Il lavoro flessibile: tre tesi in discussione

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Il lavoro flessibile:

tre tesi in discussione Mercificazione del lavoro, quantificazione del lavoro flessibile e

correlazione tra flessibilità e occupazione

Storia del lavoro e dei rapporti sociali (LM)

marzo/maggio 2016

Paper di Giuseppe Pagano

Non ci sono fatti ma solo opinioni.

In una società una opinione è più opinione di un’altra in base alla sua ragionevolezza o alla sua forza.

Anche questa è una opinione e non un fatto.

INTRODUZIONE

Il tema della flessibilità del lavoro è ad oggi, 2016, uno dei temi più discussi all’interno della società occidentale. In termini trasversali a tutte le fasce di

popolazione dei diversi paesi industrializzati si discute oggi della validità o meno di politiche flessibili nel mercato del lavoro. Il tema riguarda una grande parte

della popolazione lavorativa tra cui molti giovani e ingloba al proprio interno una complessità di argomenti che per la loro comprensione richiedono capacità di

analisi e giudizio non indifferenti in campo economico, sociologico e storico.

Noi cercheremo di focalizzarci su alcuni argomenti specifici che, seppur nella loro trattazione non esauriscano il tema, sicuramente ne danno una prima

collocazione. Ci poniamo dunque come obiettivo la possibilità di rendere chiaro ad una parte dei lettori alcune argomentazioni ben spesso sentite e ribadite

soprattutto attraverso i mass media e che nella loro trattazione spesso rimangono superficiali e poco comprensibili nelle loro dinamiche più profonde.

La scelta si è focalizzata sulla ripresa di tre tesi che vengono sostenute a difesa della flessibilità del lavoro e che spesso vengono presentate come leggi

naturali, ovvie e quasi immodificabili. Noi all’interno di una trattazione critica che tuttavia non dimentica la correttezza metodologica e il dovere di un buon

studioso nel rendere comprensibile degli argomenti senza rifarsi nel limite della possibilità umana di valori di giudizio, cercheremo di affrontare queste tesi

presentandole e poi opponendogli delle argomentazioni contrarie definite controtesi.

La prima tesi si focalizza sul rapporto tra lavoro e lavoratore. All’interno delle trattazioni neoliberiste il lavoro viene presentato in quanto separabile

dall’individuo che lo compie e dunque possibile di mercificazione. Vedremo che all’interno del panorama intellettuale ed accademico che contempla autori

contemporanei come filosofi moderni c’è chi ha posto e pone delle riflessioni antitetiche a tali postulati.

La seconda tesi è invece correlata alla marginalità e provvisorietà che il lavoro flessibile dovrebbe rappresentare all’interno del mercato del lavoro. Anche in

questo caso vedremo come alcuni autori attraverso dei chiarimenti metodologici e l’utilizzo di dati rilevati dimostrino l’opposto evidenziando il ruolo

quantitativamente rilevante del lavoro flessibile.

Nella terza tesi viene sostenuto che il lavoro flessibile permette una maggiore occupazione e questo postulato è stato spesso ribadito per dare legittimità alle

richieste di deregolazione del mercato del lavoro da parte anche di grandi organizzazioni internazionali. I dati che analizzeremo sosterranno al contrario una

mancata correlazione tra mercato flessibile e maggiore occupazione.

Nelle conclusioni si sintetizzano i risultati ottenuti dalla ricerca ponendo delle considerazioni finali.

1

1) Tesi: il lavoro è una merce ed è separabile dalla persona che lo realizza.

Controtesi: il lavoro non ha le caratteristiche della merce e non deve essere mercificato.

La mercificazione del lavoro è un tema caro a molti studiosi tra cui Gallino che ne descrive in maniera chiara all’interno del proprio testo la sua concezione.

Mercificare o de-mercificare il lavoro è il principio alla base della minore o maggiore tutela del lavoratore e dunque della minore o maggiore propensione del

sentire comune all’adozione di contratti flessibili: “Durante il trentennio successivo alla Dichiarazione di Filadelfia, la legislazione sul lavoro prodotta dai

parlamenti, la giurisprudenza delle corti ordinarie e costituzionali e la dottrina elaborata dai giuslavoristi […] si sono sviluppate, nei maggiori paesi europei,

perseguendo in misura predominante l’affermazione del principio posto dall’Organizzazione in cima ai suoi massimi propositi (principio esposto

dall’Organizzazione internazionale del lavoro alla conferenza di Filadelfia del 1944 in cui veniva ribadito che il lavoro non è una merce, NdR). Per contro, a

partire dalla metà degli anni Settanta si è verificata negli stessi paesi, in sintonia con il ritorno del liberismo, […] una marcata inversione di tendenza. È tornato a

prevalere il principio per cui, dopo tutto, il lavoro non è altro che una merce. Ad un periodo di de-mercificazione del lavoro è dunque seguito, e prosegue tuttora

(2007, NdR), un periodo di accentuata ri-mercificazione del medesimo.” La tesi dunque di Gallino è che negli ultimi decenni, in particolar modo dagli anni ‘90, si

è assistito ad una mercificazione del lavoro testimoniato da alcuni esempi lampanti come il lavoro interinale dove il soggetto viene assunto da una azienda

somministratrice e passato ad una azienda utilizzatrice con la quale intrattiene un rapporto commerciale e che acquisisce appunto il lavoro come una ‘merce’.

E tuttavia secondo una possibile obiezione il lavoro potrebbe essere definito in quanto merce anche precedentemente al periodo definito da Gallino di

mercificazione del mercato del lavoro (quindi precedentemente agli anni ’90), in quel periodo che a partire dal dopoguerra fino agli anni ’70 viene descritto da

Gallino in quanto soggetto al contrario a processi di demercificazione. Dunque lavoro inteso come merce in un periodo che sbaglierebbe Gallino a definire in

quanto soggetto a demercificazione e che sarebbe confermato dalle rivendicazioni nello stesso periodo da parte dei sindacati, rivendicazioni che presuppongono il

lavoro in quanto merce a cui può essere assegnato un valore.

