scritti.La comprensione si verifica, allora, nel medium del linguaggio: è caratterizzata da ciò cheGadamer chiama “linguisticità”. L’ermeneutica di Gadamer si distanzia così dalle ermeneuticheprecedenti evitando la necessità di trovare un “ponte” per la frattura tra passato e presente, tratesto e interprete. Passato e presente, testo e interpretazione, sono parte di un processo linguisticoin atto. I significati si evolvono e danno forma a una Wirkungsgeschichte - cioè, come abbiamovisto, ad una “storia degli effetti” - in cui è collocata l’interpretazione presente, e a cui l’interpre-tazione stessa contribuisce159.

Ma la stessa affermazione che la comprensione è al tempo stesso interpretazione e applicazioneha precisamente l’intento di evitare il relativismo. Tale intento può ora diventare più chiaro, allaluce delle analisi della phrónesis e del dialogo. Certamente le discipline storiche e umanistiche sitroverebbero in serie difficoltà se l’interpretazione si riducesse nel dire “questo è ciò che il testosignifica per me”. Non vi sarebbero allora altri criteri fuorché le preferenze personali, o le modedel momento, per discutere interpretazioni in conflitto o differenti. Inoltre non tutte le posizioniprive di assolutismo sono votate a un tale relativismo radicale: per evitare eccessive semplificazio-ni, occorre distinguere tra formulazioni più forti o più deboli.

Nel caso del relativismo, due posizioni possono servire come punto di partenza. La prima posi-zione corrisponde ad una versione debole del relativismo che consiste nel dire che “il testo signifi-ca questo e quest’altro” ed equivale a dire “significa questo e quest’altro per me”, oppure “m ipiace leggerlo in questo modo”. In contrasto con questo genere di relativismo soggettivistico, chesfocia nell’impossibilità di un assenso razionale, è facile formulare in linea molto generale unaseconda posizione che non conduce alla stessa irrazionalità. Questa versione può dirsi contestuali -smo, perché in base ad essa l’interpretazione dipende da o è “relativa a” le circostanze in cui siverifica: ossia, al suo contesto (strutture particolari, o insiemi di categorie interpretative, metodiinclusi). Per il contestualismo, la discussione e la riflessione razionale non si arrestano di frontealle preferenze personali dell’interprete. Al contrario, benché la scelta di un contesto interpretativonon sia determinata con evidenza, si possono e si devono fornire ragioni che giustifichino l’appro -priatezza di quel contesto rispetto a un altro, alternativo. Dal momento che nessun contesto èassoluto, sono possibili diverse linee di interpretazione: ma in questo caso non si tratta di re l a t i -vismo radicale, poiché non tutti i contesti sono appropriati e giustificabili allo stesso modo. Ilcontesualismo nega che ci possa essere un primo passo obiettivamente neutrale, tale da fornireuna metodologia indiscutibile. Questa posizione generale non è propriamente definita come rela-tivismo, poiché è condivisa tanto dai relativisti quanto dagli anti-relativisti. Ne consegue chesostenere che le interpretazioni sono relative alla situazione storica e culturale dell’interprete nonè n e c e s s a r i a m e n t e una posizione relativistica. Il contesto richiede ragioni giustificative per l’in-terpretazione tali da poter essere assunte in forma effettiva e “oggettiva” come quelle fornite daun qualsiasi oggettivista.

Naturalmente, poiché la scelta del contesto è indeterminata, la struttura dell’interpretazione nonpuò essere giustificata così completamente come lo potrebbero dei fatti specifici interni all’inter-pretazione stessa. Ciò nondimeno, la scelta del contesto o della struttura è lungi dall’essere arbitra-ria. Quando Gadamer parla dell’esperienza ermeneutica, egli descrive la pratica effettiva dell’in-terpretazione. L’interprete non sceglie consapevolmente un certo insieme di concetti interpretativida “applicare”. Quando Gadamer collega l’applicazione alla linguisticità, definendola come “ilmezzo” in cui sorge la comprensione, intende dire che le categorie interpretative scompaiono nellostesso venire in luce del significato testuale. Le categorie interpretative non sono necessariamente

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tematizzate in modo consapevole, e l’interpretazione non è un secondo significato che viene adaggiungersi alla comprensione iniziale.

La versione gadameriana del contestualismo implica dunque che la comprensione ermeneuticasia condizionata da una precomprensione (Vorverständnis) che scaturisce dalla situazione dell’in-terprete. Le pre c o m p rensioni possono essere coscienti nell’interprete nella misura in cui egliintenda difendere l’appropriatezza della sua comprensione e giustificare la legittimità della suainterpretazione - come nel caso delle categorie diagnostiche dell’infermieristica. Ma dal momentoche questa autoriflessione non può mai condurre a una chiarificazione di ogni precomprensionepossibile, ogni interpretazione è destinata a rimanere parziale e contestuale.

La comprensione ermeneutica nella relazione infermieristicaNella relazione tra infermiere e paziente si sviluppa quel processo che, sostanzialmente, prevededue soli momenti: quello “diagnostico” e quello “prescrittivo”. Ci pare ormai indubbio cheentrambi questi momenti necessitino di una comprensione più approfondita dell’uomo di quellaacquisibile con le scienze naturali. In ognuno di questi due momenti, a nostro avviso, sono agitidall’infermiere due piani distinti - ma tutt’altro che distanti, anzi strettamente coesistenti - di com-petenza: il piano dell’ermeneutica - della “filosofia” - e il piano della “scientificità” in senso stret-to - della razionalità legata alle evidenze dei fatti.

Vediamoli più da vicino: il s e c o n d o è il piano della falsificabilità degli asserti infermieristici,della g e n e r a l i z z a z i o n e delle sue conoscenze, e si manifesta nella domanda dell’infermiere a sé stes-so: “Quanto di questa situazione assistenziale si è ‘già verificato’ in altri momenti ed in altri luo-ghi?”, “Quale diagnosi infermieristica può descrivere il quadro assistenziale presentato da questopaziente?”. Un esempio può aiutarci nella spiegazione: se ricoveriamo un paziente costretto all’im-mobilità nel suo letto di degenza, in maniera quasi indipendente dalla diagnosi medica d’ingresso eprima ancora di averlo visto e conosciuto in visu, già “sappiamo” di quali bisogni grossomodo eglisarà portatore. È questo il piano scientificamente falsificabile della nostra pratica professionale,quello dell’Evidence based nursing, della necessaria standardizzazione dei quadri clinici e degliinterventi infermieristici, dei protocolli operativi e delle fondamentali abilità tecniche e strumentali.

Il p r i m o piano è invece quello della contestualizzazione di ogni conoscenza falsificabile - inqualche modo già data - alla singola e sempre originale situazione assistenziale. È dunque questoil piano della sensibilità alla relazione dialogica, il piano della comprensione ermeneutica dell’al-tro e della conseguente p e r s o n a l i z z a z i o n e dell’assistenza. Esso si manifesta nella domanda:“Quanto di questa situazione assistenziale è ‘nuovo’? Quanto è ‘diverso dagli altri’? Cosa signifi-ca questa esperienza per questo paziente?”. Domande come queste non trovano risposta nel com-puter e nelle banche dati informatizzate, ma piuttosto richiedono la presenza dell’infermiere, lasua sensibilità e personalità nei confronti dell’a l t ro. È questo il piano scientificamente poco falsi -ficabile della nostra pratica professionale, altrimenti detto “artistico” e che personalmente prefe-riamo definire il piano della c o m p re n s i o n e ermeneutica e della p a rt e c i p a z i o n e nella relazioneinfermieristica. Esso non esclude affatto e non sminuisce l’importanza del primo, che resta indi-spensabile, ma afferma che la “verità” di una data situazione assistenziale può usare le categoriedella falsificazione, ma non limitarsi ad esse, ed in qualche modo relativizza la c o n o s c e n z a s c i e n-tifica del problema assistenziale alla c o m p re n s i o n e della persona che assistiamo. In questo modol’assistenza può dirsi “saggezza pratica” (p h r ó n e s i s ) nella quale il piano della scientificità e quel-lo dell’ermeneutica - lungi dall’essere disgiunti, se non in sede analitica come abbiamo appenafatto - sono immediatamente realizzati nell’applicazione, cioè strettamente legati l’un l’altron e l l ’hic et nunc della pratica.

Qualche tempo fa una caposala raccontava di aver ripreso una sua giovane infermiera che,entrata con lei in una camera per l’igiene quotidiana di un giovane paziente gravemente ammalato,

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pur svolgendo correttamente “quello che c’era da fare”, aveva continuato per tutto il tempo a can-ticchiare tra sé il motivetto di una canzone. Non sembri esagerato il rimbrotto: lo sbaglio di questagiovane collega, infatti, non è tanto il canticchiare in se, ma il mancato dialogo con il paziente;l’uso protettivo di una canzonetta per delimitare i nostri pensieri dai suoi, la nostra vita, con lenostre paure, dalla sua. Il problema è come mettere l’altro nelle condizioni di relazionarsi con noi,fargli sentire la nostra disponibilità, permettergli di aprirsi perché noi per primi siamo aperti, con-sentirgli di comunicarci le sue paure perché noi per primi non ne abbiamo paura e gli facciamocapire di poterle accettare e comprendere... Detto questo, anche una battuta sulla canzonetta chestiamo canticchiando può sortire questo effetto, perché rivela una preparazione e un esercizio con-tinuo di attenzione all’altro che, a nostro modo di vedere, deve costituire l’asse portante dell’at-teggiamento professionale dell’infermiere.

Troppo difficile? Troppo coinvolgente? Forse; anzi, certamente. Tuttavia, siamo convinti che ilcuore dell’assistenza sia la nuda com-presenza all’altro in una situazionalità nella quale - senzanecessariamente dire o fare niente - v’è il rischio che nulla di noi stessi resti escluso. «La curad e ll’uomo - dice un illuminante proverbio wolof - è l’uomo».

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Capitolo secondo

LA “SCUOLA DEI BISOGNI” COME PRINCIPALE

PROGRAMMA DI RICERCA DELL’INFERMIERISTICA

Ormai sappiamo che nessuna disciplina e nessuna teoria scientifica può essere totalmente“neutra” nei confronti del proprio campo d’indagine, in quanto sarà sempre co-determinata dalcontesto storico e sociale nel quale vede la luce. Nessuna teoria o disciplina scientifica nasce emuore nel nulla, tantomeno una concezione dell’infermieristica che si fonda sul concetto di b i s o -g n o che - ne avremo piena coscienza al termine di questo e del prossimo capitolo - costituisceuna delle categorie fondamentali della filosofia, prima ancora che di molte discipline umanisti-che e prescrittive.

Mentre nel primo capitolo abbiamo voluto fornire al lettore una riflessione introduttiva attornoalla neonata “disciplina infermieristica” - secondo le categorie, le strutture e le problematichedella filosofia della scienza - si tratta ora di entrare nel merito dei contenuti di questo “sapere”assistenziale costruito faticosamente da tutti coloro che, nei secoli, si sono “presi cura” degliammalati. In un primo paragrafo constateremo quindi che l’assistenza intesa come risposta ai biso-gni “fondamentali” dell’uomo è antica di millenni e ha da sempre inciso - come incide tuttora -nelle culture e nelle società di ogni tempo.

Nel secondo paragrafo presenteremo invece gli autori della cosiddetta “Scuola dei bisogni dell’infer-mieristica”. Definiamo “Scuola dei bisogni”, lakatosianamente, quel p rogramma di ricerca che si è svi-luppato all’interno dell’infermieristica in questi ultimi decenni nel tentativo di spiegare l’assistenzaattraverso il concetto di “bisogno”. Studiare un programma di ricerca, lo ricordiamo, significa studiarela storia delle teorie che lo compongono, le loro diversificazioni e ramificazioni in differenti “Serie diteorie”, nonché le tappe dell’evoluzione o regressione di ciascuna, nel tentativo di chiarirne il nucleocaratterizzante, che, scrive Lakatos, “agli inizi del programma era in genere adombrato”. Questa rifles-sione sarà determinante non solo per presentare la ricchezza e la profondità di riflessione di molte colle-ghe, ma anche per cogliere il valore intrinseco dell’assistenza infermieristica per la salute del paziente.

Il terzo ed ultimo paragrafo proporrà infine alcune chiavi di lettura trasversali alle teorie studia-te. L’intento non è certo quello di estinguere la curiosità che potrebbe nascere nel lettore, quantopiuttosto quello di rintracciare, insieme a qualche chiarezza, ulteriori nuovi temi problematici checi vengono incontro quando vogliamo rispondere attraverso il concetto di “bisogno di assistenza”alla domanda “Che cos’è l’assistenza infermieristica?”

2.1 Alcuni cenni sull’evoluzione storica del pensiero e della prassi assistenziale nel corso deisecoli e nelle differenti cultureIn questo paragrafo scopriremo che la riflessione attorno alla prassi assistenziale in quanto risposta aibisogni dell’uomo risale a tempi antichissimi. Di fatto, lo stare accanto all’altro nella sofferenza e nelbisogno è probabilmente una delle più remote attività dell’uomo in quanto tale. Anche per questomotivo, lo studio della storia dell’assistenza - l’evoluzione del suo pensiero e della sua prassi - è cosìa ffascinante e ricco di spunti di riflessione. In un noto passaggio del L i b ro della vita, un testo indianodi 3400 anni fa, troviamo ad esempio questa descrizione delle attività e delle doti personali di coluiche è addetto all’assistenza: «Addestrato ad ogni servizio che può essere richiesto dall’ammalato,dotato di grandi capacità, competente nel pre p a r a re i cibi, esperto nel lavare il malato o assisterlonel bagno, ben familiarizzato nella pratica del massaggio degli arti, capace di sollevare il pazientee assisterlo nel cammino, ben pratico nel prep a r a re e pulire il letto, pronto, paziente, addestraton e l l ’ a t t e n d e re, mai svogliato nel fare qualcosa che potesse essere necessaria al m a l a t o ».

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Lo stare accanto alla persona nel bisogno e nella sofferenza è da secoli l’espressione più alta dellacultura dell’uomo e del significato che egli da alle strane cose che gli accadono nel mondo. Questolegame tra “assistenza” e “senso” è evidente soprattutto nei “riti di passaggio” quali la nascita, losvezzamento, il matrimonio, la malattia e la morte. Secondo l’antropologa Françoise Loux, unesempio di questa unità tra cura e significato era compresa nella figura della l e v a t r i c e . «La levatriceaveva un ruolo allo stesso tempo concreto e simbolico. Concretamente era lei che aiutava a partori-re, spesso in modo molto efficace, checché si dica […]. Ma la levatrice aveva in carico nel paesenon solamente la venuta al mondo dei bambini, ma anche la cura dei mort i. Aveva quindi simboli-camente una funzione di rappresentazione della comunità per l’accoglienza e la dipart i t a in quantoil neonato non prendeva posto solamente nello spessore delle generazioni, la sua venuta avevaugualmente una dimensione sociale e tutta la vita del piccolo sino allo svezzamento era segnata dapratiche rituali e simboliche destinate a formare la natura sociale del bambino, in modo da farnepienamente un piccolo uomo. La levatrice aveva un ruolo a questo riguardo1» .

In questa prospettiva possiamo affermare che attraverso l’assistere in generale, e l’assistere inmodo infermieristico in particolare, si realizza una partecipazione di senso tra i protagonisti dellarelazione assistenziale, che, di conseguenza non può fermarsi alla pur importante tecnicità dell’a-zione, ma è invece sempre uno scambio di significati attraverso segni e simboli (quali le parole, igesti, gli sguardi e il tatto). Tali significati sono per definizione mediati dalla propria cultura diappartenenza, dalla tradizione (la storia grande che ci avvolge e ci condiziona) e dal vissuto di cia-scuno (la storia piccola della nostra vita, fatta di esperienza, di relazioni, di competenze e senti-menti). Di più: noi affermiamo che tale partecipazione di significato tra infermiere e persona assi-stita assolve una funzione terapeutica, ove per “terapeutica” non s’intende certo il solo “guarireuna patologia” o l’indicazione di una qualche salvezza e redenzione futura. Piuttosto, la funzioneterapeutica dell’infermiere consiste nella creazione di quelle condizioni e di quel contesto relazio-nale che, nella risposta ai bisogni del paziente, gli consente di sviluppare la sua propria salute, ilsuo proprio equilibrio nonostante la malattia e la sofferenza, nonostante la dipendenza ed anche inpunto di morte. In una parola, l’assistenza è una “presenza”, in un momento dato e in una situazio-ne data: l’ad-sistere (“stare accanto”) è un ex-sistere (“stare fuori”, “venire da altrove”)2.

Dal nostro punto di vista, due sono le principali chiavi di lettura dell’evoluzione storica del pen-siero e della prassi assistenziale dell’occidente che - benché in modo del tutto sintetico - vogliamopresentare. La prima è di carattere universale e corrisponde alla matrice culturale dell’assistenza.Per questa parte approfondiremo gli studi di Marie Françoise Collière e di Madeleine Leininger:nel pensiero di queste due infermiere troveremo una concezione dell’assistenza che non può esse-re facilmente dimenticata dalle teorie contemporanee dell’infermieristica. La seconda chiave dilettura è invece di carattere particolare e si riferisce agli influssi che il messaggio cristiano ha agitonei confronti dell’assistenza in tutti i paesi cosiddetti occidentali.

2.1.1 Marie Françoise Collière: nella storia dell’umanità assistere significa “pro m u ov e re la vita” Dobbiamo anzitutto dire che l’opera della francese Marie Françoise Collière - conosciuta in Italiaper la traduzione nel 1992 del testo Promouvoir la vie. De la pratique des femmes soignantes auxsoins infirmiers - non viene considerata una teoria o un modello concettuale della disciplina infer-mieristica, quanto piuttosto uno studio etno-storico sulle origini e sull’evoluzione dell’assisten-za infermieristica. Una delle linee di conduzione di questo studio concepisce la storia della cura- e poi delle cure mediche - disegnata attorno a due grandi assi: il primo, nel quale riconosciamooggi le cure infermieristiche, consiste nell’a s s i c u r a re la continuità della vita, ed è stato da sem-pre soprattutto un affare di donne; il secondo, nel quale riconosciamo le cure mediche, consistenel re s p i n g e re la mort e, ed è stato soprattutto un affare di uomini. L’assistenza ha semprea v v o lto ed accompagnato i grandi momenti di passaggio della vita, dalla nascita alla morte.

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La storia dell’assistenza di Collière mostra che tra questi due grandi momenti di passaggio chedelimitano il cammino della vita di ognuno, anche la m a l a t t i a era vissuta come un evento chebisognava scongiurare ed evitare o sforzarsi di superare allorché la si incontrava. Le attuali cono -scenze assistenziali sono dunque nate dalle usanze tradizionali miranti ad assicurare che questipassaggi si facessero nel modo migliore. I modi di fare, cercare, assimilare, divengono a secondadell’asse di cura seguito: a) pratiche del corpo quali quelle alimentari essenzialmente controllatee sviluppate dalle donne attorno alla fecondazione, gravidanza, parto, neonati, bimbi e morenti; eb) pratiche occasionali dovute ad incidenti di caccia o di guerra controllate e sviluppate dagliuomini attorno al corpo ferito del cacciatore o del guerriero3.

Secondo Collière le cure infermieristiche originano proprio da quell’insieme di credenze, ritua-li e abitudini di vita caratteristiche e proprie del mondo femminile. «Per migliaia di anni, lap r a t ica delle cure abituali intesa come insieme di cure quotidiane che assicurano il mantenimentodella vita, è stata strettamente connessa alle attività della donna. È la donna che dona la vita, che siincarica di prendersi cura di tutto ciò che mantiene la vita quotidiana nei suoi minimi dettagli. [...]Le espressioni “prendersi cura di... avere cura di...”, testimoniano un insieme di attività che mira-vano ad assicurare o a compensare le funzioni vitali (mangiare, bere, vestirsi, lavarsi, camminare,comunicare). Queste cure, che tessono la trama della vita di tutti i giorni al punto d’aver creato,secondo i climi ed i luoghi, un insieme di abitudini di vita, di riti e di credenze, sono prodigatecon più intensità, e sono l’oggetto delle pratiche particolarmente studiate in certi periodi dellavita come l’infanzia, o nel caso di avvenimenti precisi quali la maternità, la nascita, o la malattiae la vecchiaia, preludio della morte». Così, «se appare importante, addirittura fondamentale, met-tere in evidenza tali fatti, è perché questa pratica assistenziale e curativa veicolata dalle donneha influenzato profondamente la storia dell’umanità, ed ha condizionato un insieme di appro c c ial corpo e alla malattia 4».

Per Collière è nel “prendersi cura” delle donne che risiede il significato dell’assistenza infermie-ristica; infatti «per comprendere la natura delle cure infermieristiche, è necessario riportarle nelsolo contesto in grado di restituire interamente il loro vero significato: il contesto della vita, o, piùesattamente, il contesto del processo del vivere e del morire al quale l’uomo si trova di fronte ognigiorno nel corso della sua esistenza5». La cura ed il trattamento medico , afferma Collière, «nonsono della medesima natura. Ora, il costante equivoco tra ciò che è dell’ordine delle cure e ciò cheè dell’ordine del trattamento fa che queste ultime siano abusivamente denominate “cure”, ciò chelascia pensare che solo i trattamenti rappresentino l’azione terapeutica. [...] Ora, nessun trattamen -to può sostituirsi alla cura. Si può vivere senza trattamenti, ma non si può vivere senza cura.Anche quando si è malati, nessun trattamento potrebbe rimpiazzare la cura. Ciò che è ancoraconosciuto per le piante, o per gli animali, non vale più per gli uomini. Per essi, il significato di“medicare” ha insidiosamente falsato quello di “curare” e se ne è rivestito al punto di relegarel’assistenza come sussidiaria, secondaria. Pur essendo vitale, l’assistenza è considerata comeun’attività subalterna6». E la carenza di cure, continua Collière, è proprio una delle cause dell’in-flazione di trattamenti tecnici accusata dalla sanità moderna, come ad esempio avviene nel casodel sonno, dell’evacuazione, dell’alimentazione, del movimento, ecc.

Con il massiccio sviluppo della possibilità di trattare la malattia - senza per questo curare, cioènella bella intuizione di Collière “aiutare a vivere” - le cure riparative hanno progressivamenteinvaso il campo di tutte le pratiche assistenziali, quelle delle madri, dei parenti, dei vicini, degliamici e a maggior ragione quelle del personale infermieristico che si è messo al servizio non piùdel malato ma del medico. Conseguentemente, «con il mancato riconoscimento dell’importanzadelle cure legate al mantenimento della vita, si è gravemente trascurato tutto ciò che è fondamen-tale perché un bambino, un adulto o una persona anziana possa continuare a garantire la rispostaai propri bisogni di vita quotidiana [...]. Medicalizzandosi, le cure infermieristiche hanno perso di

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vista e trascurato tutto ciò che è decisivo per assicurare la continuità di vita degli uomini e la lororagione di esistere. Abbandonando tutto il vasto dominio delle cure di mantenimento della vita, oconsiderandolo come secondario, minore e di scarsa importanza, si è creato un immenso vuotonell’assistenza infermieristica. Se l’analisi della malattia e il saper fare hanno la meglio su tuttoquello che conta per chiedersi come ognuno può continuare a realizzare la sua vita e a realizzar-si nell’espressione della sua vita, non si parla più propriamente di cure, ma piuttosto di t r a t t a -m e n t i. […] L’eliminazione di tutto quello che si riferisce al tessuto connettivo della vita cancel-la le cure e in modo particolare le cure infermieristiche la cui unica finalità è di permettere agliutenti delle cure di sviluppare la loro capacità di vivere o di sforzarsi a compensare le funzionimenomate dalla malattia, ricercando come supplire al disequilibrio fisico, affettivo e socialeche la malattia comport a7» .

La nascita della professione infermieristica, alla fine del XIX secolo, con la tendenza allamedicalizzazione, ha fatto perdere il significato ultimo dell’assistenza. Secondo MichelleGuyon, «l’avvento delle donne consacrate all’assistenza, seguito alla fine del XIX secolo, dalmovimento di professionalizzazione infermieristico, non ha fatto che accellerare la perdita delsenso originale dell’assistenza. Questo senso originale dell’assistenza era legato alla compre n -sione dei simboli e dei tabù attaccati alla vita ed alla mort e, così come apparivano nella diver-sità delle etnie e dei gruppi di appartenenza famigliare o sociale8».

Collière ha subìto senza dubbio l’influenza del sociologo e filosofo francese Edgard Morinanche per la sua particolare visione sull’infermieristica. Aproposito della conoscenza infermieristi-ca e della perdita del senso delle cure scrive ad esempio che «rendere una teoria un corpo rigidodi conoscenze che si applicano a degli oggetti, o, peggio ancora, a dei soggetti, significa trasfor -marla in uno strumento di riduzione. “Ogni conoscenza che semplifica, e dunque mutilata e muti-lante, si traduce in manipolazione, repressione e devastazione del reale dal momento in cui si tra-sforma in azione, e in particolare in azione politica”9. Ogni infermiera che chiarisce la situazione dicura attraverso l’apporto di conoscenze diverse, le arricchisce, ma è compito di ogni membro delcorpo professionale di badare a non farne dei sistemi prestabiliti da applicare in maniera sistema -tizzata. Una teoria ha significato solo se mette in evidenza dei riferimenti identificabili e permettedi scoprire la loro interazione in tutte le combinazioni e manifestazioni possibili. Essa diventapericolosa ogni volta che fa di un modello comportamentale tipo, un sistema10».

Così, per Collière non solo occorre riscoprire le radici simboliche delle cure, ma ugualmentesarà determinante l’uso che si farà di queste competenze. Per m e t o d o, di conseguenza, bisognaintendere soprattutto i principi operativi che aiutano a pensare indipendentemente. Se il metodoè il cammino preso da ogni conoscenza per farci c o n o s c e re, esso è ciò che ci permette di ri-nascere con la cosa conosciuta: infatti l’etimo della parola “conoscenza” (in francese c o n n a î t re) èproprio “nascere-con” e significa quindi un’incessante disponibilità alla novità e alla meraviglia.«Il Metodo - annota quindi Collière - è un cammino verso ciò che non si conosce durante il qualesi impara a riconoscere gli elementi conosciuti, ad incontrare dei fenomeni che diventano fami-liari man mano che il percorso continua, riuscendo così a superare altre dimensioni di ciò che èsconosciuto. Ora, ogni situazione assistenziale obbliga ad un incontro con la parte sconosciutadi esseri viventi. Per imparare a capirli e a cercare con loro ciò che può permettere di continuareil loro percorso di vita, [continua Collière citando il metodo della complessità di Morin] “abbia-mo bisogno del metodo che ci aiuta a riflettere sulla complessità del reale invece di dissolverequesta complessità e di colpo mutilare la realtà”».

Mentre la maggior parte dei mestieri prendono il via da un incontro tra uomo e materia e dal-l’addomesticamento reciproco dell’uno attraverso l’altro, per Collière «il processo assistenzialeparte dall’incontro tra due (o più) esseri viventi, ognuno dei quali è in possesso di alcuni elementidel processo stesso. Questo processo si pone all’incrocio di un sistema di scambio tra diverse fonti

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per arrivare a determinare la natura delle cure da fornire e i mezzi con cui metterle in opera. È unprocesso di spiegazione-azione tra due figure sociali che hanno una competenza diversa e comple -mentare che mira a trovare la sua forma di realizzazione partendo dalle capacità e dalle risorse diognuno in un ambiente dato11».

L’infermiera, allora, per recuperare il senso ultimo dell’assistenza andato perduto, necessita diun approccio antropologico all’assistenza: «qualunque situazione assistenziale è una situazioneantropologica, cioè è qualcosa che riguarda l’uomo inserito nel proprio ambiente, intessuto di tuttii tipi di legami simbolici12». È per questo che l’approccio antropologico sembra essere il procedi-mento più adatto per scoprire e comprendere le persone che vengono curate e per rendere signifi-cative le informazioni che esse veicolano13. Richiamandosi ad Ivan Illich essa ribadisce l’impor-tanza che le infermiere colgano come «nell’ambito di tutta la loro professione “la cultura influenzila salute» e orienti «il senso che l’uomo dà alla sofferenza, all’infermità e alla morte” e ai compor-tamenti che sono associati. Cercando senza tregua di scoprire tutto ciò che contribuisce a farnascere, sbocciare e sviluppare la vita degli uomini o ad ostacolarla e favorire il processo di dege-nerazione fisica, mentale e/o sociale, è possibile misurare ancor più accuratamente la complessitàdei fenomeni che comportano il confronto vita-morte e non ridurre quindi la malattia e la salute aun solo fenomeno preso isolatamente che debba però rendere conto di tutto l’insieme. La conce-zione dell’assistenza infermieristica non può che risultare trasformata da questa scoperta o risco-perta continua dei diversi aspetti fondamentali della vita, ricollocandoli in rapporto all’esperienzasocio-culturale, socio-economica, e socio-istituzionale vissuta dalle persone e dai gruppi in datiambienti. È solo in questo modo che si abbatteranno credenze e sistemi di valori rigidi immobiliz-zati in dogmi o in sistemi normativi, e che équipe assistenziali e gruppi professionali saranno ingrado di chiarire abitudini, credenze e valori che definiscano il loro comportamento e guidino leloro azioni nell’ambiente di lavoro14».

Il procedimento antropologico è dunque secondo Collière di fondamentale importanza per leinfermiere in quanto consiste di un approccio globale che ricolloca le persone nel loro contesto divita, cercando di considerarlo e capirlo in rapporto ai costumi, alle abitudini di vita, alle credenzee ai valori che esso veicola, e al tempo stesso ricollocando in rapporto a questo contesto l’impattodella malattia e delle minorazioni che ad essa sono legate. “Approccio globale” significa «com-prendere che il filo conduttore non è unico. Numerosi fili tessono la matassa della vita, fili chesono sempre portatori di una simbologia, dai quali nessun aspetto potrebbe essere isolato. Il proce-dimento antropologico non potrebbe dunque essere sufficiente. Esso si amplia nel procedimentoantropo-biologico che tenta di riconoscere il gioco di forze opposte che si affrontano in una stessadialettica: forze di vita e forze di morte. Occuparsi esclusivamente della malattia può costringereal silenzio le forze di vita, se non si presta attenzione, se si cura la malattia senza preoccuparsi dinon lasciare morire tutto ciò che rende viva la persona colpita da essa15».

A livello clinico Collière afferma che tanto l’infermiera ospedaliera quanto, soprattutto, l’infer-miera domiciliare si trovano in una situazione assai similare a quella dell’antropologo impegnatosul campo. Entrambi si trovano di fronte delle situazioni e dei soggetti sconosciuti. «Ogni situa-zione di cura è un incontro tra due individui che devono cercare la loro complementarità inr a pporto al loro bisogno di salute. Così, la prima scoperta consiste nel ricollocarsi vicendevol-mente per sapere chi è l’altro, per definirlo ed imparare a conoscerlo a partire dai suoi diversi sta -tus: sposo, padre o madre di famiglia, di tale età, nazionalità, professione; a partire dalla suac u l t u r a di cui si può già avere un’indicazione in funzione della nazionalità, della provenienzarurale o urbana, dell’età e della professione; e a partire dai ru o l i sociali che derivano dagli sta-tus sociali e dalla cultura1 6». Di conseguenza, secondo Collière, occorre utilizzare, all’internodelle situazioni assistenziali, i metodi dell’antropologia al fine di: a) “rendersi prossimo” allasituazione assistenziale e soprattutto alla persona; b) cogliere le variabili culturali essenziali

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della relazione assistenziale attorno a tre cardini fondamentali: la malattia, l’età e il sessodella persona; c) scoprire ciò che inserisce e lega una persona al suo ambiente di vita; d) deco-dificare i significati del linguaggio, nonché scoprire la dimensione simbolica delle praticheassistenziali; e) cogliere la dinamica strutturale delle situazioni assistenziali; f) l’utilizzo deglistrumenti di visualizzazione tipici della rilevazione qualitativa dei dati in antropologia (adesempio le schede per la rappresentazione della famiglia allarg a t a)1 7. I risultati che possono ori-ginarsi dall’utilizzo dei metodi antropologici nelle situazioni assistenziali sono molto importan-ti. Innanzitutto si ottiene l’esplicitazione di tutte le variabili, anche le più banali, che permettonodi radicare il progetto di azione assistenziale nel contesto della vita quotidiana della personaassistita. Secondariamente, partendo dalla persona come “fonte di conoscenza”, si strutturano esi elaborano le proprie conoscenze sulla situazione assistenziale.

Alivello strumentale, infine, l’approccio antropologico alle situazioni assistenziali - proprio per-ché riguarda anche le cosiddette “abitudini di vita”, i bisogni quotidiani dei singoli e delle colletti-vità - implica la messa in discussione della t e c n o l o g i a di coloro che assistono, non tanto comeinsieme di tecniche mediche o infermieristiche, ma come “conoscenza degli strumenti”. Infatti, la«conoscenza di ciò che lo strumento permette o compensa, legata a ciò che si conosce della perso-na e di ciò che le causa un problema, permette di chiarire la giustificazione [più o meno] appro-priata del suo utilizzo18».

2.1.2 L’assistenza nelle diverse culture: l’etnonursing di Madeleine M. LeiningerMadeleine Leininger nasce a Sutton nel Nebraska. Dopo gli studi di base e di specializzazione,verso la metà degli anni cinquanta iniziò il primo programma di assistenza infermieristica specia-listica in psichiatria infantile all’Università di Cincinnati, svolgendovi un’intensa attività acca-demica. Fu durante questo servizio che si accorse delle evidenti differenze dei bisogni assisten-ziali nei bambini di diverse provenienze culturali e che conobbe Margaret Mead, illustre antro-pologa docente alla stessa Università. L’influenza di Margaret Mead è determinante per il futurodella Leininger, come essa stessa riferisce: «Un giorno le chiesi: “In che modo pensa che l’an-tropologia possa aiutare il Nursing?”; essa rispose “Non so esattamente, ma le intuizioni del-l’antropologia sono essenziali per capire la gente - tutte le genti del mondo. Sarebbe magnificose le infermiere volessero realizzare studi culturali in profondità in modo tale da saper interpre-tare accuratamente il comportamento del cliente, malato o sano”. Questa fu una sfida suff i c i e n t eper me, e mi guidò verso lo studio dell’antropologia». Così Leininger si iscrisse alla facoltà diantropologia dell’Università di Washington D.C., che frequentò tra il 1959 e il 1965 e doveacquisì il dottorato in antropologia.

Negli anni sessanta fece la sua prima esperienza di studio antropologico sul terreno presso iGadsup in Nuova Guinea, per il periodo di un anno e mezzo, compiendo studi “di tipo etnograficodi etnoassistenza e di etno-sanità”. L’obiettivo era costruire «una teoria che potesse essere usataper spiegare, descrivere, interpretare e predire tutte le culture nel nursing, non solo alcune19». Ilrisultato di questi studi e ricerche è universalmente noto come Teoria del nursing transculturale,altrimenti detta Teoria della diversità e della universalità dell’assistenza transculturale.

Leininger ha da sempre concepito il n u r s i n g come disciplina separata dalla medicina e dopo ildottorato in antropologia dagli anni sessanta fino ad oggi collabora e sollecita l’introduzione delnursing transculturale nella scuole infermieristiche di tutti i livelli, anche per facilitare questo“simbolico taglio del cordone ombelicale con la medicina”. Per Leininger - come già per Collière- mentre può esistere l’assistenza infermieristica indipendentemente dalla compresenza di curemediche, il contrario non può verificarsi: non possono esistere cure mediche senza la compre s e n -za dell’assistenza. Già nel 1966 tenne il primo corso di Nursing Tr a n s c u l t u r a l e alla ColoradoSchool of Nursing, dove la Leininger era professore di nursing ed antropologia. Secondo il suo

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pensiero bisognava «aiutare le infermiere a sviluppare un nuovo modo di pensare e prenderedecisioni cliniche. Guardare i problemi in un ottica culturale aiuta a generare nuovi modi di assi-stere la gente».

Nel 1974 fonda e presiede un’associazione nazionale ed internazionale denominata“Transcultural Nursing Society”, che in questi anni si è espansa in quasi tutti i continenti20. A par-tire dal 1975, soprattutto negli Stati Uniti ed in Canada, si è assistito ad un’esplosione di corsi,conferenze, dibattiti e ricerche sul Nursing Tr a n s c u l t u r a l e, a dimostrazione dell’interesse dellacategoria verso queste tematiche e dell’effettivo bisogno di comprensione culturale dell’utenza. Inpiù di trent’anni di ricerca, tra i suoi libri ricordiamo: Nursing and A n t h ropology: two worldsblend, 1970; Transcultural Nursing: concepts, theories and practices, 1978; Caring: an essentialhuman need, 1981; Care: the essence of nursing and health, 1984; Qualitative research methodsin nursing, 1985; Transcultural care diversity and universality: a theory of nursing, 1985.

Ma cos’è il nursing transculturale? Per Leininger è «un’area principale del nursing che ha al suocentro uno studio comparato e l’analisi di diverse culture e subculture mondiali in riferimento alloro comportamento di assistenza nei confronti dei malati, dell’assistenza infermieristica, dei valorisanitari della salute e della malattia; teorie e modelli di comportamento con l’obiettivo di sviluppareun corpo scientifico ed umanistico di conoscenze per dare indicazioni di assistenza infermieristicasia specifiche di singole culture che universali2 1» . Questa importante definizione circoscrive ilNursing Transculturale, innanzitutto come “un’area principale del nursing”, ovvero come qualco-sa che è parte integrante del nursing. Nulla di differente, quindi, dalla pratica infermieristica quo-tidiana, se non per una contestualizzazione dell’assistenza nei confronti della cultura - e quindi dellinguaggio, dei simboli, del sistema di valori ecc.- della persona curata.

La Leininger definisce il nursing come a rt e e come s c i e n z a: «un’arte dotta e umanistica, unascienza che ha al suo centro comportamenti di assistenza personalizzata (individuale o di grup-po), compiti e processi diretti a promuovere e a mantenere i comportamenti sanitari o la guari-gione della malattia che hanno un’importanza fisica, psicoculturale e sociale per coloro chesono assistiti da un’infermiera o da una persona con competenze simili2 2».

Molto interessanti sono i principali presupposti della teoria, che sono: 1. L’assistenza agli esseri umani è un fenomeno universale, ciò che varia tra le diverse culture

sono le espressioni, i processi, le forme strutturali e i modelli assistenziali.2. Le azioni ed i processi di assistenza sono essenziali per la nascita, la crescita, la sopravvivenza

e la morte serena degli esseri umani.3. L’assistenza è l’essenza della disciplina infermieristica e ne rappresenta la natura distintiva,

dominante e unificante.4. L’assistenza possiede delle dimensioni biofisiche, culturali, psicologiche, sociali e ambientali e

il concetto di cultura rappresenta uno strumento molto vasto di conoscenza e di comprensione.5. Il nursing è un fenomeno transculturale, poiché gli infermieri interagiscono con i pazienti, con

il personale e con gli altri gruppi e ciò comporta l’identificazione e l’utilizzo di dati interculturaliinfermiere-paziente e di dati sistemici.

6. I comportamenti, gli obiettivi e le funzioni assistenziali variano a livello transculturale a causadella struttura sociale, della visione del mondo e dei valori culturali delle persone appartenentialle diverse culture.

7. Le pratiche di cura e di autocura (s e l f - c a re) variano a seconda della cultura e dei diff e r e n t isistemi assistenziali popolari e professionali.

8. L’identificazione di comportamenti, credenze e pratiche assistenziali popolari e professionali,universali e non, è essenziale per scoprire la base epistemologica e ontologica del sapere infer-mieristico.

9 . L’assistenza è in larga misura condizionata dalla cultura e, affinché la pratica possa essere

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soddisfacente ed efficace, è necessario che il sapere ad essa relativo sia fondato sulla cultu-ra medesima.

10.Non vi può essere cura medica (c u re) senza assistenza (c a re), ma vi può essere assistenzasenza cura2 3.

Negli scritti della Leininger, questi presupposti vengono sintetizzati in pochi principi: 1. Il N u r s i n gTr a n s c u l t u r a l e è culturalmente basato sui valori culturali di assistenza, credenze e pratiche, inquanto essenziali alla crescita dell’uomo, alla vita e alla sua sopravvivenza. 2. I concetti di assisten-za e salute sono identificabili tramite gruppi culturali e sono strettamente legati ai valori culturali. 3.Le caratteristiche di una struttura sociale sono punti di forza che influenzano salute ed assistenza inogni cultura. 4. I concetti di etnoassistenza ed etnosalute sono essenziali per le pratiche terapeutichedi etnonursing 2 4. Leininger chiama etnoassistenza (e t n o c a re) quei fenomeni sociali e culturali diuna data cultura che stanno alla base di azioni o decisioni che sono praticate per aiutare, facilitare oabilitare individui, famiglie o gruppi nei loro bisogni di salute. Per quanto riguarda il termine e t n o -n u r s i n g esso si riferisce alle conoscenze professionali acquisite dagli infermieri sul sistema di curae salute e sul sistema di valori di una popolazione, riguardo cioè alle pratiche di a c c u d i re e di porta-re a s s i s t e n z a, facilitare o abilitare azioni o discussioni che beneficino la salute.

Certamente, per Leininger il cuore del nursing è l’assistenza (care) «as the central, distinct, andunifying domain of nursing25», ed afferma che essa dovrebbe essere condizionata da uno studiocomparato e analitico delle diverse culture infermieristiche, chiamato appunto - con un neologi-smo tutto americano - etnonursing. Di fatto, osserva la Leininger, benché da più di un secolo l’as-sistenza venga utilizzata per descrivere l’attività pratica del nursing, le sue definizioni e i suoi con-tenuti sono ancora troppo vaghi e mal assimilati dagli stessi infermieri: i concetti relativi all’assi -stenza, conclude categorica, «sono tra i meno compresi e i meno studiati di tutto il sapere umano edi tutte le aree di ricerca26».

Per Leininger, il Nursing Tr a n s c u l t u r a l e concorre a questa impresa concettuale in quanto non èuna teoria slegata o diversa dal nursing comunemente interpretato, bensì un ampliamento delcampo prospettico dell’infermiere per una migliore comprensione dei bisogni dell’uomo: esso è«un insieme di concetti e di ipotesi infermieristiche in relazione tra di loro che trattano diverseciviltà, prendono in esame comportamenti assistenziali di gruppo e individuali, valori, e teorie basa-te sui loro bisogni culturali, per poter offrire alle persone un’assistenza infermieristica efficace esoddisfacente; se quelle pratiche infermieristiche non riescono a riconoscere aspetti culturali deibisogni umani vi sarà un’assistenza infermieristica meno efficace e vi saranno conseguenze sfavo-revoli nei confronti dell’assistito2 7». Il Nursing Tr a n s c u l t u r a l e a ffronta le totalità dei b i s o g n i d e l l ’ u-tente, anche quelli culturali e sociali. Questa osservazione, a nostro avviso molto interessante, ciinvita a considerare q u a l u n q u e assistito nel suo contesto culturale e quindi, per le definizioni date eper le funzioni stesse della cultura, legato più o meno consciamente a vincoli, sistemi di valori,modi di sentire e di comportarsi caratteristici della società in cui è cresciuto ed è stato educato.

I più comuni problemi infermieristici che si dovranno affrontare in un’ottica transculturale sonoquindi problemi infermieristici di tutti i giorni. Ad esempio «aiutare i clienti a mangiare i cibiinsoliti dell’ospedale, ad acquisire la cooperazione dei clienti alle procedure medico-chirurgiche,il lavoro con i genitori durante la gravidanza, la firma dei moduli di consenso, rendere sensate leistruzioni sanitarie a famiglie che hanno differenti valori culturali, e a far sì che la gente si abituialle regolamentazioni delle visite e alle altre norme. I conflitti e lo stress aumentano nella misurain cui clienti di culture diverse affermano i loro diritti e bisogni culturali e cominciano a sfidare leattese dello staff ospedaliero28».

Leininger non tace dunque le difficoltà quali la fonte di conflitto e di stress che può derivare dauna situazione multiculturale, ma fornisce anche un sofisticato bagaglio di conoscenze metodo-logiche per affrontarle. Nel corso degli anni, essa ha infatti approfondito alcuni metodi tipici

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d e ll’antropologica culturale - come ad esempio l’osservazione partecipante, la ricerca qualitativae la pratica del relativismo culturale - applicandoli al nursing e descrivendone i risultati in moltepubblicazioni di cui forse la più importante è il già citato studio a più mani sui metodi di ricercaqualitativa nel nursing. In questo testo Leininger spiega come, nella storia della scienza, il metodoscientifico occidentale si sia venuto costituendo in quanto tipicamente q u a n t i t a t i v o ed è ormaiconsiderato come l’unica via valida e realizzabile per accostare, conoscere e capire la realtà. Larecente epistemologia ha da tempo iniziato una profonda revisione sul “metodo scientifico” e pareriduttivo credere che l’indagine di tipo quantitativo nella ricerca del sapere scientifico sia l’unicoapproccio valido. In questo modo sono stati esclusi dal procedere scientifico, ad esempio, i metodifilosofici non occidentali che indagano il sapere umano tramite una varietà di approcci e concettidella realtà e della verità diversi da quelli occidentali. Asuo avviso, al contrario, il nursing sia teo-rico che pratico può ricevere grandi benefici nell’abbandonare il metodo quantitativo - che caratte-rizza la medicina e che da questa è stato impropriamente importato nel nursing - e nell’estendere isuoi campi di ricerca utilizzando anche il metodo qualitativo29.

In generale, la ricerca qualitativa si focalizza sulla identificazione, documentazione e comprensio-ne dei valori, significati, credenze, pensieri, e delle caratteristiche di eventi di vita, situazioni, ceri-monie, e specifici fenomeni che riguardino l’oggetto di ricerca. Molte di queste caratteristiche circala ricerca qualitativa sono state scoperte, valutate e confermate dalla Leininger con la sua ricercacomparativa sul nursing occidentale e non occidentale. Tra i Gadsup, abitanti nelle isole orientalidella Nuova Guinea, ebbe modo di ascoltare ed osservare il loro unico e differente stile di vita nelloro naturale habitat. Osservò i loro bagni rituali, le loro cure verso i bambini e gli anziani, le loroattività politiche e sociali. I Gadsup le spiegarono il loro stile di vita che essa registrò e documentòattentamente. Leininger ammette che i suoi concetti di nursing e salute erano “veramente diversi dailoro”, ma che «era stata costretta ad entrare direttamente nelle loro interpretazioni della vita, sevoleva veramente studiarne i sistemi culturali». La ricerca di qualità è spesso il modo per iniziare lescoperta di fenomeni, per documentare sconosciute caratteristiche ed aspetti di genti, eventi, o stili divita diversi dai nostri e, per la Leininger, «è il miglior metodo per scoprire sentimenti, valori, signifi-cati, caratteristiche ed aspetti teologici e psicologici di certi individui o gruppi».

Per quanto detto, sembra indubbio che vada riconosciuto a Madeleine Leininger il primato nellastrada all’approfondimento di un’intuizione importante per l’infermieristica e cioè la considera -zione che le variabili culturali dell’uomo non sono affatto una questione opzionale o opinionaledel singolo infermiere, quanto piuttosto un parte imprescindibile del percorso intellettuale cheogni infermiere deve compiere di fronte alla problematica alterità del suo cliente.

2.1.3 L’assistenza nell’occidente cristianoNei due paragrafi precedenti Collière e Leininger hanno mostrato la prima il radicamento d e l l ’ a s-sistenza nella millenaria storia dell’uomo e la sua fiera irriducibilità ai tentativi di naturalizza-zione, la seconda l’universalità dell’assistenza e il suo costituirsi quale sistema etno-culturaleprofondamente inciso nei membri di tutte le diverse culture umane. Questo paragrafo vuoleinvece aprire uno squarcio su come l’assistenza possa intersecarsi agli eventi dell’umanità, sino,come è il caso del cristianesimo, a non poter più distinguere nell’atto assistenziale quanto è del-l’assistenza (ovviamente intesa in senso culturale) e quanto della fede. “L’assistenza nell’occi-dente cristiano” è senz’ombra di dubbio un tema classico nella storia dell’assistenza; in questasede, tuttavia, ci accontenteremo di accennare alcuni aspetti a nostro avviso interessanti (tra glialtri il monachesimo, la persecuzione delle streghe e l’immagine del J e s u s - D e u s - P a t i e n t s), sal-tandone a piè pari altri che avrebbero forse meritato più considerazione (le radici ebraiche del-l’assistenza cristiana, l’ottocento, il novecento e il ruolo della leadership religiosa in Italia, o,infine, la controversa, o presunta tale, questione tra “vocazione” e “professione”, ecc.).

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Coscienti di questo nostro limite, faremo ammenda indicando di volta in volta alcuni spuntibibliografici per eventuali approfondimenti.

Il portato storico e culturale che il Cristianesimo esercitò sull’assistenza e sulla riflessione ad essacontingente è certamente di fondamentale importanza. È indubbio che fin nelle sue origini ilCristianesimo, proponendo di vivere nella pienezza religiosa ispirata dal Vangelo, abbia introdottonelle società in cui si diffondeva una nuova, vitalizzante e non trascurabile spinta culturale e filosoficaall’assistenza - non fosse altro per il mandato “Andate, insegnate, g u a r i t e” (Cfr. Lc 9, 1-2; Mt 10, 8)3 0.

Tra i numerosissimi brani evangelici che potremmo addurre come significativi della cura e dellaguarigione di tutto l’uomo nel messaggio cristiano, ne ricordiamo solamente tre. Il primo, famo-sissimo, è la parabola del Samaritano che accorse e si prese cura di un povero viandante vittimadei briganti (Lc 10, 30-37). Questa parabola - la sua ultima frase, lapidaria e sconvolgente, Vade,et tu fac similiter: “Va, ed anche tu fa’ lo stesso” - è un monito che ha spinto folle di milioni dipersone alla prossimità verso altrettanto numerose folle di bisognosi della storia.

Il secondo brano è invece molto meno noto: si tratta dell’unzione di Bètania (Mc 14, 3-8). Inquesto passo si racconta di come una donna, durante una cena, unse il capo di Gesù con un oliop r o f umato. Alle proteste dei discepoli per lo spreco di denari che potevano essere usati per i pove-ri, Gesù difese la donna dicendo: “Ha compiuto verso di me un’opera buona; essa ha fatto ciò cheera in suo potere di fare”.

Ma il cristianesimo non si limita ad indicare la strada dell’altruismo e della solidarietà sulla scor-ta di un potere femminile verso la cura. Lo stesso Gesù, con il suo esempio, indica che non vi sonodeleghe, e che - come già nella domanda di Dio a Caino (Gn 4, 9) - la presa in carico del fratello ècompito del fratello. Questo è il significato del terzo brano evangelico che vogliamo richiamare, lalavanda dei piedi (Gv 13, 4-15). Con gesti come questo Gesù volle indicare chiaramente la gerar-chia della Carità e dell’umiltà della sua sequela: chi vuol essere il primo, divenga servo degli altri,iniziando dalle pratiche più umili, come appunto quelle da sempre riservate agli schiavi.

Le prime comunità cristiane (I e II sec.), fra le numerose forme di carità, attribuivano particolarevalore all’assistenza a chi soffre (poveri e infermi). Sulla scorta dell’insegnamento evangelico, ilprincipio dell’altruismo (dal latino a l t e r) come comportamento derivante dalla fede, trovava il suocorrispettivo concreto nella dedizione ai bisognosi senza attesa di ricompensa, ma solo per amore diDio. Il principio di solidarietà reciproca ed uno spirito tendenzialmente egualitario, tipico di comu-nità ristrette o di minoranze, improntavano i cosiddetti precetti di misericordia corporale - che, sibadi bene, contemplavano alcuni fondamentali bisogni dell’uomo: nutrire gli affamati; dar da bereagli assetati; vestire gli ignudi; visitare i carcerati; dare ricovero ai senzatetto; assistere gli infermi;seppellire i morti3 1.

Il concetto di uomo portatore di bisogni non è quindi certo una scoperta del X X secolo; è piuttostor a ffigurazione del “bisognoso”, beneficiario privilegiato dell’azione del credente fin dagli albori delCristianesimo. Una sola pagina basti a testimoniare questa affermazione. Si tratta di un passo dellaRegola di S. Benedetto (480-547): «Come è scritto “Si distribuiva a ciascuno secondo il proprio biso-gno” (Atti 4, 35). Qui non diciamo di fare preferenze - non sia mai! - per le persone, ma di avere con-siderazione per gli ammalati; chi ha meno bisogni, ringrazi Dio e non si affligga, invece chi ha mag -giori bisogni, si umilii per la sua infermità, non si inorgoglisca per la misericordia con cui è trattato, ecosì tutte le membra saranno in pace3 2» .

I Santi riformatori del ’600Con un salto imperdonabile di una buona decina di secoli, ci soffermiamo brevemente su un periodoesemplificativo della storia della medicina e dell’assistenza: il secolo a cavallo tra il ’500 e il ’600nel quale assistiamo ad un progressivo decadimento dell’assistenza ospedaliera. Nelle istituzioniospitaliere, annota Cosmacini, opera in quel tempo «un personale di assistenza che vede il malato,

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come il povero, d i v e r s o dal normale e da sé, [e che] uniforme a questa presa di distanza affettiva ementale, attua un comportamento non partecipe, assenteista o prevaricatore che genera incuria eviolenza e che aggiunge malessere a malattia3 3» .

In questo periodo così difficile «un’avanguardia zelante, che viveva ed operava in contatto conuna umanità afflitta e che vedeva nel malato un proprio simile, un fratello meno fortunato» sidistinse nell’opera agli infermi. Giovanni di Dio, fondatore dei Fatebenefratelli, e Camillo deL e l l i s, fondatore dell’Ordine dei Ministri degli Infermi (Camilliani), vissero vite avventurose efurono due umili infermi, prima di essere due umili infermieri. Così pure Vincenzo de Paoli ( 1 5 8 1 -1660) fondatore delle Figlie della Carità, conobbe la prova, prima di divenire un vero riformatoredell’assistenza a sfondo sociale del suo tempo - un’assistenza ai p a u p e re s3 4, non solo negli ospedalima anche al loro domicilio o nelle carceri.

San Giovanni di Dio (1495-1550), operò in Spagna, rivolgendo la propria assistenza ad una plu-ralità di soggetti: poveri, malati, invalidi, bambini abbandonati, paralitici, mutilati, tignosi, lebbro-si e in particolare insani di mente. Una solida fede religiosa e una discreta resistenza fisica eranole qualità richieste ai membri della sua compagnia, unitamente al quarto voto, esclusivodell’Ordine, quello dell’ospitalità. Attività preminente dei Fatebenefratelli è stata la costruzione ela gestione degli ospedali, tanto che già alla fine del XVII secolo amministravano 86 sedi in Italiae altre 262 in altri Paesi.

Particolarmente degna di rilievo, ai nostri fini, è la strutturazione gerarchica dell’organizzazionedel personale infermieristico avanzata da S. Giovanni e che prevedeva la figura dell’InfermiereMaggiore, responsabile del funzionamento dell’infermeria e del coordinamento delle attività, edell’Infermiere Minore, reclutato anche tra i laici. All’interno degli Ospedali dell’Ordine, gli stessiFatebenefratelli provvedevano alla preparazione del proprio personale d’assistenza, al quale èchiesta una buona salute ed una solida fede. L’assistenza è quindi centrata su prescrizioni orientatealla s a l u s (la salute-salvezza) del malato, con modifiche profonde ai precedenti modi di faredistinguendosi per igiene e pulizia, vitto, riposo e vestiario, oltre che al “metodo della dolcezza”vera innovazione nel campo dei malati di mente.

San Camillo de Lellis (1550-1614), abruzzese, fondò l’Ordine Assistenziale dei Ministri degliInfermi. Questo ordine, anch’esso contraddistinto da un quarto voto speciale (assistenza corporalee spirituale degli infermi), operò principalmente negli ospedali italiani - senza fondarne quindi dipropri - e distinguendosi durante la pestilenza di Roma del 1590. Le particolari condizioni del-l’assistenza ospedaliera di quei tempi già manifestavano il grave decadimento conseguente alledisposizioni del Concilio di Trento. Questo, di fatto, aveva spogliato gli ospedali di gran partedel personale religioso d’assistenza, sostituendolo con personale laico reclutato prevalentementedagli strati sociali più bassi e privo di uno spirito di vocazione e di adeguata istruzione. Un talestato di cose indusse san Camillo a dedicare particolare attenzione alla preparazione del persona-le infermieristico e alla organizzazione delle attività assistenziali; ammetteva ad esempio nel1580 di «m a s t i c a re pane amaro di cordoglio, ogni qual volta constato l’apatia degli uomini nellecose che riguardano l’assistenza agli infermi. Ancora una persona, se pur analfabeta ed infetta daogni male fisico e morale può arrogarsi il nome e la veste d’infermiere». Egli riteneva che i pro-pri Ministri dovessero ispirare l’agire quotidiano alla profonda motivazione dettata dall’amore diDio. La medicina, l’assistenza infermieristica, l’intero ospedale e tutto il personale dovevanodisporsi al servizio del malato e non quest’ultimo assoggettato all’interesse scientifico ed econo-mico. Quanto agli infermieri essi dovevano essere chiaramente al “servizio dell’ammalato e nonal servizio del medico” .

In occasione di una sua permanenza all’Ospedale Ca’ Granda di Milano, san Camillo redasseun compendio per l’assistenza agli infermi, che è in primo luogo una riflessione teoretica sul-l’assistenza di quel tempo.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Quelli tre o quattro che faranno la guardia un di loro sarà capo et per quanto staranno ing u a rdia gl’altri gli darano obedienza [...] serviranno l’infermi di tutte le cose che gl’occorre r a n -no con ogni charità et humiltà come si conviene al nostro obligo guardandosi di non alzar tro p -po la voce et visitando spesso i gravi et quando si sentisse molto stracco sia lecito per un poco ditempo sedere ma in mezzo del quart i e ro. [...] Nel fine della guardia il capo darà raguaglioa l l ’ a l t ro di tutte le cose che saranno occorse all’Infermi acciò ne dia raguaglio al medico neltempo della visita eseguendo quel tanto che il medico ordinerà. [...] Nel far li letti tutti farannola sua parte con molta charità et diligenza procurando che gl’infermi non piglino freddo copre n -doli con la veste o coperta se non vi fosse veste dandogli ancora i zuoccoli agiutandoli a levar diletto quelli che non potranno et quelli che haveraano bisogno di esser levati con li braccia pro -curino di non farli danno mettendoli sopra il letto più vicino coprendoli in sin che sarà fatto illetto. Tutti i letti massime de gravj avanti d’entrar nel letto si scalderanno et quando sarannobagnati i matarassi procurino di farli mutare. Ogn’uno si guarderà nel rifar de letti o altri serv i -tii di contrastare, irritarsi o burlare tra di loro o con gl’infermi ma procuraranno fargli consilentio Nel mangiare [...] procurando con ogni diligenzia che tutti massime i gravj mangino etre f e rendo al fratello che ha la cura se non haveranno mangiato a sufficienza. [...] Nissuno sip a rti dalle cro c e re quando stà in guardia, se prima non avisa un’altro fratello. [...] Nel tempoch’il medico fa la visita tutti li fratelli si trovino incrocera per i bisogni ch’occorrono. [...] Il fra -tello infermiero corporale ponghi il segno à flussanti, idropici, et à quelli, ch’hanno il vomito, òpontura. [...] Se vi è qualche grave, che non habbi avuto l’olio Santo, lo noti nella lista. La mat -tina quando viene il medico l’informi d’ogni cosa minutamente. [...] Ogni Domenica pigli dalc o n s e g n i e ro quattro sciugamani, et quattro zenali et ritorni li brutti, et l’istesso facci il giovedì.bisognandoli manuschristi, stillato, ò altro, cose di speciaria le dimandi al barbiero della suac rocera. [...] Il sotto Infermiero corporale principale suo pensiero sii in absenza del fratelloi n f e r m i e ro corporale d’attendere, che s’osservi quanto da qiello sarà stato ordinato. [...] Nondistribuischi akuna cosa all’infermi senza licenza del detto fratello infermiero. Avanti il desinare ,et cenare de poveri li dii à lavare le mani ponendo l’inverno à scaldare l’acqua, et ponghi i tavo -lini con li mantini sopra à ciascun povero3 5.

Donna-strega-infermiera Un complesso ma interessantissimo fenomeno storico che merita di essere considerato, seppur bre-vemente, è quello che tratta della persecuzione della stregoneria. Come è ovvio, l’assistenza per cosìdire “strutturata” o “istituzionale” che andava costituendosi negli ospizi, nei ricoveri religiosi e neilazzaretti del tempo non escludeva ma si sovrapponeva, si integrava ed anche si scontrava con quellamatrice etnoassistenziale di cui parla oggi Leininger. La relazione tra salute e cultura tradizionale,eternamente sospesa tra la salute e la salvezza (s a l u s-s a l v u s) fa quindi spontaneamente sorgere l’ipo-tesi che riconosce nella stregoneria un filone di evoluzione storico-culturale dell’assistenza inOccidente. Quest’ipotesi - sostenuta tra gli altri da autori quali Marie Françoise Collière, EdoardoManzoni e da un interessante studio di Marisa Siccardi3 6 - merita senz’altro ulteriori indagini.

Benché lo studio della stregoneria sia complicato dalla scarsità dei dati e dalla parzialità dellefonti (per lo più verbali dei processi e manuali dell’Inquisizione) le diverse stime calcolano che lalotta alla stregoneria costò la vita di diverse decine di migliaia di persone, la stragrande maggio -ranza delle quali donne. Tollerata durante il Medioevo, la stregoneria fu oggetto di una spietatapersecuzione dal XIV al XVIII secolo sia dalle Chiese, cattolica e protestante, sia dalle autoritàcivili del tempo (gli ultimi roghi si ebbero nel Cantone dei Grigioni tra il 1780 e il 1786).

Ma che personaggio era la strega? La strega era una donna in genere anziana dedita a pratiche dimagia nera finalizzate a provocare la malattia, la carestia e la morte, oltre ad ogni tipo di calamità.Complice di Satana, la strega si credeva e veniva reputata in grado di ristabilire la salute,

a c c e n d ere la passione amorosa, ridare stabilità alle famiglie e fertilità alla terra, divinare il futuro ecompiere altri svariati prodigi. Il suo “mansionario” comprendeva sortilegi, uso di erbe curativee palliative da somministrarsi come pozioni o come infusi per bagni e cataplasmi, l’aggiusta-mento delle ossa e dei legamenti, invocazioni a geni malefici, insomma tutto un insieme dicomplessi rituali che testimoniano la persistenza di tradizioni pagane nel cuore dell’Europa cri-stiana tardomedioevale.

Per la Chiesa del tempo si trattava di competere con la stregoneria nel farsi promotrice in primapersona del “bisogno di sicurezza” avvertito dalle popolazioni di fronte ai pericoli ed alle malattie,amalgamandosi con riti e superstizioni ad essa precedenti ed antichissimi. Così fino al settecento,per tutta Europa si suonavano a distesa le campane durante i temporali nella convinzione di allon-tanare i fulmini; la polvere raccolta dal pavimento delle Chiese - se non le stesse ostie frantumate -veniva sparsa sui campi per eliminarne i parassiti; al mattino ed alla sera gli animali venivanosegnati dal segno della croce, così come in ogni momento significativo della giornata facevanouomini, donne e bambini - all’uscita e al rientro da casa, chiudendo o aprendo le finestre, prima dimangiare, ecc. - per non parlare dei riti della fertilità. Ma tale amalgama tra superstizione e reli-gione doveva essere controllata, doveva ricondurre alla religione. Una religione troppo disincarna-ta dalle concretissime paure del suo tempo rischiava di non essere ascoltata; una religione troppolegata alla magia rischiava di confondersi con questa.

Da qui la lotta agli indovini ed alle streghe, che vide alleate la Chiesa con le nascenti scienzeapplicate, le quali, dal canto loro, ebbero peraltro sin d’allora un rapporto ambiguo con la reli-gione. Non per nulla, l’illuminismo osteggiò assieme alla tradizione in senso lato la religionein senso stretto. Inizia così l’epoca in cui la tecnica e la scienza tendono a sostituirsi alla magiaed alla religione nel trovare risposte più concrete ed efficaci alle paure della gente. Se prima lecase venivano costruite protettivamente a ridosso delle Chiese, con la scoperta dell’elettricità edel parafulmine ad opera Franklin si vide - non senza una certa ironia - che proprio i campanilierano uno dei bersagli preferiti della folgore3 7.

Tornando alle streghe, il legame diretto ed esplicito tra la stregoneria e la donna è espressochiaramente nel manuale in assoluto più famoso dell’Inquisizione: il Malleus maleficaru m(Il M a rtello delle Stre g h e) edito a Strasburgo nel 1486 e scritto da due domenicani: HenrichInstitoris e Jacob Sprenger. Di fatto, erano le calamità e le dure condizioni di vita che spinge-vano la gente delle campagne a richiedere l’aiuto delle streghe per guarigioni, parti diff i c i l i ,aborti o infertilità, matrimoni traballanti o sommarie giustizie e vendette di paese. JulesMichelet (1798-1874) fu il primo storico moderno della stregoneria e fu anche un provocanteed appassionato difensore delle sorti femminili. Nel saggio La Sorc i è re del 1863 Micheletsostenne tra i primi che la stregoneria fu una sorta di “matriarcato medico” pro f o n d a m e n t eradicato nel tessuto sociale del tempo e per tali motivi suscitò la feroce e misogina avversio-ne della Chiesa e della classe medica di allora3 8.

Il guaritore feritoMa non solo di santi, di streghe e di inquisitori è fatta l’assistenza segnata dal cristianesimo.L’immagine più forte di questa religione è forse proprio quella del Christus Jesus Patiens, delCristo sofferente. Tale immagine rimanda a mitologie e archetipi antichissimi quale appunto lafigura bipolare del “guaritore ferito”, del Redentore che porta su di sé la sofferenza. In questosenso chiunque voglia guarire (chiunque, ma a maggior ragione il medico e l’infermiere perchéil guarire in senso cristiano non può tralasciare alcun aspetto della realtà umana) riflette in sél’immagine del “guaritore ferito”. Ma è bene ricordare alcune manifestazioni di questa imma-gine che risale nei secoli sino alla mitologia. Così, ad esempio, il Prometeo di Eschilo - chedona agli uomini il fuoco e l’arte di forgiare i metalli - finisce incatenato sul Caucaso con un

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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avvoltoio che gli divora il fegato. Chirone invece - il centauro che insegnò a Esculapio l’arte diguarire - era affetto da piaghe incurabili. A Babilonia c’era una dea-cane con due nomi: conquello di Gula era la morte, con quello di Labartu era la guarigione. In India, Kali è, allo stessotempo, la dea del vaiolo e anche colei che lo cura. L’immagine mitologica del “guaritore feri-to” è in conclusione molto diffusa e, da un punto di vista psicologico, rimanda un duplicesignificato: non solo che il paziente ha un medico dentro di sé, ma anche che in ogni medicoesiste un paziente3 9.

Nei due millenni dell’era cristiana, il paradosso umanamente inaccettabile della croce - del Dioche accetta di essere crocifisso ed è soggetto alla morte come ogni uomo - ha inciso profondamentela cultura di ogni tempo a partire da quella di allora (cfr. 1 Cor 1, 22-23)4 0. Ma l’immagine del Diosofferente - che non è altro che l’estrema conseguenza del dogma dell’incarnazione, ossia del Dioche si fa uomo - ha senz’altro mosso anche la riflessione sulla stessa forza terapeutica della fede.Attraverso la sofferenza ed ancor più che con la ragione, come scrive uno dei padri della Chiesa,Dionigi l’Aeropagita, si comprendono le cose divine. In questa prospettiva deve collocarsi lariflessione sulla Medicina cristiana contemporanea, che è opera per l’uomo nella continua ricercadella “salute perfetta”, piena realizzazione di tutte le sue potenzialità41.

2.2 La costruzione della disciplina infermieristica secondo la “Scuola dei bisogni”In questo che è il panorama di sfondo dell’assistenza, ci concentriamo ora sulla “storia interna”dell’assistenza i n f e r m i e r i s t i c a relativamente a questi ultimi decenni di forte impulso alla specula-zione teorica. Ovviamente siamo costretti a restringere il campo della nostra analisi ad un’oppor-tuna selezione di autori ed autrici - tra le diverse decine di teorie e modelli concettuali che costi-tuiscono il patrimonio della nostra disciplina. Si tratta, come già detto, di seguire il “programmadi ricerca” a nostro avviso più importante e più originario dell’infermieristica: quello che, inqualche modo, pone l’assistenza in relazione ai “bisogni assistenziali” del paziente. Le sue radici,lo abbiamo visto, si perdono nei secoli, ma la prima formulazione teorica in senso scientifico si èavuta solo a partire dalla seconda metà del novecento, con Vi rginia Henderson ramificandosi suc-cessivamente in numerose “Serie di teorie” diff e r e n t i .

Ma prima di rivolgere la nostra attenzione a queste singole teorie ed ai loro autori, occorre chia-rire anzitutto chi e come iniziò a parlare di una “Scuola” dell’infermieristica legata al concetto dibisogno - l’americana Afaf I. Meleis - esponendo le modalità con le quali operò la sua originariaclassificazione. Questo passaggio è dunque importante in quanto ci consente di chiarire le motiva-zioni della nostra classificazione che, notevolmente ampliata, ha il pregio di includere importantinomi mai citati da Meleis.

Un intero paragrafo verrà poi dedicato a Virginia Henderson, alla sua teoria ed alle sue intuizio-ni principali, mentre i due paragrafi conclusivi saranno dedicati ai principali autori stranieri ed ita-liani che hanno proseguito questa tradizione di ricerca.

2.2.1 La definizione della “Scuola dei bisogni” Nel terzo capitolo del suo libro sul progresso della riflessione teoretica nell’infermieristica - c a p i t o l odal titolo significativo: “On the way to theoretical nursing: stages and milestones” - Meleis affermache lo sviluppo della disciplina infermieristica può essere espresso attraverso sei stadi evolutivi:1- stadio della pratica; 2- stadio della formazione e dell’amministrazione; 3- stadio della ricerca;4- stadio della teoria; 5- stadio della filosofia; 6- stadio dell’integrazione4 2. Secondo Meleis, ognistadio costituisce in sé un’evoluzione indispensabile per l’approccio allo stadio successivo, edognuno - compatibilmente con il contesto storico e socio-culturale nel quale si è sviluppato - haaiutato le infermiere a definire sempre meglio ciò che è l’assistenza infermieristica, la sua mis-sione, le sue basi teoriche.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Analizzando lo stadio della teoria, Meleis fa confluire l’opera dei diversi autori da lei consideratiin tre scuole di pensiero, che denomina come teorie dei bisogni, teorie d e l l ’ i n t e r a z i o n e e teorie d e lr i s u l t a t o4 3. Le teorie dei bisogni furono le prime ad essere elaborate in quella prolifica comunitàscientifica che fu negli anni cinquanta e sessanta il Columbia University Teachers College. In que-sto Istituto si formarono ed operarono in quegli anni alcuni nomi che marcarono profondamentel’assistenza infermieristica quali Henderson, Peplau, Hall, King, Abdellah, Wiedenbach, Rogers ealtri. Tuttavia, Meleis non classifica gli autori di questa “Scuola” - come invece facciamo noi -attraverso il riconoscimento diretto od indiretto che tali autori rivolgono al concetto di bisognonella struttura della loro teoria. Al contrario, essa costruisce queste Scuole rintracciando le doman-de alle quali, a suo avviso, i singoli autori cercano di rispondere. Per la “Scuola dei bisogni” questedomande sono: “Che cosa fanno le infermiere? Quali sono le loro funzioni? Quali i loro ru o l i ? ”. Èquindi evidente e scontato in partenza che, rispondendo a queste domande Meleis classifichi inquesta Scuola solo tre autrici V. Henderson, F.G. Abdellah e D.E. Orem.

La domanda su “come fanno le infermiere a fare tutto ciò che fanno?” si integra con le prece-denti e conduce alla definizione della seconda Scuola di pensiero sul nursing, la Scuola interazio -nista. L’Istituto simbolo di questa Scuola è la Yale University School of Nursing, e gli autori inessa riconosciuti da Meleis sono H. Peplau, J. Travelbee, I.J. Orlando, I. King, E. Wi e d e n b a c h ,J. Paterson e L. Zderad. La terza ed ultima corrente di pensiero dell’infermieristica secondoMeleis è la Scuola dei Risultati. Essa, dopo i set di domande sul “Cosa” e sul “Come” risponde adun’altra serie di domande riferibili al “Perché?”: “Perché è fondamentale l’assistenza? Quali sonoi suoi risultati?”. Non vi è un Istituto particolare che ha sviluppato questa Scuola che riunisce, tut-tavia, nomi importanti dell’infermieristica quali D. Johnson, M. Levine, M. Rogers e C. Roy.

Di conseguenza, pur senza alcuna pretesa di completezza o di esattezza matematica, abbiamopreferito estendere lo sguardo ben oltre le tre autrici considerate da Meleis come appartenenti alla“Scuola dei bisogni”, includendo altri nomi, soprattutto europei, che per l’opera speculativa svoltasarebbe a nostro avviso gravissimo dimenticare. Nella scelta degli autori dunque, coscienti delrischio che ogni selezione comporta, ci si è orientati non solo alle classificazioni delle ormai noteantologie, ma si è anche valutato il significato del pensiero di ciascuno rispetto all’impostazionedella teoria del bisogno che qui vogliamo presentare. Non già quindi per il fatto che tutti gli autoripresentati pongano al centro delle loro teorie il concetto di bisogno - anzi, in alcuni di questi è unconcetto marginale - quanto piuttosto per l’originalità della loro concezione o dell’approccio com-plessivo all’assistenza. In funzione di tali criteri sono stati selezionati dieci autori che solo ponendolifra virg olette possiamo riunire sotto la dizione di una “Scuola” di pensiero, ma che tuttavia anostro avviso, hanno il pregio di rappresentare pienamente questa “tradizione di ricerca” sui biso-gni dell’uomo nell’infermieristica.

Non abbiamo considerato Nightingale, sia perché in parte già considerata nel primo capitolo, siaperché la sua produzione non può essere considerata una teoria vera e propria. Nel suo pensiero vi èuna preoccupazione centrata su tre soggetti: il m a l a t o, concepito in un ruolo di passività;l ’ a m b i e n t e, soprattutto fisico piuttosto che psicologico o sociale, e l ’ i n f e r m i e r a, il cui compito prin-cipale è il controllo della variabile ambientale dell’assistenza infermieristica. Nel pensiero dellaNightingale, il nursing dovrebbe «significare l’uso adeguato dell’aria fresca, della luce, del calore,della pulizia, della tranquillità e la giusta scelta e somministrazione della dieta, il tutto con la minorspesa di energia [vital power] da parte del paziente. Delle disposizioni sanitarie, architettoniche eamministrative sbagliate rendono spesso impossibile assistere. Ma l’arte del nursing dovrebbe com-prendere tali disposizioni poiché da sole rendono possibili ciò che io intendo con nursing4 4». Dalpunto di vista della nostra analisi e considerando il periodo storico della sua elaborazione, il pensie-ro della Nightingale rivela fortemente il legame di tipo culturale che accomuna l’infermiere ed ilpaziente e la relazione di entrambi nella interazione con l ’ a mbiente circostante.

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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Gli autori che abbiamo dunque preso in considerazione - e che elenchiamo secondo un ordine cro-nologico relativo alle loro prime e più significative pubblicazioni - sono i seguenti: - Virginia Avenel Henderson (con Evelyn Adam e Nicole Bizier); - Hildegard Peplau; - Faye Glen Abdellah; - Dorothea Elisabeth Orem; - Josephine E. Paterson e Loretta T. Zderad; - Jean Watson; - Helen Yura e Mary B Walsh; - Nancy Roper, Winfred Logan ed Alison Tierney; - Marisa Cantarelli; - Renzo Zanotti.Che cosa riscontreremo alla fine di questo percorso? Riscontreremo che la “Scuola dei bisogni”ha al suo interno teorie che riflettono nel nostro ambito di studio tutte le polarità tipiche dellediscipline scientifiche proprio attraverso la loro accentuata posizione nei confronti ora di questoora dell’altro dei due aspetti del bisogno assistenziale dell’uomo: il fatto cioè che il bisogno èintrinsecamente ed inscindibilmente al tempo stesso “naturale” e “sociale”, oggettivo e soggettivo,esplicito e implicito. Dove la particella “e”, come sosterremo nel quarto capitolo, è non solo con-giuntiva, ma costitutiva del concetto.

Un’ultima nota: l’obiettivo che vogliamo raggiungere con questa breve panoramica non è di tipoantologico. Non si vuole cioè presentare compiutamente le teorie della “Scuola” - lasciamo volen-tieri questo compito alle autorevoli opere ormai già da tempo conosciute anche in Italia45, o ancorameglio, alla lettura diretta dell’opera degli autori. L’obiettivo è piuttosto quello di ricercare allaluce del patrimonio culturale della altre discipline e della storia della sanità e dell’assistenza quelfilo rosso che accomuna questi autori in un comune Programma di ricerca. Questo filo, ovviamen -te, non è altro che l’intuizione che l’assistenza infermieristica abbia a che fare con i “bisogni”dell’altra persona. Dopo quasi cinquant’anni di riflessioni attorno a questo filone di ricerca, cosane sappiamo? Che risultati speculativi abbiamo ottenuto? Cosa possiamo dire di nuovo attornoall’assistenza ed all’assistenza infermieristica che prima non sapevamo? E infine, che tipo di sape-re è l’infermieristica se considerata nella prospettiva dei bisogni dell’uomo?

Tutti i filosofi ed epistemologi che abbiamo visto nella prima parte del libro ci aiuteranno a leg-gere questi autori e a confrontarli tra loro. Ad esempio, consideriamo la “Scuola dei bisogni” del-l’infermieristica, in senso lakatosiano, come quell’insieme di serie di teorie che pongono dire t t a -mente o indirettamente il concetto di “bisogno” in una posizione - più o meno - centrale del pro -prio costrutto teorico. In tal modo, attraverso una valutazione prospettica e storica delle singoleteorie, si vorrebbero cogliere e studiare le posizioni di ciascun autore attorno al concetto di bisogno,ed identificarne le principali scoperte di ordine speculativo in sostegno o in disaccordo alla tesi chequi vogliamo sostenere, ossia che l’infermieristica è una scienza umanistica che permette all’infer -m i e re di compre n d e re i bisogni assistenziali del proprio cliente e di pro p o rre una risposta persona -lizzata in grado di soddisfarli. In questa semplice asserzione sta tutta la semplicità e la difficoltà diogni teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica: in quanto “scienza umanistica” essa deve, anostro avviso, operare un’ermeneutica del singolo caso e proporre al paziente una risposta assisten-ziale adeguata - cioè contestualizzata - sotto il profilo delle evidenze accumulate dalla pratica scien-tifica e sotto il profilo della costruzione di senso che ogni assistenza in quanto pratica simbolicariflette al paziente ed allo stesso infermiere. Tra i due poli estremi del riduzionismo e del relativi-smo, la strada che occorre percorrere dal nostro punto di vista non può nascere che dalle considera -zioni e dalle intuizioni di chi ci ha preceduto nell’intendere l’opera dell’infermiere senz’altro come“scienza” prescrittiva ed umanistica, ma anche come arte intuitiva e cre a t i v a.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Di più: non essendo per noi facilmente distinguibili questi due piani se non in sede astrattiva(con il rischio di riprodurre l’inutile e infruttuosa dicotomia tra teoria e prassi che ha tanto afflittola nostra professione), noi definiamo l’assistenza infermieristica come phrónesis, cioè come sag -gezza pratica, secondo quella categoria aristotelica che non è solo scienza e razionalità, non solotecnica, non solo arte.

R ichiamandoci alla Metodologia dei programmi di ricerca scientifica di Lakatos, cheabbiamo studiato nel primo capitolo, l’analisi del “contenuto” di ogni teoria studiata, la suacollocazione storica e l’integrazione con i precedenti o contemporanei sviluppi della“Scuola” non ci sottrarrà dall’avanzare alcune osservazioni critiche sulle singole teorie.Non siamo fra quelli che pensano di essere al di sopra di ogni pregiudizio. Anzi; questeosservazioni devono essere considerate per quello che sono: un tentativo di leggere gli “slitta-menti di problema” progressivi o regressivi di ogni teoria alla luce della nostra tesi. A q u e s t oproposito sia in sede di presentazione che di critica non entreremo nei dettagli, ma ci acconten-teremo di cogliere all’interno di ogni autore la sua collocazione su polarità che ormai abbiamoimparato a conoscere: conoscenza-comprensione; prescrizione-partecipazione; standardizzazione-personalizzazione. Il risultato collocherà ogni autore, pur con le inevitabili sovrapposizioni edunque in via del tutto provvisoria, in tre grandi categorie che, solo in sede di primaapprossimazione ed a scopo illustrativo proponiamo di definire teorie “organizzative”, teo-rie “naturalistiche” e teorie “ermeneutiche”.

2.2.2 Virginia Avenel Henderson: il pensiero e le intuizioni di un’apripista indiscussaVirginia A. Henderson nasce nel 1897 a Kansas City, Missouri. Durante la prima guerra mondiale,spinta dalla volontà di soccorrere i militari al fronte, si arruola nella Army School of Nursing diWashington e si diploma nel 1921. Completa la sua formazione infermieristica con il Bachelor e ilMaster in Nursing alla Columbia University Teachers College. La sua teoria ha conosciuto unavasta diffusione internazionale dopo la pubblicazione dei testi The nature of Nursing (1966) eBasic Principles of Nursing Care (1960), che è oggi tradotto in 27 lingue. Già curatrice di alcuneriedizione del noto testo di Bertha Harmer, Textbook of the Principles and Practice of Nursing, inesse troviamo già alcuni abbozzi di quella definizione che, con il testo del 1960 editodall’International Council of Nurses di Ginevra, diventerà la più nota definizione di nursing cono-sciuta in Italia. «La funzione specifica dell’infermiera è quella di assistere gli individui malati osani nel compimento di quelle attività tendenti al mantenimento della salute, al suo recupero (o aduna morte serena), attività che essi dovrebbero compiere senza aiuto se avessero la forza, volontàe capacità, e di sollecitare la loro partecipazione attiva, in modo da aiutarli a riconquistare il piùrapidamente possibile la loro indipendenza».

Tale assunto rappresenta l’essenza del pensiero della Henderson e può essere considerato ilnucleo teorico di tutto il suo pensiero. È tuttavia interessante richiamare una definizione ancorapiù datata e che ebbe un sicuro influsso sulla Henderson, quella di B. Harmer del 1922: «Il nur -sing è orientato verso i bisogni dell’umanità e si fonda su un ideale di servizio. La sua finalità nonè solo quella di curare il malato e guarire il ferito, ma è anche quella di portare salute e sollievo,riposo e conforto alla mente e al corpo; riparare, nutrire e proteggere, nonché dare assistenza atutti gli indifesi, gli handicappati, giovani, vecchi o immaturi. Si propone inoltre di prevenire lamalattia e preservare la salute. Il nursing è, dunque, legato ad ogni altra istituzione sociale chepromuova la prevenzione della malattia e la conservazione della salute. L’infermiera è chiamataad assistere non solo il semplice individuo, ma ad occuparsi della salute di una collettività46».

Quando negli anni cinquanta Henderson iniziò la sua ricerca sul concetto di assistenza infermie-ristica era motivata essenzialmente dalla necessità di c h i a r i re la funzione delle infermiere nellasocietà. Era convinta infatti che un libro di testo, principale fonte di apprendimento dell’assistenza

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infermieristica, dovesse contenere una valida descrizione di tale funzione ed inoltre che i principidella pratica infermieristica dovessero derivare da una esauriente definizione della professione.Riteneva infatti che unicamente rendendo ben chiaro e valido il concetto di assistenza infermieri-stica e di funzione dell’infermiere, fosse possibile guidare coloro che tale assistenza praticano,insegnano, studiano, amministrano.

Scrive infatti nel capitolo intitolato “I bisogni fondamentali dell’uomo in relazione all’assi-stenza infermieristica”: «è universalmente riconosciuto che l’assistenza infermieristica ha le sueradici nei bisogni fondamentali degli esseri umani. L’infermiera, sia che si assista il sano che ilmalato, deve tener presente l’insopprimibile bisogno umano di cibo, di vestiario, di alloggio, dia ffetto e di approvazione: il desiderio di sentirsi utile e di partecipare alla vita sociale. Tali esi-genze fondamentali, definite e accettate da sociologi e filosofi, troppo spesso vengono miscono-sciute e trascurate4 7» .

Henderson tiene a precisare che gli individui percepiscono i propri bisogni - anche quelli con-siderati semplicemente “fisiologici” - a livelli diversi di intensità: la percezione di uno stessobisogno si modifica più volte nel corso della sua esistenza. Scrive infatti in una delle sue paginepiù illuminanti: «mentre è importante stabilire che esistono bisogni comuni a tutti, è altrettantoimportante rendersi conto che tali bisogni vengono soddisfatti a seconda del modo diverso di con -c e p i re la vita, di cui esistono varietà infinite. Ciò significa che l’infermiera, nonostante la sua com-petenza e la volontà di riuscire, non potrà mai c o m p re n d e re pienamente che cosa rappresenti ilbenessere per un’altra persona e si troverà imbarazzata a provvedervi. Potrà soltanto aiutare l’assisti-to a compiere quegli atti tendenti a raggiungere uno stato che per lui significa salute, o benessere oguarigione o una buona morte4 8» .

Nel considerare il concetto di essere umano-individuo, sano o malato, Henderson vi include dun-que le componenti biologiche, psicologiche, sociologiche e spirituali. Questi elementi sono inscin-dibili e formano un insieme: non è possibile agire su una dimensione senza influenzare le altre.Ogni bisogno fondamentale può essere considerato a part i re da queste componenti. L’uomo è defi-nito come un individuo che tende all’indipendenza e una volta ottenutala fa di tutto per mantenerla.Egli desidera l’indipendenza e ha in sé tutte le risorse per conquistarla impiegando la forza, lavolontà e le conoscenze necessarie. L’essere umano non è mai del tutto indipendente, egli si trovafra l’indipendenza e la dipendenza e solo in situazioni particolari, quali il coma o l’estrema prostra-zione, l’infermiera può sentirsi autorizzata a decidere p e r il paziente, piuttosto che c o n il paziente,ciò di cui lui ha bisogno.

Se l’assistenza significa soddisfare i bisogni elementari del malato ciò vuol dire che il nursingdeve essere considerato e studiato indipendentemente dalla diagnosi medica, pur non negandol’influenza di questa sui bisogni assistenziali. Oltre allo stato patologico, altri elementi da tenerein considerazione per l’assistenza sono per Henderson l’età, la cultura, le capacità fisiche ed intel-lettuali dell’assistito ed infine il suo stato emotivo e volitivo. In tal modo, l’assistenza infermieri-stica consiste principalmente nell’aiuto che si dà al paziente supplendo alle cognizioni, allavolontà e alla forza che gli fanno difetto, in modo da consentirgli di svolgere le sue attività quoti-diane e di eseguire le cure prescritte dal medico. All’infermiera è affidata la responsabilità di farsicarico del malato ed assisterlo nel suo normale regime di vita, aiutandolo a compiere quegli attinecessari alla sopravvivenza e quelle attività che rendono la vita superiore ad un semplice pro-cesso vegetativo. A tratti, negli scritti della Henderson, compaiono spunti qualitativi che dovreb-bero caratterizzare l’infermiera: competente, intuitiva, paziente, capace di adattarsi, attenta adogni gesto del malato, comprensiva, sollecita, riservata, non-direttiva. A questo proposito - anti-cipando di alcuni decenni la chiave di lettura ermeneutica che noi stessi adotteremo per la risolu-zione del problema dell’alterità del paziente - Henderson consiglia alle infermiere di comunicaresempre all’ammalato la propria “i n t e r p re t a z i o n e ” dei suoi bisogni, in quanto solo così

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l ’ i n f e rmiera potrà essere sicura di averlo “c o m p re s o a sufficienza”. Su questo aspetto, Hendersonritorna nel 1966 scrivendo della troppa facilità con cui «l’infermiera può fraintendere l’eff e t t i v aconsistenza dei bisogni del paziente, qualora manchi di sottoporre le proprie interpretazioni alvaglio di una verifica attenta4 9». Ad esempio essa potrà chiedergli (molto rogersianamente): “misembra che lei sia inquieto”, o “sofferente” o “contrariato”; oppure - “ripetendo con le sue parolequanto appena detto dall’ammalato” - l’infermiera “può indurre quest’ultimo a scaricarsi di timo-ri che lo assillano senza che se ne renda conto”5 0. Per un tale programma, Henderson richiamasenza timore le infermiere all’antico monito Nosce te ipsum, in quanto l’assistenza richiede unaperfetta padronanza di sé poiché «far tutto ciò con discrezione è vera arte».

La funzione dell’infermiera viene dettagliata in una tabella a tre colonne: nella prima compaio-no le “Componenti dell’assistenza infermieristica di base”, nella seconda le “Condizioni, normal-mente presenti, che influiscono sui bisogni umani” e nella terza le “Manifestazioni patologiche,comuni a più malattie, che modificano i bisogni umani”. Nella Tabella II vengono riportate le “funzio-ni” del malato alle quali provvede l’infermiera. In questo elenco mettiamo in evidenza che l’autrice avolte è portata ad esprimere in maniera u n i t a r i a quella diade fondamentale costituita dal “bisogno” edalla relativa “risposta” assistenziale, sia essa individuale, collettiva o dell’infermiera: Che cosa è delbisogno e cosa dell’assistenza? E da chi è erogata questa assistenza? Ad esempio, qual è il soggettoche risponde al bisogno di “mantenere la temperatura”? È poi certamente da sottolineare come in que-sto elenco vi sia una formulazione eccessivamente ottimistica rispetto all’identificazione del “biso-gno”, evidente nell’uso ripetuto di termini quali “normale”, “adeguato”, “adatto”, ecc. Tali limiti lin-guistici sono stati ripresi e corretti da altre autrici che hanno proseguito l’attività di questo programmadi ricerca. Una di queste è Evelyn Adam - con Nicole Bizier, una delle principali appartenenti allacorrente hendersoniana dell’infermieristica - che enuclea dalle “componenti dell’assistenza” inmodo definitivo la tassonomia dei “bisogni comuni ad ogni essere umano” secondo V. Henderson.N e l l aTabella II riportiamo anche la sua classificazione5 1.

