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Viaggio in Kurdistan: nuovi soldati per una strana guerra

Date post: 22-Nov-2023
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Viaggio in Kurdistan: nuovi soldati per una strana guerra Un mondo a parte La base militare di Atrush, nella parte settentrionale del territorio amministrato dal Governo regionale del Kurdistan (Kurdistan Regional Government, KRG), sorge in un luogo piacevole, ingentilito da qualche boschetto di pini, sulle prime colline che segnano il limite settentrionale dell’immensa pianura mesopotamica. «Scordati l’Afghanistan», mi aveva detto il mio amico Mimmo - maresciallo del 187° reggimento paracadutisti Folgore, vent’anni d’esperienza nelle più varie missioni all’estero - al ritorno da un periodo di sei mesi passato ad Atrush ad addestrare i peshmerga, «lì è tutto diverso. Il Kurdistan è proprio un’altra cosa, vedrai». Ora capisco perfettamente il senso delle sue parole. La gente è ospitale, amichevole, sorridente, e considera gli italiani come degli amici venuti a fare un lavoro importante. Amici che stanno aiutando i loro combattenti - i peshmerga, appunto, che significa «quelli che affrontano la morte» - a proteggere meglio, oggi e in futuro, la libertà del paese. Non esagero. Quando ho chiamato i primi contatti che mi aveva indicato Mimmo - un giovane sergente peshmerga, un interprete - sono stato accolto con una gentilezza e una disponibilità che davvero non mi aspettavo. E la capitale del governatorato, Duhok, una trentina di chilometri a nord-ovest della base di Atrush, è una città piacevole, con begli alberghi, un bazaar vivace, strade perfettamente sicure, nuovi centri commerciali, un grande campus universitario in espansione. Non è l’Afghanistan, è davvero un altro mondo. Il KRG - il cui territorio corrisponde, grossomodo, ai tre vecchi governatorati iracheni di Erbil, Sulaymaniyya e Duhok - è anche un mondo a parte. Curiosamente più pacifico dei suoi vicini, ora che le regioni popolate dai curdi sotto controllo di Ankara sono tornate ad essere teatro di una lotta sanguinosa tra esercito turco e PKK (il «Partito dei Lavoratori del Kurdistan» fondato da Abdullah Oçalan nel 1978, oggi passato da posizioni marxiste- leniniste al più aperto «confederalismo democratico»). In Siria si combatte accanitamente a Jarablus, sull’Eufrate. In Iraq le milizie di Da’ish (come qui chiamano lo Stato islamico usando l’acronimo arabo) controllano la provincia di al-Anbar e sono a un solo giorno di marcia da Baghdad. In Iran i guerriglieri curdi proseguono le loro azioni di disturbo contro le forze di Teheran: il luogo più tranquillo, per strano che possa sembrare, è proprio il Governo regionale del Kurdistan.
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Viaggio in Kurdistan: nuovi soldati per una strana guerra

Un mondo a parte !

La base militare di Atrush, nella parte settentrionale del territorio amministrato dal Governo regionale del Kurdistan (Kurdistan Regional Government, KRG), sorge in un luogo piacevole, ingentilito da qualche boschetto di pini, sulle prime colline che segnano il limite settentrionale dell’immensa pianura mesopotamica. «Scordati l’Afghanistan», mi aveva detto il mio amico Mimmo - maresciallo del 187° reggimento paracadutisti Folgore, vent’anni d’esperienza nelle più varie missioni all’estero - al ritorno da un periodo di sei mesi passato ad Atrush ad addestrare i  peshmerga,  «lì è tutto diverso. Il Kurdistan è proprio un’altra cosa, vedrai». Ora capisco perfettamente il senso delle sue parole. La gente è ospitale, amichevole, sorridente, e considera gli italiani come degli amici venuti a fare un lavoro importante. Amici che stanno aiutando i loro combattenti - i peshmerga, appunto, che significa «quelli che affrontano la morte» - a proteggere meglio, oggi e in futuro, la libertà del paese. !