È bene dunque fare chiarezza sul tema in primo luogo definendo che cosa si intende con il termine merce. Merce è in generale definito nel dizionario Treccani

come: “Ogni bene economico, in genere prodotto del lavoro umano, in quanto oggetto di contrattazione e di scambio: m. buona,

pregiata, cattiva, scadente; m. conservabile, deperibile; m. in perfetto stato di conservazione, m. avariata; m. nazionali, estere; m. di provenienza illecita; m. di

contrabbando; un carico, un lotto di m.; imballare, spedire una m.; sequestrare una m.; luogo di provenienza di una merce.”1 Tenuto conto di questa definizione,

il lavoro, anche in epoche in cui era maggiormente tutelato, può essere definito per molti aspetti come merce in quanto oggetto di contrattazione (si veda il ruolo

dei sindacati) e di scambio (determinato da un corrispettivo in denaro).

Un polo importante della nostra ricerca si basa sul pensiero marxista che in molte opere si è concentrato sui rapporti di lavoro e sulla concezione del lavoro

stesso. Anche nel pensiero di Karl Marx il lavoro, o per meglio dire la forza-lavoro, deve essere considerata in quanto merce. Merce è per il filosofo tedesco tutto

ciò che ha un valore d’uso, ossia serva a soddisfare qualche bisogno, e tutto ciò che ha un valore di scambio, ossia la possibilità di essere scambiato con altre

merci2, mentre il valore della merce è dato dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per la sua produzione. È proprio all’interno dell’attribuzione di valore

1 Fonte: <http://www.treccani.it/vocabolario/merce/> (visitato il 10 aprile 2016).

2 “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e la merce singola si presenta come

sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce. La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa

2

alle merci che Marx codifica in maniera del tutto naturale e all’interno di diversi scritti la sua concezione di forza lavoro: l’operario infatti vende quella

particolare merce di cui egli è possessore, appunto la forza lavoro, scambiandola con il capitalista che gli offre del denaro equivalente al valore utile alla sua

sussistenza e che all’interno della concezione marxista è comunque inferiore al valore totale del lavoro svolto dall’operaio che caratterizza in quella porzione di

pluslavoro il plusvalore e poi il profitto del capitalista.3

Gallino presenta una differente concezione di merce e dunque una differente concezione dell’eticità del lavoro in quanto tale o non tale. Il sociologo implica

all’interno della sua rappresentazione di merce una connotazione non tanto economica, quanto di carattere personalistico e individuale; in termini più chiari è

merce per Gallino qualcosa da cui il soggetto può staccarsi senza risentire di ripercussioni su alcuni fattori importanti quali la propria autostima, la propria

identità personale, la propria collocazione sociale: “[…] il lavoro non è una merce. Così recitava il primo comma della Dichiarazione di Filadelfia del 1944 […].

In quelle sei parole era condensato il principio per cui non può essere considerato una merce, il lavoro, in quanto è un elemento integrale e integrante del soggetto

che lo presta, dell’identità della persona, dell’immagine di sé, del senso di autostima, della posizione nella comunità, della sua vita familiare presente e futura.”

Sembrerebbe più opportuno inserire un generalmente all’inizio della frase dato che alcuni individui non correlano tutti questi aspetti o alcuni di essi con il lavoro

che essi svolgono, ma in linea di massima sembra corretto affermare che una attività (generalmente ritenuta) importante quale quella lavorativa possa avere delle

ripercussioni sul modo in cui l’individuo si autorappresenta. All’interno di questa concezione dunque il libro su cui si è studiato per l’esame è merce in quanto

esso (se venduto ad esempio) non determina ripercussioni sistematiche sul vissuto personale di chi lo possiede (e può accadere comunque che si incontrino

persone che a distanza di anni ricordano ancora nostalgicamente quel libro venduto nel mercatino dell’usato). Al contrario del libro il lavoro non è una merce, o

meglio non deve esserlo, perché ha (generalmente) ripercussioni dirette sulla vita dell’individuo.

Il rapporto e la diretta correlazione tra persona (lavoratore) e lavoro svolto è presente già in Marx seppur in termini negativi all’interno della sua concezione di

alienazione. Il lavoratore è alienato rispetto all’attività lavorativa che svolge in quanto questa prende la forma di lavoro forzato o costrittivo; i fini del lavoro

svolto sono estranei all’operaio e utili all’arricchimento del capitalista e dunque il lavoratore si sente ‘bestia’ proprio laddove si dovrebbe sentire uomo nella

realizzazione di un lavoro di utilità sociale.4 La correlazione tra lavoratore e attività lavorativa è così forte in Marx che la sua mancata realizzazione porta

bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia nulla. […]

L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso. […] Il valore d'uso si realizza soltanto nell'uso, ossia nel consumo. I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della

ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di

scambio. Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso d'un tipo sono scambiati con valori d'uso di

altro tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi.” Marx K., Il capitale, I, cap. 1. 3 “Nella società borghese, infatti, il capitalista ha la possibilità di ‘comprare’ e ‘usare’ una merce particolare, che ha come caratteristica peculiare quella di produrre valore: si

tratta della «merce umana», ossia, fuor di metafora, dell’operaio. Il capitalista compra la sua forza-lavoro pagandola come una qualsiasi merce, ovvero secondo il valore

corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla: tale valore, nel caso dell’operaio, è pari a quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, generare e

lavorare, ossia al cosiddetto ‘salario’. Tuttavia l’operaio – ed è questa la fonte del plusvalore – ha la capacità di produrre con il proprio lavoro un valore ben maggiore di quello

che gli è corrisposto con il salario. Il plusvalore discende quindi dal pluslavoro dell’operario e si identifica con l’insieme del valore da lui gratuitamente offerto al

capitalista.”Abbagnano N., Fornero G., la filosofia 3a, Paravia, Milano, 2009, p. 126. 4 “Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì nell’atto della produzione, dentro la stessa attività producente. […] Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno

all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si affermi nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera

energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. A casa sua

3

alienazione e bestialità nell’uomo, è così forte da postulare una correlazione diretta tra lavoro svolto e Wesen del lavoratore, correlazione che esiste ma che non si

realizza nella società capitalistica determinando la fine della distinzione tra essere umano ed animale.5