Per Henderson, «la figura centrale [dell’assistenza infermieristica] è sempre il malato o l’individuo,e tutti i membri dell’équipe dovrebbero rendersi conto che sono lì per assisterlo. Se il malato noncomprende il programma della cura stabilito per lui, non lo accetta o non collabora alla sua praticaattuazione, il lavoro delle “équipe” va in gran parte perduto». E poco più oltre, in una pagina a nostroavviso fra le più belle della nostra disciplina, scrive: «Se [...] la salute è un obiettivo difficile da rag-giungere, difficilissimo è il compito dell’infermiera nell’aiutare a conquistarla. In un certo senso elladovrà mettersi nei panni di ciascun malato per capire di che cosa questi ha veramente bisogno. Vo l t ain volta dovrà: usare le proprie facoltà mentali per chi giace incosciente, sostituire con la propria per-sona l’arto dell’amputato, prestare la vista al cieco, interesse per la vita all’aspirante suicida. E ancora:sarà mezzo di trasporto per il neonato, sicurezza e fiducia per la giovane madre inesperta, e portavocedi coloro che non sanno o non vogliono esprimersi. È proprio la necessità di valutare i bisogni i m m e-diati o futuri dell’individuo nel settore fisico, mentale e sociale, a fare dell’Assistenza infermieristicaun servizio di alto livello. Molte fra le attività assistenziali sarebbero semplici se non si dovesse a d a t -tarle alle particolari esigenze del malato. […] L’adattamento della procedure infermieristiche, anchesemplici, ai bisogni individuali del malato, spesso richiede un alto grado di competenza5 2» .

Per la Henderson l’infermiera “esperta” ricercherà sempre nel proprio paziente qualche aff i n i t àcon se stessa o con le esperienze precedenti; starà attenta a non farsi avvincere dalla deleteria routineospedaliera e, anzi, la modificherà a beneficio della particolare persona che sta assistendo realizzan-do così, nell’assistenza, un proprio s t i l e personale. Tale rielaborazione personale è, per la Henderson,«l’elemento creativo che fa dell’assistenza un’arte5 3». Così, in un’altra pagina davvero illuminantedel suo testo del 1966 scrive: «L’infermiere che cerca di sostituirsi alla volontà, alle cognizioni e allaforza che mancano al paziente, cercherà di conoscerlo, di capirlo, di mettersi al suo posto […]. Ci òr i chiede dall’infermiera uno sforzo riflessivo e un p rocesso mentale che è sempre difficile da

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compiere, e il cui esito sarà sempre relativo. Richiede capacità di a s c o l t o, o s s e rv a z i o n e prolungata ei n t e r p re t a z i o n e dei comportamenti non-verbali. Richiede inoltre che l’infermiere sia consapevole deipropri impulsi emotivi che possono bloccare la sua disponibilità a concentrarsi sui bisogni delpaziente e sulla ricerca dell’intervento più indicato. Richiede infine la capacità di manifestare i pro-pri sentimenti e pensieri in modo selettivo che dia luogo a una c o m p rensione re c i p ro c a fra infermie-re e paziente. Per poter immedesimarsi con il paziente, l’infermiere deve conoscere bene i dinamismiche determinano il comportamento umano; deve capire le persone pur nella d i v e r s i t à della loro pro-venienza culturale e nelle relazioni non sempre identiche alle diverse circostanze della vita5 4».

Molte sono le tematiche che anche noi riprenderemo da queste bellissime pagine: la com-prensione reciproca e il dialogo, l’apertura (ascolto-osservazione) e l’interpretazione, il rap-porto tra diversità e identità, tra evidenza ed esperienza, e, infine, la congruenza con sé stessi.Si intravede nel pensiero di Henderson l’importante contributo della relazione non direttiva diCarl Rogers5 5, ma Henderson riconduce con chiarezza la relazione interpersonale a quelloche è: non già il fine dell’assistenza infermieristica (come ancora oggi capita di sentir dire)ma uno stru m e n t o, una competenza in mano all’infermiera per raggiungere il suo vero scopo:la comprensione del paziente e la soddisfazione dei suoi bisogni.

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Tab. II. I bisogni dell’essere umano secondo Virginia Henderson ed Evelyn Adam.

V. Henderson: Le componenti E. Adam: I “bisogni dell’assistenza infermieristica di base (*) comuni ad ogni essere umano”

secondo V. Henderson (**)

Respirare normalmente; B. di respirare;

Alimentarsi e bere in modo adeguato; B. di bere e mangiare;

Eliminare da tutte le vie emuntorie; B. di eliminare i residui biologici;

Muoversi e mantenere la posizione adatta B. di muoversi e adottare posizioni (camminando, seduto, sdraiato, e cambiando posizione); confortevoli;

Dormire e riposare; B. di dormire e riposarsi;

Scegliere il vestiario adatto, vestirsi, spogliarsi; B. di vestirsi e spogliarsi;

Mantenere la temperatura corporea nei limiti normali, B. di mantenere la temperatura del corpomediante gli indumenti e modificando l’ambiente; nei limiti della norma;

Provvedere all’igiene personale e proteggere ; B. di essere pulito e proteggere i tegumenti i tegumenti;

Evitare i pericoli dell’ambiente ad evitare B. di evitare i pericoli;di danneggiare gli altri;

Comunicare con gli altri, per esprimere emozioni, B. di comunicare con i propri simili;bisogni, timori, ecc.;

Seguire le pratiche religiose secondo la propria fede; B. di praticare la propria religione o agire secondo le proprie credenze;

Dedicarsi a qualche occupazione o lavoro B. di essere occupato in modo da sentirsi che procuri soddisfazione; utile;

Giocare o partecipare ad attività ricreative; B. di svagarsi;

Apprendere, interrogare, soddisfare la curiosità B. di apprendere.che conduce al normale sviluppo della intelligenza e alla salute

(*) Vi rginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, op. cit., pp. 14-15, corsivo nostro.(**) Evelyn Adam, Être infirmière, 1979, trad. it. Essere infermiera, Vita e Pensiero, Milano, 1989, p. 18.

Sembra ormai assodato che all’inizio della propria speculazione, Henderson non fosse anco-ra stata influenzata dall’opera di A. Maslow (vedi par. 3.4). Solo molto più tardi, nella sestaedizione del testo Principles and practice of Nursing del 1978 compare un esplicito riferimen-to alla teoria umana della motivazione ed alla concezione olistica dell’uomo. L’ottavo capitolodi questo testo è quasi interamente dedicato alla dettagliata descrizione della teoria di Maslowe alla gerarchia dei bisogni in essa presentata. Con molti esempi di carattere assistenziale,Henderson concorda nell’impossibilità di separare un bisogno dall’altro, e sviluppa la sua anti-ca intuizione che tutti i bisogni dell’uomo, anche quelli che sembrano appartenere esclusiva-mente alla sfera biologica, sono invece influenzati da componenti psicologiche, sociali e cultu-rali. Inoltre, tratta approfonditamente i bisogni di appartenenza, amore e sesso - non menziona-ti nelle quattordici esigenze fondamentali da lei individuate nel 1966 - distinguendo la naturadel bisogno di amore da quello sessuale. A questo proposito giunge ad affermare che l’infer-miere dovrebbe “amare” i propri pazienti - seppur in un modo che ovviamente non suggeriscaun attaccamento sessuale o un’interdipendenza non terapeutica.

Henderson non definì e non prese in considerazione metodi e strumenti per portare le sue primeintuizioni nella prassi assistenziale; questo lavoro è stato invece compiuto in opere successive dialtre infermiere, fra cui le già citate Evelyn Adam e Nicole Bizier. Entrambe canadesi, la primapubblica un testo anch’esso conosciutissimo (Essere infermiera del 1979), dove spiega gli elemen-ti essenziali di un modello concettuale applicandoli quindi ai contenuti della teoria di Henderson,non senza approfondirne alcuni aspetti sostanziali. Adam afferma ad esempio che i postulati chestanno alla base della visione hendersoniana del nursing sono tre: 1. Ogni persona tende all’indi-pendenza e la desidera; 2. Ogni persona forma un tutto che presenta bisogni fondamentali;3. Quando un bisogno è insoddisfatto ne consegue che la persona non è completa, intera, indipen-dente. Il concetto di bisogno poi, continua Adam riferendo di una comunicazione personale con laHenderson, deve essere meglio precisato nel senso di indicare in senso positivo una “necessità”(requirement) piuttosto che una “mancanza” (lack) in senso negativo56.

Per Adam occorre poi introdurre una nuova distinzione tra i bisogni fondamentali ed i bisogni“personali” del cliente. Questi ultimi sono per Adam bisogni specifici caratteristici di quel pazienteanziché quelli universali caratteristici di ogni essere umano. Questi bisogni non sono tuttavia deno-minati uniformemente nel testo di Adam, che sembra richiamarne il concetto con aggettivi diversi edintercambiabili: individuali, particolari, specifici, e personali. Tuttavia, per la sua corretta identifica-zione, un bisogno particolare, o meglio, appunto, personale, deve rispondere per Adam a tre criteri:A) provenire da un bisogno fondamentale; B) costituire una necessità individuale del cliente aff i n c h équesti conservi o ritrovi la sua indipendenza nella stessa soddisfazione del bisogno fondamentale; eC) essere «compatibile con le conoscenze attuali circa le esigenze dell’essere umano. Quello che nonderiva da un bisogno fondamentale, né nelle sue dimensioni bio-fisiologiche, né nelle sue dimensionipsico-socio-culturali, non è, dunque, un bisogno specifico». Poco più oltre viene fornita un’ulterioreimportante precisazione: «Un bisogno è fondamentale - afferma Adam - quando costituisce il biso-gno di ogni essere umano, malato o sano. Un bisogno è specifico o particolare quando costituisceuna necessità non universale. […] Soprattutto nelle sue dimensioni bio-fisiologiche, un bisogno spe-cifico può essere comune a tutto un gruppo di individui […]. Che un bisogno non sia provato da unasola ed unica persona ma piuttosto da una pluralità, questo non cambia niente al fatto che si tratti diuna necessità che deriva da un bisogno fonda m e n t a l e5 7». È questo il sottile confine che separa inuno stesso bisogno le sue caratteristiche ricorrenti e dunque standard, da quelle particolari e dun -que personali. L’identificazione dei bisogni particolari avviene attraverso la partecipazione delcliente mentre per ciò che concerne l’ordine di priorità nella soddisfazione dei bisogni Adam non fadi meglio che consigliare alle infermiere la gerarchia dei livelli di Maslow, avendo cura di precisa-re, tuttavia, che le differenze personali possono influenzarne notevolmente la classificazione58.

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Ma Adam affronta anche, in chiave infermieristica, le distinzioni tra bisogno e desiderio oabitudine, e quella tra bisogno e mezzi. Tutte queste precisazioni sono preziose per la nostrariflessione e vanno quindi almeno accennate. A proposito del “bisogno” di alcuni pazienti difumare o di bere alcool, Adam osserva che non possono essere considerati “bisogni specifici”per il fatto di non derivare da necessità fondamentali dell’essere umano (vedi il primo criterioper l’identificazione dei bisogni personali) e di non violare, in un certo qual modo, le cono-scenze attualmente possedute sulla salubrità di queste pratiche. Così non tutti i bisogni fonda-mentali sono necessità vitali: i quattordici bisogni sono, tuttavia, necessari per conservarel’integrità bio-psico-sociale del cliente. In tal modo alcune abitudini, ad esempio quella dibere un bicchiere di latte prima di addormentarsi o dormire cinque ore per notte, sono a tuttigli effetti “bisogni” in quanto oltre ad originare dai bisogni fondamentali ed essere palese-mente necessari all’individuo, sono anche suffragati dalle attuali conoscenze sulle esigenzed e l l ’ o rganismo adulto.

Il dilemma al quale si trova di fronte l’infermiera, come altri operatori sanitari, è quello didecidere entro quali limiti può e deve agire per convincere il cliente a cambiare alcuni suoi com-portamenti dannosi: «il suo rispetto per la libertà altrui - afferma Adam - aiuterà [l’infermiera]ad evitare i due estremi: da una parte, imporre al cliente i propri valori e, dall’altra, scaricarsidi ogni re s p o n s a b i l i t à5 9» .

Quanto alla distinzione tra bisogno e mezzo questa è secondo Adam una pratica frequente edabbastanza naturale in quanto l’azione, il mezzo o lo strumento che serve efficacemente alla soddi -sfazione di un dato bisogno viene spesso identificato con questo, nella oramai conosciuta diadeassistenziale bisogno-risposta . L’esempio più classico è il “bisogno di fare una telefonata”, o di“prendere una doccia”, o ancora “di assumere quel dato farmaco”: il telefono, la doccia e il farma-co non sono in sé i veri bisogni del paziente, ma i mezzi che lui utilizza per soddisfare rispettiva-mente il bisogno di comunicare, di igiene, o di alleviare il dolore. Ovviamente, è compito dell’in-fermiera risalire a tali bisogni e verificare se i mezzi richiesti possono “adeguatamente” soddisfareil bisogno. Aquesto riguardo, Adam, ricorda che i bisogni dell’uomo sono un tutt’uno e sono stret-tamente legati l’uno con l’altro. Come già aveva notato Maslow quando parla dei canali di espres-sione dei bisogni, per Adam un bisogno specifico può arrivare da un qualsiasi bisogno fondamen-tale, anche apparentemente non collegato ad esso.

Se ci spingiamo ad indagare i metodi e gli strumenti dell’assistenza, notiamo che già perHenderson ogni assistenza infermieristica efficace presuppone “la stesura di un piano scritto”che obbliga coloro che lo preparano a prendere in considerazione i bisogni dell’individuo. Ipiani di assistenza infermieristica necessitano di continue modifiche motivate dal verificarsi dicambiamenti nei bisogni dell’individuo, soprattutto durante le malattie gravi. In tali situazioni ipiani di assistenza possono essere suscettibili di revisioni continue affinché si eviti la rigidità ela mancanza di risposte ai bisogni immediati e variabili del paziente. I piani di assistenza infer-mieristica sono sempre differenti tra loro, anche se costituiti dagli stessi elementi: è la persona-lizzazione infatti che fa dell’assistenza infermieristica un’arte. Ponendosi all’interno di quest’ot-tica, Adam elabora il “procedimento sistematico”, che definisce come “strumento” di lavoro pergli infermieri e “strumento” di formazione per gli insegnanti. Il procedimento da seguire aff i n c h él’infermiera possa risolvere un problema infermieristico necessita di cinque tappe: 1) la raccoltadei dati; 2) l’interpretazione dei dati; 3) la pianificazione dell’intervento; 4) l’esecuzione dell’in-tervento; e 5) la valutazione.

Ma è soprattutto nel testo di Nicole Bizier del 1987 (De la pensée au geste. Un modèle concep -tuel en soins infimiers) che il pensiero di Virginia Henderson viene ripreso in chiave metodologi-ca. «L’uomo - scrive Bizier - è un essere a più dimensioni: biologica, fisiologica, psicologicasociale e culturale che si manifestano nel modo in cui si soddisfano i bisogni fondamentali. Ogni

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bisogno assistenziale ha quindi una dimensioni biologica, fisiologica, psicologica sociale e cultu -r a l e . La dimensione biologica riguarda il patrimonio genetico, il sesso e l’età. La dimensionefisiologica riguarda il funzionamento degli organi. La dimensione psicologica riguarda le intera-zioni ed i fenomeni sociali (famiglia, gruppi). La dimensione culturale riguarda l’etnia, la naziona-lità, le credenze e le leggi specifiche di una società60». Bizier, come già Adam, raggruppa di con-seguenza queste dimensioni in tre categorie: 1- Bio-fisiologica: (ad esempio: patrimonio genetico,sesso, età; funzionamento degli o rgani; anatomia). 2- Psicologica: (ad esempio: personalità oinfluenza delle emozioni). 3- S o c i o - c u l t u r a l e: (ad esempio: struttura sociale e cultura corrispon-dente alla struttura sociale)6 1. Per descrivere il metodo infermieristico - come Adam ma in formapiù sviluppata - Bizier utilizza il procedimento scientifico che comporta cinque tappe definite,ponendo particolare attenzione e accento sulla funzione didattica di tale strumento, idoneo allarisoluzione dei problemi di dipendenza dell’individuo che non è in grado di soddisfare uno o piùdei quattordici bisogni fondamentali. Per Bizier le prime due fasi del processo (la raccolta dei datie l’interpretazione dei dati) possono essere invertite o realizzate simultaneamente secondo il puntodi partenza del processo, in quanto possono esistere due modi per affrontare il processo di risolu-zione del problema: 1- raccogliere più informazioni possibili (raccolta dati) per individuare il pro-blema e le sue cause (interpretazione); 2- elaborare prima una ipotesi (interpretazione) e poi con-validarla tramite l’osservazione, individuando così le cause (raccolta dei dati). Il metodo secondoBizier è perciò suddiviso in: a) raccolta dei dati; b) analisi ed interpretazione dei dati - diagnosiinfermieristica; c) pianificazione; d) identificazione delle priorità; e) formulazione degli obiettivi;identificazione dei modi di supplenza; f) identificazione degli atti infermieristici; g) redazione delpiano di assistenza; h) intervento; i) valutazione62.

È estremamente interessante notare come Bizier cerchi di risolvere il “problema diagnostico” -ossia il problema di identificare le dimensioni oggettive e soggettive dei bisogni - tramite un com -plesso sistema di indagini (induttive e deduttive) che trovano il loro punto focale nel continuoconfronto tra le ipotesi dell’infermiere e la ricerca di una loro convalida. Essa afferma infatti chegli errori più comuni nel processo diagnostico sono da ricondursi principalmente a tre cause: 1) aduna raccolta dei dati incompleta o impertinente; 2) ad una inadeguata interpre t a z i o n e d e l l einformazioni ricevute - come già intuito dalla Henderson; 3) alla mancanza di conoscenze. La cat-tiva interpretazione delle informazioni, afferma Bizier, dipende dai nostri pregiudizi e dalla nostraignoranza, e si realizza spesso nel considerare uno solo degli “indici” che abbiamo a disposizio -ne. Un paziente, ad esempio, chiede un analgesico, ma l’infermiera lo nega in quanto dubita diquesto bisogno non rilevando nel paziente alcun segno di sofferenza fisica. Purtroppo Bizier nonapprofondisce ulteriormente il tema dell’interpretazione del dato, lasciando non pochi dubbi sulprocedimento diagnostico che dovrebbe legare la singolarità di ogni caso clinico alle necessarietassonomie diagnostiche accreditate dalla comunità infermieristica63. In conclusione, sembra chedopo aver ulteriormente sviluppato il tema del bisogno di assistenza di Henderson, Bizier non siain grado di sviluppare altrettanto coerentemente il discorso metodologico, arrestandosi al proble-ma diagnostico: il bisogno viene infatti ricondotto, sic et simpliciter, alle diagnosi infermieristiche(nella fattispecie la tassonomia della NANDA, di cui il testo riporta un elenco negli allegati).

Dal suo apparire e lungo tutti questi decenni, come si è cercato di mostrare, la teoria dei biso-gni di Vi rginia Henderson è stata oggetto di uno studio ininterrotto, fatto di sperimentazioni econtinui approfondimenti. Gli aspetti particolarmente critici che ci permettiamo di rilanciaresono a nostro parere soprattutto tre. Il primo è rivolto ad una concezione troppo ambigua (e trop-po ampia) delle funzioni dell’infermiera che sembrano indirizzare verso una “soddisfazione ditutti i bisogni” della persona. Ciò può indurre a dimenticare che molti sono i fattori che condizio-nano l’appagamento dei bisogni e non tutti sono di competenza infermieristica. «Questo atteggia-mento di onnipotenza rispetto ai bisogni di una persona - scrive ad esempio Paola Di Giulio nel

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primo numero della Rivista dell’infermiere a proposito di alcune applicazioni della Henderson -rappresenta un limite, perché molti di questi non potranno mai essere soddisfatti, molti altri sonoi fattori che concorrono alla soddisfazione dei bisogni di una persona: la componente religiosa,l ’ a ffetto, la famiglia, cioè tutta la rete di relazioni spesso interrotte e compromesse durante lamalattia e l’ospedalizzazione6 4».

Il secondo aspetto critico, molto probabilmente dovuto al contesto storico nel quale si forma ilpensiero della Henderson, coglie un limite nella scarsa analisi degli aspetti psicologici e socialidell’assistenza, che da un punto di vista metodologico sembrano troppo spesso assolutamentesganciati dagli aspetti bio-fisiologici. Un segnale di questo limite è dato dal fatto che Hendersonsembra concentrarsi sulla singola persona, tralasciando di considerare, tranne brevi richiami, l’am-biente familiare o comunitario del paziente, cioè il con-testo nel quale avviene l’assistenza65.

Ma il vero limite della produzione speculativa di Henderson è la sua insufficiente solidità alivello teorico, peraltro anch’essa pienamente scusabile se si considera il periodo storico-culturalenel quale scrive. Tale debolezza tocca elementi portanti della struttura di una teoria, quali ad esem-pio l’uso del linguaggio che si rivela essere in Henderson di un’estrema polisemia d’uso su termi-ni fondamentali come lo stesso “bisogno”, la relazione, la persona, ecc. (A tal punto che, a nostroavviso, molti aspetti introdotti dagli autori successivi potrebbero essere classificati popperiana-mente come ipotesi ad hoc, cioè posticce stampelle a salvaguardia del nucleo teorico).

È poi fonte di ulteriore difficoltà la carente riflessione metodologica unita a riferimenti e relazionitra i concetti non sempre chiari e univoci. Tutto ciò ha portato il programma di ricerca hendersonianoa diluirsi e differenziarsi in molteplici canali, tutti ugualmente a rischio di incoerenza o incompletez-za, tutti egualmente giustificati dalle molteplici, ma spesso immotivate, interpretazioni del suo pen-s i e r o6 6. Tra i molti che potremmo citare, Sorensen e Luckman ad esempio non recepiscono neppurele intuizioni della Henderson sulla centralità dei bisogni fondamentali come riflesso di tutte le com-ponenti o dimensioni della persona umana. Così, pur richiamandosi esplicitamente alla Henderson,essi presentano un’ennesima classificazione dei bisogni (in cinque categorie: bisogni fisici, socialiemozionali, cognitivi e spirituali)6 7. Altri ancora, senza neppure storcere il naso, si richiamano allaprotezione della Henderson - magari solo un po’rattoppata con l’immissione di un’altra dose di ipo-tesi ad hoc - per spacciare strani miscugli che legano direttamente Maslow alle diagnosi nordameri-cane più rigide ed applicative. Altri ancora possono permettersi di fraintendere completamente le sueosservazioni e nel presentare il suo pensiero nemmeno citare la parola “bisogno”6 8.

Anostro parere, una così cattiva continuazione del programma di ricerca sui bisogni di assisten-za della Henderson non ha fatto altro che allontanare, o ritardare, l’approfondimento della fonda-mentale intuizione del pensiero hendersoniano. E cioè che la chiave di volta dell’assistenza sono ibisogni dell’uomo, e soprattutto i bisogni più semplici e più umili perché riflettono tutta la profon -dità e l’insondabilità della persona umana.

Vi rginia Avenel Henderson muore a 98 anni, il 20 marzo 1996 a Branford, Connecticut, dopoun’inesausta vita di studio, di ricerca e di insegnamento. Non possiamo che condividere ciò chescrisse Edward J. Halloran dell’Università di Washington comunicandone la notizia su Internet:“ Vi rginia Henderson è stata per l’infermieristica del X X secolo ciò che Nightingale fu per il X I X” .

2.2.3 Analisi del concetto di “bisogno” nelle principali teorie della “Scuola”Hildegard PeplauHildegard Peplau (1909-1999) nasce a Reading, Pennsylvania. Compie studi di nursing, di nursingpsichiatrico, di psicologia e di pedagogia. Proprio l’esperienza psichiatrica è una delle influenze mag-giori del suo pensiero. La teoria di Hildegard Peplau viene esplicitata con la pubblicazione nel 1952del libro Interpersonal Relations in Nursing. Altro testo fondamentale dell’autrice è Basic Principlesof Patient Counselling, del 1964. Negli anni settanta W. E. Field Jr. raccoglie tutto il materiale

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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p r o d o tto da Peplau e cura, in suo onore, la pubblicazione del libro The Psychotherapy of HildegardE. P e p l a u. L’elaborazione teorica di Hildegard E. Peplau è fortemente incentrata su un modello psico-dinamico: l’assistenza infermieristica, una volta superato l’orientamento tradizionale alla malattia, èinnanzitutto una relazione interpersonale basata sull’esplorazione e sulla gestione dei significati psico-logici di eventi, sentimenti e comportamenti del paziente. Il ruolo dell’infermiere è quello di fornireun supporto per identificare e risolvere difficoltà e problemi attraverso una serie di attività che caratte-rizzano la relazione infermiere-paziente: orientamento, identificazione, utilizzazione, risoluzione.

Il concetto di bisogno nel pensiero di Peplau trova uno spazio particolare solo nelle prime fasidel processo di relazione interpersonale: infatti, secondo Peplau, la percezione di un bisogno(detto “bisogno sentito”) è una delle esperienze fondamentali, oltre alla frustrazione, al conflitto eall’ansia, che mette il paziente nelle condizioni di riconoscere la necessità di un supporto profes-sionale da parte dell’infermiere. Parallelamente, i primi approcci fra infermiere e paziente permet-tono al professionista di identificare e stabilire con maggior chiarezza il bisogno di aiuto.

È evidente che il bisogno nel pensiero di Peplau, seppur fondamentale quale vero e propriomotore del processo assistenziale, è espressione concettuale di anomalia: bisogno inteso cioècome “necessità di”, come situazione problematica che favorisce l’incontro fra paziente e infer-miere, vero nucleo della sua teoria. Inoltre, l’attenzione di Peplau è tutta concentrata sui momentisuccessivi, cioè sulla relazione interpersonale, su ciò che accade fra infermiere e paziente: chequesto risulti da una condizione chiamata “bisogno” o da altro, sembra essere in realtà secondario.

Faye Glen AbdellahFaye Glen Abdellah è nata a New York e, come Henderson, ha compiuto gli studi superiori pressola Columbia University-Teachers College. La sua prima opera appare nel 1960 - Patient-centeredapproaches to nursing e pur proponendosi di centrare l’assistenza sul paziente (visualizzando que-sto concetto attraverso l’immagine di un pendolo che oscilla da un lato tra la centratura sullamedicina e dall’altro dalla centratura sul nursing) in realtà è oggi più nota come la teoria “dei 21problemi infermieristici”. Questi infatti sono il raggruppamento categoriale dei “problemi” cheincontrano quotidianamente le infermiere nell’erogare assistenza. Abdellah identifica il tema deibisogni e della loro determinazione come l’elemento cruciale delle azioni infermieristiche, tantoda definire il nursing come «un servizio agli individui e alle famiglie e quindi alla società. Esso sibasa su un’arte e una scienza che dirigono gli atteggiamenti, le competenze intellettuali e le abilitàtecniche del singolo infermiere verso il desiderio e la capacità di aiutare le persone sia malate chesane a soddisfare i propri bisogni di salute69». O ancora, in un’affermazione del 1972: “Il pazientecon i suoi bisogni e l’infermiera che li soddisfa per mezzo delle sue prestazioni, è la sola ragioneche giustifica l’esistenza della professione infermieristica”70.

Secondo D.K. Kay, negli anni di elaborazione della sua teoria, Abdellah riteneva che «una dellepiù grandi barriere che non permettevano al nursing di ottenere un riconoscimento professionale erala mancanza di un corpus scientifico di conoscenze peculiari […]. La cura dei pazienti veniva org a-nizzata cercando più di soddisfare i bisogni dell’istituzione ospedaliera che quelli del paziente7 1» .

L’identificazione dei problemi infermieristici è senz’altro l’elemento principale dell’elaborazio-ne teorica dell’Abdellah. Tale identificazione è resa possibile dal presupposto che i bisogni disalute del cliente possono essere letti dal punto di vista infermieristico in quanto problemi -p o t e nziali o attuali, nascosti o evidenti - sostanzialmente raggruppabili in tre grandi aree: a) biso-gni fisiologici, sociologici ed emotivi del cliente; b) tipi di relazione interpersonale tra paziente einfermiere e c) elementi comuni dell’assistenza al paziente. Diversi studi descrittivi e sperimentaliindagarono - con ricerche che precorsero i tempi dei DRGs (Diagnosis Related Groups) - talep r emessa, permettendo la formulazione della tassonomia dei 21 problemi così come oggi la cono-sciamo e come venne pubblicata la prima volta nel 196072:

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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1.Mantenere una buona igiene del corpo ed il comfort fisico.2.Promuovere un’attività ottimale: esercizio, riposo e sonno.3.Promuovere la sicurezza mediante la prevenzione di incidenti, di lesioni o di altri traumi e

mediante la prevenzione della diffusione di infezioni.4.Mantenere un buon funzionamento corporeo, prevenire e correggere le deformità.5.Facilitare il mantenimento di un rifornimento di ossigeno a tutte le cellule del corpo.6.Facilitare il mantenimento della nutrizione a tutte le cellule del corpo.7.Facilitare il mantenimento dell’eliminazione.8.Facilitare il mantenimento del bilancio idro-elettrolitico.9.Riconoscere le risposte fisiologiche del corpo alle situazioni di malattia, patologiche, fisiologiche

e di compensazione.10.Facilitare il mantenimento dei meccanismi di regolazione e delle funzioni.11.Facilitare il mantenimento della funzione sensoriale.12.Identificare ed accettare la positività e la negatività di espressioni, sentimenti e reazioni.13.Identificare ed accettare la correlazione tra emozioni e malattia organica.14.Facilitare il mantenimento di una efficace comunicazione verbale e non verbale.15.Promuovere lo sviluppo di relazioni interpersonali produttive.16.Facilitare il raggiungimento di obiettivi spirituali personali.17.Creare e/o mantenere un ambiente terapeutico.18.Facilitare la consapevolezza di sé come individuo con i bisogni variabili di tipo fisico, emotivo

e di sviluppo.19.Accettare gli obiettivi ottimali possibili, alla luce dei limiti fisici ed emotivi.20.Utilizzare le risorse della comunità come aiuto per risolvere i problemi derivanti dalla malattia.21.Comprendere il ruolo dei fattori sociali come determinanti la malattia. Suzanne Falco rileva le notevoli influenze ricevute dalla Abdellah soprattutto da A. Maslow e inmisura ancora maggiore da V. Henderson. Nei confronti di quest’ultima, la Falco rileva che ilprincipale approfondimento di Abdellah riguarda il quattordicesimo bisogno della Henderson -“Imparare, scoprire e soddisfare la curiosità”. La tabella che riportiamo (cfr. Tabella III) mostra ineffetti uno “sbilanciamento” dei bisogni della Henderson nella categoria dei bisogni fisiologici diMaslow, ed il tentativo di sviluppare una proporzione equilibrata in Abdellah73.

Meleis, dal canto suo, nota che tanto Henderson quanto Abdellah non identificano alcun bisognoassistenziale in riferimento ai bisogni di realizzazione di Maslow, probabilmente in quanto questi«non sono bisogni che possano venire soddisfatti tramite la competenza infermieristica». Per Falco,invece, quest’omissione è giustificata dal fatto che l’autorealizzazione è un processo dinamico ed indivenire; l’erogazione di un’assistenza come quella descritta da Henderson ed Abdellah può essere ilpasso necessario all’autorealizzazione del paziente.

Sembra quindi possibile affermare che il tema del “bisogno” non venga adeguatamente svilup-pato dalla Abdellah che si accontenta spesso delle intuizioni precedentemente introdotte dallaHenderson. Se non per alcune dichiarazioni di principio, Abdellah non indaga affatto la natura delbisogno assistenziale - non meglio chiamato che “bisogno di salute” - così come, peraltro, tende ariferirsi al paziente-cliente come “individuo”, o “destinatario delle azioni di nursing”, relegandoload un ruolo secondario e per di più in quanto singolo e nella sola condizione di malattia. Perammissione della stessa autrice, inoltre, il concetto di ambiente - con i suoi fattori culturali, sim-bolici e sociali - è il meno approfondito all’interno della sua teoria.

In conclusione, ci sembra di poter condividere ciò che afferma S. Falco quando dice cheAbdellah centra più l’attenzione sui problemi infermieristici (ciò che preoccupa e ciò che fal’infermiere) piuttosto che sui bisogni del paziente, riscuotendo quasi unanimemente la criticadi teoria pragmatica ed “anti-olistica”. Una parziale spiegazione di come possa essere avvenuta

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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Tab. III. Una comparazione tra gli schemi di Maslow, Henderson e Abdellah.

Maslow Henderson (Adam) Abdellah

1. Bisogni 1. B. di respirare; 5. Facilitare il mantenimento di un rifornimentofisiologici di ossigeno a tutte le cellule del corpo.

2. B. di bere e mangiare; 6. Facilitare il mantenimento della nutrizione a tutte le cellule del corpo.

8. Facilitare il mantenimento del bilancio idro-elettrolitico.

3. B. di eliminare i residui biologici; 7. Facilitare il mantenimento dell’eliminazione.

4. B. di muoversi e adottare 4. Mantenere un buon funzionamento corporeo,p o s i z i o n i confortevoli; prevenire e correggere le deformità.

5. B. di dormire e riposarsi; 2. Promuovere un’attività ottimale: esercizio, riposo e sonno.

6. B. di vestirsi e spogliarsi; 10. Facilitare il mantenimento dei meccanismi di regolazione e delle funzioni.

7. B. di mantenere la temperatura 1. Mantenere una buona igiene del corpo ed ildel corpo nei limiti della norma; comfort fisico.

8. B. di essere pulito e proteggere i tegumenti;

2. Bisogni 9. B. di evitare i pericoli; 3. Promuovere la sicurezza mediante ladi sicurezza prevenzione di incidenti, di lesioni o di altri

traumi e mediante la prevenzione della d i ff u s i one di infezioni.

11. Facilitare il mantenimento della funzione sensoriale.

3. Bisogni di 10. B. di comunicare con i 14. Facilitare il mantenimento di una efficace a p p a r t e n e n z a propri simili; comunicazione verbale e non verbale.e di amore

15. Promuovere lo sviluppo di relazioni interpersonali produttive.

11. B. di praticare la propria 16. Facilitare il raggiungimento di obiettivireligione o agire secondo le spirituali personali.proprie credenze;

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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questa deviazione dall’asse principale della ricerca (il nursing centrato sul cliente) può esserefornita pensando al periodo storico nel quale si svolgeva la sua fase speculativa: si ricercavanocioè non già ulteriori ipotesi teoriche a rafforzare le tesi di Maslow ed Henderson, bensì stru-menti che concretizzassero tali intuizioni, che rendessero immediatamente evidente l’operativitàinfermieristica, senza considerare tuttavia che - così facendo - si rischiava di perdere di vista ilvero protagonista dell’assistenza.

Dorothea Elisabeth OremDorothea E. Orem nasce a Baltimora, nel Maryland. Ha compiuto studi di nursing e di pedagogiaed ha esercitato la professione infermieristica nel settore pubblico e privato. Dopo alcuni anni di

Tab. III. (Continua).

4. Bisogno di 12. B. di essere occupato in modo 19. Accettare gli obiettivi ottimali possibili, allastima di sé da sentirsi utile; luce dei limiti fisici ed emotivi.

13. B. di svagarsi;

14. B. di apprendere. 9. Riconoscere le risposte fisiologiche del corpo alle situazioni di malattia, patologiche, fisiologiche e di compensazione.

12. Identificare ed accettare la positività e la negatività di espressioni, sentimenti e reazioni.

13. Identificare ed accettare la correlazione tra emozioni e malattia organica.

17. Creare e/o mantenere un ambiente terapeutico.

18. Facilitare la consapevolezza di sé come individuo con i bisogni variabili di tipo fisico, emotivo e di sviluppo.

20. Utilizzare le risorse della comunità come aiuto per risolvere i problemi derivanti dalla malattia.

21. Comprendere il ruolo dei fattori sociali come determinanti la malattia.

5. Bisogni di autorealiz-zazione

Modificata da: Suzanne Falco, “Faye Glen Abdellah”, in J.B. Georg e , Nursing Theories. The base for professional nursing

p r a c t i c e, 1990 (I^ ed. orig. 1980), trad. it. Le teorie del nursing. Le basi per l’esercizio professionale, Utet, To r i n o ,

1995, p. 103.

insegnamento accademico con alcune colleghe ha fondato nel 1970 una società di consulenzainfermieristica. La prima formulazione della sua teoria è avvenuta con la pubblicazione del testoNursing: concepts of practice del 1971, che, da allora, ha già avuto 5 edizioni l’ultima delle qualinel 19957 4. Tuttavia, la prima formalizzazione dei concetti della teoria infermieristica di Oremrisale al 1958-1959, quando - attraverso una riflessione sulla sua personale esperienza in campoinfermieristico più che sulla consultazione o sull’analisi degli scritti esistenti - si pose una domandachiave: «Non tutte le persone in cura, ad esempio dai medici, sono seguiti da un punto di vista del-l’assistenza infermieristica e né dovrebbero esserlo. Quale è la condizione che spinge una perso -na, oppure un suo famigliare, il medico curante o l’infermiere, a giudicare che questa personadovrebbe essere assistita da un punto di vista infermieristico?» Risale a quel periodo l’intuizioneche l’assistenza infermieristica avesse a che fare con le s e l f - c a re (letteralmente “auto-cura”,“cura di sé”) delle persone e delle comunità. Scriveva ad esempio nel 1956 «L’infermieristica èun’arte attraverso la quale l’infermiere, ossia colui che pratica il “nursing”, fornisce assistenzaspecializzata a persone affette da una disabilità tale da rendere necessaria un’assistenza più cheordinaria al fine di s o d d i s f a re i bisogni quotidiani relativi alla cura di sé e alla partecipazioneintelligente alla cura medica che essi stanno ricevendo dallo specialista. L’arte infermieristica èpraticata “facendo per” le persone con disabilità, al fine di “aiutarle a fare da sé” e/o “aiutandole aimparare come fare da sé”. L’infermieristica è anche praticata aiutando una persona capace dellafamiglia del paziente a imparare come “fare per” il paziente stesso. Il “nursing” di un paziente èperciò una pratica ed un’arte didattica75».

In sostanza, per la Orem le cure di sé sono quelle pratiche che gli individui compiono per proprioconto al fine di conservare la vita, la salute ed il benessere, contribuendo in modo specifico “all’integritàstrutturale” della propria persona, alla sua funzionalità e al suo sviluppo. Il concetto di self-care, tuttavia,è in continua evoluzione ed è stato declinato da Orem nelle seguenti affermazioni: (i) la self-care èinfluenzata dal concetto di sé e dal livello di maturità dell’individuo; (ii) la self-care è influenzata daobiettivi ed abitudini culturali; (iii) la self-care è influenzata dalle conoscenze scientifiche relative allasalute dell’individuo; (iv) la self-care è influenzata dall’appartenenza della famiglia ad un gruppo socia-le; (v) gli adulti possono decidere di impegnarsi o meno in determinate azioni per la self-care; (vi) lamancanza di conoscenze scientifiche relative alla self-care, i disturbi di salute, la mancanza di abilità perla self-care e le abitudini inadeguate limitano ciò che una persona può fare per la self-care o per assistereun’altra persona in queste azioni; (vii) la self-care contribuisce ed è necessaria all’integrità di una perso-na in quanto organismo psicofisiologico con una vita relazionale; (viii) ogni persona deve eseguire quoti-dianamente un minimo di attività rivolte a sé stessa al fine di continuare la propria esistenza come org a-nismo con una vita relazionale; (ix) la self-care richiede attività di tipo interiore volte al controllo delcomportamento, ed anche attività di tipo esteriore volte al controllo dell’ambiente al fine di stabilire uncontatto ed una comunicazione con gli altri e di garantire l’utilizzo di risorse.

A partire dalla terza edizione del suo libro nel 1985, la Orem sviluppa una teoria generale deln ursing, concependolo come un insieme integrato di tre teorie fortemente connesse tra loro:( 1 ) la teoria della cura di sé - t h e o ry of self-care; (2) la teoria del deficit della cura di sé - t h e o ryof self-care deficit; e (3) la teoria dei sistemi infermieristici - t h e o ry of nursing systems7 6.

Alivello della teoria della cura di sé è possibile identificare secondo Orem tre categorie di “fat-tori” o requisiti della cura di sé: “universali”, “evolutivi” e legati “all’alterazione dello stato disalute” del paziente. I fattori u n i v e r s a l i sono associati con i processi vitali ed il mantenimentodella integrità e del funzionamento della struttura umana. Sono quindi comuni a tutti gli esseriumani e sono da considerarsi strettamente interdipendenti gli uni dagli altri. Foster e Janssens,riportando le otto funzioni riconosciute dalla Orem in questa categoria, le definiscono sintetica-mente come comuni “attività di vita”77. Esse riguardano ad esempio il mantenimento di una suffi-ciente quantità di aria, di acqua e di cibo, l’eliminazione degli escreti, l’equilibrio fra l’attività ed

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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il riposo, ecc. I fattori di sviluppo sono invece requisiti che dipendono dalla maturità del singoloindividuo, oppure che si sviluppano in lui a seguito di una data condizione o di un dato evento - adesempio l’elaborazione del lutto o l’adattamento dell’immagine di sé. Infine, i fattori di alterazio -ne della salute sono ovviamente riferibili alla malattia, o ad una sua lesione, complicanza o tera-pia. Orem chiama “richieste terapeutiche di self-care” (Therapeutic self-care demand) quelle atti-vità che si rendono necessarie per soddisfare “i requisiti di self-care”, e che quindi permettono ilmantenimento della salute e del benessere della persona - variando ovviamente di qualità e diintensità nel corso di tutta la vita.

Normalmente, gli adulti che hanno sviluppato capacità di auto cura sono in grado di occuparsispontaneamente di soddisfare le “richieste terapeutiche di self-care”, mentre i neonati, i bambini,gli anziani, gli ammalati ed i disabili necessitano di cure complete o di aiuto per la cura di sé. Neltermine s e l f - c a re, sostiene Orem, la parola “self” ha una connotazione dualistica e deve essereintesa come cura “per sé stesso” e “fornita da sé stesso”. Il fornitore di azioni di auto-cura vienedefinito “agente di self-care” (self-care agent), mentre il fornitore di “cure” ad altri individui - adesempio la mamma che cura il proprio bambino - viene definito agente di “cura dipendente”(dependent care agent). Il termine agente viene usato nel senso di persona che intraprende, ossiavaluta, decide e svolge - un’azione.

Quando le richieste di self-care superano le capacità di cura degli agenti si instaura una condi-zione di “Deficit di self-care”. È questo, al tempo stesso, il cuore della teoria del deficit di self-c a re e l’oggetto vero e proprio della teoria generale del nursing di Orem, in quanto descrive espiega tanto le condizioni in cui si viene a creare la necessità di ricevere assistenza infermieristicaquanto le modalità con le quali questa agisce ed i suoi benefici sulla salute del paziente. I deficit diself-care vengono definiti completi o parziali appunto in riferimento al grado di capacità di soddi-sfare nessuno o solo alcuni requisiti di self-care. Le capacità di self-care, come abbiamo visto,sono capacità complesse, acquisite per soddisfare in modo continuativo le richieste di “cura” delpaziente. Il calcolo della richiesta terapeutica di self-care, inteso come processo investigativo conragionamento ipotetico-deduttivo, ha come risultato un progetto in cui vengono stabilite il numeroed il tipo di azioni necessarie.

La Teoria dei Sistemi di assistenza infermieristica costituisce la componente org a n i z z a t i v arispetto alla Teoria del deficit di self-care, poiché stabilisce il tipo di assistenza infermieristica e iltipo di relazione tra paziente ed infermiere. Un sistema di assistenza infermieristica è caratterizza-to dalla presenza di elementi concreti, quali la presenza di persone che occupano la posizione di“infermiere-legittimo”, di persone che occupano la posizione di “paziente-legittimo” e di “eventiche accadono tra questi”.

Nella Teoria dei Sistemi di assistenza infermieristica, è fondamentale il concetto di c a p a -cità di assistenza infermieristica (Nursing agency) quale elemento che caratterizza gli infer-mieri e che li pone nella condizione di progettare e produrre un’assistenza infermieristicae fficace ed efficiente per le persone con deficit di self-care. La capacità di assistenza infer-mieristica viene definita come «un insieme complesso di qualità di una persona, acquisiteattraverso studi specializzati ed esperienze in situazioni reali di assistenza infermieristica».Per il principio secondo cui gli infermieri e/o i pazienti possono agire per soddisfare i requisi-ti di self-care, si individuano tre variazioni fondamentali nei sistemi di assistenza infermieri-stica: 1) sistema di assistenza infermieristica totalmente compensatorio; 2) sistema di assi-stenza infermieristica parzialmente compensatorio; 3) sistema di assistenza infermieristicaeducativo, di supporto.

Nel primo sistema di assistenza infermieristica gli infermieri sono i soggetti principali, in certicasi gli unici, per il soddisfacimento dei requisiti di self-care dei pazienti, la protezione delle lorocapacità di self-care e della loro integrità personale.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Nel secondo, sia l’infermiere sia il paziente eseguono misure di “cura” o altre azioni chec o mprendono mansioni manipolative o di deambulazione. L’attribuzione della responsabilitàall’infermiere o al paziente, per quanto riguarda l’esecuzione di tali misure, varia a seconda dellelimitazioni effettive del paziente nella deambulazione e nelle attività manipolatorie, delle cono-scenze scientifiche e tecniche e delle abilità richieste, della prontezza psicologica del paziente pereseguire, o imparare ad eseguire, attività specifiche.

Nell’ultimo sistema sono comprese situazioni in cui il paziente è in grado di eseguire, oppurepuò e dovrebbe imparare ad eseguire, le misure richieste di self-care, ma non può farlo senza assi-stenza infermieristica. Questo è l’unico sistema in cui le richieste di assistenza del paziente si limi-tano alle decisioni, al controllo del comportamento ed alla acquisizione di abilità e di conoscenze.

Ponendosi all’interno della particolare ottica della Teoria infermieristica del deficit di self-caresi possono distinguere: (a) operazioni diagnostiche infermieristiche; (b) operazioni prescrittiveinfermieristiche; (c) operazioni di trattamento infermieristico e di regolazione; (d) operazioni digestione del caso. La progettazione si realizza attraverso l’analisi e la sintesi di elementi concreticolti da situazioni di pratica infermieristica, riunendoli in relazioni ordinate a costituire unità diprogettazione allo scopo di costituire un modello che guidi la produzione di sistemi di assistenzainfermieristica verso il raggiungimento di precisi obiettivi infermieristici. In base alle informazio-ni raccolte verranno scelti i Sistemi di assistenza infermieristica più adatti al caso (Totalmente oParzialmente compensatorio o di Supporto-Educativo) nonché i metodi di assistenza infermieristi-ca più opportuni scegliendo fra i cinque seguenti: I. agire al posto di un’altra persona; II. guidareun’altra persona; III. fornire un supporto fisico e psicologico; IV. garantire un ambiente adeguatoper lo sviluppo; e V. insegnare.

Certamente quella della Orem è una delle teorie infermieristiche più conosciute ed utilizzateal mondo. Tuttavia, seppur nella semplicità della nostra analisi, alcune considerazioni non pos-sono essere accantonate. Un primo dato di fatto abbastanza sorprendente - notato tra gli altri daFoaster e Janssens - è constatare come nel testo della Orem vi siano scarsi riferimenti interd i -s c i p l i n a r i e vi sia un p ressoché nullo aggiornamento della bibliografia nella successione dellevarie edizioni.

La seconda considerazione che vogliamo evidenziare è ancora più importante. Sebbene la Oremabbia inizialmente definito il nursing - secondo un’espressione riportata anche da Poletti - in quan-to concernente specificatamente «i bisogni dell’essere umano che sono in relazione con le selfca -res, cioè azioni che gli permettono di godere buona salute e di rispondere in modo continuativo aisuoi bisogni al fine di vivere in modo sano, guarire da malattie o ferite, fronteggiandone gli effet-ti78», nella quinta edizione della teoria non vi è alcuna sottolineatura né esplicitazione formale delconcetto di “bisogno di assistenza”. Consultando gli indici dell’edizione del 1995 si è impressio-nati dal constatare che la parola “Needs” (bisogno) non compare né come voce del glossario, nécome voce nell’indice degli argomenti - a fronte di alcune decine di voci indaganti la parolaNurse\Nursing.

Ci sembra quindi che la teoria della Orem, terza ed ultima autrice della “Scuola dei bisogni”secondo Meleis, abbia come concetto centrale del proprio nucleo non tanto, o non più, il concettodi bisogno di assistenza infermieristica, quanto piuttosto il concetto di s e l f - c a re , a meno di consi-derare l’ipotesi, invero poco probabile, che per essa i due termini - bisogno e self-care - siano daconsiderarsi sinonimi. Orem sembra quindi sfuggire a quella categorizzazione delle teorie infer-mieristiche che, secondo l’infelice espressione di Fawcett, «riduce l’essere umano ad un set dibisogni, e l’assistenza infermieristica ad un set di funzioni7 9», ma semplicemente perché anch’es-sa, come già A b d e l l a h, sbilancia la sua ricerca sull’azione infermieristica e rinuncia alla ricerc adi cosa sia il bisogno, di come possa essere studiato e spiegato, di come possa essere compresoe d avviato a soddisfazione grazie alla competenza infermieristica. Q u e s t o dovrebbe caratterizzar e

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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una teoria dei bisogni dell’assistenza - sulla scia di alcune pagine di Adam - prima ancora che laricerca della scientificità dell’agire infermieristico. Non possiamo quindi non ricordare che lastessa Meleis, illustrando le caratteristiche di questa “Scuola”, afferma che la principale domandaalla quale essa cerca di rispondere è “What do the nurse d o?”: “Cosa f a l’infermiera?”, “Che fun-zioni e che ruolo ha?”8 0, e non, come invece noi penseremmo naturale: “Cos’è un bisogno diassistenza infermieristica?”.

Scrive al proposito Lucia Colombi, in un passaggio analitico particolarmente acuto: «Meleis[presentando l’opera della Orem] utilizza il termine “bisogni di self-care universali” come sinoni-mo di “requisiti di self-care universali”. In realtà nei testi originali della Orem consultati nonappaiono elementi significativi per chiarire il dubbio circa la correttezza e la liceità dell’operazioneche porta ad utilizzare la dizione “requisito di self-care” come sinonimo di “bisogno” […]. È inve-ce evidente la differenza tra il concetto di self-care e quello di bisogno in quanto le self-care vengo-no spesso definite da Orem come “a z i on i di self-care”, ed in quanto tali a p p rese e non innate,anche se universali, poiché universali sono i bisogni a loro sottesi. Un altro termine utilizzato daOrem e che permette di escludere la sovrapposizione di significato tra bisogni e self-care è la defi-nizione di azioni deliberate. La deliberazione, quindi la facoltatività dei bisogni fondamentaliumani, è [infatti] in contraddizione con tutte le definizioni e attribuzioni al concetto di bisogno for-nito dalle diverse discipline8 1».

Con Orem sembra essere ormai chiara la tendenza a traslare il focus della ricerca dal b i s o g n odella persona all’a z i o n e, ossia alla necessità di costruire una competenza specifica ed “altra” chequella innata o culturalmente appresa dal paziente o dalla sua famiglia. Così come Abdellah avevacercato di rendere immediatamente visibile l’opera delle infermiere trasponendo i bisogni del mala-to nei p roblemi dell’infermiera, così la Orem parte dai “requisiti fondamentali” del self-care peridentificare le a z i o n i - di cura di sé o infermieristiche che siano. Resta a suo merito, l’aver permes-so una migliore comprensione di come l ’ a m b i e n t e, sociale e familiare, influenzi tutte le attivitàassistenziali, costituendosi in tal modo quale risorsa fondamentale e ineliminabile dell’infermiera.

Josephine E. Paterson e Loretta T. ZderadL’opera di Josephine E. Paterson e Loretta T. Zderad (Humanistic nursing) del 1976 nasce come“teoria della pratica”, con importanti intuizioni legate proprio alla dimensione umanistica dell’infer-mieristica che non resteranno senza riscontro nella nostra riflessione. Per queste infermiere, che scri-vono dopo una lunga e meditata esperienza personale, la teoria non è altro che “un’immagine art i c o -lata dell’esperienza”. «Il nursing - scrivono Paterson e Zderad - sottintende una maniera particolaredi incontrare le persone. Si manifesta in risposta ad un bisogno esplicito, connesso alla qualità dellac o n d i z i o n e di salute o di malattia propria dell’essere umano. In un ambito nel quale partecipano altreprofessioni sanitarie, il nursing ha lo scopo di promuovere il benessere e il potenziamento dell’essere(potenziamento umano). Il nursing presuppone non un incontro fortuito, ma piuttosto un incontroche nasce da una richiesta intenzionale alla quale fa seguito una risposta. Sotto questo aspetto il nur-sing umanista può essere considerato una forma particolare di d i a l o g o v i v o8 2» .

L’umanismo di queste autrici non è per nulla superficiale, ma profondamente radicato nella filo-sofia esistenzialista per la quale lo studio di un fenomeno umano come l’assistenza non può essereconsiderata al di fuori di una analisi della situazionalità esperienziale dell’uomo stesso. Il nur-sing è quindi una combinazione tra teoria e pratica le quali, non potendo esistere separatamentein quanto l’una presupposto dell’altra, sono entrambe fortemente presenti nel metodo che guidal’incontro con il paziente. Ed è proprio questa pratica e questa metodologia che «acquistano ilv a l o re di originale composizione tra scienza e arte che è il nursing». Ma anche in questo casotanto l’arte quanto la scienza vengono acutamente analizzate dalle autrici: la scienza, in quantoespressione delle “direttive della pratica” risulterebbe vuota di significato se non fosse applicata

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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a situazioni vive. L’ a rt e, dal canto suo non potrebbe esistere al di fuori di una concettualizzazio-ne di ciò che è l’assistenza stessa. L’arte del nursing si esplica nell’interazione infermiera-paziente e nel modo con cui l’infermiera utilizza la teoria in risposta ai problemi del cliente. E,come tutte le arti, anche questa è capace di incidere in profondità i suoi beneficiari, e di perdu-rare a lungo nel tempo.

Per Paterson e Zderad, tre sono le basi concettuali, o le componenti fondamentali, del nursing:A) il dialogo; B) la comunità e C) l’infermieristica fenomenologica. Il nursing è un dialogo vitale:è un rapporto creativo fra infermiera ed assistito in quanto «gli esseri umani hanno bisogno diessere assistiti e le infermiere hanno bisogno di assistere». Il nursing è un’esperienza intersogget -tiva nella quale c’è una reale compart e c i p a z i o n e. In questo concetto-base, secondo le autrici,vanno inclusi l’incontro, il rapporto, la presenza e la stessa diade bisogno-risposta. Molto interes-sante, per la nostra analisi, è il concetto di rapporto sviluppato da Paterson e Zderad - le quali sirifanno al classico di Martin Buber L’io e il tu, per la distinzione qualitativa del rapporto soggetto-oggetto e soggetto-soggetto. Se consideriamo l’epoca nella quale queste autrici sviluppano questiintuizioni non possiamo che restarne stupiti. Scrivono ad esempio, in un passaggio a nostro avvisoessenziale: «Attraverso l’approccio scientifico obiettivo, cioè il rapporto soggetto-oggettto, è pos-sibile acquisire una certa conoscenza della persona; attraverso quello intersoggettivo, cioè il rap-porto soggetto-soggetto, è possibile conoscere una persona nella sua specifica individualità.Pertanto entrambi i rapporti: soggetto-soggetto e soggetto-oggetto sono indispensabili al processoinfermieristico clinico. Entrambi sono elementi del nursing umanistico83».

Anche il concetto di “presenza” è molto interessante - a maggior ragione per noi italiani chederiviamo l’infermieristica da una parola il cui etimo (ad-sistere) significa semplicemente “stareaccanto”. Per Paterson e Zderad la presenza è una qualità difficile da affinare e significa, tanto perl’infermiere quanto per l’assistito, un’attitudine alla recettività, una pronta e disponibile aperturaall’altro. Da ultimo, anche la diade richiesta-risposta è espressione del dialogo vivo in quanto con-siste di “azioni transazionali, consequenziali e simultanee”. Esse si manifestano nel corso del dia-logo attraverso la comunicazione verbale e non verbale ed hanno - secondo il pensiero di questeautrici - la caratteristica dell’immediatezza. Ed è proprio l’immediatezza quella capacità dell’in -fermiera di “far riferimento all’aspetto soggettivo e a quello oggettivo di una situazione vissutasimultaneamente”. Potremmo riferire tale esperienza verbalmente o per iscritto, ma in successio-ne, mentre nella realtà, nella pratica, per i protagonisti del dialogo essa si verifica in modo simul -taneo. In questa prospettiva diventa essenziale lo studio della situazione nella quale si realizza ildialogo e nella quale può succedere che le azioni infermieristiche vengano ad acquisire significatidifferenti per l’infermiere e per il cliente, influenzando così un cambiamento nel dialogo stesso. Èmolto interessante questa esplicitazione sull’immediatezza soprattutto se letta alla luce delle consi-derazioni ermeneutiche che abbiamo studiato nel primo capitolo, ma anche vagliando l’improbabi-le ipotesi che Paterson e Zderad abbiano letto già in quegli anni l’opera di Gadamer.

Una tale condivisione di significati tra infermiere e paziente non può avverarsi senza la conside-razione della comunità (il secondo concetto-base della teoria) nella quale si è inseriti. È quindidalla comunità, o meglio dalla condivisione comunitaria dei significati delle esperienze soggettiveche il paziente trae il proprio significato alla sua situazione, ed è condividendo tale significato chesi attua la prospettiva fenomenologica del nursing secondo queste autrici.

Il “nursing fenomenologico” (il terzo concetto-base) esprime il particolare percorso metodologi-co che, secondo le autrici, rende possibile l’integrazione tra teoria e pratica. Questo processo sicompone di cinque fasi: 1) Preparazione dell’infermiera che deve “conoscere per arrivare a cono-scere”. Oltre al comune bagaglio culturale e scientifico, Paterson e Zderad segnalano l’importanzadelle esperienze individuali e l’acquisizione di un buon grado di conoscenza di sé e di autenticità;2) L’infermiere conosce l’altro i n t u i t i v a m e n t e abbandonando i preconcetti e i suoi pregiudizi,

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facendo attenzione che la routine non affievolisca la sua sensibilità; 3) L’infermiera conosce l’altros c i e n t i f i c a m e n t e; 4) L’infermiera sintetizza la conoscenza complementare di altri; 5) P r o g r e s s i o n edell’infermiera “dalle molteplici realtà ad un unico paradosso”: questa quinta fase passa dalladescrizione del processo al fenomeno vissuto, rappresentando «l’immagine articolata dell’espe-rienza che diviene così espressione di un tutto coerente».

L’infermieristica fenomenologica di Paterson e Zderad presuppone l’esistenza di un bisogno disalute percepito dal cliente che a sua volta interagisce con colui o colei che presta assistenza. Maal momento di definire come indagare nel dettaglio il bisogno - come “diagnosticarlo”, comerisolverlo - questo, purtroppo, non viene meglio spiegato che rifacendosi ancora una volta allagerarchia maslowiana, ai principi fisiologici o alle scale evolutive. Sembra proprio che, come giàsi intravedeva nei tre concetti-base che formano la teoria, il suo nucleo sia centrato sul concetto dir a p p o rto, piuttosto che sul concetto di bisogno che lo motiva e lo giustifica. «L’ i n f e r m i e r i s t i c afenomenologica - scrivono infatti Praeger e Hogarth - non descrive la formulazione di un piano diassistenza infermieristica orientato ad uno scopo. Il nursing umanista si occupa del rapporto tradue esseri, di cui uno è in stato di bisogno8 4». Detto questo, occorre riconoscere a Paterson eZderad di aver precocemente evidenziato l’importanza della comprensione ermeneutica dell’altro, edi aver intuito la specularità di teoria e prassi, come ad esempio nell’uso del tocco delle manidurante uno shampoo, o nell’uso del tempo con i pazienti, mostrando così che qualsiasi interazioneinfermieristica può essere veicolo capace di pro m u o v e re il potenziamento del suo benessere.

Jean WatsonJean Watson è nota per aver pubblicato nel 1979 un’opera lungimirante: Nursing: The philosophyand science of caring. Nel 1985 tornò su questi argomenti con l’opera Nursing: Human scienceand human care, nella quale sostiene che l’obiettivo principale dell’infermieristica è quello dioffrire alla persona un’assistenza fondata su approfondite conoscenze scientifiche e umanistiche.Essa, non per nulla, ammette di aver ricevuto influenze da parte di nomi importanti della filosofia,delle scienze e del nursing contemporaneo (tra i quali citiamo Heidegger, Erikson, Maslow, CarlRogers, Selye, Leininger ed Henderson).

Per Watson, l’assistenza può essere dimostrata e praticata efficacemente solo in maniera inter -personale, solo cioè se avviene un effettivo incontro tra la persona del paziente e quella dell’infer-miere ed è il risultato di specifici “fattori assistenziali che soddisfano alcuni bisogni umani”8 5.Questi fattori sono dieci: 1) Strutturare un sistema di valori umanistico-altruista; 2) Infonderefiducia e speranza; 3) sviluppare la propria e altrui sensibilità; 4) sviluppare una relazione di fidu-cia e di aiuto; 5) promuovere e accettare l’espressione di sentimenti positivi e negativi; 6) utilizza-re sistematicamente il metodo scientifico problema/soluzione nel prendere decisioni; 7) promuo-vere l’apprendimento/insegnamento interpersonale; 8) fornire un ambiente di sostegno mentalefisico e spirituale che protegga e/o corregga; 9) fornire assistenza, gratificando i bisogni umani;10) Considerare le forze esistenziali-fenomenologiche.

Come già per Paterson e Zderad, il nostro interesse - per il filo conduttore di questo testo - siconcentra su due aspetti: la concezione del “bisogno umano” in Watson e la relazione tra “filoso-fia” e “scienza” dell’assistenza. A proposito di quest’ultimo punto, Watson scrive che «la mente ele emozioni della persona sono le finestre dell’anima. L’assistenza infermieristica può essere ed èfisica, procedurale, obiettiva e basata sui fatti, ma - nel nursing ad alto livello - le risposte delleinfermiere all’assistenza dell’essere umano, le transazioni proprie dell’assistenza e la presenzadelle infermiere nella relazione che si stabilisce, trascendono il mondo fisico e materiale, limitatonel tempo e nello spazio, e stabiliscono un contatto con il mondo emotivo e soggettivo della per-sona quale via al più intimo io e al senso più alto dell’io86». Per la Watson, il processo di Humancare è una relazione transpersonale del nursing - inteso come scienza umana piuttosto che naturale

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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- ed è caratterizzato da aspetti particolari quali il contatto con la diversità, ad esempio culturale, daparte dell’infermiere e dell’uomo suo cliente. In riferimento a ciò, e citando il contributo diLeininger, essa sottolinea l’importanza dello studio da parte delle infermiere delle materie umani-stiche. Interessante è anche l’elaborazione da parte della Watson, di un “metodo fenomenologicodi ricerca” che sembra continuare la ricerca iniziata da Paterson e Zderad, e che Watson concepi-sce come «metodo di ricerca nel campo qualitativo-naturalistico-fenomenologico o come ricercacongiunta qualitativa-quantitativa che si contrappone al metodo di ricerca quantitativo razionalisti-c o8 7». A questo proposito, iniziando il suo secondo libro scrive che il nursing è «una scienzaumana e allo stesso tempo un’arte che, in quanto tale non può continuare ad essere considerataqualitativamente una metodologia scientifica, tradizionale e riduttiva88».

Ma forse è ancora più interessante notare che Watson ricerca una migliore concettualizzazionedel termine “bisogno” partendo dalla riflessione di Maslow. Essa, tuttavia, ordina i bisogni del-l’uomo secondo una diversa gerarchia che ella considera specifica del nursing e che ha elencato inquattro punti89:1. Bisogni di ordine inferiore - bisogni bio-fisiologici: quali i bisogni di sopravvivenza, di cibo e

liquidi, di eliminazione e di aria;2. Bisogni di ordine inferiore - bisogni psicofisici: quali i bisogni funzionali, di attività-inattività

e di sessualità;3. Bisogni di ordine superiore - bisogni psicosociali: quali i bisogni integrativi, di conseguire

risultati, di affiliazione;4. Bisogni di ordine superiore - bisogni intrapersonali e interpersonali: quali bisogni di ricerca e

di crescita e i bisogni di realizzazione.Nonostante la gerarchia, Watson precisa che tutti i bisogni sono importanti, e che ponendosi inun’ottica olistica ognuno deve essere considerato nel contesto di tutti gli altri. Pertanto, una valu-tazione iniziale che utilizzi un approccio olistico capace di prendere in esame gli aspetti “dinamico-simbolici di ogni bisogno” fornisce un’immagine più equilibrata della persona. Questo, che a dettadei critici è il punto di forza della teoria di Watson, è contemporaneamente anche il suo puntodebole: come trovare l’equilibrio tra gli aspetti biofisiologici e quelli psicologici del nursing?Come adattare questa teoria a delle realtà ospedaliere?

Helen Yura e Mary B. WalshHelen Yura e Mary B. Walsh sono molto conosciute in Italia grazie alla traduzione nel 1992 dellaquinta edizione del loro libro sulla metodologia del processo infermieristico (The nursingprocess)90. In questo testo l’intero secondo capitolo è dedicato alla “teoria dei bisogni di assistenzainfermieristica”. Queste autrici, infatti, ritengono che «la preservazione, lo sviluppo, il manteni-mento e l’agevolazione dell’integrità di tutti i bisogni della/e persone siano ambito esclusivo del-l’assistenza infermieristica91».

Nella costruzione di questa loro teoria Yura e Walsh si rifanno ad autori a noi già noti - ad esem-pio A. Maslow e B. Malinowski - ed altri ancora tra i quali occorre citare K. Lederer dal qualetraggono la convinzione che i bisogni siano «componenti complesse di ogni individuo, problemiche ogni essere umano affronta, motivazioni ad agire per sé stessi e per gli altri9 2». Per Yura eWalsh è fondamentale considerare che tutti gli esseri umani hanno dei bisogni; la sfida consistenell’identificarli, differenziando ad esempio i bisogni dai desideri, o i bisogni fondamentali daquelli che invece non lo sono. L’esistenza di un bisogno, infatti, “non può essere provata diretta-mente”, ma indirettamente tramite l’analisi dei dati riguardanti i mezzi con i quali la persona sod-disfa i propri bisogni, o i “sintomi di frustrazione” provati da una sua insoddisfazione. Esse ripor-tano il suggerimento di Lederer, per il quale il bisogno può essere percepito e interpretato grazie a:I) il car a t t e re del bisogno - il suo essere universale ed oggettivo, cioè i requisiti che rendono

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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p o ssibile la sopravvivenza e lo sviluppo in una determinata società; II) la natura del bisogno - ilsuo manifestarsi storico e soggettivo determinato dalla struttura sociale.

Secondo la teoria presentata da Yura e Walsh il bisogno assistenziale è «una tensione interiore,risultante da un’alterazione a qualche livello del sistema». Utilizzando un metodo deduttivo e per“facilitarne l’uso all’interno del processo di nursing” hanno classificato 35 bisogni umani. Questibisogni sono presentati in ordine alfabetico e - secondo l’impostazione di Johan Galtung - sonoraggruppati in tre categorie: bisogni di sopravvivenza, di vicinanza e di libertà (vedi Tabella IV).

È importante sottolineare un aspetto ripreso più volte da Yura e Walsh ossia che l’identificazionedi questi bisogni non può prescindere dall’analisi globale del paziente e soprattutto del contesto -sociale, culturale, familiare, relazionale - nel quali essi si determinano e nel quale vengono inter-pretati dall’infermiere.

Infine una perplessità. Benché Yura e Walsh considerino la teoria dei bisogni un “indispensabilepatrimonio della cultura infermieristica”, è del tutto curioso notare che nella trattazione di questocapitolo non viene preso in considerazione il pensiero di nessun’altra infermiera. Un po’ comedire che - disdegnando le intuizioni, le costruzioni teoriche e le sperimentazioni delle colleghe - lateoria presentata non è altro che l’applicazione all’infermieristica dello sguardo che altre le disci-pline hanno sui bisogni dell’uomo.

Nancy Roper, Winfred Logan, Alison TierneyNancy Roper, Winifred Logan e Alison Tierney hanno fatto e fanno attualmente parte delD e p a rtment of Health and Nursing Studies dell’Università di Edimburgo. La condivisione del-l’ambiente accademico, con tutte le conseguenze che ha favorito, ha generato quello stato dicomunità scientifica in senso kuhniano che si forma attorno all’accettazione di una strutturaparadigmatica che orienta il lavoro da svolgere. Inoltre, un passato comune nella prassi e nellaformazione ha concorso al naturale incontro fra queste autrici, sostanziato dall’esplicita e comu-ne intenzione di sviluppare una elaborazione teorica per la costruzione di un curriculum forma-tivo per l’infermiere.

In uno sforzo teoretico che di primo acchito ricorda il lavoro di altri autori, quali ad esempio E.Adam o D. Orem, le autrici pongono al centro del proprio paradigma il concetto di “Attività delvivere”. È loro intenzione, infatti, far discendere questo paradigma i n f e rmieristico da un M o d e l l odel vivere, che si pone l’ambizioso obiettivo di descrivere il vivere della persona umana. Questa caratte-ristica prospettiva è presente fin dalle origini, come risulta nella ricerca empirica per il conseguimentodella laurea di Nancy Roper del 1976 e come è dimostrato già nell’edizione degli Elements of Nursingdel 1980. D’altra parte, le autrici non perdono l’occasione di ribadire costantemente questo aspetto,tanto che dalla terza edizione del 1990 viene modificato in questo senso addirittura il titolo del testo(Gli elementi dell’assistenza infermieristica: un modello di assistenza infermieristica basato su unmodello del vivere)9 3.

Le autrici infine presentano le cinque componenti del Modello di assistenza infermieristica inte -grate in un unico diagramma che è, a tutti gli effetti, il nucleo della loro teoria. Le cinque compo-nenti in esso integrate sono: A) le Attività del vivere; B) la Durata della vita; C) il Continuumdipendenza-indipendenza; D) i Fattori di influenzamento delle Attività del vivere, e E) laPersonalizzazione dell’assistenza infermieristica (Invidualizing nursing)94.

Anche se le cinque componenti vengono riprese in forma sostanzialmente uguale nel modellodel vivere ed in quello infermieristico, è l’accento sul concetto di Attività del vivere come puntod’incontro fra cliente e infermiere che permette di orientare l’assistenza infermieristica in manieraspeciale. In questo modo l’assistenza infermieristica è rivolta verso la persona che svolge le atti-vità di vita, e non verso un paziente/malato. Per le autrici la malattia spesso non è che un episodiodella vita e il ruolo delle infermiere non si può perciò esaurire nei momenti di malattia. A n z i ,

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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l ’ e s igenza di riscattare l’assistenza infermieristica e di emanciparla dalla communis opinio di ese-cuzione di compiti correlati alle cure mediche, è uno dei risultati più pregevoli che le autrici consi-derano aver conseguito con l’applicazione del modello. Potremmo dire che il Modello del vivere,su cui si basa l’assistenza infermieristica è il presupposto extradisciplinare per rinforzare il perse -guimento dell’autonomia professionale95. Il riferirsi al processo e al modo di vivere della personaimpone all’infermiere di interferire il meno possibile con il suo modello di vita.

Le Attività del vivere sono la prima componente paradigmatica descritta nel Modello del viveree nel Modello di assistenza infermieristica (vedi Tabella V); presenti in forma immutata nell’evo-luzione teorica, costituiscono evidentemente un aspetto centrale del nucleo, forse il più importan-te. Le Attività del vivere, nella prospettiva del Modello del vivere, sono definite come “un modo

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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Tab. IV. I bisogni umani secondo H. Yura e M.B. Walsh.

B. di sopravvivenza B. di vicinanza B di libertà

Adattamento, gestire Accettazione di sé e degli altri Autocontrollo, autodeterminazione,lo stress responsabilità

Alimentazione Amare ed essere amati Autonomia, scelta

Aria Appartenenza Autorealizzazione, essere, diventare

Attività Attenzione, apprezzamento Bellezza ed esperienze estetiche

Eliminazione Fiducia Concettualizzazione, razionalità, risoluzione di problemi

Fluidi e elettroliti Immagine corporea integra Integrità spirituale

Integrità sensoriale Integrità sessuale Libertà dal dolore

Integrità dei tessuti Riconoscimento personale, Territorialitàstima, rispetto

Leggi, limiti e strutture Tenerezza Sfida

Percezione corretta Umorismo Sistema di valoridella realtà

Protezione da paure eccessive, dall’ansia e dal disordine

Riposo e svago

Scambi gassosi

Sicurezza

Sonno

Tratto da: Helen Yura, Mary B. Walsh, The nursing process: assering, planning, implementing, evaluating, 5t h e d . ,

Appleton-Century-Crofts, New York, 1988 (I^ ed. orig. 1967), trad. it. Il processo di nursing, ed. Sorbona, M i l a n o ,

1992, p. 75.

per descrivere il vivere” e ancora, “nel loro complesso, contribuiscono al vivere”. Le autrici non sisottraggono al confronto con il concetto di bisogno, che evidentemente trova spazio nelle elabora-zioni teoriche della disciplina infermieristica ed è familiare al gruppo professionale internazionale:a loro parere, le Attività del vivere (che, viene osservato, vengono comunque svolte per soddisfaredei bisogni) offrono la peculiarità e il vantaggio di poter essere osservate, descritte e misurate inquanto “costituiscono le manifestazioni osservabili dei bisogni fondamentali dell’uomo”. L a d d o v eil bisogno può essere nascosto all’infermiere o alla persona stessa, l’Attività del vivere si manifestainvece in forma pienamente osserv a b i l e. Ma forse, per questo passaggio così importante, è meglioriportare le parole stesse delle autrici. «Scegliemmo deliberatamente di usare il concetto di “Attivitàdel vivere” preferendolo a quello di “bisogni umani di base”, un concetto che è stato estesamenteutilizzato nel nursing, basato sulle analisi di Maslow della motivazione umana. [...] Per una certaparte, questo pensiero è rilevante per il concetto di Attività del vivere ma, diversamente dal biso -gno, le Attività del vivere hanno un vantaggio per un modello del nursing nel fatto che esse sonoo s s e rvabili e possono essere esplicitamente descritte, e, in certi casi, misurate obiettivamente. Nonè facile per l’infermiera valutare bisogni come questi; è meno difficile (benché non ancora facile)descrivere il comportamento di una persona in relazione alle Attività del vivere9 6» .

Queste affermazioni ci permettono di sottolineare la presenza di una visione “comportamenti-sta” dell’infermiere che, non avendo strumenti d’indagine per il fenomeno “bisogno” si accontentadi descrivere il comportamento della persona nella loro soddisfazione.

Alcuni critici hanno sollevato perplessità sulla presenza in questo elenco delle attività legate allasfera sessuale; altri rilevano invece la mancanza di attività legate alla sfera spirituale delle perso-ne, o sulla presenza dell’attività del “morire” e non di quella del “nascere”. Queste attività, vengo-no studiate in relazione con la “durata della vita” e con il dato di fatto che esse evolvono e simodificano lungo tutto il continuum vitale di ciascuno, dalla nascita alla morte.

Il continuum dipendenza-indipendenza - la quarta componente del nucleo - è influenzato da fat-tori fisici, intellettivi ed emozionali, socioculturali (spirituali, religiosi ed etici), ambientali ep o l itico-economici (compresi i fattori legali). Per queste autrici, tali fattori sono a tal punto intrec-ciati tra di loro che quando un infermiere accerta lo stato di un paziente, non riesce sempre adistinguere se un certo evento sia il risultato di un influenzamento da parte di un fattore fisico opsichico o socio-culturale.

L’individualità del vivere è la quinta ed ultima componente del Modello del vivere, viene tradot-ta come Individualizing nursing nel Modello infermieristico. Essa è, secondo il pensiero delleautrici, la sintesi di tutte le differenze legate all’individualità, poiché è il prodotto dei fattori di

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Tab. V. Le “Attività del vivere” secondo Roper, Logan e Tierney.

Le 12 Attività del Vivere

Mantenere un ambiente sicuro Controllare la temperatura corporeaComunicare MobilizzarsiRespirare Lavorare e occupare il tempo liberoMangiare e Bere Esprimere la sessualitàEliminare DormirePulirsi e Vestirsi Morire

Tratto da: Nancy Roper,Winifred W. Logan, Alison J. Tierney, The Elements of Nursing. Amodel for nursing based on a

model of living, Churchill Livingstone, Edinbourgh, 1996, p. 35.

influenzamento sulle Attività del vivere e delle relazioni fra le quattro componenti sinora descrittenella singola persona e la personalizzazione dell’assistenza infermieristica97. La concretizzazionedi questo passaggio avviene attraverso il processo di nursing, che è il metodo proposto dalle autri-ci per l’applicazione del modello. Tale processo, che non potremo descrivere nel dettaglio, è costi-tuito da quattro fasi: assessing (accertare); planning (pianificare); implementing; (implementare-attuare); evaluating (valutare).

Ci sembra importante, in conclusione, richiamare in modo sintetico i passaggi a nostro avviso piùsignificativi contenuti nell’elaborazione teorica di Roper, Logan e Ti e r n e y. La personalizzazionedell’assistenza si attua grazie all’applicazione di un metodo (ossia un contatto diretto tra infermieree paziente con piani assistenziali molto destrutturati) che consente di rilevare similitudini e differe n -ze nelle Attività del vivere (potenzialmente infinite - e ciò pone in discussione l’utilità di tassonomiestandardizzate e predeterminate di diagnosi infermieristiche) tra il piano personale della singolap e r s o n a (il piano del Modello del vivere di quel paziente) ed il piano professionale del singoloi n f e r m i e re (il Modello del nursing, costituito da un sapere di tipo scientifico ed umanistico possedu-to da quell’infermiere).

Questa teoria ha ricevuto la corroborazione di molte applicazioni nel Regno Unito ed in altriPaesi europei. Tuttavia, cosa forse rivelatrice, non è citata in alcuna delle antologie statunitensi.Nel nostro paese è certamente da segnalare la positiva sperimentazione di questo modello da partedi un gruppo di infermieri insegnanti della Scuola infermieri di Parma a partire dalla seconda metàdegli anni ottanta98.

2.2.4 Il riflesso della “Scuola dei bisogni” nella produzione di alcuni autori italianiMarisa CantarelliIl nome dell’italiana Marisa Cantarelli è legato ad una delle “storiche” scuole per dirigenti delnostro Paese, la Scuola Universitaria di Discipline Infermieristiche dell’Università degli Studi diMilano (d’ora in avanti anche SUDI). Attorno a questa Scuola si è creato nel tempo un gruppo didiplomati che, sotto la guida di Cantarelli, hanno elaborato ed approfondito il Modello delle pre -stazioni infermieristiche.

L’inizio del programma di ricerca del Modello delle prestazioni infermieristiche (MODPI) hauna data tutto sommato scontata: il 1987. Infatti il 2 e 3 ottobre di quell’anno si tenne a Milano unConvegno della S U D I dal titolo Un modello professionale per l’assistenza infermieristica; il pas -saggio da un’assistenza per mansioni ad un’assistenza per prestazioni99. Il sottotitolo di questoConvegno è molto significativo; l’idea che la “professione” infermieristica dovesse ancora guada-gnarsi il riconoscimento della “competenza tecnica esclusiva” attraverso una propria elaborazioneteorica sulla realtà infermieristica italiana, era già evidente, anche se non percepita da tutta la pro-fessione, negli anni settanta. Ma allora si pensava che - copiando o importando acriticamente ter-minologie straniere - si potessero “bruciare le tappe” di quelli che poi Meleis avrebbe chiamato glistadi insovvertibili dello sviluppo della disciplina infermieristica. Gli anni ottanta sono stati per laprofessione infermieristica italiana gli anni della “consapevolezza professionale”, gli anni neiquali il dibattito interno alla professione risentì del mutamento economico e culturale di queltempo: «gli infermieri prendono coscienza del proprio ruolo all’interno del sistema sociale,approfondiscono le proprie conoscenze, si interrogano sui bisogni [...] di assistenza infermieristi -ca esternati dai cittadini e presenti nelle collettività100».

In questo contesto socio-culturale si accende all’interno della cultura professionale infermieristi-ca italiana un dibattito su un argomento già allora avvertito come prioritario: il superamento del“ m a n s i o n a r i o ”. È in questo contesto che si colloca il Convegno del 1987 della S U D I.Nell’intervento introduttivo al Convegno, Cantarelli evidenziava la nascita del Modello delle pre-stazioni infermieristiche nel contesto professionale del tempo: la confusa identità professionale

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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dell’infermiere italiano, la non conoscenza della sua competenza tecnica esclusiva, la costrizionedell’esercizio in un “mansionario”. Essa affermava che «ogni infermiere ha uno schema di riferi-mento, ognuno ha un suo concetto della professione, ogni persona ha un suo modo di capire il pro-prio ruolo. Tuttavia, se l’ideazione che si fa della propria professione non è abbastanza chiara, pre-cisa, difficilmente si può giungere a descriverla. Un’immagine troppo astratta richiede una messaa punto, e uno schema di referenza serve a fare questa messa a punto presentando un’immaginechiara e netta, un concetto completo ed esplicito della situazione101».

Cantarelli è convinta che la spinta principale che motivò la formulazione di un quadro concet -tuale della professione sia stata l’impellente necessità di chiarire la «competenza tecnica esclusi -va” dell’infermiere. Il Modello concettuale deve essere allora percepito come “un’astrazione chediviene realtà nel momento in cui orienta la diversa attività infermieristica e si concretizza nelsoddisfacimento dei bisogni fondamentali dell’utente, in piena autonomia e competenza [...] rite-nendo che le modalità operative per compiti e mansioni, utilizzate a tutt’oggi dagli infermieri sonoconsiderate da buona parte degli stessi, non congruenti né con le abilità, le motivazioni e gli stru-menti di cui sono in possesso, né con le aspettative e le richieste di chi si rivolge ai servizi sanitari,si è elaborato il concetto di prestazione102».

Il testo di riferimento per il Modello delle prestazioni infermieristiche di Cantarelli è del 19961 0 3.In esso ritroviamo l’ormai nota definizione di assistenza infermieristica, che, secondo l’autrice è«un comportamento osservabile che si esplica mediante lo svolgimento di un complesso di azionitra loro coordinate, per risolvere un bisogno specifico manifestatosi in un cittadino/malato e le azio-ni di assistenza infermieristica come prestazioni, cioè risultati conseguiti mediante lo svolgimentodi un complesso di azioni fra loro coordinate, per risolvere un bisogno specifico manifestatosi in uncittadino/malato. In sintesi, considerando l’assistenza infermieristica come un concetto dinamico eosservabile attraverso le azioni di assistenza infermieristica, e definendo l’insieme di queste ultimecome p re s t a z i o n i, possiamo giustamente concludere che il concetto di prestazione infermieristica èelemento determinante nella definizione dei concetti della disciplina infermieristica1 0 4».

Quanto al concetto di “bisogno di assistenza infermieristica” viene definito da Cantarelli con unatautologia: esso, infatti è «la necessità, l’esigenza da parte dell’uomo di ricevere assistenza infer-mieristica qualora si verifichino particolari condizioni fisiche o psichiche che lo richiedano1 0 5» . Nelsuo libro ed in una recente intervista, essa dichiara che il MODPI - nato, come abbiamo visto dauna riflessione sociologica sulla professione infermieristica e dalla ricerca della sua “competenzatecnica esclusiva” - non è definibile “dall’insieme degli atti e delle azioni infermieristiche che pro-pone”, ma dal legame tra queste ed i bisogni di assistenza della persona106. Ma proprio a questoriguardo è del tutto curioso notare come in Cantarelli il concetto di bisogno - che pure è postoall’interno della struttura concettuale del MODPI in una posizione centrale - non venga per nullaapprofondito. Essa si limita ad affermare che - per la disciplina infermieristica come per altre pro-fessioni - non possa esservi una definizione univoca di questo concetto, ma solo mediata dall’ap-partenenza a questa o quella corrente o scuola di pensiero.

Altri autori della SUDI sottolineano invece la centralità del concetto di bisogno nella determina-zione dell’impalcatura epistemica del modello (affermando tra l’altro la tridimensionalità del biso-gno, la natura umanistica della disciplina infermieristica, la centralità della relazione dialogica inun metodo strategico, ecc.)107. Non così Cantarelli, che in modo del tutto paradossale, non ripren -de alcuna di queste considerazioni. Il risultato è che spesso, confrontando tra loro il linguaggio, ledefinizioni, ed in ultima analisi, i contenuti dei principali autori del MODPI, si ha come l’impres-sione di essere di fronte a teorie differenti.

Per quanto riguarda Cantarelli, per sua ammissione, il concetto fondamentale del MODPI è laprestazione infermieristica, ossia la risposta dell’infermiere al bisogno di assistenza. La prestazio-ne infermieristica è per questa autrice: a) un risultato; b) conseguito mediante lo svolgimento di un

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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complesso di azioni fra loro coordinate; c) per risolvere un bisogno specifico manifestatosi in uncittadino/malato108. In maniera speculare, agli undici bisogni identificati dal MODPI fanno riscon-tro undici prestazioni infermieristiche, come riportato nella Tabella VI.

Accanto alle azioni costituenti le prestazioni infermieristiche, il Modello delle prestazioni infermie-ristiche ha individuato degli atti che vengono definiti “di support o ” alla prestazione. Tali atti sono:lavarsi le mani; preparare il materiale; identificare la persona; fornire alla persona assistita alcuneinformazioni generali relative all’azione infermieristica; isolare e sistemare la persona; riordinare lacamera e il materiale. Inoltre, con l’individuazione degli atti di supporto che sono comuni alle diverseprestazioni, sono stati identificati altri elementi della relazione assistenziale infermieristica che, inquanto riguardanti t u t t e le prestazioni infermieristiche del Modello, vengono chiamati “ t r a s v e r s a l i ”.Questi elementi sono: l’attenzione al comfort della persona; la comunicazione; l’educazione sanitaria.

Già nel 1989 Cantarelli affermava che «la prestazione, al contrario della mansione o del compi-to, responsabilizza l’infermiere sul risultato conseguito, assegnandogli ampi spazi di autonomianella conduzione del processo assistenziale. Mentre la mansione pone l’attenzione ai singoli com-piti che la compongono, la prestazione sposta l’attenzione ai risultati, assegnando autonomia eresponsabilità al professionista e ponendo l’utente e i suoi bisogni al centro del processo assisten-ziale. L’assistenza erogata per mansioni è l’equivalente della standardizzazione delle azioni, men-tre l’assistenza erogata per prestazioni, rappresenta il passaggio da un’assistenza semplice adun’assistenza complessa. L’assistenza semplice presuppone l’utilizzo di tecniche e procedure nor-mali; l’assistenza complessa richiede da parte dell’infermiere un giudizio autonomo, delle decisio-ni ponderate basate sulla conoscenza del proprio lavoro e sulle informazioni che possiede, ed inol-tre doti di creatività ed iniziativa109».

Tornando ora al concetto di bisogno, nel testo di Cantarelli del 1996 troviamo uno schemache ne illustra l’insorgenza e le azioni risolutive (vedi Tabella VII), e che è tratto - pressochéimmodificato - dalla relazione di Pasquot e Gamberoni al Convegno del 1987 sulle “prestazio-ni infermieristiche”.

Ora, l’origine prima di questo schema fu fondamentalmente il lavoro del P roget de Recherche pourle Nursing Canadese - più conosciuto con la sua sigla “PRN 80” - che utilizzava sin dai suoi inizicome esplicito paradigma di riferimento la teoria di D.E. Orem11 0. Per coglierne appieno le similitudin i ,nella Tabella VIII riportiamo lo schema del PRN 80 che riassume le relazioni tra il concetto di bisog n oe la diversità delle possibili “azioni di cura”, che nello specifico infermieristico assumono in questocontesto la dizione di “Fattori PRN 80”.

Riguardo alla scelta del modello teorico di Dorothea E. Orem come principale riferimento per ilavori del 1987 sono significative le parole di Pasquot e Gamberoni: «tra le teoriche contempora-nee del nursing [Orem] è quella che meglio evidenzia il ruolo infermieristico nella nostra società,in quanto vede l’uomo in grado di autogestire la sua salute e, quindi, limita l’intervento infermieri-stico a particolari situazioni di bisogno». E così, sempre seguendo il pensiero di Orem, Pasquot eGamberoni riportano una definizione di bisogno, genericamente definibile «come carenza di unoggetto d e s i d e r a t o [che] deve ricevere una risposta per mantenere l’integrità dell’individuo dalpunto di vista biopsicosociale e quindi salute o benessere». La risposta al bisogno è, in condizio-ni di salute, eseguita in maniera autonoma dall’uomo stesso. Ma, in particolari condizioni, l’uo-mo subisce una “modificazione” dei bisogni “di base”: in tali condizioni l’uomo non è più ingrado di rispondere in maniera autonoma o soddisfacente a tali bisogni e sviluppa di conseguen-za un “bisogno specifico di aiuto”. Per esempio, scrivono Pasquot e Gamberoni, «un pazientecon una frattura di femore essendo costretto all’immobilità subisce un mutamento delle sue con-dizioni igieniche, sviluppando così un bisogno specifico di aiuto, cioè: supplire alle esigenzeigieniche a cui non riesce a dare una risposta da solo. In ogni tipo di società esistono persone chenon sono in grado di compiere le azioni necessarie alla loro sopravvivenza (bambini, ammalati,

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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anziani e tutti coloro il cui sviluppo fisico e mentale non è completo) e che manifestano di conse-guenza un bisogno di aiuto. La risposta ad un bisogno specifico di aiuto è l’azione compensato -ria di assistenza». In questo schema al generico “bisogno di aiuto” corrisponde un’azione com -pensatoria di assi s t e n z a, la quale «può essere sviluppata dall’infermiera (in parallelo da altri

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

104

Tab. VI. I bisogni di assistenza infermieristica e le prestazioni del Modpi.

I bisogni di assistenza infermieristica Le prestazioni infermieristiche

1. Bisogno di respirare 1. Assicurare la respirazione;

2. Bisogno di alimentarsi e idratarsi 2. Assicurare l’alimentazione e l’idratazione;

3. Bisogno di eliminazione urinaria e intestinale 3. Assicurare l’eliminazione urinaria e intestinale;

4. Bisogno di igiene 4. Assicurare l’igiene;

5. Bisogno di movimento 5. Assicurare la mobilizzazione;

6. Bisogno di riposo e sonno 6. Assicurare il riposo e sonno;

7. Bisogno di mantenere la funzione 7. Assicurare la funzione cardiocircolatoria;cardiocircolatoria

8. Bisogno di ambiente sicuro e terapeutico 8. Assicurare un ambiente sicuro e terapeutico;

9. Bisogno di interazione nella comunicazione 9. Assicurare una corretta interazione nella comunicazione;

10. Bisogno di procedure terapeutiche 10. Applicare le procedure terapeutiche;

11. Bisogno di procedure diagnostiche 11. Eseguire le procedure diagnostiche.

Tratto da: Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, Masson, Milano, 1996, p. 111.

Tab. VII. Il concetto di bisogno di assistenza infermieristica nel Modpi secondo Cantarelli.

Tratto da: Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, op. cit., p. 110.

Bisogno

Risposta

Bisogno specifico di aiuto

Azione compensatoria di assistenza

Altri

Infermiere

Azione compensatoria di assistenza infermieristica

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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Tab. VIII. Il concetto di bisogno e le azioni di cura secondo il PRN 80.

Tratto da: Cherles Tilquin, “L’esperienza canadese: il progetto PRN 80”, atti del Seminario Sago, Pianificazione e gestio -

ne del personale infermieristico ospedaliero: metodologie e loro applicazioni nei Paesi europei e nord americani,

Firenze, 19-20 febbraio 1982.

Besoin spécifique

Actions autonomesde soins

Besoin spécifiqued’aide

Actions compensatoires

de soins(actions nursing)

Actions de soins

FACTERURS PRN 80

+ =

Tab. IX. Il nucleo del Modpi secondo Edoardo Manzoni.

Tratto da: Edoardo Manzoni, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica, Masson, Milano, 1996, p. 184. Si confronti

la prima produzione di questo schema in Duilio F. Manara, Il Modello delle prestazioni infermieristiche e la risposta per -

sonalizzata agli aspetti culturali dell’assistenza infermieristica, Tesi di diploma SUDI, aa 1992/1993, pp. 92ss.

Bisogno

Rispostainfermieristica

Bisogno di assistenza

infermieristica

Prestazione

Competenza culturale

Competenza disciplinare

Bisognodi aiuto

Azione di assistenza

1° piano

2° piano

3° piano

p r of e s s i onisti) oppure da altre figure, non dotate di una competenza specifica, quando l’azione daerogare non sia particolarmente complessa (es. la madre che medica una piccola ferita al figlio)111» .

Dunque, il Modello delle prestazioni infermieristiche si sviluppa sulla concezione di bisogno dia ssistenza infermieristica come bisogno di “salute” dell’uomo, al quale l’infermiere è in grado didare una risposta attraverso le conoscenze, la competenza tecnica esclusiva e l’indirizzo deontologi-co proprio della professione. La risposta dell’infermiere al bisogno specifico di aiuto della personaviene indicata come una p re s t a z i o n e erogata dall’infermiere. O, più completamente, nell’espressionedi Pasquot e Gamberoni, «si può dire che la prestazione è un sistema di decisioni tecnico/gestionali,costituito da un insieme di azioni fisiche e/o verbali e/o mentali, pianificato autonomamente dall’in-fermiere per rispondere a un bisogno specifico di aiuto espresso dall’assistito. [...] Atti, azioni, pre -s t a z i o n i infermieristiche costituiscono la progressione dell’agire infermieristico: gli atti sono parte diun’azione, più azioni (finalizzate allo stesso scopo) costituiscono una prestazione».

Tuttavia, possiamo notare che nello schema illustrato nel 1987 e ancora nel testo di Cantarelli,non è affatto chiara ed esplicita la competenza specifica necessaria alla risoluzione del generico“bisogno di aiuto”. Esso, infatti, parrebbe essere di volta in volta risolvibile da diverse figure,siano professionisti della salute o meno. Ancora diverso è lo schema presentato da Manzoni neltesto Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica ed addirittura esplicitamente indicato dal-l’autore quale nucleo teorico del Modello delle prestazioni infermieristiche (vedi Tabella IX).

Da esso Manzoni deriva la concezione, di origine come ormai sappiamo hendersoniana, del bisognocome riflesso di tutte le componenti della persona umana: bio-fisiologica, psicologica e socio-culturale:«la prima componente - scrive Manzoni - rappresenta l’oggettività e l’universalità del bisogno; lerestanti parti determinano la domanda di assistenza infermieristica11 2». Questa concezione non puòessere senza conseguenze e, ad esempio, porta Manzoni a dichiarare che il M O D P I non può esserecompatibile con diagnosi infermieristiche standardizzate quali quelle di matrice nord-americana.

Renzo ZanottiRenzo Zanotti è Direttore dell’Isiri (International institute of nursing research) di Padova e docentedi Metodologia clinica del Nursing all’Università di Padova e di Metodologia dell’approccioscientifico alla Case Wester Reserve University di Cleveland. Purtroppo, Zanotti non ha ancorapubblicato in forma ultimativa la sua teoria infermieristica, che ha tuttavia presentato in numerosicorsi e simposi113.

Per ammissione dello stesso Zanotti, l’assunto fondamentale del “Modello concettuale del nursingcome stimolo di armonia-salute” considera che «lo stato di salute in atto di una persona sia uno statovariabile che esprime solamente una parte delle potenzialità che il soggetto possiede. La potenzialità,o componente residua di salute, può essere influenzata da molti fattori, interni ed esterni al soggetto,in grado di determinarne o meno la messa in atto. L’attivazione della potenzialità di salute non èsempre nel completo controllo dell’individuo ma può necessitare di interventi esterni al soggettostesso. Tali interventi possono allora assumere forma diversa ed essere riconducibili a moltepliciambiti professionali; tali interventi rimangono comunque e sempre “esterni” rispetto all’assistito e laloro efficacia terapeutica è in rapporto alla capacità che questi possiedono di “stimolare” la messa inatto di dinamiche e meccanismi interni dell’assistito». Quella “scienza dell’assistenza” che è il nur-sing si occupa di individuare e determinare le azioni che meglio di tutte possono rappresentare unbeneficio per lo sviluppo di autonomia e qualità di vita dell’assistito. «Il modello Nursing come sti -molo di armonia-salute - continua Zanotti - fornisce una prospettiva per interpretare l’individuo e lasua salute in rapporto alle possibili scelte di assistenza. La struttura concettuale del modello si fondasulla seguente affermazione che ne costituisce pertanto l’assunto di partenza: il fenomeno di intere s -se del nursing è la “persona”. La persona possiede un “potenziale” di salute uguale o superiore aquello “in atto”. Scopo dell’assistenza infermieristica è l’attivazione di tale potenziale di salute» .

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

106

Crediamo sia importante riportare anche alcune definizioni centrali del pensiero di Zanotti,innanzitutto quelle relative ai concetti di persona e di salute. «Si definisce “persona” un sistemapsicobiologico in grado di (o dotato della potenzialità per) interpretare sé e l’ambiente, assegnaresimboli e significati, esperire emozioni e pro d u rre comport a m e n t i. La persona è un c o s t ru t t o recontinuo di realtà soggettivamente intese nelle quali traduce il mondo percepito. La personacostruisce realtà soggettive con processi cognitivi di interpretazione e valutazione, in parteinfluenzati ed in parte influenzanti i processi del soma. L’attività cognitiva, influendo sull’attivitàdei processi biofisiologici, modifica la risposta della persona e il suo potenziale di salute. Il pro-cesso di influenzamento avviene anche in direzione inversa, iniziando dall’attività biologica.

[…] Il termine “salute” identifica lo stato di una persona quale risultante dei suoi processi bio -logici e cognitivi, ed è determinata dall’insieme dei prodotti dei suoi singoli processi. I processibiologici e cognitivi possiedono una dinamica di funzionamento che permette loro di modificare illoro prodotto in rapporto al modificarsi delle esigenze di vita e di relazione del sistema». Rispettoallo stato in atto, il sistema possiede anche un “potenziale” di salute che viene a determinarsi sullabase di vari fattori. Il potenziale di “salute” di un individuo corrisponde «alla capacità residuadello stesso di modificare i propri processi (e quindi il loro prodotto) così da mantenere coerenzaarmonica tra gli stessi e le esigenze del sistema quando questo venga sottoposto a grande solleci-tazione o quando intervengano modifiche nella struttura dello stesso a seguito di traumi o altro.L’analisi del “potenziale di salute” richiede un approccio sistemico per l’accertamento in quanto èuna risultante di sistema e non di singolo apparato o processo».

Ma anche il concetto di assistenza è chiarificatore e ricco di spunti interessanti. “Assistere” insenso professionale una persona con alterazioni dello stato di salute - scrive Zanotti - richiede lamessa in atto di azioni volte ad attivarne le potenzialità quando queste esistano oppure, in loromancanza, a sostituirle per il tempo necessario a permetterne lo sviluppo. L’assistenza professio-nale alla salute richiede la messa in atto di azioni volte a stimolare: a) lo sviluppo di maggiorecapacità di controllo del sistema sulle variazioni dei propri processi; b) l’attivazione di comporta-menti di maggiore efficacia nella interazione con l’ambiente; c) una superiore consapevolezza disé e dell’ambiente; d) il recupero di efficienza di uno o più processi tramite supporto diretto (tem-poraneo). Seguendo questo approccio, conclude Zanotti, colui che assiste pone grande cura nel-l’accertamento della potenzialità di salute dell’assistito in comparazione con lo stato di salute inatto e si propone sempre come fine la massima attivazione di tale potenziale.

Come si è già potuto notare Zanotti ripone la massima attenzione nello studio dei pro c e s s i, biolo-gici o cognitivi, che sottendono lo stato di salute di una persona. Egli definisce “processo” «unasequenza di comportamenti biologici e cognitivi, gerarchicamente ordinati, funzionalmente collegatie finalizzati a determinare un prodotto. Tale prodotto costituisce il risultato complessivo del processostesso. La possibilità di modificare l’intensità dei processi, e quindi la quantità del loro pro d o t t o ,determina la capacità adattiva finale dell’org a n i s m o». L’autore afferma che possono essere definiti“processi” sia quelli biologici del soma che quelli cognitivi della mente (che, a suo dire, sono il pro-dotto di sottostanti processi biologici). I processi mentali infatti «sono costrutti ipotetici dato che laloro esistenza non può essere direttamente osservata ma soltanto indotta da indicatori indiretti costi-tuiti dai comportamenti osservabili della persona. L’attività dei processi mentali va ipotizzata comecontinuamente in atto in quanto il loro prodotto è necessario per la relazione del sistema con l’am-biente e la modulazione dei processi fisiologici (risposte somatiche ai comportamenti emotivi)».

È evidente che le “esigenze del sistema” influiscano sull’intensità del funzionamento dei pro-cessi psicofisici; ciò determina due situazioni-limite con effetto sulla attività dei processi, ossiala m a n c a n z a di stimolazione attivante e la s o v r a s t i m o l a z i o n e di processo. Ne consegue che «lasalute dell’o rg a n i s m o è funzione della sua capacità di: a) mantenere i propri processi ad unlivello sufficiente di intensità anche in condizioni di quiete; b) mantenere il controllo

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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s u l l ’ i n t e nsità dei processi anche in condizioni di sovrastimolazione. In sintesi, le potenzialitàadattive dell’organismo si collocano all’interno di un range di tolleranza determinato dalla pos-sibilità di variazione controllata dei processi». Ogni processo necessita poi di e n e rg i a per lapropria attività. Esistono varie forme di energia in rapporto alle caratteristiche dei processi,infatti “la natura dell’energia è correlata alla natura del processo che alimenta”: il processo cir-colatorio ematico utilizza gradienti di pressione prodotti da dinamiche muscolari e biochimiche,mentre l’autostima richiede conferma e gratificazione.

Zanotti non si sottrae dal fornire un’interessante definizione di bisogno originale rispetto a quel-le precedentemente considerate: il bisogno è per Zanotti “un’alterazione di un pro c e s s o ” .Volendoci riferire alle sue stesse parole in un brano particolarmente significativo: «se un processonon può mantenere l’intensità richiesta dalle esigenze del sistema, determinerà la messa in atto dicomportamenti adattivi con la modifica dello stato di salute in atto nel sistema. A seconda del tipoe dell’intensità dell’alterazione, il sistema metterà in atto comportamenti compensatori per riporta-re il processo alla sua normale intensità oppure modificherà l’intero assetto del sistema in funzio-ne compensatoria. Il controllo del processo richiede la messa in atto di comportamenti e/o lamodifica in funzione adattiva degli altri processi. Qualora questo non sia nel range di possibilitàdel sistema, l’alterazione rimarrebbe non compensata producendo conseguenze disadattive odanno al sistema, in quanto questi necessita di precise quantità di prodotto dall’attività del proces-so. Tale stato, caratterizzato dalla alterazione di processo (e quindi dalla alterata disponibilità delsuo prodotto rispetto all’esigenza del sistema) in mancanza o carenza di capacità di controllo ocompensativa efficace, costituisce una condizione particolare di disadattamento del sistema cheviene a costituire lo “Stato di bisogno” del sistema. In quanto costituito dalla alterazione di unprocesso (che coinvolge lo stato complessivo del sistema perché il prodotto è a questo necessario)il bisogno si manifesta con segni costitutivi da comportamenti in parte comuni e in parte specificidel processo alterato. L’individuazione della specificità dei segni è la condizione per individuarel’esistenza di un bisogno. Il grado di discrepanza tra la disponibilità del prodotto e la necessità delsistema costituisce l’intensità del bisogno i cui indicatori sono, tra altri, il grado di variazione del-l’intensità del processo e i comportamenti compensatori correlati».

In sintesi, con il termine “bisogno” Zanotti definisce la condizione caratterizzata da: a) discre p a n -za tra disponibilità di prodotto del processo e necessità del sistema; b) non compensabilità dellad i s c repanza con meccanismi automatici o comportamenti direttamente attivabili dal sistema stesso.

Il sistema dei bisogni possibili della persona può essere descritto e successivamente classifi-cato per tipologia di bisogno in rapporto alla natura del processo da cui origina e alla c o n f i g u -razione di segni che pro d u c e, anche al fine di permetterne la diagnosi e il trattamento.L’accertamento diagnostico del bisogno per Zanotti11 4 richiede l’acquisizione di tre elementiinformativi: a) la natura del processo alterato, descritta con il nome definente il processo; b) i llivello di discrepanza del pro d o t t o, espresso attraverso una scala di rapporto con la norma; edinfine, c) l’elemento avente la funzione di probabile agente causale della alterazione stessa.

Al primo livello di accertamento, rivolto alla misura della discrepanza e individuazione del proces-so alterato, deve corrispondere un secondo livello di analisi e accertamento della potenzialità di salutedel soggetto. In altre parole, alla diagnosi di bisogno si identifica la condizione che richiede il tratta-mento, con la diagnosi della potenzialità si identifica l’obiettivo perseguibile con il trattamento assi-stenziale. Per valutare l’esistenza di una condizione di bisogno è necessario infatti valutare il beneficioche il soggetto verrebbe ad avere dall’intervento infermieristico in quanto “attivatore” di potenzialitàaltrimenti non utilizzate. «Non basta - afferma Zanotti - che esista una condizione di discrepanza “pro-dotto-necessità” con incapacità di controllo perché si determinino le condizioni per un intervento assi-stenziale professionale; deve essere accertata anche l’esistenza di una potenzialità attivabile dall’inter-vento stesso nell’assistito o nei soggetti di riferimento per l’assistito. In mancanza di tale potenzialità,

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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l ’ i n t e rvento verrebbe ad acquisire caratteristiche di sostituzione tali da scostarsi dai principi di riferi -mento del nursing (autonomia massima attivabile per la qualità di vita; armonia interna e con l’esternoquale condizione di salute) collocandosi quindi come esterno al dominio dell’infermieristica».

Essendo l’azione assistenziale esterna al soggetto essa agisce stimolando i fattori influenti e dicontrollo dei processi che appartengono al soggetto stesso. Di conseguenza si può definire l’assi-stenza infermieristica come «stimolazione mirata ad attivare le potenzialità di controllo dei processidel soggetto assistito». La messa in atto di comportamenti a maggior efficacia da parte dell’assistitocostituirà l’evidenza di utilità o meno dell’azione assistenziale. «I processi interpretativi del sogget-to assistito, assieme ai meccanismi automatici di feed-back, costituiscono le vie con cui uno stimo-lo esterno agisce direttamente su un processo-target e si riverbera poi per influenzamento indirettosu tutti gli altri. In altre parole, lo stimolo viene incorporato nel sistema del soggetto influenzando-ne lo stato. Ad esempio, un massaggio con frizione cutanea agisce come stimolo fisico sul processocircolatorio dell’area trattata determinando una vasodilatazione locale come attivazione dei mecca-nismi automatici di controllo dei piccoli vasi ma, nello stesso tempo, determina anche una stimola-zione via sensoriale ai processi psichici di interpretazione del corpo che possono re-interpretarlocome rilassato o piacevolmente manipolato come effetto finale complessivo sul sistema. In talmodo, l’azione assistenziale ha costituito uno stimolo, il fattore attivante la sequenza degli eff e t t isui vari processi nella dimensione somatica e in quella cognitiva.

L’azione assistenziale esplica sempre un effetto sull’organismo anche qualora sia indirizzata allafamiglia o alla comunità. In tal senso si deve considerare il gruppo (famiglia o comunità) come uninsieme di singoli individui collegati da relazioni aventi per ciascuno di essi un significato affetti-vo. La famiglia è quindi considerata non un ambiente di vita ma una unità sociale in cui l’indivi-duo assume un preciso ruolo e sviluppa significati personali di vita e di relazione».

Ma tornando ai processi che determinano l’insorg ere dei bisogni di interesse infermieristic o ,essi sono rappresentati da Zanotti in una tabella che riportiamo di seguito (cfr. Tabella X).Degli stessi viene fornita la descrizione sintetica del macro-processo, i processi specifici a questofunzionalmente correlati e le tipologie di alterazione (o stati di bisogno) da considerare per la dia-gnosi infermieristica.

Ma occorre anche accennare ad una precisazione molto interessante di Zanotti riguardo alladiversa funzione che caratterizza i processi mentali o psichici rispetto a quelli biofisici - anche seintegrati strettamente tra loro nel determinare le caratteristiche del sistema-persona. Per l’autore,la specificità dei processi psichici è la loro «capacità di traduzione simbolica e di ricostruzioneautonoma degli stimoli fisici veicolati dal sistema sensoriale (struttura biologica che partecipa conquella nervosa alla messa in atto dei processi cognitivi) così che il percepito diventi una strutturadi significati soggettivamente assegnati dalla persona. Come gli elementi esterni, così anche lasintomatologia interiore, determinata da stimoli somatici, viene tradotta in categorie simbolizzatedi eventi soggettivamente assegnati: in tal modo, il segnale elettrico-nervoso che arriva al cervellodalla periferia diventa prurito, senso di gonfiore, dolore, ecc. Tali significati sono il prodotto (inquanto risultato interpretativo) di processi deputati al riconoscimento e controllo del corpo comeparte di sé o componente del sistema-persona. Infatti, una qualsiasi stimolazione sensoriale riferitaal proprio corpo che diventi interpretazione consapevole influenzerà la percezione di sé e del rap-porto con l’ambiente in quanto esercita un effetto sulla costruzione psichica complessiva del sé ene influenza tutte le conseguenti modalità di relazione».

Come già dicevamo all’inizio di questo paragrafo, l’opera di Zanotti non è ancora stata pubbli-cata nella sua interezza. Questo dato di fatto può involontariamente avere causato nella nostra ana-lisi alcune lacune o imprecisioni. Tuttavia, il pensiero di Zanotti, pur con i limiti suesposti, dovrànecessariamente essere ripreso in almeno due punti che ci paiono essenziali. Il primo consiste inu n ’ osservazione critica riguardante anzitutto la concezione riduzionista dei bisogni umani. Il

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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b i s ogno, ripete spesso Zanotti, è l’alterazione di un processo fisico o psicologico, una sua devian -za dalla norma. Da un lato, questa concezione ci è sembrato portare l’autore a definire la personasemplicemente come “sistema” o addirittura “organismo” attraverso l’equazione bisogno-della-

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Tab. X. Sistema delle componenti di processo di interesse infermieristico per R. Zanotti.

Macro processi Processi specifici Alterazioni (bisogni)del sistema correlati di interesse infermieristico

Metabolismo Nutrizione Ingestione di alimenti incoerenti rispetto alleEliminazione filtrato renale necessità di energia dell’organismoEliminazione prodotto Svuotamento non efficace della vescica intestinale Eliminazione non efficace delle feci

Movimento Movimento Produzione di movimento insufficiente rispetto alle esigenze di vita e di qualità della stessa.

Respirazione Ventilazione Meccanica delle attività respiratorie i n s u fficiente rispetto ad apportare quanto richiesto.

Circolazione Perfusione dei tessuti Apporto di elementi chimici insufficienti rispetto alla richiesta.

Sonno/Veglia Sonno/Veglia Sonno alterato nella struttura al punto da non fornire riposo.

Percezione Percezione del corpo Percezione alterata delle caratteristiche o di sé del funzionamento di parti o tutto del corpo.

Stima di sé Immagine di sé non efficace per lo sviluppo delle potenzialità fisico-cognitive.

Integrità del sé Valutazione di pericolo per la propria integrità basata su interpretazioni e previsioni incoerenti con la situazione ed il contesto.

Affettività Incoerente assegnazione di significati relazionali nel rapporto con gli altri.

Sessualità Percezione di identità sessuale incoerente con la struttura fisica-biologica; incoerenza tra comportamento sessuale e contesto.

Acquisizione/ Consonanza Dissonanza tra costrutti culturali acquisiti e lauso di regole tra principi e valori percezione degli eventi, incapacità a modificaresociali i sistemi di riferimento in rapporto allo sviluppo

dei valori culturali della società di appartenenza.

Tratto da: Renzo Zanotti, “L’assistenza alla persona che soffre nella prospettiva di un nursing inteso quale ‘stimolodi armonia e salute’”, Atti del III Congresso Nazionale infermieristico sul Dolore e l’assistenza infermieristica,Società Italiana dei Clinici del Dolore, villa Erba, Cernobbio, Como 26-27-28 novembre 1998, p. 86.

persona\alterazione-del-sistema, dall’altro conduce alla pretesa costituzione di un complesso disegni-sintomi-indicatori che possano descrivere empiricamente ed in toto il bisogno stesso.Entrambe queste considerazioni, se confermate, porterebbero a chiedersi dove sia, se è rimasta,l’influenza esistenzialista ammessa da Zanotti richiamandosi ad autori quali Husserl, Merleau-Ponty o Heidegger115, o l’approccio costruttivista che lo porta a dichiarare che «è dall’interpreta-zione della realtà che emergono le spinte motivazionali tipiche del bisogno, è dall’interpretazione,più che dall’oggettività».

Il secondo punto consiste invece in un apprezzamento sui procedimenti metodologici adottati daZanotti. Come è ovvio, essi sono conseguenti alla sua concezione dei bisogni umani, e sono quin-di di matrice naturalistica («Non bastano i bisogni - afferma coerentemente Zanotti - occorreanche che siano identificabili»). Proprio in questa prospettiva sono da ricordare e da sottoscriverele sue osservazioni critiche riguardo all’impostazione induttivista e per così dire pre-teorica dellaclassificazione della NANDA (North american nursing diagnosis association)116. Scrive ad esem-pio Zanotti: «L’approccio induttivo alla diagnosi, di cui si fa principale interprete N A N D A [ è ]nato nei reparti ospedalieri, [si è] sviluppato grazie agli infermieri clinici e diffuso rapidamentenel mondo, veicolato spesso dalla semplice traduzione della tassonomia proposta da NANDA. Ilimiti di tale approccio sono nella sua stessa epistemologia che riconduce tutto alla logica dellaclassificazione (tassonomia). Quando una classificazione non è retta da solide basi di conoscenzasui fenomeni indagati […] la differente descrittibilità e conoscenza degli elementi compresi inquesti ambiti produce una inevitabile incoerenza interna, genericità e sovrapposizione di catego -rie e di ambito disciplinare […] la diagnosi, in estrema sintesi non è altro che il processo di attri-buzione di un intervento ad una classe di fenomeni sulla base di indicatori-criterio di appartenen-za. Il sistema propostoci da N A N D A in effetti è una procedura di classificazione sulla base dialcuni criteri descritti come “caratteristiche definenti” […] se l’uso di una tassonomia soddisfaquindi l’esigenza di standa rd i z z a re e semplificare nel descrivere un evento, questa non contribui -sce però ad interpretarne la vera natura, da cui origina la critica a questo metodo di essere privodi valore scientifico, non infermieristico e utile solo alla istituzione». O ancora quando scrive:«Mentre la metodologia, pur suscettibile di aggiustamenti, può essere precisamente definita, perchéfondamentalmente è un sistema di regole, il contenuto dell’assistenza è il frutto della pro d u z i o n ec u l t u r a l e. Quanto più si produce cultura sulla natura del fenomeno e sugli interventi ad esso ricondu-cibili, tanto più si perfeziona ed allarga il campo d’intervento. Per questo dico che la pro f e s s i o n a l i t ànon è saper fare ma saper identificare. È facile osservare e descrivere il set degli interventi di unadeterminata équipe, cioè quali siano gli interventi realmente svolti dagli infermieri; il problema teori-co è collegarli con lo stato del paziente, cioè qual è lo stato del paziente che richiedere quegli inter -v e n t i? In questo modo è anche possibile formulare una valutazione: gli interventi sono cioè pertinen-ti, sufficienti, eff i c a c i ? Io ritengo che sia un’illusione pensare di definire l’attività come causa di unaelaborazione teorica; essa è sempre un prodotto! La causa è la persona e la salute della persona» .

2.3 Analisi critica della “Scuola dei bisogni”Ci rendiamo conto che, soprattutto per il neofita, raccapezzarsi in questo turbinio di nomi, concettie costrutti possa essere cosa a dir poco non facile. Tuttavia confidiamo che ormai ciascuno abbiacoscienza dell’importanza di chiarire “la cornice” attraverso la quale vedere il proprio lavoro. Daquesta cornice dipenderanno “le cose” che vedremo nel nostro paziente, come le classificheremo ecosa decideremo di proporre per soddisfare i suoi bisogni.

Ricordate? Facciamo ogni cosa alla luce di teorie preconcette, dice Popper. E aggiungeva chespesso non siamo nemmeno consapevoli delle cornici nelle quali viviamo. L’esempio più appari-scente è proprio la cultura, che - “come un elefante invisibile” - permette a ciascuno di noi di com-piere gli atti di ogni giorno, relazionarsi con gli altri e trovare un significato a ciò che ci accade.

La “scuola dei bisogni” e la ricerca infermieristica

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Così ancora oggi molti infermieri operano al di fuori di cornici accreditate (teorie), ma non senzaalcuna cornice. Sono coloro che - per la cattiva formazione ricevuta o per pigrizia nel non volersiaggiornare - permangono nelle cornici costituite dalle abitudini del reparto che traspaiono nellegiustificazioni del “fanno tutti così” e “abbiamo sempre fatto così”. Allo stesso modo, altre cornicipseudo professionali di cui ancora molti infermieri soffrono sono quelle “esecutorie” per cui il sin-golo infermiere - dovendo solo fare ciò che gli dice il medico, la caposala o magari il direttore delpersonale - può permettersi il lusso di credersi al riparo da responsabilità personali. Che professio-ne è quella che non accetta la responsabilità del proprio operato?

Lo sforzo pluridecennale dei colleghi della “Scuola dei bisogni” vuole proprio portare alla lucela concezione dell’assistenza come risposta ai bisogni dell’uomo , enucleandola dalla etnoassisten-za che caratterizza ogni società, con costrutti teorici che vorrebbero essere falsificabili senza tutta-via perdere, per molti di essi, una caratteristica intuitiva ed artistica che unanimemente riconoscel’infermieristica come disciplina umanistica diversa e distinta dalla medicina. Non c’è medicinasenza assistenza, continuano a ripetere molte di loro. “To care” viene prima del “to cure”, e laprossimità, la relazione insita nella risposta ai bisogni assistenziali della persona viene prima -cioè è precedente e fondativa - del trattamento medico o infermieristico che sia.

Questa concezione potrebbe aiutare molti medici a capire ed apprezzare la differenza dell’infer-mieristica dalla medicina, e, come gli infermieri studiano la medicina portarli a pro p o rre corsi diinfermieristica generale nei core curriculum dei corsi di laurea in medicina. La vera interdisciplina-rità - che è come dire la feconda complementarità delle due professioni in reparto che tutti auspicano- nasce dalla re c i p roca conoscenza e dal conseguente rispetto degli originali ambiti disciplinari11 7.

Considerandola nel suo insieme dunque, la produzione intellettuale della “Scuola dei bisogni”dell’infermieristica si presenta ai nostri occhi in tutta la sua importanza e, in molte pagine, contutta la sua carica di umanità. Detto questo, abbiamo anche toccato con mano un grande problemasolo accennato nel primo capitolo, quello dell’incommensurabilità - ossia dell’impossibile, o pre-sunto tale, dialogo e comprensione reciproca - tra i diversi paradigmi di un medesimo campodisciplinare. Non vogliamo certo ritornare su questi argomenti se non per evidenziare che nellastessa “Scuola dei bisogni” dell’infermieristica esistono entrambe le tentazioni di “non dialogo”con i programmi di ricerca paralleli e di chiusura ideologica all’interno del proprio. L’unica stra-da per scardinare queste tentazioni è la discussione critica attuata attraverso il confronto ed il dia-logo: ricordiamo infatti che le teorie mentre da un lato aiutano nella costruzione e nella condivi-sione della conoscenza scientifica, dall’altro possono facilmente rivelarsi “gabbie” intellettuali,prigioni per contenere e prigioni per allontanare. Occorrerebbe quindi sempre operare per il lorosuperamento - per la loro falsificazione, direbbe Popper - più che per la loro “verificazione a tutti icosti”, col rischio di veder trasformare la propria teoria in ideologia.

Senza volerci addentrare nell’analisi dettagliata di ogni teoria - cosa che peraltro sarebbe moltointeressante fare se fossimo partiti da uno studio approfondito di ciascun autore - rileviamo solamen-te un fatto che ci pare indubbio: l’evoluzione storica del programma di ricerca legato ai “bisogni diassistenza” è vivo e vitale, ed è segnato nel suo complesso da una successione di “slittamenti di pro-blema progressivi” sia teoricamente che empiricamente. Questa affermazione viene supportata dadue brevi commenti, il primo si avvale dell’ottica della Metodologia dei programmi di ricerca diLakatos mentre l’altro guarda invece all’evoluzione della “Scuola” in modo trasversale, rintraccian-do in tutti gli autori citati, spunti ed intuizioni da considerare nell’ottica ermeneutica dell’altro, attra-verso i criteri della c o m p re n s i o n e e della p a rt e c i p a z i o n e del paziente al suo processo assistenziale.

2.3.1 Una prima analisi attraverso i criteri della MPRS di Imre LakatosQuesta piccola analisi è complicata da un fatto semplicissimo: si vorrebbe studiare l’evoluzione diun complesso di teorie quando sappiamo molto bene che ogni teoria, secondo Lakatos, è a sua volta

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una serie di teorie, una progressione di “aggiustamenti” progressivi, più o meno radicali che l’autore,e tutta la comunità scientifica che si riconosce in quella teoria, ha man mano sviluppato, proposto emodificato dalla sua formulazione iniziale. Ebbene: la “Scuola dei bisogni” dell’infermieristica,come qui presentata, si compone di teorie ormai fortemente datate (ad es. Peplau, Henderson), altrepoco conosciute (ad es. Watson, Paterson e Zderad), altre ancora nemmeno pubblicate nella lorointerezza (ad es. Zanotti). È quindi evidente che le nostre considerazioni, pur concentrandosi sugliaspetti macroscopici, restano assolutamente provvisorie ed esse stesse del tutto aperte alla revisionecritica. Un dato solo ci pare evidente, e nel contempo molto interessante: come per tutte le disciplineumanistiche che studieremo nel prossimo capitolo, anche in campo infermieristico si ripropongono idue estremi-limite della concettualizzazione del bisogno che si viene così a polarizzare ora sul ver -sante della “naturalizzazione”, ora su quello della “socializzazione-simbolizzazione”.

Proprio seguendo questo dato di fatto, proponiamo di “tipizzare” le diverse teorie attraverso illoro scopo ed il loro metodo. Se infatti tutte hanno per oggetto di studio l’uomo ed i suoi bisognidi assistenza e come scopo generale quello di soddisfare tali bisogni, non tutte hanno la medesimaimpostazione prescrittiva e metodologica. Proviamo a domandarci infatti: il concetto di bisogno,che ognuna di queste teorie considera in una posizione più o meno centrale del proprio nucleo teo-rico, che funzione gioca in tutta la strutturazione successiva della teoria? Anche solo rispondendoin modo congetturale a questa domanda - non considerando quindi le inevitabili sovrapposizioni ole intuizioni solo accennate, ma poi non sviluppate - possiamo abbastanza facilmente classificarele risposte in tre grandi categorie che proponiamo di chiamare come segue: A) teorieorganizzative; B) teorie naturalistiche; e C) teorie ermeneutiche.A) Le teorie organizzative sono quelle che usano il bisogno per spiegare ciò che fa l’infermiere,

qual è il suo ruolo e quali le sue funzioni (vi ricordate le domande della Meleis?). In questaprospettiva risulta evidente che lo scopo principale non è l’evidenza del bisogno in sé, neppurela percezione del bisogno nell’unicità della persona, quanto piuttosto ciò che occorre fare perrisolvere tali problematiche. Non è quindi un caso che il concetto di bisogno non sia il concettoprincipale di queste teorie, ma sia di volta in volta usato per centrare l’attenzione su altro, vuoila relazione, vuoi la competenza tecnica dell’infermiere.

B) Le teorie naturalistiche, dal canto loro, cercano di conoscere, spiegare e risolvere il bisogno daun punto di vista scientifico hard - leggi appunto “naturale”. Conseguentemente a questo scopohanno il problema di “identificare” il bisogno, cioè di classificarlo rispetto ad una norma e direndere manifesti, con i criteri dell’evidenza scientifica, i risultati della prestazione.

C) Le teorie ermeneutiche sono quelle che con un approccio scientifico tipicamente umanistico - spes-so senza neppure considerare il piano naturale - si preoccupano del significato che quel particolarebisogno può assumere per quello specifico paziente in un momento particolare della sua vita.Conseguentemente esse hanno il problema di “i n t e r p re t a re” il bisogno come fenomeno umano.

Ovviamente queste tipizzazioni compaiono nella storia della “Scuola” in periodi e tempi diversi,con sfaccettature molto variegate ed accavallandosi l’un l’altra nel tempo. E d’altronde non dob-biamo stupircene: innanzitutto a motivo della stessa parabola della singola teoria che può portaread un’evoluzione del suo scopo dall’uno all’altro tipo (è questo il caso della Henderson che seconsiderata nella debolezza della sua strutturazione teorica iniziale è giustamente collocata nelgruppo A, ma se considerata attraverso le sue intuizioni fondative e gli spunti e le ipotesi ausiliariedi Adam e Bizier, andrebbe probabilmente collocata nel gruppo C). Ma poi come potrebbe esserediversamente? Non abbiamo noi stessi constatato che, in modo del tutto bizzarro, molte di questeteorie sembrano essere state elaborate senza tenere conto delle precedenti teorizzazioni?

Se dovessimo quindi lanciarci in una prima provvisoria comparazione, proporremmo di classifi-care nelle teorie organizzative i lavori di Henderson (a), Abdellah, Cantarelli e per un certo versoPeplau; nelle teorie naturalistiche quelli di Orem, Yura-Walsh, Roper-Logan-Tierney e Zanotti; e

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nelle teorie ermeneutiche i lavori di Paterson-Zderad, Watson e Henderson (b). Questa tipizzazio-ne ci aiuta a sviluppare una piccola analisi all’interno di ogni gru p p o: viceversa sarebbe diff i c o l t o-so ed inutile confrontare teorie così distanti tra loro come ad esempio l’impostazione di Cantarellicon quella di Paterson e Zderad. Nei gruppi Ae B risulta evidente, anche da uno studio superficialecome il nostro, il susseguirsi degli slittamenti teoricamente progressivi dei rispettivi problemi. Nelgruppo A c o n s i d e r i amo a titolo di esempio un confronto tra la collocazione del concetto di bisognoin Peplau e in Henderson , o, ancora più evidente tra Abdellah e Cantarelli. Nel gruppo B l’analisiper processi di Zanotti permettere certamente la corroborazione di un maggior “contenuto empiri-co” delle tesi di Yu r a - Walsh con la loro tassonomia dei 35 bisogni umani, e così via.

Per il gruppo C le cose si complicano. Per un verso, Paterson e Zderad sembrano quasi disde-gnare il piano naturalistico del sapere infermieristico e quindi potrebbero essere tacciate di incom-pletezza o di inapplicabilità. Dall’altro, tanto Watson quanto Henderson (b) (ossia il programmaoriginario di Henderson seguitato da Adam e Bizier) pur considerando come centrale il problemadell’interpretazione dell’alterità del cliente, sembrano non riuscire a completare queste loro intui-zioni con una struttura concettuale in grado di renderle coerentemente e linearmente applicabili.La più semplice controprova sarebbe considerare trasversalmente il tema della personalizzazionedell’assistenza, che consiste - come già intuito negli anni cinquanta da Henderson e poi approfon-dito da altri quali Roper Logan e Tierney - nell’adattamento della prestazione infermieristicaall’alterità della persona umana. Infatti, mentre è abbastanza comprensibile - considerato il loroimpianto teleologico - che le teorie organizzative non lo considerino minimamente (Abdellah adesempio omette di studiare gli influssi dell’ambiente sociale dalla sua teorizzazione; Cantarelliintitola un intero capitolo alla personalizzazione, senza tuttavia arrivare a definirla), e che quellenaturalistiche lo affrontino secondo un’impostazione prettamente riduttiva (pensiamo alla stessaconcezione del bisogno come “alterazione di un processo” nella prospettiva teorica di Zanotti), èmeno comprensibile, anzi suona francamente inaspettato, che le teorie “ermeneutiche” abbiano avolte come esito metodologico non contraddittorio l’applicazione di tassonomie diagnostiche e setprescrittivi rigidi e standardizzati.

Due sole spiegazioni sono a nostro avviso possibili - quantomeno in sede di prima ipotesi. Laprima è che proprio questi programmi di ricerca utilizzano molto la “sponda artistica” dell’assi-stenza, e quindi considerino le problematiche legate alla personalizzazione totalmente soddisfatteda questa componente indispensabile dell’assistenza. Ma questo non lo possono fare anche le teo-rie naturaliste? La seconda, ed è l’ipotesi che ci sembra più plausibile, motiva questa incoerenzacon un deficit teorico, con una scarsa o inappropriata concettualizzazione del bisogno stesso.

2.3.2 Una possibile traccia comparativa attraverso i criteri della comprensione e dellap a rt ecipazioneTra l’impostazione delle teorie che abbiamo chiamato “naturalistiche” ed “organizzative” da unlato e quelle che invece abbiamo chiamato “ermeneutiche” dall’altro c’è, a nostro avviso, una dif-ferenza lampante. Questa differenza è evidente se le rileggiamo tenendo vivo alla memoria il pen-siero di Michail Bachtin quando affermava che le scienze della natura sono “un sapere che cono-sce una cosa, con il limite dell’identificazione”, mentre le scienze dell’uomo sono “un sapere checomprende un’altra persona, ed hanno il limite della inconoscibilità, o profondità, dell’altro”.

Chiediamoci dunque quale sia il proposito conoscitivo che, in quanto teorie scientifiche, esse sipongono dinanzi. Mentre per le teorie ermeneutiche il bisogno sembra essere l’espressione ultimadell’inconoscibilità dell’uomo - che di conseguenza non può essere altro che “compreso” parzial-mente dall’infermiere attraverso gradi di successive interpretazioni - per quelle naturalistiche ilbisogno è l’alterazione di un processo in gran parte o totalmente “conoscibile” attraverso l’appli-cazione di procedimenti logico-diagnostici dell’infermiere. Così, ad esempio, mentre per

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Henderson, l’infermiera «nonostante la sua competenza e la volontà di riuscire, non potrà maic o m p re n d e re pienamente che cosa rappresenti il benessere per un’altra persona», per Zanotti,viceversa, la salute «è determinata dall’insieme dei prodotti dei singoli processi» biologici ecognitivi della persona.

Ovviamente queste distinzioni sono solo accennate e non permettono una netta differenziazionedelle categorie, ma tanto ci basta per richiamare anche le differenze di metodo che caratterizzanole singole impostazioni teoriche studiate. Basti al proposito il richiamo alla distinzione platonicatra métron e métrion che abbiamo studiato nel primo capitolo, il primo che misura dall’esterno erende l’oggettività del dato rilevato, il secondo che misura invece “l’appropriatezza in sé” dellacosa misurata, e ne interpreta l’alterità. Eppure, a ben vedere, tutte le teorie studiate ammettono,con sfumature diverse, il problema dell’alterità del paziente, della sua interpretazione e centralitàin una relazione aperta con l’infermiere. Tutte riconoscono all’assistenza un certo, seppur diverso,grado di creatività e di libertà soggettiva. Ma mentre per alcune - ad es. Paterson e Zderad, inpiena sintonia con l’ermeneutica di Gadamer - l’assistenza ha la caratteristica dell’immediatezza,cioè della capacità dell’infermiere di cogliere sinteticamente nella situazione la complessità deidati oggettivi e soggettivi del paziente, per altre - ad es. Roper-Logan-Tierney o Cantarelli - vienescelto principalmente, od esclusivamente, il versante comportamentale od organizzativo dell’azio-ne risolutiva il bisogno.

Ritorna quindi in conclusione, e sotto una nuova luce, l’ipotesi posta in precedenza: forse sap -piamo ancora troppo poco sul bisogno di assistenza, e forse - nell’usuale percorso di sviluppoasinclitico tra teoria e metodi - dovremmo iniziare a chiederci se il piano della conoscenza scienti-fica e quello della sensibilità ermeneutica non siano meglio integrabili tra loro in sede teorica, cosìcome peraltro avviene certamente, e da sempre, nella pratica di qualsiasi buon infermiere.

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Capitolo terzo

IL CONTESTO CULTURALE DELLA “SCUOLA DEI BISOGNI”

S e il primo capitolo ci ha introdotti nei temi della conoscenza scientifica di una persona total-mente “altra” da noi - con il prezioso riferimento al pensiero di autori come Bachtin, Popper,Lakatos e Gadamer - ed il secondo ha aperto un ampio panorama sull’infermieristica letta attraver-so i “bisogni di assistenza” - lasciandoci tuttavia il dubbio di una carente teorizzazione proprio sulconcetto centrale di “bisogno” - in questo terzo capitolo esamineremo il ricchissimo backroundculturale e scientifico che ha costituito il naturale humus della “Scuola dei bisogni”. Due sonoquindi le finalità di questo capitolo: contestualizzare ed approfondire il pensiero dei diversi autoriche estranei all’infermieristica hanno profondamente influenzato la “Scuola dei bisogni” e, secon-dariamente, mostrare in modo sintetico quanto il concetto di bisogno abbia inciso la cultura occi-dentale e la storia interna di molte discipline umanistiche.

Deve essere allora chiaro che si tratta di un capitolo di approfondimento, che se da un lato inter-rompe la riflessione sul “bisogno di assistenza infermieristica”, dall’altro è importante per rintrac -c i a re a ritroso le basi interdisciplinari del sapere infermieristico. L’infermieristica, insomma,rimarrà un po’ in ombra in questo capitolo; sempre presente, sempre evocata, ma solo marginal-mente sfiorata nel rincorrersi e nel riprendersi di quattro differenti prospettive conoscitive, studia-te separatamente l’una dall’altra: il bisogno dell’uomo nella filosofia, nell’antropologia culturale,nella psicologia e, da ultimo, nella sociologia sanitaria.

Ad ogni prospettiva viene dedicato un breve paragrafo che non ha certo la pretesa di esserecompleto ed esaustivo della disciplina trattata, ma che vuole essere semplicemente un’invito adallargare la nostra visuale sul “bisogno” che - prima ancora di interessare gli infermieri in quantobisogno di assistenza infermieristica - è e resterà sempre un’espressione ontologica della finitezzadell’uomo (come ci insegna la filosofia) che viene continuamente modificato e riprodotto attraver-so l’identificazione culturale e caratteriale del singolo all’interno di un determinato ambiente etni-co e sociale (come impariamo dall’antropologia e dalla psicologia), e che di conseguenza non puònon interessare direttamente le “istituzioni sociali” deputate alla sua risoluzione (come avremomodo di vedere appunto nel paragrafo dedicato alla sociologia sanitaria).

Tuttavia, conviene effettivamente anticipare una delle conclusioni che trarremo al termine diquesto capitolo. Il concetto di bisogno nell’uomo è di ben difficile argomentazione: ha mille volti,mille aspetti che riflettono da un lato l’insondabilità della persona umana, e dall’altro tutto il ven-taglio delle posizioni filosofiche ed epistemologiche che l’uomo si è dato per studiare sé stesso e ilmondo. In conclusione, chi pensasse di leggere queste pagine credendo di esaurire tale tematicanon si illuda: esse non sono che una selezione ed una sintesi di alcuni tra i principali percorsi spe-culativi attorno al tema del “bisogno dell’uomo” che ci aiutano a meglio collocarlo nell’infermie-ristica da un punto di vista storico, filosofico ed epistemologico, non senza premunirci di segna-larne la provvisorietà e l’apertura ad altri ulteriori approfondimenti o suggerimenti.

3.1 La socializzazione e la naturalizzazione del bisogno umanoLa nozione di bisogno poggia fin dall’inizio su un’ambiguità che già abbiamo constatato nella“Scuola dei bisogni”, e cioè che l’uomo è essere sociale e naturale ad un tempo. Ritroveremo que-sta ambiguità in tutte le discipline che affronteremo in questo capitolo: innanzitutto la filosofia, poi

l’antropologia culturale, la psicologia ed infine la sociologia. In sede introduttiva, è bene quindi sof-fermarsi descrivendo in termini generali questa distinzione tra s o c i a l i z z a z i o n e - o simbolizzazione -e naturalizzazione del bisogno; tale distinzione verrà poi, man mano, ripresa ed approfondita nelledifferenti discipline e nelle diverse teorie in esse presentate.

In una prospettiva naturalistica il bisogno, o meglio i bisogni, generano, fin dall’emergere dellaspecie, i nostri comportamenti individuali o collettivi. In tal modo tutti noi saremmo definiti, piùche dalle nostre scelte e dai nostri progetti, da stimoli e meccanismi biologici, quali ad esempio ilritmo veglia-sonno, fame-sazietà-eliminazione, inspirazione-espirazione, e via discorrendo. Masi può ridurre l’uomo alla sola biologia? Nelle scienze umane il concetto di bisogno riflette que-sto paradosso: talvolta i bisogni sono considerati il fondamento ultimo e naturale delle societàumane, e allora queste perdono ogni specificità e si rivela impossibile l’elaborazione di una veraantropologia; talaltra la nozione subisce la classica dicotomia tra natura e cultura, ma allora sipone - come vedremo nel dettaglio - il problema dei rapporti tra bisogni cosiddetti n a t u r a l i ebisogni c u l t u r a l i. Se queste oscillazioni rivelano le difficoltà proprie delle scienze umane, comedi qualsiasi riflessione sull’uomo, è anche vero che esse mettono in discussione la legittimità diuna nozione così ambigua, a maggior ragione al di fuori di un esplicitato contesto teorico che nestabilisca l’esatto significato.

La socializzazione dei bisogniSi chiedeva un naturalista negli anni venti: “I bisogni sono naturali - ma il modo di soddisfarli?”.Nell’uomo, infatti, tutte le risposte ai bisogni e prima di tutto la loro formulazione, passano attra-verso una dimensione simbolica, che invece nelle specie animali, anche in quelle superiori, èassente o rudimentale. Noi non mangiamo solo per necessità e per la sola sopravvivenza biologi-ca: il nostro consumo di cibo subisce una elaborazione culturale e immaginaria del mondo e attra-verso questa griglia va colto il senso degli atti legati (direttamente o indirettamente) alla soddisfa-zione dei bisogni. Gli alimenti si organizzano in una gerarchia di nomi e di consumi, fondata suuna lettura del quadro naturale e tradotta in una semantica arbitraria. Ogni società distingue ciòche è mangiabile da ciò che non lo è secondo criteri suoi propri e accomuna in uno stesso rifiuto icibi naturalmente tossici a quelli culturalmente proibiti. Non possiamo spiegare questi sistemi diclassificazione solo attraverso i rapporti con la natura e con il bisogno, né ridurli alla sola dimen-sione economica o sociale. Talora certe tecniche di preparazione permettono di eliminare il conte-nuto nocivo di un cibo che può così diventare l’elemento principale di un regime alimentare; èquesto il caso della manioca nella civiltà tupi-guaraní. Ma queste classificazioni non chiamanosolo in causa bisogni e tecniche. Secondo un esempio classico, i francesi sono ghiotti di funghi,mentre gli inglesi hanno ripugnanza a consumarli; eppure i funghi crescono in Gran Bretagnacome in Francia. Questo contrasto può essere compreso solo se riferito al suo contesto di tradizio-ni, riti e credenze. La distinzione tra commestibile e non commestibile presuppone l’elaborazionedi un sistema di valori. I bisogni dunque appaiono sempre socializzati e sempre in maniera moltovariabile secondo le società: ecco perché in questo infinito moltiplicarsi di usi, le pratiche deglialtri sembrano così strane, addirittura barbare o selvagge. In uno dei nostri primi testi etnografici,Erodoto presenta i comportamenti degli egiziani e dei greci in maniera sistematicamente contrap-posta: «Le donne egiziane si dedicano al commercio e agli affari, mentre gli uomini stanno a casaa tessere. […] Le donne orinano in piedi, e gli uomini seduti, scaricano il loro corpo in casa emangiano fuori per la strada spiegando che bisogna compiere di nascosto gli atti sconci, ma neces-sari, in pubblico quelli puliti1».

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La socializzazione dei bisogni - come vedremo meglio nel paragrafo dedicato all’antropologiaculturale - assicura l’omogeneità del gruppo: tutti i suoi membri compiono le stesse pratiche, chesi contrappongono a quelle degli altri gruppi e definiscono così delle frontiere culturali. Comeavremo modo di approfondire più oltre, ad uno stesso bisogno fisiologico corrispondono diversesoluzioni umane. Questo meccanismo di differenziazione pone il problema dell’alterità e della suacomprensione: Erodoto risospinge gli egiziani nella barbarie nella misura in cui le loro abitudini sicontrappongono sistematicamente a quelle dei greci. D’altra parte il suo inventario dei bisogni e delmodo di soddisfarli si limita agli elementi su cui poggia la contrapposizione: il suo e t n o c e n t r i s m o g l iimpedisce di arrivare ad una autentica comprensione dei rapporti degli egiziani con sé stessi e con lanatura che caratterizzano la loro maniera originale di vivere e di soddisfare i loro bisogni.

Nel rapporto ambiguo che l’uomo ha con la tecnica fa si che questa e gli stessi oggetti usati per lagratificazione dei bisogni non abbiano mai una funzione esclusivamente biologica. Si può quantifi-care ad esempio il numero di calorie per abitante al giorno necessarie alla sopravvivenza di unapopolazione; ma altrettanto si può fare per una popolazione animale. Invece, ciò che è essenzialmen-te sociale - i connotati simbolici ed il processo di sense making, cioè di costruzione di significatonella relazione umana - non può essere quantificabile con le categorie delle scienze naturalistiche.

La naturalizzazione dei bisogniI bisogni acquistano dunque significato in ciascuna società attraverso sistemi di rappresentazioni edi classificazioni che abbracciano l’individuo, il gruppo, gli dèi, l’universo. Questi discorsi dellesocietà su sé stesse non ne sono un semplice riflesso, ma formano il tessuto delle relazioni socialia tutti i livelli: i miti si prolungano nei riti come negli atti quotidiani. E inversamente, i bisogni sitrovano ancorati a un ordine che li oltrepassa e ricevono una legittimazione e un fondamento innome di un’apparente necessità: essi sono perciò concepiti come il motore di tutti i comportamentiumani, indipendentemente dal condizionamento da parte delle strutture sociali. Dal XVII secolo ainostri giorni, questa naturalizzazione dei bisogni rappresenta il filo conduttore di molte teorie socia-li ed economiche che tendono a ridurre i rapporti sociali a una razionalità di tipo meccanicistico.

Paradossalmente sarà un antropologo, Bronislaw Malinowski che - come vedremo nel paragrafoa lui dedicato - elaborerà la teoria più sistematica sui bisogni concepiti quali “fondamento biologi-co della cultura”. Ma occorre dire che il tema del bisogno considerato come causa determinante,si trova sviluppato in molti altri contesti e investe l’insieme delle scienze umane. Si possono citaread esempio i lavori di Jean Piaget sullo “sviluppo mentale del bambino” studiato quale testimoneprivilegiato, ma la meccanica proposta è applicabile all’adulto e alla società in generale. «Il bam-bino, come l’adulto - nota infatti Piaget - non segue alcuna azione, esterna o anche totalmenteinterna, se non è spinto da un movente, e tale movente si presenta sempre sotto forma di un biso-gno (un bisogno elementare, un interesse, un interrogativo, ecc.) […] inversamente, l’azione siconclude quando si ha la soddisfazione dei bisogni, cioè quando si è ristabilito l’equilibrio tra ilfatto nuovo che ha provocato il bisogno e la nostra organizzazione mentale quale si presentavaanteriormente ad esso2». Così i bisogni spiegano in definitiva le scelte, i movimenti, i rifiuti tantodegli individui quanto delle formazioni sociali. All’inizio si trova una situazione permanente dimancanza, che determina l’azione. Ma in quest’ottica, l’uomo appare quale una creazione totaledel bisogno: per capire le organizzazioni sociali, come pure la storia della specie, basta fissarel’inventario completo dei bisogni, ordinati secondo la loro importanza e la loro genealogia.

Al termine di questo percorso si ritrova la dualità caratteristica della nozione di bisogno, tesacostantemente tra i due poli della natura e della cultura: qualsiasi riduzione del bisogno a

Il contesto culturale della “scuola dei bisogni”

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c o n d izionamenti biologici o a meccaniche socio-economiche non ne coglie la dimensione cultura-le e simbolica. Il bisogno è il prodotto (e non il motore) di una prassi che si sviluppa a partireda una carenza, effettiva, ma che non è solo quella di un organismo: «l’immaginario, le cuiradici affondano a un tempo nella natura e nella cultura, costituisce così il fondamento ultimodel bisogno».

3.2 Il concetto di bisogno nel pensiero filosofico3

Una breve panoramica che tenga conto prima di tutto della riflessione filosofica sul concetto dibisogno è necessaria al fine di chiarire meglio la natura dei problemi cui ci troviamo di fronte.Come sempre, quando è ben condotta, la pratica dell’interrogare filosofico conduce ad evidenziaree problematizzare i paradigmi cognitivi di fondo con i quali guardiamo al mondo e costruiamo isaperi. Prima di tutto forniremo qualche cenno dal punto di vista storico, unitamente ad un tentati-vo di sintesi problematica.

L’atteggiamento umano nei confronti del bisogno è da definirsi come “coscienza della finitudi-ne”; quindi consapevolezza della non univocità di tale finitudine. Emblematico è il famosissimopasso dei Pensieri di Pascal, che sottolinea la totale dipendenza dell’essere umano dalla natura e lasua estrema fragilità, ma nel contempo identifica nella consapevolezza di tale condizione l’alteritàdell’essere umano stesso nei confronti della pura determinazione biologica ed istintuale4.

Anche se la confusione fra bisogno e desiderio si è talvolta manifestata nella storia del pensiero,è per lo più sulla relazione - mai risolvibile e nel contempo ancorata su una chiara distinzione fra idue momenti - che la maggioranza degli autori si sofferma. Del resto, fin dalle origini della nostraciviltà occidentale, l’esigenza della soddisfazione della serie dei bisogni tende a proiettarsi nel supre-mo appagamento cui si fa riferimento con il concetto di f e l i c i t à. Forse, l’ambiguità intrinseca nelconcetto di felicità, che è da tutti ritenuto punto di riferimento ma da nessuno pensato allo stessomodo (così da ingenerare l’inevitabile indeterminazione del concetto stesso)5 rinvia proprio allaambiguità dell’esperienza del bisogno nell’uomo, perlopiù fondato sull’immaginario, e sul desiderio,teso al trascendimento di qualsiasi risposta adattativa o puramente reattiva alla mancanza originaria.

Platone, nel presentarci la natura di Eros nel Simposio, sembra aver colto appieno questa pro-spettiva. Egli infatti definisce l’Eros come figlio di Poros e di Penia, quindi “aspirazione infinita”,come “bisogno di completamento”. In Eros l’eredità materna (“mancanza”, “povertà”, Penia) vaunita all’abbondanza, alla disponibilità di risorse, di possibilità (Poros) eredità paterna. Eros, ha“la natura della madre ed è accasato con il bisogno”6, per quanto la dipendenza non sia però la suaunica connotazione, appunto. Il bisogno è dunque posto in relazione col sorgere della stessa cultu -ra umana e della civiltà, vista come spinta al trascendimento, come tensione consapevole derivan -te dalla frizione fra mancanza e capacità di guardar oltre il limite.

Nella Repubblica invece, si palesa una prospettiva diversa, centrata sulla connessione del temadel bisogno con il tema delle relazioni sociali e dell’interdipendenza fra esseri umani nella comu-nità. Il bisogno è infatti connesso al fenomeno della nascita dello Stato: «Posto che nessuno di noibasta a sé stesso, ha bisogno dell’aiuto di molti7». Così Aristotele, se da una parte nota che «l’uo-mo […] desidera vivere insieme coi propri simili anche senza bisogno di aiuto reciproco8», dal-l’altra considera i bisogni in quanto connessi alle esigenze della vita associata costituita, che ha loscopo di “vivere bene”, e distingue fra “bisogni immediati” della vita - che trovano soddisfazionenella famiglia - e bisogni necessari dell’organismo civile e statale, come quelli dell’alimentazionecollettiva, delle arti, della difesa, delle finanze e soprattutto della decisione delle cose comuni. Lastretta connessione della riflessione sul bisogno con quella sulla civilizzazione e sulla nascita della

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società si trova ripresa ripetutamente nel corso della storia, sia pur con varianti di prospettiva (ades. in Bruno, Bacone, Vico, ecc.). Un momento significativo dell’evoluzione di questa nozione siavrà con il pensiero marxiano, che si prefiggerà il compito di mettere in luce la non univocità tramoltiplicazione tecnica e culturale dei bisogni e progresso umano9.

Ad Epicuro invece dobbiamo una famosa tipologia dei desideri1 0. Il “cuore della dottrina epicurea”,il suo “centro effettivo” è la concezione della filosofia come terapia volta alla cura dell’angoscia, l’i-dea che la filosofia sia la “medicina dell’anima”. Così in Epicuro il “calcolo dei desideri” ha comefine “l’assenza di dolore nel corpo, l’assenza di perturbazione nell’anima”11 ed è frutto di un “sobrioragionare”. Tutt’altro quindi che un edonismo tutto dedito alla ricerca disordinata di sensazioni, quan-to piuttosto atto della “prudenza” detta appunto da Epicuro “massimo bene” e “principio di tutto”.

In s. Agostino e nella tradizione del pensiero cristiano notiamo una definizione in senso privati-vo del bisogno, che è ritenuto manifestazione dell’abbandono di Dio, perdita della beatitudineeterna e “giusta pena” verificatasi dopo il peccato originale. Agostino scrive infatti: «L’uomo nelparadiso […] viveva senza alcun bisogno, avendo il potere di vivere sempre così […]; vivere benesenza l’aiuto di Dio, anche nel paradiso, non si poteva, ma si poteva vivere male, privandosi peròdella beatitudine e condannandosi a una giustissima pena12».

Nella filosofia moderna da una parte si evidenzia la tendenza all’enfasi sull’autonomia - insenso spirituale, etico e giuridico - dell’uomo, in quanto essere razionale, rispetto ai propri bisogni“naturali”. Così in Kant leggiamo che «l’uomo è un essere che ha bisogno, in quanto appartiene almondo sensibile […]. Ma tuttavia, egli non è così interamente un animale, da essere indifferente atutto ciò che la ragione per sé stessa dice, e da usare questa solo come strumento del suo bisogno,in quanto egli è un essere sensibile13».

Dal canto suo Hegel, dopo aver considerato che la “mediazione dei bisogni” sta alla base dellasocietà civile, rileva che il bisogno per l’uomo, a differenza che per gli animali, non può valutarsialla stregua di una semplice relazione di dipendenza, perché l’uomo può, rispetto ad esso, atteg-giarsi anche indipendentemente, vale a dire in modo dialettico14.

Nel pensiero moderno, d’altro canto, non manca la presenza di una atteggiamento opposto, teso aprivilegiare la spiegazione “meccanicistica” e “naturalistica” della natura del bisogno. Ad esempio,Feuerbach ribadisce la dipendenza dell’uomo dal bisogno, concepito come esigenza della naturasensibile che sta alla base dell’intuizione stessa della vita, mentre per il positivismo in genere, adesempio per l’italiano Ardigò, la meccanica del bisogno corrisponde a quella del comportamentodelle forze della natura in genere e va conformemente valutata. Di matrice “naturalista-biologica” èanche, a titolo esemplificativo, la posizione di Dewey, per cui il bisogno vale a caratterizzare lostato tensionale delle energie del vivente (in contrapposizione al non-vivente), costituito dallo squi-librio di queste forze e dalla tendenza (s f o r z o) a riequilibrarle (s o d d i s f a z i o n e). Di matrice “sociale”è invece, oltre all’orientamento marxiano, anche quello di Berg s o n1 5.

Una diversa riflessione sul concetto di bisogno, di matrice ontologica, può essere invece rintrac-ciata nell’e s i s t e n z i a l i s m o. Così in Heidegger il bisogno può ritenersi parte costitutiva della “cura”,ossia del modo stesso di essere dell’esistente in dipendenza di un mondo in relazione al quale cercaperò di trascendersi: in tal senso il bisogno assume, come “cura” il significato ontologico-esisten-ziale della possibilità come p reoccupazione del vivere e dell’a b b a n d o n o1 6. Come ci ricorda P.R i c o e u r1 7, in sostanza, il bisogno non può farsi corrispondere a un mero stato di privazione e diabbandono ma, in senso più positivo, anche a ciò che, come slancio, tende verso ciò che lo comple-ta; esso designa nel medesimo tempo, come si esprime Kierkegaard, «la più profonda povertà e lapiù alta ricchezza… Il bisogno corrisponde alla mancanza, e pur tuttavia non possiamo dir nulla di

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più alto del poeta e dell’oratore che questo: è un bisogno per lui di cantare e di parlare1 8». In questosenso, il bisogno denota la sua connessione col “valore” e il suo legame con la trascendenza, essocaratterizza pertanto la condizione stessa dell’uomo, la finitudine, nel suo rapporto con l’assoluto.

Come vedremo nel proseguo, l’ambiguità originaria della nozione di bisogno viene ad essereaccentuata dallo sviluppo delle teorie economiche e sociologiche contemporanee, così come dalprepotente sviluppo della società industriale e post-industriale. A partire dall’età dell’illuminismosi susseguono i tentativi di distinguere e separare “bisogni naturali” e “bisogni artificiali”, tentativiche tutti hanno segnato il passo, congiuntamente alla progressiva presa di coscienza della com-plessità della distinzione fra ciò che è “naturale” nell’uomo e ciò che è “culturale”.

Oltre obsoleti schematismi, oggi si propende a sottolineare che la cultura è la “nicchia ecologica”dell’uomo, e che lo psichismo, ossia le radici della coscienza, ha una dimensione “ecologica”1 9.Così, il fenomeno del bisogno umano è da leggere come la condizione in cui verte la prassi umanastessa: essa muove da una mancanza, da una carenza, da una dipendenza, connotata anche org a n i -camente, ma sempre letta alla luce di valori simbolici. Gli oggetti del bisogno sono sempre rivestitidi valori culturali, infatti, e niente di ciò che è umano è privo di questa connotazione simbolica.

Per concludere: quella di bisogno è una nozione ambigua, nella storia del pensiero occidentale.Invischiata inevitabilmente in scissioni e opposizioni che ritroviamo anche nella riflessione infer-mieristica. Il primo lato della nozione di bisogno ci ricorda che «qualsiasi riduzione del bisogno acondizionamenti biologici o ad attività economiche non ne coglie la dimensione culturale e simbo-lica20». Ciò che è sentito come intrinsecamente necessario e di cui quindi si coglie il bisogno lo èproprio alla luce di uno sguardo simbolico. D’altro canto, la finitudine è condizione, non solonegativa, dell’esistenza. E, da questo punto di vista, si fa di nuovo attuale il riferimento alla sag-gezza, cui ancora Kant si orientava. È Kant infatti che, nel pamphlet Sui sogni di un visionariospiegati con i sogni della metafisica ci dice: «la ragione che, resa matura dall’esperienza, è arriva-ta alla saggezza, dice con animo sereno per bocca di Socrate in mezzo alle mercanzie di una fiera:“Quante cose vi sono di cui non ho bisogno!”». Queste parole, lette alla luce della società dei con-sumi contemporanea - della società cosiddetta “della gratificazione istantanea” - e, più oltre, allaluce della relazione tra infermiere e paziente, adombrano la grave difficoltà dell’uomo civilizzatodi controllare il limite stesso della moltiplicazione culturale dei bisogni, ma insieme sottolineanoil suo potere di negazione: possibilità, faticosa, di liberazione.

Il bisogno e il dolorePer il fatto stesso di “restringere la vita” - negli spazi, nel tempo, nelle relazioni, negli affetti - e di“obbligare alla dipendenza” - dei familiari, degli amici o dei professionisti - il bisogno in quantonecessità è stato spesso legato al dolore e alla sofferenza (pauperes infirmi, dicevano gli antichi).Scrive al proposito Verzé: «non c'è fatto più drammatico e più vero della sofferenza intesa comeassenza di autonomia, come logorio fisico, come insoddisfazione di bisogni primari, come violen-za alla vitalità, come resa al disfacimento21».

Prendere coscienza dei propri bisogni (ad esempio attraverso il dolore provocato dall’immobi-lità, la sofferenza per una impellente evacuazione o minzione in luoghi e tempi inopportuni o vice-versa la stitichezza provocata dall’ospedalizzazione o ancora il disagio di essere lavati da manisconosciute) mette alla prova, espone alla crisi, scopre la nostra limitatezza anche nelle cose piùbanali che prima si svolgevano senza neppure accorgersene: respirare, recarsi in bagno, comunica-re un pensiero o una domanda, farsi la barba, farsi una doccia… Nell’infermieristica, insomma,o c c o rre interpre t a re il bisogno come la forma più elementare del dolore dell’uomo. In questa

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p r ospettiva, quanto più esso è elementare, fisiologico, fondamentale per la sopravvivenza dell’in-dividuo, tanto più si ricopre di carica simbolica, in quanto espressione dell’angoscia evocata dallaprecarietà e dalla mancanza di cui esso è il più elementare segno. Il bisogno, infatti, è una ripetu -ta, quotidiana, ciclica, insopprimibile esperienza soggettiva della propria limitatezza22.

In tal modo il bisogno ed il dolore che lo esprime mettono alla prova, sono eventi “probatori”,non tanto e non solo per chi soffre, nei limiti della sua individualità, ma mettono alla prova nelsenso che divengono motivo di richiesta per una giustificazione totale del mondo. Perché c’è ildolore, perché questa prova di morte, perché il morire?23 Questa domanda coinvolge tanto il biso-gnoso quanto coloro che gli stanno accanto e non accetta parole di facile consolazione. Giobbe(16, 2ss) apostrofa i suoi amici con il duro epiteto di “consolatori molesti”, augurandosi che tac-ciano presto le loro parole di vento. Il dolore è prova perché separa, perché isola. Possiamo direche il dolore provoca una doppia solitudine: oggettiva (esso, come abbiamo visto, separa perchériduce la vita), ma anche soggettiva, in quanto è repellente in sé stesso e rende repellente colui cheaffligge spingendolo pudicamente all’autoisolamento da vicini che ormai percepisce come estra-nei. Di fronte alla solitudine di qualcuno che soffre o che muore, ed al pudore, alla vergogna o allapaura di dare fastidio o di pesare, si può avvertire una necessità - un “bisogno” - di vicinanza, diqualcuno che “stia accanto” anche solo e semplicemente con una presenza od un contatto fisico,non necessariamente con parole o solo con iperattivismo e tecnologia.

L’uomo conosce da sempre il dolore. La stessa letteratura - prima ancora che la filosofia e legrandi religioni monoteiste - nacque come Sapienza, come poema aristocratico sul senso del vive-re in un mondo di affanni. Ed è interessante notare che a fronte dell’inesplicabile patire dell’uomo,la maggior parte di questi testi sono di matrice profondamente pessimista. Un testo accadico del1500 avanti Cristo recita: «Il tormentatore [Dio] mi tortura tutto il giorno; nemmeno di notte milascia un istante. A forza di torcerli i miei tendini sono strappati, le mie membra sono slogate egettate in un mucchio. Passo le mie notti nei miei escrementi come un bue; mi rotolo nella miasporcizia come un montone». Addirittura due dei cinque libri sapienziali dell’Antico Testamentosono venati di profondo pessimismo: Giobbe ed il crudissimo Qoelet che al terzo versetto delprimo capitolo formula la domanda fondamentale: «Quale valore ha per l’uomo tutto il suos o ff r ire e faticare?». Per poi darsi la terribile risposta: non vi è alcun senso nella vita dell’uomo;tutto è vanità, vento e nulla.

Fin qui il dolore fa da sfondo, è lo scenario del destino dell’umanità. Ma l’uomo conosce dasempre il dolore anche come individuo, entro un coinvolgimento che, essendo personale, è piùprofondo. Già per il poeta Eschilo «Nessuno dei mortali trascorrerà la vita del tutto incolume dapene. Paga sempre alla vita ciascuno il suo prezzo24». Il dolore è dunque un fatto esistenziale: lo siconosce per esperienza personale. Goethe scrive di non ricordare un solo giorno della sua vita chenon fosse stato segnato dalla sofferenza. Ne deriva un’ovvia affermazione che esistono, cioè, sen-sibilità diverse verso un evento che coinvolge in ogni caso l’uomo nella sua totalità. La sofferenzaè sempre un fatto t o t a l e benché le sfaccettature particolari che può assumere coprano l’interagamma delle dimensioni dell’umano: la sua fisicità, la sua psichicità e la sua spiritualità (o dimen-sione “simbolica”). Dal nascere della sua coscienza il dolore pone costantemente all’uomo ledomande fondamentali sulla sua esistenza: all’inizio dei “Persiani” di Eschilo il Coro canta:«Immenso è il grido di dolore che sale dalla terra: ci sarà un Dio che lo raccolga?».

Tanto il dolore quanto la sofferenza, poi, sono stati da sempre considerati come sinonimi dimorte, come minaccia, come pericolo della perdita di sé. Il dolore ed il bisogno anticipano per ils o fferente l’esperienza della morte in quanto questa non può essere limitata al semplice evento

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t e rminale della vita (come dice ad esempio Epicuro: «Quando ci siamo noi non c’è la morte equando c’è la morte non ci siamo noi»). Seguendo le riflessioni di Salvatore Natoli, al contrario,l’esperienza del dolore è paragonabile al bisogno in quanto si tratta di esperienze che si svolgononel cuore stesso della vita come sottrazione di vita: «l’estenuazione della vita - scrive Natoli - nonè data solo da ciò che il tempo toglie e consuma, ma dal ridursi delle possibilità espansive dellavita che si restringono e ripiegano su sé stesse: la riduzione delle capacità vitali, siano esse sensi-bili, siano esse relative alle diverse prestazioni che all’uomo sono concesse, è appunto dolore25».

Bisogno e dolore richiamano la morte in quanto, come questa, non sono scelti, ma assegnati.Sono eventi che, come la morte, individualizzano in quanto non consentono sostituzioni, ed alloradivengono angosciosa coscienza del proprio corpo, del proprio limite e della propria finitudine.Ma, come l’esistenzialismo ci ha insegnato, l’angoscia del singolo è una parte dell’universaleangoscia del divenire e non può non aprirsi all’esterno di sé. «Il dolore - dice ancora Natoli - com-primendoci nel limite ci pone in relazione alla totalità».

La definizione prima del bisogno è dunque di essere un insopprimibile “segno del limite”, dellafinitudine dell’uomo, quasi come a presagire il dolore e la sofferenza che la sua insoddisfazioneprovocano. Questo “primo”, definitivo, bisogno di salvezza, induce il bisognoso a ricercare lavicinanza di un “altro” umano - è questo il bisogno di assistenza, che appunto non può mai esserenell’uomo unicamente soddisfazione di bisogni fisici - senza tuttavia potersi evitare le domandesul perché, sul “senso” di questa sua sofferenza, sulla “trascendenza” di questa vita “a tempo”,come speranza di completamento, di sopravvivenza e di pace.

Questo bisogno di trascendenza, di salvezza e di una pace che vada al di là della sofferenza edella precarietà è un dato di fatto ormai assodato dall’archeologia e dall’antropologia. Pensiamoad esempio alle antichissime opere di Ankor o di Stonehenge in Gran Bretagna: queste opere sonotempli e megaliti enormi, eretti a volte attraverso millenni. Non di rado il loro fine pratico ci sfug-ge o è francamente inesistente essendo evidentemente “opere inutili” senza giustificazione alcunaper la sopravvivenza. Al proposito, l’antropologo belga Edouard Boné annota che trenta o cin-quanta secoli prima di erigere le sue cattedrali, assillato dalla minaccia di tante forze cosmiche edesterne, «l’uomo primitivo non si lascia sopraffare del contingente immediato del pane e dei vesti-ti, della malattia e della salute. Egli si costruisce delle capanne miserabili di cui ci restano le pove-re vestigia. Ma è ai suoi dei, invece, che egli destina, disperdendo incredibili energie, i monumentiduraturi fatti di pietra e di granito26».

Secondo Natoli, lo stretto legame tra questo “bisogno di salvezza” da un lato e l’angoscia ed ildolore dell’uomo sono affrontate dal pensiero occidentale contemporaneo con la duplice ereditàdella tradizione greca (legata ad una concezione tragica della vita) e della tradizione ebraico-cri-stiana (legata alla seduzione dell’immagine del Regno). Ma, afferma Natoli, nel processo di seco-larizzazione che stiamo vivendo, non la tragicità o la fede caratterizzano il pensiero contempora-neo nei confronti del dolore, bensì la tecnica27. Per questo filosofo, infatti, il bisogno di salvezza è“sopravvissuto alla morte di Dio”. La morte di Dio, dice Natoli, non lascia solo orfani, ma ancheeredi: le filosofie del progresso e le ideologie della rivoluzione. Questo fenomeno è ormai chiara-mente riconosciuto come processo di secolarizzazione, ove nello svolgimento mondano del biso-gno salvifico degli uomini, gli uomini stessi divengono promotori della loro stessa salvezza.D’altra parte di contro alle incertezze della tecnica ed al fallimento delle rivoluzioni torna semprebuona la ripresa delle mitologie religiose. Non si tratta di una rinascita del sacro ma di un “reim-piego sincretista di spezzoni di tradizioni religiose di diversa cultura” e soprattutto di rituali.

Questo “neopaganesimo” ritiene che la realizzazione dell’uomo deve compiersi in questo mondo,

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ma la possibilità di questo compimento è vivibile solo in forza delle realizzazioni già ottenute. Eduna tra le più grandi realizzazioni della tecnica, afferma Natoli, non è tanto il superamento del dolo-re quanto la possibilità di rimuoverlo. Si ha a che fare quindi con un “neopaganesimo manierato”,con un lusso che l’uomo contemporaneo si consente solo perché riesce ad i s o l a re il dolore e a nonfarlo vedere. E così se ne dimentica. «L’uomo eroico conosceva il dolore ed emergeva vincitore,ma carico delle sue ferite; il neopaganesimo di maniera si esonera dal dolore. In fondo il dolore èsempre di altri. […] Lo scenario dell’epoca presente è governato da un nuovo termine di mediazio-ne: la tecnica. La dimensione scientifico-tecnologica costituisce oggi l’orizzonte entro cui la realtàdel mondo viene compresa. In questo medesimo orizzonte si iscrive l’esperienza del dolore28».

Certo, l’anestesiologia e la terapia palliativa del dolore, così come anche le tecniche assistenzia-li, hanno compiuto straordinari progressi, e non possono essere abbandonate. In forza delle loroindagini statistico-epidemiologiche ci dicono come alleviare il dolore, cosa occorre fare perrispondere a quel tal bisogno, ma, osserva Natoli, «tutto ciò che l’organizzazione sociale ha predi-sposto, quanto la scienza ha scoperto, restano semplicemente qualcosa di scontato per chi è fuoridalla media, per chi è stato reso u n i c o dal dolore. [...] La tecnica consente l’occultamento deldolore, ma è anche vero che il dolore dà scacco alla tecnica. La tecnica è l’unica dimensione in cuil’uomo contemporaneo pensa il suo successo, o quanto meno riesce a prospettarsi il suo movimen-to, ma la tecnica può fallire. Anzi si dà il caso che molto spesso fallisca. Fallisce localmente e noncome disegno di civiltà, ma fallisce. Ma la vita degli uomini è una sola e se essi sono uguali losono per l’irripetibilità della loro vita. L’individuo sa e dice: se la tecnica fallisce per me, essa èper sempre e definitivamente fallita. L’uomo contemporaneo conosce tutto questo, percepisce ilrumore di fondo della sofferenza anche se essa è tolta dalla scena e occultata. La sofferenza trape-la e forza la congiura del silenzio che le molteplici, civili, e costruttive attività del giorno copronocon il loro rumore produttivo e fecondo. Ma l’eco sorda del dolore l’uomo contemporaneo se laporta dentro, la vive nella forma dell’inquietudine, se la tiene nel cuore come ansia». Qualchetempo fa, su una di quelle schede anonime nelle quali i pazienti dimissionari sono invitati adesprimere il loro giudizio sul ricovero, leggemmo questa impressionante sentenza: “Siate maledet-ti tutti quanti! Toccherà anche a voi…!”

Natoli continua osservando che il voler s a p e re di sé - della propria vita, della propria salute,della propria morte - è un bisogno di tutti. Ci fu un tempo in cui tale sapienza si acquistava attra-verso il dominio dell’esperienza. Forse pochi l’attingevano, ma ad essi in antico conveniva il nomedi saggi. Oggi il sapere di sé è sempre più guadagnato attraverso l’identificazione ad un sé predi-sposto dai consigli, dalle ricette, dalla pratica di vita attraverso cui i soggetti vengono costruiti.Nelle società a basso livello di complessità esisteva anche una relativa uniformità dei tempi e quin-di una coincidenza degli spazi di rappresentazione. L’esperienza soggettiva del dolore era in questicasi diversa da quella sociale, ma comunque ad essa congruente sia spazialmente che temporalmen-te. In questo caso, l’esperienza del dolore costituiva un riferimento comune, fatta salva la diversitàdei vissuti. Si trattava di società in cui il dolore si incontrava per via, lo si coglieva negli sguardistralunati degli uomini, nei volti macilenti dei poveri, nelle celebrazioni collettive della vita e dellamorte. Oggi, invece, la società della tecnica ha prodotto una modificazione fondamentale nell’espe-rienza del dolore, sia relativamente alle modalità del percepirlo che a quelle del comunicarlo e deltrasmetterlo. «Ciò che è venuto meno è la c i rcolarità dire t t a tra dolore e vita: la sofferenza nonentra immediatamente e continuativamente nella quotidianità dell’esistenza. Il dolore è celato ospettacolarizzato: in ambedue i casi se non è neutralizzato è certamente mediato2 9» .

Abbiamo visto che la tecnica circoscrive il dolore secondo criteri di competenza e quindi

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p r e d ispone sedi idonee per soffrire, sedi dove è legittimo che la sofferenza si manifesti, sia presain considerazione senza che tuttavia possa invadere la vita. Ma esistono casi in cui la sofferenzadilaga, in cui la lacerazione è troppo grande per poter essere occultata. In questi casi l’esperienzadi chi soffre è resa eterogenea rispetto a chi temporaneamente è preservato attraverso la spettaco -larizzazione. Lo spettacolo allontana il dolore poiché rappresentandolo ce lo fa sentire lontano danoi. Il dolore, la sofferenza, le necessità sono di altri, noi per fortuna ne siamo fuori; la morte chenon ci colpisce diviene in un certo senso godibile30. «Noi uomini contemporanei - conclude Natoli- non incontriamo più il dolore, il lamento non sorge dalle vie, non ci giunge nelle case: noi siamosempre composti e civili. Per il nostro sguardo risulta ormai sbiadita l’immagine di Isaia: “Oh, voitutti che passate per la strada, considerate e osservate, se c’è un dolore simile al mio dolore”. [...]Oggi si ha pudore del proprio dolore [come dei propri bisogni]. Ciò accade non perché si ha acuore la gloria della propria forma, ma perché si teme l’abbandono, ci si accorge che se si dichia-ra la sofferenza non si può più stare al passo col ritmo della vita31». Ci si accorge che il dichiararsinon-autosufficienti significa passare la soglia di una fatidica “normalità” per la quale i bisogni pri-vati e più intimi vanno sbrigati di nascosto e silentemente. E una volta passata questa soglia, ladipendenza dagli altri è già una forma di sofferenza in quanto la sensibilità e la competenza diquesti altri, quand’anche fossero i più vicini, è oggi a differenza di ieri del tutto incerta.

3.3 Il concetto di bisogno nell’antropologia culturaleOrmai abbiamo piena coscienza che il bisogno per l’uomo, a differenza che per l’animale, è sem-pre determinato dalla sua appartenenza storico-culturale. È per questo che l’antropologia culturaleè particolarmente importante per la nostra riflessione, anche nella considerazione che un taleapproccio viene sempre più utilizzato trasversalmente in tutte le discipline umanistiche. Il ter-mine a n t ro p o l o g i a compare nel X I I I secolo - negli scritti di J.F. Blumenbach (1752-1840) e neltitolo dell’ultima opera di E. Kant, A n t ropologia prammatica del 1798. Ma, come è facile intui-re, la riflessione attorno all’uomo è ovviamente più antica, risalendo fino alla filosofia ellenica,sino alle origini del pensiero e del mito (ed al proposito abbiamo già avuto modo di accennarele antichissime riflessioni attorno al tema della teodicea). L’antropologia in quanto scienza èinvece più recente, facendo la sua comparsa agli inizi del diciannovesimo secolo, come scienzadella storia. Allora si pensava di utilizzare il metodo scientifico delle discipline della natura perdefinire i principi e le leggi che governano i fenomeni socio-culturali così come questo metodopermetteva con successo di studiare i fenomeni relativi al campo fisico e org a n i c o .

Il campo di studi di questa disciplina è vastissimo, ed è uso comune raggruppare alcuni indirizzidi ricerca in tre principali orientamenti: l’antropologia filosofica - che si occupa della natura e deldestino dell’uomo, o per dirla con Gehlen del suo “posto nel mondo”; l’antropologia fisica - cheereditando i primi studi sulla costituzione morfologica delle “razze” dell’uomo studia appunto ladimensione fisico-organica degli uomini e l’antropologia culturale, che studia la cultura dei varigruppi umani. L’antropologia culturale si distingue in genere dalla etnologia in quanto quest’ulti-ma si riferisce allo studio comparativo ma sempre particolare delle diverse culture attraverso studietnografici, cioè raccolta ed analisi di dati ben localizzati ad un ambito storico-geografico.

Dunque, l’antropologia, per definizione, non può non essere una scienza “globale”, o meglio,non può non interessare tutte le discipline che hanno a che fare con l’uomo. Per Ida Magli, attra-verso il concetto di “cultura” nasce «il bisogno di revisione e di integrazione di moltissime disci-pline: dall’architettura alla medicina, dalla psicologia all’economia, alla letteratura, all’arte, allabiologia. Tutti campi in cui non è più possibile fare a meno di riferirsi al “modello” culturale come

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ad uno dei fattori determinanti per la comprensione del comportamento umano. Ne discende comelogica conseguenza che l’antropologia, una volta assunta come strumento metodologico nei varicampi di ricerca, non ha, e non può più avere, una sua vita autonoma32».

Ma cos’è la cultura? Nella storia interna dell’antropologia questo termine ha trovato tante defi-nizioni quante correnti di pensiero si sono sviluppate al suo interno per definirlo. Chiamiamo cul-tura, in senso molto generale, l’insieme di tutti i “modi di comportarsi” relativi a tutta la gammadelle attività umane33, con riferimento: a) ai modi di vita o “stili di vita” comuni in un dato tempoa tutta l’umanità; b) ai modi di vita caratteristici di un gruppo di società fra le quali esiste un gradomaggiore o minore di interazione; c) ai modi di comportamento peculiari di una data società; ed) ai particolari modi di comportamento, caratteristici dei segmenti di una società grande e com-plessamente organizzata. Il suo significato corrente in antropologia si riferisce tuttavia ad un sin-golo gruppo o a un popolo. Essa corrisponde ad una struttura complessa di conoscenze, di codici,di rappresentazioni, di regole formali o informali, di modelli di comportamento, di valori, d’inte-ressi, di aspirazioni, di credenze, di miti, interdipendenti gli uni dagli altri. Questo universo èrealizzato nelle pratiche e comportamenti quotidiani (usi relativi al vestiario, culinari, modi d’abita-re, atteggiamenti del corpo, tipi di relazioni, organizzazione famigliare, pratiche religiose). «La cul -tura comprende il vivere e il fare. La genesi di questa struttura complessa si opera nelle trasformazio-ni tecniche, economiche e sociali proprie di una data società nello spazio e nel tempo. Essa è il risul-tato dell’incontro di tre protagonisti della vita: l’uomo, la natura e la società3 4». A parere dell’antro-pologo americano Kluckhohn il risultato di questo incontro millenario è che dal punto di vista dellacultura «ogni uomo è simile a tutti gli altri, simile a qualche altro, simile a nessun altro ».

Occorre però mettere in evidenza come le culture non soltanto non sono statiche e immutabili,ma possono anche avere evoluzioni molto diverse tra loro. Nel 1877, agli inizi dell’antropologiadue suoi padri storici (Edward B. Taylor e Lewis H. Morgan) affermavano che «la storia dellarazza umana è unica come fonte, unica come esperienza ed unica come progresso». Questap o s izione della prima antropologia - così apertamente positivista e con evidenti influenze darwi-niane tanto da essere indicata come “evoluzionista” - ebbe comunque il merito di slegare il con-cetto di cultura dal concetto ormai decaduto di razza, evidenziando nel compempo un importanteaspetto inconsciamente etnocentrico, peraltro caratteristico non solo dell’antropologia ma di tuttala società occidentale di allora.

All’impostazione evoluzionista si oppose, tra gli altri, Franz Boas, che a questa visione monisti-ca contrappose una concezione pluralista della storia dell’uomo. «Ogni cultura - scrive Boas - èuna congerie di tratti non collegati, che hanno un’origine e una storia disparata, associati solo inseguito ad una serie di accidenti storici35». Questa dottrina, costruita per fornire una spiegazioneed una giustificazione del pluralismo culturale, vuole opporsi all’etno-centrismo occidentale; essaè imperniata sul principio del relativismo culturale, divenuto poi un principio cardine per tuttal’antropologia36. Nella sua formulazione classica, il relativismo culturale afferma che non è possi-bile comprendere, interpretare o valutare a fondo il significato dei fenomeni sociali e psico-socialisenza esaminare il ruolo che essi svolgono nel sistema sociale e culturale più vasto. I costumi diuna cultura possono essere giudicati o valutati legittimamente solo se si considerano i valori adessi associati, i bisogni soddisfatti e il loro rapporto generale con altri doveri, aspettative, e codicimorali della particolare cultura in esame. Secondo il principio del relativismo culturale, insomma,i costumi di una cultura non possono essere giudicati legittimamente e obiettivamente superiori aquelli di un’altra, e di conseguenza la distinzione che si faceva un tempo tra culture civilizzate eincivili, evolute o arretrate, è dunque ormai definitivamente abbandonata.

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La cultura poi non è innata in un individuo, ma è appresa - anche se non tutti i tipi di comporta-mento appresi sono comportamenti culturali. L’apprendimento culturale passa attraverso l’insiemedei s i m b o l i e dei s i g n i f i c a t i propri di una specifica società; essi costituiscono l’eredità e la memoriastorica dell’evoluzione culturale di una società. Chiamiamo s i m b o l o la capacità di dare un significa-to astratto ad un particolare fenomeno fisico (oggetto, manufatto, sequenza di gesti o di suoni,ecc.); chiamiamo invece s e g n o la rappresentazione, il fatto o il fenomeno concreto e convenzionaledi un significato astratto, ovvero, in antropologia, l’utilizzazione comune di un simbolo.

È la capacità di simbolismo che iniziò a differenziare l’Homo sapiens dai primati e che sta’all’origine dello sviluppo della cultura. Infatti, il simbolo facilita la trasmissione delle informa-zioni e colma il divario fra esperienze fisiche separate e distinte nel tempo e nello spazio; essorende continuativo e cumulativo il fenomeno dell’esperienza - che tanta importanza ha anche nel-l’infermieristica. Per l’antropologia la cultura «non consiste soltanto in modi di comportamentoappresi, ma è un corpo di modi di comportamento appresi, accumulati da molti uomini attraversomolte generazioni. L’accumulazione dei modi di comportamento appresi è resa possibile dallacreazione e dall’uso dei simboli: senza la capacità simbolica, l’apprendimento sarebbe statico enon progressivo, come tra gli animali. Per quanto ne sappiamo, l’uomo è l’unico animale capacedi comportamento simbolico; altri animali imparano ad usare segni, ma non creano simboli. Lacultura è essenzialmente l’accumulo di una serie di modelli appresi di comportamento che si origi-nano e si sviluppano mediante simboli. La cultura è cominciata ad esistere da quando l’uomo haimparato a creare simboli37».