Non esagero. Quando ho chiamato i primi contatti che mi aveva indicato Mimmo - un giovane sergente peshmerga, un interprete - sono stato accolto con una gentilezza e una disponibilità che davvero non mi aspettavo. E la capitale del governatorato, Duhok, una trentina di chilometri a nord-ovest della base di Atrush, è una città piacevole, con begli alberghi, un  bazaar  vivace, strade perfettamente sicure, nuovi centri commerciali, un grande campus universitario in espansione. Non è l’Afghanistan, è davvero un altro mondo. !

Il KRG - il cui territorio corrisponde, grossomodo, ai tre vecchi governatorati iracheni di Erbil, Sulaymaniyya e Duhok - è anche un mondo a parte. Curiosamente più pacifico dei suoi vicini, ora che le regioni popolate dai curdi sotto controllo di Ankara sono tornate ad essere teatro di una lotta sanguinosa tra esercito turco e PKK (il «Partito dei Lavoratori del Kurdistan» fondato da Abdullah Oçalan nel 1978, oggi passato da posizioni marxiste-leniniste al più aperto «confederalismo democratico»). In Siria si combatte accanitamente a Jarablus, sull’Eufrate. In Iraq le milizie di  Da’ish  (come qui chiamano lo  Stato islamico usando l’acronimo arabo) controllano la provincia di al-Anbar e sono a un solo giorno di marcia da Baghdad. In Iran i guerriglieri curdi proseguono le loro azioni di disturbo contro le forze di Teheran: il luogo più tranquillo, per strano che possa sembrare, è proprio il Governo regionale del Kurdistan. !

Ho viaggiato per tre settimane in Iraq e in Siria, come si sarebbe detto una volta, ovvero nel KRG (il Kurdistan meridionale) e nel Rojava (il Kurdistan occidentale). Sono due realtà completamente diverse: percorrendo il territorio del KRG è facilissimo dimenticarsi che c’è una guerra in corso, anche se quiescente, e che il fronte passa poche decine di chilometri a occidente della capitale Erbil, di Kirkuk e Duhok. L’atteggiamento della gente è di serena rassegnazione: lo Stato islamico  non verrà sconfitto tanto presto, non verrà neppure ricacciato indietro nell’immediato futuro, ma è davvero improbabile che possa riuscire a minacciare di nuovo il cuore del paese,  come successo nell’estate del 2014. La linea del fronte è ormai consolidata e quasi immobile; le forze per difenderla sufficienti. Si può pensare ad altro. !

Il Rojava, al contrario, è un paese in guerra, che stenta a trovare un proprio equilibrio interno e una sufficiente sicurezza. Nel cuore del capoluogo, al-Qamshili, c’è ancora un quartiere controllato dalle forze fedeli ad Assad, con tanto di bandiera siriana e grande ritratto del presidente esposti in bella vista, tra cavalli di frisia e improvvisati sbarramenti anticarro. I curdi tollerano e i dieharders siriani resistono aggrappati a quel lembo del loro vecchio Stato. In attesa di capire come evolverà il Grande Gioco  che coinvolge lo Stato islamico, la Russia, l’Occidente e un buon numero di signori del petrolio arabi. Ma è un problema minore, per i governanti del Rojava. La guerra ce l’hanno in casa: soltanto nel giugno scorso, infatti, sono riusciti a ricacciare indietro i miliziani del califfato da Tel Abiad, la cittadina al confine con la Turchia che permetteva loro di tagliare in due il territorio della piccola autoproclamata regione autonoma curda. E non solo il fronte di guerra è ovunque a una manciata di chilometri dai centri abitati maggiori, ma non esiste alcuna profondità strategica, perché il Rojava è schiacciato tra le posizioni dello Stato islamico e la lunga frontiera settentrionale con una grande e potente nazione ostile. !

La situazione del Kurdistan, già abbastanza complessa vista dall’Europa, appare se possibile ancora più contraddittoria e incerta una volta che la osservi da vicino. Il presente è un intreccio paradossale di guerra feroce e tregua d’armi; di povertà estrema, isolamento e prospettive di sviluppo economico e commerciale; di devastazione, degrado e speculazione edilizia. I curdi dicono che le quattro parti della loro patria sono in realtà una sola, una casa comune: è una menzogna, o per essere gentili una speranza palesemente contraddetta dalla realtà. Il KRG è uno Stato in rapida crescita, i cui abitanti vedranno probabilmente tradite molte delle loro aspettative, ma altrettanto verosimilmente non dovranno più lottare per la pura e semplice sopravvivenza. Il Kurdistan settentrionale è più che mai schiacciato sotto il tallone di ferro turco. Il Rojava combatte per ottenere un  riconoscimento internazionale  che molti cominciano a considerare ormai meritato, rendendo merito all’eroica resistenza di fronte allo Stato islamico. Il Kurdistan orientale, in

territorio iraniano, vive a margine di tutto questo, sperando che l’appeasement tra Washington e Teheran apra qualche prospettiva di autonomia. !

