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colDuceAspasso - La Repubblica.it - News in tempo reale...

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DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004 ERCOLE BORATTO « L a sua meta preferita era il mare e sovente chiedeva di andare ad Ostia. Durante que- ste gite, se trovava qualche osteria isolata, si fermava ed ordinava del vino bianco. Ne beveva un po’ centellinandolo come per assaporarlo meglio, ne faceva bere un bic- chiere anche a me e mi ordinava di pagarlo, non avendo lui mai un soldo in tasca. Era questa una delle tante abitudini di Mussolini che lo caratterizzava come un tipo originale e stra- no. Sin dai primi anni di governo amava farsi riconoscere dal popolo e farsi notare principalmente dal sesso femminile, prova ne sia che tutti i giorni soleva fare delle passeggiate col- la sua automobile sportiva, tra i viali di Villa Borghese nelle ore più animate del passeggio, e se per caso qualche bella fi- gliola attirava la sua attenzione, era capace di percorrere più volte lo stesso viale per passare davanti alla donna notata, e fu appunto in uno di questi andirivieni che un vigile, stanco di vedersi passare sotto il naso quell’auto molto rumorosa, ci fermò per intimarci la contravvenzione per lo scappamento aperto [...] Non vi dico come rimase quel povero vigile quan- do alla richiesta delle generalità, si sentì rispondere: Benito Mussolini [...] In realtà si trasgredivano i regolamenti di via- bilità poiché la sua macchina così camuffata, viaggiava sem- pre a scappamento libero ed era sprovvista di parafanghi e di parabrezza [...] Era un bravo guidatore d’auto Mussolini? No. Era sempre distratto, non percepiva il pericolo. A Roma cominciarono per la sua mania di esibizionismo le passeggiate in auto per Villa Borghese in compagnia della leonessa “Italia” regalatagli dal proprietario di un circo equestre. Così, oltre alle altre preoccupazioni, avevo quella della fiera bestiolina, che in braccio al Duce, incominciava effettivamente a infastidirmi. Una provvidenziale zampata sulla giacca di pelle del Duce, pose fine anche a quest’altro ti- po di originale vanità mussoliniana [...] (segue nella seconda di Cultura) SERVIZIO DI ATTILIO BOLZONI e TANO GULLO spettacoli Vent’anni di commedia all’italiana PAOLO D’AGOSTINI e FURIO SCARPELLI i sapori Olio, una spremuta di successo CORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO l’incontro L’inverno a piedi di Schumacher VITTORIO ZUCCONI D omenica La di il fatto L’ombra di Mosca sull’Ucraina SANDRO VIOLA e GIAMPAOLO VISETTI l’inchiesta La jihad sul corpo della donna NATALIA ASPESI e PAOLO RUMIZ Dopo 58 anni gli archivi della Cia restituiscono il diario di Ercole Boratto autista di Mussolini dal 1922 al 1943. Un ritratto impietoso degli incontri politici ma soprattutto delle manie, delle passioni, degli amori clandestini dell’uomo che segnò le sorti dell’Italia tra le due guerre A spasso col Duce GETTY IMAGES / L.RONCHI Il Duce con la sua leonessa, Italia, e l’autista Ercole Boratto
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Page 1: colDuceAspasso - La Repubblica.it - News in tempo reale ...download.repubblica.it/pdf/domenica/2004/28112004.pdf · ... la Russia, la democrazia ... dove la gente ha presto dimenticato

DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

ERCOLE BORATTO

«La sua meta preferita era il mare e soventechiedeva di andare ad Ostia. Durante que-ste gite, se trovava qualche osteria isolata,si fermava ed ordinava del vino bianco. Nebeveva un po’ centellinandolo come perassaporarlo meglio, ne faceva bere un bic-

chiere anche a me e mi ordinava di pagarlo, non avendo luimai un soldo in tasca. Era questa una delle tante abitudini diMussolini che lo caratterizzava come un tipo originale e stra-no. Sin dai primi anni di governo amava farsi riconoscere dalpopolo e farsi notare principalmente dal sesso femminile,prova ne sia che tutti i giorni soleva fare delle passeggiate col-la sua automobile sportiva, tra i viali di Villa Borghese nelleore più animate del passeggio, e se per caso qualche bella fi-gliola attirava la sua attenzione, era capace di percorrere piùvolte lo stesso viale per passare davanti alla donna notata, efu appunto in uno di questi andirivieni che un vigile, stanco

di vedersi passare sotto il naso quell’auto molto rumorosa, cifermò per intimarci la contravvenzione per lo scappamentoaperto [...] Non vi dico come rimase quel povero vigile quan-do alla richiesta delle generalità, si sentì rispondere: BenitoMussolini [...] In realtà si trasgredivano i regolamenti di via-bilità poiché la sua macchina così camuffata, viaggiava sem-pre a scappamento libero ed era sprovvista di parafanghi e diparabrezza [...] Era un bravo guidatore d’auto Mussolini? No.Era sempre distratto, non percepiva il pericolo.

A Roma cominciarono per la sua mania di esibizionismole passeggiate in auto per Villa Borghese in compagnia dellaleonessa “Italia” regalatagli dal proprietario di un circoequestre. Così, oltre alle altre preoccupazioni, avevo quelladella fiera bestiolina, che in braccio al Duce, incominciavaeffettivamente a infastidirmi. Una provvidenziale zampatasulla giacca di pelle del Duce, pose fine anche a quest’altro ti-po di originale vanità mussoliniana [...]

(segue nella seconda di Cultura)SERVIZIO DI ATTILIO BOLZONI e TANO GULLO

spettacoli

Vent’anni di commedia all’italiana PAOLO D’AGOSTINI e FURIO SCARPELLI

i sapori

Olio, una spremuta di successoCORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO

l’incontro

L’inverno a piedi di Schumacher VITTORIO ZUCCONI

DomenicaLa

di

il fatto

L’ombra di Mosca sull’Ucraina SANDRO VIOLA e GIAMPAOLO VISETTI

l’inchiesta

La jihad sul corpo della donna NATALIA ASPESI e PAOLO RUMIZ

Dopo 58 anni gli archivi della Ciarestituiscono il diario di Ercole Boratto

autista di Mussolini dal 1922 al 1943. Un ritratto impietoso degli incontripolitici ma soprattutto delle manie, delle passioni, degli amori clandestini dell’uomo che segnò le sorti dell’Italia tra le due guerre

AspassocolDuce

GETTY IMAGES / L.RONCHI

Il Duce con la sua leonessa, Italia, e l’autista Ercole Boratto

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il fattoVenti dell’Est

L’Ucraina, la Russia, la democrazia negata. Nelle strade di Kiev, dove da giorni la folla chiede un voto senza brogli per approdare alle libertàdell’Occidente, la storia di due sorelle che lottano su barricate opposte.Nelle strade di Mosca, dove la gente ha presto dimenticato la stagionedella speranza, si rafforza senza contrasti un regime-Putin semprepiù somigliante a quello della vecchia Unione Sovietica

Se basta una scintilla aincendiare questa terra troppo

fertile e troppo piatta è perché ilfuoco che arde è storico e

religioso. Non a caso l’aquilaa due teste è nata qui

GIAMPAOLO VISETTI

SKIEV

e ordini il “borsch”, la zuppaucraina che non smette dibrontolare in tutte le pentoledel Paese, a parte la barbieto-

la non sai cosa mangi. Dipende dallacuoca. Patate e cipolle se è di Leopoli,bollito di vitello e panna acida se alloggiaaccanto alla casa di Bulgakov a Kiev, les-so di montone e rapa a Donetsk, cavoloe giovane storione se l’assaggi a Odessa.E poi il lardo, spina dorsale nazionale:rosso di paprika al confine polacco, ri-gorosamente bianco nei villaggi sotto lacapitale, nero di pepe lungo la frontierarussa. Ogni ucraino ha la pro-pria patria, una personale mi-nestra che bolle. Da secoli: perquesto la terra contesa tra im-peratori asburgici e zar russirischia oggi di tornare adesplodere. Come tutte le terrecentrali, è un nulla identitarioimbottito di popoli, religioni,lingue. Ha molte vicende re-gionali, non una storia patria.E milioni di famiglie deporta-te, sterminate, divise, emigra-te, vendute e infine ricompo-ste a tavolino sulle macerie dialtre case svuotate.

Le sorelle Irina e Mykola Lo-patniouk, dopo trent’anni, sisono riviste il giorno del ballot-taggio che ha rialzato il ventodella rivoluzione. La primas’era sposata a Horodok, trenta chilo-metri dalla Polonia. Una vita a servire inSpagna assieme al marito muratore. Laseconda era finita a Sebastopoli, in Cri-mea. E di qui in Siberia, a cercare un pez-zo di pane seguendo Oleg nelle miniered’argento. Cattolica Irina, ortodossaMykola. Quella insiste a parlare ucraino,questa l’ha dimenticato per il russo.Un’europea e un’asiatica, due mondi,allo stesso seggio: un voto a Viktor Yu-shenko e uno a Viktor Yanukovich. Nonc’entra la politica, neppure la simpatiapersonale, figuriamoci se qualcunopensa a Bush e a Putin: è che in «U-krai-na», ossia «Al-confine», ognuno tende arinforzare il proprio bastione interno.

«L’anima patria — dice lo storico Alek-sander Dergaciov — si fonda sulla mate-matica. La prosperità contadina sottrat-ta, la stirpe slava dei ruteni divisa, la con-vivenza etnica moltiplicata dai tartari ailituani, le chiese di Roma e di Costanti-nopoli che si sono aggiunte alle sinago-ghe ebraiche. Lo schema Est-Ovest, cherichiama la Guerra Fredda, è comodoper illustrare l’attualità degli interessistrategici che si scontrano nel cuore del-l’Eurasia: ma è superficiale, svia l’atten-zione dalle pulsioni profonde.

Oriente e Occidente

La folla in piazza scarica oggi tensioniantiche, dai sotterranei stanno emer-gendo un Oriente e un Occidente cheprescindono dalla ricerca di un destino.Ridurre bandiere arancioni e vessilibianco-azzurri alla lotta per il controllodi carbone e industrie belliche, di oleo-dotti e porti sul mar Nero, porta a ripete-re sempre lo stesso errore. Se basta unascintilla per incendiare il luogo più deli-cato del continente, è perché il fuoco chearde è storico e religioso, come nei Bal-cani e nel Caucaso». Non a caso l’aquilaa due teste, battezzata da San Vladimirore nel 988 in riva al Dnepr, è nata qui. Giàdalla culla, la “Rus” medievale embrio-ne della Russia conosceva la condannadi possedere una doppia schiena versocui guardare.

Troppo fertile e troppo piatta, là inmezzo, per illudersi di restare intatta.L’ovest, nel XVI secolo, fu risucchiatodallo stato polacco-lituano e convertitoal cattolicesimo. Leopoli, città magicadai quattro nomi, è stata per secoli loscrigno della cultura germanica, slava,ebraica. La Galizia ha offerto schiere disoldati contadini all’impero austro-un-garico, prima di scavalcare i Carpazi persottomettersi al principi polacchi.

L’est, la Kiev del decimo secolo, ha in-vece partorito gli slavi e i cosacchi cheavrebbero lanciato i cavalli contro i tar-tari e i mongoli alla ricerca di acqua dal-l’Asia centrale. Erano serbi, balcanici,ortodossi scampati alle stragi musulma-

ne. Secoli di lotte, torri erette sulle costedel sud per respingere gli assalti dei pi-rati turchi, fino all’abbraccio del 1654, dacui nacque la Russia. Da sempre l’Ucrai-na è doppia, tripla lo è diventata dalla fi-ne del Settecento. Fu allora, quando lenavi iniziarono a portare merci nel Me-diterraneo, che Mosca fagocitò la Cri-mea, simbolo di ciò che è una terra dinessuno. Regalata all’Ucraina sovieticada Krusciov nel 1954, risarcimento per ilgenocidio staliniano del ’44, è diventatapatria interna ad una nazione apolidecon l’indipendenza del 1991. Odessa eSebastopoli non sono un luogo, ma unpassaggio. Sessant’anni fa 200mila tar-tari, mescolati con georgiani, cosacchi,turchi, ebrei, armeni, furono deportatinelle steppe dell’Asia centrale. Kazakh-stan e Uzbekistan: la metà morì nei pri-mi due anni, gli altri pretesero di rientra-re nella dimore dei padri. Erano 260mi-la alla fine degli anni Ottanta, quandotornarono dopo aver respirato l’aria del-l’islam. Da allora non sono solo una re-pubblica autonoma dentro lo Statoucraino: sono la terza identità che anne-ga tra tutte le razze ospitate tra Vienna,Vilnius, Istanbul, Gerusalemme e Vladi-vostok.

Il resto, l’ha combinato il Novecento.Mezza polacca e mezza russa fino al1939, Kiev si è svegliata sovietica con ilpatto Molotov-Ribentrop. E’ con quellafirma che il solco antico che divide il Pae-se al centro, è divenuto incolmabile.L’Ucraina, decimata dalla carestia pia-nificata da Mosca nel 1933 (proprio ierila commemorazione in chiese e munici-pi), sopravvissuta al cannibalismo cuierano state ridotte le campagne, accolsei nazisti come liberatori. L’Ovest, attrat-to dalle luci di Varsavia e Berlino, costi-tuì la famigerata divisione delle Ss, gliaguzzini più raffinati dell’Olocausto neilager dell’Est. Al confine con la Russia lanostalgia zarista prevalse invece sulleumiliazioni comuniste, fornendo manod’opera robusta per i gulag di Sakhalin.

Nascono allora i genitori di Yushenkoe Yanukovich, le piazze dell’Indipen-denza e quelle con al centro il monu-mento di Stalin, le cattedrali della chiesauniate di Sebastopoli, cattolica di ritoorientale, le basiliche ortodosse fedeli alvaticano russo di Serghei-Posad e i tem-pli scismatici del patriarca ucraino diKievo-Percerskaja Lavra. Una doppiapatria cui s’aggiunge una repubblica au-tonoma, due popoli senza razza, tre pa-pi, due lingue, una cultura che è lo sfogodell’incontro-scontro del mondo pre-

cedente a Marco Polo e Cristoforo Co-lombo. E’ un miracolo che quattro mi-nestre si chiamino con lo stesso nome.

Come possono pretendere, Putin, So-lana e Bush, che le sorelle Irina e MykolaLopatniouk abbiano un pensiero unico?Lo scoppio dell’Unione sovietica, quicome in Bielorussia, non poteva portarela libertà nelle terre di mezzo. «Siamotroppo occidentali — diceva lo scrittoreTaras Shevcenko — ed eccessivamenteorientali. Se andiamo in una direzionesmarriamo la strada» Nel 1994, dopol’indipendenza di tre anni prima, è arri-vato così Leonid Kuchma ha impedireche la democrazia seducesse Kiev spo-

standola a Ovest.Paesi Baltici, Polonia, Ce-

chia, Slovacchia, Ungheriahanno scelto l’Europa e il ca-pitalismo del mercato comu-ne. L’Ucraina è rimasta con-dannata all’eterna oscillazio-ne. Tre passi verso Bruxelles,un pugno di soldati alla guerradi Bush in Iraq, un’alzata digonna alla Nato, un fiume dimuratori e badanti per Roma,Parigi e Madrid. Ma pure le ba-si della marina russa a Seba-stopoli, le industrie belliche diDnepropetrovsk che forni-scono componenti essenzialial riarmo russo, le miniere dicarbone di Donetsk e di ac-ciaio a Zaporozhje svenduteagli oligarchi di Mosca, l’eco-

nomia mantenuta alle dipendenze delgas e del petrolio siberiani in transitoverso l’Europa. Lo stesso giorno Kuch-ma, artefice di uno spietato stato di po-lizia grazie alla benevolenza dei duemondi che si sono limitati a definirlo«autoritarismo», chiedeva l’ingressonella Ue e firmava l’adesione al mercatoeconomico comune assieme a Russia,Bielorussia e Kazakhstan. Telefonava aWashington per offrire informazioni suinuovi missili nucleari di Putin, e a Moscaper supplicare il presidente di venire perla terza volta in Ucraina a cercare di rad-drizzare una campagna elettorale da cuidipende il suo tramonto.

Nazionalismi fasulli

«Non ha tenuto il Paese unito — spiega ilpolitologo Serghiei Markov — lo hasquartato fino alle viscere giocando sul-la paranoia da «area di influenza» cheobnubila gli arteriosclerotici leader dioggi. Sono rinati due nazionalismi fasul-li, quello russo e quello ucraino: l’imma-gine dei minatori contro gli studenti, aduso e consumo delle superpotenze chetrattano gli accordi sul petrolio e dellaspartizione del Medio Oriente».

E’ la scelta negata, il pretesto scientifi-camente offerto dal vecchio potere allerisse geopolitiche, ad aver ora riversatoin piazza una folla di disperati. Gridano«Ucraina libera» e pensano a come le au-torità gestirono il disastro nucleare diChernobyl. Dieci giorni in vacanza all’e-stero, scordando di avvisare la gente chela nube tossica non irritava solo le mu-cose. Promesse di risarcimenti mai arri-vati.

Il regime — dice l’editorialista di pun-ta del settimanale “Svoboda” (“Libertà”,ndr) Oleg Liashko — non sostiene Ya-nukovich per garantire gli interessi del-la Russia in Ucraina: assistiamo piutto-sto alla battaglia disperata di un dittato-re che cerca solo di salvare se stesso, lesue ricchezze, gli affari che ha garantitoai corrotti che l’hanno sostenuto. Kuch-ma teme di essere ucciso come Ceause-scu, ammazzato dal popolo, o fatto fuo-ri dai killer dei suoi clan».

Dopo una settimana al gelo, istruiti da-gli ex combattenti venuti dalla Georgia edalla Serbia, 50 milioni di ucraini pensa-no solo che non vogliono più essere po-veri. La scelta economica europea, ga-rantita dalla sicurezza Usa, è il rifiuto delvassallaggio alle rinate mire da superpo-tenza della Russia di Putin. Risponde al-l’incompiuto movimento centrifugodelle ex repubbliche sovietiche: ma è so-prattutto l’inizio consapevole di un per-corso culturale e civile. Nelle piazze i gio-vani gridano «oggi nasce l’Ucraina». Lesorelle Lopatniouk sognano di tornare aKiev per imparare finalmente come si cu-cina un solo “borsch” nazionale.

LA FOLLA

Una sostenitrice arancione

E , a fianco, la grande manifestazione di

piazza in favore di Yushenko

Kiev.Irina e Mykolale sorelle nemiche

Ridurre bandierearancioni

e vessilli bianco-azzurri alla

lotta per il controllodi carbone e di

oleodotti è sbagliato

DOMENICA 28 NOVEMBRE 200424 LA REPUBBLICA

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LA REPUBBLICA 25DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

Mosca.Nella cittàdelle libertà perdute

La Russia galoppa verso unsistema di potere personale chelimita sempre di più la libertà.Dal passato riaffioranoi fantasmi del totalitarismosovietico

I RIVALI DIVISI DA TRE PUNTI

LE ELEZIONI

Dopo un primo turno elettorale per la presidenza, al

ballottaggio del 21 novembre Viktor Yakunovych sostenuto

dal leader uscente Leonid Kuchma, deve affrontare Viktor

Yushchenko, ex primo ministro gradito all’occidente. Le urne

danno il 49,46 per cento a Yakunovych, che viene proclamato

presidente, mentre al candidato dell’opposizione è andato il

46,61. Yushenko contesta i risultati, forte della valutazione di

osservatori indipendenti. Il Parlamento annulla il voto: il

ballottaggio sarà ripetuto

SANDRO VIOLA

deputato di cui parlavo prima. Due so-ciologi, Igor Klyamkin e Boris Kagarlit-skij, e lo scrittore Viktor Yerofeiev.

Che cosa m’hanno detto queste perso-ne che seguono da Mosca, giorno dopogiorno, il decorso politico? Prima di tuttohanno confermato quel che già sospetta-vo. La Russia procede (e secondo alcunidi loro galoppa) verso un sistema di pote-re personale e limitazione delle libertà.Sentiamo per esempio la Shetsova: «Unanno fa il Paese era a un crocevia: sareb-be potuto andare verso lo stato di dirittoe un mercato veramente libero, oppureverso una sempre maggiore concentra-zione e personalizzazione del potere. Be-

ne, adesso sappiamo che lastrada imboccata è quest’ulti-ma. Una facciata che il rito elet-torale rende formalmente de-mocratica, e dietro di essa lastruttura autoritaria».

Tutti gli altri erano d’accor-do con il giudizio della Shetso-va. Ma tutti erano anche d’ac-cordo su un’altra, fondamen-tale valutazione. Cioè a dire:più aumentano i poteri cheVladimir Putin va concentran-do al Cremlino, e più crescel’immobilismo. Più il potere siverticalizza, e più diviene lam-pante l’inefficienza del siste-ma.

Diceva Georgy Satarov: «Im-magini un marionettista cheprende nelle sue mani i fili di

tutte le marionette, pensando di potermanovrare da solo lo spettacolo, e dopoun po’ si rende invece conto che con tut-ti quei fili in mano non sa più quale muo-vere. Questa era la cultura, la tendenza diPutin e degli altri “cekisti”, come si chia-mano tra loro gli uomini che provengonodal Kgb: prendere tutto in mano. E lo han-no fatto con i media, esautorando le altreistituzioni, e infine - con l’attacco allaYukos - irrompendo rumorosamente nelmondo dell’economia. Ma il risultato èun potere che potremmo definire virtua-le. Sospettoso, intento solo ad autopro-teggersi, incapace di prendere una deci-sione importante. Insomma, una nuovastagnazione».

Il potere immobile

È vero: una stagnazione che ricorda l’a-sfissia dell’Urss morente. Perché come al-tre volte nella storia russa, l’indigestionedel potere ha prodotto la stasi. I meccani-smi di governo appaiono infatti irrime-diabilmente inceppati. Nulla s’è visto, in-fatti, di quel che era stato promesso. Nonla riforma dell’apparato giudiziario. Nonuna maggiore chiarezza delle leggi neces-sarie a garantire la proprietà privata e l’in-vestimento straniero, tant’è che i capitalirussi - dieci miliardi di dollari solo que-st’anno - volano all’estero. Nessun inter-vento di rilievo in ambito sanitario. Nien-te lotta alla corruzione, anche se nellaclassifica del World economic forum sol-tanto il Madagascar, l’Ucraina, la Mace-donia e il Ciad figurano come più corrottidella Russia.

Quali notizie dunque da Mosca? Intan-to l’anchilosi che ho cercato di descrivere,alleviata soltanto dagli enormi introiti pe-troliferi. E poi il timore che le illusioni d’u-na democrazia russa stiano ormai sva-nendo. Pochi giorni fa, Putin ha datoun’intervista ai responsabili delle tremaggiori reti televisive. E quando uno de-gli intervistatori gli ha chiesto se la leggeche abolisce il voto popolare per l’elezio-ne dei governatori non preannunci un re-stringimento delle libertà democratiche,ha risposto: «Non credo».

«Non credo», di fronte a domande co-me questa, è una risposta poco rassicu-rante. Agli stranieri che s’occupano d’af-fari e in particolare di petrolio, può anche,in mancanza di meglio, andar bene. E in-fatti il capo della Camera di commercioamericana è venuto di recente a Moscaper dire agli operatori che per ora non c’èniente di cui preoccuparsi. Ma per i russiche volevano la democrazia, è diverso.Quei russi sono in ansia. «Il punto», dice-va Lilia Shetsova, «non è più se stiamo an-dando o no verso un regime autoritario.Questa tendenza è ormai più che eviden-te. Quel che oggi ancora non è chiaro, èquale sarà il carattere del nuovo autorita-rismo russo. Se sarà duro o durissimo».

CMOSCA

ielo plumbeo, raffiche dipioggia gelata. Da dietro ivetri d’una delle porte-fine-stre del Pushkin Cafè, al cal-

do, osservo il flusso della folla moscovitaverso i marciapiedi della Tverskaja. È unafolla diversa da quella di qualche anno fa:meglio vestita, le facce meno plumbee erisentite. Ma mi chiedo se essa circonderàmai i palazzi del potere, come stanno fa-cendo in queste stesse ore decine di mi-gliaia di ucraini, per affermare il propriobisogno di democrazia. È vero, nell’ago-sto del ‘91 i moscoviti accorsero al fiancodi Boris Eltsin contro il colpo diStato dei vecchi dinosauri co-munisti. Ma da allora più nien-te. Da allora la folla non fa poli-tica, in Russia. L’opposizioneliberale alle storture antide-mocratiche del regime, che inUcraina ha preso le forme d’unmovimento di massa, qui restaun’attività circoscritta. Pocopiù d’un club di politici e intel-lettuali che dissentono, prote-stano, ma senza alcun consi-stente appoggio popolare.

Eppure, l’involuzione politi-ca russa si va facendo semprepiù chiara, inequivocabile.Forse ha ragione Boris Nemt-sov, uno dei politici liberali,quando dice che «sono troppopochi i russi che hanno sacrifi-cato la vita per la democrazia». In ogni ca-so, se cerco di riassumere quel che ho sen-tito dire e quel che ho capito in questi gior-ni a Mosca, la prima conclusione è la se-guente: esagerano, non c’è dubbio, i mol-ti che definiscono la Russia d’oggi come«la bella copia del sistema sovietico». Maè anche vero che esagerano di poco, nondi molto.

I soldi del petrolio

Beninteso, stiamo parlando del sistemadi potere. La natura, la struttura, l’esten-sione e concentrazione del potere co-struito da Vladimir Putin negli ultimiquattro anni. Non della vita pubblica ingenerale. Perché in ambito economico,nell’informazione, nella libertà di parola,le differenze col passato sono evidenti.L’economia russa è oggi, per una parte ri-levante, gestita secondo i principi delmercato. Sia pure pochi e di pochi lettori,alcuni giornali non mancano di criticarel’operato del governo e persino quello delpresidente. E benché un amico, lo scrit-tore Viktor Yerofeiev, mi racconti che neidiscorsi della gente si stia riaffacciando lacautela con cui si parlava ai tempi del-l’Urss, resta che nessuno va in galera perquel che dice.

Ma nonostante queste differenze colsistema sovietico, quanti brutti segnali.Quanti passi indietro verso il partito uni-co e uno sfrontato monopolio del potere.I governi dell’Occidente fingono di guar-dare da un’altra parte, perché sullo sfon-do della grave lacerazione tra America edEuropa e mentre aumenta la sete mon-diale di petrolio, a Mosca bisogna venire- Ucraina o non Ucraina - col cappello inmano. Ma intanto in Russia le istituzionidemocratiche sono ridotte a pure sem-bianze.

La sottomissione della Duma ai voleridel Cremlino, per esempio, riporta allamemoria quella caricatura di parlamen-to che fu per sette decenni il Soviet Su-premo. Alla Duma il partito cosiddetto“del presidente”, Russia Unita, controllainfatti due terzi dei seggi, e distribuendotra i banchi un po’ di soldi può arrivaresenza molti sforzi sino ai tre quarti.

L’altro giorno ho preso un caffè conVladimir Ryzhkov, un giovane e corag-gioso deputato indipendente, e Ryzhkovmi ha spiegato che alla vigilia d’ogni vota-zione importante arriva dal CremlinoVladislav Surkov, uno dei bracci destri diPutin, per dire ai parlamentari di RussiaUnita come devono votare. Né sono pre-viste obbiezioni. Ai primi di novembreera giunta in aula la legge che abolisce ilvoto popolare per l’elezione dei governa-tori nelle 89 regioni russe, trasferendo alpresidente, a Putin, la facoltà di sceglierlie nominarli come facevano Caterina II oAlessandro III. Una conferma clamorosa,dunque, della deriva autoritaria. Così, un

LO ZAR

“Putin sta portando la Russia verso

un nuovo autoritarismo”,

dicono gli oppositori al premier

Mi chiedo: qui lagente scenderebbe inpiazza per difenderei propri diritti? Solopochi lottano contro

lo strapotere del premier

deputato di Russia Unita, Anatolij Jermo-lin, ha deciso di non obbedire agli ordinie ha votato contro. Poche ore dopo è sta-to espulso dal partito.

Un altro esempio. L’amministrazionepresidenziale, il migliaio di persone chelavorano al Cremlino, è qualcosa di piùd’un governo parallelo: è il vero governo,né più né meno del Politburo di quindicianni fa. La segretezza, l’arbitrarietà dellesue decisioni, sono le stesse d’allora. Enon basta. Nella scia dell’infame tradi-zione sovietica, i tribunali fungono anco-ra (come s’è visto con l’affaire Yukos) dadocili strumenti dell’esecutivo. E nonparliamo del culto della personalità , conil telegiornale della sera che apre quasisempre con Putin al tavolo di lavoro, im-pegnato a far felice il popolo e a restaura-re la potenza russa.

Già, la potenza russa. Negli ultimi treanni era parso che Putin e i suoi avesseroposto il rilancio dell’economia al centrodel programma di governo. «L’economiaprima di tutto», era stato lo slogan più ri-corrente del dopo-Eltsin. E s’era credutoche lì si sarebbe riversata la grande mas-sa di danaro affluita in Russia con il con-tinuo aumento dei prezzi del petrolio.Nelle infrastrutture, nella modernizza-zione dell’industria petrolifera, negli aiu-ti alla piccola imprenditoria. E magari an-che nel settore sanitario, visto che la po-polazione russa diminuisce d’un milioneall’anno: un tasso catastrofico.

Ma non era così. Con l’annuncio dimetà novembre, Putin ha rivelato infattiche le priorità sono altre. Un’arma «chenessun altro paese possiede», una nuovagenerazione di missili capaci di portarequattro tonnellate e mezzo di testate nu-cleari sgusciando attraverso i sistemi an-timissilistici. Né è soltanto quest’accen-no d’una nuova corsa agli armamenti a ri-cordare i tempi di Leonid Brezhnev. Cisono anche linguaggi inconfondibili. Co-me l’uso, ad ogni catastrofe o fallimentodel governo (la tragedia di Beslan, peresempio), dei vecchi ritornelli leninistisulle “trame internazionali” contro laRussia.

Allora: la Russia scivola verso una nuo-va autocrazia? Sono venuto a Mosca percercare una risposta a questa domanda,e l’ho rivolta a un gruppo di persone checonosco da tempo e di cui mi fido. LiliaShetsova, politologa alla branca mosco-vita del Carnegie Endowment. GeorgySatarov, l’ultimo di quella folta schierad’intellettuali che sostennero il tentativodemocratico di Eltsin, ad essere restatosulla scena politica. Vladimir Rizhkov, il

IL PAESE

Dopo lo scioglimento dell’Urss, nell’Ucraina indipendente si

sono approfondite le divisioni fra l’Est, di lingua russa e

ortodosso, e l’Ovest, prevalentemente cattolico di rito uniate e

di lingua ucraina. L’Est, in cui sono nati sia il presidente Leonid

Kuchma che i due candidati alla successione Yanukovych e

Yushenko, è tradizionalmente più legato a Mosca, mentre

all’Ovest l’influenza dell’Europa si affianca a un diffuso

atteggiamento nazionalista, legato al ricordo dell’età d’oro dei

Cosacchi, nel 17esimo secolo

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l’ inchiestaIslam ed Europa

c’è di mezzo l’11 settembre, la zizzania tv,gli imam estremi infiltrati da chissà dove.

La sera a Slotervaart, una delle periferiedi Amsterdam dov’è cresciuto l’omicida,regna il coprifuoco. Dicono che sia statala morte della madre a far uscire di testaMohammed Bouyari e a buttarlo in pastoai predicatori folli. Per le femministe,queste periferie sono in realtà ghetti dovela donna è in balia al diritto tribale. InOlanda, lindo Luna Park dove tutto ècompartimentato, dalle piste ciclabili aiquartieri gay, si è costruita per decenniun’implacabile cantonizzazione etnicadelle periferie, all’interno delle quali fun-zionava la legge patriarcale del Paese d’o-rigine. Omicidi d’onore, punizioni cor-porali, e, attorno, l’indifferenza.

Le moschee e le luci rosse

L’Aja, una sinagoga diventata moschea,non lontano dalla stazione.

Quasi nulla è cambiato nell’arreda-mento, ma Allah è entrato come un pagu-ro nella conchiglia di Jahvè. A due passi, lastrada a luci rosse delle donne in vetrina,esagerate come nei quadri di RembrandtVan Rijn. Ma non c’è nulla di felliniano, latrasgressione è assente. Qui la prostitutaè oggetto da supermarket, sterilizzato eordinato su scaffali; così moschea e put-tane convivono a cento metri di distanzafingendo di ignorarsi.

«In realtà - ti dicono - il peggio dell’O-riente si combina col peggio dell’Occi-dente». Anche per questo, oggi, il sognomulticulturale crolla.

Annamaria Andreol, di nascita italiana,mi porta a spasso per l’università dell’Aja,un gigante con studenti di ottanta nazioni.

Iperattiva, entusiasta, è un po’ la mam-ma di questo popolo multinazionale chespinge a continui incontri di «conoscen-za reciproca». Vive con la generazione-

chiave degli immigrati, laterza, quella in bilico framodernità e richiamo del-le radici.

«Tempo fa dei musulma-ni sono venuti a chiedermiuno spazio di preghieradentro l’ateneo. Ebbene,sono stati altri giovani mu-sulmani a dirci che biso-gnava dire di no, che alme-no qui la religione non en-tra». E spiega che le ragazzedi famiglia musulmana so-no le più determinate aemergere, a emanciparsi.

Insomma, le studentes-se migliori.

Dalla biblioteca esconogiovani azzimate e ben ve-stite, quasi tutte col fou-lard. Bella gioventù, mal’età è la stessa dell’assas-sino di Van Gogh.

«Quando torno dal Ma-rocco e l’aereo scende suiPolder sono felice» sorrideKhadija K., 23 anni, giaccanera e candido hijab d’or-dinanza. «La mamma hapaura che io esca la sera,

dopo il delitto Van Gogh. Ma io le dico:mamma, questo è il mio Paese!». La don-na musulmana, ancora lei, sola e incom-presa, simbolo delle angosce etniche deipattinatori ma anche orizzonte vitale dicoesistenza e riscatto.

L’Aja, col 40 per cento di stranieri, èquasi una Cape Town, divisa in due fra ric-chi autoctoni e quartieri popolari di im-migrati. La linea del tram numero 11 la ta-glia come una mela, a ogni fermata i pas-seggeri cambiano colore, fino al vialeMeerdevoort, trincea di un silenziosoapartheid, dopo il quale viaggiano solo ibiondi e spariscono i minareti. A oriente,oltre il parco di Shevening, la prigione do-ve è recluso Slobodan Milosevic, l’uomoche volle de-islamizzare il Kosovo troppopieno di albanesi. «Vinceremo ingravi-dando le nostre donne» gli avevano dettoquesti ultimi per sfida, e oggi hanno vintodavvero. Chissà che presto non tocchi al-l’Olanda, sussurra la gente di qui.

Khadija arriva sulle dighe, non c’è unastella, il Mare del Nord rugge.

Dall’altra parte le ampie finestre illu-minate delle ville mostrano pezzi di inti-mità come nel “Grande Fratello”: donnein accappatoio, in cucina, a letto.

«In Olanda - sorride - le finestre sonocosì aperte perché nessuno si impiccianel tuo privato. Ma è una tolleranza con-dita di indifferenza che nei confronti de-gli immigrati può diventare razzismo. Anessuno importa nulla di cosa succedenelle periferie. Per questo temo che nes-suno si batterà per i nostri diritti, e dovre-mo arrangiarci da sole».

«QAMSTERDAM

uella notte non ho dor-mito. Ma non è statodopo la notizia dell’o-micidio Van Gogh. È

stato 24 ore dopo, quando hanno diffuso iltesto della lettera lasciata sul cadavere. È lìche ho preso paura. Non era un regola-mento di conti. Era una dichiarazione diguerra, fatta non a Van Gogh ma attraversoil suo corpo. La destinataria era Ayaan Hir-si Ali, l’ideatrice del suo film-denuncia sul-la segregazione delle musulmane, una cheha scritto sulla pelle la violenza della so-cietà patriarcale. Ayaan, ora obbligata allasegregazione per paura della vita. Ecco,quella notte ho capito. Un uomo aveva uc-ciso un uomo, ma la guerra era contro ledonne. Per il possessso della donna».

Elma Drayer, caschetto biondo, opi-nionista sui giornali “liberal”, è sottoshock. Esprime lo stupore di un Paese-modello improvvisamente travolto da se-gnali di tenebra, la paura di uno scontro diciviltà che sembra giocarsi tutto sul corpofemminile e dove la donna rischia di tro-varsi schiacciata fra due fondamentali-smi; nuovamente ostaggio, nuovamenteperdente. E difatti Elma non invoca «dio,patria e famiglia», ma la tradizione tolle-rante del Paese, che agli immigrati ha da-to, dice, «infinite opportunità», e che ha ilsuo simbolo nella donna liberata. È comese davanti a lei, all’improvviso, una storiainfinita di scontri di potere acquistassesenso. La guerra di Troia, iniziata per unadonna. La storia di Roma, resa possibiledal ratto delle Sabine.

È una sera gelida, le olandesi doc scia-mano in bicicletta, capelli al vento, robu-ste come contadine, tra-sportano a casa biondi par-goli dagli asili nido. L’Olan-da è femmina, il suo è unmatriarcato in guerra. Haragione Elma: tutto coinci-de nel giallo Van Gogh.Donna è quella che ha rottoil tabù. Donna l’obiettivodella Fatwa del vendicato-re. Sessuale l’insulto di VanGogh ai musulmani («stu-pratori di capre»). Femmi-nile il corpo nudo su cui ilregista ha riprodotto i ver-setti del Corano, sanguino-so sacrilegio per l’Islam.Donne le destinatarie delmessaggio di Ayaan; «sonoloro - diceva - che allevano ibambini» e quindi cambia-no la società. Donne, comeMimoum Boushaklà, belgamarocchina, anch’essa ob-bligata a nascondersi peravere denunciato il silenziodell’esecutivo islamico sul-l’omicidio. O Rita Verdonk,inflessibile ministro olan-dese dell’immigrazione.

Allah sui mazzi di fiori

«Allah è grande, così grande che è capacedi difendersi dal solo» sta scritto su unmazzetto di fiori coperti di brina sul luo-go dell’omicidio.

Tutti, soprattutto i musulmani, hannovoglia di pace. Ma la tv pompa lo scontro,invita imam estremisti e olandesi - turboai talk show, il coperchio del “politica-mente corretto” salta in aria, il pentoloneesplode, e in nome della “libertà di espres-sione” volano tra le due parti insulti razzi-sti che in qualsiasi altro Paese farebberointervenire la magistratura. Il giardino deitulipani, lo stereotipo tabloid dei mulinisorretto da un’immensa propaganda,scopre in sé i Balcani. Famiglie che si spac-cano, mentre ultra-liberali e xenofobi, gayiper-tolleranti e fascisti si alleano contro ilNemico, e le divisioni politiche saltano innome dell’emergenza etnica.

«Un putiferio» sorride Azra Jerkic,informatissima studentessa bosniaca discienze politiche. «Qui gli imam omofobie misogini usano gli stessi argomenti deifondamentalisti protestanti, dei papistialla Buttiglione o della destra fiammingamaschilista. I primi urlano contro le don-ne in vetrina, dicono che a schiavizzare ladonna è l’Occidente. I secondi figurarsi. Inrealtà a nessuno dei due importa davverochi siamo. Lo stesso Van Gogh aveva di-chiarato che «non avrebbe perso il sonnoper noi». Tutto dice che questa battagliadovremo farla da sole». Azra spiega che ilconflitto va molto al di fuori dell’Olanda.

«Si tratta di decidere a chi appartiene ladonna: alla comunità maschio-centrica

Un mese fa il sogno olandese della libertà e della tolleranza è finito,ucciso dal fanatico musulmano che ha sparato al regista Van Gogh.Anche qui è arrivato lo “scontro di civiltà” ed ha il volto e le paroledelle ragazze immigrate che lottano ogni giorno per tenereinsieme le radici e la voglia di essere protagoniste nel Paese del futuro.Su di loro si combatte la sfida cruciale e più difficile

La jihad sul corpo della donnaPAOLO RUMIZ

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Naida Aurangzeb, giornalista tv, racconta le difficoltà di essere pachistana e olandese

“Io, musulmana e femminista”

«IL’AJA

ntendiamoci. Qui la donna ha li-bertà assoluta. Nei treni e nei bus

posso circolare di notte da sola senza chenessuno mi importuni. Sarebbe impensa-bile in Pakistan, dove sono nata, o in altriPaesi musulmani. Ma questo è anche unposto dove, se non rientri in uno schema,sei perduto». Naida Aurangzeb, 30 anni, èuna di quelle che ce l’hanno fatta. Porta ilfoulard annodato sulla nuca, alla moda piratesca delle giova-ni musulmane di qui. È diventata giornalista tv, si è impegna-ta con successo nell’associazionismo giovanile e si batte per idiritti della donna. Esprime lucidamente le complicazioni del-la sua doppia appartenenza: pachistana e olandese.

«La gente non riesce a catalogarmi. Mi chiedono: sei musul-mana? E se lo sei, com’è che sei così indipendente? Non capi-scono che l’adattamento al tuo nuovo Paese comporta cam-biamenti per tutti. Figurarsi per la donna, che scopre di poterstudiare, andare a feste, vestirsi all’occidentale, sposarsi peramore. Poi non capiscono che tu possa portare il fazzoletto sulcapo ed essere magari femminista».

Non lo capiscono nemmeno le donne?«C’è un giornale femminista che si chiama “Opsij”, nel

quale mi riconosco totalmente. Ebbene, la direttrice Cisca

Dresselhuys ha dichiarato che mai nellasua redazione potrà lavorare una donnavelata. È una cosa che mi spiazza total-mente. Mi umilia. Se nemmeno una fem-minista capisce che io ho la mia identità,come fanno a capirlo le altre? C’è tantastrada da fare».

È una reazione normale alla paura...«Gli eventi internazionali e ora l’omici-

dio Van Gogh hanno creato verso i mu-sulmani un pregiudizio a senso unico. Se

ammazzano migliaia di bosniaci com’è accaduto a Srebre-nica nel ‘95, ti danno una pacca sulla spalla e ti dicono: po-veri musulmani. Ma se un palestinese si fa saltare in aria e fauna strage ti dicono: voi avete fatto questo».

Gli eventi internazionali hanno cambiato anche i mu-sulmani di qui.«Vero. Gli attacchi di Bush all’Afghanistan mi hanno fat-

to sentire per la prima volta legata alle mie radici pachista-ne. Prima non ci avevo mai pensato».

L’Olanda ha paura per la sua identità.«Posso capirlo, c’è stato un cambiamento troppo veloce. Ma

perché ora, anziché imporci la loro visione dell’Olanda, nonchiamano anche noi a definire l’identità olandese? Voglio es-serci anch’io, la nuova arrivata, a lavorare per la costruzione diquesto che è diventato il mio Paese». (p. r.)

«Ora ci sarà più difficile trovare lavoro!».Dappert Market, Amsterdam Est, quar-

tiere popolare. Lì capisci la paura olandese.In giro, fra le bancarelle, quasi solo musul-mane a far la spesa, con carrozzine e figli. Leindigene son quasi assenti, tutte al lavoro,con i loro olandesini parcheggiati allescuole materne. Così, ogni mattina al mer-cato l’incubo dell’accerchiamento demo-grafico diventa rappresentazione reale.

“Ueberfremdung” lo chiamavano i na-zisti, eccesso di stranieri. Una turca esa-mina con lentezza un casco di banane.Dietro di lei una bionda spazientita bron-tola: «Perché non ve ne state al vostro Pae-se, è troppo pieno qui». Poi: «La sola cosache sapete fare è i figli». L’altra la guarda,ma non risponde.

Riparte con la sporta e due bambini nelprato coperto di brina. Intanto le proie-zioni confermano: la natalità delle immi-grate è nettamente più alta, e tra venti, almassimo quarant’anni l’Olanda sarà unPaese musulmano. Di nuovo, la donna alcentro dello scontro.

Per questo, da quattro anni, l’Olanda hacompiuto una gigantesca virata. Ha grada-tamente chiuso le frontiere e speso oltrecento milioni di euro per impartire ai nuo-vi arrivati corsi di integrazione spinta. Le-zioni di “olandesità” che farebbero saltaresulla sedia un cattolico: tutto sui gay, li-bertà assoluta di divorzio e aborto, educa-zione sessuale con abbondanza di nudità.

«Mio padre è nervoso» sorride Uluk G.,24 anni, impiegata in un supermarket,nata in Olanda da famiglia turca. «Sa chefuori, nella società, non avrà mai potere.Ma almeno dentro, in famiglia, lo vuoleconservare a tutti i costi. Ha sempre leorecchie dritte con la mamma, con me emie sorella Yasmin». Patriarchi in perico-lo, un po’ come gli emigranti italiani anniCinquanta nel Nord Europa. Solo che qui

d’origine o a quella libera di adozione? Ache diritto risponde: a quello del gruppoo a quello universale? L’Europa non haancora deciso che fare, se è vero che conl’immigrazione i delitti d’onore tornanoad aumentare e i giudici sono spesso cle-menti con gli assassini».

Il problema è che dopo l’11 settembre ilpregiudizio si è concentrato sui musul-mani, lamenta l’antropologo turco KadirCanatan. «Giustamente si sta attenti al-l’antisemitismo, ma chi guarda all’anti-slamismo? I giornali mi deprimono, per laprima volta dopo vent’anni ho voglia diandarmene». Tutti parlano delle musul-mane recluse, nessuno dice che in Olan-da il top dei suicidi in famiglia riguarda ledefilatissime hindu. Si osserva che i mu-sulmani detestano l’anima libertariaolandese, ma se su Internet digiti le paro-le “Olanda” e “corrotta”, trovi pamphlet eanatemi ultra-cattolici assai più che ap-pelli alla Jihad. «Nel Paese dove i gay sipossono sposare - osa una turca in com-pleto grigio-topo - è possibile che questomio fazzoletto faccia paura?» La sera, nelparco davanti al Concert-hall, migliaia diteenager ballano davanti a un palco conun’altra ragazza che urla rock duro al mi-crofono. Sono di due tipi: bionde indige-ne con faccia da pattinatrici, e alcune bru-ne mediterranee col fazzoletto annodatoalla pirata. Le musulmane. Entrambesanno che il potere, domani, sarà dellepattinatrici. Sanno che in Olanda il desi-derio di emancipazione delle figlie di Al-lah è visto con sospetto: «Non incoraggia-te l’ambizione delle marocchine, perchétanto si sposano comunque» sta scritto adesempio su “Dekanolog”, un periodicoper insegnanti. Figurarsi ora, dopo l’as-sassinio. «Quello stronzo ha distrutto lanostra reputazione!» urla nella baraondauna pachistana, alludendo all’omicida.

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Adriano SofriLa santa guerra

islamista è una guerrapreventiva

di riaggiogamentodelle proprie donne,minacciate di passar di mano al nemicooccidentale o a se

stesse, che è quasi, masolo quasi, purtroppo,

la stessa cosaREPUBBLICA

del 17 agosto 2004

LA DONNA VELATA

Marrakech, 1992, una donna passeggia

per le vie della città.

In alto, il regista Theo Van Gogh.

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

L’AMARO RISVEGLIO DELL’OLANDA

AUTUNNO 2000

L’Olanda rinuncia al

multiculturalismo e avvia corsi di

“olandesità” per i nuovi

immigrati. Giro di vite alle quote

di stranieri.

SETTEMBRE 2001

Dopo l’attentato alle Torri, le

moschee olandesi - circa 500,

un numero proporzionalmente

decuplo rispetto all’Italia -

vengono messe sotto

sorveglianza.

OTTOBRE 2001

Con l’intervento Usa in

Afghanistan, i giornali registrano

un’ondata di solidarietà con i

musulmani. Il numero delle

ragazze col foulard aumenta

GENNAIO 2002

Il partito populista neo-costituito

di Pim Fortuyin sfonda nei

sondaggi con lo slogan:

«L’Olanda è piena». Come dire:

troppi forestieri.

MAGGIO 2002

Un ambientalista uccide

Fortuyin. L’indignazione dei

musulmani è tiepida. Lo

scomparso diventa un eroe

dell’identità olandese.

PRIMAVERA 2003

Guerra in Iraq, violenti dibattiti in

tv sull’Islam in Belgio. Volano

insulti razzisti, ma la legge non

interviene. La “libertà di stampa”

è un intoccabile pilastro

dell’identità olandese.

AUTUNNO 2003

La somala Ayaan Hirsi Ali,

parlamentare per

il centro-destra al governo,

lancia una campagna

per i diritti delle

musulmane recluse

e picchiate in casa.

La ministra dell’integrazione,

Rita Verdonk, espelle

26 mila immigrati dopo

aver negato loro

il permesso di soggiorno.

PRIMAVERA 2004

Il regista Theo Van Gogh,

aggressivo ospite

fisso dei talk show in televisione,

definisce i musulmani

«scopatori di capre» suscitando

polemiche e indignazione.

AUTUNNO 2004

La Hirsi Ali e Van Gogh

producono insieme

un cortometraggio imperniato

su una giovane musulmana

seminuda, coperta di lividi,

che accusa Allah della violenza

subita nel suo nome. Il corpo

è coperto di versetti coranici,

abbinamento blasfemo

per i musulmani.

NOVEMBRE 2004

Il 2 novembre Mohammed B.,

un olandese di genitori

marocchini di 26 anni, ammazza

Van Gogh poi lo sgozza e - prima

di essere catturato - lascia sul

cadavere un messaggio di

condanna per Hirsi Ali. Che,

da allora, deve nascondersi.

LA NUOVA PAURADEGLI UOMINI

NATALIA ASPESI

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Se il corpo della donna è al centrodell’ideologia islamica dellaviolenza e della sottomissione,come sta lo stesso corpo in Occi-

dente o più modestamente, in Italia? Seè quello di Loredana Lecciso sta benis-simo, per l’ideologia maschilista no-strana, perché è riuscito a riportarel’immagine della donna alla derisionee all’accantonamento di ogni valore,come fosse una specie di Mae Westcontemporanea quindi privata di in-telligenza e autoironia dalle necessitàhorror della televisione. È una stradasu cui si potrebbe precipitare veloce-mente, non dimenticando che se la Co-munità Europea non lo avesse stoppa-to, avremmo come nostro rappresen-tante una persona che, dichiarandosifilosofo cattolico, avrebbe volutoescludere dalle discriminazioni messeal bando dall’Europa, quelle sessuali; ilche non riguarda solo quello che qual-che antico chiama ancora terzo sesso,cioè gli omosessuali, ma anche le don-ne che un tempo, molto tempo fa, machissà domani, venivano ancora defi-nite il secondo sesso, un sesso insom-ma un po’ secondario, inferiore. Stri-scianti, insopportabili signori del-l’informazione, con massimo cinismoirreligioso, hanno ricominciato a par-lare di aborto, non della legge che loconsente, ma dell’aborto in sé, di unevento insomma che nessuno, tranneloro, può giudicare o affrontare con in-differenza o leggerezza.

Se ne è parlato qualche giorno fa an-che nel tenebroso Otto e mezzo, spo-stando furbescamente il problema ne-gli Stati Uniti di oggi, sempre più con-servatori, dove i gruppi pro-life in stiletalebano, hanno inventato i cimiteriper gli embrioni e sparano ai medicinon obiettori: e dove misteriosamenteuna nuova legge proibisce l’interruzio-ne di gravidanza alle donne soldato. Masi sa benissimo che silenziosamente, incerte regioni, per esempio in Lombar-dia negli ospedali governati da Comu-nione e Liberazione, c’è una vera guer-ra per dissuadere le donne che chiedo-no un intervento abortivo e sempremeno sono i medici disposti a farlo.Niente riguarda di più il corpo delladonna di una interruzione di gravidan-za, e il tentativo di sottrarle il potere discelta, di ricacciarla nel mondo opaco,doloroso e soprattutto punitivo dellaclandestinità, nel pericolo e nella ver-gogna, ha poco di etico e molto di poli-tico. Anche solo ricominciare a parlar-ne, minacciosamente, diventa uno deitanti tentativi per toglierle potere, perrimetterla al suo posto, nel luogo che lecompete, la sudditanza e l’incapacità(di intendere e volere).

Ci sono periodi storici in cui le donnediventano protagoniste, come fu neglianni ’70, e ciò avviene sempre partendodalla riflessione sul corpo, rifiutandonel’esproprio sociale e privato delle con-suetudini e delle leggi, reclamandonel’autonomia. Oggi non è uno di quei pe-riodi, e non solo per la diffidenza cre-scente che può diventare rifiuto da par-te degli uomini (e di certe donne) e deipoteri che rappresentano. Sono le don-ne che patiscono sul loro corpo mes-saggi e pulsioni contrastanti di cui di-ventano il bersaglio. Si affollano a ren-derle inquiete troppi doveri e troppe il-lusioni: bellezza e carriera, amore e au-tonomia, figli e indipendenza, respon-sabilità e solitudine. Nessun corpo, enon solo quello della donna, è mai ridu-cibile del tutto a regole sociali, è sempreun elemento esplosivo, di crisi, soprat-tutto quando va in crisi tutto il resto, lasocietà, l’economia, la politica. Comeadesso. Ma mentre il corpo maschile ècodificato, si è creato le proprie leggi an-che di costume, quello delle donne,sfuggendo a questo codice non suo, in-troduce sempre un elemento di critica,di disordine, persino di sovversione.

Così l’incomprensione, la diffiden-za, lo scontro, si spostano dal sociale alpersonale. In questo momento infatti,molti uomini adulti si sentono defrau-dati di un bene che già hanno perdutoda tempo, il controllo sul corpo femmi-nile, e delle donne di oggi hanno paura,perché non ne capiscono più né i desi-deri né l’autonomia: cui non possonopiù dire «Sei mia». I giovani riscopronointanto che essere uomo dà oggi unvantaggio sociale rispetto alle coeta-nee, che a loro volta percepiscono co-me un’assurda ingiustizia questa di-versità. Un’occasione televisiva mi hapermesso di stare un paio d’ore con ungruppo di ragazzi attorno ai vent’anni:i loro discorsi mi hanno fatto trasecola-re, non li sentivo dai primi anni ’60, co-me se nel frattempo non fosse succes-so nulla: l’aria era un ritorno inaspetta-to al conflitto tra i sessi così incongruotra ragazze col pancino fuori e ragazzipieni di piercing, immagini tutti di li-bertà anche fisica. Poi per forza la Lec-ciso trionfa, azzerando con la sua doci-le inconsistenza, con il suo funebre esi-bizionismo, con la sua pacificantegrulleria, ogni conflitto: di corpo, d’a-nima, di pensiero.

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la memoriaScuola di Barbiana

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

“Io e i Pinocchi di don Milani”

Di don Lorenzo Milani e deiragazzi di Barbiana sape-vo poco in quegli anni Ses-santa in cui per conto del“Giorno” percorrevo fre-neticamente l’Italia per

scoprire il paese reale in cui ero nato evissuto dopo la parentesi fascista, im-maginata più che vissuta, piena di paro-le più che di cose, e dopo l’avventurapartigiana. Sapevo che vicino a Firenze,in un piccolo borgo — quattro case e unachiesa — di nome Barbiana, uno stranoprete aveva fondato una scuola per ra-gazzi poveri dove avvenivano incontridi cultura meravigliosi ma in certo mo-do preoccupanti, da setta eretica, con-tro ma dentro la nostra romana ecclesia.

Ragazzi poveri che il mattino prestopartivano dai loro villaggi, dalle loro po-vere case per raggiungere Barbiana. Lagente del posto li chiamava “i Pinocchi”e del prete aveva fatto un personaggiotemibile nelle sue virtù, sicchè diceva-no ai bambini «attenti, se non studiatevi mandiamo da don Lorenzo».

Che cosa sapevo negli anni Sessantadi don Milani? Poco e confuso. Che erauno di quei preti, di quei cristiani chestavano nella Chiesa detestandola,pragmatici nelle loro opere ma apoca-littici nei loro sogni, una specie selvati-ca e profetica: i Dolci, i La Pira, i Gnoc-chi che riscoprivano e mettevano inqualche modo assie-me il francescanesimoe la rivoluzione sociale.Quella ammirevole mapreoccupante fioritu-ra di preti operai, diteologi della Liberazio-ne sudamericani, diAbbè Pierre, di creatoridi scuole e rifugi per idiseredati, di spiriti in-quieti e sensitivi checoglievano nell’arial’annuncio delle pros-sime tempeste sociali,il Sessantotto del mo-vimento studentesco,l’autunno caldo deglioperai, qualcuno forsela lotta armata.

Chi era don Milani?Un intellettuale di gu-sti snobistici arrivatoalla Chiesa da un am-biente completamen-te estraneo: di famigliaebraica, battezzato persfuggire alle leggi raz-ziali, che all’improvvi-so entra in seminariocon il radicalismoevangelico del conver-tito e che, diventatoprete e mandato in unaparrocchia in mezzoalla vecchia vita catto-lica — comunioni, fu-nerali, matrimoni,processioni — vede lapossibilità di sfuggire aquesta routine occu-pandosi di scuola per essere d’aiuto aquesto gregge che non ha parole, chepuò essere comunista frequentatoredella casa del popolo come cattolico le-gato alla parrocchia. Questi sono i mi-steri dell’uomo: che un intellettuale dicultura ebraica, biblica, nato in una fa-miglia di professori emeriti, dal padre albisnonno, in una famiglia ricca e di gu-sti snobistici, si getti in un’avventura diriscatto pauperistico ma senza caderenel culto della povertà. Insomma una diquelle combinazioni e contraddizioniallora lontanissime e ostiche per unocome me, arrivato a un illuminismopragmatico dalla guerra partigiana.

Sapevo di don Milani, dei suoi libri,delle sue opere: ammirevole ma estra-neo e per certi versi anche pericoloso.Ricevetti una sua lettera nel ‘63, se benricordo: diceva che leggeva le mie in-chieste sull’Italia del miracolo econo-mico e che le faceva leggere ai suoi alun-ni. Lo ringraziai per avermi accolto inuna buona, anzi ottima compagnia. Ri-

mi computer usciti dalla Olivetti. Vede-vano film e ne discutevano. E tutto que-sto avveniva in una borgata sconosciu-ta. Ricorda il giornalista dell’“Europeo”Pecorini: «Quando il giornale mi chiesedi fare un articolo su Barbiana, di cuitanto si parlava, mi accorsi che sulle car-te geografiche non c’era».

Ammirazione e dubbi

Il caso di Barbiana riempiva di ammira-zione ma anche di dubbi. Che cosa si-gnificava questa scuola per i poveri do-ve si insegnava una cultura non da ricchima da super-ricchi, una cultura di èliteignota, non praticata nella scuola bor-ghese o nei collegi dei cattolici? Unesempio virtuoso? Oppure la scommes-sa luciferina di un prete prossimo ad es-sere spretato, che per essere diverso, peressere al di sopra delle miserie e dellevergogne del mondo si era ritirato a Bar-biana, una canonica isolata a cui si arri-vava per una strada non asfaltata, con lachiesa e un piccolo cimitero, il pergola-to e un’aula con il mappamondo, le stel-le e i pianeti per studiare l’astronomia,con i diagrammi dell’economia nazio-nale per capire che sono i poveri a paga-re le tasse e come si dividono i flussi del-le entrate? La scuola nel paese il cui no-me non c’era sulle carte ma in cui si in-segnava disegno meccanico, due linguestraniere e persino il nuoto nella picco-la piscina fatta dal priore.

Lo ammiravamo questo priore col-tissimo, generoso, coraggioso, ma era-vamo “di un’altra parrocchia”, ci inte-ressava il paese delle fabbriche e delleautostrade che cambiava, che cresce-va; ci interessavano anche i ricchi “vir-tuosi”, quelli che uscivano dal loro ca-stello con i ponti levatoi alzati e che in-contravano giornalisti, sindacalisti,uomini delle professioni umanisticheche riunivano il Paese. Erano in parte il-lusioni anche le nostre ma poco ideolo-giche e per nulla teologiche, comequelle che appassionavano e facevanosoffrire il nostro don Milani.

Il Savonarola di turno

Che volle incontrare anche Montanel-li, il quale ne ricavò subito un articoloper il “Corriere” in cui diceva: «Noncondivido le sue pretese classiste se-condo cui di cristiano o di suscettibiledi diventarlo non c’è che il proletariato.Queste son baggianate che non valeneanche la pena di confutare. Ma per-ché a rallegrarsi sono stati i miei senti-menti meno nobili, la prudenza, la pi-grizia, l’amor per il quieto vivere chedon Milani aveva messo in allarme?Egli dice senza dubbio molte cose as-surde, quelle che gli hanno valso la con-danna del Sant’Uffizio, ma riapre deiconti e ripropone dei problemi cui lamia coscienza di cattolico italiano èpiuttosto impreparata e renitente. Nonper nulla appartengo alla razza che po-co meno di cinquecento anni fa prese il

Savonarola, il don Mi-lani di turno, lo legò suuna catasta di legna ele diede fuoco. Appun-to perché non distur-basse non la quietepubblica ma quellaprivata».

Con chi non se laprese il priore di Bar-biana? E con chi nonaveva mille ragioni diprendersela anche sedisturbava la nostraquiete? Se la prese conl’arcivescovo di Firen-ze «quello zitelloneche ha paura dei santi eadopera i preti comegaloppini elettorali»: ilsuperiore che lo avevaesiliato da Firenze aCalenzano. Ce l’avevacon i cappellani mili-tari a cui scrisse unalettera accusandoli di«tacere per continuarea uccidere»: e fu pro-cessato per istigazionealla renitenza.

Don Milani non eracontro la Democraziacristiana ma non tolle-rava le ragioni sullequali poggiava l’unitàdel mondo cattolico. Isuoi strali colpivano losfacciato impegno po-litico del clero, avevauna profonda antipa-tia per la stampa catto-

lica fatta di luoghi comuni, di menzo-gne, ma non era un cattolico del dissen-so. Egli sembrava accettare la Chiesacome è per coltivare la sua vera voca-zione: l’educazione dei ragazzi all’usodella parola. Non si rendeva conto chenon poteva chiedere il rispetto della co-scienza dell’uomo e l’obbedienza a unaistituzione religiosa? Ma queste suecontraddizioni facevano anche partedel suo fascino intellettuale.

Era contro la scuola di classe, diffida-va della pedagogia ufficiale e del modoin cui veniva messa in pratica fra i ban-chi. Inutile chiedersi se in queste criti-che demolitrici ci fosse un eccesso diintransigenza umana, di incompren-sione, di insensibilità verso il lavoro de-gli insegnanti. Ma il suo insegnamentomorale — osserva Geno Pampaloni —si collocava al di là e al di sopra. Basti ri-cordare la sua celebre lettera a un gio-vane comunista nella quale in sostanzadiceva: quando avrai perso mi troveraiaccanto a te.

GIORGIO BOCCA

Cinquant’anni fa, il 6 dicembre 1954 un prete scomodo, viene“esiliato” in un piccolo borgo toscano neanche segnato sulle cartegeografiche. Comincia allora la storia straordinaria di un gruppodi poveri ragazzi di campagna alle prese con materie e programmiche nemmeno i collegi dei ricchi avevanoUn’esperienza appassionata e controversa che ha segnato un’epoca

LETTERA A UNA PROFESSORESSALa stesura inizia nel 1966 ma la

pubblicazione arriva nel maggio

1967. Don Milani muore un mese

dopo, all’età di 44 anni

DON PRIMO MAZZOLARIÈ considerato il capostipite di una

generazione di preti “contro”: muore

a 69 anni, nel 1959, dopo aver

partecipato alla Resistenza

DON ENZO MAZZINegli anni ’60 a Firenze si afferma

un’altra comunità di cattolici del

dissenso: è l’Isolotto di don Mazzi,

in forte polemica con la Curia

IL MOTTO “I CARE”

Sopra, foto di gruppo dei ragazzi della

scuola di Barbiana con al centro don

Lorenzo Milani. A sinistra e sotto, due

interni della scuola. Su una porta

campeggia il cartello con il motto degli

studenti di Barbiana, diventato celebre:

l’inglese “I care”, “me ne importa”

L’ANNIVERSARIONel pomeriggio del 6 dicembre

1954 don Lorenzo Milani arriva a

Barbiana: comincia così

l’esperienza della scuola dei poveri

Preti contro

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corda uno dei suoi allievi: «Si leggevanole Lettere dal carcere di Gramsci, La pe-ste di Camus, si leggeva Socrate, l’auto-biografia di Gandhi, le lettere del pilotadi Hiroshima, della bomba atomica.Conoscevamo intellettuali e grandipersonaggi. Ma in umiltà. Non poteva-mo parlare, solo ascoltare».

Una scuola miracolosa, ma che aquelli come me metteva i brividi. Quel-li come me vivevano ancora l’illusionepartigiana di cambiare democratica-mente ed economicamente il Paese. Inostri eroi erano figli dell’utopia maanche realisti, o tali credevano di esse-re. Erano tipi come Vanoni, come Mat-tei, come Parri, come Lombardi, contutti i loro sogni, ma che facevano la na-zionalizzazione dell’industria elettri-ca, la riforma agraria, che riportavanonell’azione le classi emarginate, che te-nevano uniti nella nazione comunisti,socialisti e democristiani. Per cui dei ti-pi alla don Milani avevamo ammirazio-ne ma sospetti.

Le parole dei borghesi

Certo la scuola di Barbiana come esem-pio, come modello sembrava ottimo,talmente ottimo da diffidarne. A Bar-biana dei ragazzi poveri e senza culturastudiavano oratoria, imparavano a par-lare senza aver paura delle parole deiborghesi colti, dei ricchi. Imparavano ascrivere a macchina, sapevano dei pri-

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le storieLA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

MRISERVA JAQUEIRA

agnifico. Diluvia, sec-chiate d’acqua calda,cielo da romanzo diConrad, tifone, sabbie

mobili, fango alle ginocchia. Facce d’A-mazzonia, piedi nudi. Renato tendel’arco, ha due conchiglie enormi chependono dai lobi. «Tengono lontano ifulmini». È un cacique, capo tribù deiNambikwara, a ovest del Mato Grosso.Ha piume di pappagallo in testa, trecollane di semi tuturri al collo, più unadi piqi, tipo castagna, bracciali di fogliedi palme sui polsi. «Sono ornamentiburiki». Corpo tatuato di nero, fisico daMaradona. Ci ha messo quattro giorniper arrivare in questa riserva naturaleaccanto a Porto Seguro, nello stato diBahia. Per venire a giocare con gli altriindios. «Aruà, Bakairi, Bororo, CintaLargo, Holantesu, Irantya, Karajà,Kayahi, Mamaindè, Pareci, Rikbaktso,Tapirapé, Umutina, Xavante».

Renato, grazie, ma le formazioni lefacciamo dopo. Ha 38 anni, e sette figli.Il morso della lebbra sulla pancia, e lamalaria dentro. La sua tribù oggi è di885 persone, erano diecimila nel 1900.Nambi significa bocca, kwara canna dipalma. I Nambikwara sono sopranno-minati «quelli che dormono sulle cene-ri» perché amano trascorrere la notteaccanto al fuoco. Vivono in una terradove 200mila ettari di bosco sono statidistrutti e dove 3000 miniere d’oro, sac-cheggiate dai garimpeiros, hanno in-quinato di mercurio i fiumi. Il Biafrabrasiliano, altro soprannome della re-gione. Renato fa segni sulla sabbia, nonsa leggere né scrivere. Vive senza ac-qua, luce, tv. Però sa come si caccia unarmadillo. «È difficile, devi scoprire do-ve esce e tappare la buca». Renato Na-biquera esiste, campione dei Giochi in-dios. Anche se non ha mai tirato i rigoria Pasadena, anche se non ha visto l’orodi Galiazzo ad Atene. Gli hanno datoun’amaca, un tetto di paglia, un piattodi manioca, è il suo villaggio olimpico.Renato è contento, vede altra gente: tudi quale tribù sei?

Le gare senza orario

Tremila indigeni, 17 etnie dalle sue par-ti. Mostra l’arco di ipè, legno duro, fa ve-dere le frecce: «Questa che finisce tondaè per stordire gli uccelli». Li cita: arara,mutum, siriema. Ride: «Qui non ho por-tato l’hautitatesu». È il veleno da freccia,viene da una radice del Mato Grosso.«Noi cacciamo per bisogno: scimmie,cinghiali, cervi, uccelli. Non ci nascon-diamo, né aspettiamo gli animali. Sia-mo guerrieri. Poi festeggiamo davanti alfuoco e dividiamo. I ragazzi si sposanoa 17 anni, le ragazze a 13. Si diventa uo-mini facendosi bucare le narici senzaun grido. Non esiste la dote, ci si regalamonili, la terra è libera. E quando cipunge il serpente la vita finisce, sottoterra andiamo nudi, con accanto le no-stre cose, in mezzo al villaggio».

Renato non ha idea a che ora sia la suagara. Non gli importa. Il motto dei Gio-chi olimpici indigeni è: «L’importantenon è vincere, ma festeggiare». De Cou-bertin è servito, il gioco sta nel giocare,senza attesa e pretese. Ronaldo? Igno-to. L’ansia del risultato non esiste suquesto pezzo dell’Atlantico, accanto alfiume Buranhem, che si attraversa suuna chiatta lenta e stravagante comecerti inizi di Garcia Marquez. Bisognaprendersela con calma, il tempo non vacon l’orologio. I Wai Wai per arrivare aPorto Seguro hanno impiegato più di15 giorni. E hanno fatto in fretta. «Sì, perun tratto abbiamo messo il motore allecanoe, eravamo in sei a pagaiare». Ven-gono dal nord-est del Parà, tagliato dalfiume Mapuera, dalla riserva Nhamun-da, duemila indios. Amazzonia delnord, per intenderci, foresta pluviale,al confine con Venezuela e Guyana.«Sei giorni a remi per arrivare a Orixi-minà, due di attesa per aspettare unabarca più grande per Santarem, altrogiorno e notte di viaggio, poi tre di atte-sa per Belem, un battello, e....».

Sono tutti capelloni, con una frangia

alla Louise Brooks, pareggiata e cortadavanti, chioma lunga e libera dietro.Nera e folta. Sul viso baffi da gatto, ri-ghe, pois, losanghe. «Per assomigliareal preguiça». Un animale erbivoro, tipokoala. Anche il loro corpo è inchiostra-to dalla tinta nera del genipapo, alberobrasiliano. Hanno piccole cerbottanenelle narici e sotto la bocca. Piercingnaturale. La loro terra è piena di casca-te, pescano e cacciano, con frecce al cu-raro. «E quando ti punge il serpente lavita finisce». Il veleno del cobra paraliz-za. Paulo Enrique, 35 anni, è un Wai-Wai. Alza gli occhi e fa vedere come col-pisce di testa. È venuto per la gara “bo-la de cabeza”. Palla di testa. Xikunahity,in indio. Un calcio senza calci. Colpirecon i piedi non vale, troppo facile. Biso-gna essere almeno in otto, 40 minuti digioco. «Si salta, come fa il giaguaro». Si-curo, come il giaguaro. Capito Vieri? Lapalla non la porta lo sponsor. Troppocomodo. La palla non si compra, si co-struisce. Con la corteccia di un albero,che viene bagnata, lavorata, attorci-gliata, stesa al sole e fatta seccare.

Anche la tribù Enawene-Nawè, giocaa palla con la testa. Facce alla CharlesBronson, sopracciglia rasate. Si allena-no ridendo, volano nell’aria, simulan-do colpi di testa. Ignorano i dribbling, lefinte, i rilanci. Non sanno come la feli-cità possa passeggiare nei piedi ed esal-tarsi in un prediletto sinistro, non co-noscono il colpo di tacco e le punizionia foglia morta. Né hanno mai provato lasoddisfazione di parare con le mani, ditener fuori quello che è destinato ad en-trare. Per loro Zamora non è un dio enemmeno Camus che giocava con ilnumero uno. Loro saltano, nella fore-sta che è il loro stadio, su rami e liane, incompagnia delle scimmie. Inzuccano,e si divertono. Per festeggiare il dio Wa-zare che distribuì il suo popolo sull’al-topiano e poi tornò nel suo mondo.

Gli Awà Guajà in tutto sono 257 e ven-gono dal Maranhao. Non hanno maiavuto contatti con l’esterno. Sono ve-nuti a giocare in quattro, per la primavolta. Nudi, senza un pelo, con un fioregiallo sul pene. Ma sembrano più vesti-ti di certi europei. Non sono imbarazza-ti, solo ignoravano che nel mondo lagente girasse con gli abiti. Urlano versistrazianti contro nemici visibili e invisi-

bili. Ai Giochi indios i potenti della terranon vengono, qui non sfilano i naziona-lismi, ma le penne di pavone, d’oca, dicigno, le piume incollate al corpo, i can-ti, i lamenti di chi soffre con la terra enon per un affaticamento muscolare.Non ci sono bandiere, solo archi, frecce,flauti di bambù. E gli occhi innocenti deideboli. Nemmeno un cellulare. Nessungrande o piccolo sarto ha vestito letribù. Però che eleganza, nuda a vera.

Il braciere con il fuoco

Le donne con i bimbi, aggrappati al fian-co, gli uomini pataxòs a fumare un’erbaaromatica e purificatrice che si chiamaamesca, con le pipe ricavate dalla pan-nocchia di mais, i ragazzi a scimmiotta-re le movenze del gatto selvatico. «Cin-quecento anni fa eravamo tutti così» di-ce una studentessa di Brasilia, Thais An-tonelli. E non si capisce se è il rimpiantoper una cosa che si è stati o la delusioneper qualcosa che non si sarà più. Ci sonoanche i Yanomami, gli amici di Sting, gliunici che usano cremare i morti. Ad ac-cendere il braciere, anzi la pira, la bellafaccia dell’india Irebo, della tribù deiKaiapò, che non ha nessuna tv verso laquale voltarsi. Mentre Ubirana canta eballa. Ha 19 anni, è un pataxò, sono 16 letribù che vivono sulla fascia litoranea.Ha una cintura di giaguaro, segni geo-metrici sul viso, pon pon arancioni allecaviglie, dice che lui sa che Baggio èquello che ha sbagliato il rigore e chenon è vero che gli indios non sanno gio-care a calcio, lui per dare forza alle gam-be beve un tè che fa volare.

La zarabatana è la gara di cerbottane.Ad Atene non c’era, qui non potevamancare. Il bersaglio è un cocomeropiazzato a 30 metri. Alla prova dell’arcoper la prima volta sono state ammesseanche le donne indios, a seno nudo,tinto color mattone. Imperdibile la cor-sa con i tronchi, che pesano cento chili(la metà per le donne). Impossibile per-dere il testimone, vista la stazza. È unagara di staffetta, si corre in squadra (10-15), quando uno è stanco subentra l’al-tro. Chi vince non prende niente, solola sua razione di orgoglio. I record nonsono questi. Loro la pensano come Ti-mothy Leary: vivere, illuminarsi, mori-re sono tutti sport di squadra.

Le olimpiadi indios non hanno pro-

grammi serrati, anzi non hanno pro-prio programmi. Una gara al giorno,con comodo. Se va, e se non va si ri-manda. Se il tempo non è bello megliospostare la gara ad un’altra volta. Tan-to non si va in mondovisione, i crono-metri non esistono, e nessuno aggiornai primati. Qui Phelps verrebbe conside-rato un indemoniato e trascinato da-vanti al santone per un trattamento.Certe facce da stress olimpico non usa-no. E nemmeno le cuffiette per sentirela musica. Le gare di nuoto non hannoblocchi di partenza. Qui la piscina è unfiume marrone che sembra un lago, unmare, un oceano. Non si vede l’altra ri-va, ognuno ha le sue onde del destino.È nell’acqua che gli indios festeggianola fine della pubertà con la perforazio-ne delle orecchie. È nell’acqua che silotta con i pesci, anche con quelli vele-nosi. Phelps, se sei veramente un diodel nuoto, vieni qui e fai vedere.

Si ride: nel tiro alla fune, ma acciden-ti se si molla un metro. Ti chiedono: tu,di quale tribù? «Europa». «Ah sì, e chefate quando non cacciate?». Anche ilgrande Garrincha, dio della finta, an-dava a caccia, a pesca, dietro le donne eal pallone da futebol. Infatti sulla suatomba c’è scritto: «Era un bambino dol-cissimo. Parlava con gli uccellini».

Cade pioggia da una settimana, l’ac-qua evapora in una nebbia densa, ma-re e cielo sono una stessa nuvola. Il vil-laggio olimpico è stato inondato e eva-cuato. Siamo tutti zuppi, bagnati, fradi-ci. E senza medaglie. Babbo natale nonesiste, e la polmonite è in agguato. Peròè bello sapere che quelli che attraversa-no la vita e lo sport senza la paura di pas-sare nelle tempeste e di bagnarsi trop-po, esistono. Nonostante il serpenteche ti punge e ti fa dormire il grandesonno. Tanto contro i fulmini, bastanole conchiglie alle orecchie. E contro ilresto basta un salto. Ve lo spiegano iWai Wai: «Come fa il giaguaro quandoinghiotte la luna».

Quindici giorni di viaggio pergareggiare, un’amacaal posto del Villaggio,campioni che cacciano gli armadilli: sono gli strani Giochi in Amazzonia,dove conta festeggiare

LE REGOLE

La settima edizione dei Giochi

Indios si è svolta in Brasile, in una

riserva accanto a Porto Seguro,

nello stato di Bahia (20-27

novembre). La prima si era

invece disputata in Guyana nel

‘96. 1.200 gli atleti indigeni in

rappresentanza di 53 etnie. Gli

eventi sono 16, tra cui tiro con

l’arco, canoa, tiro alla fune, tiro

con la lancia, corsa con i tronchi,

calcio, atletica, nuoto, corsa di

fondo. E come dimostrativi:

lotta e cerbottana

Cerbottane e tatuaggile Olimpiadi degli indios

LE GARE PIÙ STRANE

A molte discipline sono

ammesse le donne, ma non a

quella della lancia. I giovani

guerrieri della tribù Ashaninka

praticano invece uno sport

che si chiama apanare: si

tirano le frecce in cielo,

verticalmente, e poi le si

riprendono con le mani

Sportnella foresta

EMANUELA AUDISIO

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il raccontoIntrigo internazionale

Èritornato Michael Arthur Le-deen e il gioco si è fatto subi-to duro. L’Amico Americanoin casa nostra ha già pastic-ciato. Per ricordare qualchesua impresa, ha ficcato il na-

so nel “sequestro Moro”, per conto dellaCia. Ha brigato con Francesco Pazienzanella palude del Sismi governato dallaP2. Si è mosso obliquo nella politica ita-liana, tra Craxi e Cossiga, fino ad esseredichiarato «persona non grata». Ora è dinuovo tra noi. Ha la giacca del falco neo-con, un lavoro da fare - la guerra all’Islame al terrorismo - e nessuna voglia di per-dere tempo con le ipocrisie del Belpaese.Troppi nel nuovo establishment - Anto-nio Martino, Gianfranco Fini, MarcelloPera - gli devono un favore. Non si è datoda fare per accreditarli a Washington o aGerusalemme? Facciano la loro parte,allora, e senza cautele: l’Amico America-no ha una missione da portare a termine.

Qual è la missione? Questa è la do-manda. Per mesi, i parlamentari del co-mitato di controllo sui servizi segreti lohanno chiesto. Nessuno li ha degnati diattenzione. Per afferrare un filo, è neces-sario fermare quel che per certo è acca-duto. Tra la primavera e l’estate, NewYork Times, Newsday, 60minutes di Cbs,Washington Monthly ci girano intorno ealla fine raccolgono una circostanza in-discussa. Questa. Pochi mesi dopo l’11settembre, prima del Natale di quel cata-strofico 2001, l’Amico Americano è a Ro-ma. Con un iraniano. Un trafficante d’ar-mi, già protagonista dello scandalo Iran-Contra. Manucher Ghorbanifar. Con Mi-chael e accanto a Manucher, due funzio-nari dell’Office of Special Plansdel Penta-gono. Larry Franklin e Harold Rhode.

Il piccolo drappello di “cospiratori”incontra dei fuorusciti iraniani. Il mee-ting dura tre giorni. Forse in una sala ri-servata al piano interrato dell’Hotel Par-co dei Principi (ora trasformata in fitnessroom). Forse in un appartamento “co-perto” del Sismi vicino a Piazza di Spa-gna. La nostra intelligence è della parti-ta. C’è un alto ufficiale e un “agente acontratto” che conosce il persiano, il far-si. Fanno il loro mestiere per conto delCapo, Nicolò Pollari. Spiano i colloqui.Sbirciano le grandi carte geografichedell’Iraq e dell’Iran distese sul tavolo e af-fisse alle pareti. Sono i mesi convulsi del-la guerra in Afghanistan e della pianifi-cazione dell’attacco a Saddam Hussein.

L’uomo dalla faccia furba

Ledeen è attivissimo. Frenetico, addirit-tura. Tra una conferenza e un dibattitotelevisivo; tra una cena a Milano e un ba-gno turco e un cocktail Martini all’Hotelde Russie a Roma, incontra il ministrodella Difesa, Antonio Martino, e il diret-tore del Sismi. Nicolò Pollari, appunto.

Dunque, Martino e Pollari conosconola missione di Ledeen. Sanno chi lo ha ac-creditato da Washington. Con chi, nelVicino Oriente, tesse la sua tela. AntonioMartino è muto come un pesce. Di Le-deen non parla. Degli incontri romanidell’Amico Americano non parla. Si av-verte un sodo imbarazzo nel suo staff sol-tanto a fare il nome di Ledeen. È lo stessoimbarazzo che s’impossessa di NicolòPollari. Al contrario di Martino, però, ildirettore del Sismi parla, spiega, ricorda,chiarisce anche se spesso confonde, di-mentica, dissimula. State a sentire.

Nicolò Pollari ha una faccia furbissi-ma. Gli occhi sempre in movimento.Guarda di lato o in su o in giù, mai versol’interlocutore. Parla a raffica con uneloquio attorcigliato. Ora allusivo, oralambiccato fino all’incomprensibile,ma non fatica né affatica quando vuolefarsi comprendere. Nella calura dell’e-state - qualche mese fa - ha quei male-detti investigative reporters alle calca-gne. Quelli fanno domande in giro, scri-vono lettere all’ambasciata, chiedonoincontri a questo e a quello. Che vannocercando Laura Rozen e Paul Glastris(Washington Monthly)? Quali “soffiate”ha raccolto a Washington David Gelber(producer di 60minutes)?

Pollari è in apprensione. Sembra avervoglia di liberarsi il cuore da una pena. ÈMichael Ledeen, la pena. Quel solo nomeprecipita il direttore dell’intelligence inun gorgo d’ansia che ha al fondo un assil-lo: che il suo nome, il suo Servizio possa-no essere associati alla reputazione opa-ca e alla missione oscura dell’Amico Ame-ricano. È di questo che si vuole liberare.Per farlo, cerca luoghi o clamorosamenteaffollati, come il bar del Grand Hotel St.

Uomo della Cia, amico dei nostri servizi segreti, negli anni Settantala sua ombra si è allungata sui misteri italiani: dal rapimento Morosino alla P2. Ora, Michael Arthur Ledeen è riapparso a Roma.Frequenta i grandi alberghi della Capitale e gioca a bridge con il capo del Sismi Nicolò Pollari, che però lo definisce “discutibile”. La sua missione è combattere “il Male”. E fare affari

CARLO BONINI e GIUSEPPE D’AVANZO

IL SEQUESTRO MORO

È il 1978, Michael Ledeen

fa parte dell’unità

di crisi riservata

che è stata costituita

al Viminale e che

collabora alle indagini

I RAPPORTI USA-LIBIA

È il 1980 Michael Ledeen

costruisce un falso scoop

che accusa il fratello del

presidente Usa, Jimmy

Carter, Bill di appoggiare

il regime di Tripoli

SCANDALO P2

È il 1981, Michael Ledeen

va a Montevideo,

in Uruguay, per recuperare

l’archivio segreto del

Venerabile maestro Licio

Gelli, trovato a Carrasco

tempo dopo, un ministro - no, niente no-mi - mi chiede di incontrare Ledeen.Quello si presenta e, altro che sicurezzanazionale!, mi parla di affari. Come se ilSismi fosse un Carrefour, dove si comprae si vende. Decido di avvertire il governo.Metto nero su bianco le mie perplessitàsull’opportunità istituzionale di conti-nuare a frequentare questa persona. Vo-glio evitare futuri fraintendimenti. Dico.Ledeen sostiene di essere stato incarica-to da Washington: vogliamo accertare seè vero? L’Americano frequenta a Romapersone influentissime. In quell’occa-sione nessuno gli dà copertura. Chi ha ilpotere di farlo mi dice di attendere daWashington una conferma del suo ruoloistituzionale. Non arriva alcuna confer-ma. Allora vado a Washington. IncontroGeorge Tenet, il direttore della Cia. Miconferma che Ledeen non ha alcun in-carico e consiglia: evitatelo! Al ritorno inItalia, dico ai miei: signori, Michael Le-deen è da oggi un vostro “obiettivo”. Vo-glio sapere tutto. Che fa, chi vede, quan-do, come, dove, quali sono i suoi traffici».

Dalla scacchiera, nel racconto dell’af-

fannato direttore del Sismi, sparisce ilpersonaggio più controverso (Ghorba-nifar) e la questione più sensibile (la si-curezza nazionale). Affiorano gli affari,anche per società italiane come l’Eni, euna ragione politico-strategica: l’orga-nizzazione di una rivoluzione che possarovesciare il regime di Teheran. Appareuna “preda” da braccare fino a renderlainoffensiva. Sorprendentemente, è Mi-chael Ledeen.

Il ritorno dell’Amico Americano ac-quista, a questo punto, una trama. Nel-l’apparente indifferenza - o forse con ladiscreta collaborazione - del governo,l’Italia è diventata il terreno di incuba-zione e la piazza di finanziamento delprossimo fronte della guerra all’Asse delMale. Un riscontro alla storia di Pollari losi può rintracciare.

Ledeen è ossessionato dal regime deimullah di Teheran. Il 21 aprile del 2003,per dirne una, raccoglie duecento esuliiraniani, in un sobborgo di Santa Moni-ca, Los Angeles. Organizza l’appunta-mento un monarchico amico personaledel figlio dell’ultimo Scià. Michael Le-

La spia e l’Amico AmericanoRegis, o salette discrete di alberghi nasco-sti, come il Rex, a ridosso del Teatro del-l’Opera, o la riservatezza del suo ufficiomale illuminato a Palazzo Baracchini.

Racconta Pollari. «Michael Ledeen èuna persona discutibile». Discutibile? Eallora perché organizzare il meeting del2001, per di più con un tipaccio comeGhorbanifar?

Pollari. «È vero, siamo stati noi a orga-nizzare l’incontro di Roma con gli ira-niani, ma Ghorbanifar non c’era. Quegliiraniani lì non lo conoscevano. Addirit-tura uno di loro chiese come si scrivesseil suo nome. L’incontro, dunque. Le co-se sono andate così. Mi chiama un mini-stro. Quale? Niente nomi. Mi dice che ilPentagono vuole organizzare un mee-ting con alcuni iraniani. Hanno infor-mazioni su alcune questioni che riguar-dano la nostra sicurezza nazionale. Mido da fare. Tengo d’occhio la cosa condue dei miei. Quelli discutono della ravae della fava. Ma, soprattutto, di contrattipetroliferi. Dell’Eni. Di concessioni pernuove estrazioni. Di linee di credito perdecine di milioni di dollari. Qualche

I MISTERI

Seguendo la“viadella seta del petrolio” si arrivaall’ossessione di Ledeen: rovesciareil regime di Teheran.L’Italia è il terreno di incubazione e il posto ideale pertrovare i finanziamentinecessari a questa sfida

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

deen arringa alla folla: «Quella iraniana èla più ricca diaspora della storia. Doveteimmaginare come finanziare una rivo-luzione democratica. Oggi, potete com-prarvi un Iran libero con soltanto ventimilioni di dollari». Soltanto venti milionidi dollari per liberarsi degli ayatollah. Èquesta l’operazione che Ledeen propo-ne alla nostra intelligence con l’avallo delministro Martino? Un indizio dell’in-treccio di rivoluzione e finanza, di de-mocrazia e affari, lo si può scorgere.

Alla fine del 2002, Ledeen fonda a Wa-shington la Coalition for Democracy inIran (CDI). Nel board siedono, con Le-deen, l’ex direttore della Cia James Wool-sey e Rob Sobhani. Sobhani è un profes-sore della “Georgetown University”. Na-to in America nel ‘60 da un ufficiale del-l’esercito dello Scià, fonda la CaspianEnergy Consulting, con sede nel Mary-land. Ragione sociale, la consulenza pe-trolifera alle imprese americane sui mer-cati del Caspio. La Caspian è nell’Azer-baijan aperto alle basi militari Usa. È inAfghanistan, dove ripropone la costru-zione della pipeline transafgana già stu-diata dalla Unocal, bocciata dai Taliban,sollecitata da tutte le grandi compagniepetrolifere. Gli addetti chiamano, quellapipeline, «la via della seta» perché attra-versa l’Iran, il Turkmenistan, l’Afghani-stan. L’impresa ha ora una chance in piùdi essere realizzata perché il presidenteafgano Hamid Kharzai ha lavorato per laUnocal. È nelle pieghe di questo proget-to che si possono trovare i dollari per«comprarsi un Iran libero»? Finanziate,con l’Eni, la rivoluzione iraniana e avreteil vostro posticino nella «via della seta»: èquesto l’affare suggerito da Ledeen al go-verno? È questo il programma politico-economico presentato a Pollari? È questala missione dell’Amico Americano?

Le verità di Michael

Conviene dare la parola a Michael ArthurLedeen. L’uomo sa essere brusco, ma laserenità del Tanksgivinglo rende cordia-le. Innanzitutto, Antonio Martino. È sta-to il ministro a organizzare l’incontro conPollari? «Non ho bisogno di andare da unministro per incontrare un vecchio ami-co e una vecchia conoscenza come Pol-lari». Un vecchio amico? Da quando?«Conosco il generale da molti anni e l’hoincontrato molte volte, se si voglionoescludere le nostre partite al tavolo dibridge. Siamo due affezionati giocatori. Ilmeeting, allora. È vero, Manucher Ghor-banifar c’era. E allora? Incontro chi mipare. Sono un privato cittadino. È falsoche lavori per l’Office of Special Plans oper il Pentagono o per qualsiasi altraAgenzia. A Roma sono venuto a mie spe-se. A quell’incontro hanno partecipatoesperti in questioni iraniane. Si è parlatodi Iran e le informazioni raccolte hannoconsentito di salvare vite americane. Chivi ha partecipato è orgoglioso di averlofatto. È vero, conosco Rob Sobhani manon i suoi affari né ho rapporti con la Ca-spian. È probabile che abbia parlato conMartino di Iran. Discuto di Iran conchiunque abbia interesse a farlo e il vo-stro ministro è senza dubbio persona in-teressata a farlo. Non ho parlato di affaricon Pollari e tantomeno di Eni. Ho inve-ce detto spesso, anche pubblicamente,quel che penso: i governi e le aziende oc-cidentali dovrebbero sostenere l’opposi-zione democratica in Iran. Non sarei sor-preso se avessi ripetuto questo concettoin conversazioni private, quindi anche aPollari. Ora una domanda la faccio io.Dov’è l’hotel de Russie?».

Nel teatro delle ombre, Michael Le-deen - altro che “obiettivo di intelligence”o «persona discutibile» - appare in Italiaun ospite gradito, benaccetto, benvisto.Riappare l’oscuro Manucher Ghorbani-far. E dire che Ledeen, con la sciaguratareputazione dell’iraniano, avrebbe inte-resse alla sua scomparsa dalla scena. Pol-lari, al contrario di Ledeen, ha un curiosointeresse a nasconderne la presenza. Sidissolvono il Pentagono di Donald Rum-sfeld, Paul Wolfowitz e Douglas Feith.Forse (perché si fa fatica a credere che Le-deen si muova da «privato cittadino»).Emerge un’antica (e taciuta) amicizia tral’Amico Americano e il Capo delle nostrespie. Si trova traccia di un progetto per fi-nanziare la rivoluzione di Teheran con ilcontributo di società e governi interessa-ti a sfruttarne il gas e il petrolio. Si accertache il ministro Antonio Martino è statoinformato delle idee e delle iniziative diLedeen (e del Pentagono?) contro l’Iran.È stata informata anche l’Eni? Ora la mis-sione del nostro Amico Americano è unpo’ più chiara. È quella del governo di Ro-ma a farsi buia.

IL PERSONAGGIO

Michael Arthur Ledeen

ha 63 anni, è nato a Los

Angeles. Sposato, vive

a Washington ma si divide

tra la capitale Usa, Roma,

Gerusalemme e Tel Aviv.

ricercatore dell’American

Enterprise Institute

INVASIONE DI GRENADA

È il 1983, Michael Ledeen

viene incaricato

dal Dipartimento di Stato

di trovare prove contro

il regime deposto

per giustificare l’invasione

Chi è Michael Ledeen

Il protettodi Reagan

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IL QUADRILATERO DEGLI HOTEL

Michael Ledeen frequenta spesso

la capitale e tra una conferenza

e un dibattito incontra

ministri o politici in questi alberghi.

1. Hotel Parco dei Principi

2. Hotel Saint Regis

3. Hotel Rex

4. Hotel de Russie

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Dopo la vittoria di Reagan,Michael Ledeen e Francesco

Pazienza diventarono il canalepreferenziale tra i capi politici italiani e i membri della nuova Amministrazione.Per questi e altri servizi, Ledeen fu alla fine ricompensato divenendo uno degli assistenti del segretario di Statodel presidente Reagan, Alexander Haig

RICHARD N. GARDNER

ambasciatore Usa a roma 1977-’81

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ice di se stesso MichaelA. Ledeen: «Sul mio con-to sono state scrittemolte sciocchezze…».

Nella sua autobiografia figura unpresente da «ricercatore perma-nente in politica estera ed intelli-gence» dell’American EnterpriseInstitute di Washington, il think-tank della riflessione “neoconser-vative”. Ha amici importanti nel-l’Amministrazione Bush: il vice-presidente Dick Cheney; il “prin-cipe delle tenebre” Richard Perle;il sottosegretario alla Difesa PaulWolfowitz; il direttore dell’Officeof Special Plans del PentagonoDouglas Feith; il capo dello staff diCheney, Lewis “Scooter” Libby.

Ledeen è un falco che non fa mi-stero di esserlo. Firma il manifestoche battezza la dottrina neocon,partecipa alla costruzione del “ca-so Iraq”, sostiene Ahmed Chalabie il suo “Iraqi National Congress”.Lavora al rovesciamento dei mul-lah iraniani, dei baathisti di Da-masco. Ha un rapporto direttocon la destra israeliana, con ithink-tank americani che la espri-mono (su tutti il Jewish Institutefor National and Security Affairs).

Fa ingresso nella politica checonta con Ronald Reagan, quan-do è prima “special advisor” delSegretario di Stato Alexander Haig(1981-1982), quindi consulente diRobert Mac Farlane, il NationalSecurity Advisor del Presidente. Èuna ribalta importante, che Mi-chael Ledeen si guadagna in Italianella seconda metà degli anni ‘70.Arriva a Roma come ricercatore distoria. Perché è in storia che si èlaureato all’università del Wi-sconsin ed è una cattedra in storiache, nel 1972, gli è stata negata dal-l’Università di Saint Louis per so-spetto plagio intellettuale. Coltivala passione per Machiavelli, ma èaffascinato dal Ventennio. Firmala celebre «intervista sul fascismo»a Renzo De Felice. Lo chiamano“professore”. Fa anche dell’altro.Durante il sequestro Moro (1978)è nell’unità di crisi raccolta al Vi-minale da Francesco Cossiga.Collabora con il Sismi piduista diGiuseppe Santovito e qui costrui-sce, insieme a Francesco Pazien-za, il falso scoop che, nell’autunno‘80, travolge Billy Carter e costa larielezione a Presidente del fratelloJimmy (Ledeen accusa Billy Car-ter di “intelligenza” con Gheddafi,riferendo di incontri e denaro ver-sato per ammorbidire le relazionitra i due Paesi). Nel suo libro (Mis-sion: Italy - Mondadori ed.), Ri-chard Gardner, allora ambascia-tore a Roma, lo profila come«agente di influenza». Forse perconto dell’allora capo della stazio-ne Cia di Roma, Duane Clarridge,che sarà «figura di primo pianonella cospirazione Iran-Contras,dove verrà incriminato per falsatestimonianza al Congresso».

Ledeen è sempre dove «le cose»accadono. Nella notte di Sigonel-la, è alla Casa Bianca dove, al te-lefono, traduce le parole di BettinoCraxi a Reagan. È a Roma, nel 1985,quando i palestinesi di Abu Nidalassaltano i banchi El-Al di Fiumi-cino (la notizia gli viene anticipatadal suo amico Manucher Ghorba-nifar, trafficante d’armi poi coin-volto nello scandalo Iran-Contra.Proprio come l’altro “amico” Dua-ne Clarridge). È in Uruguay permettere le mani sull’archivio di Li-cio Gelli. È a Grenada (1983), inca-ricato di rovistare negli archivi delregime marxista per giustificare aposteriori «le ragioni dell’invasio-ne». «È - disse Federico UmbertoD’Amato, lo scomparso ex capodell’Ufficio affari riservati del Vi-minale - l’uomo di collegamentotra la politica italiana e il nuovogruppo di potere di Washington».

Nella seconda metà degli anni‘80, il generale Fulvio Martini,nuovo direttore del Sismi, lo di-chiara «persona non grata», accu-sandolo di aver defraudato il servi-zio di 100 mila dollari per consu-lenze fantasma. Riappare con il ri-torno del Great Old Party alla CasaBianca. Nel 2001, sul Wall Streetjournal, saluta come «epica» la vit-toria di Berlusconi. Quindi, apre isaloni dell’American EnterpriseInstitute al vicepremier Gianfran-co Fini in visita a Washington e neaccredita la trasformazione in«statista» («Abbiamo fatto lo stes-so con Prodi», dice). Torna in Ita-lia, ospite in tv e convegni di lustro,come quello che il Senato di Mar-cello Pera organizza a Lucca sulle«relazioni transatlantiche». L’A-mico Americano è di nuovo ospitegradito. (c. b. e g. d’av.)

L’AFFARE IRAN-CONTRA

È il 1986, Michael Ledeen

è amico personale

di due personaggi chiave

dello scandalo: il trafficante

d’armi Ghorbanifar

e l’agente Cia Clarridge

IL CASO SIGONELLA

È il 1985, Michael Ledeen

è alla Casa Bianca dove

traduce la concitata

telefonata tra il premier

italiano Craxi

e il presidente Reagan

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

Ercole Boratto guidò l’auto di Mussolini dal 1922 al luglio del 1943. Testimoned’eccellenza di 21 anni di vita pubblica e privata del dittatore, raccolse le suememorie in un resoconto, finito nelle mani dei servizi segreti americani.

Gli archivi della Cia hanno custodito per oltre mezzo secolo il documento di cui “Repubblica”è entrata in possesso. Da quelle carte emerge ora il ritratto senza censure di un uomo volitivo e vanitoso.Non sempre forte come amava apparire. E soprattutto dominato da una incontrollabile passione: le donne

IL DUCE raccontato dall’uomo che gli è stato accanto per ventunoanni. L’autista Ercole Boratto, quello che lo ha seguito come un’om-bra dal 29 ottobre 1922, l’indomani della marcia su Roma, fino al 25luglio 1943, giorno dell’ultimo drammatico viaggio in auto con Be-nito Mussolini tradito dal Gran consiglio fascista. Quasi un quartodi secolo segnato da trionfi e crolli, in una sorta di simbiosi dove

pubblico e privato si confondono. Ercole Boratto conosce le segrete pie-ghe della vita del Duce, è testimone oculare delle sue trasgressioni e dellesue intemperanze che narra in un «diario» finito subito dopo il conflittonelle mani degli agenti americani dell’Oss, l’Office of Strategic Services,l’antenato della Cia.

Una parte di questi ricordi è stata diffusa — ma con una scrittura diver-sa e un’altra scansione dei fatti — cinquantotto anni fa su «Il Giornale delMattino». Ventidue articoli apparsi dal 24 marzo al 18 aprile 1946, fino al-la brusca interruzione quando il quotidiano riprende il suo vecchio nome«Il Messaggero». Cronistoria che si ferma a prima della guerra, al 1938.

Il documento custodito a College Park è nella sua versione integrale,145 pagine e cinque anni di avvenimenti decisivi per il Duce e per l’Ita-lia. Un dossier che disegna l’identikit di un Mussolini volitivo e vanito-so, esibizionista e seduttore. Ma anche molto fragile. Carattere appa-rentemente forte che però finisce sempre dominato dalle passioni. So-prattutto quelle amorose. Nel «diario» si fa l’elenco delle sue donne, re-

lazioni durature, avventure passeggere, amanti giovani e meno giova-ni che si incontrano e si scontrano, che si tollerano, che si offrono, chesoffrono tutte insieme per il loro Duce.

Il racconto di Boratto è diventato un documento classificato «segreto»e valutato «affidabile» dai capi dell’Oss il 20 febbraio del ‘46. Per 58 anni èrimasto sepolto — su carta e in microfilm (numero di file: JZX-6220) — ne-gli scaffali degli Archivi nazionali degli Stati Uniti al College Park (registro226, serie 108A, busta 266) del Maryland. La sua acquisizione è meticolo-samente descritta in un allegato: «All’inizio del dicembre del ‘45, Dusty(un informatore, ndr) ha riferito all’agente CB 55 di essere entrato in con-tatto con un certo Ercole Boratto, ex autista dei capi di governo Nitti, Gio-litti, Bonomi, Facta e Mussolini». E aggiungono gli estensori del dossier:«Boratto ha affermato di essere pronto a redigere un diario. Ha posto peròle seguenti condizioni: a) che il lavoro ultimato non sia pubblicato in Ita-lia; b) che il suo nome sia omesso; c) di ricevere in dono un piccolo camion,in cambio della consegna dello scritto». Alla fine, all’Oss annotano: «Il 10febbraio Boratto ci ha comunicato di aver completato il diario, permet-tendoci di studiarlo. Nel frattempo, a sua insaputa, lo scritto è stato mi-crofilmato. Il giorno dopo Boratto è stato messo in contatto con l’agenteJK12, che d’ora in poi seguirà il caso».

Il diario di Boratto oggi è ormai «desecretato». Nelle pagine dell’autistascorre la vita intima del Duce e, sullo sfondo, incalzano le tragiche vicen-de che porteranno alla guerra. La grande storia ricostruita da un piccolouomo, uno che l’ha vissuta in prima linea.

Eranotempi di turbolenze e di equilibri instabili: Nitti, Gio-litti, Bonomi e Facta, quattro presidenti del Consiglio inmeno di tre anni. Dal diario del loro autista alcune anno-

tazioni che rivelano la personalità degli uomini che guidaronol’Italia liberale ai tempi della sua gravissima crisi istituzionale.Nitti, l’ambizioso che non accetta di passare la mano e prefe-risce andare allo scontro (e alla sconfitta) in Parlamento. «Eraavido di potere come pochi», scrive Boratto. Che continua:«Dopo il voto di sfiducia alla Camera riaccompagnandolo a ca-sa per l’ultima volta, non si degnò neppure di rispondere al miosaluto». Arriva poi Giolitti, il galantuomo abitudinario, che scan-disce la sua giornata con precisione cronometrica. Esce alleotto e con qualsiasi clima si fa accompagnare al Gianicolo do-ve passeggia per mezz’ora. «Scrupoloso fino all’inverosimileper tutte le spese che riguardano il denaro pubblico, usufruivadell’auto solo per servizio», annota l’autista. La moglie non sa-le mai sull’auto ministeriale. E nel giorno delle sue dimissioni,Giolitti rincasa senz’auto. «La macchina non mi appartiene piùe vado a casa a piedi»: così congeda l’autista. Bonomi e Fac-ta, due meteore. Del primo Boratto ricorda le liti con la gelosis-sima, a ragion veduta, moglie Sofia. E di Facta, la bonarietà.

I presidenti

IN MOTOCICLETTA

Nella foto, Mussolini in sella a una moto. Il dittatore eraappassionato di ogni mezzo di trasporto dell’epoca

Autista prudente di cinquepresidenti del Consiglio e pilotaspericolato alla Mille Miglia. Natonel 1890 in un piccolo paese dellaVal d’Aosta, Ercole Boratto —dopo essere stato l’autista di Nitti,Giolitti, Bonomi e Facta —protegge, asseconda eaccompagna Mussolini per oltrevent’anni. Conosce il suo voltoprivato più di chiunque altro,ne subisce il fascino e ne cogliele debolezze. Per volere del Ducepartecipa, con un’auto ad alcol,due volte alla Mille Miglia:è trentottesimo nel ‘36, quartonell’edizione dell’anno dopo.Viene fermato e disarmato dopol’arresto di Mussolini nel lugliodel ’43. Si congeda dopoun trasferimento a Trieste.

Il personaggio

INSEPARABILI

Qui sopra, Benito Mussoliniin auto con Ercole Boratto.Nella foto grande, il Ducein parata a bordo della suaAlfa Romeo durante una visitaufficiale in Sardegna

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Vizie amorineldiario dell’autistaATTILIO BOLZONI e TANO GULLO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

Nel primo viaggio a Milano, era il dicembre del ’22,a tarda notte mi ordinò di accompagnarlo dalla residenzaufficiale in un’abitazione di corso Venezia. Ben prestoseppi che era quella la sua vera casa: era lì che vivevala signora S., da tempo sua amante e consigliera

(segue dalla copertina)

Chi voleva vedere il Ducepoteva andare al galop-patoio della sempreaffollatissima Villa Bor-ghese [...] Si vedevano deibravi cavallerizzi tra i ge-

rarchi, ma ce n’erano anche molti cheproprio non simpatizzavano con i ca-valli. Mussolini apparteneva a questaseconda categoria [...] Fu il maestrod’equitazione, signor Rodolfi, che ungiorno mi disse come, con tutta la suabuona volontà d’insegnamento, nonavrebbe ottenuto mai delle soddisfa-zioni da parte del suo allievo. Insom-ma Mussolini non riusciva nellosport malgrado si sforzasse di prati-carli tutti. Lo accompagnavo neicampi di sci, e mi accorgevo che nonotteneva nessun progresso, ma sireggeva a malapena in piedi per por-tare a termine una discesa. Fre-quentò moltissimo anche i campi ditennis, e anche qui era ammirato dalpubblico come Duce ma non cometennista. Era forse sulla pedana dellesale d’armi che s’imponeva all’avver-sario, sfruttando probabilmente unasua vecchia pratica per il maneggiodelle armi.

Le partenze di martedì e venerdì

«Cominciò così per me un servizio re-golare. Al mattino alle 7,30 portavoMussolini sulla via Appia dove l’at-tendevano i cavalli: lì faceva una bre-ve cavalcata per la campagna romanae alle 8,30 andava all’ufficio per rima-nervi sino alle 13. Poi lo conducevo acasa, in via Rasella, per la colazione, equindi usciva per una passeggiata inauto a Villa Borghese: alle 15 ritorna-va in ufficio per trattenersi fino alle21. Raramente aveva bisogno del-l’auto dopo cena, se non per andare al

«teatro oppure al Gran Consiglio [...]Le partenze di Mussolini per qualsia-si viaggio avvenivano sempre di mar-tedì e di venerdì. Era forse supersti-zioso? [...] Nel dicembre del 1922 ci fuil primo viaggio in forma privata a Mi-lano [...] In Foro Bonaparte, risiedevala famiglia Mussolini e il Duce, per laprima volta dopo il suo avvento al po-tere, iniziava le sue visite ai familiari.Fu in questa città che incominciai aconoscere le prime abitudini di Mus-solini. Infatti, la sera stessa del nostroarrivo, il Duce, a tarda ora, mi ordinòdi accompagnarlo in corso Venezia:entrai in un portone da lui indicatomie, sceso, mi disse di attenderlo. Rima-si a congetturare cosa ci fosse d’inte-ressante per lui in quella casa, dalmomento che, nello stesso giorno delsuo arrivo, aveva avuto la premura direcarsi in quel luogo [...] quando vidiricomparire la cameriera che era di-scesa per fare la mia conoscenza. Eradi nazionalità tedesca, molto ciarlie-ra, e, da quanto capii, anche molto in-discreta. Senza reticenze mi avvisòche di quelle visite ce ne sarebberostate molte e che la vera casa di Mus-solini era quella e non in Foro Bona-parte [...] Così appresi che la sua pa-drona, la signora S. (Margherita Sar-fatti, ndr) era da molto tempo l’a-mante di Mussolini e la sua consiglie-ra. Era evidente che la cameriera ci te-neva a mettermi al corrente dellasituazione, spiegandomi quali eranoi rapporti di Mussolini con la signoraS.; infine mi avvertì che l’indomanisaremmo andati in una villa sul lagodi Como.

Le notti con la signora S.

«Difatti il giorno dopo Mussolini pas-sò la mattinata nell’ufficio in Prefet-tura ed al pomeriggio, guidando luistesso l’auto, ci dirigemmo verso il la-

go di Como ed in una modesta villet-ta di proprietà della S. si pernottò [...]Due giorni ci fermammo alla villa del-la S. e passai le due serate in cucinacon la fantesca. Mi convinsi che eraun poco la factotum in quella casa eche anche con Mussolini aveva mol-ta confidenza. Mi raccontò molti epi-sodi della vita dei due amanti, mi dis-se che il marito della S. usciva di casaogni volta che Mussolini entrava evolle anche mettermi al corrente diquanto avveniva nell’alcova dei dueinnamorati, cose da non descriversiperché degne di un lupanare e che mifecero rimanere alquanto scetticosulla loro veridicità.

Amori e privilegi

«Ben presto mi accorsi che Mussoliniera giunto al potere portandosi den-tro il cuore, oltre alle preoccupazioni(se così dobbiamo chiamarle) di unpopolo intero da governare, anchequelle di una quantità di donne daamare e da soddisfare. Forse per lui ilprimo desiderio d’appagare appenafuori dalle mura ministeriali, eraquello di incontrarsi con una suaamante e di compiere il suo dovereextraprofessionale. [...] Dopo qual-che anno la S. si trasferì a Roma e d’al-lora cessarono i nostri viaggi a Mila-no. Anche nella capitale le visite aquesta donna erano frequenti, maqui molti particolari non potevo sa-perli perché alla cameriera era quasiimpossibile venire da me. Ogni tanto,la sera, Mussolini andava a prenderela S. a casa e si recavano insieme a ce-na alla Casina Valadier o a fare qual-che passeggiata in auto per le vie diRoma [...] Ricordo inoltre come il Du-ce entrasse nella casa della S. dallascala di servizio e più volte ebbi occa-sione d’osservare che mentre lui sali-va, dallo scalone principale ne scen-

deva precipitosamente Turati, alloraSegretario del Partito. In seno al go-verno si prendevano anche dei prov-vedimenti di carattere amministrati-vo per poter andare incontro finan-ziariamente a qualche troppo caraconoscenza del Presidente. Citerò adesempio una bella e prosperosa ve-dova di un caduto della grande guer-ra che, elargendo le sue grazie, riuscìa farsi assegnare una pensione privi-legiata decisa niente meno che dalGran Consiglio Fascista.

Il figlio misterioso

«L’abitazione del Duce in via Rasellanon si prestava troppo a ricevere per-sone di sotterfugio, ed allora la S. pro-pose al Duce di trasferirsi a Villa Tor-lonia [...] Nel parco abitavano anchealcune famiglie di impiegati e perso-nale del principe Torlonia e fra questiuna bella signora, certa R., che cercòsubito di entrare nelle grazie del Du-ce, il quale conquistato da tanta bel-lezza e gioventù, non tardò a invitar-la a casa, e così nacque questa nuovarelazione che portava come conse-guenza la separazione della R. dalmarito e, per evitare scandali, l’allon-tanamento di questa da Villa Torlo-nia a un elegante appartamento inviale Po dove in seguito avvenivano iconvegni. Ma queste relazioni eranodi breve durata; solo la tresca S. fu lapiù dura a morire e fu soltanto in se-guito alla ben nota questione razzia-le, che la S., di origine ebrea, dovetteallontanarsi da Roma. Non era raroche, stando la R. in dolce colloquiocon lui nella Villa Torlonia vedessearrivare all’insaputa la S. attraversoporte di servizio [...] In questa relazio-ne con la R., secondo vox populi, nac-que anche un bambino, ma non po-trei avallare queste voci.

(segue alla pagina successiva)

Le gite al maredi Ostia. Le lunghepasseggiate in cittàper farsi riconoscere e ammirare dalleragazze. Praticavacon regolaritàquasi tutti gli sport,dal tennis allo sci finoall’equitazione:ma nonostantegli sforzi non riuscivaa eccellere innessuna attività fisica

L’iconografia del regime fascista ci mostra spesso Be-nito Mussolini intento nelle pratiche sportive. Il Ducece la mette tutta per eccellere nel tennis, nell'automo-

bilismo, nello sci, nell'equitazione, a cui si dedica tutte le mat-tine sulla via Appia, ma a detta del suo autista Ercole Boratto,il talento per le attività sportive è praticamente assente. «Eramolto appassionato per l'educazione del fisico, ma forse nonaveva le qualità necessarie per potersi esercitare nei varisport». Sono numerosi gli incidenti stradali con l’Alfa Romeoprivata del Duce: e in quasi tutti i casi la responsabilità è del lea-der fascista, che spesso pretendeva di mettersi alla guida, fa-cendo accomodare al suo fianco l’autista. Nella stagione in-vernale Mussolini si dedicava alla caccia dei piccioni. RicordaBoratto: «Di temperamento piuttosto nervoso i suoi colpi rara-mente andavano a segno e doveva sparare un centinaio di car-tucce per prendere al massimo una mezza dozzina di quei vo-latili». Il Duce era invece più portato per le attività fisiche di tipoparabellico: «Era forse sulle pedane della sale d'armi - conti-nua Boratto - che si imponeva all'avversario, sfruttando pro-babilmente una sua vecchia pratica per il maneggio delle ar-mi, ma altrimenti anche nella scherma non eccelleva».

Gli sport

Quattrovolte Boratto conduce Adolf Hitler sull’automo-bile ministeriale e altre volte lo vede durante missioniufficiali all’estero. L’autista è sicuramente l’italiano

che, con Benito Mussolini, ha più incontri ravvicinati con il Füh-rer. La prima volta con Hitler risale al 1934 e avviene a Stra, apoca distanza da Venezia. I colloqui tra i due dittatori però so-no abbastanza burrascosi, annota Boratto nel suo racconto.Il secondo contatto con il dittatore tedesco accade nella pri-mavera del 1938 per la visita di Hitler a Roma. In quell’occa-sione l’ospite fa tappa a Firenze e ne resta incantato. Tant’èche ritorna nella città toscana successivamente, per una visi-ta ufficiale. L’ultima volta a Feltre (Treviso) il 19 luglio 1943 perl’ennesimo incontro tra i due capi di Stato, un faccia a facciaturbato dalla notizia del tremendo bombardamento Alleato diRoma. Il Duce e il dittatore nazista sulla stessa auto sulla viadi ritorno in aeroporto sono di malumore. L’atmosfera è geli-da. «Il Führer continuava a gesticolare furiosamente, mentreMussolini, che rimaneva imbronciato e a capo chino, mi or-dinò di accelerare l’andatura, e ciò servì a convincermi che erasuo desiderio troncare al più presto quel colloquio».

Il Führer

AL TERMINILLO

Il Duce a torso nudo su uno slittino. Amante della montagna,fece costruire la strada tra Roma e il Terminillo

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IL DOCUMENTO

Il memoriale di Ercole Boratto(nelle due foto in alto l’immaginedel frontespizio) è stato ritrovatodal ricercatore Mario J. Cereghinonell’ambito del progetto“La Storia in Rete”, promosso dallascuola media “Grassi Privitera”di Partinico e diretto dallo storicoGiuseppe Casarrubea.Info: [email protected],[email protected]

FOTO ALINARI

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004C U L T U R A

(segue dalla pagina precedente)

«Sua Maestà il Re, sempre premurosodi soddisfare i capricci di Mussolini,mise a disposizione del Duce la spiag-gia di Tor Paterno nella vasta tenuta diCastel Porziano [...] Fu qui che per oltrequindici anni soggiornò il Duce dallaprimavera all’autunno, periodo in cuila nostra vita in comune, nella più asso-luta libertà e solitudine, offrì al Duce lapossibilità di estraniarsi dalla vita pre-sidenziale e ottenere un favorevole ri-fugio amoroso. A mezzogiorno da VillaTorlonia veniva inviata la colazione perdue che doveva appunto servire per ilDuce e per me, ma in realtà servivasempre per lui e la sua favorita. Io mi ar-rangiavo. Nel capanno di paglia dove iopassavo il tempo nell’attesa furonomessi due telefoni, uno urbano e l’altrodiretto con il Ministero Interni, ed eramio incarico rispondere a ogni chia-mata e trasmettere gli ordini che il Du-ce mi passava. Difficilmente veniva luiin persona, salvo che per telefonare al-le sue amiche [...] Da parte della fami-glia Mussolini non v’era nulla da teme-re perché, quando venivano a CastelPorziano le favorite, Donna Rachele coifigli erano in villeggiatura a Riccione oa Predappio. Tutt’al più le sorprese po-tevano venire da parte delle diverseamiche che avevano libero ingresso al-la tenuta. La prima donna che venne aCastel Porziano per alleviare la solitu-dine del Duce fu la S.. Arrivava puntual-mente verso mezzogiorno: facevanoinsieme il bagno e verso le 13 consu-mavano la colazione. Subito dopo sisdraiavano sulla sabbia al sole.

Incontri pericolosi

«A turbare la pace del luogo non manca-rono tuttavia degli episodi che sono daricordare [...] Un giorno, mentre il Duceera occupato con la R., dalla portineria

della tenuta fui avvisato per telefono cheera entrata, diretta alla spiaggia, la S. [...]Decisi quindi di risolvere la situazionenel migliore dei modi, andando incon-tro alla S. per rimandarla indietro. In-contratala, tentai di farle intendere chenon era possibile vedere il Duce essen-do questi a colloquio con un funziona-rio degli Esteri, venuto appositamenteper affari urgentissimi. Mi accorsi subi-to che non ero creduto[...] Mi chiese ilnome del visitatore e fui costretto amentire per la seconda volta dicendo dinon saperlo. Ciò fece accrescere ancorain lei i dubbi sulla puerile commedia chele presentavo. Infatti mi domandò senon ci fosse invece la signorina R. ed al-la mia risposta negativa, arrabbiatissi-ma fece voltare la macchina e ripartì in-veendo contro di me.

Claretta clandestina

«Un altro giorno, il Duce questa volta erain compagnia della ormai famosa Cla-retta, venne da me l’autista di un’altapersonalità, la principessa [...] che, desi-derando essere ricevuta da Mussolinimi pregò di annunciarla [...] Mussolini sipreoccupò subito di accogliere decoro-samente la visitatrice e fece nascondereClaretta con tutto il suo bagaglio perso-nale nel gabinetto della doccia [...] Il col-loquio durò quasi due ore e lascio im-maginare come uscì Claretta dal suo na-scondiglio ove un sole di pieno luglio vipicchiava sopra. Ben inteso, aveva fattouna doccia di sudore, ed esternava nelvolto i sensi manifesti di una collera astento repressa. Questa principessa ri-tornò poi altre volte a far visita al Duce ecapii subito che i successivi incontri era-no di carattere più intimo. Arrivava investaglia che si toglieva subito rimanen-do così in costume da bagno. Il Duce lariceveva in un abbigliamento non ec-cessivamente decente lasciando ben in-tendere quali rapporti corressero ormai

tra i due [...] Dopo qualche mese ebbil’ordine dal Duce di non far più passarela gentile visitatrice.

Due ore al giorno di lavoro

«Feci costruire un gioco delle bocce [...]Ma anche qui Mussolini voleva sempreavere ragione e dava prova della sua ir-requietezza: a una mia bella azione digioco, invece di cercare di superarmi,gettava via con impeto le bocce smet-tendo la competizione. Ero quindi co-stretto a fargli vincere qualche partita. Ame dispiaceva che anche in questo cam-po avesse la pretesa di essere superiorea tutti e in tutto [...] In quei periodi al ma-re, le udienze a Palazzo Venezia si ridu-cevano a due o tre ore per sera e tantevolte pensavo tra me come potesse unCapo di Governo far camminare la gra-vosa barca statale in così poche ore delgiorno, specie durante la guerra.

I tradimenti di Donna Rachele

«Durante i primi anni di governo, Mus-solini aveva pochi contatti con la fami-glia, che risiedeva ancora a Milano. Levisite alla famiglia avvenivano ogni dueo tre mesi [...] La sera spessissimo la tra-scorreva in casa della S. [...] Nei riguardidella moglie posso dire che Mussolinifosse sempre molto riservato e che i lororapporti fossero piuttosto tesi, poichénon accadeva di rado di sentirli bistic-ciare. Donna Rachele era nata da umilicontadini; ignorante, quasi analfabeta,era di carattere violento e autoritario [...]Quest’uomo che in pochissimi anniaveva affascinato un’intera nazione conla sua personalità, in famiglia destaval’impressione di inferiorità rispetto aglialtri e principalmente verso la moglie.La sua autorità scompariva; le sue carat-teristiche di Semidio erano sommersedall’opprimente padronanza di DonnaRachele, la quale da tutti era temuta, daipiù umili servi ai Prefetti, dagli amici ai

ministri. Mi accorsi ben presto che an-che la legittima compagna di Mussolininon era molto fedele ai rapporti coniu-gali contraccambiando evidentementele gesta del marito. Ne ebbi la prova al-lorché un giorno, partiti improvvisa-mente da Roma in auto, giungemmo aCarpena verso la mezzanotte. Non riu-scivo a capire il motivo di questa parten-za tempestiva, ma ne ebbi appunto laspiegazione il giorno dopo da una dellesolite ben informate cameriere, la qualemi disse in confidenza che, pochi minu-ti prima del nostro arrivo, una misterio-sa telefonata avvertiva Donna Racheleche il marito era diretto alla villa, dandoad un certo V. il tempo per potersi allon-tanare dalla casa ed evitare uno sgrade-vole incontro [...] Il V. non lasciò un buonricordo in casa Mussolini, anzi si scoprìche insieme a lui era scomparso anche ilfucile da caccia del Duce, il quale lo cer-cava disperatamente senza sapere cheDonna Rachele lo aveva consegnato inprestito al suo caro conoscente.

In lacrime per Bruno

«Ai primi di agosto arrivò la notizia dellamorte di Bruno Mussolini in un inci-dente di volo, mentre collaudava unnuovo tipo di aereo al campo di Pisa. Fuun colpo tremendo per il Duce e fu l’u-nica volta che lo vidi piangere. Bruno erail suo figlio prediletto; del padre aveva lastessa vivacità, la stessa audacia, lo stes-so temperamento. Questa sciagura in-fluì molto nell’animo del Duce che nonseppe più, o non volle, reagire al Destinoche gli preparava altre sciagure.

Con le sorelle Petacci

«Nel dicembre del 1932 cominciarono lefrequenti gite del Duce al Terminillo [...]Nei primi tempi sopra al monte non viera che l’albergo “Savoia” e fu qui cheper la prima volta vidi la Petacci [...] LaPetacci e la sorella Miriam di solito pren-

Una volta a CastelPorziano con luic’era Claretta quando arrivòla visita di unaprincipessa: l’amantedovette nascondersinella doccia.E dopo poco tempoanche la nobildonnadivenne un’amicaparticolare.La relazione conMagda de Fontages:rivelatasi una spia fuliquidata e portataalla frontiera

La Lombardia, la Romagna e il Lazio, sono il triangolo

in cui si muove la famiglia Mussolini. La moglie, Don-

na Rachele e i figli Edda, Bruno, Vittorio, Anna Maria

e Romano, continuano a vivere a Milano anche dopo la pre-

sa di potere del Duce. Poi si trasferiscono a Roma. Ma Mus-

solini continua a godere di una grande autonomia di movi-

mento, dentro e fuori la capitale. Quello che era stato un

mangiapreti incallito, per opportunità politica celebra il ma-

trimonio religioso nel 1935, quando già il figlio più grande

ha 15 anni. I rapporti con la moglie sono sempre tempestosi

per via dei tradimenti continui di lui, che, secondo l’autista

Ercole Boratto, almeno in un’occasione lei ricambia con il

signor V. Tradimento scoperto dal Duce, che non perde oc-

casione per vendicarsi. Donna Rachele odia i congiunti di

Mussolini, il fratello Arnaldo e la sorella Edvige. E il Duce

contraccambia con l’antipatia per Moschi, un tenente ni-

pote della moglie. La lunga malattia della piccola Anna Ma-

ria, iniziata nel 1937, e la tragica morte del figlio prediletto

Bruno, mentre collauda un aereo militare nel campo di Pi-

sa, incupiscono Mussolini, che in quel periodo è già avvia-

to sulla via del declino.

La famiglia

Le residenzehanno avuto un ruolo importante nella vi-

ta di Mussolini. La prima abitazione romana è in via

Rasella, che però poco si presta alle abitudini di ri-

cevere donne di sotterfugio. Allora Margherita Sarfatti gli

propone il trasferimento a Villa Torlonia. Lei stessa si inca-

rica di parlarne col principe proprietario, che acconsente di

buon grado. È dalle finestre della Villa che si accendono gli

sguardi con la vicina di casa Claretta Petacci. Ma il Duce

ama il mare e allora il re gli mette a disposizione la splendi-

da tenuta di Castel Porziano. È per tanti anni rifugio del dit-

tatore, che la usa anche come luogo di incontro con le nu-

merose amanti. Nel frattempo la moglie, che fino allora tra-

scorre le vacanze in una modesta casa di campagna di

Carpena, si trasferisce nella Rocca delle Camminate, ri-

strutturata da un comitato di fascisti romagnoli. Questa

nuova residenza diventa sede di riunioni ministeriali, e vie-

ne soprannominata da alcuni gerarchi «Rocca delle can-

nonate», per i siluramenti che vi si decidono. Altri luoghi fon-

damentali nel ventennio del potere fascista, sono il Termi-

nillo, che il Duce contribuisce a lanciare, e Riccione, la

spiaggia che non ha mai smesso di amare.

Le residenze

FOTO RICORDO

Qui sopra, Mussolini con la moglie Rachele Guidi e i cinque

figli: Edda, Vittorio, Bruno, Romano e Anna Maria

TRA LE DONNE

Nella foto grande, Mussolini

circondato da un gruppo

di importanti sarte dell’epoca

Quest’uomo che in pochissimi anniaveva affascinato un’intera nazionein famiglia, davanti all’opprimentepadronanza di donna Rachele,vedeva scomparire la sua autorità‘‘

Quando si trasferì dall’abitazione di via Rasella a Villa Torlonia nacqueuna nuova relazione, quellacon la signora R.. Da lei, secondole dicerie, ebbe anche un bambino‘‘

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004 C U L T U R A

devano alloggio all’albergo delle Nazio-ni in Rieti, venivano su al mattino versole 10, si univano al Duce e trascorrevanola giornata insieme facendo colazionesulla neve. Alla sera, se il Duce pernotta-va all’albergo, Claretta rimaneva nel-l’appartamento presidenziale. Nelle se-rate che quest’ultima si sentiva indispo-sta, era la Miriam che sgattaiolava nelleore notturne nella camera di Mussolinie, come mi riferiva la proprietaria del-l’albergo, ne usciva al mattino primadell’alba sostituendo così la sorella nel-le cure amorose al Duce.

Moglie contro amante

«Fra i luoghi preferiti dal Duce non biso-gna dimenticare una spiaggia italiana:Riccione [...] Quando poi iniziò l’idilliocon la Petacci, ogni volta che il Duce sirecava a Riccione anche la Claretta par-tiva subito da Roma. Non mi meravi-gliavo quindi di trovare sempre la Cla-retta, accompagnata dalla madre, lungole strade da noi percorse e fare un lievesorriso al passare del Duce che, indiffe-rente, contraccambiava con un altrosorriso. Di questa assiduità se ne accor-se Donna Rachele che un bel giornoesclamò nel vedere la Petacci: «Ma chisarà mai quella moretta che incontria-mo ogni volta che si passa da Rimini?».Riccione, come tante altre cose care aMussolini, si può dire che passò insott’ordine dopo la relazione con la Pe-tacci, perché non offriva più quella sicu-rezza amorosa essendo un luogo fre-quentato dalla famiglia.

Fine di una relazione

Claretta Petacci apparteneva alla fami-glia del prof. Petacci che abitava in unvillino confinante con Villa Torlonia.La Claretta aveva modo dalle sue fine-stre di seguire le passeggiate mattutinee le cavalcate del Duce. Questi ebbemodo di notare quella testolina ricciu-

ta e quel viso sbarazzino che gli sorri-deva. Qualche tempo dopo la Petaccifaceva il suo ingresso a Palazzo Veneziaper un’udienza particolare. Vi fu qual-che scena di gelosia da parte della R. ead una di queste dovetti assistere per-sonalmente. Costei si recava soventenel parco di Villa Torlonia e una matti-na aspettò, nascosta tra gli alberi, che ilDuce uscisse con l’auto. Difatti me la vi-di improvvisamente davanti alla mac-china facendomi segno di fermare. Erain vestaglia e appariva eccitata e scon-volta. Aperto lo sportello dell’auto congesto disperato, mostrò attraverso lavestaglia aperta quel poco di bianche-ria intima che ancora la copriva, e udiiperfettamente ciò che disse a Mussoli-ni singhiozzando: «Ma dunque è tuttofinito tra noi?» [...] Era dunque già datempo iniziata una intima relazionecon Claretta [...] e pur tuttavia il Ducenon tralasciava di frequentare altredonne. Infatti non mancava un paio divolte al mese di recarsi in un elegantevillino di via Nomentana dove la pro-prietaria signora P. lo attendeva. Erauna donna bionda, slanciata, non tan-to giovane, madre di una bimba setten-ne [...] Di questa relazione ne ebbe sen-tore la Petacci, e un giorno appostatasiall’ingresso della villa ci vide entrare eduscire dopo la visita. Fortunatamentenulla successe; però il giorno dopo laPetacci venne da me per sfogare il suodolore [...] Claretta mi confessò di esse-re al corrente di quella relazione delDuce specificandomi: «Mussolini stes-so mi ha confermato essere quella unasua amante, ma di non amarla». Inquell’anno vi fu poi anche la relazionedel Duce con la Magda de Fontanges[...] Appena si accorse poi che la bellagiornalista altro non era che una spia,ed anche per calmare le ire della Petac-ci, Magda fu liquidata ed accompagna-ta alla frontiera.

La principessa di G.

«Da molti anni, cioè dal 1934, ancheun’altra donna concedeva i suoi favorial Duce. Era questa la principessa di G.,non più tanto giovane; era sulla cin-quantina, non bella, di lineamenti ordi-nari, di media statura, piuttosto magra,si poteva proprio dire una donna insi-gnificante; ma furono forse i modi ari-stocratici ed il blasone che avevano unpo’ influito sul cuore del Duce. Nei pri-mi anni erano rare le visite che le facevanella di lei elegantissima palazzina diviale Castro Pretorio, ma più tardi, cioènel periodo della guerra, le visite si in-tensificarono. Tutti i giorni, nell’ora incui il Duce doveva rientrare a Villa Tor-lonia per la colazione, chiunque potevaosservare l’eccentrica principessacamminare avanti e indietro per via XXSettembre in attesa del passaggio dellamacchina presidenziale. Gli agenti diservizio avevano l’ordine di non mole-starla. Nel 1941, la principessa trasferì ilsuo domicilio nei pressi di Palazzo Ve-nezia ed allora il Duce andava più so-vente a casa sua. Anche questa nuova ecara amicizia del Duce non tardò ad es-sere conosciuta dalla Petacci [...] Nonmancò la solita scena di gelosia, con ilrelativo sfogo presso di me.

La vecchia fiamma

«La catena di relazioni intime non si eraaffatto spezzata dopo la conoscenzadella Petacci; ciò lo dimostra il fatto cheil Duce continuava a vedersi anche conla signora R. Immancabilmente ogni fi-ne mese si recava presso di lei per tra-scorrervi un’oretta prima di recarsi inufficio. La R. si manteneva ancora unabella donna, malgrado l’età avanzata;veniva lei stessa ad aprire la porta chedava in un cortiletto deserto e il più del-le volte in un abbigliamento molto inti-mo, non vergognandosi affatto di farsivedere anche da me attraverso l’uscio

semiaperto [...] La Petacci fu informataanche di queste visite di fine mese e ven-ne qualche volta ad assistere all’uscitadel Duce dalla casa della R., ma nontornò da me a sfogarsi come per le altre,solo mi disse un giorno che Mussoliniaveva degli obblighi verso quella donnae ogni tanto doveva pure portarle dellesovvenzioni.

La grande ascesa di Claretta

«Durante il conflitto mondiale Clarettafu sempre al fianco di Mussolini [...] Es-sa ottenne di stargli vicino a Palazzo Ve-nezia e costì trascorreva l’intera giorna-ta. La Claretta diventò la consigliera, laconfidente, l’attributo indispensabileper il Duce, il quale riponeva in lei lamassima fiducia, sia per gli affari priva-ti che per quelli di carattere politico. Lesue proficue mansioni, oltre quelle atutti note, non si possono precisamenteconoscere, però quanti mutamenti dicariche, quanti provvedimenti internifurono presi dietro suggerimento diClaretta [...] Nel periodo della malattiadi Claretta, che ebbe a subire anche unatto operatorio, il Duce, oltre alle nume-rose telefonate giornaliere, andava a vi-starla due o anche tre volte al giorno [...]Era diventato il suo assistente, l’infer-miere e il suo servo, e se tardava duran-te il giorno nel chiedere notizie era lei atempestarlo di chiamate al telefono. An-che nei viaggi all’estero tre o quattro vol-te al giorno Mussolini telefonava a Ro-ma alla sua bella, e se non riusciva a far-lo, perché impegnato in conferenze ecerimonie, un addetto al centralino pre-sidenziale, ben sovvenzionato da Cla-retta, la teneva continuamente infor-mata di tutti i movimenti del Duce. Nonso cosa avranno pensato all’estero, nel-l’intercettare sicuramente tutte questetelefonate sentimentali, non certo adat-te a tenere alto il prestigio di Mussolini».

ERCOLE BORATTO

Il giudizio dello storico

Il Leporellodi Benito

In questo diario di 145 pagine,che è riemerso dopo quasi ses-sant’anni dagli archivi della Cia

e che allarga senza censure e com-pleta con i cinque anni decisivi1938-1943 quanto pubblicato suun giornale del 1946, circola un’a-ria di cose viste, di vita vissuta. Ep-pure avevo affrontato con moltisospetti i ricordi di Ettore Borattoautista del Duce. Nel dopoguerraper le redazioni in Italia sono cir-colati infiniti falsi documenti sulDuce con finte rivelazioni spesso acontenuto erotico sui suoi trascor-si, le sue amanti, i mirabolanti re-troscena di tante sue inspiegabilidecisioni. Mi fu offerto a caro prez-zo un diario di Mussolini contraf-fatto con grande cura.

Qualche perplessità nasce daltesto stesso. Per esempio sbagliala data del secondo viaggio di Hi-tler a Firenze che non ebbe luogo(come scritto) il 27 ottobre del ‘38ma il 27 ottobre del ‘40. Simile er-rore per la visita di Mussolini sulfronte russo. E’ dell’agosto del ‘41non del maggio del ‘42. C’è di più.Il Boratto dice di aver assistito adiversi incontri: Hitler, Franco,Ante Pavelich, Dollfuss, Re Borisdi Bulgaria. Possibile che mai tro-vi modo di aggiungere un parti-colare alle nostre conoscenzestoriche?

Eppure — come dicevo — inquesto scritto, malgrado il totaledisinteresse politico, circola lostesso un’aria di cose viste. Nonera solo l’autista del Duce, Borat-to era il confidente e il testimonedegli innumerevoli amori del suopadrone. E in questo campo lacuriosità non gli manca. