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Corso di Storia dell’Arte Moderna II

Anno Accademico

2014/2015

Prof. Alessandro Zuccari

Scipione Pulzone e la pittura a Roma nel secondo Cinquecento

MARTIRIO DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA.

La tela di Scipione Pulzone in San Domenico Maggiore a Napoli.

Donatella Valentino

<<Non è sempre facile comprendere il significato di un monumento,

specialmente quando questo è straordinariamente ricco di storia e di

arte come la basilica di San Domenico Maggiore>>.1

I domenicani giunsero a Napoli nel 1231. Ordine mendicante,

approvato da Onorio II nel 1216, quello dei seguaci di San

Domenico, si proponeva principalmente l’insegnamento e la

predicazione. All’arrivo a Napoli, il loro capo attivo era Tommaso

Agni da Lentini, poi patriarca di Gerusalemme. Non avendo un

proprio convento, questi domenicani furono dapprima ospitati dai

frati benedettini di San Michele Arcangelo a Morfisa2; in seguito

presero possesso assoluto del piccolo complesso: la chiesa era la

grande cappella tutt’ora esistente, adiacente all’attuale S. Domenico

Maggiore, che ha un proprio ingresso alla sommità della scala in

piperno che è nella piazza omonima.

Essa risale al X secolo e fu officiata, prima che dai benedettini, dai

monaci basiliani; nel 1255 fu dedicata a San Domenico da papa

Alessandro IV. Dopo qualche tempo la chiesa, che era costituita da

un atrio e da due cappelle, divenne uno spazio troppo angusto per i

domenicani, che facevano numerosi proseliti ed ospitavano cospicui

gruppi di fedeli durante le loro prediche. Si pensò, quindi, di

ampliare il complesso e ciò fu possibile grazie alla volontà e ai

finanziamenti di Carlo II d’Angiò, che nel 1283 divenne vicario del

Regno.

1 Salerno L., a cura di, La Basilica di San Domenico in Napoli, vol. Miele M., 1977

2 Il nome fa riferimento alla famiglia che aveva fatto costruire questa piccola chiesa

La costruzione fu

sospesa a causa della

prigionia di Carlo II

d’Angiò, presso gli

Aragonesi e ripresa

nel 1289, con la

collaborazione di due

architetti francesi Pierre de Chaul e Pierre d’Angicourt, che

contribuirono ad accelerare i lavori, che si protrassero fino al 1324.

Il tempio gotico fu realizzato in tre navate (di cui la centrale alta m.

26,50, lunga m. 74 e larga m. 8,83). La chiesta fu orientata in senso

opposto a San Michele a Morfisa; mostra, infatti, l’abside volto alla

piazza: erroneamente l’accesso alle spalle dell’abside è considerato

quello principale. L’ingresso della basilica è, invece, dal vico San

Domenico. Al vasto cortile, su cui si affacciano chiesa e monastero, si

accede attraverso una grande porta ad arco.

Durante il periodo rinascimentale la chiesa fu danneggiata dai

terremoti ed in seguito ai rifacimenti perse la sua veste gotica. Il

complesso fu completamente restaurato nei primi anni del secolo

XVI dai frati domenicani, perché colpito da un incendio. Nel 1593 il

convento non sfuggì a quella riforma, detta della Sanità e durante il

periodo barocco furono compiute numerose trasformazioni, come la

sostituzione del pavimento, progettata da Domenico Antonio

Vaccaro.

Durante i moti del 1799 il complesso di San Domenico fu rispettato e

rimase in piedi ma subì la destinazione ad opera pubblica, sotto

l’odine impartito da Gioacchino Murat. Ricostruire la storia di San

Domenico Maggiore significa ricostruire un po’ l’evoluzione della

storia dell’ordine domenicano nella città partenopea.

Il 10 gennaio del 1820 i frati ebbero il permesso di rientrare; il 7

ottobre del 1865 furono nuovamente costretti a lasciare la chiesa e il

convento e soltanto grazie al cardinale Guglielmo Sanfelice poterono

rientrarvi il 26 aprile 1885.