L’identità culturalePer l’ottica con la quale affronteremo le tematiche infermieristiche uno dei programmi di ricercapiù interessanti e recenti dell’antropologia culturale è quello dell’antropologia i n t e r p retativa d iC l i ffort Geertz (contrapposto all’altro indirizzo contemporaneo detto c o g n i t i v o). Questo autoreconsidera la cultura come entità semiotica, cioè come un campo di comunicazione entro il qualevengono prodotti e riprodotti sempre nuovi significati in un gioco infinito di interpretazioni. Lacu l t u r a, insomma, viene vista come un testo da leggere in chiave ermeneutica con l’obiettivopr i ncipale di conoscere come i membri di quella determinata società conferiscano un “senso” alla loroesperienza nel mondo. Similmente al nostro approccio all’infermieristica, l’antropologia di Geertzrifiuta ogni approccio fondazionalista e adotta una prospettiva costru t t i v i s t a, secondo la quale larealtà dell’oggetto etnografico nasce dall’i n t e r a z i o n e fra soggetto dell’inchiesta (che è a sua volta un“soggetto interpretante” la propria cultura) e l’antropologo che interpreta le interpretazioni altrui3 8.

Non possiamo certo dilungarci in questa sede sulle differenti correnti di pensiero dell’antropolo-gia, quanto piuttosto rimarcare l’influenza della cultura sulla vita della singola persona e del suog ruppo di vita quotidiano. Se davvero vogliamo comprendere la diade bisogno-risposta di unapersona, siamo obbligati ad interessarci dei meccanismi con i quali si struttura la sua “identità cul-turale”, identità nella quale trovano fondamento espressivo e significato tutti i comportamentidella persona e del gruppo di appartenenza. Quando parliamo di identità culturale di una personafacciamo quindi riferimento a due significati molto importanti; il primo riguarda il concettod ’identità che ha soprattutto un significato d’ordine psicologico. L’identità si rapporta alla perce-zione che ciascun individuo ha di sé stesso, cioè, la percezione della sua “propria coscienza di esi-stere” in qualità di persona (di quel sesso, di quella età, di quella professione, ecc.) in relazionecon altri individui, con i quali forma un gruppo sociale (per esempio: la famiglia, il lavoro, leassociazioni, la sua nazione, ecc.). Questa percezione dell’identità non è solo individuale, ma

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p i u ttosto il riconoscimento reciproco tra l’individuo e la società. Essa comporta un aspetto sog -g e t t i v o (la percezione dell’auto-identificazione e della continuità della sua propria esistenza neltempo e nello spazio) ed un aspetto relazionale e collettivo (la percezione del fatto che gli altririconoscano l’individuo, la sua propria identificazione e continuità).

Il secondo significato rimanda invece al termine “culturale” che ha, al contrario, un significatopiù tipicamente sociologico. Di conseguenza, «quando parliamo di identità culturale di una perso-na - scrive Perotti - noi intendiamo la sua identità globale, che è una costellazione di più identifi -cazioni particolari ad altrettante istanze culturali distinte3 9». Tale identità è talmente onnicom-prensiva che possiamo affermare che ogni atto dell’uomo è un atto culturale, anche quello appa-rentemente più banale. Senza che necessariamente se ne abbia coscienza, la cultura, come dicevaT. S. Eliot, ci perseguita; da prima della nascita a dopo la morte, e fin dentro i nostri sogni.

“La cultura è la natura dell’uomo”, sostengono alcuni antropologi; essa è fatta dall’uomo perl’uomo verso il quale assolve una triplice funzione: di adattamento all’ambiente, di socialità e diformazione della singola identità personale. Secondo Perotti, infatti, la cultura «costituisce l’am -biente umano che permette l’adattamento delle società al loro ambiente: il gruppo e gli individuitrovano dei modelli di risposte, più o meno elaborati e più o meno soddisfacenti ai loro bisogni, ailoro desideri e alle situazioni in cui vivono, alle loro interrogazioni e alle loro angosce. La culturasvolge inoltre una funzione sociale essenziale creando un universo simbolico e mentale fatto dimodelli di condotta, di norme di azione, di maniere di pensare e di agire, di credenze. Tale univer-so simbolico crea un legame tra i membri del gruppo e permette loro di comunicare nella coope -razione e nel confronto. La cultura esercita infine un’influenza molto profonda sulla personalitàche essa modella marcandola della sua impronta quasi indelebile. [...] In senso antropologico nonsi può parlare di cultura che in un senso dinamico: la cultura è la risultante dell’atteggiamentocreatore degli individui e dei gruppi di fronte alla realtà40».

La cultura: mediazione, produzione di significati, creazione di una cornice morale Un esempio molto stimolante sull’utilità pratica e sul significato che ha la cultura per i suoi porta-tori è dato dalle cosiddette “reti” o “vie di canto” australiane. Per gli aborigeni australiani la cultura- l’ordine creato dalla tradizione - corrisponde ad un insieme di canti tramandati oralmente dagenerazione in generazione. Questi canti descrivono ogni cosa, dalle relazioni sociali alle asperitàdella terra, dal percorso dei fiumi ai profili delle montagne e a quelli del proprio cuore. Ognuno,partendo da quella porzione di canti che gli è stata trasmessa dai propri antenati, può relazionarsicon gli altri, riconoscere i posti che attraversa - quello che gli capita nella vita - e, risalendo all’in-sieme, non sperdersi mai41.

Per Giuseppe Mantovani, «è difficile pensare ad un’immagine più incisiva di quella delle vie dicanto per illustrare la funzione della tradizione: offrire una traccia a quelli che vengono dopo.Questa immagine suggerisce che la cultura, in cui gli individui trovano la propria identità e il pro-prio ruolo sociale, è diversificata al suo interno. Non siamo identici, non siamo cloni culturali; cia-scuno ha una sua fisionomia, una sua eredità, un suo percorso da compiere. La cultura è la rete chepermette alle differenze di esistere e di comunicare tra loro, di capirsi non “nonostante le” ma“grazie alle” differenze”42.

Se possiamo concepire la cultura come una mappa, una rete di contatti e di significati che orien-ta la relazione tra persona e ambiente avvolgendoli in una rete di senso, le sue principali funzionicontemporaneamente agite sui suoi membri sono, per Mantovani, di tre tipi: di mediazione; di pro -duzione di significati e di creazione di una cornice morale43. Vediamole brevemente.

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La prima funzione è dunque quella di mediazione. Come “il bastone del cieco” non è che unp rolungamento della sua mente con il quale conoscere ed esplorare la strada, così la cultura“non è né dentro né fuori dalla nostra mente” ma in entrambi i luoghi: sono interfacce che colle-gano i nostri progetti con le opportunità presenti nell’ambiente. Pensare in termini di culturaoggi significa abbandonare le generalizzazioni e a c c e t t a re l’irriducibile specificità deic o n t e s t i4 4. La cultura è una frontiera che attraversiamo ogni volta che ci troviamo di fronte un“altro” di cui percepiamo e rispettiamo l’a l t e r i t à. Come già aveva chiaro Michail Bachtin, l acultura è il luogo dell’incontro ; «noi dobbiamo immaginare il regno della cultura come unospazio con delle frontiere e un territorio al suo interno. Il regno della cultura è interamentedistribuito lungo le frontiere. Le frontiere sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto. Ogniatto culturale vive essenzialmente sulle frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fonda-mento, diventa vuoto e arrogante, degenera e muore4 5» .

Con Mantovani condividiamo l’apprezzamento per questo luogo non luogo che è la frontiera,l’extralocalità (l’essotopia bachtiniana) dove avviene la mutua comprensione del diverso. «Unalinea di frontiera - scrive ancora Mantovani - su cui avvengono gli scambi: questa è l’immaginedella cultura che preferiamo».

Ma la cultura non serve solo a conoscere ed orientarsi, essa serve anche in quanto produzione disenso. Più che nei grandi avvenimenti storico-sociali, i processi di “sensemaking” (ai quali tantaimportanza verrà riconosciuta anche nella relazione assistenziale) avvengono nei “fatti morbidi”della vita quotidiana delle persone, nelle radici delle loro credenze e tradizioni46. Grazie ad una“rete di analogie” la cultura collega domini differenti della realtà, fornendo ai suoi membri tuttoun repertorio di credenze condivise e con esse un “senso del proprio posto nel mondo”. Senzaquesta comune rete di senso, non sarebbe possibile la comunicazione e la mutua comprensione. Lereti che le culture costruiscono delimitano la realtà nel momento stesso in cui le danno un senso:per questo, quando si incontrano interpreti di culture differenti dalla nostra è facile “non compren-dersi” nemmeno quando ci si accorda di parlare la stessa lingua.

Qualche anno fa, dopo aver assistito al parto di una paziente senegalese, ci accingevamo a ripor-re la placenta nell’apposito contenitore destinato allo smaltimento dei rifiuti organici. Dopo unattimo di incertezza, la signora chiese che fine avesse fatto la placenta, e se non poteva esserleconsegnata. La placenta, in molte culture sub-sahariane, è considerata “il fratello maggiore delneonato”, da essa dipende la vita stessa del piccolo e della madre, tanto che la gioia della nascita ètrattenuta sino a secondamento compiuto. Inoltre, in queste culture la placenta mantiene anchedopo il parto un forte potere nei confronti del bambino e della madre; per quest’ultima in parti-colare essa può determinare una successiva condizione di fecondità o di sterilità a secondadelle modalità di seppellimento4 7. In altre culture ancora, la placenta viene fatta essiccare econservata in quanto, triturata in acqua o nel cibo, costituisce un potente rimedio contro deter-minate malattie.

È quindi evidente che l’idea della cultura come “rete di senso” porta la nostra analisi un po’più lontano del concetto di cultura come “mediazione”. Aiuta a focalizzare le differenze tra“noi” e “l’altro”; ci aiuta a capire che le strutture linguistiche e quindi concettuali di entrambiordinano ma insieme delimitano lo spazio della realtà a cui conferiscono un senso: alcuni trattidella realtà “mappata” dalla cultura vengono valorizzati, altri stralciati, altri ancora sono inve-ce negati o condannati. Quando poi entrambi i protagonisti non hanno la consapevolezza diessere parte di queste differenti reti di significato, come stupirsi, si chiede Mantovani, se gliesiti di questi incontri sono stati spesso, nella storia degli uomini, scontri e prevaricazioni?

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Infine, la terza funzione della cultura è la creazione di una cornice morale. Per Mantovani ladefinizione dei valori è la funzione più importante e più misconosciuta della cultura. Che cosa siala dignità e per quali cose si debba provare orgoglio o vergogna, quali siano le cose importanti edove cercare la felicità: queste sono le domande a cui ogni cultura deve rispondere. E come sap-piamo, le risposte variano grandemente non solo tra culture, ma anche all’interno di uno stessosistema simbolico senza neppure essere necessariamente coerenti tra loro.

L’incontro con l’altro non solo ci espone ad un’infinita serie di mappature possibili della realtà -alcune talmente “altre” da provocare in noi un istintivo moto di rigetto, di paura o di sdegno.Succede anche, e non di rado, che la conoscenza della rete dell’altro faccia emergere una nuovaconoscenza della propria o addirittura la modifichi e ce la renda per quello che è: essa stessa lacu-nosa e difettosa. Si noti bene che un tale fenomeno è ben di più del semplice relativismo culturale- che ci invita a conoscere e, in un certo senso, legittimare, un particolare dato o fenomeno nel suocontesto storico-culturale. (Ed invero, il superamento del relativismo è anche un’opzione profon-damente etica - ma su questo punto ritorneremo più oltre). La vera comprensione dell’altro non èn e u t r a, può non lasciarci indifferenti, può coinvolgerci ben al di là dell’ambito - e dell’abito -professionale o scientifico.

Quando comprendiamo che i nostri valori riflettono le credenze di società che sono, ciascuna asuo modo, imperfette, la pretesa che il nostro modo di pensare sia “il migliore” viene drastica-mente ridimensionata. Mantovani commenta: «L’incontro con culture differenti può liberare dallatentazione dell’assolutismo. Negli incontri che avvengono lungo le frontiere tra culture ogni per-sona vede subito chiaramente le manchevolezze dei mondi altrui, mentre comprende solo lenta-mente e faticosamente i limiti del proprio».

Il concetto di bisogno come chiave di lettura della culturaTre importanti nomi dell’antropologia filosofica e culturale non possono essere dimenticati sevogliamo ricercare il tema del bisogno nell’antropologia nella letteratura internazionale ed italia-na: Bronislaw Malinowski, Arnold Ghelen e Carlo Tullio Altan. Il pensiero di ognuno viene bre-vemente riassunto nei paragrafi che seguono.

a) Bronislaw MalinowskiIl nome di Malinowski (1884-1942) è legato alla teoria funzionalista della cultura ed al metodoetnografico del lavoro sul campo fondato sull’“osservazione partecipante”. Più famoso per la suaproduzione di ricercatore sul campo che per le sue speculazioni teoriche, Malinowski tentò di for-mulare generalizzazioni e “leggi”, raccolte nel volume postumo Una teoria scientifica della culturadel 1944. Ogni cultura vivente costituisce una totalità funzionante ed integrata, analoga ad unorganismo: nessuna parte di una cultura può essere compresa se non in relazione con la totalità. Èil funzionamento di un tratto culturale che lo spiega e ne rivela la vera identità, e la finalità funzio-nale delle culture umane, ovvero la spiegazione della presenza delle culture fra gli uomini, è ilsoddisfacimento dei bisogni dei suoi membri, singoli o comunità. La cultura dunque non sarebbeche un vasto apparato artificiale creato dall’uomo in funzione dei suoi bisogni.

È pur vero che il principale interesse di Malinowski è la totalità costituita da una società: tutti ifatti osservati ricevono il loro significato gli uni dagli altri, integrati in un insieme organico. Manella misura in cui le funzioni sociali rispondono a bisogni, ciò costituisce la mediazione tra leparticolarità di ciascuna cultura e l’universalità della natura umana. «Neppure il bisogno più sem-plice - scrive Malinowski - né la funzione fisiologica più indipendente da influenze ambientali si

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possono considerare completamente fuori dall’influenza della cultura. Nondimeno vi sono certa-mente attività determinate biologicamente, dalla fisica dell’ambiente e dall’anatomia umana, chesono incorporate invariabilmente in ciascun tipo di società48». Ogni società poggia dunque su diuna infrastruttura biologica, il cui modello è l’organismo individuale.

Malinowski evidenzia dunque sette bisogni: metabolico; riproduttivo; benessere fisico; sicurezza;movimento; crescita e salute. «Per bisogno intendo il sistema di condizioni nell’organismo umano,nell’ambiente culturale e nella relazione di entrambi all’ambiente naturale, che sono sufficienti enecessarie per la sopravvivenza del gruppo e dell’organismo [...]. Le abitudini, e le loro motivazio-ni, le risposte apprese e i fondamenti dell’organizzazione, devono essere disposti in modo da per-mettere il soddisfacimento dei bisogni fondamentali4 9». Per natura umana, perciò, Malinowskiintende il determinismo biologico che impone a ogni civiltà e a tutti i suoi individui l’esecuzione difunzioni corporali come la respirazione, il sonno, il riposo, la nutrizione, l’escrezione e la ripro d u -z i o n e. «Noi possiamo definire il concetto di bisogni fondamentali come le condizioni ambientali ebiologiche che devono essere soddisfatte per la sopravvivenza dell’individuo e del gru p p o5 0» .

Molti critici hanno denunziato l’arbitrarietà e lo schematismo naturalista della ricostruzione diMalinowski. Di fatto, si può osservare che il sistema di Malinowski riduce ogni società a unasovrapposizione di livelli il cui taglio sarebbe universalmente applicabile. Ma questo insieme dicategorie (biologica, economica, rapporti sociali, organizzazione politica, pratiche simboliche)non corrisponde forse a una concezione occidentale della società quale è emersa dalle societàcapitalistiche? La teoria di Malinowski sembra, in conclusione, descrivere un paradossale rove-sciamento e ricade in definitiva in una variante dell’eurocentrismo.

b) Arnold GehlenL’opera più importante di A. Gehlen (1904-0976) è senza dubbio L’uomo. La sua natura e il suoposto nel mondo del 1940. In essa egli concepisce l’essere umano come un “essere incompiuto”,fallibile, esposto al rischio del futuro e quindi - diversamente dalle altre specie animali adattatedall’istinto ai loro ambienti specifici - continuamente nel bisogno di strutturarsi. L’insieme dellestrutture che rispondono all’incompletezza dell’uomo è appunto la cultura.

Nell’introduzione di Karl-Siegbert Rehberg al testo di Gehlen leggiamo «Poiché l’uomo mancaper il soddisfacimento dei suoi bisogni la ‘via breve’degli istinti animali, diviene determinante laconcezione che l’uomo debba procrastinare i suoi bisogni, per poterli adempiere durevolmente. Siapre così uno spazio vuoto che va ogni volta colmato attivamente, uno ‘iato’ tra i b i s o g n i e les i t u a z i o n i del loro soddisfacimento. Da questa rottura con l’immediatezza dell’adempimentoGehlen desume poi non solo i caratteri indiretti delle scelte di scopi e di mezzi umani, ma com-plessivamente quella struttura del padroneggiamento artificiale dell’esistenza, del capovolgimentoe rielaborazione delle condizioni naturali, che va sotto il nome di ‘cultura’51».

«L’uomo - afferma Gehlen - si trova di fronte ad un compito straordinariamente “oneroso”, chenon può risolvere se non contemporaneamente al compito della vita, cioè agendo; egli deve svi-luppare in sé stesso delle norme che gli consentono di dominare e regolare i suoi bisogni e i suoiinteresse e deve stabilizzarsi in un sistema di volontà orientata: per queste ragioni sono false levisioni “armonistiche” dell’uomo che cancellano questa virtuale eccezionale tensione interiore52».

In tal modo le stesse pulsioni nell’uomo «sono suscettibili di modellazione, sono in grado diconcrescere con le azioni, le quali diventano esse stesse dei bisogni [...]. Perciò si può dire che nonsussistono confini oggettivi tra pulsioni ed abitudini, tra bisogni primari e bisogni secondari, eche invece questa distinzione, ove compaia è istituita dall’uomo stesso; ovvero inversamente che

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determinati bisogni in lui si trasformino, e, per suo tramite si diffondano per il mondo, sino acostituirsi in interessi riposti in azioni piuttosto specifiche e concernenti fatti singoli53».

c) Carlo Tullio Altan Per l’italiano Carlo Tullio Altan tutti i bisogni dell’uomo possono essere ricondotti ad un’unicaradice, ad un bisogno primo, tipicamente umano, il bisogno di sapere. «Questo bisogno di sapere èdetto problema. Un bisogno non ancora soddisfatto, infatti, pone per l’uomo un problema, il pro-blema di venire a conoscere la migliore via per poterlo soddisfare, in circostanze date. E questa èla radice prima di tutti i problemi, che hanno tutti alla loro base una necessità di vita, anche quan-do sembrino immensamente lontani, nella loro apparente astrattezza, da questa fonte primaria delbisogno di sapere54».

In quest’ottica è la presenza della cultura che permette di trasformare i bisogni in problemi: ibisogni sono comuni agli uomini e agli animali; i problemi, al contrario sono un’esperienza esclu-sivamente umana. Come abbiamo visto, anche l’infermiera-antropologa Madeleine Leininger nonparla che raramente di “bisogni” dell’uomo, e quando lo fa, aggiunge l’aggettivo “culturali”. Essaparla più spesso dei “problemi” del cliente di fronte a necessità di salute.

Ai fini della comprensione del sistema salute-malattia, è essenziale la considerazione sul ruolodelle istituzioni socio-culturali nei confronti dei bisogni. Le istituzioni sono le risposte che il siste-ma culturale origina per far fronte ai bisogni fondamentali dei membri della comunità.Malinowski aveva già constatato come «ogni istituzione contribuisce da una parte all’opera diintegrazione della società come un tutto, ma soddisfa dall’altra ai bisogni fondamentali dell’indi-viduo55». Per l’antropologia i bisogni fondamentali e le istituzioni che li soddisfano diventano cosìla più importante chiave di lettura di una cultura. Volendo riportare le stesse parole di Altan, “sel’uomo si colloca in un certo modo nella vita [...], da questo suo modo di essere derivano, per ilgenere umano, dei bisogni radicali, dalla soddisfazione sociale dei quali prende forma la comples-sa e articolata realtà sociale. In altre parole, se l’uomo è fatto in un certo modo, in rapporto aglialtri esseri della natura, egli deve avvertire certi bisogni e questi sono considerati qui come unadelle chiavi di lettura, o meglio come la più importante fra le chiavi di lettura che ci dischiudonoil senso profondo dei prodotti delle culture e delle società umane56».

In conclusione, da quanto detto finora, possiamo già evidenziare ciò che unifica e ciò che diversificale culture. Ciò che unifica le culture è, in ultima analisi, lo scopo stesso per cui esse esistono: in primoluogo la soddisfazione del bisogno di sopravvivenza dei suo membri - ad esempio l’istituzione fami-glia, il “sistema” salute, la protezione, l’apprendimento e la comunicazione, ecc. In secondo luogo lanecessità di spiegazione dell’universo, ovvero la risposta ad un bisogno di sapere intrinseco alla naturaumana. Ciò che le differisce è invece la modalità di risposta a questi scopi; in altre parole «ogni societàpossiede la propria cultura, che rappresenta uno dei possibili modi di adattamento, un modo di vivereche consente la sopravvivenza nell’ambiente particolare in cui la società si trova a vivere5 7» .

La polarità salute/malattia è dunque uno specifico campo d’indagine di una branca dell’antro-pologia: l’antropologia medica. Essa si propone di indagare le dimensioni multiple della malattia,del fatto cioè che nel manifestarsi di ogni tipo di patologia interagiscono con i processi biologicideterminazioni e risvolti psichici, culturali, sociali5 8. Questo insieme comprende non solo i sub-sistemi e istituzioni di cura e assistenza, ma anche il sistema di valori che dà un senso alla malat-tia, al dolore e alla morte.

«Salute e cultura - afferma Ivan Illich - sono in gran parte la stessa cosa. Ogni cultura modella unasua particolare G e s t a l t di salute e un suo particolare tipo di atteggiamenti nei confronti del dolore, della

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malattia, della menomazione e della morte, ciascuno dei quali è una diversa specie di quellai n t e r p r e t a z ione umana tradizionalmente detta l’arte di soffrire. La salute di ogni persona è unaresponsabile interpretazione di un copione sociale. Il senso che la persona ha del proprio corpo e cone sso la sua salute, sono determinati dalla relazione che essa ha con i lati dolci e amari della realtàe del modo in cui si comporta verso i propri simili quando vede che soffrono, sono infermi o inpreda all’angoscia. Il senso del corpo non è un’esperienza statica ma un dono di cultura che si rin-nova di continuo59».

3.4 Il concetto di bisogno nella psicologiaDopo la filosofia e l’antropologia culturale è ora la volta di rivolgere il nostro studio ad un’altradisciplina umanistica di fondamentale importanza per la “Scuola dei bisogni”. Per questo argo-mento ci soffermeremo solo su un autore particolarmente importante per l’infermieristica:Abraham Maslow.

Se per il senso comune il bisogno è inteso come uno stato di insoddisfazione dovuto alla man-canza di ciò che è sentito come necessario alla vita fisica o morale, nel linguaggio tecnico deglipsicologi il bisogno è considerato come “una forma organica di una tendenza elementare”, la cuiinsoddisfazione, se impedita, genera la frustrazione. Lo stimolo organico che sta alla base di unbisogno è soltanto un segnale, la vera causa, sostengono gli psicologi, è più profonda e spingel’individuo verso una situazione-fine, in cui si annulli la tensione provocata dal senso di insoddi-sfazione che accompagna lo stimolo stesso. Quando l’individuo prende coscienza del suo stato dibisogno e ne riconosce la causa, in lui si risveglia l’idea della soddisfazione necessaria e nasceallora il desiderio che, traducendosi in azione, organizza il comportamento. Naturalmente la rap-presentazione degli oggetti e degli atti con i quali il bisogno potrebbe essere soddisfatto presuppo-ne qualche esperienza preliminare della soddisfazione stessa, prima della quale non ci può essereche una indefinita inquietudine o un inesplicabile malessere.

Anche nella storia interna della psicologia, sin dai suoi inizi, si affermò una vera e propria “tra-dizione di ricerca” legata ai bisogni. Già nel 1897 Ribot faceva notare che tanto i bisogni cheesprimono una “mancanza” quanto quelli che manifestano un “eccesso” hanno un punto di con-vergenza nella “conservazione dell’individuo”. Nei primi decenni del novecento G. Dumas distin-gueva due gruppi di bisogni, quelli relativi alla vita dell’individuo (fame, sete, sonno, ecc.) tra iquali distingueva ulteriormente i bisogni di acquisizione, di evacuazione, di consumo, di ripara-zione e di stimolazione e quelli relativi alla vita della specie (sessuale, materno, ecc.).

Evidentemente i bisogni si innestano anzitutto sugli i s t i n t i, ma esistono anche bisogni abituali,manifestazioni periodiche di tendenze “derivate” (quali possono essere il bisogno di tabacco o dialcool). D’altra parte, poiché la soddisfazione delle tendenze individuali viene di solito regolata dalgruppo a cui l’individuo appartiene, il bisogno si plasma e si adatta alle esigenze sociali. Come pere ffetto dell’educazione e dell’esperienza nasce una “regolarizzazione” interiore dei bisogni, così sicompie una loro “spiritualizzazione”, per cui l’individuo diventa capace di sacrificare la soddisfa-zione immediata di un bisogno ad un godimento più durevole che arricchisca la sua personalità.

Ma la nostra indagine in campo psicologico ci fa notare che il termine bisogno è usato moltospesso quasi sinonimamente al termine “motivazione”. Tuttavia alcuni autori tendono a sottolinea-re un’importante differenza. La motivazione è da intendersi maggiormente attinente all’origine,mentre il bisogno è più legato alla finalità, allo scopo del comportamento motivato. Quando par-liamo della motivazione della fame, ci riferiamo a quei processi interni alla persona che la guidanoverso l’azione. Quando parliamo del bisogno di cibo, invece, non facciamo che specificare un

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oggetto che è la meta indispensabile a un buon stato di salute e alla sopravvivenza. Una personapotrebbe avere bisogno di cibo senza essere motivata a cercarne.

Le motivazioni dunque sono delle spinte all’azione. Quelle che traggono origine da processiorganici interni nel soggetto vengono definite motivazioni non apprese o primarie (ad esempio lafame di cui sopra), mentre altre motivazioni vengono acquisite tramite processi di socializzazionequali l’educazione e per questo motivo vengono dette appunto motivazioni apprese. Ma il confinetra le due è tutt’altro che netto e molte motivazioni vedono intersecarsi componenti apprese e nonapprese. In genere si sostiene che le motivazioni primarie, rispondendo ai bisogni fondamentalidell’organismo, mantengono la persona in vita ed in buona salute, mentre le motivazioni appreseconsentono all’individuo di adattarsi all’ambiente sociale.

Ma la motivazione non è l’unica origine del comportamento motivato, esistono anche gli incen -tivi. Mentre le motivazioni sono mozioni interne all’individuo, gli incentivi sono oggetti o condi-zioni dell’ambiente esterno che esercitano delle stimolazioni (facilitanti o coercitive) sul compor-tamento del soggetto, anche in assenza di motivazione (l’incentivo economico legato ad un obiet-tivo di lavoro è l’esempio più immediato, ma anche una bella torta di fragole, o il vostro dolcepreferito, appena finito di mangiare). Motivazioni e incentivi si presentano in realtà come le duefacce di una medesima medaglia.

Le tre caratteristiche principali che in genere gli psicologi individuano nel comportamento moti-vato sono l’attivazione, la direzione e un senso di volere o desiderio. L’attivazione costituisce labase energetica del comportamento, spingendola appunto all’azione. La direzione è invece chiaritadall’intenzionalità dell’azione stessa, ovvero dal suo scopo o meta. Il sentimento di volontà o didesiderio è vissuto invece come tensione verso, come tendenza o aspettativa. Allorché lo scopo èraggiunto tanto la tensione verso di esso quanto l’attività energetica scompaiono.

Abraham Maslow60

Abraham H. Maslow (1900-1970) è senza ombra di dubbio l’autore che più ha influenzato il pen-siero e la prassi dell’infermieristica. Psicologo americano, è considerato uno dei padri fondatoridella cosiddetta psicologia umanistica. Nelle sue ricerche e pubblicazioni si è interessato soprat-tutto al problema della motivazione sviluppando il suo pensiero sul versante speculativo piuttostoche su quello applicativo; le sue principali pubblicazioni sono le opere Motivazione e personalitàdel 1954 e Verso una psicologia dell’essere (1962).

Nel 1970, pochi mesi prima di morire e in occasione della seconda edizione di Motivazione epersonalità, Maslow ammette il limite alla sperimentabilità di molte delle sue intuizioni: d’altron-de non può essere altrimenti poiché, come egli afferma, «quando parliamo dei bisogni degli esseriumani, parliamo dell’essenza della loro vita». Un test di laboratorio, con le sue situazioni isolate,precostituite e fittizie non possono servire; occorre invece un controllo ed una applicazione dellateoria in una “situazione vitale” in cui entri l’insieme dell’essere umano nella sua totalità con l’in-sieme del suo ambiente sociale. Ed incidentalmente afferma l’opportunità di considerare i bisognifondamentali istintuali ed i bisogni supremi dell’essere umano come suoi diritti, e non semplice-mente come bisogni: è attraverso la loro soddisfazione infatti che «l’uomo ha il diritto di essereuomo e il gatto ha diritto di essere un gatto61».

Ma forse, prima di passare sic et simpliciter ad illustrare il pensiero di Maslow conviene sbaraz-zarci subito dalla sua erronea e superficiale traduzione operata in molti manuali infermieristici.Molti di questi testi, infatti, hanno malinteso la famosa “scala dei bisogni di Maslow” intendendo-la in senso rigido e soprattutto universale ed assoluto, quando invece l’autore indica ripetutamente

Il contesto culturale della “scuola dei bisogni”

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la propria gerarchia in senso relativo. Come è noto, Maslow afferma che i bisogni dell’uomo sonotra essi costantemente in relazione di priorità e propone una gerarchia dei bisogni con la qualeinterpretare le motivazioni degli esseri umani. Alla base di questa “scala gerarchica dei bisognifondamentali dell’uomo” (da alcuni poi disegnata come una piramide, cosa che Maslow si è benguardato di fare) ci sarebbero i bisogni fisiologici, e poi a seguire, i bisogni di sicurezza, di amoree a p p a rt e n e n z a, di s t i m a per arrivare infine al bisogno di a u t o re a l i z z a z i o n e. Per Maslow se -soprattutto nell’età evolutiva - i “bisogni inferiori” non vengono soddisfatti difficilmente ci si puòrealizzare pienamente come persone, in quanto la scala gerarchica «non è arbitraria, ma radicatanell’organismo che impone un ordine di valori, basato su intensità e priorità».

In molti manuali infermieristici, invece, la concezione per la quale “ogni livello di bisogno sod-disfatto rappresenta un passo verso l’autorealizzazione” è stata interpretata rigidamente in sensouniversale ed assoluto , dimenticandosi di spiegare che lo stesso Maslow nella descrizione di que-sta gerarchia - proposta per l’analisi della personalità di un individuo e non per la valutazione delsuo status quo autoassistenziale - si preoccupa di aggiungere che essa “non è così rigida quanto siè lasciato credere”62, anzi, che tale gerarchia “è relativa”. In altre parole, essa è soggetta a moltis-sime influenze - sociali, culturali e storiche - che possono modificare il suo ordine, soprattutto setali influenze sono relative agli aspetti valoriali ed etici del comportamento motivato63. Resta ilfatto che proprio la gerarchia dei bisogni è stata oggetto di critiche anche da parte di alcuni socio-logi ed antropologi i quali ritengono che sia costruita sulla base delle mete socialmente accettabilie nobili della cultura occidentale e quindi non possa essere utilizzata per descrivere universalmen-te i bisogni degli uomini di diverse culture. Infine, essi notano che spesso le azioni umane obbedi-scono a motivazioni multiple, che difficilmente si possono inserire in una meccanismo rigido.

Comunque pare indubbio che la causa di molte cattive interpretazioni siano da rintracciarsi nellastessa opera di Maslow ed in alcune opzioni di fondo del suo autore, quali ad esempio il concettodi “sanità gratificazionale”. Per introdurre questo concetto Maslow congettura il seguente esem-pio. A è un individuo che ha vissuto per diverso tempo in una giungla pericolosa, mangiando ebevendo ciò che riusciva a trovare. B è un persona che è sopravvissuta nella stessa giungla, maavendo a disposizione un fucile ed una caverna nascosta nella quale potersi rinchiudere. C, dalcanto suo, oltre a tutti questi vantaggi era in compagnia di due altre persone. D, invece, viveva inquesta foresta potendo contare oltre che su fucile, cibo, caverna e collaboratori anche dalla presen-za del suo più caro amico. Infine, E è una persona che in aggiunta a tutte le risorse degli altri,viveva nella giungla come il capo riconosciuto e rispettato di un gruppo di persone. Per dirla inbreve, potremmo dire che il primo è il sopravvissuto, in quanto riesce a soddisfare unicamente ibisogni fisiologici inerenti la sussistenza fisica dell’organismo. Il secondo è il sicuro, il terzo èl’appartenente ad un gruppo, il quarto è l’amato, il quinto è il rispettato.

Subito occorre notare quanto la gratificazione dei bisogni sia tanto importante quanto la loroi n s o d d i s f a z i o n e, appunto per permettere il sorgere di bisogni “più alti”. Poi Maslow fa notareanche che nell’esempio riportato non abbiamo solo una serie di gratificazioni di bisogni fonda-mentali crescenti, ma anche una “serie di gradi crescenti di sanità psicologica” - alla qualeMaslow lega poi una possibile classificazione delle personalità. «È chiaro - afferma Maslow - che,a parità di altre condizioni, uno che è sicuro, appartiene ad un gruppo ed è amato, è più sano(secondo ogni definizione ragionevole) di uno che è sicuro, appartiene ad un gruppo, ma vienerespinto e non è amato. Se, inoltre, egli viene rispettato ed ammirato e quindi sviluppa un senso diautorispetto, è ancora più sano, si realizza di più, è più umano64».

Come vedremo il pensiero di Maslow è molto più approfondito e complesso di come qui

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p r e s e ntato, ma se non meglio spiegata - come accade appunto in molti manuali infermieristici -una tale concezione della salute direttamente proporzionale all’umanità del soggetto non può tro-varci minimamente d’accordo. Infatti - per quanto possa forse illustrare alcuni casi estremi descrit-ti ad esempio dall’antropologia culturale65 - in quanto infermieri ci domandiamo che cosa sarebbedei nostri pazienti cronici o handicappati dalla nascita. Oltre che sentirsi “malati” per tutta la vita,dovrebbero per sovrappiù percepirsi “meno umani” degli altri? Oppure pensiamo ai due poli estre-mi del morire umano: la maledizione e l’accettazione. Entrambi - ed in modo indipendente dall’e-ventuale indirizzo metafisico - dovrebbero essere considerati anormali e inumani?

Maslow, dicevamo, si è rifiutato di fornire un elenco particolareggiato dei bisogni che apparten-gono alle cinque categorie da lui descritte. Anzi critica il tentativo fatto da molti di costruire cata-loghi più o meno particolareggiati e “atomistici” di bisogni o desideri. Un catalogo presupponel’uguaglianza tra i vari bisogni classificati, uguaglianza di intensità e di probabilità. Ma questo,nota Maslow, è impossibile perché - in base a quanto già affermato - la probabilità che un bisognoaffiori alla coscienza dipende tra le altre cose dal livello di soddisfazione degli altri desideri pre-senti nello stesso momento nell’individuo. I bisogni, oltre al fatto di essere consci o inconsci, sonosempre in relazione dinamica tra loro. «Questi elenchi sono assurdi - afferma Maslow - perché idesideri non si dispongono come una somma aritmetica di membri individuali isolati, ma sidispongono lungo una gerarchia di specificità. Con questo si intende che il numero dei desideriche uno sceglie di elencare, dipende interamente dal grado di specificità secondo cui uno scegliedi analizzarli 6 6». È per questo che Maslow propone di abbandonare i tentativi di catalogazione“atomistica” dei bisogni e di definire alcune categorie fondamentali, appunto le cinque tipologiegià menzionate, che è tempo di vedere un po’più nel dettaglio.

I bisogni fisiologici sono considerati come il punto di partenza di qualunque teoria della moti-vazione, e vengono spesso indicati con il termine di “impulsi fisiologici”. Molti di questi bisognisono determinati da fenomeni omeostatici che tendono, attraverso meccanismi autoregolativi, amantenere costante nell’organismo l’equilibrio di quei numerosissimi elementi organici e mineralidi cui ha bisogno per vivere. Tali meccanismi sono studiati da oltre centocinquant’anni e sonofondamentali non solo per la determinazione dell’impulso fisiologico del bisogno in quanto lorobasi somatiche, ma anche per lo studio della fisiopatologia. Di conseguenza è impossibile ed inuti-le una loro enumerazione, come dicevamo, essa dipende dal grado di specificità della descrizioneche viene effettuata.

Maslow ritiene che i bisogni fisiologici sono da considerarsi quelli dotati di maggior forza moti-vazionale poiché, quando uno di essi non è soddisfatto, o lo è in misura insufficiente, esso prevalesu tutti gli altri. Tutte le capacità ed energie dell’organismo vengono messe a disposizione perpoterlo soddisfare. Solo quando tutti i bisogni fisiologici sono sufficientemente soddisfatti cessanodi essere la componente determinante del comportamento e possono allora emergere altre tipolo-gie di bisogni appartenenti alle altre categorie. «Bisognerebbe comunque ricordare - aggiungeMaslow, con un’intuizione che non resterà senza riscontro nell’infermieristica - che ogni bisognofisiologico ed ogni comportamento consumatorio legato al bisogno stesso serve da canale perogni altro tipo di bisogno. Cioè la persona che pensa di aver fame, può di fatto essere una personache cerca maggiore conforto o protezione e non una che abbia bisogno di vitamine o di proteine.Inversamente è possibile soddisfare il bisogno della fame mediante altre attività, per esempiobevendo acqua o fumando sigarette. In altre parole, questi bisogni fisiologici, pur essendo relativa-mente isolabili, non lo sono mai in modo completo67».

I bisogni di sicure z z a. Questi bisogni consistono essenzialmente nella necessità da parte

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d e l l ’ u omo di essere libero dalla paura del pericolo fisico e dal timore di non poter soddisfare tuttii bisogni fisiologici. Essi esprimo quindi il bisogno di “conservazione prospettiva” legata nontanto al bisogno di sopravvivenza nell’immediato, quanto nel futuro. Tutto quanto è stato detto perla categoria precedente vale anche per questi desideri (che possono includere la stabilità, la sicu-rezza, la dipendenza, la protezione, la libertà dalla paura, la legge, l’ordine, i limiti, la protezione,e così via). Questi bisogni sono facilmente riscontrabili nei bambini, mentre negli adulti vengonospesso mascherati, rivelandosi soltanto in occasione di situazioni di oggettivo pericolo di instabi-lità sia personale che sociale.

Il sentimento di appartenenza e il bisogno di affetto. «Se i bisogni fisiologici e di sicurezza sonoabbastanza soddisfatti emergono i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza e tutto il ciclo giàdescritto si ripete all’interno di questo nuovo centro68». Maslow ritiene che, ad onta di tanti scrittipoetici, teatrali, autobiografici e letterari in genere, non abbiamo ancora molte osservazioni scien-tifiche su questo bisogno69. Maslow sottolinea come tutti i teorici della psicopatologia hanno insi-stito sulla frustrazione del bisogno di amore (nel duplice senso di dare e ricevere amore) come sudi un fatto fondamentale nella rappresentazione del disadattamento.

Infine, occorre separare il bisogno d’amore dal bisogno sessuale che Maslow ritiene essere stu-diabile come bisogno puramente di ordine fisiologico - anche se non deve essere sminuita la mol-teplicità delle sue determinazioni tra le quali spesso non sono quelle fisiologiche ad essere preva-lenti quanto piuttosto quelle affettive e relazionali.

Il bisogno di stima. Salvo i casi patologici, Maslow sostiene che tutte le persone della nostrasocietà hanno bisogno di una valutazione di sé stessi (autostima) e di una valutazione degli altri(eterostima) che sia stabile, ferma e ordinariamente alta. La prima di queste categorie comprendela fiducia in sé stessi, l’indipendenza, la libertà, l’autodeterminazione, il desiderio di forza, dipadronanza e di competenza; la seconda comprende invece il desiderio di uno status riconosciuto,di dignità, di apprezzamento, di rispetto, di fama, di importanza e di gloria. La soddisfazione delbisogno di stima arreca sensazioni di fiducia in sé stessi, di adeguatezza e di utilità. La sua frustra-zione, al contrario, produce senso di inferiorità, di sfiducia e di abbandono.

Il bisogno di autorealizzazione . Questo termine, coniato per la prima volta da K. Goldstein nel1 9 3 9 viene inteso da Maslow come desiderio dell’uomo all’autocompimento (o all’auto-a t t u a l i zzazione), cioè alla tendenza che egli ha di concretizzare tutto ciò che ha in sé di potenziale.Pure se sazio, sicuro, amato e stimato senza la soddisfazione di questo bisogno l’uomo svilupperàirrequietezza e scontentezza. Maslow analizza questo bisogno in un modo molto categorico, quasisi trattasse di un imperativo morale volto a tutti gli uomini: «ciò che uno può essere, deve esserlo.Egli dev’essere come la sua natura lo vuole70». Un musicista deve fare musica, un pittore devedipingere, un poeta deve scrivere, se vogliono poter definitivamente essere in pace con sé stessi.

L’autorealizzazione è dunque il bisogno insito nell’uomo di massimizzare le proprie potenzia-lità, qualunque esse siano; è il desiderio di realizzare ciò che ci si sente in grado di fare e di dive-nire ciò che si è in grado di diventare. Quando Maslow illustra questa categoria di bisogno con idati raccolti in quarant’anni di esperienza clinica evidenzia come sarebbe forse più corretto parlarenon di pura e semplice “motivazione per mancanza” - come per le precedenti categorie - quantopiuttosto di una “metamotivazione”, una “motivazione per sviluppo”, perché la spinta all’azionenon sembra più la sola soddisfazione del bisogno, ma il completamento della persona, il compi-mento delle sue potenzialità in una crescita che in genere essa ha spesso ben chiara nella suae v oluzione. Non occorre dire che la forma specifica che questi bisogni assumeranno può variarenotevolmente da persona a persona: dal desiderio di essere una madre ideale all’esprimersi

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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a t l e t icamente; dall’espressione artistica o scientifica al desiderio di diventare un passabile profes-sore di infermieristica generale… Ma un ultima annotazione è di fondamentale importanza:Maslow nota che queste persone, in genere, paiono più distaccate dalla soddisfazione immediatadelle altre categorie di bisogno (il cibo, l’amicizia, il sesso, ecc.), seppur dimostrano di sapernegodere intensamente. Sembrano essere privi del senso di disgusto o di imbarazzo che molti altriinvece hanno nel trattare di alcune funzioni corporali legate ai bisogni più intimi: le feci, le urine,gli odori e i rumori del corpo, le mestruazioni, ecc. Evitano di atteggiarsi e sembrano più capaci diaccettare sé stessi per quello che sono ed i problemi che gli capitano, compresa la malattia o l’in-fermità o la prospettiva della morte, da un punto di vista concreto e pratico, anche se di nuovo nesanno ricercare ed afferrare un significato trascendentale, tanto da far dire a Maslow che molti fraloro «sembrano vivere di esperienze di fine, e non di esperienze di mezzi». Non sono certo esseriperfetti, ma dopo decine di anni di colloqui, Maslow afferma che parrebbero superare quelli cheper altre persone sono dualismi o dicotomie fondamentali e quasi assoluti, quali le polarità ragio-n e - s e n t imento, spirito-carne, cognizione-conazione, egoismo-altruismo, accettazione-ribellione,i n t r o v e r s o-estroverso, misticismo-realismo, maschile-femminile, eros-agape, ecc. Dal loro puntodi vista questi termini che prima sembravano dire qualcosa di contrastante finiscono per indicarela stessa conclusione e la stessa unità. Per Maslow questa è la sanità più completa - tanto chegiunge a parafrasare s. Agostino: “sii sano, e potrai fidarti dei tuoi impulsi”.

Non possiamo non commentare queste frasi con qualche annotazione dalla prospettiva infermieristi-ca del problema. Innanzitutto, sembra che la descrizione maslowiana della persona realizzata coincidecon il modello di p e r s o n a-infermiere che tutti noi che ci occupiamo di formazione di base vo r r e m m oavere o riuscire a favorire. Siamo infatti convinti che l’assistenza infermieristica nella sua espressio-ne più alta richiede personalità solide ed equilibrate in grado di cogliere non solo la sostanziale unitàdella dicotomia ragione-prassi, ma anche quelle di v i v e re - m o r i re e s a l u t e - m a l a t t i a. La seconda con-siderazione tratta infatti di quest’ultima dicotomia. La nostra specializzazione teorico-clinica cogliesolo alcune delle categorie di bisogno descritte da Maslow, le più umili e le più corporali; spessoabbiamo a che fare con persone adulte che, se inquadrate con la gerarchia maslowiana, sono benlungi dall’essere realizzate… Ma proprio attraverso la soddisfazione di questi bisogni cogliamo latotalità della persona in tutte le sue sfaccettature e manifestazioni di significato. Riconoscendo erispettando queste part i c o l a r i t à cerchiamo di favorire la sua salute ancora possibile (la salus infirmi)che è qualità di vita, lenimento della sofferenza, accettazione della malattia, accompagnamento allamorte - nonostante la malattia o l’handicap, la dipendenza o il bisogno s t e s s o .

Riprendendo la descrizione della teoria di Maslow vediamo che egli non descrive unicamente ibisogni fondamentali, ma identifica anche alcune condizioni o prerequisiti indispensabili alla lorosoddisfazione. Queste condizioni comprendono la libertà di espressione, di parola, di azione, lapossibilità di conoscere, di ricercare, di difendersi, il diritto di giustizia e di onestà. Il contestodeve creare quelle condizioni che favoriscono l’espressione di questi bisogni rendendo possibile laloro soddisfazione. Maslow chiama queste condizioni permissività dell’espressione e della gratifi -cazione71, e quando questi prerequisiti non sono garantiti, l’uomo può reagire come se venisserominacciati gli stessi bisogni fondamentali.

Le capacità cognitive hanno fra le loro funzioni anche quella di soddisfare i bisogni fondamen-tali, quando vengono ostacolate nell’uomo si sviluppano reazioni di frustrazione simili a quellecausate dal non soddisfacimento di bisogni fondamentali. Negli studi di psicologia dinamica ibisogni cognitivi (Maslow usa indifferentemente in questo caso anche il termine “desideri”), qualii bisogni di conoscere e di capire, sono stati ritenuti di grande importanza in quanto contribuiscono

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in modo determinante alla soddisfazione dei bisogni fondamentali. Maslow ritiene che questi biso-gni cognitivi non siano mezzi o strumenti che l’uomo ha a disposizione per la soddisfazione deibisogni fisiologici, ma in qualche modo siano essi stessi fondamentali, benché di una categoriadiversa. «Il superamento degli ostacoli - scrive Maslow - il verificarsi della patologia conseguentealla frustrazione, la diffusione del fenomeno della ricerca della conoscenza (diffuso in più specieed in più culture), il fatto che tale fenomeno, comunque debole, non scompare mai del tutto, ilfatto che la gratificazione di questo bisogno è prerequisito al pieno sviluppo delle potenzialitàumane, il fatto che tale fenomeno compare molto presto nella storia dell’individuo e comparespontaneamente, tutto questo fa pensare che il bisogno cognitivo è un bisogno fondamentale e nonsolo un mezzo per la soddisfazione di altri bisogni72».

Per Maslow, questi bisogni cognitivi (di c o n o s c e n z a e di c o m p re n s i o n e - il primo più forte delsecondo, in quanto anch’essi organizzati al loro interno con una gerarchia di prepotenza relativa)hanno una progressione tendenziale verso l’approfondimento, l’ampliamento e la strutturazione dellecognizioni acquisite, tanto da poter parlare di una “ricerca di significato” che induce a postulare nel-l’uomo un desiderio di capire, di sistemare, di organizzare, di analizzare, di cercare relazioni e signi-ficati, di costruire un sistema di valori. Ma dobbiamo guardarci da una troppo semplicistica tendenzaa separare questi desideri dai bisogni fondamentali appena descritti, cioè dal mettere una netta divi-sione tra bisogni cognitivi e conativi. Scrive ancora Maslow: «Il desiderio di conoscere e quello dicapire sono essi stessi conativi, cioè hanno il carattere di produrre sforzo; essi sono costitutivi dellapersonalità così come lo sono desideri che abbiamo già discussi. Inoltre, […] le due gerarchie sonoin rapporto fra loro e non nettamente separate; […] sono sinergiche e non antagoniste».

Maslow, infine, descrive un’altra categoria di esigenze strettamente collegate a quelle conative ecognitive che definisce bisogni estetici. In essa troviamo i bisogni di ordine, di simmetria, di com-pletezza, di sistematicità e di bellezza, che sembrano relativamente poco conosciuti nonostante lenumerose testimonianze della loro presenza nella vita dell’uomo. Per alcuni soggetti tali bisognidebbono essere considerati alla stregua dei bisogni fondamentali; in ogni caso sono comunqueinseparabili da questi e dai bisogni cognitivi.

3.5 Il concetto di bisogno nella sociologiaNell’ottica della sociologia e secondo l’accezione più generale, il termine bisogno denota una man-canza di determinate risorse materiali e non materiali, oggettivamente o soggettivamente necessariead un certo soggetto (individuale o collettivo) per raggiungere uno stato di maggiore benessere oe fficienza o funzionalità - ovvero di minor malessere o inefficienza o disfunzionalità - rispetto allostato attuale, sia sentita o accertata o anticipata dal medesimo soggetto, oppure da altri per esso7 3.

Per il sociologo italiano Luciano Gallino il concetto di bisogno è utilizzato in molti luoghi dell’a-nalisi sociologica, con importanti varianti di significato che vengono talvolta surrettiziamentescambiate nel corso dell’argomentazione. Gran parte di queste varianti provengono in realtà da altrediscipline, in specie la filosofia, la psicologia e l’economia e sono state sussunte nell’universo deldiscorso sociologico senza una adeguata revisione intesa a fare di esse elementi specifici di taleuniverso. Egli afferma che poiché esso è solitamente ritenuto motivo diretto o indiretto dell’azionesociale - è cioè considerato fattore socialmente operante in varie direzioni e in differenti campistrutturali - è essenziale stabilire, ogniqualvolta si incontra il concetto di bisogno in un testo socio -logico, quale funzione motivazionale viene ad esso esplicitamente o implicitamente imputata.

Infatti, nota Gallino, il dibattito sociologico sui bisogni ha ruotato spesso intorno ad una serie didicotomie - molto variegata, ma elegante e perfetta - che contrappongono di volta in volta: bisogni

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primari versus secondari, essenziali vs inessenziali, evitabili vs inevitabili, reali vs fittizi, oppuresu piani diversi, bisogni coscienti vs incoscienti, riconosciuti vs sconosciuti, e via discorrendo.

L’impiego di tali dicotomie nell’analisi sociologica è corretto solo se ognuna di esse viene presasingolarmente e il suo utilizzo rimane limitato al contesto dell’originale approccio teorico all’inter-no del quale le distinzioni vengono giustificate e sono stati esplicitati i criteri secondo i quali talid i fferenziazioni vengono compiute. Viceversa, obietta Gallino, nessuna di queste dicotomie è tra -ducibile in indicatori empirici. Detto altrimenti, per questo autore è impossibile stabilire quali sonoi segni osservabili del comportamento di uno o più soggetti in presenza dei quali sia corretto inferi-re che un certo bisogno è “reale” o “fittizio”, “essenziale” o “inessenziale”. La loro stessa definizio-ne dall’esterno «nega al soggetto il diritto di pronunciarsi in merito, giacché i bisogni reali edessenziali sono collocati di norma tra i bisogni non riconosciuti (dal soggetto) [ad esempio per noiinfermieri il cosiddetto “bisogno cardiocircolatorio” di alcune teorie]; i segni occorrenti per decide-re tra i due termini non possono essere quindi forniti dal soggetto, per esempio mediante un’intervi-sta. Ma una volta tolta la parola al soggetto, la stipulazione delle regole di corrispondenza tra segnie concetto (di bisogno reale e non, ecc.) viene lasciata alle pre f e renze, se non all’arbitrio, dell’os -s e rv a t o re, oppure ad un’inesistente teoria generale dei bisogni. Il primo caso è di gran lunga il piùcomune - ciò che spiega l’inconsistenza delle poche ricerche sui bisogni sinora condotte7 4».

In altre parole, la pretesa di generalizzabilità e di intersoggettività dei risultati delle teorie cheadottano una matrice concettuale legata ai bisogni dell’uomo non può che essere immancabilmen-te limitata alla sua stessa struttura concettuale e soprattutto alle sue regole metodologiche.Viceversa, conclude Gallino, in assenza dell’una e delle altre, regna l’aleatorietà dell’osservatore(o del politico, o dell’intellettuale, o del moralista) libero di decidere attraverso un’impostazioneche rischia di essere fortemente ideologica, quali sono i bisogni che la persona r i c o n o s c e re b b ecome “reali”, “primari”, “essenziali” ecc. se ne avesse - ma non ha - coscienza.

Il bisogno come chiave di lettura della sociologia sanitariaAnche per il sociologo Pierpaolo Donati il termine bisogno è generico e nello stesso tempo di dif-ficile concettualizzazione. Egli ricorda come, inizialmente utilizzato in campo bio-fisiologico,venne poi successivamente utilizzato con un significato più ampio negli studi antropologici(soprattutto nelle teorie organiche della cultura) come sinonimo di “esigenza funzionale” necessa-ria per la normale attività di un sistema vivente. Le teorie psicologiche hanno infine contribuito adestendere ulteriormente il significato del termine bisogno ponendo attenzione al carattere relazio-nale e simbolico del termine. «Nella sua formulazione più radicale - afferma Donati in passaggioper noi importante - l’approccio sociologico evidenzia il fatto che non esistono “bisogni in sé eper sé”, ma piuttosto esistono rapporti sociali che producono bisogni, ne determinano il valore(simbolico e materiale) e i modi di soddisfarli 7 5».

Poiché la salute è senza dubbio un “bisogno fondamentale” dell’individuo e della collettività,ogni società, in ogni tempo ed in ogni latitudine, ha dovuto sviluppare risposte culturali per cerca-re di dare significato alle esperienze dolorose come la malattia, la vecchiaia e la morte e crearestrutture sociali e istituzionali in grado di contenere gli effetti negativi che queste esperienzehanno per la società. La sociologia sanitaria è nata originariamente come quella parte della socio-logia che si occupava (dal punto di vista sociologico) della organizzazione sociale, amministrati-va, politica ed economica del sistema sanitario e in particolare dei servizi erogati da questo al finedi rispondere ai bisogni della popolazione.

Con l’evoluzione dei nuovi significati attribuiti ai concetti di salute e malattia è andata sempre più

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rimarcandosi una separazione di ruolo e compiti tra la sociologia della m e d i c i n a da un lato e la sociolo-gia della s a l u t e dall’altro. Per Donati, categoricamente, la sociologia sanitaria ha come punto di parten-za «la negazione o almeno la rottura dell’equazione, data per scontata: salute uguale medicina7 6». Essanon ha per oggetto di studio la malattia e il modo di curarla o prevenirla in un dato contesto e non sipone quindi nell’ottica del servizio prestato dall’istituto sanitario per valutarne efficacia ed eff i c i e n z acome invece fa la sociologia della medicina. La sociologia della salute, piuttosto, studia i bisogni socia -li di una popolazione, la cui insoddisfazione è fonte di patologie sociali e di cattiva salute individuale ec o l l e t t i v a. Gli obiettivi di questa disciplina sono quindi ambiziosi: la prevenzione sociale, l’eliminazio-ne delle emarginazioni, il coordinamento e l’integrazione degli interventi e dei servizi sociali, ecc.Rispetto alla sociologia della medicina, «la sociologia della salute intende essere più comprensiva, eper far questo si pone da un altro punto di vista prospettico: quello di individuare e realizzare la salutedella popolazione come obiettivo generale e come realtà integrale (ossia per tutti i membri della comu-nità e per ciascun componente individuato), a part i re dai bisogni stessi della popolazione7 7» .

Per questa branca della sociologia, il tema della salute va affrontato in modo ampio, superando iconfini della sociologia della medicina per comprendere l’analisi del “mondo vitale” degli indivi-dui e del loro nucleo familiare e sociale, la dove quotidianamente - attraverso le loro necessità,aspirazioni e relazioni primarie - nascono e vengono soddisfatti i bisogni e vengono poste le basiper una buona o mediocre salute. È quindi evidente che il tema dei bisogni riveste una primariaimportanza per il sociologo sanitario. Aquesto proposito è interessante osservare che Donati affer-ma che spesso i bisogni vengono intesi dalle persone come “problemi” irrisolti o emergenti. Tuttociò che costituisce problema (dalla mancanza di un lavoro alla mancanza di risorse per assistereuna malato a domicilio) è considerato direttamente o indirettamente un bisogno.

Per collocare ancor meglio l’importante apporto di Donati, riportiamo una tabella riassuntivanella quale l’autore sintetizza i principali paradigmi, espliciti o impliciti, che, a suo modo di vede-re hanno segnato la riflessione attorno ai bisogni dell’uomo rapportandoli alle relative definizionidi “salute” cui sembrano riferirsi: (vedi Tabella XI). In questa comparazione analitica possiamofacilmente ritrovare le varie correnti della “Scuola dei bisogni” dell’infermieristica.

Notiamo che per l’approccio o rg a n i c i s t a della medicina il bisogno è un disturbo, un deficit,un’alterazione del normale funzionamento dell’organismo, considerato dal punto di vista fisico(in quanto singolo e collettività). Tale disturbo provoca uno squilibrio bio-organico che può essereriferito a cause di ordine individuale e/o ambientale (a seconda della focalizzazione sulle prime osulle seconde abbiamo la distinzione dell’orientamento “individuale” o “epidemiologico”, senzatuttavia modificarne gli assunti teorici fondamentali). La salute sta nel riportare l’organismo (indi-viduo o ambiente) al suo perfetto funzionamento, tramite meccanismi di controllo che agisconosui fattori di disturbo e/o di deficit.

Secondo Donati, l’approccio f u n z i o n a l i s t a della sociologia si presentò all’inizio come una sempliceestensione del precedente. È la “medicina sociale” che diventa paradigma sociologico, in quanto conil significato del termine organismo (individuale o ambientale) acquisisce una valenza più ampia,intendendo con esso l’organismo umano o societario, caratterizzato da una molteplicità di variabiliche vanno dal livello biologico a quello psicologico e socio-culturale. Ma la filosofia di fondo, aff e r-ma l’autore, non è diversa da quello medico organicista. La salute, a livello dell’azione sociale, consi-ste nell’integrazione perfetta dell’individuo nel suo ruolo sociale (livello micro), mentre a livello dellasociologia di sistema, o “epidemiologia sociale”, essa corrisponde nell’assicurare alle varie parti delsistema ambiente un corretto svolgimento delle loro funzioni, tramite adeguati meccanismi di adatta-mento e di lavoro organico per il raggiungimento degli scopi collettivi (livello macro).

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Per quanto riguarda l’approccio semiologico ci interessa solo riportare che pone il bisogno entrol’analisi delle strutture inconsce che regolano la produzione sociale delle “differenze”. In quest’ot-tica non è il bisogno che determina il consumo, o l’azione volta al suo soddisfacimento secondo ilclassico schema finalistico a sfondo psicologico, ma al contrario è l’orientamento di consumodella società (la collettività intesa come rappresentazione simbolica collettiva) con le sue strut-ture e funzioni manifeste e soprattutto latenti, che determina i bisogni. In tal modo il bisognonon è più definito in funzione del bene che lo possa appagare (ad esempio le vacanze per ilbisogno di riposare), ma come segno distintivo di una differenziazione o stratificazione sociale(le vacanze ad Acapulco). La tesi, particolarmente evidente nella società consumistica attuale, èche gli oggetti non sono più legati ad una funzione o a un bisogno d e f i n i t i, ma «rispondono atutt’altra cosa, cioè sia alla logica sociale che a quella del desiderio, a cui servono da campomobile e inconscio di significazione».

Mentre si fa la spesa al supermercato si formano gusti, si selezionano bisogni, si sceglie, sifanno discorsi, si formano pensieri, si strutturano atteggiamenti e comportamenti, si danno relazio-ni di scambio non solo finanziario: chi vi si immerge trova immagine e identità negli oggetti cheacquista, in quanto non comperiamo cose insignificanti, comperiamo cose che ci riguardano e ciinteressano. È quindi un problema di cultura e di civiltà che nella costruzione identitaria vede con-frontarsi il consumo da un lato e la prossimità dall’altro. Come afferma il sociologo Bonandrini,infatti, «il consumo costruisce le identità per differenza mentre la solidarietà costruisce l’identitàper cooperazione. [Queste ultime] sono identità meno forti, ma sono identità interattive79».

Il contesto culturale della “scuola dei bisogni”

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Tab. XI. I principali paradigmi attorno alla concezione del binomio bisogno-salute per Pierpaolo Donati78.

Paradigmi Definizione del bisogno Definizione della salute

1) Medico organicista, Squilibrio bio-organico (fisico) Perfetto funzionamentoad orientamento: dell’individuo. dell’organismo individuale. Individuale; Alterazione dell’equilibrio bio- Perfetto controllo degli squilibriEpidemiologico; fisiologico dell’ambiente. biologici ambientali.

2) Sociologico funzionalista Carenza di un organismo bio- Perfetta integrazione dell’individuo ad orientamento: psico-socio-culturale nel ruolo sociale al quale è statoIndividuale; in un ruolo sociale. socializzato. Sistemico; Squilibri dell’ambiente Perfetto controllo delle fonti

(complesso e non solo biologico). di devianza (patologiche e sociali).

3) Marxista: Mancanza di risorse (consumi) Piena accessibilità ai consumi purché per l’autorealizzazione “non alienati” (cioè socializzati).del singolo sociale.

4) Semiologico: Esigenza di una distinzione sociale. Per il sistema: raggiunta distinzione sociale significante. Per il soggetto umano: pienezza di vita in quanto regolata dallo scambio simbolico.

5) Fenomenologico: Necessità (mancanza) di una Pienezza di senso nei rapporticomunicazione vitale. intersoggettivi quotidiani.

In conclusione, per l’approccio semiologico il bisogno non va interpretato come il rapporto diun individuo ad un oggetto, ma come l’elemento di un sistema simbolico collettivo di distinzionesociale cui è sottesa una logica differente da quella finalistica: la logica dei segni e dei desideriche restano inappagati. Per Donati è difficile dire cosa sia “salute” per questo paradigma: «un sim-bolo comunicativo che sta a significare un rapporto in cui non vi è più alcuna manipolazione, maun illimitato scambio aperto, cioè fondato non sulle cose (reificato) ma sulla prodigalità, qualcosache richiama molto da vicino le virtù della società conviviale di Ivan Illich80».

Nell’ottica dell’approccio fenomenologico il bisogno viene invece definito come una necessità,una mancanza di comunicazione piena, soprattutto a livello intersoggettivo, ma anche strutturale.In questa prospettiva, secondo Donati81, il bisogno viene interpretato in relazione alla consapevo-lezza soggettiva di ciò che manca al soggetto per esperire sensatamente il modo in cui vive, enfa-tizzando parimenti le differenze culturali nell’esprimere tali stati di bisogno. Secondo questo para-digma, «particolare attenzione viene posta al modo di manifestare i “sintomi”, di malattia, di sof-ferenza, di pena o dolore, di disagio o malessere, e al modo in cui l’alter ego li interpreta e virisponde. La salute viene definita in rapporto alla pienezza di senso nei rapporti umani quotidiani,cioè in quel “mondo della vita” (Lebenswelt), costituito da rapporti di intimità, familiarità, paren-tela, amicizia, vicinato in cui il soggetto è immerso82». È quindi chiaro come proprio da questoapproccio sia nata la critica verso le “istituzioni totali” come ad esempio gli ospedali (ma anchecarceri, scuole, ecc.) i quali, spersonalizzando i rapporti umani, stravolgono i bisogni e alienanoancor più la persona anziché curarla e guarirla.

A questo punto Donati propone alcune preziosissime considerazioni di ordine sintetico sullarelazione tra salute e bisogni. Innanzitutto per Donati, il bisogno, come la salute, è in primo luogoun processo re l a z i o n a l e e s i m b o l i c o le cui varie componenti (biologiche, psicologiche, sociali,economiche, culturali, morali) sono distinguibili solo analiticamente e non empiricamente. I rap-porti tra i bisogni e la salute del singolo e quelli del sistema sociale sono mediati da variabili inter-venienti quali la classe sociale, l’area territoriale, il “mondo vitale”, ecc., che rendono complesso eproblematico il passaggio da un livello all’altro nel modo stesso con cui i bisogni sono interpretatie rilevati al fine di “produrre salute”83.

Lo studio di Donati, che si dichiara comunque pessimista riguardo alla possibilità di addiveniread una concreta “teoria generale dei bisogni” che sia utile per la politica sociale di una comunità, èpurtuttavia estremamente interessante se riferito ad un ristretto settore della salute - come la presain carico assistenziale dei pazienti - e se utilizzato sotto il profilo metodologico. Infatti egli ritieneche non si possa rinunciare ad una concezione finalistica della salute (o della malattia) come capa-cità o incapacità del soggetto all’auto-compimento e alla realizzazione delle mete personali. In taleprospettiva tornano utili i paradigmi appena esposti, come avvertimento e consapevolezza dellacomplessità, dei limiti e dei pericoli inerenti ad una trattazione ingenua, distorta o alienata di que-sta tematica. Per Donati, infatti, “rilevare i bisogni” significa operazionalizzarne la definizione,ossia non solo esplicitarli, ma anche renderli quantificabili. Questa operazione è legittima maanche pericolosa in quanto: a) occorre v a l u t a re quale sia la misura (valida ed attendibile) cheesprime il bisogno ; e poi in quanto b) occorre operare necessariamente una riduzione della com -plessità del bisogno, che viene giocoforza quantificato in certe dimensioni analitiche, mai globalie soprattutto non-interattive.

Una rilevazione “non riduttiva”, o per meglio dire, una rilevazione con gradi decrescenti diriduttività del bisogno - esattamente quella che dovrebbe coinvolgere l’infermiere - presupporreb -be la capacità da parte del rilevatore di elaborare un approccio atto a mantenere la complessità

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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ed il carattere interattivo delle varie dimensioni del bisogno. Ma questo, come è noto, è il campodella ricerca m e t o d o l o g i c a a ffrontando il quale dovremmo sempre chiederci qual è il grado diriduzione che operiamo e quali sono le relative condizioni ed i margini di errore che riteniamoaccettabili (in altre parole quale “accettabilità condizionale” fissiamo) per affermare che una certarilevazione dei bisogni può essere utilizzata.

Donati sottolinea vivamente che tali riduzioni celano sempre delle valutazioni, ossia delle preci-se scelte di valore che sono innanzitutto etiche e politiche. Aquesto proposito, anche per la nostrasuccessiva riflessione, è bene evidenziare il fatto che il bisogno: (a) è un giudizio normativo cheun “terzo” fa su un individuo o un gruppo sociale nel suo rapporto con i servizi, (b) circa il suo“stato di salute” che (c) dovrebbe essere “migliorato”84.

Chi è colui che compie tale valutazione? Da dove gli viene conferita la legittimità di tale compito?Il bisogno che viene rilevato è un bisogno in sé e per sé, oppure, come il più delle volte capita èsemplicemente il riscontro di un bisogno che si era già individuato a priori, perché definito daaspettative già strutturate, da esperienze che ormai si considerano ripetitive e dunque consolidate?E ancora - entrando sempre di più nel merito delle scelte metodologiche - quali valutazioni più omeno esplicite sono già contenute nell’attribuire ad un dato fattore la capacità di esprimere (omeno) uno stato di salute (o di malattia)? E quali altri sono segnali di miglioramento (o peggiora-mento) dello stato di salute?

Concludendo, non possiamo che condividere l’affermazione di Donati quando dice che si trattadi interrogativi cruciali che debbono essere sviscerati e risolti all’interno e dalla specifica pro -spettiva di ogni disciplina scientifica che voglia occuparsi della salute. Due, infatti, sono i rischiche si possono correre se non si intraprende quest’opera di “teorizzazione”: da un lato la caduta incieco “tecnicismo pragmatico”, dall’altra, viceversa, la non meno pericolosa deriva in dispersiveproclamazioni di principio, vane quanto inefficaci ed innocue.

Il contesto culturale della “scuola dei bisogni”

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Capitolo quarto

LA STRUTTURA CONCETTUALE DELLA TEORIA DEI BISOGNI

DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA

N ei precedenti capitoli, partendo da molto lontano - dalla storia, dalla filosofia, dalle scienzeumane, dall’evoluzione dell’assistenza - e senza dare nulla per scontato, abbiamo evidenziatoanzitutto il problema disciplinare dell’infermieristica. Con ciò intendiamo, ovviamente, i lProblema cioè quella domanda, quel rompicapo teorico o pratico che motiva il fatto che un grup-po di persone si riunisca, studi, teorizzi, faccia ricerche, esperimenti e insomma dedichi l’interavita alla sua risoluzione. Sono i problemi, dice Popper, a far muovere la scienza; e sui problemi sicostruiscono le conoscenze e i metodi della scienza. Siccome poi i problemi che l’intelletto umanosi è posto nel tempo sono moltissimi, anche le tipologie dei saperi costruiti man mano per risolver-li sono di conseguenza molteplici ed afferenti a molte e diverse “discipline” - scientifiche o meno,terrebbe a precisare Feyerabend.

Il problema dell’infermieristica corrisponde alla domanda che cos’è l’assistenza infermieristica?L e i n i n g e r, lo abbiamo visto, afferma che di tutti i problemi considerati dall’uomo dall’iniziodell’umanità l’a s s i s t e n z a è - a suo parere - il problema meno studiato di tutti. In quest’ultimo secolosi sono tuttavia moltiplicate le teorie che cercano di descriverne le variabili, di spiegarle e di predirle.In Italia, per particolari motivi storico-culturali, il programma di ricerca più conosciuto ed utilizzatoè senza dubbio la cosiddetta “Scuola dei bisogni” che riunisce quelle differenti serie di teorie che inun certo qual modo pongono l’assistenza infermieristica in relazione con i b i s o g n i dell’assistito.

Questa “Scuola” riconosce come capofila l’americana Virgina Henderson, ma le sue radici e lasua filosofia sono profondamente europee ed antiche di secoli. In un apposito paragrafo abbiamostudiato, benché succintamente, tutte le principali teorie della “Scuola dei bisogni” che annoveranelle sue fila nomi ormai conosciutissimi anche in Italia. Senza troppa sorpresa, abbiamo scopertoche queste teorie, sostanzialmente, ripropongono nel nostro campo di studio le posizioni e la strut-tura epistemologica delle varie correnti di pensiero di tutte le discipline umanistiche che - prima dinoi - hanno cercato di leggere il rispettivo campo di studio attraverso il concetto di bisogno: lasociologia, l’economia politica, l’antropologia, la psicologia, ecc.

Pur con le precauzioni del caso, abbiamo così proposto di tipizzare le teorie infermieristichestudiate in tre grandi categorie, proprio in funzione di queste loro impostazioni di fondo e leabbiamo chiamate teorie “organizzative”, “naturalistiche” ed “ermeneutiche”. Un’avvertenza; lacollocazione di questo o quell’autore in questa o quella categoria è una cosa di cui non ci siamodati estrema cura - proprio per il fatto di non essere partiti da una presentazione antologicaesaustiva delle singole teorie. La discussione al proposito è aperta e sarà certamente da seguirecon attenzione - senza con ciò, a nostro avviso, dover mettere in questione l’utilità di una taleclassificazione che permette di cogliere per ciascuna categoria gli indubbi pregi e qualcherischioso difetto. I pregi sono ovvi e non staremo a riprenderli: il radicamento nel contesto e lafacile implementabilità per le teorie organizzative, il rigore del metodo scientifico per le teorienaturalistiche e l’approccio “umanistico” e “personalistico” delle teorie ermeneutiche. I rischi,o limiti di ciascuna categoria, sono rispettivamente la poca scientificità delle teorie org a n i z z a-tive, il r i d u z i o n i s m o - ossia la riduzione dell’assistenza ai dati oggettivi, od oggettivabili, deibisogni - per le teorie naturalistiche ed infine il re l a t i v i s m o per le teorie ermeneutiche - cioè ildissolvimento della “anormalità” della diade bisogno-risposta nell’infinita alterità delle suepossibili manifestazioni.

Ma abbiamo anche potuto constatare una cosa curiosa. Ognuna di queste classi sembra consape-vole di non riuscire a includere in sé stessa l’intera complessità dell’assistenza, vuoi attraverso lerispettive parole-chiave della sistematizzazione delle competenze delle prime, del metodo scienti-fico per le seconde o dell’approccio ermeneutico per le terze. Tutte includono segnali di “trasver-salità”, di promiscuità con le altre impostazioni. La spiegazione di questo dato di fatto, a nostroavviso, può essere ricercata nella più o meno debole teorizzazione da esse operata proprio sul con-cetto più importante, ossia quello di bisogno. D’altro canto la difficoltà di questo compito - loabbiamo visto studiando le altre discipline umanistiche - è enorme. I bisogni dell’uomo, presenta -no una irrisolvibile ambiguità di fondo che non può essere sciolta se non attraverso una loro defi -nizione a priori, prima di carattere filosofico, poi scientifico, ma poi ancora successivamente ri-definita e ri-creata nella prassi di ogni giorno.

Siamo così arrivati al cuore del nostro lavoro che, proseguendo le intuizioni di Henderson,vuole aprire un confronto su una più solida e consona teorizzazione del bisogno di assistenzainfermieristica. Definiamo, infatti, l’assistenza infermieristica come phrónesis, come quella sag -gezza pratica espressa dal singolo infermiere che comprende - interpreta - il bisogno assistenzialedel paziente e propone una risposta personalizzata. Come? Non solo con la sua esperienza e com-petenza tecnica, non solo con la sua conoscenza scientifica, non solo con la sua arte espressa inuno “stile” personale, ma con l’integrazione di tutti questi elementi nella situazionalità della sin -gola relazione infermiere-paziente.

Ecco perché la teoria infermieristica che presentiamo si caratterizza come costruttivista: perchépur utilizzando il piano della conoscenza scientifica, essa ri-costruisce ogni volta la situazioneassistenziale. L’infermiere diviene così in grado di comprendere il bisogno dell’altro riconoscendoogni fatto caso per caso alla luce delle evidenze già possedute ed in virtù di precedenti esperienzepersonali. Solo in seguito a questa analisi - cioè per via di successive precomprensioni (vorver -s t ä n d n i s, direbbe Gadamer) fatte di sicurezze scientifiche intrecciate con i propri pregiudizi(vorurteile) - potrà cercare di sintetizzare la complessità del paziente in una diagnosi infermieristi -ca, cosciente però che essa stessa è un’approssimazione alla realtà dell’altro, e non la sua identi -ficazione. Il problema della generalizzabilità della diagnosi, infatti, è un problema nostro non delpaziente. Di conseguenza, anche la soluzione del bisogno proposta dall’infermiere - la cosiddettafase prescrittiva del processo assistenziale - emergerà dalla ponderazione di ogni possibile risorsaattivabile - prima fra tutte, ma non per questo unica ed esclusiva, la sua “competenza tecnica”.Ecco perché concluderemo dicendo che l’assistenza infermieristica è, fondamentalmente, una pra-tica morale: perché l’utilizzo della prescrittività scientifica avrà significato solamente se usata nelrispetto dell’alterità dell’altrui percezione della propria diade bisogno-risposta, la comprensionedella quale non avviene in assenza di una costante apertura dell’infermiere all’altro.

Questo capitolo si compone dunque di tre paragrafi. Il primo, com’è ovvio, tratterà del nucleo dellateoria. Il secondo si soffermerà sul concetto più importante e più problematico del nucleo: il bisognodi assistenza infermieristica. Rifletteremo in un’ottica costruttivista sulla sua intrinseca ambiguità,evidenziandone i tratti fondamentali e le relazioni che lo legano agli altri concetti fondamentali del-l’assistenza infermieristica (l’uomo, la salute e l’ambiente). Infine, il terzo paragrafo introdurrà unariflessione etica sui principi fondamentali dell’assistenza letti alla luce di questa teoria.

4.1 Il nucleo della TeoriaL’hard core della teoria dei bisogni può essere rappresentato con uno schema a tre piani - o livelli- sovrapposti (vedi Tabella XII)1. Il primo livello è detto della “competenza personale” in quantoillustra la diade bisogno-risposta così come percepita, interpretata e soddisfatta dalla persona stes-sa che ne è portatrice. Essa, avendo più o meno coscienza di un bisogno, vi risponde secondomodalità innate o apprese e fondamentalmente decise attraverso una personale rilettura della

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c u ltura di appartenenza. Il secondo livello definisce la “competenza etno-assistenziale” e descrivequelle situazioni nelle quali, per un qualsiasi motivo, il bisogno della persona non possa essere daquesta soddisfatto autonomamente o adeguatamente. Per la soddisfazione di questo bisogno ognicultura elabora un sistema assistenziale che prescrive le corrette modalità per la sua risoluzione -l’esempio tipico sono, naturalmente, le cure materne, la ritualizzazione del parto o dell’evento lut-tuoso. Il terzo livello, invece, mostra come, in particolari condizioni, alcuni “bisogni di assistenza”possono trovare soluzione attraverso competenze specialistiche, appunto di tipo “infermieristico”.

4.1.1 Il primo livello: il “bisogno” e la competenza personaleIl primo livello è costituito dalla relazione tra il bisogno e la risposta dell’uomo attraverso azionidi autoassistenza. Ormai è chiaro che la tipologia di risposta al bisogno è tipicamente spontanea,altre volte innata ma sempre influenzata dalla cultura di appartenenza, tanto da formare spesso unadiade tra il bisogno e la sua risoluzione talmente interconnessa da essere spesso difficilmente per-cepita dalla stessa persona.

La struttura concettuale

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Tab. XII. Il nucleo della Teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica.

C’è un piccolo e semplice gioco che - da qualche anno - utilizziamo per illustrare agli studentiquesto primo livello. Si tratta di far descrivere a qualcuno le azioni compiute dalla notte preceden-te sino al momento della lezione (con le opportune e del tutto legittime aree di autocensura...).Alla lavagna, sintetizzate, compaiono così una successione di piccole e grandi azioni dietro lequali è facilmente identificabile il bisogno che ha mosso la persona: dormire, mangiare, bere,lavarsi, parlare, studiare, mingere, evacuare, muoversi, divertirsi, ecc.

Una cosa, immediata, salta agli occhi degli studenti: queste azioni soddisfano delle necessità, omeglio dei bisogni particolari e tuttavia universali, sono propri di tutti gli esseri umani, ma il lorocomplesso è - se spingiamo l’analisi nei dettagli - caratteristico proprio di quella persona e non dialtre. Come mai? La risposta l’abbiamo vista nei primi paragrafi del terzo capitolo, quando abbia-mo studiato che l’uomo è un essere-nel-bisogno, un essere che ha coscienza dei propri bisogni piùelementari. Questi nell’uomo, sono determinati fisiologicamente da processi di natura biologicacome negli animali, ma si rivestono immediatamente di significati determinati da processi di con-dizionamento ambientale. In tal modo la diade bisogno-risposta anche più “fisiologica” o “fonda-mentale”, come già intuito dalla Henderson, riflette tutte le componenti dell’essere umano, la suafisicità, la sua personalità e la sua culturalità.

Una variante dell’esercizio invita gli studenti a scrivere dettagliatamente, su un foglietto anoni-mo, tutte le azioni compiute dalla sera alla mattina di un dato giorno. Nella lezione successiva, acaso, si leggono in aula alcuni di questi racconti. Vengono enucleati i bisogni che hanno motivatole azioni e si mettono in evidenzia le differenze e le individualità - a volte delle vere e propriecuriosità - di un racconto piuttosto che di un altro. In questo modo risulta estremamente evidenteche la diade bisogno-risposta ha una caratteristica di universalità (tutti gli esseri umani manifesta-no le stesse categorie di bisogno, tutti necessitano, a livello biofisiologico, delle stesse condizionie risorse per essere soddisfatti) e una di individualità (ogni essere umano interpreta soggettiva-mente, con i criteri della propria cultura e del proprio vissuto esperienziale, i bisogni che avverte edecide autonomamente le azioni di autoassistenza adeguate a sé). Questa variante, per il fatto stes-so di obbligare lo studente a rivelare ad altri le proprie abitudini, i propri ritmi naturali, le modalitàdel proprio self-care - anche se anonimamente - permette di trarre alcune riflessioni anche di tipoemotivo: che sentimenti si provano nel dover comunicare ad altri le abitudini più intime, le azionidi autoassistenza più corporali spesso considerate argomenti scabrosi o tabù quali ad esempioquelle riguardanti l’igiene intima, l’evacuazione, la minzione, ecc.?

Ma riprendiamo il filo dell’universalità e della individualità della diade bisogno-risposta. Perquanto riguarda l’universalità di questi bisogni, possiamo senz’altro ricondurli a quello che gliantropologi chiamano il bisogno primordiale o di sopravvivenza. Come è noto, questa tipologia dibisogni acquista nell’uomo un significato molto più esteso che nel corrispettivo mondo animale.Vi è per entrambi la comune sfera della sussistenza fisica. Se non mangiamo, beviamo, dormiamo,respiriamo, mingiamo, defechiamo, ecc. ne va della nostra vita. Il bisogno è quindi determinato daun processo bio-fisiologico che da un lato determina l’insorgenza stessa del bisogno (ad es. deltasso di carbossiemoglobina nel sangue) e dall’altro, con meccanismi di feedback, induce già lapersona alla sua risoluzione (l’attivazione della muscolatura respiratoria). La risposta dell’uomo aisuoi bisogni fondamentali è quindi innanzitutto istintiva e innata. Aquesto livello il bisogno espri -me, come per ogni creatura vivente, il limite invalicabile della nostra corporeità. Ma l’uomo, adifferenza dell’animale, ha una percezione della diade bisogno-risposta di tipo simbolico in quan-to mediata dalla cultura. In questo modo il bisogno si individualizza e, nel suo ciclico, ripetuto,quotidiano - ed anche ineliminabile - manifestarsi, diviene per l’uomo il più piccolo richiamodella sua limitatezza; diviene l’insopprimibile esperienza soggettiva della sua finitudine.

L’azione autoassistenziale in risposta ai propri bisogni assume quindi due distinte ed importan-tissime caratteristiche che occorre imparare a distinguere: la caratteristica di essere “autonoma” e

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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quella di essere percepita come “adeguata a sé” dal soggetto. L’autonomia significa che l’azionedi autoassistenza è stata decisa ed espletata senza dover ricorrere ad altre risorse al di fuori di séstesso. L’adeguatezza è invece la valutazione data dal soggetto riguardo alla pertinenza e alla coe-renza che l’azione di autoassistenza avrà rispetto al bisogno percepito. L’ambiguità delle azioniquotidiane, anche di quelle più banali, è costruita momento per momento nella situazione e nellarelazione con gli altri.

Torniamo quindi per un istante al fatto che tutti i cosiddetti bisogni fondamentali hanno originedai bisogni di “sopravvivenza”. Una semplice indagine etimologica può rivelarci aspetti moltointeressanti di questa categoria di bisogni. Il termine “sopravvivere” deriva dal latino tardosupravvivere, che a sua volta deriva dal latino classico super-vivere e nasce dall’incrocio dei ter-mini sopra e vivere e designa, nel contesto dell’antropologia culturale, la condizione di colui checontinua a vivere nel superamento e nonostante situazioni avverse. A sua volta il termine “vivere”- che nella sua estrema vastità semantica ha delle eloquenti co-influenze con termini quali “vive-ri”, “vitto”, “vivanda” - significa non unicamente la sola “sussistenza” dell’uomo - la sua parteci-pazione a funzioni fisiologiche pure e semplici - ma anche la partecipazione alle funzioni dell’am-biente sociale in cui conduce la propria esistenza, al periodo storico nel quale vive, al tenore ed aimezzi di sussistenza di cui dispone.

Il vivere è dunque sia sussistenza che partecipazione. Mentre scegliamo i vestiti per andare inUniversità noi rispondiamo ad un bisogno fondamentale che non è mai solo di ordine bio-fisiolo-gico. Nell’adeguatezza delle modalità soggettive e culturali con le quali il singolo risponde ai suoiquotidiani e ciclici bisogni, egli comunica, partecipa, relaziona all’altro e si relaziona con l’altro.

Richiamandoci alla secolare riflessione filosofica attorno al tema del bisogno, noi infermieridovremmo leggerlo come la forma più elementare dell’angoscia e del dolore dell’uomo. In questaprospettiva, quanto più il bisogno è elementare, fisiologico, fondamentale per la sopravvivenzadell’individuo, tanto più si ricopre di carica simbolica, in quanto espressione dell’angoscia evocatadalla precarietà e dalla mancanza di cui esso stesso è il più elementare segno. E non è forse in que-sto stesso inevitabile percorso che ciascuno di noi coglie in sé e in chi gli sta accanto, la caducitàdella propria esistenza e anticipa, attraverso le risposte ai propri bisogni, le risposte di senso e disignificato della sua esistenza?2

C’è una famosa storiella zen che esprime bene il significato dell’adeguatezza della risposta aibisogni e della comunicazione del senso del vivere attraverso tale risposta. In questa storia si rac-conta di un vecchio maestro che, sul letto di morte, era attorniato dai suoi discepoli, in fervidaattesa dell’ultima lezione del santo. Questi attendevano la parola chiarificatrice, l’espressione ditutta una vita di ascesi e di ricerca interiore. Con le ultime forze il vecchio chiese di poter assag-giare ancora una volta il suo dolce preferito. Subito i discepoli si affannarono per accontentarlo.Dopo aver mangiato il dolce, il maestro spirò. Le sue ultime parole furono: “Com’era buonaquella torta!”.

Il bisogno e la saluteL’adeguatezza esprime dunque la pertinenza della risposta al bisogno rilevato e la coerenza diquesta risposta con l’insieme della personalità del soggetto. In una parola, l’adeguatezza manifestala relazione della persona con sé stessa, con il proprio corpo, il proprio divenire, il proprio soprav-vivere e le proprie risposte alle domande di senso che - proprio mediante il continuo manifestarsi erisolversi dei bisogni più elementari - essa stessa si pone. Nell’ottica infermieristica, questa condi-zione di adeguatezza interiore nel soddisfacimento dei propri bisogni è riassunta nel significatodel termine - intrinsecamente così sfuggevole - di “salute”. Come già nell’antica Grecia anche nel-l’era tecnologica dovremmo riscoprire la salute come «buona miscellanea, armonia delle compo-nenti fisiche, psichiche e spirituali dell’uomo, come vita biologicamente ed umanamente più

La struttura concettuale

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armonica e completa3». Ma anche la dichiarazione della Seconda conferenza internazionale sullapromozione della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cosiddetta “Carta diOttawa” del 1986, fornisce una definizione della salute che si avvicina a quella dell’armonicoequilibrio dell’esserci e dell’essere-nel-mondo fornita dai filosofi: per questo documentodell’Oms, la salute è la «misura della capacità di un individuo o di un gruppo, da una parte, direalizzare le proprie aspirazioni e di soddisfare i propri bisogni e, dall’altra, di mutare o di adat -tarsi all’ambiente4».

“Vivere è vivere sensatamente”, dice già Aristotele; vivere è cercare un senso alla propria vita. Ela salute è la misura di questa ricerca, sempre evocata dall’acuirsi della percezione dei propri biso-gni nell’esperienza della sofferenza o della malattia. Ecco che per noi infermieri la salute è alloraquell’equilibrio armonico di tutto l’uomo che - attraverso l’autonomia e l’adeguatezza con le qualisoddisfa i propri bisogni - ri-cerca e ri-trova il senso del proprio vivere nonostante le situazioniavverse. Significativamente, potremmo affermare che - mediante la risposta ai bisogni di assisten-za infermieristica - lo scopo ultimo, teleologico, della nostra professione è quello di favorire lasalute della persona umana, e, quindi, in ultima analisi, di favorire la ricerca di questo senso dellavita. Così, riprendendo le intuizioni della Henderson quando dice che una delle funzioni dell’in-fermiera è quella di accompagnare il paziente “verso una morte serena”, noi potremmo dire chel’assistenza mira alla salute dell’altro, la cui espressione più compiuta sta forse nell’accettazionedella propria finitudine5.

4.1.2 Il secondo livello: il “bisogno di assistenza” e la competenza culturaleSbaglia chi crede che il primo livello del nucleo sia esclusivamente determinato dalla soggettualitàdella singola persona. Infatti, tanto l’autonomia quanto l’adeguatezza (o appropriatezza) che carat-terizzano la competenza personale sono precondizionate a livello ambientale. L’etologia e la psi-cologia dell’uomo hanno ormai assodato le gravi conseguenze che possono determinarsi nell’uo-mo a causa della “mancanza di cure” nel periodo infantile. Per renderci conto della matrice mater-na dell’assistenza, basterebbe richiamare alla memoria lo storico lavoro di John Bowlby, o - su unfronte del tutto differente - gli studi del pediatra psicoanalista Donald Winnicott. Quest’ultimoautore, ad esempio, pone come condizioni base dello sviluppo infantile e umano in generale uncontesto che garantisca: A- l’accettazione dell’altro , ossia il suo rispetto, contenimento, ascolto(Winnicot a questo proposito parla di holding); B- la cura , ossia l’accudimento dell’altro, la sua“presa in carico” (handling); e C- la sua introduzione al mondo, la promozione delle sue capacità epotenzialità (object presenting)6. Come definire, altrimenti che in questi termini, l’amore? Comenon renderci conto che quelle che domani saranno l’autonomia e l’adeguatezza con le quali cia-scuno di noi accudirà sé stesso (e poi gli altri), nascono da questo patrimonio di amore e di solida-rietà umana ricevuto gratuitamente durante l’infanzia?