Anche in Gallino sono evidenziati seppur in termini differenti gli effetti rilevanti del lavoro svolto sulla persona che lavora, o per essere più precisi gli effetti

del lavoro svolto sulla identità personale e collettiva che il lavoratore sviluppa di se stesso e che dunque spingono ad una maggior difesa del lavoratore e del

lavoro stabile al contrario del flessibile, reso legittimo dalla mercificazione del mercato del lavoro e alla base di grossi scompensi individuali e sociali (così come

l’attività capitalistica in Marx era fonte di alienazione). La separabilità o meno del lavoro dalla persona è dunque la chiave di lettura delle politiche lavorative:

“Ove si aderisca al principio per cui il lavoro non è una merce, si è portati a credere che qualunque provvedimento modifichi le condizioni generali e particolari

alle quali il lavoro viene prestato, a cominciare da quelle contrattuali, incide direttamente e indirettamente su tutti gli altri caratteri della persona. All’opposto, tra

le ricadute di maggior rilievo dell’idea di lavoro come merce va annoverata precisamente la separabilità del lavoro dalla persona. Se il lavoro è una merce, viene

naturale pensare alla separazione del lavoro stesso dalla persona del lavoratore e parlare d’un mercato – il mercato del lavoro – dove la merce stessa viene

scambiata e venduta allo stesso titolo di ogni altra merce. Al tempo stesso, le conseguenze che la separazione dal suo lavoro può avere sulla persona appaiono

irrilevanti.”6

Sarebbe interessante indagare ulteriormente se sussista effettivamente in ambito psicologico e sociologico una diretta correlazione tra lavoro svolto e identità

personale e collettiva e in caso positivo in che modalità essa si attui. Se questo rapporto venisse confermato sarebbe dunque utile sviluppare delle politiche

lavorative a favore dell’identità della persona e di tutti gli altri fattori personali che abbiamo prima descritto7; se tali politiche debbano spingere per conseguire la

tutela identitaria dell’individuo mediante una maggiore stabilità del lavoro (come sembra sostenere Gallino e il senso comune) o flessibilità del lavoro dovrebbe

essere anch’esso oggetto di ulteriori indagini sociologiche. D’altra parte la tutela del lavoratore potrebbe essere messa anche in secondo piano rispetto ad altri

interessi (ad esempio di carattere economico) ma ciò che deve interessare in primo luogo al ricercatore è la conoscenza profonda delle dinamiche lavorative e

delle loro conseguenze al di là di azioni consone o non consone da parte degli attori economici. Questi possono decidere semplicemente di ignorare i risultati di

ricerca e di non tutelare il lavoratore ma ciò nonostante continua a rimanere nostro compito evidenziare le conseguenze di certe scelte. È anche possibile ad ogni

egli è quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è

soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. […] Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel

bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più di una bestia. Il bestiale diventa l’umano e

l’umano il bestiale. […]” Marx K., Manoscritti economico-filosofici, III. 5 “L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire

all’oggetto la misura inerente; quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come

un ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua, dell’uomo e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi oggettivazione della

vita generica dell’uomo; poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede quindi se stesso in un mondo fatto da lui.

Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione (il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività in quanto è tramite la sua forza

lavoro che egli produce un oggetto, il capitale, che non gli appartiene e che lo domina, NdR basato su testo citato di Abbagnano, Fornero), è la sua vita generica che gli sottrae, la

sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura.” Marx K., Manoscritti

economico-filosofici, III. 6 Gallino L., Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma, 2009, p. 59.

7 In questa tesi a p. 2: identità della persona, immagine di sé, senso di autostima, posizione nella comunità, vita familiare presente e futura.

4

modo che la correlazione tra lavoro svolto e identità personale e collettiva del lavoratore non risulti confermata; la tesi di Gallino (come di altri) di una necessaria

demercificazione del lavoro per rispetto dell’individuo sarebbe allora totalmente infondata spingendo dunque per la tesi neoliberista della mancata correlazione

tra lavoro svolto e persona che lo svolge.8

Sembra degno concludere con le parole di Karl Polanyi9 che con la voce di un grande saggio afferma: “La presunta merce «forza-lavoro» non può infatti

essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di

questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale «uomo» che si

collega a questa etichetta.”10

In questo caso parleremo di lavoro in quanto (presunta) merce, ma merce differente rispetto a tutte le altre in quanto determinante

implicazioni rilevanti sulla individualità di chi lavora, argomento sostenuto già da altre personalità prima descritte.

2) Tesi: Il lavoro flessibile è nel mercato del lavoro solo marginale e transitorio verso un posto di lavoro più stabile e duraturo nel tempo.

Controtesi: Il lavoro flessibile coinvolge un numero molto rilevante di persone.

Un punto centrale all’interno dell’analisi della flessibilità del lavoro è comprendere quante persone sulla popolazione attiva siano coinvolte. In questo modo è

possibile quantificare l’incidenza del lavoro flessibile e comprendere anche il possibile utilizzo manipolatorio che questi dati possono subire per scopi politici e

persuasivi non meglio precisati. Una cosa è sostenere che un grande numero dei lavoratori ha una qualche forma di lavoro flessibile, altro invece è definire il

lavoro flessibile solamente come parte marginale e transitoria del mercato del lavoro.

Dal punto di vista metodologico è importante chiarire, in primis, come numeri e percentuali possano essere letti in maniera differente dando luogo a diverse

interpretazioni e, in secondo luogo, come i metodi stessi di acquisizione dei dati possano trovarsi di fronte a diversi ostacoli che ne mettono in dubbio la loro

legittimità.11

Per quanto riguarda l’Italia, che risulta essere l’oggetto di analisi del nostro studio, sono interessanti le cifre fornite dai più importanti istituti internazionali

riprese nel testo di Barbier e Nadel12

e in Gallino.13

Ciò che sembra prevalere è un rafforzamento del lavoro flessibile sul mercato del lavoro italiano negli ultimi

due-tre decenni descritto in maniera chiara dai due testi (il primo uscito nel 2002 e il secondo nel 2009) con un aumento considerevole di lavoratori flessibili negli

anni ’90 (Barbier e Nadel) che continuano ad aumentare nel primo decennio del XXI secolo (Gallino).