Durante il secondo conflitto mondiale la chiesa subì gravi danni,

soprattutto nel transetto, e nel restaurarla si pensò di ripristinare il

soffitto a cassettoni, di restaurare i tetti, le balaustre delle cappelle,

la pavimentazione e l’organo settecentesco.

Da ricordare sono le celebrazioni avvenute nell’anno 1974, in onore

del VII Centenario Tomistico che <<ha prodotto uno straordinario

risveglio di interesse intorno alla figura ed al pensiero di questo

grande genio>>.3

San Tommaso d’Aquino ha svolto un ruolo importante all’interno

del convento domenicano. Giunse a Napoli nel 1231, anno della sua

fondazione ad opera dei domenicani, e vi fece ritorno nel 1244 per

ricevere la sua vestizione all’interno dell’ordine e, infine, nell’anno

1245, dietro invito di Carlo I d’Angiò, per insegnare in una delle aule

universitarie. In quella chiamata Aula di San Tommaso, in cui il

3 Nel VII centenario di Tommaso d’Aquino, Napoli, 1977 (opuscolo a cura della Regione Campania)

santo elaborò parte delle sue teorie, portando avanti i primi sviluppi

del tomismo a Napoli, si impartivano lezioni di filosofia, teologia e

per un certo periodo, si avviavano i giovani alle arti. Dall’Aula di San

Tommaso si accede al chiostro cinquecentesco detto di San

Tommaso, che, insieme ad altri due, caratterizzavano l’esterno del

monastero, edificio voluto dal cardinale Oliviero Carafa, conte di

Ruvo.

4

L’illustre e la storica famiglia napoletana Carafa

discende da un altro più antico casato

napoletano: i Caracciolo.

Il capostipite fu Gregorio di Giovanni Caracciolo

vissuto nel XII secolo, detto Carafa, perchè ricopriva la carica di

concessionario della gabella sul vino chiamata "campione Carafa".

Questa famiglia fin dal Trecento svolse il ruolo di grande potenza

feudale, sia per l’ampia partecipazione alla vita politica e militare,

sia per le favorevoli alleanze matrimoniali.

Già a partire dal Trecento la famiglia si divise in due casate: Carafa

della Spina e Carafa della Stadera, a loro volta, suddivise in altri

rami. I primi diedero vita alle case dei conti di Policastro e dei

principi della Roccella; dai secondi discesero le famiglie dei conti di

Ruvo e di Santa Severina.

4 Stemma Famiglia Caracciolo del Sole

*

5

Stemma Carafa della Stadera Stemma Carafa della Spina

I Carafa della Spina, il cui capostipite fu Bartolomeo III, aggiunsero

nella parte centrale del loro stemma raffigurante uno scudo a fasce (

in fig.* scultura, ma lo si pensi a bande bianche e rosse) un

ramoscello spinoso. I Carafa della Stadera, allo stemma a bande

bianche e rosse, incrociarono due stadere, ossia due bilance,

simboleggianti la giustizia.

5 “Hoc fac et vives”: “Fa questo e vivi”

Capostipite della dinastia Carafa della

Stadera fu Antonio Carafa († 1438)

detto il “Malizia” per la sua abilità nelle

trattative e azioni politiche con i

sovrani aragonesi, patrizio napoletano

del seggio di Nido, feudatario delle

terre di Boccalino, Pescolanciano e

Vignali, Giustiziere di Terra di Bari nel

1400, Ciambellano Regio nel 1410,

Castellano di Torre del Greco nel

1420.6Il monumento funebre del Malizia, opera di Jacopo della Pila

(1471-1502?) è collocato all’interno della Cappella Carafa della

Stadera, risalente al XV secolo. Lo scultore utilizzò un sarcofago in

marmo bianco risalente al Trecento. Sostenuto da tre virtù, presenta

la parte frontale a riquadri lobati (San Giovanni Evangelista,

Madonna col Bambino e Santa Caterina di Alessandria), con fondo a

mosaico. Il defunto è rappresentato con l’armatura ed è incorniciato

da angeli reggicortina.

