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Virginia Cardi
Care foto. Riflessioni in margine ad un archivio familiare
Care foto. Riflessioni in margine ad un
archivio familiare
di Maria Virginia Cardi
Care foto, talmente care da essere per tanto tempo scivolate
nell’oblio. Pare una contraddizione, e invece non lo è.
Conosco molti casi di famiglie assai più ricche di memorie
rispetto a quella di cui scrivo, che lasciarono all’aura del
tempo le immagini della propria storia. Oblio e non
dimenticanza.
Ho cercato di esplorare le ragioni culturali di questo
sentimento complesso, che è anche il mio; la dominante più
di spicco dello stato di coscienza del raccoglitore o del
depositario di tali beni è l’horror vacui di fronte alla
moltitudine delle foto o degli album, il gran mare del tempo
tra noi e quegli sguardi così vivi, che spesso abbiamo
difficoltà ad identificare; spesso gli archivi fotografici di
famiglie assai stratificate constano di migliaia di ritratti, è
un’impresa contenere tale enormità di storie, di vicende cui
le immagini si riferiscono.
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Il tentativo spesso fallisce, anche per l’arduo adempimento
di una riorganizzazione che le valorizzi, ma che più ancora le
renda fruibili attraverso una nuova narrazione, che le
contestualizzi al fine di farle parlare ancora.
Il depositario spesso è sovrastato dal senso del perduto che
quelle immagini rappresentano: persone che non esistono
più, mondi scomparsi. Dunque le memorie hanno una gravità
ed un peso specifico non sempre sostenibile. Occorre avere
una certa esperienza dei beni che le memorie ci consegnano,
e più ancora un forte “antidoto alla malinconia”, senza il
quale il compito sarà impossibile.
L’archivio di cui scrivo1 annovera tremila fotografie circa, dal
1850 al 1950, di cui diverse centinaia amatoriali. Oltre una
1 L’archivio di cui si scrive appartiene alla famiglia Fagnani Pani Cardi di Rimini
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settantina gli studi rappresentati, operanti nel territorio
italiano e francese.
Dal dagherrotipo all’ambrotipia, dalle foto all’albumina alle
tecniche più raffinate, dalle foto realizzate in studio, a quelle
amatoriali eseguite con Kodak di inizio secolo.
L’archivio riunisce diverse raccolte provenienti dalle varie
componenti di questo tessuto familiare, in una notevole
stratificazione temporale. Esempio tra i tanti a raccontare
indirettamente vicende, abitudini socialmente condivise
presso un ambiente gentilizio e alto borghese di una Italia
centro-‐ settentrionale. Tessuto molto segmentato, tra cui si
annoverano le seguenti testimonianze. Una raccolta di oltre
quattrocento foto viene dalla famiglia dello scultore Lorenzo
Bartolini di Firenze; sono rappresentati i più importanti studi
fotografici fiorentini, francesi, americani e tedeschi dal 1850
alla fine del secolo: Alinari, Brogi, Alvino, Montabone,
Powers, Schemboche, Hautmann.
Oltre seicento provengono dall’antica famiglia riminese
Fagnani Pani, che in epoca contemporanea ebbe parte
importante nel risorgimento romagnolo e nella vita cittadina
preunitaria.
In essa si concentrano, oltre alle foto degli studi locali,
moltissimi ritratti provenienti dai più noti studi italiani che
consentono un’indagine trasversale delle tipologie, dei
linguaggi e delle culture dell’immagine fotografica.
Diverse centinaia riguardano la famiglia lombardo-‐
piemontese Baggi Castellazzi, in buona parte costituita da
militari sabaudi, con l’Unità d’Italia trasferiti a Roma e in altre
località. Ritratti di Lovazzano, Michele Fiorino. Di questa
famiglia anche Dina di Sordevolo, compagna del Verga, nella
bella inquadratura di Guigoni e Bossi.
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Un altro nucleo di foto riguarda la
famiglia Sangiorgi, di cui Giuseppe fu il
noto antiquario romano, fondatore della
Galleria in Palazzo Borghese. Giorgio, lo
studioso di tessuti e vetri antichi, e Anita,
cognata di Mosè Bianchi, sposa del
Bianchi fotografo e pittore monzese, fu
fondatrice di una scuola di arazzi e
ricami, forse tra le più citate dell’Italia
settentrionale .
Di loro foto di studi monzesi e milanesi,
tra cui una rara immagine di Mosè, fatta
da suo fratello, ed una serie di ritratti
romani degli anni venti e trenta, eseguiti
presso Bragaglia, Studio Thema.
Dispersa dalla guerra tutta la
documentazione della scuola e del
laboratorio di arazzi di Anita Sangiorgi, nata a Roma, poi
trasferita a Rimini, esempio di una imprenditoria femminile,
fiorente e rinomata, attiva per trent’anni,
fino al 1929. Di essa però restano le foto
di molteplici lavori di un raffinatissimo
ricamo, che trovò nella penna colta di
Eleonora Ricci motivate lodi. In ultimo un
corpus di foto del ramo Cardi,
radiografano una famiglia del Livornese,
di cui Giuseppe fu insigne clinico. Di lui
scorrono tutte le immagini della vita di
medico, di studioso, con spaccati
dell’ambiente, gli ospedali civili di Pisa e
Genova, le colonie marine per la
talassoterapia di Rimini, i laboratori, i
convegni nazionali dell’ inizio del secolo
scorso.
Irrompono le spazialità cupe degli
ospedali da campo, le immagini dei vari
fronti di guerra: la fotografia racconta la guerra, divenuta
d’improvviso l’unica dominante narrativa di quel mondo, che
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solo poco prima pareva sicuro, protetto da non so quale
illusione di sempiterna durata.
Di questi repertori fotografie di Donnino, Bettini, Sciutto.
La caratteristica che mi colpì moltissimo, nelle scatole
trovate, piene delle foto dei Bartolini e Fagnani, nell’arco
temporale dalla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento al
Novecento, fu la sequela interminabile di singoli ritratti, solo
in parte dei membri della famiglia, perlopiù di amici, vicini e
lontani.
Evidente sintomo a quel tempo anche dell’accrescersi di
un’immagine di sé, sempre più svincolata dal gruppo
familiare, ma anche dal legame di coppia. È con evidenza una
società che sta costruendo delle singolarità forti, molte delle
quali sono femminili.
La donna è la grande protagonista, elegante raffinata
proiettata al di fuori dell’ambiente familiare, perno della vita
relazionale. L’ampia circolazione di questi materiali induce a
pensare che la relazione interpersonale e sociale inizi
marcatamente a fondarsi sul visivo.
Vero conclamato esordio di una società dell’immagine.
Baudelaire, come è noto, l’apostrofò con parole indelebili e
piene di acredine in una requisitoria datata il 1859, in tempi in
cui ormai la fotomania era esplosa:
Da allora, la società immonda si riversò, come un solo Narciso, a
contemplare la propria immagine volgare sulla lastra. Una
frenesia, uno straordinario fanatismo si impossessò di questi nuovi
adoratori del sole.2
D’altronde Baudelaire stesso non era certo stato immune da
questo vizio tanto deprecato, come ci mostra una sua bella
immagine di Nadar.
Se i grandi studi da Alinari, a Didot, a Schemboche
riproducono nelle cartes visites i volti dei personaggi famosi,
beneficiando di un grande commercio, chiunque se lo
2 Charles Baudelaire, Il pubblico moderno e la fotografia, in Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, p.220.
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potesse permettere non tralascia di farsi stampare copie e
copie di propri ritratti da distribuire, apprezzando le varianti
dei fotografi più accreditati; l’immagine resterà più
fortemente impressa rispetto ad un semplice biglietto da
visita, il ricordo più facile.
La mole di queste copie rimaste negli albums è
sorprendente, e definisce la portata di tale comportamento.
I costi di queste riproduzioni dovevano costituire una spesa
considerevole e tale investimento doveva avere una finalità.
Il fenomeno denota inequivocabilmente un parterre di
conoscenze e di frequentazioni assai ampio, che si aveva il
desiderio di raggiungere e di accrescere, anche attraverso
l’utilizzo della foto. Attitudine del resto propria di una
società che ama il ritrovo, l’intrattenimento colto o
mondano.
Lo scambio di foto era in fondo continuare una
conversazione interrotta. Non trascurabile l’uso della foto
negli interessi legati al mondo del lavoro, delle pubbliche
relazioni. Gli albums
offrono uno sguardo su
una società che si sta
rapidamente
stratificando, il nucleo
familiare si arricchisce di
nuovi innesti, dunque, di
nuove esperienze e
mentalità. È il mondo
delle professioni, delle
attività economiche,
della politica che entra
nel fortilizio della
famiglia alto borghese,
le figure della cultura,
dell’arte; gli ambienti si
rendono meno
impermeabili. Nella
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Parigi dell’inizio secolo, Proust del resto dichiarava a ragione
che fosse opinione da sfatare, quella secondo la quale la
società del tempo fosse composta da caste chiuse.3 Le cartes
ci mostrano benissimo quanto fosse ampio il colloquio tra le
sue componenti, già a partire dal 1850.
Questo aspetto risulta eclatante nei materiali fotografici che
provengono dalla famiglia Bartolini; intellettuali riformatori,
grandi industriali, cantanti lirici, attori, la nobiltà di tendenza
democratica affollano l’archivio.