Chiunque voglia assistere, ed a maggior ragione un buon infermiere - lo diciamo a metà frail serio e il faceto - dovrebbe essere “autorealizzato alla Maslow”. Vi ricordate le caratteristi-che della persona autorealizzata?7 Non siamo certo i primi ad affermarlo: un infermiere deveconoscersi profondamente, deve avere un buon rapporto con i propri bisogni e con il proprioself-care per poter aiutare gli altri8. Viceversa, quante volte è capitato a coloro che si occupa-no di formazione di incontrare aspiranti infermieri la cui motivazione profonda era data daldesiderio di d a re agli altri quello che l’infanzia aveva negato loro? Che fatica, allora, farnascere in questi studenti quella sicurezza di sé, quella maturità e quell’equilibrio interioreche - permettendo la distinzione dei bisogni dell’altro dai n o s t r i bisogni - è il presuppostominimo alla cura degli altri.

Ma torniamo al secondo livello del nucleo: cosa significa dire che la competenza personale èprecondizionata dall’ambiente, e soprattutto dall’ambiente culturale della persona? Significa

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ammettere che l’assistenza, a qualsiasi livello del nucleo, non è innata, ma è ri-costruita di volta involta. Infatti, essa è percepita dai protagonisti in virtù degli schemi concettuali - delle reti di canto,direbbe Mantovani o delle cornici culturali direbbe Popper - con le quali essi interpretano larealtà; ma questo significa proprio ammettere che non esiste un’applicazione immediata dei pre-cetti culturali etnoassistenziali, ma una loro re-interpretazione dei singoli alla luce della situazione(cioè della realtà storico-temporale locale) nella quale si è inseriti. Come abbiamo visto, per Altanil bisogno fondamentale dell’uomo è quello del “sapere”: del sapere non solo cosa mangiare, bere,ecc., ma anche del sapere il come e perché delle cose. Ogni cultura, in quest’ottica, esprime uninsieme strutturato e più o meno coerente di risposte a questo bisogno di sapere dell’uomo.

Per ciascuno di noi, tramite il processo di inculturazione vissuto nell’infanzia, la soddisfazionedel bisogno contribuisce in maniera determinante alla percezione identitaria del sé (appunto per ilfatto di avere e di essere un corpo da nutrire, da lavare, da vestire, da relazionare, ecc.). Per Perotticome per Mantovani, lo abbiamo visto, questa non è che una delle funzioni principali della cultu-ra. Non si creda dunque che l’identità psichica dell’individuo sfugga al giogo culturale del propriotempo: anch’essa può essere interpretata attraverso l’influenza culturale nella risposta ai bisognifondamentali dell’individuo9.

Quanti significati diversi può avere l’azione umana del lavarsi? Essa risponde ad un bisognodell’uomo che non è sempre e solamente quello dell’igiene fisica. Nella nostra stessa cultura essopuò essere parte di un rito di purificazione (lo stesso battesimo o la lavanda dei piedi del giovedìsanto), di benedizione o propiziatico (l’aspersione della folla, la piscina di Lourdes), di protezione(chi si ricorda l’interdetto all’acqua per le donne mestruate?) oppure di aggregazione sociale (ilbagno nelle fontane in caso di importanti vittorie della squadra del cuore), o infine semplicementeuna preparazione (chi andrebbe ad un appuntamento galante senza prima essersi opportunamenteinfiocchettato?).

Aquesto punto è estremamente interessante notare come le religioni di tutto il mondo si radichi-no spontaneamente nella ritualizzazione della diade tra bisogni di sopravvivenza e risposta assi-stenziale personale o collettiva. Potremmo riferirci quindi ai sacramenti della Chiesa cattolica, alleprescrizioni liturgiche del Corano o alle pratiche di meditazione orientali che si attuano attraversoil controllo del ritmo del respiro. Il significato spirituale e religioso di questi rituali si inscrivenella dinamica universale dei bisogni più quotidiani della persona umana.

Alla luce di tutto questo occorre dire che è impossibile separare lo studio dei due primi livellidel nucleo. Essi si influenzano reciprocamente in quanto il secondo influenza il primo, ma è daquesti vissuto, reinterpretato quando non addirittura modificato - generando significati spesso nonunivoci. Una possibilità davvero preziosa per studiare l’ambiguità intrinseca della situazione assi-stenziale è offerta dalla “teoria dell’azione situata”. Secondo questa teoria - sviluppata tra gli altrida Mantovani nel campo della psicologia degli atteggiamenti1 0 - l’origine dell’ambiguità dellesituazioni quotidiane (come vediamo nella Tabella XIII) è data dalla interazione tra l’attore dell’a-zione (A), l’ambiente nel quale è costantemente inserito (E) e nell’incontro (*) tra interessi in(A) ed opportunità in (E). L’incontro tra i molteplici e mutevoli interessi dell’attore-paziente (nonnecessariamente coerenti né ordinati in una scala prioritaria stabile) con le altrettanto mutevoli emolteplici opportunità offerte dall’ambiente - ad esempio la stessa presenza o assenza di colui cheassiste - determinano una interazione che è co-costruzione di entrambi: attore ed ambiente, pazien-te ed assistente.

La percezione della diade bisogni-risposta tanto al primo quanto al secondo livello del nucleo èfrutto allora di una costruzione reciproca tra attore-paziente e ambiente-contesto assistenziale; infatti,le opportunità presenti e latenti nell’ambiente sono interpre t a t e nella misura in cui nell’attore-paziente è presente l’interesse corrispondente, che a sua volta viene evidenziato e reso prioritariorispetto agli altri per effetto della presenza nella situazione delle opportunità che gli corrispondono.

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Il bisogno di assistenza, insomma, è un “fatto relazionale” tra persone e tra queste ed il proprioambiente; come ad esempio per quei pazienti che “reprimono” la manifestazione esplicita di unbisogno percepito (una domanda sull’evoluzione della malattia, un consiglio su un presidio sanita-rio o una dieta, o ancora la preoccupazione per i disagi di una stomia) perché sanno che al turnosuccessivo sarà di servizio “quella certa infermiera”, convinti che “solo lei potrà capirli…”.

In questa co-costruzione estremamente mobile sta la radice dell’ambiguità delle situazioni quo -tidiane dell’assistenza che sono quindi aperte a letture diverse a seconda delle circostanze e delledisposizioni dei diversi attori che si muovono in esse. L’influenza culturale nell’interpretazione diquesta ambiguità è evidente. Essa agisce, come hanno ben mostrato gli studi di antropologia medi-ca, su due fronti. Da un lato la prescrizione procedurale tecnica (ad esempio, riferendoci di nuovoalla maternità, come si deve partorire, come si deve svezzare un bambino, come lo si lava, comelo si veste, ecc.) cioè quello che Mantovani chiama un set di “artefatti”, di mezzi orientati ad unfine. E dall’altro lato, la cultura agisce attraverso l’elaborazione di regole morali che spiegano,più o meno coerentemente con l’insieme, il perché sia buono e giusto comportarsi proprio in queldato modo, manifestando così i principi e i valori pregnanti per quella cultura. Il circolo può dun-que concludersi: i principi danno un significato agli artefatti, che dal canto loro rendono operantinel quotidiano gli stessi principi (vedi Tabella XIV).

In questa chiarificazione delle situazioni ambigue, possiamo rileggere tutte le funzioni della culturache abbiamo visto nel terzo capitolo anche nel campo della risposta ai bisogni assistenziali. Infatti, lacultura: A- permette la percezione e la risoluzione dei bisogni assistenziali da parte tanto della compe-tenza autoassistenziale del singolo quanto di quella etnoassistenziale dei suoi vicini (funzione dim e d i a z i o n e); B- consente che attraverso la risoluzione dei bisogni, ad entrambi i livelli, vi possa esse-re c o m u n i c a z i o n e, cioè p a rtecipazione di significati condivisi tra i partecipanti la relazione assisten -z i a l e (funzione di produzione di senso); e infine C- rafforza l’identità dei part e c i p a n t i grazie alla con-cretizzazione dei principi valoriali che i protagonisti della relazione, nella co-costruzione della situa-zione assistenziale, hanno reso nuovamente operanti (funzione di costruzione di una cornice morale) .

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Tab. XIII. L’origine dell’ambiguità delle situazioni quotidiane nell’interazione tra (A) attore - p a z i e n t e ;(E) ambiente e (*) incontro tra interessi in A ed opportunità in E.

Tratto da: Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri e incontrimulticulturali, Giunti, Firenze, 1998, p. 201.

Il caso di un giovane paziente africano può esserci d’aiuto per cogliere gli aspetti funzionalidella cultura nella situazione assistenziale. Questo paziente era ricoverato in un’Unità di ortopediae diceva di non riuscire ad affrontare il vitto dell’ospedale. Qualche giorno dopo gli infermieri lotrovarono con alcuni amici seduti attorno al letto e sul letto, intento a mangiare con le mani da unpiatto comune messo sulle gambe del giovane. Qualche giorno dopo lo stesso giovane venne sor-preso una mattina da uno studente mentre si masturbava tranquillamente sotto le lenzuola. Solomarginalmente distratto dalla comparsa dello studente, il giovane riprese la sua attività, indifferen-te agli sguardi allibiti e un po’disturbati degli altri pazienti della sua camera.

Tra i vari aspetti sollevati dalla situazionalità della relazione assistenziale è bene soffermarsi suuno di essi: il fenomeno della “produzione di significato” (sense-making). La fluidità dei significa-ti sfugge alle categorizzazioni oggettive delle scienze naturali, e viene di conseguenza respintacome “soggettiva” ed “non-scientifica”. Al contrario, occorre ribadire che l’a d e g u a t e z z a con laquale ciascuno di noi risponde ai propri bisogni di cura non è affatto indeterminata; non è soltantouna questione interna del paziente. Prima di essere percepita come adeguata dal paziente, infatti,ogni azione di cura di sé è uno degli artefatti che ordinano la spiegazione culturale di quel biso-gno. Certo, il paziente può agire diversamente dall’indicazione culturale (abbiamo visto che siamosoggetti alla cultura, ma siamo anche soggetti di cultura), ma non può ignorarla, perché costitui -sce il punto di partenza dell’interpretazione socialmente condivisa della situazione e della azione.L’area di sovrapposizione tra paziente e ambiente, insomma, è abitata dalla interpretazione che èresa possibile dalla «presenza di significati come fatti pubblici, strutturanti da un lato la nostrapercezione del mondo e dall’altro la nostra azione situata11».

La relazione insita nel secondo piano del nucleo è antica quanto l’uomo: essa descrive l’assi -stenza propriamente detta, ovvero l’azione dell’ad-sistere, dello stare accanto ad una persona peroffrirle aiuto ed appoggio. Gli studi di Leininger sulla diversità ed universalità dell’assistenza illu-strano bene come la relazione assistenziale sia riconosciuta e descritta in tutte le culture delmondo con modelli culturali - ideali e di comportamento - che variano con il variare della cultura

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Tab. XIV. La cultura come dispositivo di chiarificazione dell’ambiguità delle situazioni quotidianea t t r averso principi e artefatti.

Tratto da: Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri e incontrimulticulturali, Giunti, Firenze, 1998, p. 201.

di appartenenza, in quanto profondamente radicati nella struttura culturale di un popolo, che ser-vono anche a mediare significati tanto all’assistito quanto a colui che assiste. Richiamandoci alleconsiderazioni compiute nel primo capitolo, nella cultura occidentale questo livello di competen -za culturale all’assistenza è probabilmente in crisi. Si vanno man mano perdendo le tradizionali“azioni” di vicinanza solidale con colui che, bisognoso, è la personificazione della sofferenza, deldolore. Si sta pian piano affievolendo il valore stesso dell’assistenza agli infermi al domicilio onella comunità di appartenenza. Così può capitare di notare un lento abbandono della personamalata, e, addirittura un’anticipazione del processo di elaborazione del lutto, che, in certi casi, ini-zia nei parenti ormai ancor prima del decesso - quasi al momento della prognosi infausta.

Viceversa, riscoprire l’assistenza nella sua funzione di produzione di significato, di creazione disenso, può essere davvero importante per tutti coloro che assistono e sono assistiti. NormanAutton riporta in un suo bel libro il racconto di Susan Hill, nota scrittrice inglese la cui figliaImogen nacque gravemente prematura. Imogen pesava solo 630 grammi, ma la madre ricordacome era solita toccarle la mano, nell’unità di cure speciali, carezzandola e avvertendo la suastretta. Quando le condizioni di Imogen sfortunatamente divennero critiche il medico le permise ditenerla in braccio dicendole: “non si preoccupi, sono sicuro che è una buona cosa per entrambe”.«Fu la più miracolosa, la più meravigliosa delle cose - scrive Susan descrivendo il momento in cuila piccola bambina venne adagiata dolcemente tra le sue braccia - e come la presi, sentii il suocorpo contratto e rigido rilassarsi e per un momento, d’improvviso, il suo viso si contrasse, e sicontrasse ancora - e poi aprì i suoi occhi, e vidi quell’azzurro brillante, offuscato, forse cieco, mapresente. “Le piace - guardi”. Una delle infermiere in servizio sorrideva, indicando il monitor. “Sache è lei, guardi”. E davvero, il suo elettrocardiogramma era regolare». Imogen visse solo cinquesettimane, e quando infine morì, sua madre rimase seduta a lungo tenendola tra le sue braccia. Inquel periodo di tempo, scrive Susan, «la morte mi sembrò essere la più importante, la più signifi -cativa cosa nella vita. […] Non avevo paura, non indietreggiai, e volevo che quel periodo durasseper sempre, per tenermici stretta. Perché ora sento come se fossi stata vicina a comprendere ilsegreto dell’universo12».

4.1.3 Il terzo livello: il “bisogno di assistenza infermieristica” e la competenza disciplinareIl terzo livello del nucleo è quello che, dalla fine del XIX secolo, si è venuto strutturando medianteun processo di concettualizzazione progressiva che ha man mano enucleato dal generico bisognodi assistenza un bisogno particolare - un bisogno specifico, direbbe Adam - facendolo diventare ilproprio oggetto di studio e di ricerca e cercando di rispondervi con una competenza man manosempre più articolata e complessa.

Mentre i primi due livelli sono per così dire universali, cioè descrivono qualsiasi pratica autoas-sistenziale o etnoassistenziale in senso tanto geografico quanto storico, il terzo livello descriveinvece una condizione particolare caratterizzata dal confronto tra queste due competenze con unacompetenza infermieristica. Questa competenza, come tale, non può sussistere di sola evidenzascientifica - pena, come abbiamo visto, il rischio di riduzionismo - ma neppure senza di essa -pena il relativismo assoluto - deve insomma radicarsi nella situazione assistenziale, accettandonel’ambiguità di fondo per proporre al paziente (e ai suoi familiari) alla luce della propria conoscen-za ed esperienza una soluzione personalizzata al bisogno manifestato. Infatti, sebbene cambi ladizione nei differenti livelli, la realtà del bisogno è la medesima e si radica nella situazionalitàassistenziale che abbiamo considerato poco sopra.

In tal modo, mentre possiamo riconoscere l’universalità dei bisogni di assistenza infermieristicadell’uomo nella loro dimensione bio-fisiologica, dobbiamo ammettere la loro particolarità e singo-larità nelle dimensioni psicologica e socio-culturale. Parliamo quindi di una dimensione oggettivadel bisogno di assistenza infermieristica - quella bio-fisiologica, indagabile con gli strumenti delle

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scienze biomediche - e di due dimensioni soggettive - quella psicologica e socio-culturale, indaga-bili con gli strumenti delle discipline umanistiche. Ecco perché, parafrasando Gadamer potremmodire che l’adeguatezza di cui sopra, per l’infermiere, è la “misura interna” - il métrion platonico -del bisogno stesso e delle sue modalità risolutive.

Il terzo livello del nucleo, quindi, nasce da una valutazione di insufficienza delle precedenticompetenze (come direbbe Henderson, nelle conoscenze, nella forza o nella volontà) nel risponde-re ai bisogni della persona. Questo confronto mette in luce l’apporto che l’infermieristica può darealla competenza personale e culturale dell’assistenza. L’intero programma di ricerca della “Scuoladei bisogni” testimonia la complessità e l’importanza di questo apporto, quanto ad evidenze scienti-fiche corroborate, capacità tecniche ed organizzative, esperienza pratica, capacità relazionali edermeneutiche, sensibilità deontologica, ecc. Ma abbiamo anche visto che i bisogni di assistenzainfermieristica, in quanto tali, non possono venire semplicisticamente etichettati come “alterazio -ni” di una o più di queste dimensioni rispetto ad una presunta norma, ma debbono essere interpre -tati dall’infermiere in un continuo rimando tra la situazionalità e la storicità del singolo caso -l’alterità del paziente - e le conoscenze dell’evidenza scientifica sin ad allora corro b o r a t e. Non sitratterà, allora, di c o n o s c e re unicamente il come ed il perché della manifestazione della diade bisogno-risposta in uno o l’altro livello del nucleo, ma piuttosto, e soprattutto, di c o m p re n d e re l’insiemedella situazione di bisogno di quella persona. Così pure, non basterà semplicemente p re s c r i v e re e dabilmente eseguire quelle prestazioni che l’evidenza scientifica ci ha insegnato essere eff i c a c i \ e ff i c i e n t iper la soddisfazione del bisogno, ma p a rt e c i p a re e far partecipare il paziente e il suo ambito fami-liare, al processo assistenziale. In altre parole, la conoscenza dell’evidenza scientifica già corro b o -rata è condizione necessaria ma non sufficiente alla personalizzazione dell’assistenza.

Quanto ai bisogni di assistenza infermieristica essi sono i n n a n z i t u t t o i bisogni legati alla s o p r a v v i -v e n z a della persona e non per nulla sono riconducibili al bisogno di s i c u re z z a (che etimologicamentesignifica s i n e - c u r a, cioè “senza cura”, come a dire il “bisogno di non avere bisogni”…). Parliamoquindi dei bisogni di lavarsi e muoversi, mangiare e bere, dormire e riposare, evacuare e mingere,respirare ed esprimere la propria sessualità, ecc., ed abbiamo ripetutamente constatato che i processiche soggiacciono alla diade bisogno-risposta non sono esclusivamente di ordine bio-fisiologico, macomprendono anche i processi cognitivi e simbolici delle dimensioni psicologica e socio-culturale,chiamate le “dimensioni soggettive” dei bisogni di assistenza. Queste, come già ricorda Maslow,possono influenzare notevolmente la configurazione complessiva (e la priorità oggettiva-soggettiva)dei bisogni della persona umana. Così, a volte proprio attraverso i bisogni legati alla sopravvivenza ,si manifestano altri bisogni tipicamente umani che possono divenire bisogni di assistenza infermieri -s t i c a: il bisogno di comunicare, di apprendere, di esprimere la propria fede religiosa o la propriaidentità culturale, di accettazione della propria condizione di malattia, di separazione o di finitezza,ecc. Esistono quindi delle relazioni spesso inestricabili tra un bisogno e l’altro, che aumentano cer-tamente la complessità dell’analisi infermieristica, ma che tuttavia dovremo affrontare in quanto talise non vogliamo cadere nello stesso limite di altre teorie studiate precedentemente.

Concordiamo dunque con Maslow sull’inutilità di una rigida classificazione dei bisogni; essisono il riferimento pratico dell’azione clinica dell’infermiere, e come tali sono il filo conduttore ditutto il processo di assistenza infermieristica, nelle sue fasi diagnostica e prescrittiva.Indubbiamente, si tratta di riconoscerli; ma come? Due sembrerebbero gli estremi da evitare: daun lato la semplicistica assimilazione del bisogno a categoria diagnostica del processo (come faad esempio il Modello delle prestazioni infermieristiche della SUDI dove le categorie diagnosti-che corrispondono agli undici bisogni di assistenza infermieristica specularmente risolti da undiciprestazioni); d a l l ’ a l t ro la meccanica riduzione della complessità assistenziale del paziente a setd i ag no s t i c o - p rescrittivi rigidi e standard i z z a t i (come nel caso della pedissequa ed acriticaa p p l i c azione delle tassonomie americane).

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Questi estremi ci sembrano da evitare in quanto entrambi - benché per ragioni diverse e ovvia-mente a seguito di impostazioni teoriche quasi diametralmente opposte - difficilmente otterrannola comprensione del bisogno assistenziale in tutta la sua alterità, quanto piuttosto, ma in senso let-terale, la sua identificazione, essendo portate per natura alla ricerca della coincidenza del bisognocon le classi tassonomiche note. Viceversa, occorre aver chiaro che se non vogliamo misconoscerela profondità semiotica dei bisogni assistenziali dell’uomo la loro comprensione richiederà anzi -tutto una definizione prima di carattere filosofico (il bisogno come espressione esistenziale del -l’uomo), poi scientifico (l’espressione falsificabile del bisogno e la sua manifestazione intersog -gettiva), ma poi ancora successivamente ri-definita e ri-creata nella prassi di ogni giorno (la per -cezione della situazionalità nell’immediatezza della relazione con il paziente). Solo a queste con -dizioni ci pare che possa essere proficuamente continuato ed implementato il programma di ricer -ca legato ai bisogni di assistenza infermieristica: non sfuggendo alcuna delle difficoltà che essosolleva. D’altro canto, come scriveva in un bellissimo libretto Milton Mayeroff già agli inizi deglianni settanta, «assistere un’altra persona, se si vuol dare a quest’espressione il suo più profondosignificato, vuol dire aiutarlo a crescere ed a realizzarsi […]. Nell’erogare l’assistenza, riconoscoche gli altri hanno delle potenzialità ed hanno la necessità di crescere […]. Aiutare una persona acrescere [...] è aiutarla a riuscire ad essere sé stessa13».

Alcune precisazioni importantiAbbiamo visto che il cuore dell’assistenza infermieristica viene a collocarsi nell’i n t i m i t à di ciòche è la persona umana, la sua salute ed il suo senso del vivere, in un modo tuttavia non ingom-brante e rispettoso dell’altro. A questo proposito è bene fare subito due importanti precisazioni,che corrispondono ad altrettante possibili opposizioni critiche. La prima potrebbe essere formulatacon l’osservazione: “Ma come: pensavo di trovare almeno una lista di bisogni, una qualche classi-ficazione che mi permettesse di orientare da subito la mia pratica clinica”. E la seconda non è chela continuazione di questa: “Sembra che qui sia tutto molto soffuso (o confuso): in reparto non c’èneanche il tempo di respirare e qui mi si prospetta un infermiere allampanato. Che fine hanno fattole buone vecchie tecniche infermieristiche di una volta?!”

Occorre subito dire che entrambe le questioni sono assolutamente pertinenti e degne di tutta lanostra considerazione. Per rispondere alla prima osservazione dobbiamo ribadire una scelta fattaall’inizio della nostra riflessione, e cioè quella di non aver voluto costruire un nuovo modello con-cettuale (ossia un’immagine dell’assistenza immediatamente orientata al suo utilizzo clinico),quanto approfondire il livello teoretico del programma di ricerca della “Scuola dei bisogni”.

Per la necessaria distinzione tra “teorie” e “modelli concettuali” e diversamente che da altriautori infermieristici - quali ad esempio Fawcett14 - la nostra impostazione si richiama a Popperquando dice che, nelle scienze sociali, i modelli hanno la stessa funzione che nelle scienze fisichee che si potrebbero anche definirli teorie o dire che, siccome sono tentativi di risoluzione di pro-blemi, incorporano le teorie . Ma attenzione: non vale l’opposto; non tutte le teorie sono modelli.Per Popper, il problema decisivo per le scienze sociali è la descrizione delle “situazioni socialitipiche”: «il problema fondamentale delle scienze sociali - scrive Popper - è spiegare e compren -dere gli eventi in termini di azioni umane e situazioni sociali. Qui l’espressione chiave è “situazio-ne sociale». La descrizione di una concreta situazione corrisponde a ciò che nelle scienze dellanatura è l’esposizione delle condizioni iniziali. E i modelli delle scienze sociali sono essenzial-mente descrizioni o ricostruzioni di situazioni sociali tipiche15. Quanto al “principio di raziona -lità” delle scienze sociali questo è spiegato da Popper come “agire in modo adeguato alla situa -zione” nella dinamica del modello adottato. Come abbiamo avuto modo di constatare, salvo rareeccezioni, la “Scuola dei bisogni” è passata troppo in fretta alla “modellizzazione” delle propriecompetenze senza aver sufficientemente teorizzato il nucleo fondante della propria pratica. È per

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tali motivi che in questa sede non è voluto fornire un modello, quanto piuttosto rivisitare in sedeteorica la “Scuola dei bisogni” e riformulare in maniera problematica il concetto di “bisogno diassistenza infermieristica”.

La seconda questione è davvero interessante; innanzitutto perché ci offre l’occasione per chiari-re un aspetto fondamentale del rapporto tra la teoria e la prassi infermieristica e poi secondaria-mente - ma non approfondiremo questo aspetto - perché nelle sue forme più estreme e reiteratepuò essere facilmente utilizzata come alibi (il che ce la dice lunga sulle difficoltà di modificare lacornice intellettuale nella quale siamo stati formati e nella quale lavoriamo).

Sul rapporto teoria-prassi, abbiamo considerato nel primo capitolo la posizione dell’ermeneuticadi H.G. Gadamer che discute sui piani distinti ma integrati della nozione di prassi come “applica-zione di teorie-modelli scientifici” e come “razionalità delle proprie azioni”. Lo spazio dell’erme-neutica anche per l’infermieristica è proprio questo: il considerare necessarie ma insufficienti leprescrizioni ottenute dall’evidenza scientifica in quanto la realtà della nostra prassi assistenziale “èdi più o diversa” da quanto in esse descritto. Tutte le situazioni assistenziali sono per l’infermiere,nello stesso istante, simili e differenti da altre di cui si è studiato o si è avuto esperienza diretta.Simili in quanto sono spesso la riproduzione di modelli scientifici (cioè intersoggettivi ed in partefalsificabili, che saranno di conseguenza tanto più essenziali quanto più corroborati dalla praticaclinica) - ad esempio la condizione assistenziale di un paziente costretto all’allettamento è di persé universalmente esplicita rispetto al proprio quadro tecnico-assistenziale. Ma anche differenti, inquanto il bisogno di movimento può manifestarsi diversamente a seconda dell’alterità generazio-nale, sessuale, culturale, professionale, ecc. della persona.

Esemplificativo è il caso di una signora della Tanzania che seguimmo una notte per il travagliodi parto in un grande ospedale italiano. Come lingua occidentale conosceva solo l’inglese ed eraaccompagnata da una signora che parlava pochissimo l’italiano. Attraverso l’amica si venne asapere che la donna era da poco tempo in Europa e proveniva da un piccolo villaggio dell'internodel suo Paese. Il travaglio procedeva senza alcun problema, ma la donna mostrava essere più tur-bata dalle strumentazioni mediche che la costringevano a letto, piuttosto che dal doloroso evolver-si del parto. Mentre era sdraiata nel letto per il monitoraggio cardiotocografico, con il nostrotutt’altro che fluido inglese e l’aiuto della sua amica raccogliemmo un po’ di dati anamnestici evisionammo i referti degli esami di prassi della gravidanza. Rispondeva a fatica mentre era tuttapresa dall’apparecchio che riproduceva il suono del cuore del suo bambino, cosa che sembravainibirla abbastanza. La signora era primipara e tutti i referti rientravano “nella norma”; la P.A era“nei limiti”, l’urina non aveva tra tracce di albumina ed il tracciato cardiotocografico era perfetto.Il travaglio era attivo e la dilatazione cervicale era di circa due centimetri, con il collo conservatoal 50%. Fortunatamente, quella notte la sala travaglio era deserta. Una volta terminati i prescritti45 minuti di tracciato “regolamentare”, le proponemmo di staccare il monitor e di “mettersi a suoagio” nella stanza di travaglio. Le spiegammo che, “finché tutto andava bene” avremmo controlla-to saltuariamente il battito cardiaco fetale (con l’audio del cardiotocografo o con lo stetoscopio diPinard), l’intensità delle contrazioni uterine e - ogni qualche ora - la progressione della dilatazionecervicale. Così le lasciammo sole nella stanza e chiudemmo la porta. Al nostro rientro, la pazientesi era completamente svestita di tutti gli indumenti e tra una contrazione e l’altra passeggiava perla stanza sorretta dall’amica: faceva piccoli saltelli, o si accucciava negli angoli, o si appendevaquasi di peso al collo dell’amica. Oppure ancora si metteva a quattrozampe sul letto o per terra,cantilenando qualcosa. Il travaglio procedeva spedito e regolare. Quando arrivò ad una dilatazionedi sei-sette centimetri spiegammo alla paziente che poteva scegliere di rompere subito il saccoamniotico accelerando così il travaglio - ma obbligandola a restare a letto per un po’ per scongiu-rare il pericolo di prolasso del cordone ombelicale - oppure poteva scegliere di proseguire comestavamo facendo mantenendolo intatto, per romperlo poi a dilatazione completa. Fu lei stessa a

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decidere di non rompere le membrane perché non voleva essere costretta a letto. Tra una passeg-giata e l’altra visitò le diverse sale parto, e provò sia il lettino che la sedia ostetrica. Le spiegammoche “salvo complicazioni” avrebbe potuto scegliere quella che voleva e le descrivemmo i momentidel parto, inclusa la necessità di incanulare una vena “per ogni evenienza” e non escludendo laprobabile necessità dell’episiotomia, o di un parto operativo con il medico, se avessimo ritenutoopportuno di doverlo chiamare. Quando iniziò la fase espulsiva, la paziente scelse la sedia, “per-ché è come stare accucciati”. Il parto avvenne nella penombra e senza il bisogno nemmeno dell’e-pisiotomia. Nell’attesa del secondamento mettemmo il bambino - un maschietto bene in carne -sul ventre della mamma. Quando tutto fu finito, la signora ammise di essere spaventata dall’am-biente e dal classico lettino ginecologico e di aver tirato un sospiro di sollievo dopo aver visto chesi poteva partorire anche in Europa quasi come si partoriva “da loro”.

Come è evidente da questo racconto, l ’ i n t e r p retazione della situazione assistenziale, della suasimilitudine e differenza rispetto alle precedenti nell’immediatezza della relazione è una mediazio-ne continua operata dall’infermiere - in questo caso l’ostetrica, ma il percorso assistenziale delledue figure è, a nostro avviso, comune all’ottanta per cento - tra il piano della conoscenza dellafisiologia e della patologia ostetrica e quello della comprensione dei significati della situazionestessa per i suoi protagonisti. Di conseguenza, è dunque evidente che pro p o rre una teoria ermeneu -tica non significa per nulla affermare l’inutilità della scientificità della nostra prassi - tanto a livel-lo diagnostico quanto prescrittivo con l’elaborazione di procedure e protocolli tecnici rigorosamen-te controllati. È questo un passaggio fondamentale della nostra riflessione. Da un lato una necessa-ria generalizzazione del nostro sapere ci porta a sempre nuove conoscenze e tecniche per la miglio-re e più efficiente soddisfazione dei bisogni assistenziali del cliente; ma proprio per fare questo ènecessario comprendere l’individualità della situazione in cui l’altro manifesta i suoi bisogni, intutte le loro dimensioni, pena la stessa parziale o totale inefficacia delle nostre prestazioni.

L’assistenza infermieristica come phrónesisMa cos’è che guida l’infermiere nell’interpretazione di un gesto, di un atteggiamento del pazientenell’infinita possibilità dei significati che potrebbe avere? Che cosa lo muove a rientrare in unastanza perché gli era sembrato di vedere qualcosa con la coda dell’occhio? Che cosa ancora lospinge a fermarsi in una camera per una battuta o due chiacchiere in più proprio con quel pazien-te? Questa sensibilità si riesce a spiegare solo limitatamente ed ex-post con le parole: resta l’imme -diatezza di una comprensione e l’altrettanto immediata reazione personale

Aristotele chiamava p h r ó n e s i s questa razionalità che guida la prassi. Ed anche per Gadamerabbiamo visto che essa si verifica solo nella situazione concreta e si trova immediatamente e subi-taneamente in una connessione vivente di convinzioni, di consuetudini e valutazioni comuni16. Viricordate del caso di quella paziente sofferente di una grave forma di artrite raccontato nel primocapitolo? L’assistenza significa interpretare la condizione dell’altro perché l’ermeneutica è l’artedell’intesa, ed ha essa stessa il carattere del dialogo. «Si ha a che fare gli uni degli altri - affermaGadamer. La nostra forma di vita ha il carattere dell’Io-Tu, dell’Io-Noi e del Noi-Noi. Nelle nostrecose pratiche dipendiamo dall’intesa. E l’intesa avviene nel dialogo1 7». L’interpretazione dellasituazione assistenziale richiede esperienza così come conoscenza, ed è dunque qualcosa di piùche la sola esecuzione di un compito o la semplice intuizione di qualcosa, in quanto “implica ilragionare della deliberazione” e muove la persona ad un diverso comportamento o atteggiamentoche può essere alla fine differente dal ragionamento e dalla decisione secondo la razionalità delpiano scientifico - che lo sappiamo bene, produce la spiegazione oggettiva del fenomeno e puntaalla sua corroborazione.

Infine, la nostra concezione dell’assistenza può essere intesa come phrónesis perché - come giàper l’ermeneutica gadameriana - non implica l’applicazione di qualcosa a qualcosa d’altro -

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ad esempio un chirurgo che esegue un particolare intervento chirurgico - quanto piuttosto implicala percezione di che cosa è in gioco in una data situazione: implica cioè la comprensione dell’altro.Adifferenza dell’arte dell’artigiano poi, il quale possiede un sapere insegnabile, la saggezza prati-ca non può essere pienamente insegnata. Non è neppure una acquisizione solo razionale, perchécome ricorda Aristotele “di siffatte disposizioni vi può essere dimenticanza, ma non già della sag-gezza”1 8. Ed è quindi naturale che l’assistenza sia come la phrónesis: perché è materia non solo dir i f l e s s i o n e ma anche di p e rc e z i o n e ed e s p e r i e n z a. Ecco che, in questa prospettiva, possiamocogliere l’importanza fondamentale del tirocinio clinico nella formazione di base dell’infermierea condizione che avvenga in un ambiente formativo con infermieri-tutori in grado non solo di svi -luppare il ragionamento scientifico e le capacità tecniche dello studente, ma anche di affinarne lepotenzialità ermeneutiche, giacché ormai sappiamo che nel fenomeno della comprensione tanto ilpensiero quanto l’azione (o in termini ermeneutici, la subtilitas intelligendi e la subtilitas appli -candi) non sono momenti completamente separati, ma sono dialetticamente uniti.

Alcuni anni fa, una studentessa del terzo anno raccontò alla classe un’esperienza appena vissuta.Le chiedemmo di metterla per iscritto; ecco il suo racconto in forma pressoché integrale.

«L’esperienza che più mi ha colpita in quel reparto è avvenuta una notte. Un giovane paziente[...] ormai in fase terminale, quella notte andò incontro ad un rapido peggioramento clinico. Dopoaver chiamato il medico, si capì che ormai non c'era più nulla da fare, così furono avvisati i paren-ti. Nel giro di un'ora circa, il paziente venne circondato dai genitori e dagli amici. In accordo conle infermiere, si decise di entrare nella stanza solo per lo stretto necessario, in modo da favorire unrapporto di intimità tra il paziente ed i familiari. Successivamente, entrando nella stanza con leinfermiere per cambiare il paziente o per sostituire una fleboclisi, mi accorsi che quel rapporto nonc’era e non si stava instaurando; al contrario c’era una situazione di distacco. I parenti, vicino alpaziente, piangevano o parlavano sottovoce tra di loro, senza avere un minimo di contatto con ilmorente. Sembravano avere più premura nel guardare che le flebo non finissero. In una di questeoccasioni, mi capitò di entrare nella stanza del ragazzo da sola, per sostituire una delle tante flebo-clisi. Dopo aver cambiato l’infusione, notai che il paziente era molto sudato a causa dell’iperpires-sia. Quindi, con un fazzoletto intriso di acqua iniziai a rinfrescargli il volto, il collo e le mani.Mentre gli asciugavo le mani, mi sono sentita chiamare per nome dal giovane, che mi strinse lamano e mi chiese di rimanere un po’ con lui. In quel momento mi sono sentita travolgere da unascarica di emozioni. Chi ero io? C’erano i genitori, i parenti lì con lui: chi ero io per stare lì? Nonavevo il diritto di sostituire le figure familiari. Non era solo; era circondato da persone care... oforse si: era comunque solo? Quando mi posi questo quesito capii che effettivamente non avvert i v ala presenza dei suoi cari. Certo, c’era gente intorno a lui, ma era solo una presenza fisica... Nessunosi avvicinava a lui per toccarlo, per accarezzarlo, per parlargli o porgli un semplice gesto d’affetto.

Così, in quel momento, risposi istintivamente alla sua richiesta e mi sedetti accanto a lui perqualche minuto. Sinceramente nemmeno io parlai molto, ma mi accorsi che, asciugandoglisemplicemente il sudore, stringendogli la mano e accarezzandogli il viso, anche se l’espressio-ne del suo volto non cambiò, riuscì tuttavia a sorridere... Dopo circa due ore da quell’evento ilragazzo decedette, e io mi sentii veramente male. Ero riuscita ad instaurare un buon rapportocon lui durante tutto il periodo della degenza e forse mi ero aperta troppo e questo pro b a b i l -mente è sbagliato. Ma, in fondo, credo sia meglio sbagliare aprendosi troppo, piuttosto chenon aprirsi affatto. . . » .

Ora chiediamoci: quali sono i bisogni assistenziali del giovane? Quale delle diagnosi dellaNANDA potrebbe riprodurci il dramma vissuto in prima persona dai protagonisti di questo rac-conto? Dove inizia e dove termina, la prestazione professionale? Insomma: è davvero auspicabile,oltre che realistico, porsi come fine clinico la sola applicazione di tassonomie diagnostiche e l’ese-cuzione di evidenze prescrittive in tutte le possibili situazioni assistenziali?

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È per tali motivi che sosteniamo un approccio costruttivista nella riflessione attorno all’assi -stenza. Cosa significa un approccio costruttivista? Significa, come vedremo, che l’impianto teori-co che sta alle fondamenta della formazione dell’infermiere non viene semplicemente “applicato”o rigidamente “prescritto” alle situazioni concrete per identificare il bisogno, ma usato come rife-rimento, o meglio come principale, quindi non unica, ma esplicita precomprensione (vorverständ -nis) fatta di sicurezze scientifiche intrecciate con i propri pregiudizi, che, in un processo initerrottodi continue verifiche e riformulazioni aiuta l’infermiere all’approfondimento della comprensionedell’altro, e - probabilmente, oppure no - a ri-conoscere (cioè conoscere nuovamente, come maiprima aveva conosciuto) quella tale situazione assistenziale. Questa interpretazione viene quindicostruita momento per momento nella relazione tra tutti i partecipanti, mentre si approfondisce laconoscenza del paziente, utilizzando e sfruttando consapevolmente tutti i pregiudizi di entrambi.

Ma un tale procedimento, lo ripetiamo affinché sia ben chiaro, non vuol dire affatto che disde-gnamo o non utilizziamo le nostre conoscenze falsificabili (le tassonomie, le metodologie quanti-tative, le procedure standardizzate, ecc.). Anzi, ne ribadiamo l’importanza. Tuttavia, esse vengonosemplicemente contestualizzate, ossia utilizzate come riferimento, come orientamento di massimaper l’azione. Infatti, a nostro avviso, mentre da un lato queste conoscenze sono indispensabili perla ricerca e per il management dall’altro esse non dovrebbero essere le uniche ed esclusive risorsedella clinica, dove rischiano altrimenti di essere utilizzate come prescrizioni assolute e costrittive.Come è ovvio esistono delle eccezioni che tutti conosciamo ed il condizionale è più che opportu-no: pensiamo alle situazioni d’urgenza, ad alcuni contesti tecnici quali gli interventi chirurgici odiagnostici o a situazioni organizzativamente critiche. Ma anche in questo caso, è tuttavia evidenteche è il contesto, la situazione vissuta, che orienta alla semplice esecuzione delle procedure e deiprotocolli standardizzati, e non il contrario (cioè la presenza di procedure standardizzate che moti-va una loro illecita applicazione generalizzata a tutti i pazienti). Ecco allora che, caso per caso,potrà verificarsi la situazione in cui diagnosi e prescrizioni coincideranno perfettamente alla situa-zione assistenziale e dunque potranno e dovranno essere riprodotte sic et simpliciter senza alcunamodifica e senza alcuna variazione. L’esempio per antonomasia sono le procedure d’urgenza o leprestazioni “ad alta intensità tecnica”, quali ad esempio gli interventi chirurgici. In altri casi, inve-ce, quando - sempre a giudizio dell’infermiere - l’apparato diagnostico ed apparato prescrittivonon riflettono la complessità o la particolarità della situazione assistenziale data, essi dovrannoessere modificati o addirittura abbandonati o posti su un secondario piano di priorità a causa del-l’emergere di bisogni che in quel momento ed in quella situazione paiono più importanti. Questo èil caso di quelle prestazioni che potremmo chiamare “ad alta intensità relazionale” che, sebbenecertamente meno falsificabili, non sono tuttavia meno importanti delle prime nella risoluzione diun bisogno. Così, in casi estremi, potrà accadere di fare molta difficoltà a dirimere il professionaledal personale, le aspirazioni del paziente dalle nostre, le nostre emozioni dalle sue.

Infine è evidente che la relazione tra tecnicità e relazionalità non è inversamente proporzionale(come a dire che al crescere dell’intensità relazionale cala quella tecnica e viceversa: infatti posso-no esserci prestazioni a bassa intensità relazionale e bassa intensità tecnica). Al contrario, potrem-mo verosimilmente affermare l’esistenza di una certa proporzionalità diretta tra il grado di relazio-nalità richiesta ed il grado di coinvolgimento personale dell’infermiere (quanto più i bisogni delpaziente rientreranno nella sfera personale, tanto maggiore dovrà essere l’apertura all’altro dell’in-fermiere, intendendo con ciò maggior disponibilità al dialogo, all’ascolto, alla relazione, alloscambio di senso, ecc.). Solo così le tecniche infermieristiche possono ritrovare tutta la dignità cheè loro dovuta: solo se non perdono di vista che esse sono il mezzo, e non il fine dell’assistenza.

Insomma, per smentire l’opinione di coloro che credono che la prassi infermieristica sia unacosa e la teoria un’altra, abbiamo dovuto risalire sino ad Aristotele che spiegava che la prassi nonè antitetica alla teoria, poiché la teoria stessa è una forma di prassi. A quelli che credono che la

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crisi d’identità della figura infermieristica sia dovuta alla troppa “teoria” - all’innalzamento dellascolarità, alla professionalizzazione come autonomia-responsabilità sull’assistenza, ecc. - ebbene,noi opponiamo l’affermazione contraria: la crisi, se mai esiste, è dovuta all’insufficiente riflessio -ne su cosa sia la nostra prassi1 9.

4.2 Una rilettura problematica del concetto di bisogno di assistenza infermieristicaA differenza di quanto credono molti infermieri influenzati dal pensiero di Maslow, noi abbiamovisto che non esistono dei bisogni di assistenza “fisici”, “psichici” o “simbolici”, ma che ognibisogno, anche il più umile, riflette tutta la persona. Quest’importantissimo concetto era d’altron-de già stato intuito da Virginia Henderson che, come ormai ben sappiamo, già nel 1955 affermavache se si trattasse solamente di praticare correttamente qualche intervento tecnico l’assistenzasarebbe un’attività relativamente semplice: il problema consiste nell’adattare tali interventi alleparticolarità di ogni essere umano.

Il fascino esercitato dalla professione infermieristica, a nostro modo di vedere, è racchiuso inquesta semplice intuizione: tutta la persona viene riflessa nei suoi bisogni; anche quando si tratta,agli occhi della gente, dei bisogni più umili e semplici quali il mangiare e bere, vestirsi e lavarsi,muoversi e relazionarsi, eliminare e dormire, ecc. Lo abbiamo appena visto: ognuna di questequotidiane attività dell’uomo, così necessarie per la sua sopravvivenza, può essere interpretatacome la risposta a dei bisogni. Soddisfare tali bisogni non significa unicamente “sussistere” fisica-mente ma anche e soprattutto - attraverso le loro dimensioni soggettive - significa entrare in rela-zione con gli altri, costruire con loro un legame di appartenenza nella comune costruzione di unsenso a ciò che accade.

Se perseguiamo quindi in questa convinzione, tutta la costruzione epistemologica dell’infermie-ristica non può non considerare la problematicità intrinseca al concetto di “bisogno di assistenzainfermieristica”. La rilettura critica alla quale siamo obbligati deve quindi necessariamente consi-derare che: (1) il potenzialmente infinito p roblema dell’alterità del bisogno assistenziale cicostringe a (2) una riflessione sul giudizio di normalità o di anormalità che l’infermiere è chiama-to a pronunciare sul bisogno stesso all’interno del processo di assistenza, grazie alla (3) relazioneassistenziale tra infermiere e paziente. Sono questi dunque i passaggi fondamentali del presenteparagrafo che si concluderà (4) con la constatazione che l’ermeneutica del bisogno di assistenzainfermieristica necessita di una teoria di tipo costruttivista.

4.2.1 L’alterità del bisogno assistenzialeTutta la nostra riflessione ruota attorno all’ambiguità del termine bisogno. La causa di tale ambi-guità, ormai sotto gli occhi di tutti, è il problema dell’alterità del bisogno assistenziale, ossia ilriflesso nel nostro campo di studi della socializzazione, o simbolizzazione, con cui l’uomo percepi-sce la naturalità dei propri bisogni. È questo il motivo che giustifica la strutturazione costruttivistadella teoria dei bisogni, ma - prima di arrivarci - è necessario vedere un po’più da vicino le temati-che legate proprio al tema dell’alterità del bisogno assistenziale, e quindi il giudizio di n o r m a l i t à ed e l l ’a n o r m a l i t à che l’infermiere compie nel processo assistenziale grazie alla relazione con l’altro.Due autori, tra gli altri, ci accompagneranno in questo percorso: il filosofo italiano NorbertoBobbio e il bulgaro-francese Tzvetan To d o r o v, già conosciuto per il suo saggio su Bachtin.

Introducendo il tema dell’alterità dobbiamo anzitutto iniziare con una considerazione solo appa-rentemente banale, e cioè che “gli uomini e le donne sono fra loro tanto eguali quanto diversi”.Ma, come ha precisato in diverse occasioni Bobbio, in che cosa siano essi uguali e in che cosasiano diversi varia secondo i tempi, i luoghi, le ideologie, le concezioni del mondo. Solo qualchedecennio fa, ad esempio, alle donne italiane non era permesso votare alle elezioni, “portare i pan-taloni” o uscire di casa la sera non accompagnate.

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Il problema non sta quindi nella percezione di una differenza di fatto , o di una diseguaglianzanei principi , ma bensì risiede nelle discriminazioni che da queste possono derivare. Per Bobbio,“il contrario dell’eguaglianza è la diseguaglianza, non la differenza”. Più precisamente: occorredistinguere l’eguaglianza come principio o come regola, dall’eguaglianza come fatto. L’alterità,cioè la differenza, è il contrario dell’eguaglianza come fatto: se due cose sono differenti - comenel caso delle manifestazioni del bisogno assistenziale - non sono uguali. Ma rispetto all’egua-glianza come principio o come regola, ad esempio per un legislatore o per un infermiere, il contra-rio dell’eguaglianza non è la differenza, ma la diseguaglianza (vedi Tabella XV)20.

Nella prospettiva infermieristica occorrerà chiedersi di conseguenza: se la differenza è insitanel concetto di bisogno quali di queste diversità sono anche fonte di diseguaglianza? In altreparole, l’assistenza infermieristica consiste non solo nel compre n d e re una differenza di fatto nelpaziente (ad esempio nella diade bisogno-risposta) o di una diseguaglianza (differenza nei prin -cipi morali che sottendono la diade nel paziente), ma anche nel valutare se, e in base a quali cri -teri, tale differenza o diseguaglianza costituisca motivo di lecita o illecita discriminazione nellapianificazione assistenziale. Ma lecita o illecita rispetto a cosa? Evidentemente rispetto allanostra conoscenza su di essa, rispetto alla legislazione e, non ultimo, rispetto al codice etico edeontologico dell’infermiere .

Ma torniamo a Bobbio per il quale «è incredibile come sia difficile far capire che la scoperta diuna diversità non ha alcuna rilevanza rispetto al principio di giustizia, il quale, recitando che glieguali debbono essere trattati in modo eguale e i diseguali in modo diseguale, riconosce cheaccanto a coloro che vengono considerati eguali ci sono coloro che vengono considerati disegualio diversi. [...] La diversità diventa rilevante quando sta alla base di una discriminazione ingiusta.Però, che la discriminazione sia ingiusta, non dipende dal fatto della diversità ma dal riconosci-mento dell’insussistenza di buone ragioni per un trattamento diseguale21».

Qualche anno fa, quando ancora non c’erano molti stranieri in Italia, una caposala raccontò unaneddoto molto istruttivo sul pregiudizio verso l’altro in campo assistenziale. Si trattava di unaUnità operativa di medicina dove, mesi addietro, era stato ricoverato un paziente di colore che siera rifiutato di mangiare qualsiasi tipo di carne per il timore di infrangere il divieto coranico allacarne suina. Nel rispettare questa richiesta l’équipe infermieristica aveva tacitamente concluso che“tutti i pazienti di colore non mangiano la carne”; così la dieta vegetariana ai pazienti “africani” siprotrasse per diverso tempo, fino a quando uno di questi domandò ad un infermiere se “a quellicome lui la carne non la davano mai…”.

È estremamente importante riflettere sull’alterità del bisogno di assistenza in quanto tale rifles -sione porta in luce i nostri pregiudizi nei confronti dell’altro. Non si tratta affatto di pretendere laloro eliminazione, quanto invece di renderli espliciti nella riflessione che porta alla comprensione

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Tab. XV. Per Norberto Bobbio l’eguaglianza può essere considerata come un’eguaglianza dei principi(ad es. “gli uomini sono tutti uguali di fronte alla legge”) o come un’eguaglianza di fatto (ad es. “tutti gliuomini sono mortali”).

L’eguaglianza

come principio

come fatto

ha il suo contrario nella diseguaglianza

ha il suo contrario nella differenza

di una data situazione. Montesquieu, lo ricordiamo, chiamava “pregiudizi” «non già ciò che fa sìche noi ignoriamo certe cose, ma soprattutto ciò che fa sì che ignoriamo noi stessi». La loro peri-colosità, allora, non è insita nella valutazione (positiva o negativa sull’evento preconcetto), ma,come afferma Gadamer, sta nel loro nascondimento alla nostra coscienza.

Una parentesi sui pregiudiziMa cos’è un pregiudizio? Letteralmente significa l’espressione di una valutazione in mancanza deidati, delle conoscenze o dell’esperienza che possa avvalorarne la validità e l’attendibilità.Nell’espressione del francese Pierre-Andrè Taguieff si tratta di un «giudizio prematuro [che indu-ce a] credere di sapere senza sapere, di prevedere senza indizi sufficienti e sicuri, a trarre conclu-sioni senza possedere le certezze necessarie, ma affermando e talora imponendole come certe22».

Bobbio, dal canto suo, distingue varie forme di pregiudizio: individuale o collettivo, naturale osociale, nazionale o di classe e, come abbiamo già visto, si sofferma sulle conseguenze principalidel pregiudizio, la più nociva delle quali è senza dubbio la discriminazione. Essa avviene con unasovrapposizione o scambio tra il giudizio di un’alterità di fatto con una di principio, attraverso trepassaggi progressivi: a) la rilevazione di una diversità, b) la valutazione (positiva-negativa) equindi c) la discriminazione vera e propria - che nel caso del razzismo può giungere sino all’aber-razione della “soluzione finale” nazista23.

È nota la famosa espressione di John Dewey, per il quale «nessuno è senza pregiudizi, e quandoqualcuno pretende di non averne, questa pretesa è già indubbiamente il peggiore dei pregiudizi».Ma proprio in questa prospettiva occorre aver chiaro che noi andiamo incontro all’altro con tuttociò che siamo (con tutte le nostre identità particolari) e con tutto ciò che sappiamo - o presumia -mo di sapere. Pensare di sfuggire al pensiero prevenuto - scrive lo psicoanalista Castellazzi -evoca il tentativo del Barone di Münchausen che, caduto dentro una buca, pensava di poter uscir-ne fuori andando prima a casa a prendere una vanga per poi scavarsi dei gradini. In altri termini«ciò significa che il nostro punto di osservazione non è mai asettico ed impersonale. Quanto èosservato è anche “costruito” dall’osservatore, al punto da dover concludere che non è per nullasostenibile il “dogma dell’immacolata osservazione”. Stando così le cose, qualsiasi analisi dei pre-giudizi altrui è inevitabilmente viziata dai nostri stessi pregiudizi24».

Se riportiamo alla memoria l’impostazione falsificazionista dell’epistemologia di Popper, possia-mo vedere meglio che tutta la nostra pratica professionale è mediata dal confronto, cioè dalla cri -tica, tra il piano della “competenza culturale” e quello della “competenza disciplinare”. Le nostrestesse ipotesi diagnostiche o le pianificazioni assistenziali sono “scientifiche” non tanto in quanto“verificate” da anni di ricerche e di applicazioni che le corroborano, ma perché in quella datasituazione, vengono ri-costruite o ri-confermate dall’infermiere , che non si reputa “al di sopra” deipregiudizi propri ed altrui, ma cerca di farli emergere nel confronto con il loro paziente e il suonucleo familiare (cioè nel confronto tra le loro competenze personali e culturali sull’assistenza) e lesue identità particolari ivi compresa la competenza disciplinare. L’obiettività scientifica delle scien-ze sociali, nota l’antropologo Marvin Harris, «non nasce dall’assenza di pregiudizi - tutti ne hanno- ma dal far si che quelli di ciascuno non influenzino il risultato del processo di ricerc a2 5». Lo stes-so concetto era d’altronde già presente nello storico ed epistemologo Gaetano Salvemini per ilquale l’obiettività «non vuol dire altro che c o n t rollabilità delle ipotesi pro p o s t e. E, in effetti, que-st’obiettività risulta non dall’assenza di prevenzioni ma dal contrasto fra preconcetti in conflitto2 6».

Per Tzvetan Todorov occorrerebbe ulteriormente distinguere nel rapporto con l’altro almeno treassi: l’asse del giudizio di valore “buono-cattivo”, “inferiore-superiore” su un piano assiologico;l’asse del movimento di avvicinamento o allontanamento su un piano prasseologico (ad esempiola tensione o repulsione, la xenofilia o xenofobia) e l’asse conoscitivo su un piano epistemologico(ad esempio le tipologie di “saperi professionali” o le immagini mentali compiute sull’altro)27.

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In alcuni casi ancora crediamo si possa giungere ad ipotizzare l’esistenza di una sorta di effettoP i g m a l i o n e2 8, ovvero di quello che potremmo chiamare un “risultato assistenziale autorealizzantesi”.Ciò avviene quando - più o meno consapevolmente - l’infermiere si relaziona con l’altro mediantestereotipi o pregiudizi non mediati da alcun controllo critico che lo portano a “predire” il risultatodella stessa relazione. La competenza disciplinare, infatti, è essa stessa portatrice di una precisaimpronta culturale - quella occidentale - che non si sostituisce, ma si aggiunge, integra o compe-netra le altre identità della persona-infermiere. Una manifestazione classica di questo fenomeno, anostro parere, è il contenuto delle “consegne” nel cambio turno. Le “consegne” costituiscono unmomento importantissimo del flusso informativo all’interno dell’assistenza infermieristica e, spes-so, vengono espresse mediante sintetiche categorizzazioni, non sempre rigorose quanto al lorocontenuto e alla loro forma. È, insomma, un buon momento per ritrovare espressioni pregiudizialitanto di tipo disciplinare che pre-disciplinare. L’espressione: “Nuovo ingresso per colecisti al letto16”, o ancora più sinteticamente “Nuova colecisti al 16”, è un’evidente e abbastanza frequentemeccanismo di proiezione della patologia o di un dato organizzativo (veri p re g i u d i z i g i a c c h éorientano la visione del paziente di cui stiamo parlando) sulla effettiva realtà e unicità dello spa-ventato quarantacinquenne signor Rossi al suo primo ricovero ospedaliero per reiterate colicheaddominali, casualmente capitato al letto 16 della nostra chirurgia per un intervento programmatodi colecistectomia. Questo pregiudizio di tipo disciplinare orienta l’impostazione mentale di chi loproduce e di chi lo riceve verso una situazione di tipo standard che aspetta solo di r i p ro d u r s iuguale a sé stessa per tutti i nuovi ingressi per colecisti di quel reparto.

Ma nelle consegne possiamo trovare anche pregiudizi di ordine culturale. Ancora pochi anni fa,ad esempio, era diffusa la c o n v i n z i o n e che le gravide di origine meridionale vivessero “teatral-mente” il travaglio e avessero in generale una soglia di sopportazione del dolore molto bassa. Unvero e proprio pregiudizio, di fronte al quale, allora, la maggioranza degli operatori era certamenteimpreparata. Quando una donna in travaglio veniva presentata nelle consegne, oltre che attraversoinformazioni cliniche, anche attraverso il suo background culturale il metamessaggio veicolatoalla collega riguardava una messa in guardia per un travaglio relazionalmente stressante. Ma l’a-spetto preoccupante è che queste “predizioni” si realizzavano con una puntualità impressionantespesso con esiti d’ansia, di travagli bloccati, di parti che da eutocici divengono distocici, con con-seguenze a volte importanti anche per il vissuto esperienziale della donna.

Seguendo l’indicazione di Todorov, possiamo cogliere su di un piano prasseologico gli aspetti diavvicinamento o allontanamento all’altro ad esempio nei pregiudizi. Sappiamo già del loro potereall’interno del processo conoscitivo, si tratta ora di considerarli anche dal punto di vista del valoreche esprimono in merito all’oggetto pre-giudicato. È abbastanza evidente la pregiudizialità d’ordinenegativo, che può arrivare a rivestire i caratteri della xenofobia (letteralmente “paura del diverso”)sino ai toni dispregiativi del razzismo. Meno noto ma non meno criticabile del primo, è il versanteopposto del pregiudizio sull’altro, quello cioè che ne anticipa un giudizio sostanzialmente positi-vo, cioè la xenofilia, l’amore per il diverso in quanto tale.

La xenofilia conosce due versioni, a seconda che lo straniero in questione appartenga a una cul-tura percepita come superiore o inferiore alla propria. La prima variante di xenofilia si potrebbeanche chiamare malinchismo dal nome di “Malinche”, la donna atzeca che divenne l’interpreteindigena di Cortés, il tristemente famoso conquistador spagnolo. La seconda variante è familiarealla tradizione occidentale: è quella del buon selvaggio; vale a dire delle culture straniere ammira-te proprio in ragione del loro primitivismo, della loro arretratezza, della loro inferiorità tecnologi-ca. Quest’ultima posizione è viva ancor oggi e la si può identificare facilmente all’interno di alcu-ni discorsi ecologisti o terzomondisti.

Per Todorov, «ciò che rende questi comportamenti xenofili non tanto insopportabili, ma pococonvincenti, è proprio quanto essi hanno in comune con la xenofobia; la relatività dei valori sulla

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quale si fondano». Questo aspetto dell’amore per il diverso porta Todorov a precisare anche ilconcetto di “Tolleranza”. «Si è soliti opporre la tolleranza al fanatismo, e giudicarla superiore; maa queste condizioni la parità è vista a priori. La tolleranza è una qualità soltanto se viene esercitatanei confronti di oggetti del tutto inoffensivi: perché condannare gli altri, come si è fatto spesso, sedifferiscono da noi nelle abitudini alimentari, igieniche, o nel vestiario? Al contrario, la tolleranzaè fuori luogo se gli “oggetti” in questione sono le camere a gas, o per fare un esempio più lontano,i sacrifici umani degli Aztechi: il solo atteggiamento accettabile al riguardo è la condanna29».

Torneremo alle tematiche etiche della tolleranza nel paragrafo sulla personalizzazione dell’assi-stenza. Per ora è sufficiente sottolineare come l’alterità dell’uomo possa manifestarsi, nella rela-zione tra infermiere e cliente, in un’infinita possibilità di forme: dall’alterità razziale, sessuale,generazionale, sino all’alterità di culto e di ideologia politica per giungere infine a quel complessodi particolari alterità che caratterizza l’unicità e l’irripetibilità di ogni persona umana nell’identitàculturale. Anche nell’assistenza, insomma, “ogni uomo è simile a tutti gli altri, simile a qualchealtro, simile a nessun altro”. Ed è proprio quest’alterità, che di volta in volta può essere percepitacome eguaglianza, differenza o diseguaglianza che deve essere c o m - p re s a, cioè interpretata evalutata dall’infermiere per evitare ingiuste discriminazioni da un lato e per poter proporre presta-zioni realisticamente efficaci dall’altro.

4.2.2 La a\normalità del bisognoL’alterità del bisogno assistenziale e le infinite modalità e risorse utilizzate dalla specie umana perla sua soddisfazione ci inducono ad approfondire il concetto di “normalità” o di “anormalità” chetante volte viene espresso superficialmente nelle nostre anamnesi e consegne infermieristiche.Cosa vuol dire la rilevazione “igiene nella norma” o “alimentazione normale”? “Normale” o“anormale” per chi? E secondo quali criteri?

Abbiamo visto che il sociologo Gallino mentre da un lato ammonisce contro l’uso del concettodi bisogno al di fuori di cornici che ne definiscano l’esatto significato, dall’altro ne evidenzia con-seguentemente la limitatezza d’uso. Se poi il bisogno nasce da un giudizio esterno al soggetto,Gallino ha ben mostrato che in presenza di una teoria debole o riduttiva v’è il rischio che la corri-spondenza tra segno-indicatore e concetto di bisogno sia lasciata “alla preferenza, se non all’arbi-trio, dell’osservatore”. Proprio per evitare questo errore la Henderson invitava le infermiere “allacostante verifica delle proprie interpretazioni”.

Ma anche Maslow30 invitava a riflettere sul concetto di norma, benché, ovviamente sotto un pro-filo diverso da quello di Gallino. Per Maslow occorre anzitutto valutare l’inefficacia dei vari tenta-tivi di definizione della normalità che si sono man mano proposti nell’interpretazione della diadebisogno-risposta, quali ad esempio l’erronea coincidenza con la media statistica. Le indagini stati-stiche infatti si limitano a dirci “come stanno le cose” e sono utili strumenti di valutazione per gliesperti di questo o quel settore, ma devono essere ben valutate rispetto alla normalità o meno delsingolo caso nei confronti del contesto. Una volta ricoverammo un anziano signore di ottantaquat-tro anni. Quando venne il momento di chiedergli come evacuava, prontamente egli rispose:“Normalmente: come un orologio da anni e anni”. Ma l’infermiera, saggiamente, cercò diapprofondire la questione e scoprì che il paziente si scaricava solo una volta alla settimana: tutti imartedì, se non ricordo male.

Così pure non possiamo accontentarci della normalità come “assenza dell’anormale”, confusioneche peraltro continua spesso a capitare in medicina - come nel caso di quel paziente che consulta unmedico per un qualche disturbo persistente e alla fine di un’accurata serie di visite e di esami restacomunque insoddisfatto perché si sente dire “È tutto normale”, mentre il sintomo continua indisturbato.

Ma la normalità viene spesso usata come sinonimo di un’abitudine, di una convenzione istaura-tasi nel tempo e con l’uso, spesso per rivestire l’usanza con l’autorità della t r a d i z i o n e, segno

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e v idente dell’influenza mediatrice della cultura sui suoi membri. È questo il caso, ad esempio, deigiudizi di anormalità e morbosità che, un tempo, colpivano le donne che fumavano e oggigiorno,ad esempio, sono rivolti ai ragazzi che si mettono degli orecchini nei posti più improbabili. In que-sti casi, la difformità con la tradizione è certa, ma l’a n o r m a l i t à e la morbosità sono invece del tuttodubbi; tali giudizi sono allora in realtà pre-giudizi che derivano dalla storia e dalla situazionalità dichi li pronuncia. In tal modo - come abbiamo visto nell’illustrare il paragrafo sul secondo livellodel nucleo - l’individuo subisce il condizionamento implicito del gruppo di appartenenza, anchenelle più semplici cose di tutti i giorni. Un giorno, in un ambulatorio del Mali ci portarono un bam-bino. Il padre, molto spaventato, ci disse che suo figlio era malato perché faceva la pipì di coloregiallo quando l’urina di tutti al villaggio era invece di colore piuttosto rossiccio. Scoprimmo cosìche si trattava di una famiglia di etnia B o z o, cioè di pescatori che vivevano sulle rive di un fiumedove era endemica un’elmintiasi chiamata bilharziosi vescicale (dovuta allo Schistosoma hemato -b i u m) il cui sintomo principale è appunto una evidente ematuria. Il bimbo era quindi, probabilmen-te, uno dei pochi soggetti sani e “anormali” in un villaggio di malati e “normali”.

Il rapporto tra normale e patologico è stato indagato in modo decisivo dal medico-filosofoCanguilhem (Le normal et le pathologique, 1966) che ha definito in maniera lucida il rapportoesatto tra fisiologia sperimentale e medicina. «La medicina - scrive Canguilhem - è l’arte di stabi -l i re un rapporto positivo tra la scienza fisiologica e l’individuo che consulta il medico» .Comunque, Canguilhem risponde parzialmente alla questione posta da lui stesso sull’origine dellanormatività che la medicina crede di poter rinvenire nella fisiologia, allorché essa stessa la proiet-ta. A tale questione, Canguilhem risponde che la normatività relativa dei fatti fisiologici provienedalla normatività del vivente nei confronti di sé stesso e del proprio ambiente. Ma tale risposta, adesempio secondo il parere di Malherbe, è ancora incompleta perché non tiene conto della differen-za fondamentale che distingue l’essere umano dall’animale. Tale differenza non è solo lo sviluppodelle tecnologie. Anche gli animali hanno le loro tecniche. L’uomo si separa dall’animale per ilsuo inserimento nel mondo simbolico.

L’adattamento all’ambiente non è dunque di per sé una garanzia di salute. Malherbe, a proposito,osserva che «il criterio della salute non è la riuscita della simbiosi con l’ambiente se non sul pianobiologico. Sul piano socio-culturale, l’adattamento dell’individuo a una società non è più un criteriodi salute. Il consenso, esplicito o implicito di un gruppo non potrebbe definire la normalità. Ci sononormalità indotte dal consenso che sono in realtà patologiche3 1». Senza andare troppo lontano pos-siamo citare l’esempio del vizio del fumo o dell’abuso di svariate categorie di farmaci, sino allaconsiderazione delle malattie indotte dall’ambiente di lavoro o dall’inquinamento ambientale.

Una variante rafforzativa di questa concezione della normalità come abitudine e tradizione è laprescrizione culturale. Come abbiamo avuto modo di vedere, ogni cultura, dicono gli etnologi, sipresenta attraverso gradi diversi di “imperativi culturali”, ossia non solo influenze sulle abitudinidei singoli, ma vere e proprie prescrizioni (precetti o tabù) essenziali alla sopravvivenza di tutta lasocietà. Gli imperativi culturali comprendono quindi i modi di procurarsi cibo e riparo, di averecura della prole e di trasmettere la conoscenza, di limitare i conflitti interni, e così via. Per gli psi-cologi e gli antropologi che abbiamo presentato, in tutte le società gli imperativi culturali si fon -dano sui bisogni fisiologici e sociali degli individui . E spesso ci si riferisce ad essi come a requisi-ti funzionali percepiti quindi come “normali” presso qualsiasi società.

Forse l’esempio più semplice è quello di riferirci al gusto ed alle prescrizioni alimentari.Quando ancora lavoravamo in Africa, dopo una intera giornata passata a vaccinare bambini edonne gravide, non era pensabile andarsene (o come si dice laggiù “domandare la strada”) primadi aver consumato il pasto offerto dal capo villaggio: sarebbe stato un grave segno di scortesia e diinimicizia. Il menu consisteva in un piatto unico, più o meno ricco e più o meno costoso secondole possibilità del villaggio e la contingenza del momento. La consumazione avveniva in un cortile o

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all’interno di un’abitazione, seduti attorno ad uno o due piatti comuni, dai quali ciascuno attingevacon la mano (destra). Prima di iniziare, ci si lavava le mani a turno in una calebasse (contenitoreottenuto scavando un tipo particolare di zucca); alla fine del giro, in alcuni villaggi soprattutto ipiù isolati o chiusi, il capo villaggio beveva un sorso dell’acqua rimasta, in segno di rispetto e diamicizia per gli ospiti. I piatti più comunemente offerti erano il to, una sorta di polenta di miglioinsipida e fredda, oppure cous-cous di fonio o di mais, o ancora riso con pollo in salsa di arachidi,altre volte con salsa a base di pesce secco oppure con una salsa vegetariana a base di foglie di bao-bab, di colore verde scuro, molto saporita e molto viscida. Era quest’ultima che all’inizio faceva-mo fatica ad affrontare, con sommo imbarazzo dei nostri colleghi autoctoni. Non capivano comenon si potesse apprezzare una tale specialità e così insistevano parecchio - anche per non offende-re le autorità del villaggio. Qualche tempo dopo ricevemmo dall’Italia una forma di stracchinobergamasco, ben stagionato a causa del viaggio e del clima africano. Alla prima occasione nonmancammo di offrirne un assaggio ai nostri amici maliani che finirono così per accettare l’idea dicome i gusti siano, oltreché personali, indotti dalle tradizioni culturali proprie di un popolo.

Maslow, ma anche tutta l’antropologia culturale contemporanea, individua un’altra limitata con-cezione della normalità/anormalità nella soddisfazione dei bisogni dell’uomo quando motivata dalrispetto di precetti morali di una determinata religione o visione del mondo. È del tutto normaleper gli Yanomami dell’Amazzonia macinare le ossa dei defunti ad un anno dalla morte e mangiarleo berle mischiate a alimenti o bevande particolari32. Oppure limitare le nascite con la pratica del-l’infanticidio. In alcune etnie sub-sahariane, ad esempio, la nascita di due gemelli poteva portarealla decisione di sopprimerne uno soffocandolo tra i panni o sotto le cosce della mamma. La sceltadi quale gemello sopprimere era ovviamente legata al suo aspetto - il più gracile - o al suo sesso -tra due gemelli di ambo i sessi di un parto biovulare si sopprimeva molto più frequentemente labambina che non il maschietto33.

Infine, come infermieri, non possiamo non aggiungere la considerazione che lega la normalitàdel binomio bisogno-risposta al rispetto di norme organizzative dell’istituzione ospedaliera. Nellavita dell’ospedale “il normale” è regolato ben più dalle esigenze organizzative che dalle necessitàdei pazienti, a dimostrazione proprio dell’assenza di peso della competenza infermieristica. Comenon rendersi conto di questo nella sveglia all’alba per il “giro delle temperature”, o per quello deiprelievi (perché “così si porta avanti il lavoro” e così “tutto è in ordine per il giro visita”), oppureancora la cena rigorosamente tra le 17,30 e le 18 di sera (cioè poco dopo l’ora in cui i bambinifanno normalmente la merenda), o infine l’uso indistinto del “tu” nel comunicare con i pazienti odel “numero del letto” per indicarli ai colleghi.

Ricapitoliamo: abbiamo visto che il bisogno di assistenza, pur u n i v e r s a l e, è intrinsecamenteparticolare, cioè di volta in volta sempre diverso per il suo legarsi da un lato alla tradizione e dal-l’altro all’interpretazione soggettiva della singola situazione. Questo ci ha spinto a rilevare il pesodei nostri pregiudizi nella comprensione dell’altro: l’incontro con l’altro, infatti, mette in risaltotutte quelle “pre-comprensioni” con le quali noi attuiamo ogni tipo di comprensione. L’alterità, aquesto punto, si scontra con il concetto di normalità (o, viceversa, di anormalità), in quanto esitodel nostro processo conoscitivo. Che cosa ritenere normale e cosa no? Per meglio apprezzare imolteplici volti dell’alterità nella diade bisogno-risposta, abbiamo dunque spinto la nostra osser-vazione sulla difficile definizione di ciò che in essa potrebbe essere considerato “normale” o“anormale”, adducendo molti esempi e casi particolari. Di nuovo dobbiamo ammettere che ilrisultato di questa osservazione non è per nulla certo e dobbiamo constatare quanto sia forte la ten-tazione di trovare scorciatoie per risolvere il problema dell’alterità. Ritorna allora la considerazio-ne che già facevamo all’inizio sull’alterità di fatto o di principio nella valutazione della quale i cri-teri, i parametri di giudizio, - potremmo dire “le cornici” scientifiche o culturali - cambianoc o n t inuamente, secondo le coordinate temporali e spaziali.

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Eppure, come scriveva Henderson, l’interpretazione del bisogno è un passaggio delicatissimo,ma obbligato: di fatto potremmo dire che «significa compre n d e re il bisogno con gli occhi delpaziente, ma valutarlo non quelli dell’infermiera». Quali sono i rischi di questa valutazione? Liabbiamo già incontrati di passaggio nel secondo e nel terzo capitolo, in modo trasversale a tutte lediscipline umanistiche o teorie infermieristiche che si sono occupate dei bisogni dell’uomo: sonoper un verso il rischio “universalista” o “naturalista” e per l’altro il rischio “relativista”. Il primodice: “posso senz’altro riconoscere nei bisogni dell’altro quelle manifestazioni universali che cipermetteranno di comprenderlo: innanzitutto la sua dimensione bio-fisiologica, ma anche quelled’ordine psicologico e socioculturale hanno delle regole comuni che possono essere conosciute estudiate oggettivamente”. Questo programma è definibile come “universalista” in quanto ci spingea studiare l’altro cercandovi i nostri tratti e valori costitutivi attraverso le misurazioni quantitativedella nostra conoscenza scientifica o più in generale con lo sguardo proprio della nostra cultura. Ilsecondo afferma invece: “Non possiamo affatto avanzare alcuna pretesa di comprensione dei biso-gni degli altri e tantomeno giudicarli dal nostro punto di vista in quanto dal loro, tutti si equival-gono ed hanno pari dignità di espressione e legittimazione”. Questo programma non invita unica-mente a considerare il dato conoscitivo in relazione al contesto, ma dice che è impossibile o ille -gittima alcuna valutazione sulle abitudini assistenziali degli altri. Per questi motivi è un program-ma che va sotto il nome di “relativismo assoluto”.

È venuto il momento di guardare questi estremi più da vicino, perché essi ripropongono nelnostro ambito quello che più in esteso avviene nell’incontro con l’altro visto all’interno della filo-sofia, della letteratura, della storia e dell’incontro sociale.

Una parentesi sull’etnocentrismoUna data precisa segna emblematicamente ogni discorso attorno all’alterità dell’uomo. Questadata è il 12 ottobre 1492, quando Colombo “scoperse” l’America, e, proprio in virtù di uno spirito“universalista” diede il via alla conquista di queste terre. Ancor oggi è questo, senza ombra di dub-bio, l’evento storico che meglio di altri può mostrare la reazione al “diverso” nei miti opposti del“buon selvaggio” e dell’“uomo-bestia” da ridurre in schiavitù. Ma il fatto è che entrambi i miti sifondano su una base comune, il disconoscimento degli indiani e il rifiuto di considerarli soggetticon i nostri stessi diritti, ma diversi da noi. Come si usa dire: Colombo ha scoperto l’America, nongli americani. Tutta la storia della scoperta dell’America, primo episodio della grande Conquista,soffre di questa ambiguità: l’alterità umana è, al tempo stesso, rivelata e rifiutata. Colombo nonriesce a comprendere l’altro: anche quando lo percepisce come simile non lo reputa eguale a sé epunta ad assimilarlo, a proiettare su di lui i propri valori e modi di vita, nel più classico spiritoetnocentrista. Ma il più delle volte lo considera inferiore, gli impone i propri valori e lo assoggettaal proprio volere. Ebbene, «queste due elementari figure dell’alterità - scrive Todorov - si fondanoentrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del pro-prio io con l’universo: sulla convinzione che il mondo è uno34». E fu il più grande genocidio dellastoria umana: per le guerre, le crudeltà incredibili, le epidemie e il semplice shock culturale dellaconquista si calcola che dal 1500 al 1550 morirono ben settanta milioni di esseri umani: il 17%della popolazione mondiale di allora!

Abbiamo iniziato da questo fatto storico sulla “conquista” dell’America perché l’etnocentrismodei “conquistadores” è emblematico di un fenomeno ben conosciuto nella storia dell’umanità.Tutte le società umane, infatti, per costruirsi in quanto gruppo in un “noi” - ed in modo indipen-dente dalla loro complessità organizzativa - necessitano di una memoria storica, di miti e tradizio-ni che spieghino i loro inizi e diano conto delle differenziazioni con gli altri. Ogni società è quindinaturalmente portata a valutare gli altri con il proprio punto di vista, con le proprie categorie cul-turali, ponendosi al centro di questo processo conoscitivo.

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Già Senofane aveva notato come ogni popolo si costruisce i propri dei ad immagine e somi-g l i a n z a3 5. E dal canto suo, mentre descriveva gli usi dei Persiani Erodoto rilevava una sorta di“etnocentrismo di prossimità”: «Fra tutti, [i Persiani] tengono in onore i propri vicini di casa,meno però di sé stessi; al secondo posto i vicini di seconda fila, poi via via gli onori decrescono inproporzione alla distanza: meno di tutti vengono onorati coloro che abitano più lontano. La loroidea è di essere loro stessi i migliori, di gran lunga, fra gli uomini; gli altri partecipano delle virtùin proporzione, finché chi abita più lontano è anche il peggiore36».

Così come ad intere generazioni di scolari di ogni nazione europea viene insegnata la storia inmodo tale da far apparire il loro territorio nazionale come fosse al centro dell’universo (sono in o s t r i eroi del passato, militari, politici, culturali, scientifici che vengono fatti figurare come aves-sero avuto un’influenza di proporzioni gigantesche sul progresso della storia mondiale), allo stessomodo ogni altra società ha mitologie che ne rivelano l’etnocentricità. Per gli indiani cerocki, adesempio, la comparsa dell’uomo sulla terra avvenne perché «il Grande Spirito creatore del mondo,avendo in mente di creare gli uomini, fabbricò tre statuette di argilla, introducendole nel forno acuocere. Estrasse poi la statuetta dal forno, ma poiché era ancora presto, risultò bianca e mal cotta:da essa deriva l’uomo bianco. Estrasse poi la seconda, era di giusta cottura, di colore rosso: da essaderivano gli indiani. Il Grande Spirito, a causa di una dimenticanza, estrasse troppo tardi la terza,che risultò troppo cotta e di colore nero: da essa nasceva la stirpe dei neri. Così furono create le trerazze umane abitanti in America: ma quella bianca e quella nera portano, fin dalle origini, il marchidell’imperfezione, mentre la stirpe indiana è l’unica che presenta i caratteri della perfezione».

Le giustificazioni etnocentriste, come ben evidenzia Todorov, hanno il carattere della circolarità:in primis si definiscono i valori assoluti, ovviamente desunti da quelli personali, e in seguito, sifinge di giudicare il proprio e l’altrui mondo con l’aiuto di tale assunto, benché esso sia a volte unfalso assoluto. Nomi illustri sono caduti nella trappola del pensiero etnocentrico. Todorov porta,tra gli altri, l’esempio di Blasie Pascal, che scriveva al numero 606 dei Pensieri: «Nessuna religio-ne, tranne la nostra, ha insegnato che l’uomo nasce in peccato, nessuna sètta di filosofi lo ha detto:nessuna dunque ha detto il vero». Il “vero” - annota Todorov - «è definito dal “nostro”, cosa chenon impedisce a questo “vero” di accorrere in seguito per ravvivare il prestigio del “nostro”, ador-nandolo con i suoi bei colori! L’universalismo di Pascal appartiene alla specie più banale: quellache consiste nell’identificare, in modo acritico, i propri valori con i valori; in altre parole, con l’et-nocentrismo37». Simili all’etnocentrismo, esistono poi altre forme di pensiero che misconosconol’alterità dell’altro a beneficio della pretesa universalità dell’uomo: esse sono lo scientismo, ilnazionalismo e l’egocentrismo. Ognuna di queste dottrine - osserva Todorov - si limita ad un soloaspetto della vita umana ed elimina o trascura gli altri.

Per gli scientisti, in particolare, conta solo il valore dell’universalità: ad esempio l’appartenenzadi tutti alla stessa specie, la comune manifestazione della medesima sintomatologia patologicaecc. Ma questo, ovviamente, non può valere per l’assistenza infermieristica. Doris, una donna gha-nese ormai divenuta un noto caso critico, in ospedale si lavava strofinandosi il corpo con rigidecorde di canapa annodate: siccome non si lava con il sapone è questo un dato sufficiente per iden-tificare un “bisogno di igiene”?38

Una parentesi sul relativismoAbbiamo più volte incontrato il termine “relativismo” nella nostra trattazione. Ricorderete la criti-ca di Popper al “mito della cornice”, così come la difesa di Gadamer alla sua ermeneutica ontolo-gica, accusata di relativismo. L’abbiamo poi riconsiderato positivamente come essenziale stru-mento conoscitivo dell’antropologia culturale, per finire ancora con l’accusa di relativismo di cuipossono essere tacciate alcune teorie infermieristiche di tipo ermeneutico, ree di “dissolvere l’a-normalità dei bisogni nell’alterità della loro manifestazione”. Nella sua espressione più radicale, il

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relativismo rinuncia a qualsiasi giudizio in quanto “tutto è relativo”, alla particolare teoria scienti-fica adottata, o più in generale alla cultura, ai valori, alle leggi, di quella persona, di quel popolo,di quella nazione.

Il relativismo ha avuto nella storia del pensiero occidentale grandi e piccoli sostenitori. Tra gli altriè certamente nota la posizione relativista del francese Michel de Montaigne (1533-1592), che curio-samente rilevava già quelle diversità autoassistenziali che poi costituirono l’oggetto di studio dell’et-nonursing di Leininger. Scrive ad esempio: «vi sono società in cui uccidono i pidocchi con i denti etrovano orribile vederli schiacciare con le unghie. Dove per tutta la vita non ci si taglia né un pelo néun’unghia; altrove dove ci si taglia solo le unghie della destra, e quelle della sinistra si accresconoper gentilezza. O dove si lascia crescere fino a che può il pelo del corpo sul lato destro, e si tienerasato il pelo dell’altro lato. E nelle province vicine quella lascia crescere il pelo davanti, questa ilpelo dietro e lo rasa all’opposto. Dove i padri prestano i figli, i mariti le mogli, da far godere agliospiti, a pagamento». Ogni società, osserva Montaigne, giudica le altre partendo dalle proprie cate-gorie; famosissimo, al riguardo, è il suo lapidario commento sulla presunta barbarie di un popolo:«ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altropunto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio delle opinioni e degli usi del paese in cuisiamo. Ivi è sempre la perfetta ragione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa3 9» .

Montaigne difende, contro l’etnocentrismo, il relativismo razionale, finendo però con il consta-tare che siccome tutto può considerarsi “naturale”, nulla lo è. «Nel suo cieco attaccamento alla“consuetudine” - annota Todorov - Montaigne non rinuncia soltanto ai giudizi assoluti, ma ancheall’unità del genere umano: la differenza culturale prevale sull’identità naturale. “C’è più differen-za da tale a tale uomo, che da tale uomo a tale bestia”. Non è difficile immaginare tutte le conse-guenze che possono trarsi da una simile massima: certi uomini non meritano di essere trattati peg-gio delle bestie? È su questo relativismo radicale che si fondano le due grandi opzioni politico-eti-che di Montaigne: conservatorismo in casa propria, tolleranza verso gli altri40».

Contro il relativismo assoluto ed un troppo facile universalismoLa constatazione dell’alterità della diade bisogno-risposta non credo necessiti di ulterioriapprofondimenti. Piuttosto ci siamo concentrati sulle varie reazioni che possono manifestare gliinfermieri a fronte all’alterità dell’altro: i loro pregiudizi, le loro tendenze ego-etnocentriche, rela-tiviste o scientiste. Ce n’è abbastanza per motivare da un lato la molteplicità degli apporti teoricidella “Scuola dei bisogni” studiati nel secondo capitolo, dall’altra per comprendere maggiormentela difficoltà di analisi che in esse abbiamo constatato. Quando presentavamo le varie teorie della“Scuola dei bisogni” dell’infermieristica abbiamo proposto di considerarle secondo tre tipologie dibase: organizzative, naturalistiche ed ermeneutiche. Crediamo sia utile riprendere in questa sedeciò che dicevamo allora di queste tipologie, alla luce del nucleo teorico presentato in questo capi-tolo e delle considerazioni svolte attorno al problema dell’alterità del bisogno.

Di fatto, nessuna delle specificazioni che caratterizzano queste tipologie deve essere considera -ta superflua: l’attenzione al contesto normativo di quelle organizzative, il rigore metodologicodelle naturalistiche e la comprensione dell’altro di quelle ermeneutiche. Se tuttavia continuiamonell’impresa di considerare il bisogno di assistenza come il centro d’interesse dell’infermieristicaoccorre esplicitare i limiti di ciascuna. In particolare occorre affermare l’esistenza ed il peso deinostri pregiudizi, ma anche il diritto-dovere dell’infermiere ad esprimere una valutazione sulladiade bisogno-risposta tanto a livello della competenza personale quanto di quella culturale. È daquesto confronto, infatti, che può nascere l’espressione intersoggettiva del bisogno di assistenzainfermieristica: non come espressione soggettivistica del paziente (“ogni mio bisogno è un dirit-to”), né come espressione oggettivista o scientista dell’infermiere (“faccio solo ciò che devo”, o“faccio solo quello che è dimostrato davvero esserti utile”).

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Allargandoci di nuovo al più ampio pensiero sull’alterità che ci ha condotti sino a qui, constatia-mo che il diritto all’eguaglianza nell’assistenza non si fonda su quell’universalismo che pretendedi imporre agli altri i miei valori, ma neppure sull’imposizione dei fatti della scienza, ed infineneanche attraverso il relativismo assoluto, per il quale non esiste anormalità, ma solo relazione alcontesto. Parafrasando Todorov, non c’è alcuna ragione per rinunciare all’universalità del genereumano nell’assistenza; noi dobbiamo poter dire non tanto che una certa diade bisogno-rispostapresa come un tutto è superiore o inferiore a un’altra (significherebbe ancora una volta vedereovunque una uniformità coerente) ma che un determinato aspetto di una certa diade, sia essa lanostra o un’altra, uno specifico comportamento assistenziale è condannabile o lodabile41.

Dobbiamo affermare, insomma, che una particolarità non è di per sé un valore, e soprattutto nonlo è a priori. Per diventarlo deve prima affermarsi come tale. Ogni volta che senza un esame criti-co rigoroso - che non può essere compiuto se non incontrando “l’altro da sé” - si attribuisce aqualche particolarità statuto e significato di valore, si scivola verso il particolarismo, la scala deivalori si abbassa e si adatta a criteri parziali o relativi42. Ecco perché è tempo di riconoscere che -ben lungi dal pretendersi universali - tutti i giudizi sull’altro sono relativi: ad un tempo, ad unluogo, ad un contesto, ad una relazione; ma questo relativismo è tutt’altro che assoluto e quindievita le degenerazioni ciniche o nichiliste di coloro che rifiutano o negano l’esistenza di alcunvalore. In altre parole, il relativismo esteso acriticamente e inconsapevolmente ad ogni ambito direlazione, non è affatto la panacea dei problemi legati all’alterità, ma anzi, può essere la causa dimali altrettanto gravi che l’etnocentrismo. Ma allora, come possiamo evitare, simultaneamente, ipericoli dell’universalismo pervertito (dell’etnocentrismo come dello scientismo) e quelli del rela-tivismo? Tanto per Todorov quanto per Bobbio «non saremo capaci di farlo se non riusciremo adare un nuovo significato all’esigenza universalista. È possibile difendere un nuovo umanesimo, acondizione che si prenda la precauzione di evitare i tranelli nei quali cadeva talvolta la dottrinaomonima, nel corso dei secoli passati. Potrebbe essere utile parlare, a tale proposito, e per sottoli-neare la differenza, di un umanesimo critico43».

Due sono le grandi figure della filosofia francese che Todorov richiama per delineare i tratti diquesto umanesimo critico: Charles-Louis Montesquieu de Secondat (1689-1755) e Jean-JacquesRousseau (1712-1778). Rousseau, ad esempio, nel famoso Discorso sull’origine della disegua -glianza tra gli uomini del 1775 indicava come fosse necessario combattere un troppo facile ugua-litarismo e «scuotere il giogo dei pregiudizi nazionali, imparare a conoscere gli uomini attraversole loro affinità e le loro differenze». E ancora, nell’Emilio o dell’educazione del 1762, quandoindicava nell’apprendimento delle lingue un esempio di questo paradossale procedimento per cuisi scopre il proprio nel diverso: «Bisogna imparare il latino per sapere bene il francese; bisognastudiare e confrontare l’uno con l’altro per intendere le regole dell’arte di parlare». Con un’osser-vazione in linea con la posizione ermeneutica assunta dalla teoria dei bisogni dell’infermieristica,Todorov nota che «il “buon” universalismo di Rousseau è, dunque, quello che non deduce l’iden-tità umana da un principio, quale che sia, ma che parte da una approfondita conoscenza del parti-colare e che avanza per tentativi. […] È, ancor più, quello che si fonda su almeno due particolari(come per le lingue - il francese ed il latino [ma noi potremmo dire come per le due competenzepersonale e disciplinare interpretate dall’infermiere e dal suo paziente]) e, dunque, sull’istituzionedi un dialogo tra di essi; Rousseau distrugge qui la falsa evidenza dalla quale parte l’etnocentrista,la deduzione dell’universale a partire da un particolare. L’universale è l’orizzonte di intesa tra dueparticolari; forse non lo si raggiungerà mai, ma nondimeno vi è bisogno di postularlo per rendereintellegibili i particolari esistenti44».

Occorre considerare allora - come già ci aveva invitato a fare Bobbio all’inizio di questo para-grafo - che i tratti universali anche della diade assistenziale dipendono non già dal mondo empiri -co, oggetto dell’osservazione, ma dal cammino stesso dello spirito umano e come tali sono sempre

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soggetti a revisione. L’elemento propriamente umano non è allora, evidentemente, questo o quel-l’aspetto della cultura, giacché gli esseri umani sono influenzati dal contesto nel quale sono statigenerati e un simile contesto varia nel tempo e nello spazio. Piuttosto, «ciò che ogni essere umanoha in comune con tutti gli altri - afferma Todorov - è la capacità di rifiutare queste determinazioni;in termini più solenni diremmo che la libertà è il tratto distintivo della specie umana. Di sicuro ilmio ambiente mi spinge a riprodurre i comportamenti che valorizza; ma esiste pure la possibilitàdi staccarmene, e ciò è essenziale. […] Se si intende l’universalità in questa maniera si impedisceogni scivolamento dall’universalismo verso l’etnocentrismo o lo scientismo (poiché si rifiuta dielevare a norma un qualsiasi contenuto), senza per questo cadere nella bizzarria del relativismo,che rinuncia ai giudizi, o in ogni caso ai giudizi transculturali. È l’universalità stessa, infatti, che ciconsente l’accesso ai valori assoluti. È universale la nostra appartenenza alla stessa specie: è poco,ma sufficiente a fondare i nostri giudizi. […] Diventa allora possibile formulare giudizi di valoreche trascendono le frontiere del paese in cui si è nati: la tirannia e il totalitarismo sono cattivi inogni circostanza, come la schiavitù degli uomini e delle donne. Ciò non significa che una culturasia dichiarata a priori superiore alle altre, unica incarnazione dell’universale; ma che si possonoparagonare le culture esistenti, lodando maggiormente questa e biasimando quella45».