Di fronte al monumento di Antonio Carafa, troviamo quello del

padre Rinaldo Carafa detto “Carafello” (†1561), patrizio napoletano,

signore di Cusano. Rinaldo sposò in prime nozze Caterina, figlia di

Giovanni Luigi Loffredo, barone di Carovigno e di Laudomia

d’Alagno e, in seconde nozze, Giovanna Carafa, figlia di Paolo,

signore di Montefalcone e di Elisabetta Frangipani della Tolfa. 6 Classificazione F. Zeri//Nota anonima sul verso della fotografia (Ritratto funebre di Antonio Carafa, Angeli

reggicortina, Madonna con Bambino, Santa Caterina d'Alessandria, San Giovanni Evangelista, Allegorie delle Virtù)

Il basamento riporta

un’iscrizione, testimonianza

della realizzazione del

sarcofago fatto erigere nel

1562 da Antonio Carafa

(†1591), figlio di Rinaldo e

Caterina Loffredo.

Sul basamento poggia il

sepolcro su zampe leonine,

inserito all’interno di

un’edicola, nella quale

ritroviamo una tavola*

cinquecentesca databile

intorno al 1518- 1521?,

raffigurante una Vergine in trono col Bambino, attorniata da angeli e

san Giovannino e attribuita al pittore Agostino Tesauro.

“Agostino Tesauro è un esponente di quel "coacervo di cultura centro-

italiana", peruginesca, antoniazzesca e pinturicchiesca, che domina -

almeno quantitativamente - nel primo decennio del secolo il

panorama meridionale e che ha i suoi campioni in Francesco Cicino e

in Protasio Crivelli…”7.

7 Leone de Catris P.L., Giusti P., Pittura del Cinquecento a Napoli. 1510-1540, Forastieri e regnicoli, Napoli, 1988, p.

187: p. 194 fig. 177; p. 211, tav. a col. 41

L’ipotesi avanzata sulla probabile attribuzione della realizzazione

della pala al pittore nativo di Giffoni, (provincia di Salerno), può

essere avvalorata confrontando questa con altre sue

rappresentazioni di Madonne in trono, realizzate negli stessi anni.

8

8 Guide d’Italia, Napoli e dintorni, pag. 170, Milano, ristampa 2001 (si legge attribuzione ad Agostino Tesauro

9 10

All’interno della cappella Carafa, tra i due monumenti funerari per

Antonio e Rinaldo

Carafa, si trova,

l’altare in marmi

policromi di cui

paliotto, risalente al

XV secolo, tra le

insegne dei Carafa, mostra le immagini scolpite in bassorilievo di

San Domenico, fondatore dell’ordine, San Giovanni Evangelista,

titolare della cappella e San Tommaso, per il ruolo che egli ha svolto

all’interno del complesso dei domenicani.

9 Agostino Tesauro, Madonna col bambino, santi, ultima cena, 1521, Museo di Capodimonte, Napoli

10 Agostino Tesauro, attribuita a, Madonna in trono col bambino e san Giovannino

Sull’altare ritroviamo la grande pala d’altare raffigurante il Martirio

di San Giovanni Evangelista nell’olio bollente del cinquecentesco

pittore gaetano Scipione Pulzone.

Il Martirio di San Giovanni Evangelista è

la pala d’altare che Scipione Pulzone

dipinse per la cappella Carafa di San

Giovanni Evangelista nella chiesa di San

Domenico Maggiore a Napoli.

La tela, generalmente proposta al

158411, fu commissionata dal cardinale

Antonio Carafa, che decise di voler

rinnovare la cappella di famiglia a

partire dall’altare dedicato

all’Evangelista, cui la madre, Caterina

Loffredo era particolarmente devota. Proprio quell’anno, aveva

ottenuto il titolo cardinalizio di Sant’Eusebio, legato alla basilica

romana di Santa Maria Maggiore, presentandosi, dunque, come una

delle figure di spicco nella gerarchia cardinalizia sotto papa Pio V

(eletto nel 1566), per il quale il cardinale napoletano lavorò in

funzione di prefetto, con il compito di divulgare le prescrizioni e le

direttive del Concilio di Trento.