8 Alla figura A in Appendice di questo lavoro è presente un utile schema riassuntivo delle indicazioni qui esposte.

9 Sociologo e antropologo, nato a Vienna il 25 ottobre 1886, morto il 23 aprile 1964. Di origine ungherese, cresciuto nell'ambiente della borghesia radicale di Budapest, risentì

nella sua formazione del clima aperto e ricco di stimoli della cultura centroeuropea. Fonte: <http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/karl-polanyi/> (visitato il 14 aprile 2016). 10

Polanyi K., La grande trasformazione, 1944. 11

Come ad esempio: 1) le discrepanze tra le metodologie utilizzate nella raccolta dati tramite interviste e nei contratti registrati presso i diversi enti previdenziali e assicurativi; 2)

l’incapacità dell’intervistato di descrivere adeguatamente il suo contratto di lavoro nelle interviste telefoniche; 3) il relativamente piccolo impianto campionario di 175 mila

intervistati (NdR oggi passato a oltre 250 mila famiglie) che nella definizione di piccoli gruppi può risultare assai impreciso nello strumento più utilizzato nella definizione delle

forze del lavoro, ossia la rilevazione campionaria dell’Istat. Cfr.: Gallino L., Il lavoro non è una merce, Editori Laterza, 2009, pp. 14-16. 12

Di fatto nell’introduzione alla edizione italiana scritto da Castellucci e Pugliese: Barbier J.C., Nadel H., La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli, Roma, 2002, pp.

VII-XXV. 13

Gallino L., Il lavoro non è una merce, Editori Laterza, 2009, pp. 11-25.

5

I dati Istat del periodo tra il 1996 e il 2000, citati da Castellucci e Pugliese mostrano un incremento di lavoratori atipici14

che passano da 1,642 milioni (11.51%

dei 14.272 milioni di dipendenti e 8.16% degli 20.125 milioni di occupati) del 1996 a 2.383 milioni (15.75% dei 15.131 milioni di dipendenti e 11.30% dei

21.080 milioni di occupati) del 2000 con un aumento di oltre 600 mila persone e un tasso medio di incremento pari al 7,7% annuo e una elevata quantità di

lavoratori involontari (43%) che avrebbero preferito un lavoro a tempo indeterminato. È importante sottolineare che all’interno di queste cifre non sono

considerati i lavoratori autonomi a tempo parziale (pari a 438 mila nel 2000 e aumentato di 47 mila lavoratori dal 1996) e ovviamente il lavoro informale.

La cifra di 2.383 milioni di lavoratori flessibili del 2000 diviene assai più rilevante in Gallino che considerando dei dati relativi al 2007 stima un numero di

lavoratori flessibili pari a 5-6 milioni di regolari a cui ne vanno aggiunti altri 5 implicati nel lavoro informale, per un totale di ben 10-11 milioni di lavoratori

coinvolti nella flessibilità del lavoro. Questa cifra è determinata da: a) 2,1 milioni di dipendenti con un lavoro a termine pari al 12.6% del totale di 16,8 milioni; b)

2.3 milioni di occupati a tempo parziale (part-time) di cui tuttavia 0.5 milioni conteggiati tra gli occupati che hanno un lavoro a termine. La cifra totale dunque di

dipendenti che hanno una occupazione flessibile secondo i rilevamenti Istat nel primo trimestre 2007 sarebbero 3.9 milioni pari a 2.1 milioni di dipendenti con

contratto a tempo determinato + 1.8 milioni di dipendenti con contratto a tempo parziale;15

c) 1 milione di lavoratori parasubordinati (denominati dopo il decreto

276/2003 co.co.co); d) 200 mila lavoratori circa con contratti di prestazione occasionale e i lavoratori intermittenti; e) circa 5 milioni di lavoratori flessibili

irregolari di cui 1.8 milioni di irregolari a tempo pieno e 3 milioni di persone che svolgono un lavoro a tempo parziale non dichiarato oppure un secondo lavoro in

nero.

In conclusione, dai dati qui rilevati in rapporto all’Italia alla fine degli anni ’90 e nel 2007 (indagine eventualmente estendibile con ulteriori ricerche) risulta

esserci un incremento importante nel numero dei lavoratori flessibili. L’indagine Istat mostra chiaramente come in relazione ai soli dipendenti con contratto a

tempo determinato questo numero sia cresciuto dai 1.642 milioni nel 1996, passando per 2.383 milioni del 2000 e una cifra di 3.9 milioni nel 2007. Inoltre

secondo i dati qui analizzati vi sarebbe una consistente massa di lavoratori distribuita tra parasubordinati, lavoratori in prestazioni occasionali o intermittenti,

lavoratori interinali e lavoratori informali che sono sottoposti alla flessibilità. Parafrasando le parole di Gallino: “Sembra dunque di essere in presenza d’una

condizione sociale più pesante e diffusa di quanto non dicano ogni giorno gli articoli rassicuranti sulla modesta consistenza e stabilità nel tempo del lavoro

flessibile, oppure i sagaci commentatori sulla «precarietà percepita» come stato d’animo in fondo immotivato, in quanto non corrispondente alla realtà. Dire che

la politica dell’ultimo decennio ha drasticamente sottovalutato tale condizione significa tenersi molto al di sotto delle righe.”16

3) Tesi : il lavoro flessibile aumenta l’occupazione.

Controtesi: non vi è una correlazione positiva tra aumento della flessibilità ed aumento dell’occupazione.

Un tema assai discusso all’interno del dibattito per la legittimità o meno di politiche a favore della flessibilità del lavoro, intesa come facilitazione nei

licenziamenti o diffusione di contratti a tempo determinato che la equivalgono negli effetti, è quella della correlazione o meno tra aumento della flessibilità del

lavoro e aumento dell’occupazione.

14

Includenti l’insieme degli occupati dipendenti a tempo parziale, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, e i dipendenti a termine a tempo pieno. 15

Questo indicatore corrisponde a quello di lavoratori atipici presentato da Castellucci e Pugliese. 16

Gallino L., Il lavoro non è una merce, Editori Laterza, 2009, p. 10.

6

Coloro che difendono la flessibilità del lavoro anche ai piani alti (economisti, giuslavoristi, imprenditori, dirigenti di azienda) sostengono sovente che la

flessibilità è non solo consigliabile, ma un imperativo all’interno di una società che voglia il proprio bene, poiché determinante una maggiore occupazione.

Noi, in termini di studiosi che decidiamo di approfondire ragionevolmente un tema al di là di qualunque aspetto fazioso, dobbiamo in primo luogo definire

cosa si intenda per occupazione (in modo tale da evitare di considerare occupato chi non lo è e viceversa), in secondo luogo discutere la metodologia utilizzata

nel ricavare i dati dell’occupazione e infine una volta definita l’occupazione e quantificata la sua presenza si può procedere nella verifica della correlazione tra

occupati e flessibilità.

Il concetto di occupazione o di persona occupata che dir si voglia non è universale, questo è bene constatarlo; essa è mutevole e determinata da definizioni

convenzionali decise in larga parte ai piani alti del potere. In Italia, ad esempio, seguendo le indicazioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro nelle

rilevazioni Istat è occupato colui che nella settimana precedente di rilevazione ha svolto almeno un’ora di lavoro in qualsiasi attività retribuita in denaro e natura;

disoccupato e dunque iscrivibile all’interno dei Centri per l’impiego italiani secondo il decreto legislativo n. 297 del 19 dicembre 2002 è colui invece che oltre ad

essere privo di lavoro e immediatamente disponibile a lavorare ha concordato le modalità di ricerca attiva del lavoro con i servizi competenti.

Accanto alla convenzionalità e mutabilità della definizione di occupato vi è anche la possibilità di rifarsi a diversi tipi di occupazione. Possono essere considerati

ad esempio il numero degli occupati (intesi in persone fisiche) o il numero di ore lavorate che dunque può portare facilmente a degli sfaldamenti tra i due

indicatori. Solo per citare due possibili esempi può accadere che aumentino il numero degli occupati (ad esempio con un maggior numero di lavoratori a tempo

determinato o part-time) pur rimanendo invariato il numero delle ore lavorate e se per occupazione intendiamo il numero degli occupati avremmo sicuramente

una maggior occupazione; è possibile all’inverso che il numero delle persone occupate diminuisca o rimanga uguale con un maggior numero di ore lavorate

qualora aumenti il carico di lavoro per ciascun individuo e se per occupazione intendiamo il numero di ore lavorate registreremmo anche in questo caso un

aumento dell’occupazione. Cosa si intenda per occupazione (e dunque suo aumento) è anche in questo caso spesse volte convenzionale e determinato dalla

volontà di difendere o meno una data politica per il lavoro.

Sicuramente la metodologia utilizzata nella raccolta dati dell’occupazione è anch’esso un tema sensibile in quanto oltre alla convenzionalità della definizione

di occupato vi è anche la difficoltà di determinare oggettivamente coloro che rientrano in tale etichetta. In Italia vi sono diversi indicatori che presentano quasi

tutti delle problematicità. Essi sono: 1) il numero dei contratti registrati presso gli istituti di previdenza, assistenza e prevenzione (Inps, Inpdap, Inail), tuttavia vi

sono centinaia di enti previdenziali in Italia ognuno con un proprio sistema di archiviazione dati difficilmente coniugabile con gli altri; 2) il numero dei

disoccupati iscritti presso i Centri dell’impiego, tuttavia per essere disoccupati bisogna tener conto di alcuni criteri spesso restrittivi; 3) la determinazione

dell’occupazione informale mediante l’analisi del Pil; 4) la rilevazione mediante censimento della popolazione, l’indicatore più attendibile che tuttavia si realizza

solo ogni 10 anni; 5) la rilevazione statistica trimestrale dell’Istat su un campione di popolazione, tuttavia disoccupato è colui che oltre a non avere lavorato

(solamente) un’ora nella settimana passata alla rilevazione, ha svolto un’azione attiva di ricerca di lavoro nei 30 giorni precedenti.

Anche in questo caso, seppur il criterio più adottato sia la rilevazione Istat (già di per sé caratterizzata da difficoltà oggettive nella determinazione del numero di

occupati), definire un aumento dell’occupazione o meno può essere determinata dalla scelta (anche politica) di utilizzare dei dati rispetto a degli altri.

Una volta definiti meglio i problemi metodologici relativi alla definizione di occupato e alla sua quantificazione possiamo adesso evidenziare se effettivamente

sussista un rapporto positivo tra flessibilità ed occupazione.17

17

Su questa prima parte del paragrafo si è utilizzato: Gallino L., Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma, 2009, pp. 45-56.

7

Un rapporto positivo tra maggiore flessibilità del lavoro e aumento dell’occupazione è sovente sostenuto dalle élite decisionali dell’economia e della finanza.

Soprattutto negli anni Novanta l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) non ha avuto alcun remore nell’ammonire l’Italia

invitandola più volta ad introdurre una maggiore flessibilità del lavoro per aumentare competitività ed occupazione. L’Ocse è stata anche la responsabile nella

creazione di un indice che misura il grado di protezione dell’occupazione determinato dalle normative dei diversi Stati che prende il nome di EPL, ossia

Employment Protection Legislation Index (indice di protezione legislativa dell’occupazione, in italiano). L’indice è determinato da 21 fattori relegati in 3 settori

(facilità di licenziamento di lavoratore a tempo indeterminato, contratti a termine standard ed interinali, licenziamenti collettivi) che possono avere un punteggio

da 0 (minima protezione del lavoratore) a 6 (massima protezione del lavoratore). Si vengono a determinare due sotto-indicatori che compongono l’EPL e che

sono rispettivamente l’EPRC (indice per la protezione del lavoro a tempo indeterminato) e l’EPT (indice per la protezione dei lavoratori a tempo determinato).

Analizziamo i dati che comprendono l’andamento EPL dal 1990 al 2013 per i maggiori paesi europei presenti nella figura 1 in Appendice. Si nota chiaramente in

questa tabella che in quasi tutti i paesi europei (tutti tranne Francia, Gb e Irlanda) si è attuato, in linea con le direttive sostenute dall’Ocse, una deregolazione del

mercato del lavoro con una diminuzione spesso consistente dell’EPL. L’Italia nello specifico vede una diminuzione dell’EPL da 3.818 a 2.256 con il suo valore

poco superiore ad alcuni paesi europei quali Svezia e Danimarca, perfettamente in linea ad altri come Germania e Belgio se non addirittura sotto a paesi come

Francia e Spagna che risultano dunque più regolamentati. L’Italia dunque al 2013 non sembra presentare un grado di protezione del lavoro superiore a molti paesi

europei come le viene spesso rimproverato.