In conclusione, cogliamo l’invito di Todorov a “spezzare le associazioni facili” per costruirequesto umanesimo critico anche nella nostra assistenza all’altro. Rivendicare l’uguaglianza didiritto di tutti nell’esprimere la propria alterità autoassistenziale non implica affatto la rinunciadell’infermiere alla gerarchia dei propri valori o alla scientificità del proprio agire. Prediligerel’autonomia, la decisionalità e la libertà dell’altro (ad esempio del paziente che può rifiutare lanostra prescrizione assistenziale) non significa l’automatica rinuncia al valore della vicinanza soli-dale con il bisognoso. Così pure, infine, riconoscere da un lato la necessità di una morale pubblicae dall’altro l’importanza e la necessità di una conoscenza scientifica sull’assistenza non comportainevitabilmente né la regressione all’intolleranza né la deriva verso il riduzionismo scientista46.

Queste facili, ma pericolose, associazioni - libertà-relativismo, morale-fanatismo, scienza-s c i e ntismo, autonomia-liberalismo, ecc. - mostrano tutta la difficoltà insita nell’incontro con l’al -tro, come avremo modo di approfondire nel prossimo paragrafo.

4.2.3 Identità e alterità nella relazione infermieristicaQuesto paragrafo sostiene la tesi, ormai peraltro condivisa da molti, che tanto l’identità quantol’alterità di ciascuno si definiscono nella e grazie alla relazione con un “altro” e che pro p r i oattraverso la relazione sia possibile la comprensione e la soddisfazione dei bisogni assistenzialidel paziente. È indubbio infatti che la relazione tra uomini sia sempre una relazione tra identitàaltre da sé (“tu chi sei?”, “io chi sono?”). Non facciamo fatica a rilevare la verità di quest’affer-mazione nella nostra vita di tutti i giorni. Ed è altrettanto indubbio, ma forse meno immediatamen-te percepibile, che la nostra stessa identità è costruita attraverso la relazione con l’altro. Comediceva Perotti, siamo “costellazioni di identità”, che si manifestano nella situazione e nella rela-zione con gli altri47. Così, ad esempio, a seconda della situazione io sono definito dagli altri come“padre”, “fratello”, “marito” o “prof.”, rispettivamente quando gli “altri” sono i miei figli, mio fra-tello Giovanni, mia moglie Ornella o gli studenti del mio corso. Ciascuno di essi, poi, mi “chia-merà” differentemente dagli altri - chi con il titolo professionale, chi con il cognome, altri solo conil nome o perfino con vari soprannomi che richiamano altre situazioni vissute insieme o ancora,ma solo Ornella, con vezzeggiativi e teneri epiteti che mi rifiuto di riportare per iscritto. Se parte-cipassi poi ad un meeting internazionale, potrei essere identificato come l’“italiano”, e se mirecassi in Africa sarei probabilmente chiamato l’“europeo”, o ancora più facilmente il “bianco”.Ecco dunque alcuni banali esempi di identità particolare: l’identità famigliare, l’identità sociale oprofessionale, l’identità nazionale e l’identità genetica.

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Ognuna di esse è composta ovviamente da numerose altre identità, ciascuna, a ben vedere,caratterizzata da propri bisogni, o meglio da dimensioni proprie dei bisogni fondamentali. Per chivolesse approfondire questo punto il più bell’esempio che possiamo portare è il racconto dei lun-ghi anni di una famiglia sconvolta da un malattia terribile48. Lui, Philippe, da un giorno all’altrocostretto nella prigione del suo stesso corpo dalla sindrome del “murato vivo”, sopravvive com-pletamente paralizzato riuscendo solo a muovere gli occhi. Inizialmente con un codice poi con uncomputer, Philippe affronta il mondo e la sopravvivenza di sé stesso nonostante sé stesso. Si trattaallora di ritrovarsi un’identità con ciò che gli resta per comunicare con gli altri: gli occhi.Bisognoso di tutto, sviluppa una straordinaria capacità di intuire immediatamente negli sguardialtrui gli atteggiamenti di vero interesse alla persona che ancora è, piuttosto che gli atteggiamentidi finzione, di fuga o di commiserazione per il corpo che ha. E, cosa ancora più straordinaria, arri-va persino a riderne. Lei, Stéphane, moglie di un murato vivo, lotta tenacemente contro tutto purdi recuperare una normalità che è “sconvolgente agli occhi di tutti”. Riesce a coordinare una fami-glia “allargata” che ormai comprende, oltre ai loro tre bambini (l’ultimo dei quali avuto dopoquattro anni di malattia), amici fedelissimi, baby-sitter, infermieri, fisioterapisti. Nel dramma,vivendo “come su un palcoscenico” senza misurare gli sforzi e senza negare i momenti di buio, èriuscita a ricostruire con l’uomo che continua ad amare una complicità e un “vivere nonostante”che non esclude la complicità e il desiderio. E forse proprio a questo riguardo sono le pagine piùtoccanti, e più pedagogiche, del loro racconto: la relazione tra un marito-paziente e una moglie-infermiera honoris causa e la rinascita della tenerezza e del desiderio reciproco dopo anni di indu-rimento e di battaglie.

A pensarci bene - e se lo facciamo con impegno questo è un esercizio d’igiene mentale moltointeressante - noi non possiamo addirittura pensare a noi stessi se non in relazione con gli altri. Èdagli altri, scriveva Bachtin, che ricevo continuamente il mio nome. Partendo dai nostri genitori,dai nostri “antenati”, sino ai nostri insegnanti, amici, parenti, colleghi, clienti, è la “relazione” conl’altro il punto fondante per la costruzione dell’identità. «“Noi” - scrive ad esempio Alimenti -perveniamo all’essere nel mondo, cioè siamo umanamente e culturalmente, per “l’altro”; ove quel-la particella per, non è strumentale, ma causale. Noi fatti dagli altri49».

Nel bene e nel male, volenti o nolenti la nostra stessa interiorità è popolata d’altri. Come giàaveva intuito Bachtin, non solo viviamo sul confine con gli altri, ma il nostro stesso essere è lafrontiera con l’altro. E questa frontiera non è mai barriera o steccato, ma continua comunicazione,continuo dialogo con chi ci sta accanto50. Proprio studiando il pensiero del russo Michail Bachtinabbiamo considerato lo stretto legame tra il tema dell’alterità e la specificità delle scienze“umane” rispetto a quelle della natura. Per Bachtin, lo ricordiamo, l’es s e re dell’uomo significacomunicare, l’Io si crea solo nella relazione con un Tu.

Qualcuno si chiederà: ma cosa c’entra tutto questo con l’assistenza? C’entra eccome. C’entra atal punto che la prima teoria riconosciuta nell’infermieristica, come abbiamo avuto modo di con-statare, è quella di Hildegard Peplau che pone come nucleo dell’assistenza proprio la relazione trainfermiere e paziente. C’entra in quanto il principale con-testo dell’assistenza, tanto per l’infer-miere quanto per il paziente, è la relazione con l’altro, la sua identità e la sua alterità. C’entra,infine e soprattutto, perché il bisogno di assistenza è, ormai per definizione, “un fatto relaziona -le”: una richiesta di aiuto che sorge dalla e nella situazione relazionale tra sé e gli altri, tra sé edil proprio ambiente. Per la nostra analisi svolgeremo dunque la riflessione in tre sottoparagrafi:A- la relazione tra infermiere e paziente è senza dubbio una relazione di tipo professionale tracompetenze (tra saperi) differenti che B- proprio attraverso queste differenze ri-costruisce le iden-tità personali, come nel caso della C- relazione interculturale, presa a titolo esemplificativo.

Ma proprio per l’importanza attribuitale da un punto di vista conoscitivo ed applicativo, occorreinnanzitut t o dire subito che la relazione è implicata nell’assistenza sul piano etico. Senza relazione

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- diremo nel paragrafo dedicato al principio dialogico - non c’è assistenza. In quanto sanitari, infat-ti, con il nostro camice bianco, con la superiorità intrinseca e spesso ostentata della nostra scienzasulle necessità e sulla malattia del paziente, siamo noi che impostiamo e gestiamo direttamente edin prima persona la relazione con il paziente. In essa, come del resto ci hanno insegnato, non cilasciamo coinvolgere emotivamente, siamo distaccati e “orientati al problema” - che noi stessiabbiamo “diagnosticato” e sul quale siamo “competenti” ed “esperti” - ottenendone di rimando laconferma della nostra identità di “professionisti”. Ma se ciò che abbiamo detto più sopra è vero, c h eidentità consente di rimando al nostro paziente una relazione di questo tipo? Quanti e quali spazi diri-costruzione identitaria gli lascia? Quando non “confermiamo” le identità particolari del paziente -dimenticandoci di lui come “persona” ed arrivando a trattarlo come “cosa” - come pre t e n d e re poiche manifesti i suoi bisogni, che non sono altro che l’espressione più intima di queste identità?

Risulta evidente che l’opzione relazionale è una continua scelta che deve essere operata dagliinfermieri a fronte di una chiusura auto-protettiva nella tecnicità, nella operosità nella abitudina-rietà che stigmatizzano i pazienti a beneficio di una malintesa efficienza professionale. Un infer-miere di una Terapia intensiva raccontava tempo fa di uno studente del terzo anno di corso alquale aveva affidato un paziente in coma soporoso. Quella mattina il paziente doveva eseguire unclistere evacuativo; sotto l’osservazione diretta dell’infermiere, lo studente preparò accuratamentetutto il materiale ed eseguì con perizia tutte le tecniche previste compreso il posizionamento delpaziente, il controllo dell’avvenuta evacuazione e l’igiene perianale finale, senza dire una parola,senza offrire alcuno spunto relazionale al paziente che potesse “farlo sentire” non una “cosa datrattare”, ma una “persona da assistere”. Sul fronte del tutto opposto, in un’altra Unità operativaun paziente ripresosi dal coma si mise a cercare tra il personale “quell’infermiera che gli racconta-va sempre le barzellette”, per ringraziarla e raccontargliene a sua volta un paio in cambio.

Il piano della scientificità e della tecnicità non deve mai sopprimere quello dell’attenzioneall’altro. Questa sensibilità “pratica” ai bisogni dell’altro, lo ricordiamo, era già evidente negliscritti pre-teorici di Florence Nightingale, quando, ad esempio, consigliava alle sue infermiere «diprendere sempre posto entro il campo visivo del paziente, cosicché quando egli parli, non abbia agirare penosamente la testa per guardarvi. Ognuno guarda spontaneamente la persona che parla.Se tu rendi penoso questo atto al paziente, gli fai del male. Alla stessa maniera se restando in piedilo costringi ad alzare continuamente i suoi occhi verso di te. Non parlare mai ad una persona chenon può muoversi standole dietro, né dalla porta, né da lontano, né mentre sta facendo qualcosa[…]. Se al paziente proponi all’improvviso un pensiero, tale specialmente che gli richieda unadecisione, gli fai una violenza, non immaginaria, ma reale. Non parlare mai all’improvviso ad unapersona malata… Tutto ciò che fai nella stanza del paziente dopo che si è sistemato nel letto,aumenta enormemente il rischio che egli trascorra una cattiva notte. Se poi lo svegli dopo che siera addormentato, lo esponi non già al rischio, ma gli assicuri una cattiva notte51».

Tanto da un punto di vista etico quanto metodologico occorre allora ribadire quanto dicono una-nimemente tutti gli autori analizzati precedentemente. È nella relazione che si comprendono ibisogni e si pongono le basi per la loro soddisfazione. Infatti, ogni ricerca sull’alterità è necessa-riamente semiotica - ha cioè a che fare con segni e simboli che devono essere interpretati - e, reci-procamente, il semiotico a sua volta non può essere pensato al di fuori della relazione con l’altro52.

Ma poi, invertendo la prospettiva, crediamo che il tipo di relazione che abbiamo - che scegliamodi avere - con i nostri pazienti determina non solo la loro identità - a volte aprendogli o castrando-gli, insieme alla fiducia nei nostri riguardi, il loro individuale ed originale percorso verso la pro-pria salute - ma anche la nostra. Rende la nostra professionalità più o meno fredda e distaccata, ilnostro servizio più o meno efficace e il nostro essere uomini e donne più o meno “umano”. Ciòche è in gioco, insomma, è “l’appello morale” di colui che chiede assistenza; «rispondendo aquesto appello noi facciamo qualcosa di più che il nostro dovere53».

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A) La relazione assistenziale è una relazione tra competenze (tra saperi) diversiLa relazione infermiere-paziente è riconosciuta di fondamentale importanza nella prospettiva ditutti gli autori che hanno influenzato le teorie dei bisogni dell’assistenza. Ricordiamo, infatti, cheper moltissimi nomi fra quelli studiati - da Henderson a Maslow, da Ardigò a Donati, da Paterson-Zderad alla Watson, ecc. - il contesto soprattutto relazionale, prima ancora che di per sé terapeu -tico, è una condizione indispensabile alla manifestazione dei bisogni assistenziali.

Nella nostra prospettiva, diventa allora essenziale cogliere la relazione assistenziale non solocome relazione tra individualità, ma anche come relazione tra “competenze”, o tra “saperi” diver-si, strettamente intrecciate tra loro. Rispetto ai saperi, come nota tra gli altri Carlo Sini, ogni sog-getto è ad un tempo e sempre soggetto a i saperi, ma anche imprescindibilmente soggetto d i s a p e-r i5 4. Di conseguenza, tanto l’infermiere quanto il suo cliente nella relazione che li lega manifesta-no questo “intreccio di saperi”; essi, di volta in volta, sono soggetti a l l a loro cultura e soggettid e l l a loro cultura, soggetti a l l a propria scienza ma anche soggetti in grado di accrescerla, svilup -parla e contestualizzarla. Attraverso la relazione tra questi saperi, che noi abbiamo chiamatocompetenze personali, culturali e disciplinari, da un lato il paziente manifesta, esprimendoladirettamente od indirettamente, l’architettura dei propri bisogni, dall’altro l’infermiere cerca dirispondervi in modo “professionale”. Il loro incontro, insomma, è una relazione tra le loro “sog-gettualità” a l proprio sapere e d e l proprio sapere, ma è proprio grazie a questo incontro che l’in-fermiere interpreta e valuta l’insufficienza della competenza personale e culturale nella rispostaai bisogni del paziente.

Se ci chiedessimo ora che tipo di relazione deve caratterizzare fondamentalmente la relazionetra infermiere e paziente, dovremmo innanzitutto richiamare alla memoria che già per Platone letre forme essenziali del sapere umano (l’opinione corrente, la scienza e la fede) danno luogo adaltrettanti tipi di relazioni umane. Il sapere che origina dall’affidarsi all’opinione corrente dà luogoad una relazione autoritaria, di tipo aut-aut. Il sapere che origina dall’affidamento alla scienza, daluogo alla relazione fondata sulla scienza. Infine, il sapere che origina dall’affidarsi alla fede, equindi, in ultima analisi, alla autorità che ispira colui che parla, conduce alla relazione basata sul -l’autorevolezza55. Ripercorrendo la storia del pensiero occidentale, osserviamo poi che prima conla filosofia marxista e poi con l’umanesimo, vengono approfonditi altri tipi di relazione: la relazio -ne basata sul potere del soggetto più forte rispetto al soggetto più debole; e la relazione basata suldialogo, nella quale lo scontro tra i protagonisti è sempre rinviato in quanto il dialogo prefigural’ascolto dell’altro ed il rispetto della sua competenza. La soluzione, allora, viene di volta in voltaricercata nell’autorevolezza o nella scientificità dei pareri, o più semplicemente nella capacità dipersuadere l’altro.

Ecco allora che l’atteggiamento empatico, la capacità di ascolto, la non direttività e la non valu-tazione della relazione di aiuto rogersiana, per fare un esempio tecnico, oltre che l’apertura e ladisponibilità dell’ambiente attorno alla persona dell’ammalato possono essere condizioni essen-ziali all’emergere del bisogno in tutte le sue dimensioni e fondamentali per la sua corretta inter-pretazione56. Ma questo non significa che tale tecnica relazionale sia l’unica che l’infermiere puòusare. Ci sono situazioni nelle quali, se lasciassimo decidere ai pazienti quando lavarsi, questi nonsi laverebbero mai per intere settimane. Sono pazienti nei quali è forse consigliabile un tipo direlazione più diretta, di tipo assertivo. Ma lo ripetiamo: la relazione, ancorché dialogica, non è ilfine dell’assistenza, ma un suo mezzo per meglio comprendere e soddisfare i bisogni dell’altro. Difatto, la relazione è un potente strumento utilizzato coscientemente dall’infermiere che può sce-gliere la tecnica relazionale migliore per quel paziente e per quella situazione. Quella rogersiana,abbiamo visto, utilissima in sede didattica e per certi strumenti della raccolta dei dati (come adesempio le “storie di vita”) non è detto che sia l’unica e la migliore in ogni fase del processo ed inogni situazione assistenziale. L’infermiere dovrà imparare ad usare anche altre tecniche relazionali,

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quali quelle direttive, assertive, o quelle cosiddette brevi o sintetiche - da utilizzarsi ad esempionelle situazioni critiche o altamente tecniche (pronto soccorso, sala operatoria, ecc.). Infine,occorre avere coscienza che la relazione è strumento che può essere utilizzato in quanto p re s t a -zione infermieristica, cioè come risposta diretta ai bisogni assistenziali del paziente - come adesempio nell’accompagnamento, nel colloquio, nelle relazioni interculturali o infine in tutte quel-le situazioni in cui si manifesta il significato più alto dell’assistenza, che è, prima di tutto, u n o“stare accanto all’a l t ro ” . Una semplice presenza di tale intensità che (comunque percepita nellediverse scuole di pensiero) metta il nostro paziente in condizione di sviluppare la s u a p ro p r i as a l u t e, anche in punto di morte.

La relazione infermieristica nell’accompagnamento al morireGià nel 1969 Elisabeth Kübler-Ross si augurava vivamente di poter insegnare agli studenti, medicied infermieri «il valore della scienza e della tecnologia insieme all’arte e alla scienza delle rela -zioni interumane , di un modo umano e globale di curare il malato57». E constatava la “crisi del-l’assistenza” delle società medicalizzate, affermando che i malati dei nostri efficientissimi ospeda-li soffrono forse meno fisicamente, ma più psicologicamente. «Quello che è cambiato attraverso isecoli - scriveva la Kübler-Ross in un passaggio illuminante - non sono i bisogni degli ammalati,ma la nostra capacità di soddisfarli58». E il primo bisogno, il più importante di tutti, è proprioquello relativo all’assistenza, alla vicinanza di qualcuno che ci tenga la mano e ci accompagni.

Ma non possiamo negare o sottovalutare la difficoltà di questa “presenza”. Per chi assiste essasignifica ri-conoscere i bisogni del paziente e constatare che non sono altro che i nostri stessi biso-gni; significa “aprirsi all’altro”, ma anche aprirsi alla nostra stessa identità, obbligandoci a ricor-dare che il suo destino e la sua paura non sono altro che una faccia dei nostri.

«Ho ancora da vivere da uno a sei mesi, forse un anno - scrive una studentessa alle sue compa-gne in una delle centinaia di storie raccontate dalla Kübler-Ross - ma a nessuno piace toccare que-sto argomento. Mi trovo dunque di fronte ad un muro solido e deserto, che è tutto quello che miresta. Sono il simbolo della vostra paura, qualunque essa sia, della vostra paura di ciò che purtrop-po noi sappiamo che dovremo affrontare tutti un giorno. Voi scivolate nella mia camera per portar-mi le medicine e per misurarmi la pressione, e scomparite appena svolto il vostro compito. È per-ché sono un’allieva infermiera o semplicemente in quanto essere umano che ho coscienza dellavostra paura e so che la vostra paura accresce la mia? Di che cosa avete dunque paura? Sono ioche muoio. Non nascondetevi. Abbiate pazienza; tutto ciò che ho bisogno di sapere è che ci saràqualcuno per tenermi la mano quando ne avrò bisogno. Ho paura. Voi forse avete fatto l’abitudinealla morte, per me è nuovo. Non mi è ancora mai capitato di morire… Se solo potessimo esserepiù oneste, ammettendo reciprocamente le nostre paure, toccarsi. Allora forse sarebbe più facilemorire, in ospedale, con degli amici accanto…».

Proprio in relazione all’assistenza al morire vogliamo ora aprire due brevi parentesi. La primariguarda la difficile arte del comunicare con le mani; la seconda riguarda invece l’ancor più diffi-cile percorso interiore che ognuno dovrebbe fare per prepararsi alla propria morte.

Quanto alla relazione fisica intesa come uso terapeutico delle mani, dobbiamo anzitutto conve-nire che ci sono in effetti due “modi di toccare”, l’uno tecnico-strumentale - la famosa manualitàdell’infermiere - l’altro invece espressivo. Sappiamo bene che entrambi sono mezzi comunicativi,ma è ovviamente di quest’ultimo che ci interessa discutere. «In circostanze altamente critiche -scrive Norman Autton, in un bel saggio dal titolo esplicativo: Parlare non basta - il contatto fisicopuò essere l’unico attuabile messaggio di empatia che possa venire offerto. Il toccare senza parole,non è solo una reminescenza delle carezze materne, ma è anche alla base del linguaggio gestualeproprio dei primati59».

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Autton riporta anche una riflessione di un’infermiera inglese - che non può non farci ricordarealcuni passaggi ad esempio di Paterson e Zderad. Per questa collega è necessario «toccare permostrare che ci sentiamo vicino ai pazienti; toccare per mostrare che partecipiamo alla soff e r e n-za; toccare per dimostrare che comprendiamo “l’oggi” con il quale il paziente è forzato a con-frontarsi. Toccare per mostrare che siamo qui e che siamo pronte ad aiutarlo; il contatto fisico èun ingrediente indispensabile nella pratica infermieristica; qualcosa che un’infermiera è in gradodi offrire a un paziente e che nessun’altra persona ha opportunità di fare, sulla base di una conti-nua attività quotidiana 6 0» .

Il toccare è, probabilmente, la più piccola e spesso spontanea tecnica a disposizione dell’infer-miera per l’assistenza, ma, come è facilmente intuibile, la comunicazione attraverso la gestualità ècosa tutt’altro che facile; occorre infatti maturare quell’e s p e r i e n z a e quella sensibilità che sacogliere il gesto giusto, al momento e nel modo giusto.

La seconda breve parentesi che vogliamo aprire al proposito della relazione con il malatomorente concerne la necessaria preparazione che l’infermiera - come peraltro chiunque si occupidi ammalati gravi - deve avere nei riguardi della propria morte. Tra le autorevoli cose che sonostate scritte al proposito vorremmo solo riportare in questa sede “il decalogo sulla morte” propostoda un giovane infermiere italiano. Questo “decalogo” è una sorta di percorso autopedagogico perprepararci ad accompagnare il paziente che muore, preparandoci nel contempo alla nostra morte. Ipunti indicati da questo collega sono: (i) ricercare l’unità in noi stessi - contro la “focomelia” o“atrofia” di una o più parti della persona che siamo, corpo, intelligenza, sentimenti, ecc.; (ii) svi-luppare il piacere della re l a z i o n e - la costante apertura e disponibilità all’altro; (iii) coltivare enutrire la curiosità - nelle cose, nelle persone, nell’arte, nella scienza; (iv) approfondire la nostras p i r i t u a l i t à - come capacità di “dare un nome alle cose”; (v) riconoscere il valore dell’i m p e r m a n e n z a- ossia la relatività delle cose belle e brutte; (vi) accettare ed elaborare le separazioni - l’esserecioè preparati alla necessità di dover “lasciar andare” anche coloro che amiamo; (vii) conoscere epraticare il silenzio - come pratica riflessiva e come pratica comunicativa; (viii) coltivare il dubbio- cioè aprirsi alle verità degli altri - e rivisitare continuamente i valori ricevuti, o, come direbbeMantovani: “Nutrire gli antenati”; (ix) affrontare la nostra paura e guardarla in faccia - e sapereche la paura di chi muore ha soprattutto tre espressioni: la sofferenza dei vicini, la paura del doloree l’angoscia della solitudine; e infine (x) essere senza rimpianti - l’essere cioè capaci di vivereogni giorno come se fosse l’ultimo61.

B) La relazione assistenziale come ricostruzione delle identità personali Dopo aver considerato la relazione con l’altro prima sul versante etico e poi in quanto relazio-ne tra “competenze” differenti, occorre ora considerarla nella prospettiva della “costruzionedelle identità”, in quello spazio di confine tra le identità-alterità a confronto che Bachtin chia-ma “essotopia”.

Ma procediamo con ordine. Psicologi, sociologi ed antropologi hanno ormai chiarito che laconoscenza di un qualsiasi oggetto è senza dubbio influenzata dalla cultura, e - come abbiamo giàvisto - avviene nel contesto situazionale. Ma come avviene questa influenza? Sappiamo infattiche il vecchio modo per intendere il ruolo della cultura - o delle teorie scientifiche che non sonoaltro che artefatti particolari della cultura più generale - in quanto “mediazione” (M) tra soggetto(S) ed oggetto (O) veniva spesso rappresentato come una fondamentale triangolazione tra questielementi (vedi fig. I della Tabella XVI). Questo triangolo venne nel tempo modificato includendola variabile del tempo, la comunità esterna, le regole sociali ecc., sempre mantenendo la possibi-lità di una conoscenza diretta tra soggetto e oggetto. Nella prospettiva costruzionista, invece, s iafferma l’inesistenza di alcuna via diretta tra soggetto ed oggetto (vedi fig. II), in quanto sisostiene che tutta l’esperienza è “bio-culturalmente mediata”. Ciò che percepiamo, ciò che

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p o ssiamo conoscere è insomma s o l o ciò che siamo stati abituati a percepire e a conoscere.Ricordate l’influenza delle cornici in Popper? Non siamo nati con “l’occhio clinico”, lo abbiamoacquisito con lo studio e l’esperienza.

Ma quando affermiamo che nulla della nostra esperienza sfugge alla mediazione culturale affer-miamo anche che ciò che siamo in quanto singoli e in quanto portatori di una data cultura determi-na la gamma di oggetti possibili che possiamo percepire nella realtà (vedi fig. III). Le disciplinescientifiche sono un aspetto della mediazione culturale, ciò significa che una disciplina prescritti-va come l’infermieristica influenza il modo di vedere gli oggetti percepiti dalla competenza cultu -rale dell’infermiere. L’infermiere, di conseguenza, opera la necessaria valutazione del primo e delsecondo livello del nucleo (cioè le competenze personali e culturali del paziente e del suo ambien-te di riferimento) attraverso tutto sé stesso, in certe situazioni arrivando ad implicare nella relazione- come dicevamo più sopra - tutte le sue identità. Come principale conseguenza (vedi fig. IV)viene a determinarsi non solo la scomparsa dell’oggetto “naturale” al di fuori dalla mediazione (ilgià conosciuto limite della conoscenza della cosa studiata), ma anche la dissoluzione del soggettonella stessa mediazione. Lo stesso infermiere inserito nella situazione assistenziale tramite la rela-zione con l’altro, vi è inserito con tutto sé stesso, con la sua competenza disciplinare, fatta diconoscenze scientifiche, di teorie, di strumenti, di tecniche e di capacità manuali, ma anche di unacompetenza culturale e personale fatta di pregiudizi, di credenze, di tradizioni e di valori.

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Tab. XVI. Le possibili triangolazioni conoscitive tra soggetto (S) e oggetto conosciuto (O) tramite lamediazione (M) degli artefatti culturali, e la costruzione con la quale il soggetto arriva a costru i rel ’ a mbiente (E) e sé stesso.

Tratto da: Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri e incontrimulticulturali, Giunti, Firenze, 1998, pp. 198-199.

Fig. 1: la conoscenza dell’oggettoè mediata a n c h e dagli artefattidella cultura.

Fig. 2: la conoscenza dell’oggettoè sempre mediata dalla cultura.Non c’è conoscenza diretta tra

soggetto conoscente ed oggetto conosciuto.

Fig. 3: la mediazione culturaledetermina la gamma di oggettiche possiamo percepire.

Fig. 4: tanto l’oggetto quanto il soggetto sono assorbiti

dal processo di mediazione culturale.

Ma che tipo di relazione conoscitiva si viene a creare tra infermiere e cliente, quando cioè siincontrano due persone entrambe interpreti di propri contesti culturali, ma una delle quali è porta-trice di un bisogno assistenziale - o meglio, una costellazione sempre originale di bisogni - e l’al-tra è portatrice di un bagaglio di conoscenza scientifica su questi bisogni? Come si può vederenella Tabella XVII, gli estremi della relazione possono essere ricondotti per un verso (a) alla rela -zione unidirezionale, propria delle scienze della natura nelle quali la competenza infermieristicaconosce e trasforma - risolve - il bisogno del paziente; (b) alla relazione sempre duale ma bidire -zionale, in cui l’infermiere interagisce con il paziente, sino alla situazione (c) in cui la relazione èc o - c o s t ruzione di entrambi attraverso l’assistenza. Tale co-costruzione, riconosce la sostanzialeambiguità delle situazioni espresse dalle competenze quotidiane descritte più sopra, ossia delmodo con cui le persone conoscono il proprio mondo nella vita di tutti i giorni, quando vanno afare la spesa, oppure fanno una doccia, o ancora cercano di capire cosa è loro necessario per pren-dersi cura di sé stessi, o degli altri, partendo da un sapere di tipo scientifico62.

A questo punto sembra evidente che l’impreparazione alla relazione con l’alterità del paziente,quand’anche gli permettessimo di esplicitarla, ci impedisce di comprendere e di valutare corretta -mente le sue richieste assistenziali. Gli infermieri del caso presentato di seguito sono un buonesempio di una relazione unidirezionale di carattere piuttosto autoritario che ben esprime il perico-lo dell’incomprensione dell’altro.

Un giovane sacerdote africano venne ricoverato in un ospedale di Parigi, città dove risiedeva daqualche tempo per motivi di studio, in quanto affetto da una grave malattia. Dopo molti mesi diinutili ricoveri e cure, il suo aspetto continuava a deperire; mangiava e beveva pochissimo. Versola fine, sembrava non avesse altro desiderio che tornare al suo paese per essere seppellito vicino aisuoi antenati. Un giorno, alcuni parenti anziani vennero a fargli visita in ospedale e gli consegna-rono un sacchetto contenente una miscela di foglie secche e di polvere. Gli dissero che il féticheurdel suo villaggio di origine, dopo aver interrogato gli spiriti della brousse, gli consigliava, se vole-va guarire, di prendere un bagno con un’infusione di questa polvere. Dopo la visita degli anziani,il giovane sacerdote chiese agli infermieri del reparto di poter essere lavato con questo infuso, manessuno gli diede il permesso di farlo. Dopo qualche giorno il giovane decedette. Chi raccontavala storia concluse: “se l’avessero lavato con quella polvere sarebbe ancora con noi!”.

Più avanti ritorneremo su questo caso per analizzarlo anche dal punto di vista della relazione inter-culturale; per ora ci basta constatare che gli infermieri non hanno affatto usato una relazione costrut-tivista, quanto piuttosto hanno semplicemente concluso che la richiesta non rientrava nel campodelle loro “mansioni” o presunte “competenze”. Che differenza tra l’assistenza come ermeneuticadei bisogni dell’altro e questa assistenza come applicazione di teorie organizzative o natur a l i s t i c h e !

Proprio per illustrare il meccanismo della comprensione di un altro da sé dobbiamo allorarichiamare l’essotopia - quella parola coniata da Bachtin, vnanakhodimost’, che designa il campodella non-appartenenza a una sola identità, a una data cultura - nella quale avviene il fenomenodella la comprensione. L’essotopia per Bachtin, non soltanto non è un ostacolo alla conoscenzaapprofondita dell’altro, ma ne è la condizione indispensabile63.

Todorov riprende queste intuizioni proprio alla luce del problema ermeneutico della “compren-sione di un altro da se” illustrando tale comprensione come una serie di quattro fasi successive diun unico pro c e s s o: assimilazione; concellazione dell’io; essotopia; nuova rilettura di sé.Vediamole brevemente.

La prima fase della comprensione consiste in una specie di assimilazione dell’altro. Critico let-terario come Todorov o infermiere, tutte le opere di cui parlo, tutte le tecniche che so eseguire contanta sicurezza non fanno che sentire una sola voce: la mia. Mi interesso ai miei pazienti, ma essihanno, secondo me, gli stessi identici bisogni che ho io: la loro cultura è strutturata come la mia.Nella relazione continuo a non trovare altro che la prefigurazione del presente e del già noto. C’è

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certamente un atto di percezione degli altri, ma che conduce solo alla riproposizione del proprio io(del medesimo) in diversi esemplari; la conoscenza si arricchisce quantitativamente, non qualitati-vamente. Non c’è che una sola identità ed è la mia.

La seconda fase della comprensione consiste in una cancellazione dell’io a vantaggio dell’altro.Questo gesto può essere vissuto con modalità differenti. Storico innamorato dell’esattezza e dellafedeltà come Todorov, mi faccio più Persiano dei Persiani: «imparo la loro storia e il loro presente,mi abituo a vedere il mondo con i loro occhi, reprimo tutte le manifestazioni della mia identità ori-ginaria; mettendo da parte la mia soggettività, credo di essere dalla parte dell’oggettività». Comeinfermiere mi illudo di presentare il paziente così com’è, senza aggiungere niente, senza nientetogliere. Completamente preso dall’identità dell’altro rinuncio al mio io per meglio confondermicon lui, non sono più che un’emanazione di una lei o di un lui. Non riesco a staccarmi dal lavoro,come quel collega che una volta scrisse che l’infermiere “è uno strumento a disposizione dei biso-gni degli ammalati!”. Qui, ancora, non c’è che una sola identità, ed è quella dell’altro.

Al momento della terza fase della comprensione, secondo Todorov, io riacquisto la mia identità,ma dopo aver fatto tutto il possibile per conoscere l’altro. È la fase della mia essotopia (esterioritàtemporale, spaziale, culturale) che non è più una maledizione; al contrario, è ciò che produce laconoscenza nuova, adesso in senso qualitativo e non più quantitativo. Etnologo, non pretendo difar parlare gli altri, ma di stabilire un dialogo tra loro e me; concepisco le mie categorie in modor e l a tivo, esattamente come le loro. Infermiere, propongo le mie evidenze scientifiche alla

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Tab. XVII. Tre diversi modi di concepire la relazione infermiere-paziente (o attore ambiente).

Modificato da: Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri e incon -tri multiculturali, Giunti, Firenze, 1998, pp. 198-199.

v a l u t azione del paziente, poiché non trattiamo della mia adeguatezza assistenziale, ma della sua.«Rinuncio al pregiudizio che consiste nell’immaginare che uno possa rinunciare a ogni pregiudi -zio; io pre-giudico, sempre e necessariamente, ma è proprio in questo che consiste l’intere s s edella mia interpretazione, essendo i miei pregiudizi diversi da quelli degli altri. Affermo che ogniinterpretazione è storica, nel senso che essa è determinata dalla mia appartenenza spazio-temporale,ciò che non contraddice il tentativo di conoscere le cose così come sono in se stesse, ma lo com-pleta. La dualità (la molteplicità) prende il posto dell’unità; l’io rimane distinto dall’altro».

Infine, nel corso della quarta fase della comprensione, io mi “eclisso” di nuovo , ma in tutt’altramaniera. «Non desidero più, né posso identificarmi con l’altro; ma non arrivo nemmeno a identifi-carmi solo con me stesso. Si potrebbe descrivere il procedimento in questi termini: la conoscenzadell’altro dipende dalla mia propria identità; ma, a sua volta, questa conoscenza dell’altro determi-na in me un ulteriore passo verso la conoscenza di me stesso, cosicché si trasforma, e dunque l’in-tero processo può ricominciare: nuova conoscenza dell’altro, nuova conoscenza del sé, e cosìall’infinito. […] Io non potrò aderire ai miei “pregiudizi” allo stesso modo di prima, anche se noncerco di sbarazzarmi di tutti i “pregiudizi”. La mia identità resta, ma è come se fosse neutralizzata;mi leggo tra virgolette. L’opposizione tra il dentro e il fuori non è più pertinente; e il simulacrodell’altro che la mia descrizione produce non resta meno immutato: è diventato un luogo di intesapossibile tra lui e me. In seguito all’interazione con l’altro, le mie categorie si sono trasformate, inmodo da divenire l’espressione di noi due e, perché no, anche di terzi. Ritrovo altrove l’universa-lità, che credevo perduta; non nell’oggetto, ma nel progetto64».

Quando la relazione con l’altro si realizza attraverso queste modalità d’incontro, entrambi i pro-tagonisti ne emergono percependo le proprie identità in modo differente. Certo tale coinvolgimen-to nell’assistenza infermieristica non è né sempre possibile né sempre auspicabile; richiede espe-rienza ed equilibrio ed è sempre da valutare sotto un profilo etico. Tuttavia, la relazione co-costruttiva, o i gradi della comprensione dell’altro di Todorov ci possono aiutare a capire megliocome accade che, a volte, l’assistenza si trasformi per il paziente in qualcosa di profondamentesignificativo e per l’infermiere in qualcosa di arricchente, in una sorta di intimità, di gratificanteintesa senza parole che - nella bella espressione di Mayeroff - “è più di quello che possiamo dire”.

C) La relazione infermiere paziente come relazione interculturale La relazione assistenziale in un ottica interculturale viene qui presentata come paradigmatica dellequestioni poste sul terreno dalle alterità del paziente. Paradigmatica, quindi, in quanto tutto ciòche potremo osservare nel rapporto con il “molto diverso”, si realizza s e m p re, sebbene con ungrado minore di visibilità, anche con un’alterità più prossima a noi.

Abbiamo avuto modo di vedere che l’infermieristica ha già affrontato queste tematiche con ilnursing transculturale di Madeleine Leininger. Tuttavia, crediamo che l’approccio interculturale -approccio tipicamente europeo alle problematiche dell’alterità - possa fornirci valide considerazio-ni esemplificative sulle problematiche assistenziali secondo la prospettiva ermeneutica dei bisognidell’altro65.

Due sono gli scenari configurabili. Il primo scenario è quello della percezione della diversitàtout court. Infermiere e paziente si incontrano e si scoprono differenti quand’anche entrambi, assi-stente ed assistito, fossero portatori della medesima impronta culturale. Come abbiamo visto,infatti, l’appartenere alla stessa cornice culturale non significa affatto che essi abbiano lo stessomodo di percepire e risolvere i propri bisogni assistenziali - per le innumerevoli “identità partico-lari” che rendono ciascun essere umano unico ed irripetibile. Questo scenario, ovviamente, è resopiù evidente nel caso in cui i due protagonisti della relazione assistenziale appartengano a contesticulturali differenti. Ciò rende ancora più esplicito il possibile divario tra i modi di fornire e riceve-re assistenza. Senza considerare un’ulteriore importante variante che sempre più dovrà essere

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s t udiata (e che varrà anche per il secondo scenario), cioè la relazione con il “terzo soggetto” chepuò essere di volta in volta il parente, o un vicino di letto o un parente di questi.

Il secondo scenario riguarda invece il cosiddetto “conflitto di valori”, e concerne casi assisten-ziali nei quali, a causa della differente cornice di riferimento, i protagonisti entrano in conflitto sulsignificato morale che un particolare atto assistenziale ha per uno o per entrambi di loro: il rifiutodi alcune pratiche terapeutiche quali trapianti o donazioni di organi, oppure la stessa richiesta daparte dei pazienti di pratiche ritenute ingiuste per gli operatori (come esempi estremi possiamocitare l’infanticidio, l’antropofagia, l’eutanasia o il suicidio, ecc.).

Mentre nel primo scenario la caratteristica dell’alterità concerne unicamente il cosa, il come, ilquando, il dove e con chi della pratica assistenziale, nel secondo l’alterità riguarda soprattutto ilperché, il significato ultimo di una data pratica e quindi investe direttamente e prioritariamente ilpiano valoriale, ossia il significato che tale pratica acquista per quella persona in relazione allasituazione particolare ed al contesto generale della sua identità culturale.

Vedremo tra breve che nel principio etico-deontologico della personalizzazione dell’assistenzal’infermiere specchia le proprie identità culturali e professionali nell’identità culturale del pazien-te, con l’ammonizione di rispettare l’altro attraverso il rispetto dell’unicità e irripetibilità dellamanifestazione dei suoi bisogni, nelle loro dimensioni oggettive e soggettive. Il ché, ovviamente,non significa affatto che colui che assiste debba fare sempre ed in ogni caso ciò che chiede ilpaziente, ma che il diniego debba essere motivato da una precisa e circostanziata analisi etico-disciplinare, attraverso un dialogo che non neghi e non umilii l’identità dell’altro.L’infermieristica interculturale studia appunto l’influenza che l’impronta culturale ha nella perce -zione e nella risposta ai bisogni di assistenza dell’assistito, ed in particolare, come risponderviquando l’assistente ne riconosca per sé un’altra. Le soluzioni pratiche prospettate da questosecondo approccio richiedono un processo dialettico tra le parti ed hanno per obiettivo una reci-proca fecondazione delle culture presenti più che un semplice scambio66.

Secondo Camilleri, uno dei massimi esponenti del processo interculturale in Europa, «chi prati-ca l’interculturale deve quindi superare un’esigenza apparentemente contraddittoria: garantire ilrispetto delle culture, ma nell’ambito di un sistema di comportamenti che autorizzano il loro supe -r a m e n t o. [... In ogni campo applicativo, quindi, l’interculturale è un’] associazione “dialettica”,nella quale l’accettazione di un minimo di uniformità nelle rappresentazioni-valori e di costrizioninelle regole da osservare è la condizione necessaria per ottenere il contrario: il massimo di diver -sità nelle rappresentazioni-valori e di libertà nei comportamenti67».

A ffermare che l’imperativo della personalizzazione dell’assistenza infermieristica si realizza nellarelazione tra infermiere e cliente - per i suoi aspetti culturali - attraverso una dinamica interculturalesignifica ricercare una comprensione dialogica delle reciproche alterità che permetta l’esplicitazionee il superamento degli atteggiamenti pregiudiziali di entrambi i protagonisti. Il fine è quello di c o n -t r a t t a re una piattaforma minima nella quale trovare una formula di compromesso6 8 che permetta allapersona di ritrovare, partecipando attivamente alla ricerca della propria salute - attraverso risposte“a d e g u a t e” ai propri particolari bisogni - il s e n s o del vivere nonostante le situazioni avverse.

I passaggi fondamentali di questo percorso potrebbero essere esplicitati come segue: a- conoscenzadelle dinamiche etnoassistenziali proprie (dei nostri pregiudizi culturali e delle nostre evidenzescientifiche); b- conoscenza delle dinamiche etnoassistenziali altrui; c- esplicitazione delle diffe-renze problematiche; d- esplicitazione dell’eventuale conflitto di valori ed enucleazione dei valoriin gioco; e- gestione delle tensioni emotive; f- stesura, attuazione e continua verifica dell’accordo.

Quali presupposti garantire ad un tale percorso? Certamente una solida preparazione di base del-l’infermiere, oltre che nell’infermieristica, nei campi dell’antropologia e della psico-sociologia,ma anche la costruzione di contesti organizzativi che permettano l’esplicazione di queste nuovecompetenze acquisite dall’infermiere. Quanto alla formazione socio-antropologica di base, è

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e v idente che il suo obiettivo non sarà quello di fornire ai futuri infermieri la conoscenza di tutte lepossibili cornici culturali e di tutte le variabili culturali che potrebbero trovare nelle future situa-zioni assistenziali, quanto piuttosto quello di fornire loro gli strumenti concettuali e operativi atti aleggerle ed interpretarle in funzione dell’assistenza che sono chiamati ad erogare.

La diversità culturale ed i conflitti di valore nell’assistenza Anche se a un livello necessariamente ancora superficiale, proviamo ad applicare i passaggi dellarelazione interculturale ad alcuni casi assistenziali, cercando di discriminare i due possibili scenaridell’alterità culturale nell’assistenza della diversità negli “artefatti” e del “conflitto di valori”. Ilprimo caso che vogliamo proporre, riferibile al primo scenario, è quello di quel giovane sacerdoteafricano presentato più sopra. Abbastanza facilmente siamo in grado di identificare nella richiestadel paziente una diade relativa al lavarsi con una preponderanza della dimensione culturale. Ma lanostra competenza disciplinare ci invita anche a riflettere sulle possibili conseguenze bio-fisiolo-giche di una tale concessione. Elenchiamone alcune: le sostanze contenute nell’infusione potreb-bero essere irritanti o allergeniche quando non addirittura tossiche; un bagno in vasca poi potrebbeessere controindicato sia per la verosimile debilitazione del paziente sia per gli sbalzi di tempera-tura - o addirittura per la presenza di ferite o lesioni da decubito. D’altronde è anche evidente chela richiesta avanzata non è per nulla immotivata. Il nostro paziente, probabilmente, è ben a cono-scenza della gravità della sua malattia e, forse, ha già realizzato che la sua diocesi non avrà fondiper trasportare la sua salma in Africa, per interrarla con i suoi antenati. Che creda o meno nell’ef-fetto terapeutico di questa pratica assistenziale, la “guarigione” che cerca è verosimilmente unaricongiunzione di significato con la sua gente.

Che problematiche emergono da questa richiesta? Non siamo certo in conflitto sui valori che lasottendono, quanto piuttosto sul modo con cui realizzarla. Si tratta, allora, di ricercare un compro-messo che salvaguardi tanto il significato del rito per il paziente, quanto le varie responsabilitàprofessionali degli infermieri (Primum non nocere!). Senza alcuna pretesa di avanzare certezze (lericette preconfezionate non si addicono all’assistenza interculturale) gli infermieri potrebbero pro-porre le loro condizioni spiegandole una ad una - ad esempio consigliare una forte diluizione dellapolverina, eseguire una spugnatura piuttosto che il bagno in vasca e magari farla seguire conun’altra con acqua e sapone “normali”, e via di seguito - il paziente, dal canto suo, valuterà le pro-poste degli infermieri ed avanzerà le proprie.

Un altro esempio classico che possiamo portare sono le vistose variabili relative all’allattamentomaterno ed allo svezzamento dei bambini. Anche in questo campo si può notare una sorta di“etnocentrismo assistenziale” per cui il modo migliore di allattare un bambino è quello “moderno”dei biberon e dei latti in polvere. Tutti noi abbiamo presente il grande ed ingiustificato sviluppoche questo tipo di allattamento ha avuto nel nostro Paese e come con fatica si sta cercando di ope-rare il percorso inverso. Forse pochi, invece, sono coloro che sono a conoscenza dei pesanti condi-zionamenti che alcune grandi multinazionali dell’alimentazione infantile hanno agito sui Paesi delsud del mondo nei decenni passati. Mentre tentavano di aprire nuovi mercati ai loro latti in polve-re - anche semplicemente regalando enormi quantità di scorte - esse non si sono certo curate che lemamme avessero l’acqua pulita per prepararlo o i mezzi adeguati per sterilizzare tettarelle e bibe-ron. Come risultato si sono avuti milioni di bambini malnutriti a causa non della “fame”, ma diuna modifica indotta dall’esterno nell’“appropriatezza” con la quale tradizionalmente ogni madreallattava il proprio bambino. Esempi molto simili potrebbero essere portati per la pianificazionefamiliare, le vaccinazioni o la cura e prevenzione di molte malattie tropicali endemiche. Quandol ’ a l t ro è accolto col drastico giudizio del “tutto da rifare”, quando lo sviluppo è solo quelloconforme al paradigma del nord, non si ha integrazione, ma condizionamento; non si pro d u c eintercultura, ma acculturazione.

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Per quanto riguarda gli scenari inerenti ai conflitti di valore portiamo il caso, orami classico,dell’escissione femminile. Come è noto, l’escissione consiste nell’asportazione di una parte più omeno grande del clitoride, praticata a bambine in genere in età prepubere in molte etnie dellaregione sub-sahariana e in Amazzonia, con le motivazioni più varie, dal controllo della sessualitàfemminile da parte dell’uomo, al presunto rischio che il clitoride ferisca il feto durante il parto,sino a considerazioni di ordine estetico. La circoncisione maschile e l’escissione femminile sonocertamente da intendersi come segni di distinzione etnica, in quanto marcano nel sesso gli apparte-nenti a questa o quella etnia. Nell’Africa dell’Est, ancora oggi, è praticata l’infibulazione, che con-siste nella asportazione, oltre che del clitoride, di entrambe le piccole labbra e di parte delle gran-di. La ferita viene poi cucita, in genere con fibre di cotone grezzo, lasciando un piccolo orifizioper l’urina e per il sangue mestruale, sino alla notte delle nozze, quando l’uomo si apre l’accessoalla vagina con un coltello o una lametta.

Riferendoci ai dati di una ricerca di alcuni anni fa relativa ad una estesa provincia del Mali69, siosserva che l’escissione è ancora notevolmente praticata ed interessa ancora oggi dal 70 al 90%delle bambine dai 4 ai 12 anni della popolazione di questa regione sub-sahariana. Ecco il raccontodella matrône, la levatrice più anziana della Maternità di Mandiakuy - Mme Benoîte Dakouo, laprima donna di Mandiakuy che, quarant’anni fa, rifiutò di far escindere le sue figlie.

«Ogni anno, al momento della stagione fredda, una donna Souhynina [particolare clan dei Bwa,una delle etnie della regione] passa da villaggio a villaggio per l’escissione. La donna arriva nelvillaggio vestita di nero: tutti sono immediatamente al corrente del suo arrivo. La gente del villag-gio (o del quartiere) sceglie un luogo abbastanza isolato per l’escissione. Viene fissato un giornoper ogni quartiere, mentre il capofamiglia compie dei sacrifici ai fétiches affinché tutto vada bene.

Al mattino della data fissata la nonna conduce le bambine della famiglia al luogo fissato. Vienescavato un buco nella terra. La bambina si sdraia sul dorso, con le cosce sul buco: è là che si rac-coglieranno e si seppelliranno gli organi recisi e il sangue. Diverse donne tengono le gambe dellabambina ben divaricate, altre donne tengono le mani. Se la bambina è robusta una donna puòsedersi sul suo petto. Aquesto punto la donna prende della terra dalla buca e massaggia il clitoridedella bambina. In seguito prende un piccolo coltello (fonou) posto in una ciotola piena di polverenera e taglia il clitoride. Poi chiede alla nonna se tutto il clitoride è stato tolto; se questa trova chene resti una parte la donna la taglierà.

Il coltello viene pulito con la terra della buca prima di essere utilizzato per la bambina successi-va. Sulla ferita viene posta della terra e della polvere nera presa dalla ciotola. Dopo di questo simette del cotone grezzo con dell’olio o del burro di karité sulla ferita, e si offre alla bambina delsesamo o del fonìo. Il pagamento è regolato dalla famiglia, un tempo era in natura, soprattutto sac-chi di miglio. Oggi il prezzo a Mandiakuy è di 500 Franchi CFA [allora circa 2500£] e del miglio.Se la bambina, per la paura o per il dolore si è scaricata sul luogo dell’escissione, si aggiunge almiglio un gallo. Ogni mattina si lava la piaga con l’acqua e certe radici o cortecce d’albero e con ilsapone indigeno, prima di rimettere il cotone con l’olio».

Recenti studi mostrano come questa pratica sia stata importata dai paesi d’origine anche in Italia7 0.Immaginiamo quindi di ritrovarci in un ambulatorio di chirurgia pediatrica nella necessità di motiva-re un rifiuto alla richiesta di escissione. È evidente che in questo esempio la discussione non si giocasul piano metodologico-strumentale, ma su quello valoriale. Il valore della corporeità e dell’integritàdella persona umana contro quello del rispetto delle tradizioni, con l’aggravante che in questi casi lemotivazioni dei genitori sono spesso rafforzate dalla lontananza dalla loro terra di origine.

Siamo quindi di fronte ad un classico esempio di “conflitto tra valori” e ci appare subito chiaroche in questi casi il relativismo culturale non ci aiuta per nulla, in quanto non può fornirci, perdefinizione, alcuna indicazione che ci permetta di accogliere uno o l’altro tipo di rappresentazione-valore in gioco. Inoltre, è evidente che un nostro semplice e sdegnato rifiuto, per circostanziato

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che sia, non modifica la decisione dei genitori, che troveranno comunque il modo di far escinderela bambina altrove. In questo tipo di dinamiche è molto difficile esprimere formule risolutive rigi-de e preconfezionate. Per Camilleri: «sembra che nel contesto del solo “culturale”, cioè degli indi-vidui e dei gruppi che non si mescolano fra di loro, il relativismo garantisca le condizioni di legit-timazione dei valori vigenti nell’umanità, e quindi il riconoscimento di coloro che ne sono i porta-tori, ma non fa nulla per mettere tali valori in una relazione soddisfacente, che è precisamente laragion d’essere dell’interculturale71».

In presenza di un conflitto di valori occorre ricercare una soluzione che ciascuno dei protagoni-sti possa in coscienza accettare. «Per trovare questa soluzione - scrive ancora Camilleri - deveallora cominciare, all’interno del gruppo che vuol continuare nell’interculturale, un movimentoinevitabile: il confronto serio dei codici presenti, che esige che i partner raggiungano un livello diriflessione più profondo, perché non si tratta più solo di mettersi d’accordo sui mezzi di realizza-zione di un valore comune, ma di mettersi d’accordo su quello stesso valore: questo esige il con-fronto dei modelli e delle logiche che sono alla base dei sistemi presenti. Ed è proprio in questaoccasione che la maggior parte dei partner scoprirà questi modelli e diventerà veramente coscientedella dinamica singolare della propria cultura; ciò costituisce un progresso importante e preziosonella propria formazione. Così in questi gruppi inizia una riflessione comparativa che può portarea nuove formazioni che articolano in modo diverso i sistemi confrontati».

Cosa proporre, dunque? Niente di più che alcuni tentativi di dialogo, magari coinvolgendo nelladiscussione altre famiglie della stessa etnia che hanno già affrontato il problema. Un primo, indi-spensabile passo è quello di comprendere il significato particolare che l’escissione ha per q u e igenitori, il loro grado di convinzione, le motivazioni addotte, il grado di conoscenza sulle conse-guenze e sulle complicanze dell’escissione, le eventuali resistenze di altri familiari alla decisionedi non escindere la bambina (i nonni, gli anziani), ecc. Occorre infine accertarsi che abbiano unacorretta nozione circa il danno non solo fisico ma anche psicologico che viene inferto alla bambi-na e che, da ultimo, abbiano altresì chiaro che per la legislazione di tutti i Paesi europei tale prati-ca costituisce reato contro la persona.

Infine, un ulteriore tentativo di mediazione potrebbe essere quello che tende a distinguerenell’escissione il piano della r i t u a l i t à con il piano dell’e f f i c a c i a. In altre parole, potremmo indagarese per quei particolari genitori che si trovano nel nostro ambulatorio sia assolutamente necessarioed irrinunciabile che l’operazione che ci chiedono arrivi al piano dell’efficacia, cioè per intendercigiunga sino alla lesione funzionale dell’organo. Forse può essere per loro sufficiente il piano dellaritualità, ossia quello del significato della pratica tradizionale, che è in sostanza, il marchiare l’ap-partenenza dell’individuo all’etnia. Non per altro, in molte etnie che praticano l’escissione e la cir-concisione maschile, quasi contemporaneamente ad essa si pratica la “scarificazione” cutanea delcorpo e del viso con segni tipici per ogni etnia. Salvaguardando, quindi, il piano della ritualità, marifiutando quello dell’efficacia, si potrebbe proporre ai genitori di “scarificare” solamente, ad esem-pio, la vulva della bambina - ovviamente in anestesia e rispettando le comuni norme asettiche.

Tuttavia, anche se questa o altre proposte simili dovessero fallire, esse stesse ed il dialogo che leha veicolate dovrebbero sortire di per sé due benefici sviluppi. Il primo è di far percepire a questafamiglia che riconosciamo la loro identità culturale - anche solo attraverso la non demonizzazionedi una richiesta alla quale, in fondo, essi credono tanto da volerla fare, ma non abbastanza da per-mettere che sia chiunque a compierla. Il secondo è che attraverso la relazione che sorge dalla spie-gazione delle rispettive posizioni, essi potrebbero prendere coscienza della gravità della cosa edecidere di posticiparla, ad esempio, sino alla maggiore età della figlia. (Ma di nuovo, l’età adultaè fissata con criteri culturali che nel caso in questione potrebbero anche non prevedere quellalibertà di decisione della donna sulla propria vita che è un patrimonio ormai acquisito per lesocietà occidentali)72.

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Con questi pochi esempi, forse ancora troppo sommari e certamente non risolutivi del problema,speriamo di aver mostrato come l’infermieristica e nella fattispecie l’infermieristica interculturale,sia di natura profondamente relazionale. E come dipenda da noi infermieri ricercare, re-instauraree condurre questa relazione. Se non lo facessimo la nostra “educazione sanitaria” si svolgerebbeprobabilmente, come spesso accade, in forma di monologo: tanto stereotipato quanto, soprattutto,sterile. In questo tipo di relazioni è solo uno dei protagonisti che parla attraverso un sapere chesentenzia il giusto e lo sbagliato, il buono e il cattivo. L’altro, oggettivizzato e colpevolizzato, èposto sotto lo sguardo biasimevole del “superiore”, e non può che tacere. Ma poi, dopo aver umi-liato o strappato la “rete interpretativa” del nostro paziente, almeno non illudiamoci che, appenauscito dalla relazione con gli “esperti”, esso ascolti e metta in pratica i nostri consigli.

4.2.4 La teoria dei bisogni come teoria costruttivistaGli esempi dell’infermieristica interculturale e l’intero paragrafo sulla relazione assistenziale cirimandano una considerazione più volte sottolineata nel corso di tutto il capitolo. L’ a s s i s t e n z ainfermieristica si costruisce momento per momento nella situazionalità della relazione con l’altro.L’ermeneutica dei bisogni assistenziali è resa possibile, secondo la teoria proposta, dall’esplicita-zione delle competenze assistenziali in campo e dalla manifestazione dei rispettivi pregiudizi: perquesti fattori essa si caratterizza in quanto teoria costruttivista.

Una divertente storiella può aiutarci in questa riflessione che continua il discorso sulla strutturaepistemica sull’infermieristica iniziato nel primo capitolo. Tre arbitri di baseball discutono di falli.Il primo dice: “io li fischio quando li vedo”. Il secondo dice “Io li fischio perché ci sono”. Il terzonon è d’accordo con i suoi colleghi ed afferma: “Non ci sono finché non li fischio”. Il primo arbi-tro pensa che identificare un fallo significhi percepire una realtà esterna, nei limiti consentiti dalleproprie capacità (“Prendo atto del fatto che è avvenuto un fallo”). Il secondo arbitro crede che levalutazioni siano il risultato di processi mentali oggettivi ed indiscutibili (“vedo un fallo perchéc’è”). Il terzo arbitro è forse, senza saperlo, un costruttivista. Egli pensa che le valutazioni sianocostruite nel processo attraverso cui vengono esplicitate. Potrebbe dire “Il fallo esiste quando dicoche c’è perché io sono l’arbitro e ho gli strumenti adatti (concettuali e pratici) per farlo esisterecome fatto sociale; ho l’esperienza, la capacità e l’autorità per valutare se un fallo c’è o non c’è;posso sbagliare, naturalmente, un altro arbitro potrebbe decidere in un altro modo, ma un fallo èun fallo solo nel momento in cui io lo fischio”73.

Leon Eisenberg, professore di Medicina sociale e Psichiatria alla Harvard Medical School diBoston, commentando questa stessa storiella fa notare che ovviamente, l’assistenza sanitaria(medico-infermieristica) è ben più che “Chiamare le cose per nome quando le vediamo”. Ma dob-biamo sapere che mentre la traiettoria della ball è un fenomeno indipendente dall’osservatore, lazona di strike è una costruzione sociale , e cambia insieme alle regole del gioco. Né la patologiadiagnosticata dal medico (disease) né la malattia percepita dal paziente (illness) sono infinitamen-te malleabili: entrambe subiscono le restrizioni della biologia e della cultura. Peccato che i medicinon studino l’epistemologia, conclude Eisenberg, perché il problema non viene dalla «troppascienza”, ma da una visione troppo ristretta di ciò che vi è di rilevante da capire nella cura di unpaziente, ossia dal non voler considerare e riconoscere la sua “soggettualità irriducibile74».

Proviamo allora a tradurre questa storiella nella teoria ermeneutica dei bisogni dell’infermieri-stica. Tre infermieri discutono dei bisogni di un paziente. Il primo, molto preso dalle sue funzionie dal complesso delle sue competenze, dice: “Io pianifico quando li rilevo” - rischiando così dipianificare poco perché non vede i bisogni del paziente, non li reputa di sua pertinenza oppure nonsa come risolverli. Il secondo, invece, è convinto di poterli identificare oggettivamente e quindidice parafrasando Newton: “Bisonium non fingo, non gioco alle ipotesi… Io li pianifico perché cisono” - ma abbiamo visto che così facendo corre il rischio di vedere solo una parte del paziente, e

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ridurlo a ciò che noi conosciamo dei suoi bisogni. Il terzo non è d’accordo con gli altri e dice:“Potrebbero essere bisogni di assistenza infermieristica come potrebbe non esserlo. Ma non sononulla finché io non li riconosco”. Non sono nulla finché la comprensione del paziente non fa emer -gere il significato che la presunta anormalità di quel bisogno ha per lui in quel momento e finchéio non ho soppesato alla luce delle evidenze scientifiche e della mia esperienza tutte le possibiliconseguenze, i rischi, il costo-beneficio, le risorse a disposizione, le priorità oggettive e via diseguito. Le valutazioni delle singole fasi diagnostiche e prescrittive dell’assistenza infermieristicasono in quest’ottica “costruite nel processo attraverso cui vengono esplicitate”. L’infermieristicaletta in chiave ermeneutica è giocoforza costruttiva in quanto non vi è altra possibilità di compren-dere e soddisfare l’alterità insita nei bisogni assistenziali dei pazienti.

Ma è bene dire subito che essere costruzionisti non significa affatto essere relativisti, ma sempli -cemente essere consapevoli delle operazioni attraverso cui noi strutturiamo la realtà. Significa,come afferma Mantovani, riconoscere l’ambiguità delle situazioni nella vita di ogni giorno e ilruolo degli artefatti nel dare la forma all’esperienza quotidiana75.

In quanto infermieri, siamo coltivatori di un certo campo di conoscenze che ci orienta a “vede-re”, a selezionare i fenomeni, a classificarli in un certo modo piuttosto che altri. Non solo: siamoanche in grado di sapere quale tipo di tecnica o procedura “funzionerà meglio” per la risoluzionedi un certo tipo di bisogno, quantomeno nella sua dimensione bio-fisiologica, e quali altre rischia-no di essere dannose. Il continuo confronto tra le competenze personali e culturali manifestate dalpaziente e la nostra competenza disciplinare, crea quella percezione di vicinanza - similitudine - odi lontananza - alterità - che è l’oggetto stesso della nostra ermeneutica (e di cui parlavano giàalcune teorie infermieristiche della “Scuola dei bisogni”).

Carlo, un giovane ricoverato nella nostra Unità da tre giorni ci chiede, un po’ fuori orario, unatazza di tè. La nostra risposta dipenderà ovviamente da come interpreteremo la sua richiesta. Loabbiamo appena visto: la conoscenza dell’altro avviene sempre all’interno degli artefatti dellanostra cultura. Ormai siamo sgamati e ci ricordiamo subito che i tre momenti dell’interpretazione -comprensione, spiegazione ed applicazione - sono tra loro indissociabili e che se non si fa atten-zione si corre il rischio di rispondere con la prima delle possibili spiegazioni che ci passano per lamente. Ma in fondo cosa ne sappiamo di Carlo e del suo tè? Lui è sostanzialmente un “precisino”che non te ne lascia scappare una e trova da ridire su tutto. Quasi quasi gli rispondo che il tè è fini-to e vado avanti a fare le mie cose (che se quelli del turno dopo mi trovano indietro sono capaci dicredermi un imboscato). Ma non sono tranquillo. Prendo tempo e gli chiedo: “Com’è che vuoi il tèa quest’ora?” e intanto penso a tutte le possibili spiegazioni che mi vengono alla mente (il che,adesso mi ricordo, equivale a mettere alla prova i nostri pregiudizi). Ecco le prime: (a) Carlo è soloun po’disidratato ed ha sete - mi chiedo: qual è il quadro clinico della disidratazione? Quanto haurinato oggi? Che terapie sta facendo? C’entra qualcosa con la sua malattia?; (b) è un inguaribilea n g l o f i l o con la fissa dell’aulica bevanda alle cinque o’clock - gli dico: “Ti deve proprio piacere iltè! Non puoi aspettare come tutti gli altri?”; (c) in realtà il tè non gli piace affatto, ma c e rca un pre -testo qualsiasi per cinque minuti di chiacchiere, sperando magari di incanalare il discorso su qual-che domanda che gli sta a cuore - provo così a guardarlo meglio in viso: che faccia ha? Cosa gli èsuccesso nelle ultime ore? Provo a dirgli: “Non sai che il tè è un eccitante? Mi sembri abbastanzateso per oggi; qualcosa non va?”; (d) è proprio il solito precisino che ha solo voglia di rompere…“Dài, Carlo - gli dico - porta pazienza; non vedi che sono indietro con il lavoro?”

Questo è certamente un esempio banale, ma quanti momenti simili a questo capitano nella gior-nata di un infermiere? Visibilmente, l’assistenza che presteremo dipende dall’interpretazione chein quel momento diamo alla situazione, così come è evidente che tale interpretazione non è fruttodi una divinazione, né l’applicazione di una formula matematica, ma dipende dalle nostre capacitàrelazionali, dalla nostra competenza - direi dalla nostra “professionalità” se non risuonasse così

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pomposo. Da cosa è fatta questa competenza? Innanzitutto dalla c o n o s c e n z a: dall’aver studiatol’infermieristica e le discipline affini: la medicina, la psicologia, l’antropologia, ecc. e dall’esserecontinuamente aggiornati sulle cose più nuove del proprio settore. Che imbarazzo quando sidomanda a dei colleghi il motivo di una certa procedura e ci si sente rispondere “Ci hanno detto difare così”, o peggio ancora “Abbiamo sempre fatto così”. Ma poi anche dall’esperienza, dall’averealle spalle molte situazioni simili che affinano l’intuito e sciolgono la lingua (e la vera esperienzaè quella che ti spinge sempre a dubitare di “aver già visto tutto quello che c’era da vedere”).Infine, ma non meno importante, questa competenza è fatta dal mantenere vivo l’interesse - omeglio dal mantenere un interesse vivo - all’altro, al suo mistero, alla storia che ha da raccontare,ai bisogni che lo fanno soffrire e che ci impediscono di pensare meschinamente “ai fatti nostri, chesono bisogni altrettanto gravi che i suoi”. Il risultato del nostro lavoro sarà ciò che deve essere:phrónesis, un miscuglio di scienza e di arte, saggezza pratica.

Ma se non ti mantieni allenato, se non sei cosciente dei pregi e dei difetti della limitata prospet-tiva che è la tua professione o la teoria con la quale operi, prima o poi rischi di essere totalmentepreso dalla tua prospettiva e dimenticare quella del paziente. Questo rischio, ovviamente, lo corro-no soprattutto le teorie strettamente prescrittive quali ad esempio la stessa medicina, se intesa conla “m” minuscola.

Così la richiesta di una passeggiatina post-prandiale da parte del signor Bianchi, emiplegicoin riabilitazione, quand’è che viene considerata un bisogno di movimento, quando un bisogno difacilitare il suo metabolismo digestivo e quando di relax? Come i n t e r p re t a re i bisogni di eva-cuare e di movimento di quell’altro signore emiplegico che ieri pomeriggio non voleva alzarsidal letto come da pianificazione perché demotivato e depresso, ma che poi rifiutava caparbia-mente il pannolone perché convinto - a torto - di riuscire a controllare l’uso degli sfinteri e rag-giungere il bagno?

Certamente occorrerà ristabilire la centralità dei bisogni sulla persona assistita, piuttosto che suun termine che già induce a pensare con quale ottica tale bisogno verrà interpretato: bisogno dimangiare e bere, quindi, e non “alimentarsi ed idratarsi”; bisogno di lavarsi e non “di igiene”;bisogno di sicurezza e non “di ambiente sicuro e terapeutico”; bisogno di dormire e di riposare enon di “relax”; bisogno di mingere ed evacuare, ecc. Ma poi, convinti come ormai siamo che ciòche chiameremo “bisogno di assistenza infermieristica” originerà dalla nostra interpretazione delsingola e particolare situazione che abbiamo di fronte, dobbiamo avere ben chiaro in forza di qualievidenze l’infermiere si arroga il diritto di sentenziare questa o quella delle varie interpretazionipossibili, per poi proporre questa o quella delle varie tecniche a sua disposizione.

In conclusione vogliamo ribadire che l’ermeneutica non sostituisce affatto il piano della cono-scenza scientifica, ma aiuta a capire il fenomeno della comprensione della situazione assistenziale.La costruzione di tassonomie diagnostiche e set prescrittivi resta quindi una priorità della ricercainfermieristica in ambito clinico, tanto per la definizione del campo di competenze infermieristicoche per la valutazione dei suoi risultati e la comunicazione intra ed inter-professionale a livellonazionale ed internazionale.

Alcune riflessioni sulle metodologie per la rilevazione dei bisogniNella nostra impostazione teorica abbiamo constatato come centrale il problema dell’alterità delpaziente. La alterità è percepita dall’infermiere come l’architettura dinamica ed assolutamente ori-ginale dei particolari bisogni di assistenza infermieristica della persona, in quel particolaremomento ed in quel particolare contesto situazionale. A fronte di una tale alterità di fatto, perobbligo di coerenza interna, non è possibile strutturare categorie diagnostiche e prescrittive rigidee totalmente standardizzate così come nei metodi algoritmici tipici delle scienze della natura. Lamedesima prestazione infermieristica - ad esempio una spugnatura a letto - compiuta nei confronti

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della medesima persona in due momenti diversi della sua giornata o in una delle varie fasi dellasua condizione di “malato” potrà avere contenuti diversi a causa delle particolarità delle variesituazioni che vedono relazionarsi la persona (e le competenze) dell’infermiere con la persona (ele competenze) del paziente. Come abbiamo visto - ed è già questo di per sé un assunto metodolo-gico fondamentale - il bisogno di assistenza è un fatto relazionale che si manifesta e si comprendenella situazione data.

Abbiamo nel registro dei ricoveri un nuovo paziente che entra nella nostra Unità per un’aneuri-smectomia dell’aorta. La nostra équipe ha studiato nei dettagli il “percorso di cura” di questipazienti e predisposto protocolli operativi ad hoc, alcuni dei quali integrati con le altre figure sani-tarie interessate e con procedure codificate per ogni giornata di ricovero. Senza ancora aver vistoin viso il nostro nuovo paziente (con tutte le sue identità particolari di cui sono un segno il nome,il lavoro, la storia della malattia, l’ambiente socio-culturale di provenienza, ecc.) potremmodescrivere passo passo cosa gli accadrà durante il ricovero: quando sarà sottoposto a questa o aquella indagine diagnostica, come verrà preparato per l’intervento, che terapie di massima verran-no prescritte e per quale via verranno somministrate. Di più: da un punto di vista infermieristicopossiamo sapere in anticipo quale giornata sarà la più pesante, in quanto possiamo prevedere l’an -damento dei suoi bisogni. In giornata -1 dovremo considerare una dieta adeguata, la preparazionedella zona chirurgica, ecc. In giornata +1, invece, compariranno i bisogni tipicamente legati alpost-operatorio e all’allettamento, i bisogni di movimento, di igiene, di eliminazione urinaria, ecc.Eppure, proprio per il fatto di non averlo visto ancora in viso, cioè per non averlo ancora cono-sciuto di persona, non potremo ancora sapere se l’assistenza sarà effettivamente quella prevista dalnostro percorso di cura e dai nostri protocolli, o piuttosto questa dovrà essere modificata o addirit-tura stravolta per le particolarità soggettive dei bisogni di quel paziente. E se fosse un testimone diGeova che rifiuta qualunque tipo di trasfusione di sangue o emoderivati? O un musulmano duran-te il ramadam? O un barbone senza fissa dimora né risorse familiari? Di fatto, è l’alterità dei biso-gni assistenziali del paziente che costringe l’infermiere ad i n t e r p re t a re il problema dell’altro -ricordate? Non è il paziente che si deve adattare al protocollo assistenziale, ma semmai il contra-rio. Ma allora come si può descrivere, studiare e interpretare questo fenomeno? Possiamo “misu-rare” scientificamente i bisogni assistenziali dell’uomo partendo dalla struttura concettuale presen-tata in questo capitolo?

Potremmo subito richiamare alla memoria che Gadamer, per illustrare come sia difficile misura-re i termini della salute, ricordava che già Platone aveva distinto la misura esterna (métron) di unacosa e la sua misura interna, l’adeguatezza a sé (métrion). Orami ci è chiaro che di entrambe que -ste misure ha bisogno l’infermiere per la sua opera e su di uno stesso piano di dignità.

Per il fatto di invitarci ad entrare più nello specifico delle problematiche metodologiche imme-diatamente legate all’identificazione dei bisogni assistenziali riprendiamo qui alcune riflessionidel sociologo della salute Pierpaolo Donati. Questo autore, infatti, insiste a livello teorico su unanetta distinzione fra due modelli di procedure per la rilevazione dei bisogni sanitari che devonopoi tuttavia integrarsi nella pratica. Da un lato - mantenendo la dizione di Donati, ma riferendociimmediatamente alle problematiche infermieristiche - abbiamo il modello di rilevazione dei biso -gni per via sistemica che raggruppa quegli approcci che riconoscono come caratteristica principalel’assunto che sia possibile trovare dei dati oggettivi (quantificabili in modo standard) che esprimo-no realmente lo stato di salute di una popolazione attraverso i suoi bisogni. Si tratterà allora di fis -s a re un quadro, il più significativo possibile e nello stesso tempo “economico” di indicatori -capace cioè di offrire la rappresentazione della situazione assistenziale nel modo più sinteticop o ssibile, nell’esempio già proposto si parlava di percorsi di cura, protocolli o procedure, a secon-da del livello di complessità descrittiva che vogliamo raggiungere. Esempi di tali indicatori posso-no essere: a) anagrafici; b) igienico-ambientali; c) bio-fisiologici o nosologici; d) di abitudini e

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delle consuete attività autoassistenziali che rilevano lo stato di benessere del paziente e della suafamiglia; e) di efficacia ed efficienza delle risorse e dei servizi esistenti al fine di migliorare gliindicatori precedenti sullo stato di salute dell’individuo o della collettività; e così via.

Dall’altro, ritroviamo quelle metodologie tipiche della sociologia e della psicologia culturaleche, pur avvalendosi di strumenti statistici, non fanno dell’epidemiologia sociale (come i prece-denti), bensì si ispirano a un modello di rilevazione che Donati chiama “per via di mondo vitale”.«In essi - scrive Donati in un passaggio molto significativo - la componente della soggettività, del“senso” dei bisogni, del modo qualitativo di esprimerli e di accostarsi e fruire dei servizi è un ele-mento essenziale. È questo elemento soggettivo e qualitativo, attento alla rete dei rapporti socialiprimari, che fa sì che si possa distinguere fra bisogni (needs) e domanda (want, demand), dandouna voce ai primi, cosa che la rilevazione per via sistemica non può fare76».

È bene avvertire subito, chiarisce Donati, che la distinzione introdotta non corrisponde pernulla alla distinzione fra indicatori oggettivi e soggettivi, di cui si dibatte a livello internazionaleda illo tempore. Infatti, questi indicatori stanno (o possono stare) tanto nel primo modello meto -dologico che nel secondo. La distinzione qui avanzata - che dirime “modelli metodologici” (v s“indicatori”) quantitativi da quelli qualitativi - intende esplicitare il ruolo dell’osservatore, cioèdell’infermiere, nell’operazione conoscitiva, la sua valutazione e il suo tipo e grado di coinvolgi -mento. È questa indubbiamente una preziosa indicazione tipica delle metodologie sociali che sirivela fondamentale anche per l’infermieristica; di nuovo: è nella situazione e grazie alla relazio -ne che si manifestano e si comprendono i bisogni.

A nostro avviso, una corretta assistenza infermieristica dovrebbe basarsi sulla integrazione re c i -p roca di questi due modelli, proprio perché è l’uso simultaneo di questi due approcci metodologicinel singolo infermiere che permette di aver presente: I) che esistono bisogni oggettivi e bisogni sog -g e t t i v i - o per meglio dire, che nella prospettiva infermieristica lo stesso bisogno ha sfaccettature chepossono essere colte oggettivamente ed altre che si dischiudono alla comprensione solo in terminisoggettivi. Di conseguenza, il bisogno può e deve essere indagato con entrambe le modalità sistemi-ca e per via di mondo vitale; II) che i bisogni possono essere impliciti (o latenti) oppure espliciti(tradotti in domanda), e che esistono modi differenti per manifestarli - ma facendo bene attenzioneal fatto che, come abbiamo visto, ogni esplicitazione comporta anche una ri-definizione del bisognolatente nella situazione - e questo obbliga ad un’altra indicazione metodologica di fondo, ossiaobbliga l’infermiere (come già dice la Henderson) a chiedere conferma al paziente per ogni ipotesidiagnostica o pre s c r i t t i v a; III) che la rosa degli strumenti di indagine posseduti dall’infermiere deveessere ricchissima, in quanto spazia dagli strumenti tipici dell’epidemiologia (indagini statistiche,sistema informativo, indicatori bio-fisiologici, ecc.) che servono soprattutto per impostare un’assi-stenza generale (cioè riferita a situazioni assistenziali generalizzate e/o generalizzabili), sino aglistrumenti specificatamente di matrice psico-sociologica (la relazione non direttiva, il colloquio inprofondità, l’osservazione partecipante, l’approccio biografico o la raccolta di storie di vita, ecc.),che oltre a chiarire tanti aspetti sui precedenti, sono essenziali per la rilevazione delle d i m e n s i o n isoggettive dei bisogni (cioè quelle caratteristiche delle situazioni assistenziali non generalizzabili) esi rivelano di conseguenza indispensabili per la pianificazione di un’assistenza personalizzata.

L’integrazione fra i due approcci non si espleta solo nella persona del singolo infermiere, macome è ovvio può essere variamente strutturata, trovando una formula di reciproco completamentoe di esplicita coordinazione. Un esempio significativo in proposito è il metodo Cona (Communityoriented needs assessments) che assieme allo sviluppo della teoria e della pratica della Comunitycare è un’interessante campo di prova per la disciplina infermieristica. Nel Cona si tratta di inte-grare, attraverso il case management, ossia la gestione del singolo caso, le risorse e le competenzeinformali (della famiglia, del vicinato, del volontariato, ecc.) con le competenze formali dellediscipline socio-sanitarie (medico, infermiere, assistente sociale, ecc.)77.

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Tornando agli approcci metodologici per la rilevazione e la risoluzione dei bisogni assistenziali,appare indubbio che ognuno di quelli citati abbia i propri pregi e i propri difetti, ma non è questané la sede né il momento di svilupparli nel dettaglio. Occorre invece subito sottolineare la fonda-mentale importanza che essi hanno man mano preso nella clinica e nella ricerca infermieristicaattraverso la metodologia dell’assistenza. A livello internazionale, la ricerca e la sperimentazionesu queste tematiche sembrano ormai essersi concentrate sugli strumenti rispettivamente della fasediagnostica e prescrittiva del processo assistenziale, molti dei quali - per il loro costante orienta-mento alla generalizzabilità delle situazioni assistenziali - potremmo ben definire hard. Eppure,come il capitolo sulla “Scuola dei bisogni” ha ben mostrato, tali strumenti sono usati all’interno diun metodo soft, dove per “soft” intendiamo non già la non-scientificità degli asserti infermieristici,quanto la strategicità e flessibilità alla situazione data da tutti riconosciuta al processo di assisten-za infermieristica. Le più urgenti questioni metodologiche in campo infermieristico s o l l e c i t a n oall’interno del processo assistenziale un’opportuna strutturazione ed integrazione tanto deglistrumenti hard - che orientano le azioni e le decisioni dell’infermiere - quanto degli strumenti soft- che nella relazione dialogica con il paziente sono chiamati a temperare i due poli di rischio delriduzionismo e del relativismo.

Noi riteniamo quindi che la principale priorità della nostra disciplina sia attualmente lo studio ela sperimentazione di categorie diagnostiche (cioè quei “quadri-assistenziali-tipo” che descriva -no le principali relazioni tra bisogni di assistenza infermieristica e situazioni assistenziali - inquanto abbiamo visto che il bisogno per la sua variabilità non può coincidere con la diagnosi) e dicategorie prescrittive (cioè i “profili di intervento basati sulle evidenze” ed assicurati dagli infer-mieri per la risoluzione del quadro identificato) all’interno del processo assistenziale. Non senzaricordare, tuttavia, che tali strumenti nella relazione con l’altro non solo l’unica e sola spiegazio -ne e risoluzione possibile della situazione assistenziale data, quanto la prima formulazione dellenostre parziali pre-comprensioni - Gadamer direbbe Vorverständnis,pre-comprensioni intessute dipre-giudizi (Vo ru rt e i l e) - che ci consentono di arr i v a re a ipotizzare soluzioni assistenziali (perdefinizione personalizzate e provvisorie) che fungano da obiettivi comuni tanto per noi quanto peril nostro paziente. Questi, infatti, parteciperà alla pianificazione assistenziale se accetterà e condi-viderà gli obiettivi che sapremo proporgli, nella misura in cui saranno per lui significativi rispettoall’esperienza che lui sta attraversando in quel periodo della sua vita.

4.3 I tre princìpi fondamentali dell’assistenza secondo la Teoria dei bisogniIn questo paragrafo vorremmo accennare a tre principi, tre grandi idee o prospettive che si apronoalla nostra riflessione se guardiamo all’assistenza infermieristica in quanto risposta ai bisogni del-l’altro da un punto di vista etico. Con altri autori e colleghi condividiamo la considerazione chel’assistenza infermieristica, come saggezza pratica, sia profondamente morale proprio in quantosapere che, nella relazione ermeneutica con un altro, è già intrinsecamente un fare.

Il nucleo della teoria dei bisogni manifesta visivamente la complessa dinamica dei saperi ingioco nella relazione infermieristica. Rende evidenti le reciproche sfere di libertà e di autonomiadelle competenze assistenziali in gioco ed il loro continuo costruirsi ed integrarsi a vicenda, cosìcome facilita la manifestazione delle identità di ciascuno attraverso il rispetto portato all’alteritàdell’altro. Possiamo allora avanzare l’ipotesi che l’etica infermieristica «non sia altro che la mede-sima disciplina infermieristica spiegata, per così dire, in chiave filosofica, individuandone cioè leragioni profonde e le motivazioni che traducono la teoria nel fare, o, meglio, che fan sì che lariflessione teorica sia già intrinsecamente prassi7 8». Ma quali sono i valori fondamentali chesostengono l’agire infermieristico?

Certamente quello della persona umana, della sua salute come senso del vivere e della suali b e rt à. Tuttavia, indubbiamente, il principale valore testimoniato dall’infermiere in quanto

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i n f e rm i e re non può che essere l’assistenza s t e s s a, nella quale - come abbiamo avuto modo divedere più volte - ciò che è in gioco è l’appello morale di colui che chiede assistenza, un bisognodi vicinanza e di solidarietà che trapassa il camice del professionista per implicare in profondità lapersona che siamo79. La riflessione etica, allora, ha senso nella misura in cui non insegna soltantoi principi cui attenere il proprio comportamento, cui ispirarlo astrattamente, bensì ha senso nellamisura in cui aiuta il singolo a diventare un agente morale in grado (in forza di precise qualità evirtù) di rispondere a tale appello morale, alla domanda che proviene da colui che chiede di pren -dersi cura di lui.

Ecco di nuovo, ma sotto una prospettiva ancora diversa, il grande valore dell’esperienza nellapratica infermieristica. Essa non si esaurisce semplicemente nell’applicazione di alcune procedureo principi generali alle situazioni, bensì significa cogliere nella stessa imprescindibile particola -rità della situazione la norma morale. Cogliamo il senso dell’esperienza come autentica esperien-za morale, in cui la dimensione storica non è semplice aggiunta ma è dimensione propria dell’agi-re morale. Per questo non ci basterà applicare sic et simpliciter una diagnosi e una procedura assi-stenziale per avere la certezza di aver agito moralmente; sarà necessario invece ascoltare la situa -zione, farsi educare da essa (dal soggetto con cui siamo entrati in relazione) per poter stabilire sele nostre azioni sono moralmente corrette oppure no. Sembra allora di poter dire che l’infermieri-stica è “luogo della morale”: occorre mediare la norma con la storia, con lo spazio e con il tempoin quanto coordinate dell’agire morale, m e d i a re il sapere scientifico con la realtà che chiedeaiuto, ossia con la persona da assistere.

Queste tre grandi direttrici dell’agire infermieristico che ci sembra di intravedere alla luce dellateoria dei bisogni sono, a nostro parere: a) la considerazione olistica della persona umana - che ciinvita a considerarla sempre come un tutto indivisibile; b) la relazione di tipo dialogico - che ci sug-gerisce una costante apertura all’altro, e al contesto ambientale da cui proviene; e infine c) la perso -nalizzazione dell’assistenza - che ci addita che il fine ultimo del nostro agire non può essere altro chela salute della persona assistita. In sede di prima esposizione, proponiamo di chiamare questi principi“etico-deontologici”, perché più che “norme” del corretto agire infermieristico, ci sembrano delle“indicazioni di rotta”, per dirimere le questioni più semplici, e ragionare su quelle più diff i c i l i .

4.3.1 Il principio olistico (il concetto di Persona)L’o l i s m o è una tesi conoscitiva da sempre sostenuta dagli infermieri, in modo quasi trasversalealle varie correnti di pensiero della nostra disciplina. Il termine “olismo”, lo ricordiamo, originadal greco hólos e significa “tutto”, “intero” e nella sua accezione più generale sostiene che deter-minati sistemi complessi presentano caratteristiche che non sono possedute dai loro elementicostitutivi.

Nella nostra prospettiva sull’infermieristica, il principio olistico indica che benché studiata neisuoi bisogni e questi nelle loro dimensioni particolari, la persona umana, già definita in sensoinfermieristico come “essere-nel-bisogno”, è il vero fine dell’assistenza. Ma la stessa parola “per-sona” - ci sovviene il suo etimo80 - già dice della sua difficile concettualizzazione. Ci rivolgiamoallora alla filosofia personalista che, sebbene al suo interno molto eterogenea, si ritrova concordenell’affermare che l’accesso all’essere è personalistico, o detto altrimenti che l’esperienza dellapersona, comunque essa si configuri, è l’unico varco attraverso il quale ci è consentito il primo,radicale ed essenziale contatto con l’essere8 1. Tra nomi famosi - quali Maritain, Marcel, Barth,Pareyson - riprendiamo il pensiero di Emmanuel Mounier, il “meno metafisico dei personalisti”.Mounier, che coglie nel problema dell’alterità «una delle grandi conquiste della filosofia esisten-z i a l e8 2», definisce la persona come «un’attività vissuta d’auto-creazione, di comunicazione e diadesione, che si percepisce e si conosce nel suo atto83».

Nella nostra prospettiva, l’infermiere deve avvicinare la persona umana sempre come un “intero”

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che nella situazione assistenziale manifesta tutte le attribuzioni sostanziali del personalismo socia-le di Emmanuel Mounier: l’u n i c i t à, l’i rr i p e t i b i l i t à, l’a u t o - f i n a l i s m o (l’essere cioè un fine in séstessa, capace di essere cosciente di sé e libera) e infine l’insondabilità o inesprimibilità84.

L’infermiere riconosce la persona umana come unica ed irripetibile innanzitutto in quanto por-tatrice di una particolare costellazione di bisogni assistenziali che riflettono tutte le sue dimensionicostitutive, manifestandosi nella relazione con l’infermiere in un’architettura dinamica ed assolu-tamente originale. Secondariamente, la persona manifesta la sua unicità ed irripetibilità anchequando si afferma che la prestazione infermieristica, il cui scopo è la risoluzione di un bisogno diassistenza infermieristica dell’uomo, è essa stessa un evento unico ed irripetibile, e quindi eventoche non potrà mai essere completamente standardizzato a priori. E questa dote di irripetibilità nonserve solo a sottolineare la distanza fra il concepire le prestazioni infermieristiche come “esperi-mento” - prevedibile e controllabile - ed “esperienza” - in ultima analisi imprevedibile e incontrol-labile. Essa è anche manifestazione di come ogni prestazione infermieristica assume le proprietàdi chi la eroga e di colui al quale viene erogata, entità che, nella loro unicità, contrassegnanoanche l’irripetibilità del loro incontro.

L’a u t o - f i n a l i s m o della persona è invece chiaramente riconosciuto e rispettato dalla teoria deibisogni in quanto la diade bisogno-risposta non perde mai, in nessun livello del nucleo il primatod e l l ’a u t o n o m i a e dell’a d e g u a t e z z a con il quale si caratterizza la competenza auto-assistenziale.Avendo da tempo respinto la logica meccanicista dell’assistenza per mansioni, l’infermiere sirivolge all’uomo centrando su di lui la propria attività a tutti i livelli professionali: non per nullaabbiamo definito la persona come un essere-nel-bisogno. Il fine dell’assistenza infermieristica èquindi l’uomo, la sua capacità di rispondere ai propri bisogni di assistenza infermieristica e direcuperare la propria salute.

L’i n e s p r i m i b i l i t à, o insondabilità dell’uomo è conosciuta come la caratteristica-limite di ognidisciplina che abbia come oggetto di studio proprio la persona umana. Così come l’illimitata seriedei numeri naturali impedisce l’esaustività empirica e quindi costituisce un limite al fondamentodell’aritmetica razionale, a un ben maggiore livello di difficoltà la non esaustività della persona èla principale causa dell’irraggiungibile “completezza” di queste discipline. Ricordate Bachtin?Mentre il limite delle scienze della natura è l’identificazione, ossia l’esattezza della conoscenzacon la cosa in sé (la formula chimica con il suo composto), il limite delle scienze dell’uomo èinvece la p ro f o n d i t à, cioè la comprensione di un altro da sé. L’accettazione di questo attributodella persona umana in quanto espresso chiaramente dall’alterità dei bisogni assistenziali, comeabbiamo avuto modo di vedere, motiva l’intera struttura costruttivista della teoria.

4.3.2 Il principio dialogico (i concetti di identità-alterità e di Ambiente)In questo capitolo abbiamo già avuto modo di rilevare l’importanza della relazione tra infermieree paziente come conditio sine qua non all’assistenza infermieristica. “Essere significa comunica-re”, dice Bachtin. Senza dialogo non può esservi vera comprensione dell’altro e nessuna realisticapartecipazione alla situazione assistenziale. Al di fuori della relazione la salute della persona assi-stita - come ricerca di un equilibrio interiore in ciò che gli accade - resta emarginata, tagliata fuoridal compito infermieristico giacché non si avrà alcuna possibilità di cogliere le dimensioni sogget-tive dei bisogni dell’altro. In quella sede abbiamo studiato le caratteristiche tecniche di questo per-corso di avvicinamento per gradi progressivi all’alterità dell’altro: iniziamo a conoscerlo avvici-nandolo innanzitutto con ciò che sappiamo con lo studio di situazioni assistenziali simili alla sua,e lo comprendiamo più approfonditamente in ciò che invece manifesta come unico e irripetibilenelle dimensioni soggettive dei suoi bisogni assistenziali. Ebbene, lo strumento principe e caratte-ristico di ogni ermeneutica con il quale in ogni fase del processo assistenziale operiamo questocontinuo rimando tra similitudini e differenze nella situazione data è proprio il dialogo. La stessa

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presenza nella situazione, tanto dell’infermiere che del suo paziente, è una comunicazione8 5: lostesso “esserci” ed “essere-nel-bisogno” del paziente lo ripropone come soggetto e di conseguenzala sua comprensione non potrà che essere dialogica.

In questa sede non vogliamo tornare sugli aspetti tecnici di quella comprensione che Gadamerchiamava “fusione degli orizzonti”, quanto piuttosto sottolinearne la valenza etica. Si tratta infattidi mantenere viva nella nostra pratica un’attenzione costante all’altro, alla sua situazione e a ciòche essa significa per lui, senza lasciarci coinvolgere dalle abitudini e dalle nostre categorie pre-giudiziali. Lo abbiamo visto con chiarezza: l’homo universalis non esiste, ma esiste invece l’homoparticularis, l’uomo particolare che deve dare un senso culturale, genetico, sociale, ecc. a questasua particolarità e lo fa anche grazie alla sua competenza auto-assistenziale. Il nome proprio è unclassico esempio di questo “diritto alla particolarità”8 6. Per l’infermiere, l’interiorizzazione d e ldiritto del cliente ad essere un “uomo part i c o l a re ”, e ad avere quindi una identità culturale“unica”, oltre che un’identità biologica - riconosciuta e continuamente sottolineata dalle analisi edalle visite mediche - deve passare attraverso la costante rielaborazione critica delle nostre pre-concezioni; e come abbiamo visto l’unico mezzo per fare questo è il dialogo. Ma se la percezionedi sé che l’altro riceverà dalla relazione con l’infermiere, la stessa manifestazione e soddisfazionedei suoi bisogni, dipende dall’apertura concessa all’altro nella relazione, allora dobbiamo averchiaro che alla base di questa apertura vi è, squisitamente, uno sforzo etico.

Come scrive l’eticista Jean-François Malherbe: «Prima ancora di essere un “io” l’essere umanoè un “tu” e un “lui” nella conversazione degli altri. Il fatto umano fondamentale è l’invito allaparola, l’essere invitati a unirsi a una conversazione di cui non si sarebbe mai presa l’iniziativa.Non parleremmo se qualcuno non ci avesse rivolto la parola e non avesse prima parlato di noi congli altri. La preccellenza dell’altro, vale a dire la sua eccellenza al di sopra di ogni confronto, èiscritta all’inizio stesso dell’esistenza umana. Ciò vuol dire che l’essere umano riceve d’un colposolo la sua autentica vocazione, che consiste nel rispondere alla parola altrui suscitandola a suavolta. […] Il divenire-sé di ogni uomo passa attraverso il divenire-sé del proprio prossimo. […]Ognuno di noi diventa un “io” perché gli altri gli dicono “tu” e altri ancora lo indicano come“lui”87». L’esistenza umana, conclude Malherbe, si iscrive nelle tre dimensioni della parola: quelladel codice, quella della comunicazione e quella del corpo, che ritroviamo nelle sue dimensionicostitutive: le dimensioni simbolica, psichica e organica. Tra i caratteri necessari, affinché il dia-logo sia un efficace strumento di sviluppo, sono compresi la libertà, la solidarietà, l’umiltà, la fini-tudine e l’incertezza, mentre lo scopo di tale lavoro è che «gli uomini diventino più autonomi,cioè siano sempre più umani».

Il concetto di autonomia precisa “scopo e principi dell’azione morale” ed è per Malherbe ilfine dell’imperativo etico fondamentale: «Agisci [...] in modo tale da coltivare l’autonomiaaltrui, e la tua si svilupperà di conseguenza». Il fine della medicina per Malherbe - ed è questauna Medicina che ben comprenderebbe l’apporto infermieristico - dovrebbe «riportare il dominiooperativo da essa acquisito al servizio dell’autonomia delle persone», facendo della medicinastessa «un’arte filosofica, un’arte maieutica, un’arte intersoggettiva”, o ancora “l’arte di andareincontro alla soff e r e n z a8 8» .

Per Malherbe, occorre che la crisi diventi linguaggio, che si trasformi in parola, ascolto, silen-zio, dialogo e relazione: la sfida etica lanciata alla medicina contemporanea «è il posto che ricono-sce o nega alla parola89». «La parola - scrive Malherbe - nasce dalla sofferenza di un soggetto checerca la sua vera identità nel cuore stesso della crisi che vive, nel cuore stesso della lacerazioneche lo fa gridare. Perché il suo grido diventi parola bisogna anche che sia ascoltato dagli altri perciò che è. D’altra parte ci si può chiedere se la tecnica medica non sia utilizzata in gran parte perproteggere i curanti dalle grida dei curati. Infatti, se le ascoltassero, essi stessi ritroverebbero l’an-goscia delle proprie grida. […] La sofferenza è inevitabile, è la vita stessa in cammino. Essa segna

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la storia maieutica degli esseri umani che sono, o almeno dovrebbero essere, l’uno per l’altro, l’o-stetrico e la puerpera nelle relazioni che li legano reciprocamente. D i v e n t a re uomo, diventaredonna, significa lasciare che gli altri mi aiutino a partorirmi, in un rapporto che non punta a fareconomia di sofferenza90».

Anche nella letteratura possiamo trovare esempi di come l’assistenza sia reciprocità e compren-sione. Ogni infermiere che abbia letto il romanzo breve di Lev Tolstòj, M o rte di Ivàn Ilíc, adesempio, avrà certamente notato la figura del giovane contadino Gheràsim, l’unico in grado diportare sollievo al malato. Come? Accudendolo nelle attività più intime, sorreggendogli le gambein alto, sulle spalle - che quasi sembrava che il dolore sparisse. Era l’unico la cui presenza, la cuivoglia di vivere, che a stento riusciva a contenere, non infastidisse l’ammalato, ma anzi lo tran-quillizzasse. L’unico che, senza dire nulla, non gli mentiva: «C’era soltanto Gheràsim che com-prendesse la sua situazione, e che lo compativa. E per questo Ivàn Ilíc si sentiva bene soltanto conGheràsim. Si sentiva bene quando Gheràsim, a volte per intere nottate, gli sosteneva alte legambe, e si rifiutava di andare a dormire, dicendogli: “Voi non datevi pensiero Ivàn Ilíc, mi caveròil sonno più tardi”; o quando bruscamente passando al tu, gli ribatteva: “Manco male tu non fossimalato: ma una volta che stai così, perché non ti dovrei assistere?”. Il solo Gheràsim non gli men-tiva; s’intendeva, da tutto, ch’egli solo capiva di che si trattasse, e non giudicava necessarionasconderlo, ma, semplicemente, compativa il rifinito, debole padrone. Un giorno, anzi, disseaddirittura, mentre Ivàn Ilíc lo sforzava ad andarsene [e sono le ultime parole pronunciate daGheràsim nel racconto, del tutto simili alle prime, all’inizio della malattia: “Ci toccherà a tutti!”]:“Tutti quanti morremo. Perché non ti dovrei assistere?”, e voleva dire con questo, che non facevacontrovoglia il suo lavoro perché vi si sobbarcava per una persona ormai prossima alla morte, esperava che anche per lui qualcuno, venuto il tempo suo, si sarebbe sobbarcato allo stesso lavoro».

Constatiamo così, ancora una volta, come in ogni situazione legata all’assistenza, vi sia di più diquanto in essa vi si svolge. Come motivare ciascuno di noi a questo “di più”, che significato dar-gli? Ad ognuno, ovviamente rispondere da sé. Ma una cosa è certa: chi non ha dato risposta persé stesso a queste domande non può “guarire”. Chi non inizia almeno questa riflessione sulla pro-pria finitudine, di fronte alla camera di un morente, come troverà il coraggio di entrare e di guari-re? La guarigione, infatti, non può essere intesa unicamente come cura della malattia, ma di tuttol’uomo. Questa guarigione passa prima dalla relazione che dalla tecnica, prima dalla prossimitàche dalla scienza. Così, non può esservi Medicina senza Assistenza; non può esservi salute - nonpuò esservi significato autentico alla vita dell’uomo - senza relazione e senza compromissione.

La Nightingale, come sappiamo, rispondeva a questa mozione etica con un profondo senso direligiosità. Se sostituiamo, per chi soffrisse di queste idiosincrasie, il più laico “spiritualità” -come capacità di trascendere le cose - al termine “religione”, una bellissima lettera del 1873potrebbe essere indirizzata a tutti noi. «La vita, e specialmente la vita ospitaliera, è una cosa insi-pida senza un profondo senso [spirituale]. La nostra esperienza ci dice come, anche le cosemigliori, quelle che sembrerebbe dovessero sempre commuoverci, induriscono il nostro cuore senon sono usate rettamente. Io mi sono fatta la convinzione che nulla vale imparare ad assistere gliinfermi, se non si impara ad assisterli con il proprio cervello e col proprio cuore e che quindi, senon abbiamo una [spiritualità] veramente sentita, la vita ospitaliera diventa un insieme dimanualità compiute per abitudine e che inaridiscono mente e cuore... Vi sono degli elementi spiri-tuali che dobbiamo possedere se vogliamo impedire questa degenerazione e dobbiamo anzi chie-dere a noi stesse, se essi sono in noi in aumento o in decrescenza».

Il rispetto dell’altro è il rispetto del suo ambiente di provenienza - fatto dalla famiglia, dalla cul-tura dal lavoro, in una parola, dall’insieme dei contesti che determinano le sue individualità - cioèdal suo orizzonte di significati, del significato che egli dà alla sua situazione attraverso anche lamanifestazione e la soddisfazione dei suoi bisogni. Senza un’apertura all’altro, un dialogo che,

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come sappiamo è in primo luogo uno spazio di ascolto, come acquisire quella saggezza pratica ingrado di rispondere ai bisogni di assistenza del paziente? «Non si dà conoscenza senza connivenza- scrive Umberto Galimberti - non si dà comprensione senza compromissione affettiva91». O comepiù semplicemente, ma non meno incisivamente, dice ad un certo punto la volpe al Piccolo princi -pe di Antoine de Saint Exupéry: «Non si conoscono che le cose che si addomesticano […]. Non sivede bene che con il cuore: l’essenziale è invisibile agli occhi».

4.3.3 Il principio della personalizzazione dell’assistenza infermieristica (il concetto di Salute)In una corsia ospedaliera non incontriamo l’homo universalis, quanto piuttosto l’homo particula -ris. Di fatto, è l’alterità del paziente che costringe l’infermiere - qualunque opzione teorica assumaper erogare la sua assistenza - ad i n t e r p re t a re il problema assistenziale dell’altro. Così come èsempre l’assoluta particolarità di espressione della dimensione soggettiva dei bisogni del pazienteche costringe l’infermiere ad un’opera di continua riformulazione delle sue parziali pre-comprensioniper arrivare a ipotizzare soluzioni assistenziali che possano essere considerate comuni obiettivirealistici e positivi da raggiungere per entrambi. Tali obiettivi, infatti, verranno accettati e condivi-si dal paziente nella misura in cui saranno per lui significativi rispetto all’esperienza che egli stes -so sta attraversando.

La personalizzazione dell’assistenza infermieristica è semplicemente questo: il tentativo di ade -guare (o ancora appropriare, cioè “rendere proprie”) le nostre competenze alla competenza perso-nale del paziente - competenza che, come ormai ben sappiamo, è caratterizzata dall’adeguatezza edall’autonomia residua con la quale egli percepisce la propria diade bisogno-risposta. Questo prin-cipio implica per l’infermiere l’obbligo alla considerazione kantiana dell’homo part i c u l a r i s i nquanto fine del proprio e dell’altrui agire e mai come mezzo.

Così facendo, per un verso l’infermieristica radica profondamente la propria ragione d’essere edil proprio evolversi nel significato dell’esperienza umana, attraverso il rispetto delle caratterizza-zioni della persona, fra cui, fondamentale, è la sua unicità. Per altro verso, ci porta ad affermareche parlare di assistenza infermieristica p e r s o n a l i z z a t a nel linguaggio dell’infermieristica è unpleonasmo, ovvero uno sciupio di parole. Infatti, per molte teorie della “Scuola dei Bisogni” l’as -sistenza infermieristica è per definizione un’attività personalizzata proprio in quanto risposta aibisogni di assistenza infermieristica della persona umana, ognuno dei quali caratterizzato da tredimensioni: bio-fisiologica, psicologica e socio-culturale. In altre parole, non esiste un’assistenzainfermieristica che possiamo dire personalizzata ed una assistenza infermieristica non personaliz-zata: o è assistenza infermieristica - e quindi è già una risposta alla totalità della persona - o non èassistenza infermieristica92.

L’infermiere, in altre parole, «non assiste una persona semplicemente in nome di un umanitari-smo, nobile, ma sterilmente universalistico, sempre col rischio di proiettare la sua concezioneumanitaria astratta sull’uomo-paziente, cancellandone l’individualità affinché i suoi tratti coinci-dano con i lineamenti della “umanità teorica”. Viceversa, l’umanitarismo reale e totale si ottienenell’assistenza capovolgendo la prospettiva: lungi dal dover assistere la persona in nome di un’u-manità - che non esiste se non come ipostasi - l ’ i n f e r m i e re assiste l’umanità nella singolapersona, cioè nell’unico modo in cui può essere umanizzato ogni gesto dell’agire infermieristico:rivolgendosi e rispondendo alla persona, e dunque ad un “reale” portatore di umanità93».

Ma d’altro canto è ben evidente che la personalizzazione dell’assistenza infermieristica nonsignifica affatto l’annullamento dell’infermiere in quanto persona e in quanto professionista -abbiamo già considerato i rischi della xenofobia e della xenofilia. Solamente indica il monito peril quale, prendendo a prestito il linguaggio di Ivan Cavicchi, la “salienza” dei nostri “rimedi”(cioè il valore che una società attribuisce al bene rimedio sotto il profilo sociale, politico,scientifico ed etico) si accompagni alla loro “senzienza” (cioè all’accordo, ossia scelta, co-decisione,

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d i alogo fra i linguaggi sul senso e sul significato di un rimedio tra sanitario e paziente). Un modocerto per iniziare ad attuare questi principi è, secondo Cavicchi, passare dalla considerazione diuna medicina rigidamente “prescrittiva”, dove “tutto ciò che non è permesso è vietato”, ad una“ p roscrittiva”, dove “tutto ciò che non è vietato deve essere consentito”, riconoscendo così alpaziente spazi di significato e di autonomia. Credo che risulti evidente la sintonia tra questa“medicina della scelta” e le molte posizioni infermieristiche.

In un passaggio particolarmente significativo, Cavicchi afferma che «la medicina della sceltaè soprattutto pragmatica della coterapeuticità, della situazionalità, della contestualità. Essaimplica che qualcuno si assuma la responsabilità di scegliere. Per essa non si tratta di giustifica-re un rimedio, ma di argomentazioni e di accordi terapeutici. La base sulla quale essa opera è lac o m p e t e n z a, cioè ciò che consente un dialogo e definisce procedure di consensualità. Un valoreche essa predilige non è la c e rt e z z a, ma l’a d e g u a t e z z a, la r i s p o n d e n z a. Il suo apparato concet -tuale è un apparato di apparati, cioè di strategie metodologiche, che definiscono i rapporti traveridicità e multivalenza, con l’obiettivo di sostituire il verdetto con accordi pragmatici su evi -denze re a l i s t i c h e9 4» .

Nei confronti del paziente i benefici della personalizzazione appaiono del tutto evidenti. Non sitratta mai solo di risolvere un bisogno di ordine fisico (mobilizzare un paziente allettato ogni dueore come da protocollo), ma si tratta di farlo considerando il significato che ciò che facciamo puòavere per quel paziente in quel momento; ecco allora la costante attenzione a come lo tocchiamo,a cosa diciamo o non diciamo mentre operiamo, alla disponibilità ad operare minimi accorgimentiper favorire l’adeguatezza della nostra pratica al suo bisogno.

La personalizzazione dell’assistenza e la salute del pazienteNoi sosteniamo che la personalizzazione dell’assistenza infermieristica sia il contributo principaleche la nostra disciplina possa offrire alla salute dell’uomo. Ma forse è bene soffermarsi un po’suquesto termine, in quanto, come dice bene Ilona Kickbush, ormai «ci sono altrettanti concetti disalute quanti di felicità, di bellezza o di benessere95».

La salute è in effetti il bene primario per moltissime persone, come forse mai prima d’ora erasuccesso nella storia occidentale. Eppure la sua definizione continuamente sfugge e si riverberanei diversi filoni del pensiero o delle branche professionali. Dal canto nostro, abbiamo visto chepossiamo adottare una definizione “tecnica” di salute come quella proposta dall’OMS nella “Cartadi Ottawa”, del 1986. Ma nella prospettiva dell’etica infermieristica, non possiamo esimerci daltornare sull’argomento per approfondire alcuni aspetti peculiari della salute vista non già dall’in-fermiere, ma dal versante della persona-cliente.

Tutte le differenti radici etimologiche del termine “salute” nelle lingue europee rimandano ad unsignificato che supera la semplice sussistenza organica dell’uomo per richiamare la sua integrità ela sua partecipazione simbolica alla vita in sé. Nella radice greca, le parole hygeia e euexia riman-dano alle idee di “vivere bene” e di “buona disposizione del corpo”, tanto come buon funziona-mento come di corretto comportamento nell’ambiente. Il latino s a l u s, invece, deriva da s a l v u s,cioè “salvezza”, con una forte sottolineatura sull’integrità dell’individuo - senza escludere l’in-fluenza dell’idea cristiana di salvezza. Nell’inglese health (salute) ritroviamo la stessa radice haldi whole (intero) che conduce alla nozione di wholeness (integrità in senso ampio, unità di un tuttoordinato), come elemento fondamentale della salute96.

«La salute - scrive Gadamer - richiede armonia, sia con l’ambito sociale, sia con l’ambito natu-rale. Solo questo permette di inserirsi pienamente nel ciclo naturale della vita, che, per esempio,si riflette nel ritmo dei respiri o nell’economia generale del sonno e della veglia9 7»; ed è per talenascondimento che non è possibile oggettivarla dall’esterno, ma piuttosto richiede una misura-zione interna dell’adeguatezza, dell’autonomia e del significato che ciascuno di noi dà a quella

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«incessante e mobile successione di sforzo e di sollievo propria delle normali condizionid e l l ’ u omo» che per noi infermieri non è altro che la diade auto-assistenziale del bisogno-risposta.«La salute - scrive ancora Gadamer - non è precisamente un sentirsi, ma è un esserci, un esserenel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente daicompiti particolari della vita», da quelli più nobili ed eccezionali a quelli più quotidiani quali lacura di sé. «Il modo più chiaro per raffigurare la salute consiste nel concepirla come uno stato diequilibrio. L’equilibrio è come un’assenza di gravità, in quanto i pesi si annullano reciprocamente.Il disturbo dell’equilibrio può essere eliminato solo per mezzo di un contrappeso. Tuttavia ognitentativo di compensare il disturbo attraverso un contrappeso, comporta il pericolo di una nuovaperdita di equilibrio in senso opposto. [...] In questo modo ci avviciniamo sempre di più a quelloche è in realtà la salute: il ritmo della vita, un processo incessante in cui l’equilibrio si ristabilizzasempre. Tutti lo conosciamo. È respirazione, metabolismo, sonno. Si tratta di tre fenomeni ritmici,il cui decorso procura vitalità, ristoro e accumulo di energia98».

Come studiare questo ciclo del vivere? Come facilitarlo? Abbiamo visto che molti filosofi con-temporanei interrogano criticamente la medicina per i suoi metodi riduttivi99. Gadamer, dal cantosuo, richiama gli sforzi conoscitivi delle scienze mediche e ne elogia i risultati, ma invita anche aconsiderare il versante ineluttabile della malattia e della morte. Egli, lo abbiamo visto nel primocapitolo, parlando della perdita di questo equilibrio che è la salute nel processo di invecchiamentoe nell’approssimarsi della morte ricorda spesso una massima del medico greco Alcmeone cheafferma: “per questo muoiono gli uomini, che non possono unire il principio con la fine”. In que-ste situazioni, non c’è solo qualcosa che non va, non va niente: “un respiro alla volta” l’uomo siavvicina alla sua fine. «Al contrario - continua Gadamer - la natura, viva e pulsante, capace dicontrastare ferite ed infermità, ha appreso come ricominciare di nuovo a partire dal punto estremodella malattia. Ora Alcmeone sostiene che la morte stessa consiste semplicemente nel dissolversientro il ciclo della natura. Il grande medico evidentemente pensa al meraviglioso modello dellanatura che si rinnova da sé, quando definisce il destino mortale dell’individuo proprio come l’in-capacità di completare il processo circolare del ritorno. Che saggezza in questo dissolvimento, chenon è chiamato morire!».

L’evidente necessità di coniugare la misura interna delle cose umane con la loro misurazione ester-na, è tanto chiara quanto di difficile applicazione. L’assistenza infermieristica come ricerca di unasoluzione autonoma ed adeguata a sé dei bisogni fondamentali del paziente può essere allora, inmolti casi, un valido aiuto per questa ricerca che ognuno deve fare verso la propria salute, non senzariconoscere nella specifica situazione ed in noi stessi «la situazione emotiva originaria dell’angoscia(e quindi la morte), accettandola come l’onore ontologico dell’uomo […]. La vita che si apre al pen-siero e alla ricerca pensa ed interroga senza alcun limite. C o n o s c e re l’angoscia e non poter compre n -d e re la mort e: è questo l’urlo della nascita, che non si smorza mai del tutto nella vita umana1 0 0» .

Le problematiche etiche della personalizzazione dell’assistenza Se da un lato la “salienza” del concetto di personalizzazione ci consente di affermare l’impor-tanza dell’infermieristica nei confronti della salute del nostro paziente, dall’altro essa sollevaindubbiamente alcune questioni d’ordine etico che, in questa sede, potremo solo delineare informa problematica.

L’individualità della manifestazione del bisogno e la libertà nell’espressione delle scelte e deivalori insite nel concetto di personalizzazione consentono all’infermiere di adottare alcuni valorietico-professionali strettamente collegati a questo principio. Fra essi si propongono ad esempio iseguenti: il rispetto dell’alterità dell’altro; il rispetto per le sue scelte e preferenze; il rispetto per ivalori della persona e della persona come valore, cioè il rispetto della sua dignità101. Ma, nel con-tempo, appaiono evidenti le questioni etiche che, come tutte le problematiche di questo tipo, si

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manifestano attraverso un conflitto di valori: da lato la persona dell’infermiere, i suoi bisogni, isuoi valori, le sue conoscenze e competenze e dall’altro la persona del paziente con i suoi bisogni,i suoi valori, le sue competenze.

Due situazioni estreme vengono così a delinearsi. Per un verso potrebbe insorgere una tendenzaverso l’annullamento o la sospensione di ogni giudizio etico dell’infermiere sulla situazione assi-stenziale, e quindi il prevalere della situazionalità sui suoi principi proprio in virtù del relativismo,per cui ogni posizione e valore deve essere riconosciuto e tutelato: l’identità dell’infermiere par-rebbe così essere sottomessa all’identità e al volere del paziente. Per l’altro verso, all’opposto,potrebbe invece prendere vigore la negazione assoluta dell’alterità del paziente a vantaggio dellasovrapposizione dei valori dell’infermiere su quelli del proprio assistito: è questo il rischio realeche ai bisogni del paziente si antepongano i nostri; ai suoi interessi quelli dell’istituzione ospeda-liera o formativa, ai suoi valori quelli dell’operatore. Ricordate l’espressione di Bachtin presentataa suo tempo? il problema delle scienze umane “è il superamento dell’alterità dell’altrui senza tra-sformarlo in qualcosa di puramente proprio”, e dunque non riconoscere la prepotenza dell’alteritàdell’altrui sulla propria, ma nemmeno identificarla o assoggettarla alla nostra.

Da parte dell’infermiere, si tratta di operare una sorta di continua auto-consapevolezza di ciòche avviene nella situazione assistenziale, dei pregiudizi che vi operano e dei valori che essi pos-sono manifestare. Senza questa “sensibilità etica”, infatti, si possono rischiare entrambe le situa-zioni. Per fare alcuni esempi del tutto classici, durante un giro visita un primario dichiaratamenteateo stracciò le immagini sante che un paziente aveva posto sul comodino e le gettò nel cestino. Inun altro, viceversa, una caposala impose ad un paziente la presenza del crocifisso nella stanza. Inun altro ancora, le infermiere di un reparto sub-intensivo, con la motivazione del poco spaziodisponibile, impedirono ad una anziana donna “meridionale” di porre accanto al letto il crocefisso,le immagini dei famigliari ed i caratteristici “santini”.

Sul fronte completamente opposto, oltre ai noti casi inerenti le richieste di eutanasia o di abor-to - che implicano la prima il divieto deontologico, la seconda una possibile obiezione dicoscienza del sanitario - possiamo citare nuovamente il caso di Doris, una giovane mamma gha-nese che schiacciava la testina del suo bambino nato da parto cesareo per farla assomigliare aquella degli altri bambini presenti al nido - in quanto questi, nati da parto eutocico, presentavanoil classico “tumore da parto”- e che, pochi giorni dopo il parto, svuotò una bottiglia di GlenGrant per festeggiare l’evento. O ancora, le reazioni di coinvolgimento emotivo o affettivo chefiniscono per legare certi infermiere - o più spesso incauti studenti - con pazienti vuoi tossicodi-pendenti, vuoi psicolabili che li convincono a chiudere un occhio sulle loro necessità (il tossico-dipendente che si fa portare la roba in camera dagli amici, lo psicolabile che allunga le mani oche sottrae oggetti personali, ecc.).

I possibili conflitti valoriali tra reciproche alterità e pregiudizi incrociati è estremamente vasto.Un livello di complessità ulteriore si aggiunge in quei casi in cui nella situazione si viene a creareuna tensione emotiva tra i partecipanti. Esempi tipici di queste situazioni sono quelle richieste tal-mente intransigenti da poter essere definite “integraliste”, oppure quelle che originano da processidi xenofobia o razzismo vero e proprio. A questo proposito valga il caso di un’intera Unità opera-tiva che visse un pomeriggio ed una notte da sommossa a seguito della decisione da parte delleinfermiere di guardia di assegnare un certo posto letto ad un giovane di colore accanto ad unpaziente italiano che non lo voleva vicino. Quest’ultimo inizialmente le aveva minacciate e poiaveva sobillato altri malati che per tutto il pomeriggio e gran parte della notte insultarono alterna-tivamente le infermiere ed il paziente straniero fuori dalla sua porta102.

La tolleranza sul piano pratico, insomma - come già il relativismo sul piano epistemologico -non aiuta l’infermiere nella sua assistenza. Essa, infatti, può dirsi la virtù per la quale si attua laconvivenza dei diversi, siano essi singoli esseri umani, interi gruppi o popoli, ma per quanto

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c o nsta l’alterità insita nella relazione infermieristica, non può essere considerata in sé come unprincipio sul quale poter fondare un giudizio di valore tra modalità diverse di assistenza. In altritermini, è di fronte al conflitto tra valori diversi che la tolleranza manifesta il suo limite -n o t o r i amente il rischio di tolleranza dell’intollerante o del violento, la qual cosa, per contrappo-sto, determina la valenza positiva dell’intolleranza, come ricerca e difesa della verità. Se vogliam oc e rc a re di “assistere la differenza nell’uguaglianza”, dobbiamo concludere che la tolleranza ècondizione necessaria ma non sufficiente. Essa è la prima predisposizione verso il diverso, unprimo atteggiamento sostanzialmente positivo di un impianto relazionale molto più complesso,quello della c o m p rensione dell’altro , che abbiamo visto essere uno dei problemi ermeneuticipiù affascinanti del nostro tempo, e come tale coinvolge l’intera struttura dell’infermieristica, alivello pratico, poietico e teoretico.

La formula “assistere l’uguaglianza nella differenza” è una formula che esprime correttamente esinteticamente due importanti principi etici riportati nel nuovo Codice Deontologico delle infer-miere, approvato dalla Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi nel 1999. Al punto 2.3 leggiamoinfatti: «l’infermiere riconosce che tutte le persone hanno il diritto ad uguale considerazione e leassiste indipendentemente dall’età, dalla condizione sociale ed economica, dalle cause di malat-tia». E subito a seguire, al punto 2.4: «l’infermiere agisce tenendo conto dei valori religiosi, ideo-logici ed etici, nonché della cultura, etnia e sesso dell’individuo». Infine, al punto ancora successi-vo leggiamo il limite della tolleranza: “in caso di conflitti determinati da profonde diversità etiche,l’infermiere si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà profon-damente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvaledel diritto all’obiezione di coscienza103».

Abbiamo anche affermato che la prassi infermieristica è già in sé intrinsecamente morale, indi-viduata appunto dalla relazione, ossia dall’interazione tra due o più sfere di libertà e di autonomia,che esigono pari rispetto. Condividiamo quindi con altri autori l’insufficienza del contratto t r asanitario e paziente, cioè di quell’accordo su una minima piattaforma di dare-avere che può essereimpostato in certi casi (ad esempio l’accordo su un minimo di rispetto degli orari e del numero dipersone per le visite parenti nel caso di pazienti rom). Il contratto, infatti, nota il bioeticista PaoloCattorini, è adatto a «fissare i termini concreti di una transazione e funziona tanto meglio quantopiù definiti e particolari sono i beni e i servizi da scambiare». Per Cattorini nella medicina si ha ache fare con un piano più coinvolgente che quello del semplice contratto; innanzitutto per la con-divisione della lotta comune per un bene considerato da entrambi buono e positivo e secondaria-mente per essere esposti entrambi ed in prima persona alla relazione diretta gli uni con gli altri.Infine, l’alleanza è sempre anche «l’impegno di preparare un contratto, che il partner più debolepossa siglare nel modo più consapevole e senza paura di venire raggirato104».

L’alleanza terapeutica è una figura emblematica del più generale rapporto di cura. «L’ e t i c adell’alleanza o etica della cura - scrive Cattorini - vede gli uomini legati originariamente da unsenso di d e b i t o e da un’attesa di r i c o n o s c i m e n t o, che sono il nucleo della coscienza morale. Inaltri termini, noi diamo, noi offriamo [come sanitari] non in quanto siamo aristocraticamentebenevoli, non in quanto ricerchiamo il nostro interesse materiale nel dare, ma in quanto siamocostitutivamente esposti all’altro, attratti, calamitati verso di lui: saremmo meno uomini, senon percepissimo un sentimento di compassione verso chi sta male. In tal senso, prima cheessere immorale, è anzitutto impossibile pensare la propria identità a prescindere dall’altro:l ’ a l t ro, il riconoscimento che l’altro ci dà, costituisce la nostra identità. […] Accade al medicociò che più generalmente accade ad ognuno di noi. La cura che dedico ad altri io l’ho provatasu me stesso. Io ho sentito rivolte nei miei confronti, attraverso le pre m u re che altri mi hannomanifestato, parole più grandi di quelle che le mie orecchie ascoltavano. Ho sentito cioè chela vita mi rivolgeva una promessa, ed una promessa buona, che chiedeva il mio consenso».

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Cattorini conclude la sua riflessione ponendosi la domanda: “vale la pena di vivere?”. Larisposta, forse, sta nell’espressione dell’alleanza curativa che questo autore formula come unvero e proprio impegno morale del sanitario: «Io starò dalla tua parte, dalla parte del tuodesiderio di salute e di felicità e starò come tuo alleato in qualunque condizione tu sia. Nond e m o rd e re da questo desiderio. Ciò che potremo, lo vinceremo assieme. Quando dovre m os o c c o m b e re, lo faremo senza cedere da vili: niente potrà togliere la dignità della nostra lottadi liberazione1 0 5».

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Conclusioni

UN I N V I TO A L L’A Z I O N E

Le “conclusioni”, quelle vere, si trovano nei testi che presumono di aver raggiunto qualcherisultato definitivo (nel nostro piccolo, per dirla con Lessing, preferiamo disporci alla continuaricerca della verità piuttosto che disporne). In quest’ottica, la stessa formulazione riassuntiva delletesi fondamentali presentata nella Postfazione non è altro che un sintetico strumento in più offertoal lettore per una migliore chiarezza e quindi per una più feconda discussione futura.

Vorremmo allora, mentre “concludiamo” il nostro percorso, i n v i t a re il lettore all’azione s u idiversi fronti che abbiamo toccato. Iniziare a comprendere che cos’è l’assistenza infermieristica,infatti, significa non potersi esimere dall’aprire il dibattito su tutti gli ambiti dell’infermieristica esu tutti gli aspetti della sua espressione sociale che è la vita della professione:- innanzitutto in sede teorica, per quanto concerne la ricerca di base ed il confronto sullo statuto

epistemologico ed etico dell’assistenza infermieristica;- in sede universitaria per la formazione delle future generazioni di infermieri, di ogni ordine e

grado e per la “crescita della conoscenza” dell’infermieristica;- in sede c l i n i c a dove il singolo infermiere resta l’unico responsabile dell’assistenza al proprio

paziente, e quindi deve essere in grado di poter ricercare, sperimentare e utilizzare la miglioreteoria che reputi corretta per la situazione data;

- in sede gestionale, con l’invito alla creazione di spazi, di strumenti, di strutture organizzativeche sempre meglio utilizzino, valorizzandola, la risorsa infermieristica - convinti finalmente dioperare con ciò non solo per la salute del paziente, ma anche per il migliore profittodell’Azienda sanitaria;

- e infine, in sede di politica professionale, perché la migliore relazione con la società intera, conil legislatore o con le altre professioni, non può prescindere da una sempre migliore chiarezzadel nostro servizio - che è come dire della nostra identità professionale - per il bene del paziente.

In tutti questi ambiti d’impegno ci sembra di poter rinvenire quegli aspetti della nostra ricerca cheormai potremmo dare per acquisiti, insieme ed altri che invece meriteranno senza dubbio ulterioririflessioni. Il punto di partenza resta tuttavia la convinzione che il patrimonio culturale e clinicosviluppato dagli infermieri in questi ultimi decenni, così come la specificità e l’originalità del loroservizio per la salute del paziente siano aspetti senz’altro da approfondire, ma certo da non doverpiù essere messi in discussione. In una sola affermazione il punto di partenza irrinunciabile è allo-ra il riconoscimento dell’infermieristica come disciplina scientifica e secondariamente il ricono -scimento dei suoi principali campi di approfondimento. Quali sono questi campi? In sede di unaprima esplicitazione - che tuttavia potrebbe aiutare nella necessaria ridefinizione dei settori scien-tifico disciplinari interessanti l’infermieristica - potremmo definirli come segue:- infermieristica teorica: la costruzione critica di teorie e modelli concettuali sempre più esplicati-

vi della complessità del fenomeno assistenziale; - metodologia dell’infermieristica: l’esplicitazione dei passaggi, delle regole e degli strumenti di

cui si dota l’infermiere per soddisfare i bisogni del paziente - i metodi per fare assistenza - maanche quelli per accrescere le proprie conoscenze sull’assistenza - i metodi per conoscere e percomprendere l’altro;

- infermieristica clinica: la continua sperimentazione sulla efficacia dei quadri diagnostici e pre -scrittivi, il loro confronto ed la loro contestualizzazione alla realtà data, ecc.;

- infermieristica clinica specialistica: le caratteristiche proprie dell’assistenza infermieristica in

s e ttori peculiari quali la pediatria, la geriatria, la psichiatria, l’area critica e la salute pubblica, ecc.; - infermieristica interculturale: non solo, come direbbe la Leininger, lo studio dell’universalità e

dell’alterità dell’assistenza, ma anche lo studio e la pratica della relazione infermieristica intesacome percorso di incontro e di comprensione con un altro da sé;

- etica infermieristica: i principi ed i valori che guidano la valutazione delle scelte infermieristi-che e orientano il codice deontologico della professione;

- infermieristica organizzativa e gestionale: con tutti i temi classici del management infermieristico:l’organizzazione dell’assistenza, i carichi di lavoro, la determinazione economica delle presta-zioni, la qualità dell’assistenza, ecc..

Un secondo punto che ci sembra sufficientemente chiaro è che per sviluppare tutti questi campinecessitiamo di teorie che vengano esposte alla critica di colleghi e pazienti. Per converso, infatti,abbiamo più volte avuto modo di constatare che anche l’infermiere che opera al di fuori di teoriee modelli, in realtà, opera all’interno di cornici che ne pre-giudicano il lavoro.Abbiamo chiamatoqueste cornici “tradizioni”, “modi di fare”, “abitudini di reparto” ed abbiamo detto che se restiamochiusi in questo tipo di teorie pre-scientifiche rendiamo conto e giustifichiamo qualsiasi agire del-l’infermiere: quello che ignorando cosa sia l’assistenza non si relaziona minimamente al paziente,quello che lo considera meramente come determinante strumentale del suo processo lavorativo,oppure ancora quello che siccome vede solo il “bisogno di igiene” non vede (perché non gli vienenemmeno in mente l’idea) che la richiesta di un bagno con uno strano infuso di polvere nera possaessere qualcosa di più e di diverso da una bizzarra pratica africana. Tutte queste sono “interpreta-zioni” dove però le pre-comprensioni non sono dichiarate e agiscono ad un livello di aleatorietà -secondo quanto dice la n o s t r a competenza culturale o il protocollo assistenziale che stiamoseguendo o, più spesso, secondo quanto abitudinariamente si fa, o conviene fare.

D’altro canto, proprio studiando il programma di ricerca della “Scuola dei bisogni”, abbiamopotuto osservare che non tutte le teorie infermieristiche che lo costituiscono ammettono il proble-ma dell’alterità del paziente, cioè l’intrinseca ambiguità del concetto di bisogno. Molte di queste,anzi - seguendo le scienze della natura e sviluppandosi in un ambiente ospedaliero fortementemedico-centrico - sono tendenzialmente tentate di non vedere altro che la bontà dell’approcciodeduttivo, i suoi risultati oggettivi, la sua lineare prevedibilità, i suoi benefici sul fronte organizza-tivo e gestionale, rischiando di perdere di vista l’unità e l’unicità dell’uomo che hanno di fronte.Ma un conto è la classificazione degli aspetti diagnostico-prescrittivi - necessaria e doverosa, checi spiega quali sono i bisogni infermieristici e quali no, che delimita l’ambito clinico della profes-sione che viene man mano accresciuto dai risultati dell’evidenza scientifica - un conto è il rischioche essa venga semplicemente “applicata” al singolo caso con una pedissequa, acritica e irrigiditariproduzione di un comportamento standardizzato senza alcuna considerazione dell’effettiva indi-vidualità della persona-paziente che abbiamo di fronte.

Ben venga quindi un forte impulso alla generalizzazione ed alla standardizzazione dei processidiagnostici e dei set prescrittivi - ne abbiamo assolutamente bisogno per capire eff e t t i v a m e n t ecosa davvero può aiutare un paziente e per gestire organizzativamente il nostro lavoro - ma nonsenza una previa riflessione ed un esplicito richiamo a che cosa sia il problema asistenziale chevogliamo risolvere. Per parafrasare un recente editoriale del British Medical Journal, il nursingdelle evidenze non può costruirsi se non a partire dalle evidenze basate sul nursing. Ma qui sta ilpunto: che cos’è il nursing? Che cos’è l’assistenza infermieristica?

Se p r i m a non rispondiamo in sede teorica a questa domanda, p o i, quando saremo accanto alpaziente rischiamo di non vedere al di là della nostra diagnosi. Secondo quest’impostazione men-tale, una volta affermata l’esistenza di un certo “problema” (in quanto micro o macro categoria,questo dipende dall’approfondimento e dalla sperimentazione) ci aspettiamo che esso d e b b ae s s e re semplicemente ritrovato in tutti i pazienti che incontriamo, proprio tale e quale a come noi

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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c r edevamo di averlo così ben descritto nei sacri testi. Un tale approccio funziona nelle scienzedella natura, per le quali - ricordiamoci Bachtin - l’ideale conoscitivo è l’e s a t t e z z a tra la cosaconosciuta e quella diagnosticata. Ma non può funzionare nelle discipline umanistiche nelle qualiil problema dell’alterità dell’oggetto - ossia il limite della conoscibilità della persona umana - ponecome ideale conoscitivo non già la presunta esattezza della cosa con la diagnosi, quanto piuttostola profondità della sua comprensione nella situazione data. E allora, come non richiamare dinuovo Bachtin e Gadamer per i quali il sapere delle scienze umane ha qualcosa di più che semplicisimilitudini con l’esperienza artistica?

In un bel testo che racchiude i saggi della terza conferenza dell’Institute for the philosophicalnursing research dell’Università di Alberta (Canada) dal titolo Truth in nursing Inquiry troviamoun’analisi di Joy J. Johnson sulla relazione tra teorie (e quindi “verità”) prescrittive e arte del nur-sing. Pur ammettendo che «ciò che significa il temine “arte del nursing” resta ancora sfortunata-mente oscuro», la Johnson individua tre possibili posizioni tra questo termine e la verità prescritti-va nell’infermieristica, innanzitutto coloro che affermano non esserci “alcuna relazione tra veritàscientifica e arte del nursing”; la seconda posizione afferma invece che “le verità prescrittive sononecessarie e sufficienti per l’arte del nursing”, e la terza, infine, che concepisce le verità prescritti-ve come necessarie ma non sufficienti per l’arte del nursing”.

Come per la Johnson, anche per noi è senz’altro quest’ultima la corretta impostazione del proble-ma. Diremo di più: non solo le nostre strutture conoscitive h a rd non bastano, ma non possono nem-meno essere separate dall’atto pratico dell’assistenza. Nell’ottica costruttivista che abbiamo adotta -to, noi affermiamo che le “verità” diagnostiche e prescrittive dell’infermiere vengono ogni volta ri-c o s t ruite nella situazione e grazie alla relazione con l’altro. Nella competenza infermieristica vi èc e rtamente una conoscenza scientifica espressa in termini falsificabili ed intersoggettivi, mac o s t ruita all’interno di una comprensione ermeneutica dell’altro, di un “sentire” ciò che per l’altroè più o meno importante in quel momento della sua vita. Per questo l’assistenza è ancora di più chesemplice arte e può dirsi e rivelarsi espressione di “saggezza pratica” (p h r ó n e s i s) .

Un ulteriore sostegno a queste tesi può essere rintracciato nell’ultimo libro di Byron J. Good,(N a rr a re la malattia) recentemente tradotto in italiano. Nel settimo ed ultimo capitolo di questotesto, “Estetica, razionalità e antropologia medica”, l’autore suggerisce che le teorie estetiche (inda-ganti la relazione tra dipinto, scultura o scritto e l’oggetto estetico, con tutta l’estrema complessitàdei suoi significati) possono aiutare a mettere in discussione la propensione naturalista e riduzioni-sta della medicina occidentale contemporanea. Se, ad esempio, pensiamo alla sostanziale diff e r e n z atra una buona esecuzione scolastica di uno spartito e la sua interpretazione da parte di un maestro,vediamo che l’opera d’arte non è mai riducibile al solo materiale usato per crearla, per quantoimportante e prezioso esso sia. Così, per analogia, la malattia e a maggior ragione i bisogni di assi -stenza non sono mai semplicemente uno stato fisiologico o biologico di un singolo corpo umano,così come non sono neppure mai unicamente il riflesso esperienziale di questa situazione biologicanel vissuto del malato, o una sua rappresentazione personale o sociale. «La malattia - scrive Good- è una forma particolarmente complessa e dinamica di relazioni tra questi elementi, è un oggettosintetico par excellance». Allora, qualsiasi studio comparato tra “modelli curativi” o “modelli assi-stenziali” si trova giocoforza dinanzi a p roblemi di metodo e di teoria che rendano possibile la sin -tesi della molteplicità di significati personali, biomedici, sociali, politici che sono racchiusi in ognisituazione assistenziale ed in ogni malattia e che si rivelano solo nella narrazione e nel dialogo.

Ma, potrebbe chiedersi qualcuno, per quale motivo continuare ad utilizzare un concetto così dif-ficile e sfuggevole come quello di bisogno, per interpretare il problema assistenziale? Alla finedella nostra analisi ci sembra di poter dire che il concetto di bisogno di assistenza infermieristica,pur di complesso utilizzo all’interno di una teoria scientifica proprio a causa della sua ambiguitàintrinseca - per il rischio relativista che abbiamo più volte delineato, ma anche a più riprese

Conclusioni

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r i d imensionato - ci consente tuttavia un essenziale vantaggio: quello di legare tutta la costruzioneteorica ed ogni prescrizione pratica ad un concetto che “riflette la totalità della persona umana”nelle sue dimensioni costitutive: bio-fisiologica, psicologica, e socio-culturale, impedendoci l’al-tro grande rischio del riduzionismo. Il convincimento dell’irriducibile alterità del bisogno assisten-z i ale, infatti, ci obbliga da un lato ad una continua opera di chiarificazione tra la scientificità deinostri asserti - cioè ciò che possiamo conoscere di generalizzabile, di misurabile e di falsificabilesul bisogno di assistenza infermieristica - ed il significato che essi esprimono nella situazione data- cioè ciò che possiamo effettivamente comprendere dell’altro, nella irripetibile ed unica relazioneche intessiamo con lui.

La teoria del bisogno di assistenza infermieristica, allora, non è che un abbozzo delle condizioniminime per continuare ad utilizzare il concetto di “bisogno” all’interno di una teoria scientifica intutti gli ambiti del nostro impegno: nella ricerca e nella didattica, nella clinica e nel management onella politica professionale.

Se lo studio del Programma di ricerca della “Scuola dei bisogni” ci ha indotto a fare opera disintesi teorica sul concetto di “Bisogno di assistenza infermieristica”, proprio il suo approfondi-mento ha fatto emergere il nuovo problema di c o m e interpretare, diagnosticare e risolvere tale biso-gno. In quel percorso basculante tra teorizzazioni e metodologie - percorso che abbiamo definito“asinclitico” - siamo quindi indubbiamente di fronte ad una nuova priorità, ad un nuovo “slittamen-to di problema” di carattere m e t o d o l o g i c o. Occorrerà in altre parole studiare e sperimentare quellecategorie diagnostico-prescrittive - e le rispettive regole “per conoscere” e regole “per fare” - chepossano guidare gli infermieri nella soddisfazione dei bisogni assistenziali dei loro pazienti, accet-tando così, insieme all’insondabilità intrinseca di questo concetto, la ricerca delle migliori modalitàconoscitive e comprensive dell’altro, e la sperimentazione di sempre nuove tecniche e strumentirelazionali adeguati alla sua partecipazione al processo assistenziale.

Concludendo quindi in modo provvisorio queste nostre riflessioni, mentre invitiamo all’azioneed affermiamo l’importanza e l’inderogabilità del dotarci di teorie infermieristiche - nell’esercizioprofessionale, nella didattica e nella ricerca - proprio in considerazione della loro necessità e delloro potere esplicativo dovremmo altresì coltivare, in noi e nei nostri studenti, il sano dubbio chenell’assistenza - come in tutti i servizi che implicano in profondità il mistero umano - ci sia moltodi più di quello che può essere descritto da qualsiasi nostra teoria scientifica. Così, pensando allalimitatezza e provvisorietà di questo lavoro, ci consoliamo dicendoci che non è che un punto dipartenza per iniziare a parlarne; nella consapevolezza, tuttavia, di come “ogni cosa profonda rima-ne pur sempre inespressa”.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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Postfazione

INTRODUZIONE ALL’INFERMIERISTICA IN 20 PUNTI(O POCO MENO ...)

O rmai l’abbiamo toccato con mano: come tutte le realtà complesse che implicano la profonditàdell’essere umano, anche l’assistenza infermieristica ha mosso intelligenze, risorse, studi e interecarriere professionali dedicate alla ricerca della sua essenza. Tuttavia, la verità - dice un proverbiobobo - “è come un baobab: un uomo solo non riesce ad abbracciarla tutta”. È per questo motivoche proponiamo le brevi note che seguono; esse non sono altro che l’esposizione in forma s i n t e t i c aed assertiva delle tesi più importanti sostenute nel testo e dei principali passaggi argomentativi. Maè sempre per tale motivo che la riflessione sulla teoria dei bisogni che abbiamo abbozzato: 1. è pre-sentata unicamente nella sua struttura costitutiva concettuale o sostanziale. 2. è senza dubbio l’ab-bozzo di una teoria nuova, ma è possibile chiaramente leggere le influenze di tutti gli autori studiatiin precedenza. 3. Non è per nulla una teoria conclusiva dell’argomento e quindi chi scrive si arrogail diritto-dovere di poter cambiare opinione, prospettiva e conclusioni. 4. È aperta alla critica ed alcontributo di chiunque voglia collaborare a svilupparla senza vincoli di ortodossia o di leadership,se non quelli dovuti all’onestà scientifica ed intellettuale di ciascuno.

1) L’infermieristica è una scienza umanistica che permette all’infermiere di comprendere i biso -gni di assistenza del proprio cliente e di proporre una risposta personalizzata in grado di sod -d i s f a r l i. I bisogni di assistenza sono alcuni bisogni fondamentali, ognuno dei quali ha unadimensione bio-fisiologica, psicologica e socio-culturale riflettendo così l’unità dell’essereumano, che proprio per questo viene definito dall’infermiere - in un’ottica esistenzialista - unessere-nel-bisogno.

2) Il prodotto di questa scienza pratica è l’assistenza infermieristica che, tesa tra l’ermeneuticadei bisogni dell’altro e la prescrittività delle proprie evidenze scientifiche è unanimementericonosciuta in quanto “scienza e arte”, o meglio ancora phrónesis - categoria aristotelica cheindica la “saggezza pratica” - tra scienza, arte ed etica.

3) Ponendoci all’interno di quella tradizione di ricerca dell’infermieristica nota come “Scuoladei bisogni” - intesa in termini lakatosiani come quel programma di ricerca sviluppato indiverse serie di teorie che pongono direttamente o indirettamente il concetto di “bisogno” inuna posizione centrale del proprio costrutto teorico - vengono riletti in chiave critica i suoiautori principali (tra i quali Henderson, Orem, Abdellah e Roper).

4) Si sono osservate tre impostazioni di fondo della “Scuola dei bisogni” alle quali corrispondonoaltrettanti rischi, corsi soprattutto per una non coerente o completa teorizzazione proprio sulconcetto di bisogno di assistenza. Il primo rischio, storico, è quello delle “teorie org a n i z z a t i v e ”che tendono ad utilizzare il concetto di bisogno per fermarsi alla costruzione di una competen-za tecnica con la quale sistematizzare le variabili organizzative del lavoro infermieristico. Ilsecondo rischio è quello corso dalle “teorie naturalistiche” che sembrano limitarsi alla cono-scenza delle dimensioni oggettivabili dei bisogni, utilizzando metodi e strumenti delle discipli-ne della natura, ma esponendosi così alla critica di tendere al riduzionismo. Il terzo rischio,invece, è quello relativista ed è tipico delle “teorie ermeneutiche” che considerano sì il proble-ma dell’alterità del paziente, ma - in particolare a livello metodologico - rischiano di dissolvereil problema della a\normalità del bisogno nella giustificazione della sua alterità.

5) Rimanendo a livello teoretico, senza cioè voler presentare un modello concettuale

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i m m e d i a t amente operativo nella clinica, è stata quindi presentata una riformulazione delnucleo concettuale della teoria dei bisogni dell’infermieristica che mentre da un lato consentel’identificazione di macro-aree di studio distinte in tre livelli, dall’altro introduce nuove pro-blematiche di ordine etico e metodologico.

6) Il primo livello del nucleo descrive l’autoassistenza come quella “competenza personale” checonsente a ciascuno di noi tanto la percezione dei propri bisogni quanto la scelta ed attuazionedelle azioni atte a soddisfarli. Tale risposta - a volte di carattere quasi istintivo, molto piùspesso frutto di abitudini e adattamenti progressivi - avviene in autonomia in quanto le azioniscelte sono considerate da ciascuno come appropriate, o meglio come adeguate a sé.

7) Ma il primo livello del nucleo sarebbe incomprensibile se studiato separatamente dal secondoche descrive l ’ e t n o a s s i s t e n z a come espressione della “competenza culturale” del singolo edella collettività. Ogni società ha un suo proprio bagaglio di competenze culturali (intese sem-pre come conoscenze, tecniche e valori) rispetto a come debbano essere soddisfatti i bisognidei suoi membri, e rispetto al perché sia giusto e corretto soddisfarli in quel modo piuttostoche in un altro. Infatti, è proprio la cultura che fornisce al singolo le chiavi di lettura per inter-pretare le proprie necessità, individuare le possibili risorse tecniche a disposizione ed indicarei principi valoriali che danno significato alle cose che capitano (ed è proprio per questo insie-me di funzioni che la cultura distingue la diade bisogno-risposta dell’uomo rispetto a quelladell’animale).

8) Il terzo livello descrive infine l’assistenza infermieristica come espressione di una competen-za di tipo scientifico al servizio della soddisfazione di questi bisogni dell’uomo. L’infermiere,quindi, studia i due precedenti livelli alla luce di una branca del sapere umano, l’infermieristi-ca appunto, che permette di “diagnosticare” i bisogni assistenziali e “prescrivere” soluzioni.Tuttavia, tali categorie diagnostiche e set prescrittivi sono solo in parte falsificabili. La parti-colarità epistemologica dell’infermieristica sta tutta in questo “in parte” che la colloca in unaprivilegiata posizione di confine tra le scienze bio-mediche e quelle umanistiche.

9) Nella nostra prospettiva, tale collocazione non è affatto un limite o una impurità della teoria,ma anzi costituisce il suo principale pregio in quanto strettamente consequenziale al concettodi “bisogno”. I bisogni di assistenza, come aveva già intuito Virginia Henderson, esprimonotutta la persona umana in quanto riflettono tutte le sue dimensioni costitutive (bio-fisiologica,psicologica e socio-culturale). Di conseguenza, i “bisogni di assistenza” non possono veniresemplicisticamente etichettati in quanto “alterazioni” di una o più di queste dimensionirispetto ad una presunta norma, ma debbono essere incessantemente interpretati dall’infer -miere in un continuo rimando tra la situazionalità e la storicità del singolo caso - l’alteritàdel paziente - e le conoscenze dell’evidenza scientifica sino ad allora corroborate. Non sitratterà, allora, di conoscere unicamente il come ed il perché della manifestazione della diadebisogno-risposta in uno o l’altro livello del nucleo, ma piuttosto, e soprattutto, di comprenderel’insieme della situazione di bisogno di quella persona. Così pure, non basterà semplicementeprescrivere ed abilmente eseguire quelle prestazioni che l’evidenza scientifica ci ha insegnatoessere efficaci\efficienti per la soddisfazione del bisogno, ma si tratterà di partecipare e di farpartecipare il paziente, e il suo ambito familiare, al processo assistenziale.

10) La teoria dei bisogni viene di conseguenza a caratterizzarsi come teoria costruttivista: l’assi -stenza infermieristica si costruisce nell’hic et nunc della relazione tra paziente - la sua storiaed i suoi bisogni - e l’infermiere - la sua scienza, la sua esperienza e sensibilità umana - rin -novandosi caso per caso. Infatti, il bisogno di assistenza è un “fatto relazionale”, cioè a direche è “nella situazione” e “grazie alla relazione” che il paziente può esprimere i suoi bisogni,soprattutto nelle loro dimensioni soggettive. È per questi motivi che l’assistenza infermieristi-ca è p h r ó n e s i s: non solo scienza, non solo tecnica, non solo etica, ma saggezza pratica.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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(Altrimenti correremmo il rischio di separare la “filosofia” dalla “scienza” infermieristica,riproducendo sotto nuove spoglie l’antica e dannosa dicotomia tra teoria e prassi).

11) Quali sono i bisogni di assistenza infermieristica? Essi sono innanzitutto i bisogni legati allas o p r a v v i v e nz a della persona (non per nulla sono riconducibili al bisogno di s i c u re z z a , c h ee t imologicamente significa sine-cura, cioè “senza cura”, come a dire il “bisogno di non averebisogni”…): lavarsi e muoversi, mangiare e bere, dormire e riposare, evacuare e mingere,respirare ed esprimere la propria sessualità, ecc. I processi che soggiacciono alla diade bisogno-risposta non sono esclusivamente di ordine b i o - f i s i o l o g i c o, ma comprendono anche i processic o g n i t i v i e s i m b o l i c i delle dimensioni psicologica e socio-culturale, chiamate le “dimensionisoggettive” dei bisogni di assistenza. Queste, come già diceva Maslow, possono influenzarenotevolmente la configurazione complessiva (e la priorità oggettiva-soggettiva) dei bisogni dellapersona umana. Tuttavia - e spesso proprio attraverso i bisogni legati alla sopravvivenza - a l t r ibisogni tipicamente umani possono divenire bisogni di assistenza infermieristica: il bisogno dicomunicare, di apprendere, di esprimere la propria fede religiosa o la propria identità culturale,di accettare la propria condizione di malattia, di separazione o di finitezza, ecc.

12) Come identificare i bisogni di assistenza infermieristica? Come classificarli? Come risponder-vi? Come valutare il risultato della nostra prestazione? Come è noto, questi sono interrogativiche competono alla riflessione metodologica per quanto attiene alla clinica, e quindi alla ricer-ca di base e al management infermieristico (non senza considerare le ricadute nel campo dellapolitica sanitaria che un tale rafforzamento della professione infermieristica dovrà necessaria-mente generare).

13) Lakatos direbbe probabilmente che siamo di fronte ad uno “slittamento teorico-progressivo”in quanto il nostro problema attuale concerne il livello di comprensione e di partecipazione aldestino della persona assistita attraverso i suoi bisogni. Richiamandoci al pensiero diGadamer espresso in Verità e metodo, non si vuole opporre la verità al metodo, ma ricercareopportunamente quale metodo per quale verità. Il nostro attuale problema non sta più neldomandarci “che cos’è l’assistenza infermieristica”, quanto piuttosto “come fareassistenza?”.

14) L’evoluzione del programma di ricerca della “Scuola dei bisogni” ci ha insegnato l’importan-za e la ricchezza dello studio quantitativo delle dimensioni oggettive dei bisogni. Sebbene sisia manifestato a tratti riduzionista, quest’impostazione è, a nostro parere, indispensabile manon sufficiente per raggiungere il nostro scopo. Infatti, non si tratta solamente di conoscere,spiegare e risolvere dall’esterno quel complicato processo che è sotteso alla diade bisogno-risposta di ogni persona umana, bensì si tratta a n c h e di comprenderne la “misura interna”,ossia ciò che tale diade può significare per la persona che la manifesta in quel momento dellasua vita e in quella particolare situazione.

15) Se dunque questo è il nostro scopo clinico, occorrerà sviluppare nel processo assistenziale glistrumenti quantitativi tipici delle scienze naturali accanto e insieme a quelli qualitativi dellescienze sociali, ed affinare le capacità relazionali dell’infermiere in quanto metodi e strumen-ti dovranno fare i conti con il problema dell’alterità del paziente. Occorrerà cioè integrare alpiano della conoscenza quello della comprensione ed al piano della prescrizione quello dellap a rt e c i p a z i o n e . Questa fondamentale integrazione tra il piano scientifico hard della cono -scenza e quello soft della comprensione si attua nell’immediatezza della situazione ed attra -verso la relazione con l’altro - ed è già di per sé un importante asserto metodologico.

16) Attraverso questo approccio di tipo ermeneutico l’assistenza infermieristica potrà esprimeretutto il suo potenziale a beneficio della salute dell’uomo. Per l’infermiere, infatti, la salutenon è assenza della malattia e del dolore, né la semplice autonomia funzionale nella rispostaai propri bisogni, ma è la misura dell’armonia interna con la quale ciascuno affro n t a

Postfazione

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q u o t idianamente il proprio vivere attraverso un ciclico, incessante quanto insopprimibilebisogno di auto-assistenza. È per questo che sosteniamo che la situazione assistenziale non èsolo un processo di “decision-making” (letteralmente “produzione delle scelte”), ma anche unprocesso dialogico di “sense-making” (cioè un processo di “produzione di significato”).

17) Quanto al pericolo di relativismo che un approccio ermeneutico come quello da noi propostopuò comportare, esso è di molto ridimensionato attraverso l’impostazione costruttivista dellateoria. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che la situazione assistenziale seppur sempre “altra”non è affatto indeterminata o incontrollata. I bisogni hanno innanzitutto una dimensione bio-fisiologica che è universale ed oggettiva; essa è innanzitutto descritta da quello che già sap-piamo dai dati di evidenza su situazioni simili a quella che si sta aff r o n t a n d o .Secondariamente, la rilevazione dei bisogni e la decisione sulle prestazioni infermieristichenella situazione data, non sono agite dall’infermiere in totale discrezionalità, ma sono vincola -te dalle regole metodologiche del processo assistenziale che garantisce attendibilità e validitàintersoggettiva all’interno della comunicazione critica intraprofessionale. Un punto di fonda-mentale importanza e priorità a questo proposito è costituito da una necessaria classificazionedelle manifestazioni dei bisogni, in tutte le loro dimensioni, attraverso “quadri clinici” che nedescrivano le principali variabili e influenze reciproche. Tale tassonomia diagnostica è daritenersi indispensabile per la condivisione dei risultati tanto della clinica quanto della ricerca,ma non in quanto ipso facto applicabile a qualsiasi realtà clinica, quanto piuttosto, nell’otticacostruttivista, come principale ed esplicito pre-giudizio, autentica pre-comprensione dell’in-fermiere nell’incontro con ogni nuova situazione assistenziale.

18) Siamo così tornati allo slittamento di problema metodologico, che a sua volta conduce anchenuove problematiche etiche. Tre sembrano essere i principi etico-deontologici che si possonoenunciare attraverso questa impostazione: A) il principio olistico: ossia l’impossibilità dirispondere ad un bisogno senza considerare come intera la persona del paziente. B) il princi -pio dialogico: ossia il fatto che non può esservi vera assistenza al di fuori della relazioneinfermiere-paziente. C) il principio della personalizzazione: ossia la considerazione che l’as-sistenza infermieristica deve essere adeguata alla persona del cliente, orientata cioè allarisposta a tutte le dimensioni dei suoi bisogni.

19) La riflessione proposta si arresta quindi a livello teoretico con un approfondimento della teo -ria infermieristica secondo l’ottica dei bisogni di assistenza. Non viene dunque proposto unnuovo modello concettuale teorico-pratico immediatamente applicabile alla risoluzione dei p ro -blemi clinici. Discostandoci in questo dall’impostazione di altri autori - Fawcett, ad esempio - perla nostra analisi la teoria p re c e d e la costruzione del modello, che deve necessariamente includer-la. Essa ha un nucleo e ipotesi ausiliarie che descrivono universalmente il problema e ne eviden-ziano principi e regole generali. Richiamandoci a Popper, il modello ha invece, soprattutto nellescienze sociali, una funzione eminentemente pratico-applicativa; è orientato alla descrizione delcontesto e alla soluzione di singole categorie di problemi e deve quindi essere completo di meto-di e strumenti, di descrizioni tecniche e procedure organizzative direttamente applicabili. In con-clusione: non tutte le teorie sono anche modelli, ma non può valere l’inverso.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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A p p e n d i c e

NO T E E B I B L I O G R A F I A

CAPITOLO PRIMO

1. Già le prime infermiere universitarie statunitensi, nei primi decenni del secolo, affermavano la loro spe-cificità nei confronti della professione medica dichiarando: “Noi non curiamo la malattia dell’uomo, mal’uomo malato”.

2. Karl R. Popper, “Science: problems, aims, responsabilities”, 1963, trad. it. “Problemi, scopi e respon-sabilità della scienza”, in Karl R. Popper, Scienza e filosofia , Einaudi, Torino, 1969, p. 138.

3. Karl R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Vol. 1, Il realismo e lo scopo dellascienza, Il Saggiatore, Milano, 1984, p. 35.

4. Karl R. Popper, La natura dei problemi filosofici, in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna,1972, 118-119, corsivo aggiunto.

5. Per un’analisi storio-sociologica della professione infermieristica italiana da un punto di vista discipli-nare si rimanda al recente intervento di Emidio Lamboglia, “Lo sviluppo storico e sociale della cono-scenza infermieristica in Italia”, Nursing Oggi, n. 1, 1999.

6. Viviamo un passaggio nuovo nella coscienza collettiva: alcuni filosofi lo hanno definito “post-moderno”caratterizzandolo - ad esempio per Lyotard - col tramonto delle grandi meta-spiegazioni: quella illumi-nistica (poi positivista), quella romantica e quella marxista.

7. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994 (I ed. orig.1993), p. 111, corsivo aggiunto.

8. Per queste tematiche vedi le riflessioni di Marie Françoise Collière riportate nel secondo capitolo,paragrafo 2.1.1.

9. Ivan Illich, Nemesi medica, l’espropriazione della salute, RED, Como, 1991 (I ed. orig. 1976), p. 139.

10. Norbert Elias, La solitudine del more n t e , Il Mulino, Bologna, 1985 (I ed. orig. 1982), p. 102-104,c o rsivo nostro.

11. Edouard Boné, “Il malato e la sua qualità di vita”, Kos, n. 152, maggio 1998, pp. 52-55. 12. C.M.D. Meador, “The last well person”, The New England Journal of Medicine, n. 6, 10-2-1994.

13. Jean-François Malherbe, “La medicalizzazione della vita e la resistenza della parola”, in A a V v,N a s c e re, amare, morire. Etica della vita e famiglia, a cura di Sandro Spinsanti, Edizioni Paoline,Cinisello Balsamo, 1986, pp. 75-76. Vedi anche dello stesso autore, Per un’etica della medicina,Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1989 (I ed. orig. 1987).

14. Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli,Milano, 1995 (I ed. 1986), pp. 270ss. Cfr. a proposito Duilio F. Manara, “L’infermiere e il dolore del-l’altro. Alcune riflessioni alla luce della disciplina infermieristica e dell’antropologia”, Atti del Corsodi aggiornamento ANIN Una sfida per chi assiste: il dolore come fenomeno umano, 21 marzo 1997.

15. Carlo Sini, “L’esperimento mentale di Cartesio”, Kos, n. 114, marzo 1995, p. 31.16. Carlo Sini, “Il concetto di natura. Osservazioni critiche”, in Cattorini, Paolo, ed, Scienza ed Etica nella

centralità dell’Uomo, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 77-78, corsivo nostro. 17. Umberto Galimberti, “Introduzione” a Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina

Editore, Milano, 1986, p. XXVII. Di Galimberti vedi anche il recente Psiche e Techne. L’uomo nell’etàdella tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.

18. Jean-François Malherbe, “La medicalizzazione della vita e la resistenza della parola”, op. cit., pp. 78.81.

19. Florence Nightingale, Notes on Nursing. What it is and what it is not, 1859, trad. it. Cenni sull’assi -stenza degli ammalati, a cura dell’Associazione Regionale delle Infermiere/i e altri OperatoriSanitario-Sociali (CNAIOSS), Milano, 1980, p. 10.

20. Viceversa non si tratta di una professione, ma di un mestiere, in alcuni casi non meno nobile, ma nelquale - per definizione - la prassi guida la prassi.

21. Florence Nightingale, Florence Nightingale to her Nurses, 1915, trad. it. Lettere alle infermiere, a curadella CNAIOSS, 1980, Lettera al dr. Farr, 1866.

22. Cfr. Bernard I. Choen, “Florence Nightingale”, Le Scienze, n. 189, marzo 1984, pp. 104-112.

23. C f r. l’autorevole Giorgio Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, eds, Dizionario di storiadella salute, Einaudi, Torino, 1996, in particolare svv “Ospedale” e “Assistenza”.

24. Per un approfondimento storico di vasto respiro segnalo innanzitutto di Michelle Perrot “Uscire”, in G.D u b y, M. Perrot, Storia delle donne. L’ o t t o c e n t o, G. Fraisse, M. Perrot, eds, Laterza, Bari, 1991, pp. 446-482. I principali testi di storia dell’assistenza di autori italiani sono: Edoardo Manzoni, Storia e filosofiadell’assistenza infermieristica, Masson, Milano, 1996; Valerio Dimonte, Da Servente a infermiere. Unastoria dell’assistenza infermieristica in Italia, Cespi Editore, Torino, 1993; Marisa Siccardi, Viaggio nellanotte di san Giovanni. Alla ricerca delle origini dell’assistenza e delle cure infermieristiche, Rosini ed.,Firenze, 1992; Cecilia Sironi, Storia dell’Assistenza Infermieristica, La Nuova Italia Scientifica, Roma,1991, pp. 170; Carlo Calamandrei, L’assistenza infermieristica: storia, teoria, metodi, NIS, Roma, 1983.

25. Per questa tematica si veda Ernest Greenwood, “Contributi alla teoria generale della professionalità”,1957 riportato in Gian Paolo Prandstraller, Sociologia delle pro f e s s i o n i, Città nuova, Roma, 1980.William Tousijn, “Il processo di professionalizzazione degli infermieri. Un’analisi sociologica”, inAaVv, Guida all’esercizio professionale, a cura del cespi, Ed. Medico Scientifiche, Torino, 1990, p.713. Dello stesso autore vedi anche “La professionalizzazione di tutti?”, in William Tousijn, ed.,Sociologia delle professioni , Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 113-135; Le libere professioni in Italia, IlMulino, Bologna, 1987.

26. Rosetta Brignone, “L’assistenza infermieristica e l’organizzazione del Servizio infermieristico”, A t t idel VII Congresso nazionale CNAIOSS, Firenze, settembre 1972. Brignone tornerà sullo stesso argo-mento nel 1983. Cfr. Atti del II Convegno regionale promosso dai Collegi Provinciali I PASVI d iCagliari, Sassari, Nuoro, Oristano; Cala Gonone, Nuoro, 1983.

27. Nel prossimo capitolo avremo modo di analizzare come per rispondere al problema disciplinare sin-tetizzato dalla domanda Che cos’è l’assistenza infermieristica? sin da quegli anni si ebbe a livellointernazionale una vera esplosione di “teorie”, “modelli concettuali” o ancora “quadri” o “corniciteoriche” dell’infermieristica. Secondo alcune antologie sono già state create, criticate e sperimenta-te più di una quarantina di queste “cornici teoriche”. Tutte, partendo da prospettive più o meno simi-li, si pongono l’obiettivo di descrivere, spiegare e predire le variabili di questo problema scientifi-co/necessità sociale chiamato “assistenza infermieristica”.

28. Gian Paolo Prandstraller, Un approccio al Nursing e alla professione infermieristica, Franco Angeli,Milano, 1995, pp. 83-84.

29. Gian Paolo Prandstraller, op. cit., p. 99.

30. Paolo Carinci, “La sfida universitaria: per una definizione dei modelli organizzativi e formativi”, Attidel X Congresso Nazionale della Fed. Naz. dei Collegi IPASVI, Un infermiere per il terzo m i l l e n i o ,P rofessionalità, competenze, integrazione, Fiuggi, 14-16 ottobre, 1993, pp. 81-82, corsivo nostro.

31. Vedi Emma Carli, “La Cimo ricorre contro i profili”, Foglio Notizie, n. 1, 8/III/1995, p. II.32. Il vocabolo latino i g n o r a n t i a deriva infatti dal verbo n o s c e re ed origina dalla radice indoeuropea g ( e ) n o

che significa anzitutto “accorgersi di conoscere”, “conoscere” e quindi “saper definire”, “narrare”,“agire”, “fare”. Di conseguenza la sua negazione, oltre che esprimere l’i g n o r a n z a dell’ignaro, esprimel ’i n a t t i v i t à (o l’inefficacia) dell’ignavo e la p o v e rt à d e l l ’ i g n u d o .

33. Marisa Cantarelli, ed., La disciplina infermieristica. Il Modello delle prestazioni infermieristiche, Attidel Convegno della Scuola Universitaria di Discipline Infermieristiche, Milano 16-17 giugno 1993,quad. SUDI n. 8, 1993.

34. Karl R. Popper, “La scienza normale e i suoi pericoli”, in I. Lakatos, A. Musgrave, eds., C r i t i c ae Crescita della Conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976 (I ed. orig. 1970), pp. 127-128, corsivon o s t r o.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

214

35. Popper, Karl R., “Models, instruments, and truth. The status of the rationality principle in the socialsciences”, 1963, in K.R. Popper, Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 208-209.210.

36. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978 (I ed. orig. 1962), p. 39.37. Thomas S. Kuhn, op. cit., p. 214.38. M a rgaret Mastermann, “La natura di un paradigma”, in I. Lakatos, A. Musgrave, eds, op. cit.,pp. 146-148.39. Alain F. Chalmers, Che cos’è questa scienza?, Arnoldo Mondadori Ed., Milano, 1979, p. 98.40. Evandro Agazzi, Marco Buzzoni, Guido Servalli, eds, Linguaggio comune e linguaggio scientifico,

Franco Angeli Editore, Milano, 1987, p. 29.41. Evandro Agazzi, “I contenuti dell’apprendimento scolastico secondario e il problema dell’interdiscipli-

narietà”, in AaVv, La comunità scolastica, Laterza, Roma, 1972.42. Cfr. Imre Lakatos, “Il tradimento della ragione da parte degli intellettuali”, in La Metodologia dei pro -

grammi di ricerca scientifici, il Saggiatore, Milano, 1996.43. Paul K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New Left Book,

London, 1975. Trad. it. C o n t ro il metodo, Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza,Feltrinelli, Milano, 1979. Vedi anche Paul K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari,1995 (I ed. 1989).

44. C f r. I. Lakatos, P.K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, a cura di MatteoMotterlini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.

45. Vedi Imre Lakatos, “Lezioni sul metodo”, I. Lakatos, F.K. Feyerabend, op. cit., pp. 45ss. 46. Il “principio di verificazione” affermava che scopo e prodotto della scienza era una conoscenza certa.

Famosa al riguardo l’espressione newtoniana “Ipotesys non fingo”, «Non gioco alle ipotesi; sostengosolo ciò che è vero». Tale principio venne codificato nel “manifesto” del Circolo di Vienna del 1929(La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vi e n n a), al quale parteciparono filosofi comeR. Carnap, M. Schlick, P. Frank, H. Hahn, O. Neurath, H. Reichenbach ed altri ancora (tra i quali èobbligo citare Ludwig Wittgenstein). Il Circolo di Vienna affermava che un enunciato che non sia ana-litico è dotato di significato “cognitivo” o fattuale se e solo se la sua verità o falsità risulta accertatamediante osservazioni empiriche. Un enunciato, insomma, è significante se e solo se può essere verificato.

47. Ricordiamo un passaggio notissimo di An Enquiry Concerning Human Understanding (1748) nelquale Hume anticipava i contenuti del principio di verificazione chiedendosi: «Quando [...] scorriamo ilibri di una biblioteca, di che cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo in mano qualche volume - di teo-logia o di metafisica scolastica, per esempio - chiediamoci: “Contiene forse dei ragionamenti astrattiintorno alla quantità o al numero?”. No. “Contiene dei ragionamenti basati sull’esperienza e relativi adati di fatto o all’esistenza delle cose?”. No. Allora diamolo alle fiamme, giacché esso non può conte-nere nient’altro che sofisticheria e inganno» (Cfr. trad. it., Ricerche sull’intelletto umano e sui principidella morale, Rusconi, Milano, 1980, pp. 335-336).

48. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1970, p. 311.49. Karl R. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 180.50. Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, in I. L a k a t o s,

A. Musgrave, op. cit., pp. 169.51. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 22.52. Dario Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet Libreria, Torino, 1996, pp. 55-56.53. Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, op. c i t . , p. 169.54. Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, op. c i t . , p. 191.55. «Il falsificazionismo metodologico sofisticato - scrive Lakatos - offre nuovi standard all’onestà intellet-

tuale. L’onestà giustificazionista esigeva l’accettazione soltanto di ciò che era dimostrato e il rifiuto ditutto quanto non era dimostrato. L’onestà neogiustificazionista esigeva la specificazione della probabi-lità di ogni ipotesi alla luce dell’evidenza empirica disponibile. L’onestà del falsificazionismo ingenuoesigeva il controllo del falsificabile e il rifiuto del non falsificabile e del falsificato. Infine, l’onestà delfalsificazionismo sofisticato esige che si cerchi di guardare alle cose da diversi punti di vista, per avan-zare nuove teorie che anticipino fatti nuovi, e per rifiutare teorie che siano state sostituite da altre più

Note Cap. I

215

potenti. Il falsificazionismo metodologico sofisticato unisce insieme varie tradizioni differenti. Dagliempiristi ha ereditato la determinazione di imparare in primo luogo dall’esperienza. Dai kantiani hapreso l’approccio attivista alla teoria della conoscenza. Dai convenzionalisti ha appreso l’importanzadelle decisioni in metodologia»; Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi diricerca scientifici”, op. cit., p. 198.

56. Dario Antiseri, op. cit., pp. 173.176.57. Imre Lakatos “Lezioni sul metodo”, in I. Lakatos, P. Feyerabend, Sull’orlo della scienza, op. c i t., pp. 139ss.58. Imre Lakatos “Lezioni sul metodo”, in I. Lakatos, P. Feyerabend, Sull’orlo della scienza, op. c i t ., p. 147.59. Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, op. c i t . , pp. 209ss.60. Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, op. c i t . ,

pp. 193-195. «Per ammettere slittamenti-di-problema come “scientifici,” condizione sufficiente è chesiano almeno teoricamente progressivi; se non lo sono, li “ r i f i u t i a m o ” come “pseudo-scientifici”. Ilprogresso è misurato dal grado in cui uno slittamento-di-problema è progressivo; dal grado in cui laserie di teorie ci porta alla scoperta di un fatto nuovo. Consideriamo una teoria della serie come “fal-sificata,” quando è superata da una teoria con più contenuto corroborato. [...] Non c’è falsificazione seprima non emerge una teoria migliore».

61. «“Il pluralismo teorico” - afferma Lakatos - è meglio del “monismo teorico”: su questo punto Popper eFeyerabend hanno ragione e Kuhn ha torto». Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei pro-grammi di ricerca scientifici”, op. cit., pp. 231-232.

62. C f r. Paola Di Giulio, “Una strategia professionale basata sul risultato”, Foglio Notizie, 4, 1997.Per chi invece volesse approcciarsi al mondo dell’EBN, segnalo il relativo sito We b :h t t p : / / w w w. e v i d e n c e b a s e d n u r s i n g . c o m

63. Dario Antiseri, op. cit., pp. 99-100.64. Dario Antiseri, op. cit., pp. 330.333.65. Callista Roy, Sharon Roberts, Theory Construction in Nursing. An Adaptation Model, Prentice-Hall,

Englewood Cliffs, N.J., 1976, p. 21.66. Evelyn Adam, Être Infirmière, Les Editions Hales, Montréal, 1979, trad. it. Essere infermiera, Vita e

Pensiero, Milano, 1989, p. 4, corsivo nostro.67. Karl R. Popper, vedi “Science: problems, aims, responsabilities”, op. cit., p 142. Popper, al proposito, cita

spesso l’opinione di Charles Darwin: «È molto strano che non tutti capiscano che ogni osservazione, peravere qualche utilità, deve essere a favore o contro qualche opinione» (lettera a Hewey Fawcett, 1861).

68. Di Paul K. Feyerabend, oltre alle opere già citate, vedi anche P.K. Feyerabend, C. Thomas, eds, Arte es c i e n z a, Armando ed., Roma, 1989 (I ed. orig. 1984), e la bellissima autobiografia, Ammazzando iltempo. Un’autobiografia, Laterza, Roma-Bari, 1994,

69. Karl R. Popper, “The myth of framework”, 1965, trad. rivista in Karl R., Popper, Il mito della cornice.Difesa della razionalità e della scienza, Il Mulino, Bologna, 1995 (I ed. orig. 1994), p. 63.

70. Karl R. Popper, “The myth of framework”, op. cit., pp. 78-80, corsivo nostro.71. Karl R. Popper, “La scienza normale e i suoi pericoli”, in I. Lakatos, A. Musgrave, op. cit., pp. 126-

127.72. Cfr. Karl R. Popper, “Science: problems, aims, responsabilities”, op. cit., pp. 127-128.73. Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1986.74. Per un primo approfondimento si rimanda ai tre seguenti saggi curati da docenti dell’Università di

Alberta: June F. Kikuchi, Helen Simmons, eds, Philosophic inquiry in nursing, Sage Publications,Newbury Park, California, 1992; in particolare gli interventi di Jacquline Fawcett, “Contemporary con-ceptualisations of Nursing: Philosophy or Science?”, pp. 64-70; di Evelyn Adam, “Contemporary con-ceptualisations of Nursing: Philosophy or Science?”, pp. 55-63. J. Kikuchi, H. Simmons, eds,Developing a philosophy of nursing, Sage publications, London, 1994. Ed infine June F. Kikuchi,Helen Simmons, Donna Romyn, eds, Truth in nursing inquiry, Sage Publications, Newbury Park,California, 1996: e nello specifico gli articoli di Jane Watson, “Poeticizing as truth in nursing inquiry”,p p. 124-139; Donna Romyn, “Problems inherent in the epistemology and methodologies of feminist

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

216

research”, pp. 140-150; Robyn J. Holden, “Nursing knowledge: the problem of the criterion”, pp. 19-35.Joy L. Johnson, “Nursing art and prescriptive truth”, pp. 36-50. Vedi anche il sito http://www. u a l b e r t a . c a

75. Cfr. ad esempio Evandro Agazzi “La malattia come vissuto umano e come oggetto della medicina”,Kos, n. 152, maggio 1998, pp. 18-21. Sempre al proposito si potrebbe richiamare l’eticista belga Jean-François Malherbe, quando sostiene che l’aporia della medicina contemporanea sta nel «pretendere dicurare il corpo che siamo, dimenticando che le sue competenze riguardano unicamente il corpo cheabbiamo». Vedi J.F. Malherbe, Per un’etica della medicina, op. cit., p. 41, corsivo nostro.

76. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 311.

77. Giulio Giorello, “Introduzione” a I. Lakatos e P.K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza, op. c i t . , p. XII.78. Imre Lakatos, “Infinite Regress and Foundations of Mathematics”, Aristotelian Society

Supplementary, vol. 36, 1962, pp. 23-24, ripubblicato come capitolo 1 di Imre Lakatos, Mathematics,Science and Epistemology: Philosophical Papers, Cambridge University Press, Cambridge, 1978, cor-sivo nostro.

79. Evandro Agazzi, Cultura scientifica e interd i s c i p l i n a r i t à, Ed. La Scuola, Brescia, 1994, p. 86, cor-sivo aggiunto.

80. J. M. De Gérando, Considérations sur les diverses méthodes à suivre dans l’observations des peuplessauvages, Parigi, 1800, pp. 166-167.

81. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore,Milano, 1961, p. 35, (I ed. orig. 1954), corsivo nostro.

82. Scrive Tzvetan Todorov: «Senza troppe esitazioni potremmo concedere a Michail Bachtin duesuperlativi, affermando che è il principale pensatore sovietico nel campo delle scienze umane, e ilmassimo teorico della letteratura del X X secolo. Di fatto esiste una certa solidarietà, fra questi duesuperlativi; non nel senso che si debba essere sovietici, per eccellere nel campo della teoria letteraria(benché la tradizione russa sia probabilmente più ricca di quella di qualsiasi altro paese); ma perchéun vero teorico della letteratura deve necessariamente riflettere su qualcosa di diverso dalla lettera-tura stessa: la sua specialità è di non averne alcuna, se ci possiamo esprimere così. Reciprocamente -chissà - l’interesse per la letteratura è forse indispensabile allo specialista di scienze umane».Tzvetan To d o r o v, Michail Bachtin. Il principio dialogico, Einaudi, Torino, 1990 (I ed. orig. 1981),p. 3. Sempre su Bachtin vedi anche il recente Michael Gardiner, Michael Bell Mayerfeld, eds,Bakhtin and the Human Sciences. No Last Wo rd s, Sage Publications, London, 1998, soprattutto neicapitoli 12, Courtney Bender, “Bakhtinian perspectives on ‘Everyday life’ sociology” e 13, BarrySandywell, “Michail Bakhin’s contributions to the theory of time and alterity”.

83. Michail Bachtin, “Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane”,1959-61, in Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, C. Strada Janovic,ed., Einaudi, Torino, 1988, pp. 295-296. Cfr. Tzvetan Todorov, Michail Bachtin. Il principio dialogico ,op. cit., p. 28ss.

84. Michail Bachtin, “Per una metodologia delle scienze umane”, 1974, in Michail Bachtin, L’autore e l’e -roe, op. cit., pp. 377ss: nei periodi successivi, pur senza sviluppare ulteriormente il discorso, Bachtinaccenna alla conoscenza dialogica come ad un evento, ad un incontro nel quale non deve mancare unmomento (auto)valutativo.

85. Michail Bachtin, “Per una metodologia delle scienze umane”, 1974, in Michail Bachtin, L’autore e l’e -roe, op. cit., pp. 384-385, corsivo nostro.

86. Michail Bachtin, “Dagli appunti del 1970-71”, in M. Bachtin, L’ a u t o re e l’eroe, op. cit., pp. 362.87. Michail Bachtin, “Per una metodologia delle scienze umane”, 1974, in Michail Bachtin, L’autore e l’e -

roe, op. cit., p. 384.88. Cfr. Evandro Agazzi, Cultura scientifica e interdisciplinarità, op. cit., pp. 31-32. In una prospettiva più

generale, possiamo definire con Piero Viotto il “sapere speculativo” - che Maritain chiamava s a p e re dipura speculazione - come quella forma del procedere, attraverso successive astrazioni, dall’essere parti-colare al pensiero; tale procedimento attua un processo di semplificazione. Definiamo invece come“sapere pratico” - sapere praticamente pratico - il procedere per via di successive concretizzazioni,

Note Cap. I

217

dal pensiero all’essere; esso esige un processo di complicazione per adattare la teoria alla multiformerealtà. Cfr. Piero Viotto, Pedagogia per la scuola di base, Vita e Pensiero, Milano, 1978, p. 24; vedianche Jacques Maritain, Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris, 1946, pp. 622-627 e pp.849-856, trad. it. Scienza e saggezza, Borla, Torino, 1964, pp. 36-41.

89. Cfr. Evandro Agazzi, La logica simbolica, Ed. La Scuola, Brescia, 1964, soprattutto il capitolo nono.

90. Michail Bachtin, Fondamenti filosofici delle scienze umane, 1941 circa e Per una metodologia dellescienze umane, 1974, ora in L’autore e l’eroe, op. cit. pp. 386ss. Vedi anche Tzvetan Todorov, MichailBachtin, op. cit., pp. 34-37.

91. Michail Bachtin, Fondamenti filosofici delle scienze umane, 1941 circa e Per una metodologia dellescienze umane, 1974, ora in L’autore e l’eroe, op. cit. pp. 386ss. Vedi anche Tzvetan Todorov, MichailBachtin, op. cit., pp. 34-37.

92. Michail Bachtin, “Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane”,1959-61, in Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, op. cit., pp. 300.318.

93. Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, op. cit., p. 92.94. Michail Bachtin, “Marxismo e filosofia del linguaggio”, 1929, cit. in Tzvetan To d o r o v, M i c h a i l

Bachtin, op. cit., pp. 34-35, e pp. 36-37.95. C f r. Michail Bachtin, “Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze

umane”, 1959-61, in Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, op. cit., pp. 291-319.

96. Michail Bachtin, “Per una metodologia delle scienze umane”, 1974, in Michail Bachtin, L’autore e l’e -roe, op. cit., p. 376, corsivo nostro.

97. Ritorneremo su queste intuizioni di Bachtin nel quarto capitolo del libro. Per il momento ci basta sotto-lineare nuovamente la complessità insita nell’atto conoscitivo di un’altra persona, come è intuito in que-sto altro brano di Bachtin: «La complessità dell’atto bilaterale del conoscere-penetrare. L’attività di chiconosce e l’attività di che si svela (dialogicità). Il saper conoscere e il saper esprimere sé. Abbiamo qui ache fare con l’espressione e con la conoscenza (comprensione) dell’espressione. La complessa dialetticadell’esterno e dell’interno. La persona non ha soltanto un ambiente e un contorno, ma anche un proprioorizzonte. L’interazione dell’orizzonte del conoscente con l’orizzonte del conosciuto. Gli elementi del-l’espressione (il corpo non come morta cosa, il volto, gli occhi, ecc.), in essi si intersecano e si combina-no due coscienze (dell’i o e dell’a l t ro); qui io esisto per l’altro e mediante l’altro. La storia dell’autoco-scienza concreta e il ruolo che in essa svolge l’altro (amante). Il riflesso di sé nell’altro. La morte per sée la morte per l’altro. La memoria. […] Il penetrare nell’altro (il fondersi con esso) e il mantenere ladistanza (il proprio posto) che garantisce l’eccedenza della conoscenza. […] Oggetto delle s c i e n z eumane è l’esistenza espressiva e parlante. Questa esistenza non coincide mai con sé stessa ed è quindiinesauribile nel proprio senso e significato. […] L’esattezza [delle scienze naturali, invece,] presuppone lacoincidenza della cosa con sé stessa. L’esattezza serve per il possesso pratico. [Al contrario,] l’esistenzache si autosvela [nel dialogo] non può essere costretta e vincolata. Essa è libera e quindi non offre alcunagaranzia», Michail Bachtin, “Per una metodologia delle scienze umane”, 1974, L’ a u t o re e l’eroe, op. cit. ,pp. 418-419. Sono le ultime pagine scritte da Bachtin prima della morte.