Non voglio addentrarmi oltre in un’analisi geopolitica di cui troppi elementi mi sfuggono. Ma posso dare il mio contributo alla conoscenza della realtà di almeno due delle quattro regioni del «grande Kurdistan» con alcune considerazioni sulla situazione militare attuale - più in particolare riguardanti la strategia, la tattica, l’organizzazione e l’addestramento delle forze in campo nel KRG e in Rojava. !

" Carta di Laura Canali

!

Strategie a confronto !

La grande strategia è fedele ancella della politica, e quindi in Kurdistan non esiste una strategia, dal momento che non esiste un Kurdistan, né un solo soggetto politico dominante. Andiamo quindi con ordine, dal grande al piccolo. !

Il KRG è governato da una diarchia di partiti avversari, il maggioritario e moderato Partito Democratico del Kurdistan (PDK), che fa capo all’attuale presidente Mesud Barzani, e il più progressista Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) di Jalal Talabani. Ciascuna di queste forze politiche ha un proprio esercito, ovvero i reparti peshmerga affiliati all’uno o all’altro partito. Ciascuna ha una propria area di influenza, dove gode del sostegno di gran parte della popolazione, da cui dipendono le sue scelte economico-politiche e militari. Il

PDK è forte a Erbil, nel centro del paese, e fortissimo nel nord (governatorato di Duhok). Il PUK è invece più saldamente radicato nell’est e nel sud-est, con la propria roccaforte nella città di Sulaymaniyya. Da questo è facile intuire come il PDK sia in favore di una stretta alleanza economica e commerciale con la Turchia, mentre il PUK sostenga una linea opposta, basata sullo sviluppo di un rapporto privilegiato con l’Iran.

Solo per ciò che riguarda la strategia militare le due formazioni politiche si trovano sostanzialmente d’accordo. Il conflitto con lo Stato islamico ha raggiunto in questa fase un punto di equilibrio sul campo, che conviene al governo del KRG. Il territorio iracheno popolato dai curdi, infatti, è ormai per intero sotto controllo dei  peshmerga:  questo significa non dover giustificare agli occhi dei propri sostenitori la rinuncia a un atteggiamento aggressivo nei confronti del nemico. Ogni ulteriore avanzata dovrebbe essere guidata dalle forze irachene - ovvero dall’esercito di Baghdad, di cui i curdi parlano con toni variabili tra l’ironia e il disprezzo. A loro, nel caso di un’offensiva in direzione di Mossul energicamente appoggiata dall’occidente, i peshmerga del KRG garantirebbero di certo un aiuto, ma senza sbilanciarsi troppo. Anche perché i «barbari alle porte» sono utili: non costituendo più una minaccia incombente, rimangono pur sempre un’ottima giustificazione per tutto ciò che non funziona nell’amministrazione del paese, costretto a vivere in una condizione di eccezionalità.

Se si esamina la situazione del Rojava, l’«occidente» curdo, è abbastanza chiaro come la strategia delle forze che lo difendono - divise tra YPG e YPJ, ovvero milizia maschile e femminile - sia in corso di ridefinizione proprio in questi mesi, dopo i recenti successi ottenuti sul campo. La vittoria difensiva di Kobane, seguita dalla riconquista di Tel Abiad nel giugno scorso, ha dimostrato come l’iniziativa militare sia stata strappata al nemico. Lo Stato islamico sembra per il momento rassegnato a mantenere le proprie posizioni a nord di al-Raqqa, senza più tentare di estendere il proprio controllo su una parte della frontiera con la Turchia.