L’immagine costituisce un valore aggiunto al prestigio
sociale, all’importanza del nome attraverso il fascino
dell’aspetto, o l’autorevolezza di una gestualità. Quella che
qui si contempla è anche una società in movimento.
Gli spostamenti di interi clan, i viaggi delle singole persone, i
cambiamenti di residenza, sono documentati, non in ultimo,
dal nome e dalle località degli studi fotografici.
3 Cfr. M. Proust, La strada di Swann, Torino, Einaudi, 1978, p.18.
Mentre appare anche sempre più decisiva nell’urgenza del
ritratto fotografico una sua funzione comunicativa; la foto è
quasi sempre accompagnata da dediche, da annotazioni di
vario tema; è una testimonianza ricca di segni e come tale
sta divenendo centrale nell’indagine storico sociale.4
Nei repertori dell’archivio di cui si ragiona, che riguardano
Rimini, ad esempio, è stato possibile ricomporre i volti di
tante famiglie della sua società nella seconda metà
dell’Ottocento e di inizio Novecento.
Questi ritratti costituiscono davvero una memoria collettiva
di grande rilievo per la storia della città, proprio perché ne
configurano una componente allora molto attiva, che in
misura cospicua si estinse, o migrò altrove con la guerra.
4 Cfr. Come è stato più volte confermato nel recente Convegno , Forme di Famiglia, forme di rappresentazione fotografica. Archivi fotografici familiari, Ravenna 22-‐24 aprile 2010, a cura del Dipartimento di Storie e metodi per la Conservazione dei Beni Culturali e dalla Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna. In particolare gli interventi di Daniela Calanca sulle Identità Familiari e di Gabriele D’Autilia, sulle Letture storiche della fotografia di famiglia.
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In ultimo, nelle raccolte delle foto amatoriali, assai presente
è la dimensione dell’infanzia:
non solo bambini di casa, ma
figli di amici e parenti, che si
vivacizza nelle belle serie
della marina, della riviera di
Rimini e di Viareggio, di cui si
colgono tanti aspetti del
comportamento e del
rapporto con gli adulti.
Questa tipologia di foto, in
realtà, fa mostra di una
scioltezza di gesti, di un
scambio giocoso, di un’affettuosità desueta nella nostra
comune opinione. Constatiamo uno stacco notevolissimo tra
l’impeccabile postura della foto in studio, e lo scoppio di
spontaneità dello scatto eseguito in famiglia.
E sono queste immagini del vero la grande ricchezza
documentale della
fotografia.
In questa direzione la foto
svolge, anche
indirettamente, un ruolo di
analisi documentaristico-‐
antropologica straordinaria,
utilizzata ancora al disotto
della sua capacità di
rappresentare la varietà del
mondo in modo immediato.
Quella stessa vocazione di
indagine che già Baudelaire aveva salutato come una dei
contributi più peculiari ed importanti della fotografia:
Che la fotografia arricchisca rapidamente l’album del
viaggiatore…che salvi dall’oblio le rovine cadenti, i libri, le
stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose di
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cui va scomparendo la forma e che richiedono un posto negli
archivi della memoria.5
Nell’ambito delle scienze umane e sociali in anni non lontani
dalle lucide annotazioni di Baudelaire scrissero similari
considerazioni Mantegazza ed un suo illustre
corrispondente: Charles Darwin.
Immagini
Pag. 1 -‐ Sorelle Beccari – Studio fotografico Marzocchini, Livorno, 1860
ca.
Pag. 2 -‐ Bambini Solinas, Ratti, Fagnani, Battaglini, Trevisani. Rimini, Villa
Solinas, 1887
Pag. 4 -‐ Piero Pianetti. Studio fotografico Schemboche, Firenze, 1903
Pag. 6 -‐ Marchesa Eleonora Farinola. Studio fotografico Alvino, Firenze,
1867 ca.
Pag. 8 -‐ Spiaggia di Viareggio, 1918
5 Charles Baudelaire, cit., p.221.
Maria Virginia Cardi é docente di Antropologia Culturale presso
l'Accademia di Belle Arti di Ravenna e di Brera. I suoi studi e le sue
ricerche si sono mossi nell'ambito di talune simboliche figurative e
letterarie, esplorate in un'ottica storico-‐ culturale e antropologica. Ha
pubblicato “Le Rovine abitate. Invenzione e morte in luoghi della
memoria” (Alinea, 2000); “Abitare profondità e superficie” (Unicopli,
2007); “Storia di una casa. Palazzo Pani Fagnani, già Gambalunga in
Rimini” (Convegno di Studi Romagnoli, 2007). Collabora con riviste e
Istituzioni italiane ed estere. www.virginiacardi.it