11

ZERI 1957, p.18; cfr. Catalano D., Scipione tra Napoli e Gaeta, a cura di, in Scipione Pulzone (1540 ca. -1598), da Gaeta a Roma alle Corti Europee, catalogo della mostra, Palombi, Roma 2013, pp.109-115

La committenza può, dunque, ritenersi più romana che napoletana.

Si può supporre che la pala sia stata realizzata a Roma e poi portata

a Napoli, sebbene Scipione, nel novembre 1584, sia stato a Napoli

per un omaggio alla vedova di Marcantonio Colonna, donna Felice

Orsini, per consegnare personalmente le due versioni del ritratto del

Connestabile, realizzato poco prima della sua morte.12 Ciò rivela

l’impegno professionale del pittore gaetano, che si inserisce

all’interno di una politica familiare, riservando non solo al cardinale

Carafa l’appellativo di “patrono” all’interno del suo testamento del

1590 ma nominando il cardinale Carafa e Michele Bonelli (pronipote

di papa Pio V e protettore di Scipione Pulzone) tutori dei figli. Del

viaggio di Scipione a Napoli parla Borghini nel suo Riposo, mandato

in stampa proprio nel 1584. Nel testamento del pittore gaetano del

1596, vi è la dichiarazione, che esprime la volontà di un altro

soggiorno napoletano, con la finalità di trattare due fedi di credito

per disporre altrettanti pagamenti a vantaggio del pittore Girolamo

Imperato. Pochi sono i momenti di un diretto contatto con

l’ambiente culturale e artistico napoletano. La fama di Scipione

pareva non suscitare l’interesse degli ambienti napoletani, che e per

la ritrattistica e per le rappresentazioni di temi sacri, prediligevano

la committenza locale. Coloro i quali si procuravano le sue opere (di

soggetto religioso e ritratti) erano perlopiù i nobili appartenenti agli

alti ranghi della corte di Madrid.

12

Catalano D., Scipione tra Napoli e Gaeta, a cura di, cit.,. p.109 (Sui ritratti de Marcantonio destinati a Girolama Colonna Pignatelli e Felice Orsini a Napoli per primo TOMMASETTI1928, pp.538-542)

Il biografo De Dominici13, invece, riprendendo, integrandola, la

biografia del Baglione, con le “aggiunte napoletane”, annota che a

Napoli si vedono << nelle case de’ nobili vari ritratti>> pulzoniani14.

Fa riferimento ad altre opere eseguite dal pittore di Gaeta, che sono

state “tolte dalle cappelle per essere modernate”.

Resta che la pala d’altare per la cappella Carafa di San Giovanni

Evangelista è l’unica che mostra evidenza storica e il biografo la

descrive con queste parole:

“..il bel quadro del martirio di San

Giovanni Evangelista, che in età

avanzata si vede nel caldajo dell’olio,

sotto del quale quei manigoldi

aggiungon fuoco, raddoppiando le

legna acciò, più bollente lo pruovi;

essendovi fra quelli uno, che curvato

boccolone piega le ginocchia, e con ciò

fa piegare il calzone, che non par

dipinto, ma vero di drappo serico, con

un lucido che inganna, essendo

mirabile la pulizia dei suoi colori, ne’

vestimenti, ed in tutto..”15

13

De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, 2003, I, p.755 14

De Dominici, cit., p.755 15

De Dominici, Vite de' pittori, scultori, ed architetti Napoletani: non mai date alla luce ... 1745, I, p.172

Nell’ultimo ventennio del Cinquecento, la chiesa di San Domenico

viene sottoposta ad un’ampia campagna figurativa che vede come

protagonisti artisti provenienti da tutt’Italia, nordici, toscani e

napoletani ed è in questi anni che la pala di Scipione Pulzone viene

sistemata. La data proposta è quella del novembre 1584 e, sebbene

l’ipotesi venga scartata, va comunque situata intorno alla metà del

decennio, quando a Roma l’artista ha confermato il suo successo,

realizzando opere di soggetti religiosi di destinazione pubblica.