Il problema principale di YPG/YPJ in questa fase è  di dosare le scarse risorse disponibili per svolgere un duplice compito. Da un lato, mantenere una pressione offensiva costante in limitati settori del fronte, facendo arretrare a poco a poco lo Stato islamico e cercando di garantire continuità territoriale ai tre cantoni del Rojava. Dall’altro, proteggere la popolazione delle aree già liberate, permettendo alla gente di vivere in condizioni di sicurezza accettabili grazie allo sviluppo di un sistema continuo di fortificazioni campali, che di fatto stanno disegnando sul terreno il futuro confine della regione autonoma. Questo è infatti l’obiettivo di lungo termine, verso il quale convergono tutte le energie del gruppo dirigente del Rojava e delle sue forze armate: gli uomini dello YPG e le donne dello YPJ non si stancano di ripetere che «stanno combattendo senza ricevere aiuti esterni in nome della civiltà e per il bene comune». Quello che sperano di ottenere in cambio è chiarissimo, anche se l’intransigenza statunitense nei confronti del PKK, da cui dipendono, costituisce un ostacolo al momento insormontabile.

L’azione del «Partito dei lavoratori» di Oçalan è l’altra variabile politico-militare da valutare nel descrivere l’attuale realtà del Kurdistan. Nel territorio sotto l’autorità del KRG, infatti, le forze del PKK (sotto la sigla HPG, ovvero Hêzên Parastina Gel, «Forze di Difesa del Popolo») hanno riempito tutti i vuoti lasciati colpevolmente dai  peshmerga  al momento della massima spinta offensiva dello Stato islamico, poco più di un anno fa. A Sinjar, a Makhmur, a sud di Kirkuk - e quindi in tre settori-chiave del fronte - «ai primi di agosto 2014 gli uomini del PDK e del PUK sono scappati, lasciando la gente indifesa», dicono i ragazzi e le ragazze in uniforme verde scuro, e ripetono con dovizia di particolari i loro comandanti. <in tutte queste zone ci sono ancora oggi i loro campi e le loro unità a tenere la linea, allargando parallelamente la propria base di consenso politico tra la popolazione civile. La strategia del PKK/HPG è dunque chiara: «difendere il popolo», approfittando della minaccia jihadista  per conquistare posizioni in vista del  redde rationem con il governo di Erbil a cui presto o tardi si dovrà arrivare.

" [Foto: BPC Team Erbil]

Tattica: coraggio, ma non solo

Se dalla dimensione strategica ci si avvicina al campo di battaglia, a metà strada - e per un lungo tratto - si incontra il vuoto. Quella che si suole definire «grande tattica», ovvero l’arte di muovere sul campo formazioni piuttosto consistenti (nel teatro di guerra curdo-iracheno si parla di gruppi di combattimento di poche migliaia di uomini), è praticamente ignorata, e resta al di fuori dell’orizzonte dei peshmerga. Nonostante gli spazi ampi e la

scarsa densità delle forze che si contrappongono sul terreno, infatti, problemi di comando, controllo e coordinamento sembrano imporre un approccio piuttosto rudimentale all’arte della guerra di manovra. In presenza di una minaccia, si inviano nel settore interessato le unità disponibili, le si schiera in prossimità del nemico - se possibile ancorandole a qualche cittadina o villaggio che possa avvantaggiare la difesa. E si scende di livello, in sostanza, alla gestione tattica del combattimento vero e proprio.

Anche nel caso, fin qui molto raro, di azioni controffensive di un certo respiro, che siano andate oltre la semplice rettifica del fronte, l’impressione è quella di una simile linearità (per essere generosi) nella concezione operativa. Si avviano verso l’obiettivo le forze disponibili, incolonnandole sulla via di comunicazione prescelta, e si attende per manovrare e coordinare l’azione tra i reparti che sia avvenuto il primo contatto con il nemico. Non sfugge a questa analisi  l’offensiva del dicembre 2014 nel settore di Sinjar, considerata la più ambiziosa intrapresa dalle forze peshmerga  per recuperare parte del terreno perduto nell’agosto precedente di fronte all’avanzata dello Stato islamico. Benché coronata da successo, l’azione sembra essersi sviluppata in modo estemporaneo, andando oltre gli scopi iniziali, ma interrompendosi - o esaurendosi - prima di aver raggiunto un risultato strategicamente decisivo.