98. Cfr. ad esempio Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1995, I ed.orig. 1995, pp. 13-15.

99. Gilles Gaston Granger, ed, “Metodo”, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, Vol. IX, s.v. Metodo, pp. 250-251, 1980.

100. Vedi Karl R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Vol. 1, Il realismo e lo scopo dellascienza, Il Saggiatore, Milano, 1984, pp. 35.37.

101. Cfr. Karl R. Popper, “Science: problems, aims, responsabilities”, op. cit., pp. 138.102. C f r. Karl R. Popper, “Science: problems, aims, responsabilities”, op. cit. , p 148. Vedi anche Karl R.

Popper, Il mito della cornice, op. cit., pp. 138.

103. Karl R. Popper, “Models, instruments, and truth. The status of the rationality principle in the socialsciences”, 1963, in K.R. Popper, Il mito della cornice, op. cit., pp. 214-215.

104. Roberta Corvi, Postfazione a Paul K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, op. cit., pp. 164-165.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

218

105. Nel pensiero di Feyerabend, nota Roberta Corvi, questa riconosciuta “mancanza di metodo” testimoniache la scienza assomiglia al sapere non scientifico assai più di quanto sia disposta ad ammettere, vistoe considerato che procede in modo caotico e casuale esattamente come le altre forme di conoscenza.

106. Gilles Gaston Granger, op. cit., pp. 239-240, corsivo aggiunto.

107. Cfr. Gilles Gaston Granger, op. cit., p. 241.

108. Umberto Galimberti, “Introduzione” a Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., pp. V I I I - X.109. Françoise Loux, “Anthopologie et soins aux enfants”, in Antropologia Medica, 3, aprile 1987, p. 38,

corsivo nostro.

110. Michelle Guyon, “Soigner, une démarche de type anthropologique”, in Antropologia Medica, 3, aprile1987, pp. 55-56

111. Michail Bachtin, Fondamenti filosofici delle scienze umane, 1941 circa e Per una metodologia dellescienze umane, 1974, ora in L’ a u t o re e l’ero e, op. cit., pp. 386-86ss. Vedi anche Tzvetan To d o r o v,Michail Bachtin, op. cit., pp. 34-37.

112. Gilles Gaston Granger, op. cit., pp. 248-250.

113. Vedi Paolo C. Motta, “Il processo di assistenza infermieristica”, in E. Fumagalli, E. Lamboglia, G.Magon e P.C. Motta, La cartella infermieristica informatizzata, Ed. Medico-scientifiche, Torino, 1998,p. 202. Per Motta, come per altri autori, la proposta del metodo in modo indipendente dalla riflessioneteorica, unitamente alla cultura tecnicistica assunta dal servizio sanitario contemporaneo e all’elevatogrado di standardizzazione delle competenze e delle attività infermieristiche sono fra le cause principa-li della pressoché inesistente pianificazione dell’assistenza infermieristica in moltissime realtà operati-ve del nostro Paese.

114. Paolo C. Motta, “Il processo di assistenza infermieristica”, in E. Fumagalli, E. Lamboglia, G. Magon eP.C. Motta, La cartella infermieristica informatizzata, Ed. Medico-scientifiche, Torino, 1998, p. 217,corsivo aggiunto.

115. Michail Bachtin, Per una metodologia delle scienze umane, 1974, cit. in Tzvetan To d o r o v, op. cit., pp. 34-35.

116. Anostro parere, infatti, questo dibattito non è altro che la versione “infermieristica” del ben più vasto etradizionale problema tra fatti oggettivi ed interpretazioni soggettive, che ha fatto discutere, e litigare,generazioni di studiosi appartenenti, da un lato, alle scienze naturalistiche e, dall’altro, alle scienzeumanistiche o storico-sociali. Riprenderemo questi aspetti nel quarto capitolo. Per un approfondimentogenerale della questione, si veda Luciano Gallino, L’ i n c e rta all’alleanza. Modelli di relazione trascienze umane e scienze naturali , Einaudi, Torino, 1992. Per gli aspetti più prettamente infermieristici,vedi Paolo C. Motta, “Il processo di assistenza infermieristica”, op. cit., pp. 222-223.

117. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., pp. 109ss.

118. Paul K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, op. cit., p. 86, corsivo aggiunto.

119. Scrive infatti Feyerabend a proposito di scienza e mito: «se la scienza è apprezzata per i suoi risultati,il mito dovrebbe essere apprezzato cento volte di più e con maggiore entusiasmo, perché le sue conqui-ste furono incomparabilmente più grandi: gli inventori del mito hanno dato il via alla cultura, mentregli scienziati l’hanno soltanto modificata, e non sempre in meglio». Cfr. Paul K. Feyerabend, Dialogosul metodo, op. cit., p. 93.

120. C f r. ad esempio l’analisi di Franca Ongaro Basaglia ed, “Cura/normalizzazione”, in E n c i c l o p e d i a,Einaudi, Torino, vol. IV, 1980 pp. 306ss, sv “Cura”.

121. Giorgio Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, eds, op. cit., sv “Stetoscopio”.122. “Poiché infatti fu Cura che per prima diede forma (all’Uomo), lo possieda finché esso viva”.

123. Cfr. Warren Thomas Reich, “Curare e prendersi cura. Nuovi orizzonti dell’etica infermieristica”, Arcodi Giano, 10, gen.-apr. 1996, pp. 14-15.

124. Claire Hasting cit. da Warren Thomas Reich, “Curare e prendersi cura”, op. cit., pp. 13-15. Reich con-clude il paragrafo richiamando l’assonanza della “cura” con il significato di un’altra parola di originelatina, la parola “compassione”.

125. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976 (I ed. orig. 1927), par. 53.

Note Cap. I

219

126. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute , op. cit., pp. 144ss. Gadamer cita spesso una famosamassima del medico greco Alcmeone di Crotone, (V sec. a.C.): “Per questo muoiono gli uomini, chenon possono unire il principio con la fine”. Ciò che contraddistingue l’uomo, dice Gadamer interpre-tando questo detto, è il fatto di non essere solo “vita” biologica che si autoriproduce, poiché ogni esse-re umano è un individuo unico, che in quanto tale sa di dover morire. Egli non è un elemento, ancorchévivente, ma privo di consapevolezza che si reinserisce nella circolazione universale del nascere e delmorire. Cfr. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., pp. 87ss; 158-159.

127. D a s e i n in tedesco significa “esistere, esistenza”, ma viene usato come termine tecnico da Heidegger, accen-tuando il suo senso letterale D a - s e i n, “esser-ci”, per indicare l’essere proprio e costitutivo dell’uomo che èsoltanto in quanto ha un c i, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. L’esserci indica il fatto chel’uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti e che pone ladomanda sul senso dell’essere. E per questo è ben più che la semplice presenza di un ob-jecto posto dinanzi asé ed agli altri, giacché esso è proprio quell’ente per cui le cose sono presenti. In questo senso per Heidegger,“ L’essenza del Dasein consiste nella sua esistenza”. Cfr. Martin Heidegger, E s s e re e tempo, op. cit., par. 9.

128. Martin Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 64-65.129. Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., pp. 13-15, corsivo nostro.130. Vedi David C. Hoy, Il circolo ermeneutico. Letteratura, storia ed ermeneutica filosofica, Universale

Paberbacks Il Mulino, Bologna, 1990 (I ed. orig. 1978), p. 70.131. H a n s - G e o rg Gadamer, Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972 (I ed. orig. 1960), pp. 342-343.

132. David C. Hoy, op. cit., pp. 59-60, corsivo nostro. Al principio della “storia degli effetti” corrisponde la“coscienza della determinazione storica”, altro concetto decisivo dell’ermeneutica gadameriana, che consi-ste nella consapevolezza della nostra storicità costitutiva o del nostro essere esposti agli effetti della storia.

133. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., pp. 13-14.

134. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. 343, corsivo nostro.135. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. 316, corsivo nostro.136. C f r. David C. Hoy, op. cit. , p. 71. Cfr. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., pp. 451 e 457.137. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., pp. 358.360.

138. David C. Hoy, op. cit., p. 70, corsivo nostro.139. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., p. 5, corsivo nostro.140. Albert Wittgenstein, R i c e rche filosofiche, 1945-1949, par. 202. A proposito, lo sapevate che A l b e r t

Wittgenstein per un certo periodo fece anche l’aiuto-infermiere? 141. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., pp. 77-78. Cfr. anche Hans-Georg Gadamer

“Hermeneutik als praktische Philosophie”, trad. it. “L’ermeneutica come filosofia pratica”, in La ragione nel -l’età della scienza, a cura di E. Rega, A. Fabris, Il Melangolo, Genova, 1982, p. 72.

142. C f r. Hans-Georg Gadamer “Hermeneutik”, op. cit., p. 70, dove riporta Aristotele, P o e t i c a, 1325b 21 e ss.;vedi anche Verità e Metodo, pp. 519-520, in cui Gadamer osserva che la nozione moderna di teoria è emi-nentemente privativa, poiché definisce l’assenza o secondarietà di ogni applicabilità pratica della conoscen-za (come quando uno scienziato acquista una nuova conoscenza per puro amore della conoscenza stessa,senza necessariamente pensare ai suoi usi possibili).

143. Cfr. David C. Hoy, op. cit., pp. 75-79.144. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., in particolare la sezione “Filosofia pratica”,

p p . 77ss. Corsivo nostro.145. Aristotele, E t i c a N i c o m a c h e a, 1142a 24, trad. it. Di A. Plebe, in O p e re, vol. III, Laterza, Bari, 1973,

p . 591; cfr. anche 1140a, 32, p. 585.146. Aristotele, Etica Nicomachea, 1140b, trad. it. Di A. Plebe, op. cit., p. 585.147. Aristotele, Etica Nicomachea, 1142a 25, trad. it. Di A. Plebe, op. cit., p. 591.148. Aristotele, Etica Nicomachea, 1140b 30, trad. it. Di A. Plebe, op. cit., p. 586.

149 . C f r. David C. Hoy, op. cit., pp. 75-79, corsivo nostro. Cfr. Hans-Georg Gadamer “Hermeneutik”,op. cit., p. 73.89.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

220

150. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., pp. 401ss.151. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., pp. 412-413, corsivo aggiunto.152. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., pp. 34-35.153. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., pp. 14-15 e p. 38ss. 154. Cfr. David C. Hoy, op. cit., pp. 162-164. Vedi anche Hans-Georg Gadamer, Replik, 1971, trad. it. in

Ermeneutica e critica delle ideologie, Brescia, Queriniana, 1979, pp. 284-315.155. David C. Hoy, op. cit., pp. 66-67, corsivo aggiunto.156. Cfr. David C. Hoy, op. cit., pp. 87-88 e 90ss.157. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. 425.158. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. 424.159. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. 447.

CAPITOLO SECONDO

1. Françoise Loux, “Anthopologie et soins aux enfants”, in Antropologia Medica, 3, aprile 1987, p. 38,corsivo nostro.

2. Per una seppur introduttiva presentazione delle tematiche esistenziali del sapere infermieristico vedil’approccio tipicamente europeo di Harry Van der Bruggen, Il malato. Protagonista sconosciuto, Ed.Armando Armando, Roma 1980, (I ed. orig. 1977). Per rendere l’ineluttabilità della sofferenza e dellamalattia, e quindi la dimensione esistenziale della malattia e dell’assistenza, Van der Bruggen cita lastessa espressione lessicale “ammalarsi” che in francese è resa dal verbo tomber malade (cadere malato),così come sempre in francese si dice tomber amoureux dell’innamorarsi e tomber mort del morire (masi vedano anche i corrispettivi inglese to fall, tedesco fallen e fiammingo vallen).

3. Marie Françoise Collière, “Redecouvrir... elaborer les savoir des soins”, Cahier du Grasi, n. 10, 1992, p. 4.4. Marie Françoise Collière, P romouvoir la vie. De la pratique des femmes soignantes aux soins

i n f i r m i e r s, Inter-Editions, Paris, 1982, trad. it. A i u t a re a vivere. Dal sapere delle donne all’assi -stenza infermieristica, Sorbona, Milano, 1992, pp. 18-19. Tutti i riferimenti testuali a Collièresono nostre traduzioni dall’originale francese. Si è optato per la traduzione di “soins” nell’italia-no “cura” in quanto per Collière la dizione italiana “assistenza” può avere una erronea valenzapaternalistica o assistenzialita che - secondo il parere dell’autrice - non è compatibile con la suaimmagine della cura. Di M. F Collière si veda anche S o i g n e r... Le p remier art de la vie,Interéditions, Paris, 1996.

5. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., p. 201.6. Marie Françoise Collière, “Redecouvrir... elaborer les savoir des soins”, op. cit., pp. 17-18.7. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 206-207.8. Michelle Guyon, “Soigner, une démarche de type anthropologique”, in Antropologia Medica, 3, aprile

1987, pp. 55-56, corsivo aggiunto.9. M. de Smedt, “Edgar Morin, Sociologue et Philosophe”, Psychologie, dicembre 1980, p. 9.

10. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 186-187, corsivo mio.11. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 129-130, corsivo nostro.12. Marie Françoise Collière, “De l’utilisation de l’anthropologie pour aborder les situations de soins”,

Soins, n. 557, 1992, p. 46.13. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., p. 258.14. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 243-244.15. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 305-306. 16. Marie Françoise Collière, Promouvoir la vie, op. cit., pp. 256-257.17. Marie Françoise Collière, “De l’utilisation de l’anthropologie pour aborder les situations de soins”,

op. c i t ., p. 46.

Note Cap. II

221

18. Marie Françoise Collière, “De l’utilisation de l’anthropologie pour aborder les situations de soins”,op. cit., p. 53.

19. Madeleine M. Leininger, “Madeleine M. Leininger”, in Thelma M. Shorr, Anne Zimmerman, Makingchoices taking chances. Nurses leaders tell their stories, The C.W. Nosby Co., St. Louis, 1988, p. 190.

20. Il sito internet della Trascultural Nursing Society, in gran parte a pagamento, è http://www.tcns.org.21. C f r. Madeleine M. Leininger, Transcultural nursing: concepts, theories, and practices, Wi l e y, New

York, 1978, p. 15. Vedi anche Roberto Lionetti, “L’antropologia nella pratica e nella ricerca infermieri-stica”, in Antropologia Medica, 3, aprile 1987, p. 30.

22. Madeleine M. Leininger, Transcultural nursing, op. cit.; vedi anche Madeleine M. Leininger,Transcultural Care Diversity and Universality: A Theory of Care and Nursing, Grune & Stratton, NewYork, 1985.

23. Madeleine M. Leininger, Care, The Essence of Nursing and Health, Charles B. Slack Inc., Thorofare,N. J., 1984, pp. 5-6.

24. Madeleine M. Leininger, Qualitative re s e a rch methods in nursing, Grune & Stratton, London, 1985, p. 198.25. «in quanto centrale, distinto e unificante dominio del nursing» Madeleine M. Leininger, “Tr a n s c u l t u r a l

Nursing: Anew Focus for Nursing”, in A n t ropologia Medica, 3, aprile 1987, p. 8.26. Madeleine M. Leininger, Transcultural nursing, op. cit., p. 33, corsivo nostro.27. Cfr. Julia B. George, “Madeleine M. Leininger”, in Ann Marriner-Tomey, Nursing Theorists and Their

Wo r k, 3rd ed., Mosby-Year Book, St. Louis, 1994, trad. it. I Teorici dell’Infermieristica e le loroTeorie, Mc Graw Hill Book Co., Milano, 1996, pp. 249ss.

28. Madeleine M. Leininger, Transcultural nursing, p. 191, corsivo nostro. 29. Madeleine M. Leininger, Qualitative re s e a rch methods in nursing, Grune & Stratton, London, 1985, p. 11 9 .31. C f r. H. Jedin, Storia della chiesa, Jaca-Book, Milano, 1962. G. Cosmacini, Storia della medicina e

della sanità in Italia, Laterza, Bari, 1995. J. Le Goff, J.C. Sournia, eds, Per una storia delle malattie,Ed. Dedalo, Bari, 1986 (I ed. orig. 1985). Per la storia dell’assistenza e dell’assistenza infermieristicadi vedano E. Martellotti, ed., Per una storia dell’assistenza infermieristica in Italia, sintesi del ICongresso Nazionale di Storia dell’assistenza infermieristica, Federazione Nazionale Collegi IPASVI,1994. E. Manzoni, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica, Masson, Milano, 1996. V.Dimonte, Da Servente a infermiere. Una storia dell’assistenza infermieristica in Italia, CESPI Editore,Torino, 1993. C. Sironi, Storia dell’Assistenza Infermieristica, La Nuova Italia Scientifica, Roma,1991. C. Bifulco, Storia dell’assistenza sociale ed infermieristica, Ed. l’Azienda Ospedaliera, Firenze1953. C. Calamandrei, L’assistenza infermieristica: storia, teoria, metodi, NIS, Roma, 1983.

32. «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria.E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa lepecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stannoalla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fonda-zione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato dabere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e sietevenuti a trovarmi» (Mt 25, 31-36).

33. Regola Benedettina, X X X I V, 1-5, corsivo nostro. Cfr. Salvatore Pricoco, ed., La Regola di SanBenedetto e le Regole dei Padri, Fond. Lorenzo Valla, Milano, 1995.

34. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, op. cit., p. 197.35. Il nome e il concetto di povero, di pauper, è strettamente legato ed identificato in tutto il medioevo con

il nome e il concetto di indigente, malato o, appunto infirmi. I due nomi vengono considerati sinonimie citati in un sol fiato nella locuzione ricorrente: pauperes infirmi, e richiameranno la condizione stessadella necessità, del b i s o n i u m. Cfr. Edda Pellegrini, Il ruolo della Donna Laica nell’evoluzionedell’Assistenza Infermieristica, nella Regione Lombarda dal XVI ad inizio XX secolo, Tesi di diplomaSUDI, aa 1993-1994, p. 57.

36. Per questo passo, come per altri spunti di questo paragrafo siamo debitori a Paolo C. Motta, “Elementi di sto-ria della disciplina infermieristica: la Scuola dei Bisogni”, p ro manuscripto, 1997.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

222

37. Vedi Marisa Siccardi, Viaggio nella notte di san Giovanni. op. cit. Marie Françoise Collière, P ro m o u v o i rla vie, op. cit.. Edoardo Manzoni, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica, op. cit. E d o a r d oManzoni, “Dal sapere assistenziale alla Disciplina Infermieristica. Viaggio nell’evoluzione della cono-scenza infermieristica”, P rofessioni infermieristiche, 3, Luglio 1994.

38. C f r. Jean Delumeau, “La religione di fronte alla sventura e alla malattia nell’Occidente preindustriale”,C o n c i l i u m, n. 5, 1998, pp. 59-77. Sulla tesi della sostituzione della religione con la tecnica si rimanda inparticolare al pensiero di Salvatore Natoli, ripreso nel paragrafo 3.2.

39. Sul fenomeno della stregoneria vedi a E. De Martino, Il Mondo magico, Boringhieri, Torino, 1973(I ed. orig. 1948). M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1969. B. Malinowski, Argonautidel Pacifico. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, New Compton It., Roma, 1973 (I ed.orig. 1922). J.C. Baroja, Le streghe e il loro mondo, Pratiche edizioni, Parma, 1994 (I ed. orig. 1966).Abbiati, A. Agoletto, M.R. Lazzati, La stregoneria. Diavoli, streghe inquisitori dal trecento al sette -cento, Mondadori, Milano, 1984. G. Cosmacini, G. Gaudenzi, Roberto Satolli,eds., Dizionario di sto -ria della salute, Einaudi, Torino, 1996, sv Strega. B.P. Levack, La caccia alle streghe, Laterza, Bari,1988. G. Henningsen, L’avvocato delle streghe, Garzanti, Milano, 1990. J.M. Sallmann, “Strega”, inG. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età Moderna, Laterza,Milano, 1991. A. Pastore, “La Stregoneria e il contagio”, in Crimini e giustizia nell’Europa moderna,Laterza, Bari, 1991. L. Parinetto, Streghe e potere, Il Capitale e la persecuzione dei diversi, Rusconi,Milano, 1998. L. Parinetto, I Lumi e le streghe. Una polemica attorno al 1750, Ed. Colibrì, PadernoDugnano, Milano, 1998.

40. A. Grieco, V. Lingiardi in Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, R. Cortina Editore,Milano, 1994 (I ed. orig. 1993), p. 43. Vedi anche A. Guggenbühl-Craig, Al di sopra del malato e dellamalattia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987, pp. 76-77.

41. Nella prima lettera ai Corinzi, secondo la traduzione Diodati, Paolo afferma infatti: “Noi predichiamoCristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili, pazzia”. Nella traduzione interconfessiona-le il medesimo versetto è resto in modo leggermente differente, ma non meno significativo: “Noi annun-ziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo”.

42. Per queste tematiche si veda Luigi Maria Verzé, La fede si fa Opera, Europa Scienze Umane Editrice,Milano, 1995 e dello stesso autore Che cos’è l’uomo, Europa Scienze Umane Editrice, Milano, 1999.

43. Afaf Ibrahim Meleis, Theoretical Nursing. Development and Progress, J. B. Lippincott, Philadelphia,3rd ed., 1997, pp. 25-48.

44. Afaf Ibrahim Meleis, op. cit., pp. 185-199.45. Florence Nightingale, Notes on Nursing. What it is and what it is not, 1859, trad. it. Cenni sull’assi -

stenza degli ammalati, a cura dell’Associazione Regionale delle Infermiere/i e altri OperatoriSanitario-Sociali (CNAIOSS), Milano, 1980, p. 10.

46. Afaf Ibrahim Meleis, Theoretical Nursing. Development and Progress, J. B. Lippincott, Philadelphia,3rd ed., 1997. Jacqueline Fawcett, Analysis and Evaluation of Conceptual Models of Nursing, 3rd ed.,Davis Co., Philadelphia, 1995, p. 22 (I ed. orig. 1984). Ann Marriner-Tomey, Nursing Theorists andTheir Work, 3rd ed., Mosby-Year Book, St. Louis, 1994, trad. it. I Teorici dell’Infermieristica e le loroTeorie, Mc Graw Hill Book Co., Milano, 1996. J.B. George, Nursing Theories. The base for professio -nal nursing practice, 1990 (I ed. orig. 1980), trad. it. Le teorie del nursing. Le basi per l’esercizio pro -f e s s i o n a l e, Utet, Torino, 1995. R. L. We s l e y, Nursing Theories and Models, Springhouse Co.,Springhouse, 1992. Rosette Poletti, Les soins infirmiers. Théories et concepts, Le Centurion, Paris,1978. Sono moltissimi ormai anche i siti Internet dedicati all’infermieristica. Per l’argomento in que-stione si rimanda in particolare alla Nursing Theory Page dell’Università di Alberta, Canada, al sitohttp://www.ualberta.ca.

47. Bertha Harmer, Textbook of the Principles and Practice of Nursing, Macmillan, New York, 1922, p. 3,corsivo nostro.

48. Vi rginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, Ginevra, ed. a cura delC omitato per i Servizi Infermieristici del Consiglio Internazionale delle Infermiere, X ed., 1985,p. 10, (titolo orig., Basic Principles of Nursing Care 1960).

Note Cap. II

223

49. Vi rginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, op. cit., p. 11, corsivo nostro.50. Vi rginia Henderson, The nature of nursing, Macmillan Co., New York, 1966, trad. it. a cura di Ve r a

Maillart e Maria Rosa Marchi, Che cos’è il nursing?, Reg. Toscana, Dip. Sicurezza Sociale, 1978, p. 27.

51. Vi rginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, op. cit., p. 12, corsivonostro. Sembra di risentire Nightingale quando diceva che la buona infermiera si riconosce da quelmalato che non sa neppure di averne bisogno.

52. Scrive Adam: «Se questi bisogni sono comuni a tutti, le loro manifestazioni particolari variano da un indi-viduo all’altro. Ogni cliente, se è percepito dall’infermiera come un essere formato da quattordici bisogni,è anche percepito come un individuo molto complesso, la cui indipendenza nella soddisfazione dei suoibisogni lo rende differente dai suoi simili». Evelyn Adam, Ê t re infirmière, 1979, trad. it. E s s e re infermie -r a, Vita e Pensiero, Milano, 1989, p. 132.

53. Vi rginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, op. cit., p. 8.9, corsivonostro.

54. Virginia Henderson, Principi fondamentali della assistenza infermieristica, op. cit., p. 16.

55. Virginia Henderson, The nature of nursing, op. cit., p. 40.56. Carl R. Rogers è il fondatore della “terapia centrata sul cliente”, basata sui concetti di empatia, non-

direttività, congruenza. Cfr. Carl R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, G. Martinelli, Firenze, 1989(I ed. orig. 1961); Carl R. Rogers, Un modo di essere, G. Martinelli, Firenze, 1983. Vedi anche una suaapplicazione assistenziale in Silvia Kanisza, L’ascolto del malato. Problemi di pedagogia relazionale ino s p e d a l e, Guerini e ass., Milano, 1988.

57. Evelyn Adam, Être infirmière, op. cit., p. 17.

58. Evelyn Adam, Être infirmière, op. cit., pp. 83-84.59. «Le differenze individuali influenzano la classificazione [dei bisogni fondamentali nelle categorie

maslowiane]: presso alcune persone, il bisogno di praticare la propria religione corrisponde al bisognodi amore e appartenenza, in quanto una fede comune unisce i membri della comunità; presso altre, lostesso bisogno si classifica nella categoria dell’autorealizzazione, poiché è in quanto capo religioso chela persona si realizza; presso altre ancora, il bisogno di comunicare può figurare nella categoria dellastima di sé (bisogno di affermarsi davanti ai propri colleghi) o nella categoria dell’amore e della appar-tenenza». Evelyn Adam, Être infirmière, op. cit., p. 37.

60. Evelyn Adam, Être infirmière, op. cit., p. 82.

61. Nicole Bizier, De la pensée au geste. Un modèle conceptuel en soins infimiers, trad., it. Dal pensiero algesto. Un modello concettuale di assistenza infermieristica, Ed. Sorbona, Milano, 1993, (I ed. orig.1987), p. 18, corsivo nostro.

62. Vedi un passo parallelo in Evelyn Adam, Etre infirmière, op. cit., pp. 79ss.

63. Nicole Bizier, De la pensée au geste, op. cit., pp. 31ss.64. Nicole Bizier, De la pensée au geste, op. cit., pp. 75ss.

65. Paola Di Giulio et alii, “Alcune teorie del Nursing”, Rivista dell’infermiere, n. 1, 1982.66. Cfr. Chiyoko Y. Furukawa, Joan K. Howe, “Virginia Henderson”, in J.B. George, Nursing Theories,

op. cit., pp. 49-51.

67. E tutti egualmente dimenticati. La stessa Meleis, ad esempio, quando illustra la teoria di Hendersonnon cita neppure i contributi di E. Adam e N. Bizier. Cfr. Meleis, op. cit., pp. 554-555.

68. J. Luckman, K.C. Sorensen, Medical Surgical Nursing, 3rd ed., W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1987,pp. 4ss. Degli stessi autori vedi il testo, Nursing di base, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1981.

69. Vedi, solo a titolo di esempio, L.D. Atkinson, M.E. Murray, Understanding Nursing Pro c e s s .Fundamentals of care planning, MacMillan, New York, 1992, trad. it. Capire il processo di nursing.Fondamenti di pianificazione dell’assistenza, C.E.A., Milano, 1994, pp. 11-12.

70. F.G. Abdellah, E. Levine, Better patient care through nursing research, Macmillan, New York, 1964,cit. da Doroty K. Dycus, et alii, “Faye Glen Abdellah”, in Ann Marriner-Tomey, Nursing Theorists andTheir Work, op. cit., pp. 113.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

224

71. Faye G. Abdellah, “Evolution of nursing as a profession: Perspective on manpower development”,International Nursing Review, 1972, p. 3, cit. in Doroty K. Dycus, et alii, op. cit., p. 11 6 .

72. Doroty K. Dycus, et alii, op. cit., pp. 112-113.73. Faye Glen Abdellah, et alii, P a t i e n t - c e n t e red approaches to nursing, Macmillan, New York, 1960,

pp. 16-17.74. Suzanne Falco, “Faye Glen Abdellah”, in J.B. George, Nursing Theories, op. cit., pp. 99-108.75. Dorothea E. Orem, Nursing: Concepts of Pratice, 5th ed., Mosby-Yearbook, St. Louis, 1995 (I ed. orig.

1971), trad. it. Nursing. Concetti di pratica pro f e s s i o n a l e, ed. Summa, Padova, 1992.76. Dorothea E. Orem, Nursing: Concepts of Pratice, op. cit. , p. 7, corsivo nostro.77. Cfr. Dorothea E. Orem, Nursing: Concepts of Pratice, op. cit. , pp. 166ss.78. P.C. Foaster, N.P. Janssens, “Dorothea E. Orem”, in J.B. George, Nursing Theories, op. cit., pp. 71-85.

Vedi anche Rosette Poletti, Les soins infirmiers. Théories et concepts, Le Centurion, Paris, 1978, p. 161.79. Dorothea E. Orem, “Nursing development conference group”, Concept formalization in nursing: pro c e s s

and pro d u c t, Little, Brown, Boston, 1973. Cfr. P.C. Foaster, N.P. Janssens, op. cit.

80. Jacqueline Fawcett, op. cit., p. 22.81. Afaf I. Meleis, op. cit., p. 185ss. 82. Lucia Colombi, Analisi bibliografica del concetto di bisogno, tesi di Diploma SUDI, aa 1990-1991,

pp. 299-300.83. Josephine E. Paterson e Loretta T. Zderad, Humanistic nursing, Wi l e y, New York, 1976, p. 26. Cfr. Susan

G. Praeger, Christina R. Hogarth, “Josephine E. Paterson e Loretta T. Zderad”, in J.B. George, NursingTheories, op. cit., p. 209, corsivo nostro.

84. Josephine E. Paterson e Loretta T. Zderad, op. cit., p. 30. Cfr. Susan G. Praeger, Christina R. Hogarth,op. cit., p. 210. Di Martin Buber vedi L’io e il tu, Ed. IRSeF, Pavia, 1991 (I ed. orig. 1932) e Il princi -pio dialogico, IRSeF, Pavia, 1991.

85. Susan G. Praeger, Christina R. Hogarth, op. cit., p. 214.86. Jean Watson, Nursing: The Philosophy and Science of Caring, Little Brown, Boston, 1979, pp. 8-9.

Cfr. Barbara Talento, “Jean Watson”, in J.B. George, Nursing Theories, op. cit., p. 219.87. Jean Watson Nursing: Human Science and Health Care, Appleton Century Crofts, Norwalk, Conn.,

1985, p. 50. Cfr Barbara Tolento, op. cit., p. 221.88. Vedi Jean Watson, Nursing: The Philosophy and Science of Caring, Little Brown, Boston, 1979, pp. 208ss.89. Jean Watson Nursing: Human Science and Health Care, Appleton Century Crofts, Norwalk, Conn.,

1985, p. 1.90. Jean Watson, Nursing: The Philosophy and Science of Caring, Little Brown, Boston, 1979, pp.

1 0 8 -111. Cfr. Barbara Talento, “Jean Watson”, in J.B. George, Nursing Theories, op. cit., pp. 222-223.91. Helen Yura, Mary B. Walsh, The nursing process: assering, planning, implementing, evaluating, 5th

ed., Appleton-Century-Crofts, New York, 1988 (I ed. orig. 1967), trad. it. Il processo di nursing, ed.Sorbona, Milano, 1992.

92. Helen Yura, Mary B. Walsh, The nursing process, op. cit., p. 61.93. Katrin Lederer, ed., Human needs , Gunn & Hain, Cambridge, 1980, pp. 2-3, riportato in Helen Yura,

Mary B. Walsh, The nursing process, op. cit., p. 18.94. Nancy Roper, Winifred W. Logan, Alison J. Tierney, The Elements of Nursing, 1980, trad. it. Elementi

di Nursing, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Per i riferimenti successivi si rimanda allaquarta edizione del 1996: The Elements of Nursing. A model for nursing based on a model of living,Churchill Livingstone, Edinbourgh, 1996.

96. Nancy Roper, et alii, op. cit., p. 34.97. Cfr. Paolo C. Motta, “L’elaborazione teorica di Nancy Roper, Winifred W. Logan, Alison J. Tierney”,

pro manuscripto, p. 21.98. Nancy Roper, et alii, op. cit., p. 36.99. Nancy Roper, et alii, op. cit., pp. 51ss.

Note Cap. II

225

100. C f r. P. Chiari, et alii, Quaderno del Nursing di base, del 1992. Vedi anche Paolo C. Motta, “Intervista aPaolo Chiari: il Modello delle attività di vita”, Nursing oggi, n. 2, 1999, pp. 19-24.

101. M. Cantarelli, ed, Un modello professionale per l’assistenza infermieristica; il passaggio da un’assi -stenza per mansioni ad un’assistenza per prestazioni,Atti del Convegno promosso dalla SUDI, Milano2-3 ottobre 1987, quad. SUDI n. 2, 1987.

102. Edoardo Manzoni, “I corsi di specializzazione in Italia e la formazione infermieristica comp l e m e n t a r enella raccomandazione del Consiglio d’Europa (R. 5/83)”, P rofessioni infermieristiche, n. 3, 1991, p. 14.

103. Marisa Cantarelli, “Università e sviluppo della professione: il ruolo delle scuole universitarie”, in MarisaCantarelli, ed., Un modello professionale per l’assistenza infermieristica, op. cit., pp. 22-23.

104. Marisa Cantarelli, “Università e sviluppo della professione”, op. cit., p. 5, corsivo aggiunto.105. Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, Masson, Milano, 1996;

106. Marisa Cantarelli, “Puntualizzazione sul concetto di prestazione”, atti del Convegno A N I A RT I,novembre 1989, corsivo nostro. Cfr. Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche,op. cit., p. 108ss.

107. Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, op. cit., p. 110.108. Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, op. cit., p. 110; vedi anche Paolo C.

Motta, “Intervista a Marisa Cantarelli: il Modello delle prestazioni infermieristiche”, Nursing oggi,n. 2, 1999, pp. 16-19.

109. Tra gli altri Edoardo Manzoni, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica , Masson, Milano, 1996,in particolare il terzo capitolo. Si veda anche Edoardo Manzoni, “Nursing practice’s classificationsystem in the Nursing Performance Model”, relazione allegata al Poster presentato al II Euro p e a nConference on Nursing Diagnosis and Interventions, Bruxelles, 18-20 may 1995.

110. Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, op. cit., pp. 110ss. Si possono rintraccia-re le origini di questa definizione in A a V v, Contributi per la regolamentazione dell’esercizio della pro -fessione infermieristica, S U D I, Collegi Ipasvi, CeRGAS, et alii, Atti degli incontri svoltisi a Bologna,giugno-dicembre 1986, e a Milano, 8-9-10 gennaio 1987, p. 10.

111. Marisa Cantarelli, “Puntualizzazione sul concetto di prestazione”, op. cit., p. 4, corsivo aggiunto. Vedianche Marisa Cantarelli, Il modello delle prestazioni infermieristiche, op. cit., pp. 112-113.

112. Per confrontare l’origine e l’evoluzione di questo schema oltre alla già riportata pagina di Cantarelli,vedi L. Pasquot, L. Gamberoni, “Le prestazioni infermieristiche”, in Marisa Cantarelli, ed., Un model -lo professionale per l’assistenza infermieristica, op. cit., p. 37. Cherles Tilquin, “L’esperienza canade-se: il progetto PRN 80”, atti del Seminario Sago, Pianificazione e gestione del personale infermieristi -co ospedaliero: metodologie e loro applicazioni nei Paesi europei e nord americani, Firenze, 19-20febbraio 1982. Dalla lettura di quest’ultima pubblicazione si evince che il Modpi ha preso moltissimodall’impostazione concettuale e metodologica del PRN 80, oltre che dalla teoria oremiana.

113. L. Pasquot, L. Gamberoni, op. cit., pp. 35-36, corsivo aggiunto.114. Cfr. Edoardo Manzoni, “Nursing practice’s classification system in the Nursing Performance Model”,

op. cit.

115. Si veda Renzo Zanotti, “L’assistenza alla persona che soffre nella prospettiva di un nursing inteso quale ‘sti-molo di armonia e salute’”, Atti del III Congresso Nazionale infermieristico sul Dolore e l’assistenza infer -m i e r i s t i c a, Società Italiana dei Clinici del Dolore, villa Erba, Cernobbio, Como 26-27-28 novembre 1998,pp. 81-92. Salvo indicazione contraria tutte le citazioni si riferiscono a questa fonte primaria; in molti casinelle citazioni riportare sono state aggiunte delle sottolineature in corsivo per evidenziare i passaggi a nostroavviso più interessanti.

116. Aquesto riguardo non possiamo non ricordare l’importante lavoro di questo autore nel campo della metodo-logia infermieristica; vedasi in particolare Piera Poletti, Renzo Zanotti, Felice Vian, I n t roduzione alla metodo -logia del processo di nursing, Ed. Summa, Padova, 1988. Renzo Zanotti, Nimmo. Programma per la diagno -si infermieristica, Ed. Summa, Padova, 1992. Renzo Zanotti, “Diagnosi infermieristica e conoscenza scienti-fica”, P rofessioni infermieristiche, n. 2, 1997. Renzo Zanotti, “Epistemologia della diagnosi infermieristica.Approcci a confronto”, Atti del IV corso-Convegno Nazionale Eur Idea 90, Qualità delle cure infermieristi -

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

226

che e ostetriche: la diagnosi infermieristica tra responsabilità ed autonomia pro f e s s i o n a l e, Roma, 18-21 apri-le 1994, oltre che, in generale, i suoi interventi sulla rivista dell’I S I R Idi Padova, Mondo infermieristico.

117. Renzo Zanotti, “Epistemologia della diagnosi infermieristica”, op. cit., pp. 11ss. Vedi anche Paolo C.Motta, “Intervista a Renzo Zanotti: il Nursing come stimolo di armonia e salute”, Nursing oggi, n. 2,1999, pp. 24-30.

118. Renzo Zanotti, “Epistemologia della diagnosi infermieristica”, op. cit., p. 6. 119. Non possiamo non richiamare al proposito il parere di Evandro Agazzi che scrive: «La vera interdisci-

plinarità [...] si costruisce a partire dalle discipline e rispettando la serietà e l’impegno della loro tecni-cità di indagine. [...] Non si può costruire l’interdisciplinarità se non sulla base di una solida competen-za disciplinare» - Evandro Agazzi, C u l t u r a scientifica e interd i s c i p l i n a r i t à, Ed. La Scuola, Brescia,1994, pp. 111/131.

CAPITOLO TERZO

1. Erodoto, Storie, libro II.2. Jean Piaget, Six Etudes de Psychologie, Gonthier, Paris, 1964, trad. it. Sei Studi di psicologia, Einaudi,

Torino, 1967, pp. 14-15. 3. Per questo paragrafo si è debitori di molti consigli e suggerimenti a Fulvio C. Manara.

4. «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorreche l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo.Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dalmomento che egli sa di morire, e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla»;«Con lo spazio, l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo»,Blaise Pascal, Pensieri, in Pensieri Opuscoli Lettere, Rusconi, Milano, 1978, pp. 496-97.

5. «Esser felice è necessariamente l’aspirazione di ogni essere razionale, ma finito: ed è, pertanto, unmotivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare. Infatti, la contentezza di tutta la propriaesistenza non è qualcosa come un possesso originario, una beatitudine, la quale presupporrebbe unacoscienza della propria autosufficienza e indipendenza, bensì un problema, sollevato dalla sua stessanatura finita. Un tal essere e bisognoso, e il suo bisogno concerne la materia della sua facoltà di deside-rare, cioè qualcosa che si riferisce a un senso soggettivo di piacere o di dispiacere, e che determina checosa sia necessario perché un tale essere sia contento. Ma appunto perciò, appunto perché tale motivodeterminante del soggetto può essere conosciuto solo empiricamente, è impossibile fare della soluzionedi questo problema una legge: perché questa, in quanto oggettiva, dovrebbe contenere un fondamentodi determinazione identico in tutti i casi e per tutti gli esseri ragionevoli», Immanuel Kant, C r i t i c adella ragion pratica, P.I, L.I, C.I, in Fondazione della metafisica dei costumi - Critica della ragionpratica, Rusconi, Milano, 1988.

6. Platone, Convivio, 203D, 204A, cfr. 192E.7. Platone, Repubblica, 369B.

8. Aristotele, Politico, 1278b.9. Molto significativa, nel Terzo dei Manoscritti economico-filosofici del 44 è la sezione interamente

dedicata a “bisogno, produzione e divisione del lavoro”: «Con la massa degli oggetti cresce quindi lasfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenzia-mento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero comeuomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile […]», trad. it. di N. Bobbio,Einaudi, Torino, 1983, p. 127; e ancora: «… questa alienazione si mostra nel fatto che il raffinamentodei bisogni e dei mezzi relativi che avviene per un verso, produce per l’altro verso l’imbarbarimentobestiale, la completa rozza e astratta semplicità del bisogno; o piuttosto essa alienazione riproduce sestessa semplicemente in senso contrario», trad. it. in Marx-Engels, O p e re, vol. III, Editori Riuniti,Roma, 1976, p. 335.

Note Cap. III

227

10. «Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e tra quelli naturali alcunisono anche necessari, altri naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista della felicità,altri allo scopo di eliminare la sofferenza fisica, altri ancora in vista della vita stessa. Una sicura cono-scenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquil-lità dell’anima, dal momento che questo è il fine della vita beata; è in vista di ciò che compiano lenostre azioni, allo scopo di sopprimere sofferenze e perturbazioni», Epistola a Meneceo, 127-128, trad.it. di M. Isnardi Parente, in Epicuro, Opere, II ed., Torino, 1983, pp. 199-200.

11. Epistola a Meneceo, cit., 131, p. 201.

12. S. Agostino, De civitate Dei, 26-27.

13. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, I, l. I, 1788, c. 2.14. George W.F. Hegel, Filosofia del diritto, 1821, par. 189-190.

15. «La vie sociale nous apparaît comme un système d’habitudes plus o moins fortement enracinées quirépondent aux besoins de la communauté», in Les deux sources de la morale et de la religion, PUF,Paris, 1932, p. 2.

16. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976 (I ed. orig. 1927), par. 42.17. Paul Ricoeur, Philosophie de la volonté, I, Paris, 1950, p. 86.

18. Cit. da Jean Wahl, Études kierkegaardiennes, Paris, 1938, pp. 700-701.19. Basti il riferimento a Gregory Bateson, Verso una ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1977, e

Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984.

20. Alfredo Margarido e Nathan Wachtel, Bisogno, in Enciclopedia Einaudi, vol.II, Torino, 1977, p. 262.21. Luigi M. Verzé, La fede si fa opera, Europa Scienze Umane ed., Milano, 1995, p. 338, corsivo nostro.

22. C f r. Duilio F. Manara, “L’infermiere e il dolore dell’altro. Alcune riflessioni alla luce dellaDisciplina infermieristica e dell’Antropologia”, Atti del Corso di aggiornamento A N I N U n asfida per chi assiste: il dolore come fenomeno umano, Varese, 21 marzo 1997. Vedi anche DuilioF. Manara, “L’infermiere e il dolore dell’altro: Una sfida alla Disciplina infermieristica”, Atti delIII Congresso Nazionale infermieristico sul Dolore e l’assistenza i n f e r m i e r i s t i c a , SocietàItaliana dei Clinici del Dolore, villa Erba, Cernobbio, Como 26-27-28 novembre 1998, pp. 54-64 e Paolo C. Motta, “Personalizzazione dell’assistenza infermieristica e dolore: un inquadra-mento metodologico”, Atti del III Congresso Nazionale infermieristico sul Dolore e l’assistenzai n f e r m i e r i s t i c a, Società Italiana dei Clinici del Dolore, villa Erba, Cernobbio, Como 26-27-28novembre 1998, pp. 65-80.

23. C f r. Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli,Milano, 1995 (I ed. 1986), p. 24. Dello stesso autore si veda inoltre S. Natoli “Prefazione”, in NormanAutton, Vi n c e re il dolore. Farmaci e presenza umana, Città Nuova Editrice, Roma, 1989 (I ed. orig. 1986);S. Natoli, “La costituzione dello sguardo medico”, in A a . V v, Nuovi saggi di medicina e scienze umane, Ist.Scientifico H San Raffaele, Milano, 1985.

24. Eschilo, Coef., vv. 1018-1019.

25. Salvatore Natoli, op. cit., p. 21, corsivo nostro.26. Edouard Boné, “L’ e m e rgere dell’H o m o s a p i e n s nella natura”, K o s, n. 89, febbraio 1993, p. 25.

27. Salvatore Natoli, op. cit., pp. 266ss.28. Salvatore Natoli, op. cit., pp. 264-266, corsivo nostro.

29. Salvatore Natoli, op. cit., p. 271, corsivo nostro.30. Bachtin osservava incidentalmente che “soltanto dagli altri sono popolati tutti i cimiteri”. Cfr. Michail

Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, C. Strada Janovic, ed., Einaudi, Torino,1988, p. 100.

31. «La vita degli uomini oggi si svolge tra la nostalgia dell’uomo originario e l’avvento dell’uomo artifi-ciale. Agli uomini contemporanei non è data altra possibilità se non quella di commisurarsi con le bar-riere del proprio tempo nello sforzo di oltrepassarle, portandosi dietro almeno le proprie speranze.Secondo le parole di Eschilo: “È dolce stendere lunga la vita\ fra intrepide speranze\ inebriando di seren e

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

228

gioie l’anima” (P ro m., vv. 536-538)». Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore , op. cit., pp. 270-274:sono le ultime righe del libro.

32. Ida Magli, Introduzione all'antropologia culturale, Laterza, Bari, 1983, p. VI.33. È questo il significato che Margaret Mead, nota antropologa americana dà al termine cultura: «Cultura

indica l’insieme complesso del comportamento tradizionale sviluppatosi dalla razza umana e successi-vamente appreso da ogni generazione. Una cultura è un termine meno preciso: può indicare le formedi comportamento tradizionale che sono caratteristiche di una data società, oppure di un gruppo disocietà, oppure di una data razza o di una data area o di un dato periodo di tempo». Cfr. ClydeKluckhohn, Alfred Kroeber, Il concetto di cultura, Il Mulino, Bologna, 1952, (I ed. orig. 1952).

34. Antonio Perotti, Petit lexique anthropologique et sociologique de l’Immigration, in Conseil de l’Europe,R a p p o rt final du groupe de projet, n. 7 “L’éducation et le développement culturel des migrants”,D E C S / E G T(86), 6 def, Conseil de l’Europe, Strasbourg, 1986, s v “ C u l t u r e ” .

35. Franz Boas, citato in R.L. Beals, H. Hoijer, I n t roduzione all’antropologia culturale, Il Mulino,Bologna, 1970 (I ed. orig. 1953), p. 622.

36. Il relativismo culturale è un atteggiamento pratico ed un’opzione teorica postulata da Melville J.Herskovits, antropologo statunitense, che su questi principi, presentò nel 1947 una “raccomandazione”all’ONU per il rispetto delle culture dei diversi popoli e dei loro valori. Scrive B. Taylor: «uno dei temipiù cari agli antropologi è quello del relativismo culturale, che consiste nel percepire e intendere ognielemento, o aspetto di una cultura, ponendolo in relazione col contesto culturale di cui fa parte. [...] Ilrelativismo culturale, come maniera di interpretare i costumi, evita le distorsioni e le incomprensionidovute ad un punto di vista eccessivamente etnocentrico». Cfr. Robert B. Taylor, Elementi di antropo -logia culturale, Il Mulino, Bologna, 1972, (I ed. orig. 1969), pp. 74-75.

37. Cfr. R.L. Beals, H. Hoijer, op. cit., p. 71.76.38. Per l’opera di Cliffort Geertz si rimanda a The interpretation of culture, Basic Books, New York, 1973,

trad. it. Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna, 1987. Local knowledge. Further essays in inter -pretative anthropology, Basic Books, New York, 1983, trad. it. Antropologia interpretativa, Il Mulino,Bologna, 1988. After the facts: Two contries, four decades, one anthro p o l o g i s t, Harvard UniversityPress, Cambridge, Mass, 1995, trad. it. Oltre i fatti: due culture, quattro decenni, un antropologo, IlMulino, Bologna, 1995.

39. Antonio Perotti, Petit lexique anthropologique et sociologique de l’Immigration, op. cit., sv “Identitéculturelle”, corsivo aggiunto. Nonostante l’identità c u l t u r a l e, soprattutto in materia d’immigrazione,sia spesso riportata all’identità etnica, quest’ultima ha una concezione più ristretta. Essa è in effetti, ilriferimento ad una storia o ad un’origine comune simbolizzata da un’eredita comune ma che nonriguarda, di fatto, che un frammento della cultura del gruppo. «L’identità culturale - scrive ancoraPerotti - si distingue dall’identità etnica, coscienza collettiva di un gruppo fondato su dati obiettiviquali la lingua, la storia, la razza, la religione. Vi è uno scarto più o meno pronunciato ma sempre realetra identità etnica e identità culturale. L’identità etnica è il primo momento dell’identità culturale.Ridurre l’identità culturale all’identità etnica equivale a ridurre l’identità culturale ad una sola delleidentità significative che gli individui e i gruppi possiedono e condurrebbe all’annientamento dell’i-dentità reale dell’individuo, identità che è un’entità multidimensionale. Il problema dell’identità etnicasorge quando il gruppo etnico entra in contatto con altri gruppi e quando i sistemi culturali corrispon-denti si confrontano». Antonio Perotti, “Il pluralismo culturale in Europa e i suoi processi educativi”,in AaVv, Legalità e solidarietà in un’Europa interculturale, Commissione Ecclesiale Giustizia e Pacedella C.E.I., EDB, Bologna, 1993, pp. 167-168.

40. Antonio Perotti, La via obbligata all’interc u l t u r a l i t à , EMI, Bologna, 1994, pp. 166-167, corsivonostro. Del prof. Perotti segnaliamo inoltre: “L’educazione interculturale nelle esperienze delConsiglio d’Europa”, in AaVv, Verso una società interculturale, Atti del Convegno CELIM-Bergamo,26-10-1991, pubblicazione fuori commercio; “Immigrazione, società pluriculturale e processi educativiin Europa”, in Angelo Negrini, ed., Migrazioni in Europa e formazione interculturale. L’educazionecome rapporto tra identità e alterità, EMI, Bologna, 1997.

41. Cfr. B. Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, Milano, 1988, (I ed. orig. 1987).

Note Cap. III

229

42. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri eincontri multiculturali, Giunti, Firenze, 1998, pp. 60ss.

43. Cfr. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile, op. cit., pp. 117ss. 44. Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità, Il Mulino, Bologna, 1995, in particolare i capitoli I-V.

45. Michail Bachtin, The dialogic imagination, The University of Texas Press, Austin, 1981.46. Al proposito vedi anche Jerome Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale,

Bollati Boringhieri, Torino, 1992, (I ed. orig. 1990). Per Bruner, «la validità di una cultura consistenella sua capacità di risolvere i conflitti, di comporre le differenze e di rinegoziarne i significati sociali.La “negoziazione dei significati”, che gli antropologi sociali o gli storici della cultura consideranoessenziale per mantenere viva una cultura, può avvenire grazie alle strutture della narrazione deputate atrattenere simultaneamente le categorie della canonicità e dell’eccezionalità. Così, oltre a disporre diun insieme di norme, una cultura deve anche disporre di un sistema di pro c e d u re interpre t a t i v e l equali, in caso di scostamenti dalle norme, possano assegnare loro dei significati secondo determinaticanoni di credenze. È dalla narrazione e dall’interpretazione della narrazione che la psicologia popola-re dipende per acquisire questo tipo di significato. I racconti acquisiscono i loro significati in quantospiegano in forma comprensibile le deviazioni dall’usuale, fornendo [una] “logica impossibile” [...]. Lafunzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensi -bile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico».

47. Per i Bwa del Mali, Africa occidentale, se la donna vuole avere ancora dei figli, deve seppellire la pla-centa con le “radici” - la faccia materna - rivolta verso la terra. Se, al contrario, non vuole più generare,le “radici” devono essere rivolte verso l’alto. Cfr. Madeleine Dakouo, Duilio F. Manara, “Grossesse”,“Accouchement” e “Fécondité”, in A a V v, Santé, Nutrition, Fécondité, dans la région de San etTominian: Une étude socio-nutritionnelle et sanitaire du milieu, 2 Tomes, pubblicazione a cura dellaDiocesi di San e dell’INRSP(Institut National de Recherche en Santé Publique), Mali, 1993.

48. Bronislaw Malinowski, A scientific theory of culture and other essays, University of North CarolinaPress, Chapel Hill N.C., 1944, trad. it. Una teoria scientifica della cultura ed altri saggi, Feltrinelli,Milano, 1962, p. 83.

49. Bronislaw Malinowski, op. cit., pp. 95-96.50. Bronislaw Malinowski, op. cit., p. 82, corsivo nostro.51. Karl-Siegbert Rehberg, “Introduzione” a Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel

mondo, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 19 (I ed. orig. 1940), corsivo nostro.

52. Arnold Gehlen, op. cit.,p. 88.53. Arnold Gehlen, op. cit.,p. 380, corsivo nostro.54. Carlo Tullio Altan, Antropologia, storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1989, pg. 206.

55. Malinowski Bronislaw, op. cit., pp. 962-963.56. Carlo Tullio Altan, op. cit., p. 89-90, corsivo nostro.

57. R.L. Beals, H. Hoijer, op. cit., p. 82. 58. Vedi Tullio Seppilli, “Antropologia medica: fondamenti per una strategia”, Antropologia medica, n. 1-

2, ottobre 1996, pp. 7-22.59. Ivan Illich, Nemesi medica, l'espropriazione della salute, RED, Como, 1977, p. 132.

60. Alcuni passaggi di questo paragrafo hanno trovato spunto e conforto nel lavoro della collega LuciaColombi, Analisi bibliografica del concetto di bisogno, tesi di diploma S U D I, aa 1990-1991.

61. Abraham Maslow, Motivazione e Personalità, Armando Armando, Roma, 1973, (I ed. orig. 1954), pp. 11 . 1 3 .62. Abraham Maslow, op. cit., pp. 106ss.

63. «Forse - scrive Maslow relativamente alle eccezioni alla gerarchia dei bisogni - le più importanti diqueste eccezioni sono quelle in cui entrano in gioco ideali, alti modelli sociali, alti valori e cose simili.Per questi valori si è pronti a subire il martirio; si rinunzia ad ogni cosa per un ideale o valore partico-lare». Abraham Maslow, op. cit., p. 108.

64. Abraham Maslow, op. cit., p. 131, corsivo nostro.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

230

65. Un esempio abbastanza noto è quello degli Ik descritto in Colin M. Turnbull, Il popolo dellamontagna, Rizzoli, Milano, 1977 (I ed. orig. 1972). Questa popolazione subì negli anni sessanta unaserie di carestie e di shock culturali causati dalla colonizzazione e spinse i suoi membri ad una sorta disopravvivenza per la sopravvivenza dove anche i rapporti parentali più stretti vennero intaccati a talpunto che gli Ik, senza più alcuna regola morale e sociale, rubavano a chiunque, si prostituivano appe-na potevano, ed abbandonavano a se stessi gli ammalati e i vecchi, o i bambini a partire dai tre anni.

66. Abraham Maslow, op. cit., p. 70, corsivo nostro.67. Abraham Maslow, op. cit., p. 85.68. Abraham Maslow, op. cit., pp. 94-95.69. Ai giorni nostri non si sottovaluta più come negli anni settanta il bisogno di appartenenza: non dopo le

guerre tra gang di adolescenti nelle metropoli statunitensi o i tragici fatti relativi a sette sataniche. 70. Abraham Maslow, op. cit., p. 99.71. Abraham Maslow, op. cit., p. 42772. Abraham Maslow, op. cit., pp. 104-105.73. Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1993, sv “Bisogno”, p. 76. Ricordiamo che

Gallino ha anche pubblicato un’importante saggio sulla relazione e possibile comunicazione tra i diver-si ambiti delle scienze naturali e quelli delle scienze sociali ed umane. Luciano Gallino, L’ i n c e rt aall’alleanza. Modelli di relazione tra scienze umane e scienze naturali, Einaudi, Torino, 1992.

74. Luciano Gallino, op. cit., p. 77, corsivo nostro. 75. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, in Pierpaolo Donati, ed, La

sociologia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 1983, pp. 297-298.76. Pierpaolo Donati, ed, op. cit., p. 35. Vedi anche Assunto Quadrio, Paola Di Blasio, Da malato a paziente.

Il cambiamento nel bisogno di assistenza sanitaria, Vita e Pensiero, Milano, 1981.77. Pierpaolo Donati, ed, op. cit., p. 54, corsivo nostro.78. Cfr. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, op. cit., pp. 299-307.79. Vincenzo Bonandrini, Dalla parte della gente, Ed. Villadiseriane, Villa di Serio, Bergamo, 1995,

p p. 59-60, corsivo nostro.80. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, op. cit., p. 304.81. Che rimanda ai lavori di A. Schutz e della sua scuola; in particolare A. Schutz, Saggi sociologici, Utet,

Torino, 1979.82. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, op. cit. pp. 304-305.83. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, op. cit., p. 305. Vedi anche

Michael Ignatieff, I bisogni degli altri , Il Mulino, Bologna, 1986, e lo schema concettuale proposto daAchille Ardigò, “Introduzione alla sociologia della salute”, in A. Ardigò, ed, Per una sociologia dellas a l u t e, Franco Angeli, Milano, 1981, pp. 14ss. Infine, vedi anche A. Ardigò, Società e salute.Lineamenti di sociologia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 1997, in particolare il paragrafo nel qualeArdigò richiama la contrapposizione proposta da Husserl sul “Mondo-della-vita” contrapposto al“Mondo-vero-in-sé” della scienza (pp. 189ss), ed il paragrafo sul “sistema sanitario italiano ed i suoimodelli evolutivi”, dove Ardigò avanza tra l’altro interessanti considerazioni sulla difficile relazionetra domanda (bisogni) dell’infermo e dei suoi familiari ed offerta (Servizio sanitario) all’interno dellapolitica sanitaria italiana (pp. 273ss).

84. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, in P. Donati, ed., La sociolo -gia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 1983, p. 308. Di Pierpaolo Donati vedi anche il Manuale di socio -logia sanitaria, NIS, Roma, 1987 e La cura della salute verso il 2000, Franco Angeli, Milano, 1989.

CAPITOLO QUARTO

1. Come si noterà, questo schema richiama da vicino l’impostazione oremiana assunta dal P roject deR e c h e rche pour le Nursing canadese, così come modificata dal Modello delle prestazioni infermieristiche.

Note Cap. IV

231

Cfr. Duilio F. Manara, Il Modello delle prestazioni infermieristiche e la risposta personalizzata agliaspetti culturali dell’Assistenza infermieristica, Tesi di diploma SUDI, aa 1992/1993, pp. 92ss.

2. Cogliamo l’occasione per sottolineare la diversa portata concettuale che viene data all’espressione“bisogno di vivere” rispetto al significato del concetto di “bisogno di vita”. Il bisogno di assistenzainfermieristica è palesemente un bisogno di vivere dell’uomo, in quanto non mobilita unicamente laforza vitale, “la vita” in sé, ma anche la partecipazione fattiva ed interagente dell’uomo con il suoambiente, i suoi affetti, la sua storia, ed inoltre la capacità, la forza e l’impegno nello sviluppare lerisorse di sussistenza che ha a disposizione.

3. C f r. Luigi M. Verzé, La fede si fa Opera, Europa Scienze Umane Editrice, Milano, 1995, p. 8.

4. OMS, Prima Conferenza mondiale sulla promozione della salute, Ottawa, Ontario, Canada, 1986,c o rsivo aggiunto.

5. Cfr. H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., p. 100; I. Illich, Nemesi medica, l’espropria -zione della salute, RED, Como, 1991 (I ed. orig. 1976), p. 84, 153. Una concezione così estrema dellasalute può essere ritrovata in molti autori già citati. Tra gli altri si vedano N. Elias, La solitudine delm o re n t e , Il Mulino, Bologna, 1985 (I ed. orig. 1982); P. Cattorini, Malattia e Alleanza , Pontecorboli,Firenze, 1994; M.F. Collière, Promouvoir la vie, de la pratique des femmes soignantes aux soins infir -miers, Paris, Inter-Editions, 1982, trad. it. Aiutare a vivere, dal sapere delle donne all’assistenza infer -mieristica, Sorbona, Milano, 1992.

6. Donald W.Winnicot, Through paediatrics to psycho-analysis, 1958, trad. it. Dalla pediatria alla psico -nalisi, G. Maritinelli Ed., Firenze, 1975. Per quest’ultimo aspetto vedi i lavori di Fulvio Scaparro, ades. in “Bene accogliere è già curare”, Convegno ABIO 1997, I percorsi dell’accoglienza, Milano, 17novembre 1997. Vedi anche il classico John Bowlby, Soins maternelle et santé mentale, trad. it. Curematerne e igiene mentale nel fanciullo, Giunti Barbera, Firenze, 1957.

7. Umile, tutt’altro che schizzinoso ma compassionevole (in senso etimologico), un po’ filosofo un po’mistico ma pratico e concreto, riflessivo ma realista, sensuale e silenzioso, già preparato alle separazionidella vita e alla morte, immediato, equilibrato e discreto, aperto all’alterità, molto morale (a modo suo),libero e autonomo, serio ed autoironico… cfr. A. Maslow, Motivazione e personalità, A r m a n d oArmando, Roma, 1973, (I ed. orig. 1954), cap. X I.

8. Oltre agli autori citati nel secondo capitolo vedi anche Milton Mayeroff, On Caring, Marper and Row,New York, 1971, p. 35. Chris Gastmans, Bernadette Dierckx de Casterle, Paul Schotsmans, “Nursingconsidered as moral practice: a philosophical-ethical interpretation of nursing”, Kennedy Institute ofEthics Journal, n. 1, 1998, pp. 43-69: 50. Carol R. Ta y l o r, “Reflections on ‘Nursing considered asmoral practice’”, Kennedy Institute of Ethics Journal, n. 1, 1998, pp. 71-82.

9. Si veda ad esempio l’autorevole Jerome Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia cultura -le, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, I ed. orig. 1990.

10. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri eincontri multiculturali, Giunti, Firenze, 1998, pp. 197ss; dello stesso autore vedi anche Comunicazionee identità, Il Mulino, Bologna, 1995; L’interazione uomo-computer, Il Mulino, Bologna, 1995.

11. Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità, op. cit., p. 79.

12. Il racconto è tratto dal libro Norman Auton, Parlare non basta. L’importanza del contatto fisico e dellavicinanza nelle relazioni di cura , E.D.T., Torino, 1992 (I ed. orig. 1989), pp. 88-89, corsivo nostro. DiAutton vedi anche Vincere il dolore. Farmaci e presenza umana , Città Nuova Editrice, Roma, 1989 (Ied. orig. 1986).

13. Milton Mayeroff, On Caring, op. cit., p. 1; sono le prime parole del libro. Per Mayeroff, d’altro canto,le principali componenti dell’assistenza sono “Knowing; Alternating rhythms; Patiens; Honesty;Trust; Humility; Hope and Courage”.

14. Jacqueline Fawcett, Analysis and Evaluation of Conceptual Models of Nursing, 3rd ed., Davis Co.,Philadelphia, 1995.

15. Karl R. Popper, “Models, instruments, and truth. The status of the rationality principle in the social sciences”,1963, in Karl R. Popper, Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 222.

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

232

16. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., pp. 77-78. Cfr. anche Hans-Georg Gadamer“Hermeneutik als praktische Philosophie”, trad. it. “L’ermeneutica come filosofia pratica”, in La ragio -ne nell’età della scienza, a cura di E. Rega, A. Fabris, Il Melangolo, Genova, 1982, p. 72.

17. Vedi Carsten Dutt, Dialogando con Gadamer, op. cit., in particolare la sezione “Filosofia pratica”,pp. 77ss. Corsivo nostro.

18. Aristotele, Etica Nicomachea, 1140b 30, trad. it. Di A. Plebe, op. cit., p. 586.

19. Quanto alla presunta “Crisi”, è bene ricordare l’etimologia di questa parola. Essa deriva dal grecoKrísis e significa “scelta, decisione”, e a sua volta deriva da Krínein, ossia “distinguere, dirimere”. Lacrisi è tale perché si rivela come uno sforzo di distinzione tra scelte diverse quando non opposte.Seppur in maniera diversa, tali scelte investono tutti i livelli della professione (dal singolo infermierealla caposala e al direttore del Servizio) e tutte le istituzioni professionali (dal Collegio allaFederazione nazionale alla singola Università o associazione di categoria).

20. Cfr. ad es. Norberto Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli Editore, Roma, 1994, pp. 63-64ss. NorbertoBobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 157-158.

21. Norberto Bobbio, Destra e Sinistra, op. cit., p.64.22. Pierre-André Taguieff, La Forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino,

Bologna, 1994, p. 185. Sul pregiudizio in generale vedi l’ormai classico C. Allport, The nature ofprejudice, Addison Wesley, Reading, Mass., 1954, trad. it. La natura del pregiudizio, La Nuova Italia,Firenze, 1973.

23. Cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, op. cit . , pp. 127-130.24. Vittorio Luigi Castellazzi, “Il conosciuto non pensato. Le radici psicoanalitiche del pensiero prevenuto”,

Orientamenti pedagogici, numero monografico Il pensiero prevenuto e l’educazione alla solidarietà,Anno XXXVIII, marzo-aprile 1991, n. 2, pp. 369-370, corsivo nostro.

25. Cit. da Ivana Gobbi, Percorsi di antropologia culturale, ISU, Milano, sd, p. 11, corsivo nostro.26. Gaetano Salvemini, Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze, 1948; ristampa in Opere scelte, corsivo

nostro. Cfr. Dario Antiseri, I n t roduzione alla metodologia della ricerc a, Società EditriceInternazionale, Torino, 1986, p. 90.

27. Cfr. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino, 1992 (I ed.orig. 1982), p. 225.

28. L’effetto Pigmalione, come d’altro canto l’effetto Hawthorn e l’effetto edipico della predizione, sonotutti errori tipici dell’osservazione dovuti alla persona dell’osservatore. Al riguardo vedi ad esempioSoresi Salvatore, Guida all’osservazione in classe, Giunti Barbera, 1978, pp. 37ss. L’effetto citato neltesto è esplicitamente in riferimento alla famosa ricerca di R. Rosenthal, L. Jacobson, Pygmalion in theClassroom, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1968.

29. Per Todorov la stessa riflessione andrebbe sviluppata per la carità cristiana o della pietà rivolta aideboli o ai vinti: «così come risulta un abuso dichiarare che qualcuno ha ragione semplicementeperché è il più forte, sarebbe ingiusto affermare che i deboli, proprio a causa della loro debolezza,meritano sempre la nostra simpatia; una condizione temporanea, un accidente della storia si trova-no elevati al rango di tratto costitutivo. Per parte mia - conclude Todorov - penso che la pietà e lac a r i t à , la tolleranza e la xenofilia non devono essere scartate in modo radicale, ma che il loroposto non si situa all’interno dei principi su cui si fonda il giudizio. Se condanno le camere a gas oi sacrifici umani, non è in relazione a simili sentimenti, ma in nome di principi assoluti che recla-mano, per esempio, l’uguaglianza di diritto di tutti gli esseri umani o il carattere inviolabile dellaloro persona». Tzvetan To d o r o v, Le morali della storia, Einaudi, Torino, 1995, (I ed. orig. 1991),pp. 119-120, corsivo nostro.

30. Vedi Abraham Maslow, op. cit., pp. 413ss.31. Jean-François Malherbe, “L’uomo di fronte alla problematica del normale e del patologico”, Kos, n.

37, p. 16, commento a Canguilhem G., Le normal et le pathologique, Paris, 1966. Dello stesso autorevedi anche “La centralità dell’uomo nella problematica del normale e del patologico”, in PaoloCattorini, ed., Scienza ed Etica nella centralità dell’Uomo, Franco Angeli, Milano, 1990. Per un’etica

Note Cap. IV

233

della medicina , Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1989. “La medicalizzazione della vita e la resi-stenza della parola”, in A a V v, N a s c e re, amare, morire. Etica della vita e famiglia, o g g i, a cura diSandro Spinsanti, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 59-81.

32. La relazione tra cultura e alimentazione può essere approfondito nei classici Claude L. Levi-Strauss, Ilcrudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1966. Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto econsuetudini alimentari, Einaudi, Torino, 1990 (I ed. orig. 1985).

33. C f r. Madeleine Dakouo, Duilio F. Manara, “Grossesse”, “Accouchement” e “Fécondité”, in A a V v,Santé, Nutrition, Fécondité, dans la région de San et Tominian: Une étude socio-nutritionnelle et sani -taire du milieu, 2 Tomes, pubblicazione a cura della Diocesi di San e dell’INRSP (Institut National deRecherche en Santé Publique), Mali, 1993.

34. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, op. cit., pp. 60-61.

35. «Gli Etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuno e sono neri,/ i Traci invece che hanno gli occhiazzurri e i capelli rossi./ Ma se i bovi i cavalli e i leoni avessero le mani, e potessero disegnare/ e scol-pire come gli uomini, simili ai cavalli il cavallo/ raffigurerebbe gli dèi / simili ai bovi il bove, e farebbeloro/ dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro».

36. Erodoto, Storie.

37. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Torino, 1991(I ed. orig. 1989), p. 9.

38. Cfr. Ines Genovesi, “Immigrazione e salute: gli aspetti culturali dei bisogni umani: la ricerca, la forma-zione, l’intervento”, Prospettive sociali e sanitarie, n. 18, 15 ottobre 1995, pp. 6-15.

39. Michel de Montaigne, Les Essais, 1588, corsivo nostro.40. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, op. cit., pp. 45-46.

41. Tzvetan Todorov, Le morali della storia, op. cit., p. 123.42. C f r. Predrag Matvejevic, “Il richiamo della tribù”, La voce, giovedì 1 settembre 1994. Dello stesso

autore sempre sulle tematiche delle identità nazionali e delle ideologie europee, vedi Mondo “ex”,Garzanti, Milano, 1996.

43. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, op. cit., pp. 453-456, corsivo aggiunto.

44. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, op. cit., p. 17, corsivo aggiunto.45. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, op. cit., pp. 456-458, corsivo aggiunto. 46. Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, op. cit., p. 479.

47. C f r. Perotti Antonio, Petit lexique anthropologique et sociologique de l’Immigration, in Conseil del’Europe, R a p p o rt final du groupe de projet, n. 7 “L’éducation et le développement culturel desmigrants”, DECS/EGT(86), 6 def, Conseil de l’Europe, Strasbourg, 1986.

48. Philippe e Stéphane Vigand, Prigioniero del silenzio, Rizzoli, Milano, 1998.49. Alessandro Alimenti, “Pregiudizio e identità personale e socio-culturale di fronte ai processi innovati-

vi. L’approccio antropologico”, Orientamenti pedagogici, numero monografico Il pensiero prevenuto el’educazione alla solidarietà, Anno XXXVIII, marzo-aprile 1991, n. 2, pp. 267-284. Sul tema dell’al-terità e dell’identità vedi anche i già citati saggi di Giuseppe Mantovani Comunicazione e identità, op.cit.; e L’elefante invisibile, op. cit.

50. Cfr. a titolo di approfondimento Oscar Beozzo, Felix Wilfred, eds., La trasgressione delle frontiere -inizio di nuove identità?, C o n c i l i u m, Ed. Queriniana, Brescia, n. 2 1999, in particolare i capitoli diYves Cattin, “L’uomo, l’essere che passa le frontiere”, di Felix Wilfred, “L’arte di negoziare i confini”e di Jacques Audinet, “Frontiere del corpo, frontiere sociali”.

51. Florence Nightingale, Notes on Nursing. What it is and what it is not, trad. it. Cenni sull’assistenzadegli ammalati, a cura dell’Associazione Regionale delle Infermiere/i e altri Operatori Sanitario-Sociali (CNAIOSS), Milano, 1980, cap. III.

52. Cfr. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, op. cit., p. 191.

53. Warren T. Reich, “Curare e prendersi cura. Nuovi orizzonti dell’etica infermieristica”, L’ A rco di Giano,10, gennaio-aprile 1996, pp. 9-24: 12, corsivo nostro. Vedi anche Duilio F. Manara, Roberta S a l a ,

Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

234

“Libertà ed autonomia dell’infermiere. Appunti sul mansionario”, Nursing Oggi, n. 4, 1998, pp. 14-19e Paolo C. Motta, “Implicazioni etiche nella responsabilità professionale”, Atti del Corso di aggiornamen-to Collegio I PA S V Idi Lecco, L’ i n f e r m i e re e la responsabilità pro f e s s i o n a l e, Lecco, 12 dicembre 1998.

54. «Il soggetto - scrive Sini - è soggetto dei saperi. E possiamo aggiungere, penetrando in questa sorta difenomenologia minimale: non c’è soggetto senza saperi. Il soggetto è sempre colui che sa qualcosa.[…] Ma abbiamo detto bene [...] quando abbiamo detto “il soggetto è sempre soggetto di una serie disaperi”? o non dovremmo dire piuttosto e più esattamente che l’essere soggetto è anzitutto essere sog-getto al sapere? [...] Noi pensiamo sempre il soggetto come il padrone dei suoi saperi, come l’attivavolontà o istanza del sapere; ma non pensiamo all’altro aspetto che è più antico, più originario e piùoscuro: che essere soggetti vuol dire essere soggetti a un sapere, essere soggetti a tutto ciò che si sa eche si fa. Il soggetto è dunque sempre un intreccio inestricabile di saperi, ma anche in quanto, e soprat-tutto in quanto è originariamente soggetto a questi saperi». Carlo Sini, Pensare il progetto, TranchidaEd., Milano, 1992, pp. 15-16.

55. Scrive al proposito Sini: «Se ognuno si ponesse sul serio la domanda “ma come so ciò che so inverità?” non potrebbe che rispondere, credo, con le parole di James: “Ogni sapere è fondato sulla fidu -cia nel sapere di un altro ”. Non vi è dubbio: ciò che credo di sapere si fonda sulla fede nel sapere di unaltro; il quale però non ha fatto altrimenti da me, si è fondato sulla fede circa il sapere di un altro, e cosìvia». Carlo Sini, P e n s a re il progetto, op.cit., p. 18.

56. È noto che per Carl Rogers i dieci punti della relazione-centrata-sul-paziente possono essere riassunti conaltrettante auto-interrogazioni del terapeuta a sé stesso: «1° - Sono in grado, io come individuo, di esserepercepito dall’altra persona come “congruente”... il che significa che qualunque sentimento o atteggia-mento proverò, sarà sempre accompagnato dalla mia consapevolezza di esso? 2° - Sono capace di espri-mermi in modo sufficientemente chiaro con l’altra persona, così da riuscire a comunicare senza ambiguitàchi sono io? 3° - So sperimentare atteggiamenti positivi verso quest’altra persona, atteggiamenti di calore,di protezione, di simpatia, di interesse, di rispetto? 4° - Sono abbastanza forte come persona da restareseparato dall’altra persona, cioè da mantenere la m i a individualità? 5° - Mi sento abbastanza sicuro di mestesso così da permettere all’altra persona una s u a esistenza separata? 6° - Sono in grado di addentrarminel suo mondo privato così completamente da perdere ogni desiderio di valutare e giudicare tale mondo?7° - Sono capace di accettare tutti gli aspetti che l’altra persona mi presenta? So riceverla così com’è? 8° -So agire nel rapporto interpersonale con sufficiente sensibilità perché il mio comportamento non vengapercepito come una minaccia? 9° - Sono in grado di liberare l’altra persona dalla paura della valutazioneesterna? 10° - So valutare l’altra persona come una entità che sta vivendo un processo di sviluppo, o invecenon so staccarmi dal suo e dal mio passato? Se riesco a considerare l’altro come una persona che vive unprocesso di sviluppo, allora sono anche in grado di confermare o realizzare le sue potenzialità. In caso con-trario non faccio che considerare l’altro come un oggetto meccanico manipolabile». Vedi le principaliopere di Carl R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, G. Martinelli, Firenze, 1989 (I ed. orig. 1961). U nmodo di essere, G. Martinelli, Firenze, 1983 (I ed. orig. 1980). L i b e rtà d’appre n d i m e n t o, Giunti-Barbera,Firenze, 1973 (I ed. orig. 1969). La citazione è riportata anche in A a Va, P rofessione formazione, a curad e l l ’ A I F, Associazione Italiana Formatori, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 377.

57. Elisabeth Kübler-Ross, On Death and Dying, 1969, trad. it. La morte e il morire, Cittadella Editrice,Assisi, 1977, p. 27.

58. Elisabeth Kübler-Ross, op. cit., p. 18, corsivo nostro. Della stessa autrice, vedi anche About Death AndLife After Death, 1983, trad. it. La morte e la vita dopo la morte, Ed. mediterranee, Roma, 1991; Deathis of vital importance, 1995, trad. it. La morte è di vitale importanza, Armenia, Milano, 1997.

59. Norman Autton, Parlare non basta, op. cit., p. 66.60. Norman Autton, Parlare non basta, op. cit., pp. 59-60.61. Sergio Piasentin, L’accompagnamento alla morte nella relazione infermiere-malato morente in ospe -

d a l e , Tesi di diploma D.U.S.I., Università degli Studi di Milano, aa 1997-1998. Vedi anche Serg i oPiasentin, “Decalogo sulla morte. L’accompagnamento alla morte nella relazione tra infermiere e mala-to morente in ospedale”, relazione al seminario omonimo tenutosi al D.U.I. dell’Università Vita-SaluteSan Raffaele, lunedì 26 aprile 1999, pro manuscripto.

Note Cap. IV

235

62. Cfr. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile, op. cit., pp. 198-200.63. «Il grande momento per la comprensione è l’e s s o t o p i a del comprendente, il suo trovarsi fuori nel

tempo, nello spazio, nella cultura rispetto a ciò che egli vuole creativamente comprendere - scriveBachtin, e aggiunge: - Nel campo della cultura l’essotopia è la più possente leva per la comprensione.Una cultura altrui soltanto agli occhi di un’altra cultura si svela in modo più completo e profondo».Cfr. Tzvetan Todorov, Le morali della storia, op. cit., p. 23.

64. Tzvetan Todorov, Le morali della storia, op. cit., pp. 38-40.65. Si veda Duilio F. Manara, “L’infermieristica interculturale”, in Nicola Pasini, ed., Immigrazione salute:

le questioni emerg e n t i, Fondazione Cariplo I.S.M.U., Quaderni I.S.M.U., in corso di stampa.“L’assistenza infermieristica di fronte all’alterità culturale”, Prospettive sociali e sanitarie, n. 22, 1995,pp. 10-14. Sintesi della relazione omonima tenuta al Convegno Dalla salute degli immigrati all’infer -mieristica interculturale, Casalmaggiore, Cremona, 23 novembre 1995. “Gli aspetti culturali dell’assi-stenza infermieristica”, Atti del Convegno L’infermiere e l’altro. Aspetti culturali dell’Assistenza infer -mieristica, Collegio IPASVI di Bergamo, 16 novembre 1994.

66. Lo stesso prefisso inter-culturale - al contrario dei prefissi multi-, pluri-, trans-culturale, i quali merite-rebbero un’attenta distinzione a parte - acquisisce significato di “articolazione fra portatori di culturediverse”. Vedi al riguardo Antonio Perotti, Petit lexique, op. cit.

67. Carmel Camilleri “Les conditions de base de l’interculturel”, in A a V v, Verso una societài n te rc u l t u r a l e, Atti del Convegno CELIM-Bergamo, 26-10-1991, pubblicazione fuori commercio,p p . 33-34, corsivo nostro. Dello stesso autore vedi anche Carmel Camilleri, Edgard M. Cohen, eds,Choc de cultures: concecpts en enjeux pratiques de l’interculturel, L’Harmattan, Paris, 1989. CarmelCamilleri “L’image dans la cohabitation de groupes étrangers en relation inégalitaire”, C a h i e r sInternational de Sociologie, vol LIX, 1975.

68. Rispetto al suo significato di uso comune, per lo più di connotazione negativa, il termine compromessonella sua accezione etimologica deriva dal latino com-promissum, “con promessa”, ed è da intendersiin questo contesto come la cessione di una parte delle proprie argomentazioni in funzione della pro-messa di un bene futuro.

69. M. Dakouo, D.F. Manara, “Grossesse”, “Accouchement” e “Fécondité”, op. cit.70. Per una prima disamina del problema vedi Pia Grassivaro Gallo, La circoncisione femminile in

Somalia, Franco Angeli, Milano, 1986; P. Grassivaro Gallo, F. Viviani, eds, Le “mutilazioni sessuali”femminili, Unipress, Padova, 1992; Sirad Salad Hassan, La donna mutilata, Loggia de’Lanzi, Firenze,1996; Sirad Salad Hassan, Sette gocce di sangue, La Luna, Palermo, 1996.

71. Carmel Camilleri, “Les conditions de base de l’interculturel”, op. cit., p. 31.72. Sul problema del principio democratico nel processo interculturale vedi Elio Damiano, “L’ i n t e r c u l t u r a

come occasione di sviluppo”, in A a V v, Verso una società interculturale, op. cit.

73. Cfr. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile, op. cit., pp. 195-196.74. Leon Eisenberg, “Soggetto e oggetto nella grammatica della medicina”, Kos, n. 137, febbraio 1997, pp.

18-25: 25.

75. Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile, op. cit., pp. 195-196.76. Pierpaolo Donati, “Bisogni sociali, salute e Servizio sanitario nazionale”, in P. Donati, ed., La sociolo -

gia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 1983, pp. 308ss.77. Per un’approfondimento di queste tematiche si rimanda a Martin Bulmer, Le basi della community

care. Sociologia delle relazioni informali di cura, Ed. Centro Studi Erickson, Trento, 1992 (I ed. orig.1987), in particolare il capitolo sesto: “L’intrecciamento tra cure formali e informali”. FabioFolgheraiter, Pierpaolo Donati, eds., Community care. Teoria e pratica del lavoro sociale di rete, Ed.Centro Studi Erickson, Trento, 1991.

78. Roberta Sala, Duilio F. Manara, “Libertà ed autonomia dell’infermiere. Appunti sul mansionario”,Nursing Oggi, n. 4, 1998, pp. 14-19. Vedi anche Roberta Sala, Duilio F. Manara, “The regulation ofautonomy in nursing. The italian situation”, Nursing Ethics, n. 6, 1999. Paolo C. Motta, “Implicazionietiche nella responsabilità professionale”, Atti del Corso di aggiornamento Collegio I PASVI di Lecco,

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79. Cfr. Warren T. Reich, “Curare e prendersi cura. Nuovi orizzonti dell’etica infermieristica”, L’Arco diGiano, 10, gennaio-aprile 1996: pp. 9-24: 12.

80. Sembra non ci siano dubbi circa la derivazione del termine latino persona dall’etrusco jersu, che signi-fica “maschera”, esattamente come il greco pròsopon, che letteralmente significa ciò che sta davanti(pros) allo sguardo (opè), cioè l’aspetto, il volto. Dal significato di maschera, comica o tragica, il ter-mine persona è passato poi a significare il personaggio che l’attore rappresenta nel dramma, ovvero ilcarattere, la parte che un uomo sostiene nella società. Cfr. Enrico Berti, “Il concetto di persona nellastoria del pensiero filosofico”, in A a V v, Persona e personalismo, Fondazione Lanza Padova,Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1992, pp. 43-44.

81. C f r. Giovanni Santinello, “Bilancio del personalismo cristiano”, in A a V v, Persona e personalismo,Fondazione Lanza Padova, Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1992, pp. 83-84.

82. Emmanuel Mounier, Gli esistenzialismi, a cura di A. Lamacchia, Ecumenica editrice, Bari, 1981, p. 101.83. Emmanuel Mounier, Le personnalisme, 1950. Cfr. Enrico Berti, “Il concetto di persona nella storia del

pensiero filosofico”, in A a V v, Persona e personalismo, Fondazione Lanza Padova, GregorianaLibreria Editrice, Padova, 1992, p. 60.

84. Per un approfondimento del personalismo sociale di Mounier, si vedano le sue principali opere:Emmanuel Mounier, Révolution personnaliste et communautaire (1934); Manifeste au service du per -sonnalisme, (1936); Introduction aux existentialismes (1946); La petite peur du XX’siècle (1950).

85. Cfr. l’assioma dell’inevitabilità della comunicazione di P. Watzlavick e di J. H. Wekleand.86. Nella Convenzione Internazionale del Bambino (1989), ad esempio, i primi tre diritti sono quelli che

salvaguardano la sua particolarità: il diritto ad avere un nome; il diritto ad una nazionalità; il diritto aduna identità.

87. Jean-François Malherbe, Per un’etica della medicina, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1989 (I ed.orig. 1987), pp. 23-27.

88. Cfr. Dariusch Atighetchi, “La sfida delle nuove tecnologie”, Kos, n. 55, p. 32ss, commento al testo diJean François Malherbe, Per un’etica della medicina, op. cit.

89. Jean-François Malherbe, “La medicalizzazione della vita e la resistenza della parola”, in A a V v,Nascere, amare, morire. Etica della vita e famiglia oggi, a cura di Sandro Spinsanti, Edizioni Paoline,Cinisello Balsamo, 1987, pp. 59-81.

90. Jean-François Malherbe, “La medicalizzazione della vita e la resistenza della parola”, op. cit.,pp. 76-77, corsivo nostro.

91. Umberto Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Saggi Feltrinelli, Milano, 1992, p. 38, corsivo nostro.92. Cfr. Duilio F. Manara, “Dall’Uomo all’uomo: la personalizzazione dell’Assistenza”, Atti del Convegno

Etica infermieristica: l’infermiere al servizio dell’uomo, Collegio I PA S V I di Bergamo, 18 giugno1994, p. 12.

93. Duilio F. Manara, Il Modello delle prestazioni infermieristiche e la risposta personalizzata agli aspetticulturali dell’Assistenza infermieristica, Tesi di diploma S U D I, aa 1992/1993, pp. 319.

94. Ivan Cavicchi, Il rimedio e la cura. Cultura terapeutica tra scienza e libertà, Editori Riuniti, Roma,1999, p. 243, corsivo aggiunto. L’autore, docente di sociologia sanitaria, studia il tema del rimedio insenso esteso - motivando così la nostra similitudine con l’assistenza - e lo presenta sotto quattro pro-spettive diverse: la visione “metafisica”, “reale”, “sociale” e “concettuale”.

95. Ilona Kickbusch, “Promozione della salute: verso una nuova salute pubblica”, in Marco Ingrosso, ed.,Dalla prevenzione della malattia alla promozione della salute, Franco Angeli, Milano, 1987, p. 63. Ciònonostante, come mai è così difficile trovare la voce “salute” nei dizionari di medicina?

96. Roberto Mordacci, “Sul concetto di salute”, in F. Bellino, ed., Dizionario di bioetica, Levante, Bari,1992, pp. 95-96.

Note Cap. IV

237

97. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., p. 141.98. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., pp. 122-123.99. Si veda anche il già citato intervento di Carlo Sini, “L’esperimento mentale di Cartesio”, Kos, n. 114,

marzo 1995, p. 31.100. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, op. cit., p. 170, corsivo nostro.101. C f r. gli interventi di Maura Lusignani ad esempio in “Principi e valori della deontologia infermieristica”,

Atti del Convegno Etica inferieristica: l’infermiere al servizio dell’uomo, Collegio I PASVI d iBergamo, 18 giugno 1994, p. 10.

102. Tanto il caso di Doris quanto questo sono stati raccolti durante una progetto di ricerca-intervento con-dotto da un gruppo di infermiere coordinato dal collega Arnaldo Cipriani di Casalmaggiore. Cfr. adesempio gli Atti del Convegno Nazionale Dalla salute degli immigrati all’infermieristica intercultura -le, Casalmaggiore, Cremona, 23 novembre 1995.

103. Il Codice Deontologico si trova anche in internet, al sito della Federazione Nazionale dei CollegiIpasvi: http://www.ipasvi.it Per un approfondimento sulle tematiche etiche dell’assistenza intercultura-le si veda anche la Déclaration conjointe sur la prévention et le réglement de conflits éthcniques entreles prestateurs de soins de santé et les personnes recevant les soins,Association canadienne des soinsde santé, Association médicale canadienne, Association des infirmières et infirmiers du Canada etAssociation catholique canadienne de la santé, rinvenibile al sito http://www.cna-nurses.ca.

104. Paolo Cattorini, “La medicina come alleanza”, K o s, n. 125 febbraio 1996, p. 60, corsivo nostro. Sultema della responsabilità in campo assistenziale cfr. Sandro Spinsanti, “La responsabilità come valorefondante della società. Tra etica e pratica”, Atti del xii Congresso nazionale della Federazione deiCollegi Ipasvi, ottobre 1999, presso il sito http://www. i p a s v i . i t .

105. Paolo Cattorini, “La medicina come alleanza”, Kos, n. 125 febbraio 1996, pp. 59-60, corsivo nostro.Dello stesso autore vedi anche Paolo Cattorini, “Iatros philosophos. La metamedicina tra epistemolo-gia e filosofia pratica”, in A a . V v, Nuovi saggi di medicina e scienze umane, Ist. Scientifico H SanR a ffaele, Milano, 1985, pp. 194-214. Paolo Cattorini, Roberto Mordacci, eds, Modelli di Medicina.Crisi e attualità dell’idea di professione, Europa Scienze Umane Ed., Milano, 1992. Paolo Cattorini,Malattia e A l l e a n z a, Pontecorboli, Firenze, 1994. Paolo Cattorini, La morte offesa, Ed. Dehoniane,Bologna, 1996. Paolo Cattorini, Roberta Sala, eds, L’infermiere e il consenso del malato. Questioni dibioetica. Rosini Ed., Firenze, 1998.

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Verso una teoria dei bisogni dell’assistenza infermieristica

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AP P U N T I

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