Il Martirio di San Giovanni Evangelista si inserisce perfettamente nel

solco della consolidata tradizione iconografica del soggetto.

«San Giovanni Apostolo e Evangelista[…]risiedeva particolarmente

nella città di Efeso, celebre per il famoso tempio di Diana. Quivi

mentre attendeva ad insegnar la verità della legge di Christo, e

estirpar la vana idolatria, si mosse da Domiziano la persecuzione

contro i Christiani.. secondo l’editto di Cesare gli comandò che dovesse

negar Cristo e cessare di predicare più la sua religione. Il che

ricusando san Giovanni di fare, con dire che bisognava più tosto

obedire a Dio che à gli uomini, fu messo in prigione. Indi, per ordine

dell’imperatore, con catene di ferro strettamente legato, fu condotto a

Roma. Dove mostrando il glorioso Apostolo la medesima costanza in

difendere la fede che aveva mostrato in Efeso, lo sentenziò Domiziano

ad essere menato dinanzi alla porta della città chiamata latina, et

quivi in un vaso d’oglio bollente essere arso, e martorizzato…

sopraposto un caldaio d’olio grande e capace in quel mentre più

fortamente bolliva gettarono gli empi ministri, e sommersero dentro

l’Apostolo ignudo: ma non offendendolo punto quel cocente liquore, ne

uscì, come dice Tertulliano, più puro e più gagliardo che non vi era

entrato. Si vidde adunque che non aveva la fiamma potuto ardere ne

corrompere quel corpo, che mercé del candore della sua verginità,

d’ogni corrutione di carne e ardore di libidine s’era conservato libero e

mondo>>.16

Le parole di Pompeo Ugonio, inoltre,

danno notizia delle reliquie che si

conservavano in ricordo del martirio di

san Giovanni e che venivano esposte

alla venerazione dei fedeli il 6 maggio e

il giorno della stazione quaresimale a

san Giovanni a porta Latina (dove si

suppone sia avvenuto il martirio):

«Delle reliquie di questa chiesa non ho

notizia salvo di alcune che sono in San

Giovanni in Laterano, le quali paiono proprie di questo luogo,

toccando al martirio che patì san Giovanni[…]

Nei giorni festivi e massime nella statione di questa chiesa si orna

l’altare di altre reliquie, che si portano dal Laterano, dove per

maggior sicurezza si conservano… Nella cappelletta che è fuori

16

Ugonio P., Stazione XXXIX in Historia delle Stationi di Roma, che si celebrano la Quadragesima, Bonfadino ed., Roma 1588

dinanzi alla porta, è scritto nel marmo che vi è dentro, quivi essere

riposto dell’oglio, del vaso, del sangue e dei capelli del Beato

Evangelista Giovanni».17

18

Leggendo da destra il dipinto su tavola (fig. 18) ritroviamo uno dei

prototipi iconografici: San Giovanni Evangelista, immerso nell’olio

bollente, con le mani

giunte, lo sguardo

rivolto al cielo, in atto di

preghiera e un angelo.

Sulla sinistra è descritto

anche il momento della

flagellazione, che ha

preceduto il martirio,

17

Ugonio P., Stazione XXXIX, cit. 18

Bicci di Lorenzo, pittura italiana secolo XV, Firenze. Sezione di predella del trittico Madonna con Bambino in trono e angeli, San Bartolomeo e San Giovanni Evangelista, Santa Maria Maddalena e Sant’Antonio Abbate. Natività di Gesù, Martirio di San Bartolomeo, San Giovanni evangelista immerso nell’olio bollente, Santa Maria Maddalena portata in cielo dagli angeli. Episodio della vita di Sant’Antonio Abbate, Cristo Redentore benedicente, Annunciazione (catalogo Fondazione Zeri).

raccontato nella medesima Statione XXXIV di Pompeo Ugonio:

“… lo sentenziò Domiziano ad essere menato dinanzi alla porta della

città chiamata latina, et quivi in un vaso d’oglio bollente essere arso, e

martorizzato. Ma non fu prima là condotto, che il giudice al quale

questa cura era stata commessa, lo fece aspramente flagellare, e per

maggior ludibrio e dispreggio radere e tosare tutti i capelli. Così tutto

ad un tempo e dileggiato e tormentato il forte soldato di Christo fu

guidato alla sopradetta porta della città…”

A Filippino Lippi, nel 1486, fu commissionata da Filippo Strozzi il

Vecchio la decorazione della cappella Strozzi, situata nel transetto

destro della basilica di S. Maria Novella a Firenze. Il tema del ciclo

decorativo della cappella riguarda le storie di San Filippo, che

occupano la parete destra, e quelle di San Giovanni Evangelista, di

cui i Miracoli nelle lunette in basso e il Martiro nella lunetta

soprastante. Quest’ultima descrive l’esatto momento il cui il

proconsole d’Asia punta il dito per ordinare che venga effettuata la

tortura.

Giovanni è al centro immerso nell’olio bollente, dal

quale uscirà miracolosamente salvo. La serena

compostezza e sopportazione del santo rende

ancora più drammatica la scena, come drammatico e

carico di tensione è il volto di uno dei carnefici che si

ripara dal fumo e dal calore del fuoco, dietro lo

scudo di un soldato romano.

Rispetto ad artisti suoi contemporanei che ritraggono lo stesso

soggetto, Scipione Pulzone, depura la tradizione dai suoi eccessi

visionari e dall’affollamento compositivo per porre l’accento sulla

scena del martirio e concentrandosi, come suo solito, sulla verità

naturale dei corpi dei carnefici e delle vesti e sui dettagli, anche

quelli più minuti. Zeri considera la tela di sapore caravaggesco; la

consideriamo, infatti, perfettamente integrata nel clima culturale e

artistico paleottiano19 della Roma di quegli anni.

19

Il cardinale Gabriele Paleotti nel 1594 scrive e pubblica il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, descrivendo come le opere di soggetto religioso devono essere rappresentate e quale sia il ruolo dell’artista:…essendo l’officio del pittore l’imitare le cose nel naturale e puramente come si sono mostrate agli occhi de’ li mortali, non ha egli da trapassare i suoi confini, ma lasciare a teologi sacri dottori il dilatarle ad altri sentimenti più alti e più nascosti..”

Purtroppo la resa in bianco e nero della foto che ritrae la tela di

Pulzone, precedente al restauro, non ci consente di effettuare tutti i

confronti con l’opera del Caravaggio (a dir la verità nemmeno

attualmente è possibile godere completamente della pala della

cappella Carafa, a causa della pessima illuminazione), ma non è da

escludere che il Caravaggio, giunto a Roma, abbia guardato alle

opere di Pulzone e si sia avvicinato a quello stile improntato al gusto

della capitale pontificia, che si ispirava ai modelli proposti dal

ritrattista e pittore di soggetti religiosi, che aveva goduto di una

notevole fama.

DONATELLA VALENTINO

Bibliografia

- Chiese e palazzi della città di Napoli, GLEIJESES, Vittorio, Ed. del

Giglio, Napoli 1978

- Gleijese V., La Basilica di S. Domenico Maggiore e la sua Piazza,

Delfino, Napoli 1972

- Luigi Salerno L., Il convento di S. Domenico Maggiore in Napoli,

Napoli 1997

- Guide d’Italia, Napoli e dintorni, Touring Editore, Milano

ristampa del 2001

- Dora Catalano, a cura di, Scipione tra Napoli e Gaeta, in Scipione

Pulzone (1540 ca. -1598), da Gaeta a Roma alle Corti Europee,

catalogo della mostra, Palombi, Roma 2013, pp. 109-115

- De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani,

2003, I, p.755

- Ugonio P., Stazione XXXIX in Historia delle Stationi di Roma, che si

celebrano la Quadragesima, Bonfadino ed., Roma 1588


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