Simili dubbi sulle competenze tattiche dei peshmerga si possono sollevare osservandone il comportamento in battaglia. Come mi è stato spiegato con una certa dovizia di particolari da alcuni dei nostri militari impegnati in attività di addestramento presso la base di Atrush, «non è che questi ragazzi manchino di coraggio ed entusiasmo, al contrario» (e si parla, a volte, di «ragazzi» abbastanza avanti con l’età). Quello che proprio non conoscono sono i movimenti tattici che possono consentire a un piccolo reparto di fanteria di avanzare senza subire perdite severe. In altre parole, se devono attaccare una posizione nemica, i peshmerga sono abituati ad andare all’assalto en masse, trascurando alcune precauzioni elementari - ricognizione preventiva, avanzata «a sbalzi», nuclei di fuoco in copertura sui fianchi, e così via. E anche quando devono difendersi, lo fanno esponendosi molto spesso a rischi inutili. Coraggio, spirito di sacrificio e dilettantismo, dunque; per fortuna, aggiungono i nostri addestratori , buona disposizione a imparare da chi ne sa più di loro.

La situazione è molto diversa per quel che riguarda i reparti dell'HPG schierati nel territorio del Governo regionale curdo  e per quelli dello YPG/YPJ attivi in Rojava. Qui posso parlare per esperienza diretta: ho incontrato combattenti estremamente disciplinati, motivati e addestrati ad usare nel modo più efficace le armi di cui dispongono. Un solo esempio: in una valletta deserta ai margini del campo di Makhmur era stato ricostruito nei minimi particolari un villaggio occupato dal nemico; su quel modello era stata pianificata con cura l’azione offensiva che doveva condurre alla sua riconquista, eseguita poi con pieno successo sfruttando il favore del buio, la manovra e la sorpresa. I guerriglieri operano in  team (termine usato da loro) di tre o quattro elementi cui vengono assegnati ruoli specifici; massima cura è riservata allo sviluppo di tattiche analoghe a quelle delle nostre

forze speciali - covert reconnaissance, infiltrazione, cecchinaggio. Se per i peshmerga ho parlato di coraggio, spirito di sacrificio e dilettantismo, nel caso delle forze armate dipendenti dal PKK si nota invece una spiccata e per me sorprendente professionalità. Solo così si spiegano, del resto, i successi ottenuti da HPG, YPG e YPJ contro le forze superiori e meglio armate dello Stato islamico dall’estate del 2014 a oggi.

" [Foto: BPC Team Erbil]

Organizzazione: guerriglieri e regolari

Anche in questo campo, la differenza tra i guerriglieri affiliati al PKK e i peshmerga attivi nel Governo regionale del Kurdistan è nettissima. Le unità di HPG, YPG e YPJ hanno una struttura che si può definire «ad aggregazione libera»: la base, come già accennato, è costituita da piccole squadre di tre o quattro combattenti, agli ordini del più anziano ed esperto tra loro, spesso con competenze tattiche particolari . Esistono, per  esempio,  team  specializzati nella ricognizione e nell’infiltrazione, nel fuoco di copertura, nella difesa manovrata, nell’approntamento di trappole esplosive e demolizioni. Un numero variabile di team viene riunito in una più robusta unità di manovra a seconda degli obiettivi immediati, sulla base delle forze disponibili e della loro qualità. Benché non amino parlare di ruoli e gerarchie, questa «compagnia di formazione» viene affidata a un elemento di notevole esperienza e provata abilità militare. Infine, ogni settore del fronte è sotto la supervisione di un vero e proprio «comandante», che ha il compito di dirigere operazioni di un certo respiro coordinando l’azione di varie «compagnie».

Opposta, come dicevo, l’organizzazione dei peshmerga del PDK e del PUK. Nel loro caso, senza semplificare troppo, si può tranquillamente affermare che si sta assistendo alla trasformazione delle tradizionali bande di guerriglieri curdi in un esercito regolare, costituito da cittadini-soldati a tempo parziale: squadre, plotoni, compagnie, battaglioni e brigate vengono formati secondo modelli familiari alla cultura militare occidentale, con la sola e non irrilevante differenza della quasi totale mancanza di armi pesanti e altre unità di supporto. La gerarchia si sta irrigidendo; la corresponsione di una paga, benché ancora piuttosto insoddisfacente dal punto di vista di chi deve riceverla, rende i peshmerga  sempre più legati al governo di Erbil e alla sua politica. Si sta spezzando a poco a poco anche il legame strettissimo tra uomini in armi e territorio, rendendo le singole unità capaci e disposte a operare lontano dalle proprie sedi d’origine. Questo processo, una volta portato a compimento, finirà per trasformare definitivamente i vecchi combattenti nelle forze di difesa del Governo regionale del Kurdistan.

" [Foto: BPC Team Erbil]

Addestramento: nuovi peshmerga per quale guerra?

Di questa trasformazione l’Italia è parte in causa: l’attività svolta dai nostri militari in Kurdistan merita quindi un commento finale. Dall’inizio del 2015 abbiamo inviato in aiuto al governo del KRG alcune centinaia di addestratori esperti, che stanno facendo molto

bene il loro lavoro: visti all’opera alla base di Atrush, i paracadutisti del 187° reggimento mi sono sembrati efficienti, professionali, capaci di stabilire un buon contatto umano con gli allievi, pazienti il giusto, severi quando serve. I peshmerga che terminano il corso di sei settimane sotto la loro guida sono certamente più consapevoli delle sottigliezze tattiche della guerra contemporanea, più capaci di proteggersi e proteggere i propri compagni, più efficienti nello sventare ogni tipo di minaccia possano incontrare sul campo - dalle letali trappole esplosive, disseminate dai miliziani dello Stato islamico  in ogni villaggio abbandonato, ai temutissimi vehicle-borne improvised explosive devices, veicoli-bomba di vario genere massicciamente usati dal nemico sia in azioni offensive che difensive.

L’Italia ha in questo momento la guida del Kurdistan Training Coordination Center e la responsabilità diretta dei risultati ottenuti dal Building Partner Capacity Team di Erbil, le cui finalità ufficiali meritano di essere citate per esteso:

the purpose of Erbil BPC Team is to develop through demand driven, flexible and adaptive training operational capabilities of KSF soldiers and units in preparation for future operations against Da’ish.

E dunque: addestrare i peshmerga (altre unità militari dello stato del Kurdistan non ce ne sono, visto che i guerriglieri dello HPG appartengono, per l’Occidente, a un’organizzazione terroristica) in modo che possano essere in grado di «condurre future operazioni» contro lo Stato islamico. Gli sforzi dei nostri uomini vanno in questa direzione, soprattutto per migliorare le capacità dei nostri partner negli scontri a fuoco in centri abitati e nell’adozione di efficaci misure antiterrorismo. Ma combatteranno mai la guerra per cui li stiamo preparando? Ci saranno mai le «future operations» autonome di cui parla il manifesto del BPC Team di Erbil?

È  legittimo dubitarne. Nel territorio del KRG ho visto le tracce di una guerra che i curdi possono considerare conclusa in modo soddisfacente, e che attraversa quindi una fase di equilibrio strategico e tattico difficile da spezzare. Se in futuro verranno intraprese azioni offensive contro il califfato islamico, dovranno essere affidate all’esercito di Baghdad con un massiccio supporto americano, non certo ai peshmerga. Questi ultimi è più probabile che possano tornare utili come guardiani della sicurezza interna del territorio controllato dal Governo regionale del Kurdistan, fedele alleato dell’Occidente, in previsione di una possibile riesplosione di contrasti violenti tra le varie fazioni in cui è tradizionalmente diviso il popolo curdo, in passato combattutesi senza esclusione di colpi.

Il futuro del Kurdistan resta dunque molto incerto. E dipende in non piccola misura dalle scelte statunitensi in relazione a Turchia e Iran. In quei territori  che  una volta erano l’Iraq  e la  Siria  esistono due realtà ben distinte e destinate, verosimilmente, a seguire strade molto differenti. Il KRG è già il tipico Stato-cliente ai confini dell’impero, utile come punto fermo in un’area geopolitica che non riesce a trovare pace. Il Rojava, al contrario, è come una noce in una morsa, stretto tra la Turchia di Erdogan - che fa della questione

curda  una pericolosa bandiera per  mantenere il sostegno interno  - e il territorio saldamente tenuto dai miliziani dello Stato islamico. Non scommetterei sulla sua sopravvivenza di qui a cinque anni. Ma sarà una noce dura da schiacciare.


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