Altrettanto interessanti sono i dati EPRC (grado di protezione del lavoro a tempo indeterminato) del medesimo periodo presenti nella figura 2 dell’Appendice.

L’Italia presenta un grado di protezione del lavoro a tempo indeterminato perfettamente in linea con i maggiori paesi europei (con la sola eccezione della Gran

Bretagna) e meno tutela rispetto a Portogallo e Germania. La Germania in particolare ha visto addirittura un aumento di tutela del lavoro dal 2004 in poi così

come la Francia seppur quest’ultima solamente per un breve periodo.

Per quanto riguarda l’EPT (grado di protezione del lavoro a tempo determinato) osserviamo i dati presenti nella figura 3 dell’Appendice. Anche in questo caso

l’Italia presenta una tutela del lavoratore a tempo determinato non molto dissimile a quella di altri Stati europei e risulta essere tra i paesi che più di ogni altro

hanno visto una diminuzione del valore EPT portandosi da un valore vicino al 5 nel 1990 a un valore stabile di 2 nel 2013 con diminuzioni radicali nel 1997 e nel

2003 in corrispondenza dell’adozione del pacchetto Treu e della legge Biagi.

Una volta definiti con chiarezza nel periodo 1990-2013 (su dati Ocse) il valore EPL e i suoi due sottoinsiemi che effettivamente evidenziano un processo di

flessibilizzazione del mercato in Italia (come in molti altri paesi europei) e una diminuzione della protezione del lavoratore, cerchiamo ora di verificare quelli che

sono i valori della disoccupazione nel medesimo periodo nella figura 4 presente in Appendice, così da poter effettuare un paragone tra EPL dei diversi paesi e

aumento o diminuzione dell’occupazione.

È in primo luogo fondamentale evidenziare come i tassi di disoccupazione possono sviluppare delle letture molteplici, spesso divergenti tra loro, e come tali tassi

siano determinati da innumerevoli fattori spesso di difficile definizione.

In linea generale comunque diremo come tutti i paesi europei, tranne la Germania e l’Austria (e parzialmente il Belgio), registrano un aumento della

disoccupazione in alcuni casi anche rilevante a partire dal 2007/2008. Tenendo in considerazione il periodo che va dal 1990 al 2013 (con particolare attenzione al

periodo pre-crisi) e mettendo a confronto i dati dell’occupazione con i dati EPL prima esposti risultano degli elementi interessanti: la Grecia che adotta una

diminuzione consistente dell’EPL da 3.7 del 1990 a 2.1 del 2013 vede un mantenimento della disoccupazione fino al 2007/2008 e poi un suo aumento

8

vertiginoso, il Portogallo nonostante anch’esso adotti una riduzione consistente dell’EPL da 4.1 del 1990 a 2.4 del 2013 sperimenta un aumento della

disoccupazione dal 5.6% del 1990 al 16.4% del 2013. L’Italia che ha visto una riduzione dell’EPL consistente da 3.8 del 1990 a 2.2 del 2013 vede una

disoccupazione compresa tra il 6 e il 12% in cui il valore più alto (12.1% nel 2013) corrisponde all’EPL più basso registrato (2.256 nel 2013). Il Belgio

diminuisce anch’esso le tutele dei lavoratori tuttavia mantenendo un tasso di disoccupazione in linea con il periodo con EPL maggiore, mentre la Svezia che vede

una considerevole diminuzione nella tutela del lavoratore dimezzando l’EPL da 3.4 del 1990 all’1.7 del 2013 vede un tasso di disoccupazione che dall’1.7% del

1990 con EPL 3.4 passa all’8% del 2013 con EPL 1.7. È interessante notare invece che i paesi che hanno avuto un aumento, seppur minimo, della tutela del

lavoratore come Francia, GB e Irlando non abbiano riscontrato una diminuzione dell’occupazione, ma anzi nel periodo pre-crisi una piccola flessione della

disoccupazione. In linea generale infine la disoccupazione in Europa, nonostante una consistente diminuzione della tutela dei lavoratori in quasi tutti i paesi

europei, non ha registrato cali considerevoli nel periodo pre-crisi e considerando il periodo dal 2007 in poi ha visto invece un chiaro aumento.

Di fatto non si vuole sostenere in questo lavoro che la diminuzione della protezione del lavoro produca più disoccupazione (tesi che viene eppure talvolta

affermata), né si è inconsapevoli del fatto che molteplici fattori economici (e non solo il grado di flessibilità del mercato) hanno un ruolo determinante nel tasso di

disoccupazione dei singoli Paesi, ma ciò che risulta evidente dai dati analizzati è che chi sostiene semplicisticamente che la deregolazione del mercato del lavoro

produca più occupazione o ancora peggio sia la ricetta contro la crisi venga contraddetto palesemente dai numeri.

D’altra parte gli stessi rapporti Ocse del 1996 e del 2004, rapporti che dovrebbero spingere coerentemente con la politica sostenuta da questa organizzazione

internazionale verso una deregolazione del lavoro, entrano in palese contraddizione allineandosi ai risultati sopra esposti.

Nel rapporto Ocse del 1996 (Employment Outlook) vengono fuori una serie di dati sul sistema occupazionale di diversi Stati nazionali. In primo luogo i dati si

riferiscono in alcuni casi a periodi non omogenei e dunque pongono dei problemi metodologici non indifferenti; in secondo luogo il rapporto tra EPL e l’aumento

dell’occupazione non sembra essere confermato. Si osservino le figure numero 5 e 6 presenti in Appendice. Come si nota chiaramente dalla tabella non sembrano

esserci correlazione tra un basso EPL e un aumento dell’occupazione visto che l’Irlanda che presenta un valore di 0.9 vede tra il 1984 e il 1985 una diminuzione

dell’occupazione, mentre l’Italia che ha un EPL molto più alto di 4.1 vede nel periodo tra il 1987 e il 1992 un aumento dell’occupazione dell’1%. Paesi dall’EPL

poco più basso dell’Italia come Belgio e Svezia vedono al contrario una diminuzione dell’occupazione mentre in Finlandia dove il valore della protezione del

lavoratore è pari alla metà di quello italiano si assiste ad una diminuzione dell’occupazione. Il rapporto Ocse del 2004 non sembra essere più convincente

all’interno dell’analisi dei quindici anni precedenti in materia di riforme del lavoro e aumento di flessibilità. Il rapporto constata come effettivamente si siano

attuate diverse riforme in vari Stati europei con alto EPL introducendo forme di lavoro temporaneo, ma al tempo stesso sostiene come il lavoro a tempo

indeterminato non sembra essere stato oggetto di riforme simili determinando dunque la probabile inefficacia della maggiore flessibilità introdotta sull’aumento

dell’occupazione a scala globale; questa tesi tuttavia non viene ulteriormente approfondita. È probabilmente vero che un mercato più stabile mantenendo più

assiduamente i propri lavoratori consenta minori assunzioni, ma sembra altrettanto vero che un mercato lavorativo più dinamico pur permettendo maggiori

assunzioni al tempo stesso implica maggiori licenziamenti. La correlazione tra occupazione e flessibilità (EPL) è ancora una volta non confermata (dallo stesso

organismo che dovrebbe dimostrarla) questa volta non tramite dei dati numerici bensì attraverso delle affermazioni per iscritto: “[…] l’impatto netto dell’EPL

sulla disoccupazione aggregata è a priori ambiguo, e può essere individuato soltanto nell’indagine empirica […] i numerosi studi empirici condotti su questo tema

portano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità è stata messa in dubbio.”18

18

Si veda le considerazioni tratte direttamente dal rapporto Ocse 2004 nella figura 7.

CONCLUSIONI

Il lavoro qui svolto è stato utile per confutare o perlomeno mettere in discussione delle tesi sostenute riguardo al lavoro flessibile.

Il dibattito sulla considerazione del lavoro in quanto merce o non-merce viene ritenuto come principio fondamentale alla base delle scelte politiche in ambito

lavorativo. Si è cercato di definire meglio che cosa si intenda per merce e abbiamo constatato che vi sono diverse interpretazioni di essa; queste diverse

interpretazioni determinano dunque anche un diverse colorito alla definizione di lavoro in quanto merce. Ci siamo focalizzati su aspetti di carattere utilitaristico e

commerciali della merce e poi su aspetti di carattere individualistico e personalistico. Il lavoro è merce in termini economici ma secondo coloro che spingono per

una maggior tutela del lavoratore non deve esserlo in termini ‘umani’ poiché implicante conseguenze di carattere personale sull’individuo; le posizioni

neoliberiste spingono invece per una separazione tra lavoratore e lavoro svolto senza una correlazione tra di essi. La spaccatura tra le due posizioni continua a

mantenersi netta e risultante nelle divisione tra mercificazione e demercificazione del lavoro.

Sulla quantificazione del lavoro flessibile abbiamo constatato come esso è tutt’altro che irrilevante e transitorio come spesse volte affermato. Dalla ricerca

risulta come vi sia un costante aumento di lavoratori flessibili a partire dagli anni ’90, periodo in cui si sviluppano in termini considerevoli politiche di

deregolazione del mercato del lavoro con disincentivazione della protezione del lavoratore. Il dato sorprendente, oltre l’aumento considerevole di lavoratori

implicati nel lavoro flessibile negli ultimi decenni, è la quantificazione totale di essi che risulta essere nel paese italiano di diversi milioni.

Il rapporto tra maggiore flessibilità e maggiore occupazione non ha portato a risultati confermativi. È di certo evidente che in quasi tutti i paesi europei vi è

stata una diminuzione spesse volte anche notevole della legislazione a tutela del lavoratore e questo è confermato anche nel caso italiano; l’Italia è stato uno dei

paesi che ha visto una maggiore differenza in termini di tutela del lavoro negli ultimi due decenni con una protezione del lavoratore che è scesa drasticamente tra

inizio anni ’90 e 2013, anno in cui era praticamente in linea con gran parte dei paesi europei. Nonostante la consistente deregolazione del mercato del lavoro

determinata dalla volontà di aumentare l’occupazione, i dati relativi ai tassi di disoccupazione nei principali paesi europei dimostrano come non vi sia stata una

diminuzione della disoccupazione negli ultimi due decenni e anzi come a partire dalla crisi economica del 2007 essa sia aumentata in quasi tutti i paesi

considerati. In Italia la tutela del lavoratore è molto più bassa rispetto a venti anni fa ma l’occupazione non è affatto aumentata.

Si conclude il lavoro nella maggiore consapevolezza della complessità dei temi esposti e nel tentativo di aver dato al lettore una prima chiave interpretativa di

essi. La conoscenza solamente può permettere a colui che lavora di mantenere una propria consapevolezza e una propria dignità.

Giuseppe Pagano

APPENDICE:

Figura A: implicazioni derivanti dalla separabilità o meno del lavoro rispetto al lavoratore.

NO

Indagine: qual è la politica

lavorativa che meglio tutela il

lavoratore?

Lavoro stabile e permanente

(tesi di Gallino)

Lavoro flessibile

Tesi sostenuta dal pensiero neoliberista e implicante

una mercificazione del mercato del lavoro in cui le

condizioni lavorative sono da ritenersi ininfluenti in

rapporto al lavoratore e alla sua identità

Lavoro flessibile

Azione: nessuna politica

a difesa del lavoratore

nella consapevolezza

delle sue conseguenze

Azione: adozione di

politiche lavorative che

tutelino il lavoratore

Corrisponde alla tesi sostenuta da Gallino ed

implica una demercificazione del mercato del

lavoro SI

Lavoro identità della persona,

immagine di sé, senso di autostima,

posizione nella comunità, vita familiare

presente e futura.

Indagine: vi è correlazione tra il

lavoro svolto e i fattori identitari

elencati?

Figura 1: dati EPL dal 1990 al 2013 per i maggiori paesi europei. Fonte: Ocse e sito <http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/gli-insuccessi-nella-

liberalizzazione-del-lavoro-a-termine/>, (visitato il 10 aprile 2016).

Figura 2: dati EPRC (grado di protezione del lavoro a tempo indeterminato) dal 1990 al 2013 per i maggiori paesi europei. Fonte: Ocse e sito

<http://www.eticaeconomia.it/gli-indici-di-employment-protection-legislation/> (visitato il 13 aprile 2016).

Figura 3: dati EPT (grado di protezione del lavoro a tempo determinato) dal 1990 al 2013 per i maggiori paesi europei. Fonte: Ocse e sito

<http://www.eticaeconomia.it/gli-indici-di-employment-protection-legislation/> (visitato il 13 aprile 2016).

Figura 4: dati della disoccupazione dal 1990 al 2013 per i maggiori paesi europei. Fonte: tabella elaborata dall’autore con dati ripresi da Eurostat,

<http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&plugin=1&language=en&pcode=tsdec450>, (visitato il 11 aprile 2016).

Austria Belgio Germania Danimarca Spagna Finlandia Francia GB Grecia Irlanda Italia Paesi Bassi

Portogallo Svezia Area Euro 17 paesi

Area Euro 18 paesi

1990 - 6.6 - 7.2 15.5 3.2 7.9 6.9 - 13.4 8.9 6.1 5.6 1.7 - -

1991 - 6.4 5.5 7.9 15.5 6.6 8.1 8.6 - 14.7 8.5 5.7 5.0 3.1 - -

1992 - 7.1 6.6 8.6 17.0 11.7 9.0 9.8 - 15.4 8.8 5.7 5.0 5.6 - -

1993 - 8.6 7.8 9.6 20.8 16.3 10.1 10.2 - 15.6 9.7 6.5 6.3 9.1 - -

1994 4.3 9.8 8.4 7.7 22.0 16.6 10.4 9.3 - 14.3 10.6 7.2 7.6 9.4 - -

1995 4.2 9.7 8.2 6.7 20.7 15.4 10.2 8.5 - 12.3 11.2 8.3 7.9 8.8 10.7 -

1996 4.7 9.5 8.9 6.3 19.9 14.6 10.5 7.9 - 11.7 11.2 7.7 8.0 9.6 10.8 -

1997 4.7 9.2 9.6 5.2 18.4 12.7 10.7 6.8 - 9.9 11.2 6.5 7.5 9.9 10.8 -

1998 4.7 9.3 9.4 4.9 16.4 11.4 10.3 6.1 11.1 7.5 11.3 5.1 6.1 8.2 10.3 -

1999 4.2 8.5 8.6 5.2 13.6 10.2 10.0 5.9 12.0 5.7 10.9 4.2 5.5 6.7 9.6 9.6

2000 3.9 6.9 7.9 4.3 11.9 9.8 8.6 5.4 11.2 4.3 10.0 3.7 5.1 5.6 8.7 8.8

2001 4.0 6.6 7.8 4.5 10.6 9.1 7.8 5.0 10.7 3.9 9.0 3.1 5.1 5.8 8.1 8.2

2002 4.4 7.5 8.6 4.6 11.5 9.1 7.9 5.1 10.3 4.5 8.5 3.7 6.2 6.0 8.5 8.5

2003 4.8 8.2 9.7 5.4 11.5 9.0 8.5 5.0 9.7 4.6 8.4 4.8 7.4 6.6 9.0 9.0

2004 5.5 8.4 10.4 5.5 11.0 8.8 8.9 4.7 10.6 4.5 8.0 5.7 7.8 7.4 9.2 9.3

2005 5.6 8.5 11.2 4.8 9.2 8.4 8.9 4.8 10.0 4.4 7.7 5.9 8.8 7.7 9.1 9.1

2006 5.3 8.3 10.1 3.9 8.5 7.7 8.8 5.4 9.0 4.5 6.8 5.0 8.9 7.1 8.4 8.4

2007 4.9 7.5 8.5 3.8 8.2 6.9 8.0 5.3 8.4 4.7 6.1 4.2 9.1 6.1 7.5 7.5

2008 4.1 7.0 7.4 3.4 11.3 6.4 7.4 5.6 7.8 6.4 6.7 3.7 8.8 6.2 7.6 7.6

2009 5.3 7.9 7.6 6.0 17.9 8.2 9.1 7.6 9.6 12.0 7.7 4.4 10.7 8.3 9.5 9.6

2010 4.8 8.3 7.0 7.5 19.9 8.4 9.3 7.8 12.7 13.9 8.4 5.0 12.0 8.6 10.1 10.1

2011 4.6 7.2 5.8 7.6 21.4 7.8 9.2 8.1 17.9 14.7 8.4 5.0 12.9 7.8 10.1 10.1

2012 4.9 7.6 5.4 7.5 24.8 7.7 9.8 7.9 24.5 14.7 10.7 5.8 15.8 8.0 11.3 11.4

2013 5.4 8.4 5.2 7.0 26.1 8.2 10.3 7.6 27.5 13.1 12.1 7.3 16.4 8.0 12.0 12.0

Figura 5: EPL e Job turnover in alcuni paesi europei. Fonte: Gallino L., Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma, 2009, pp. 52-53.

Paese Periodo di riferimento EPL in punti (protezione del

lavoro)

Job turnover (% aumento

occupazione)

Italia 1987-1992 4,1 1

Irlanda 1984-1985 0,9 -3,9%

Belgio e Svezia 1987-1992 Poco più basso dell’Italia -0,1%

Finlandia 1986-1991 2,3 -1,6%

Figura 6: quantificazione tra acquisizione e perdita di lavoro in alcuni paesi industrializzati nel periodo compreso tra metà anni ’80 e inizio anni ’90. Fonte: Oecd

Empolyment Outlook 1996, chapter 5, p. 196.

Figura 7: considerazioni Ocse sul grado di protezione del lavoro (indice EPL) e occupazione. Fonte: Oecd Employment Outlook 2004, capitolo 2, p. 63.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

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Marx K., Il capitale, I.

Marx K., Manoscritti economico-filosofici, III.

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Polanyi K., La grande trasformazione, 1944.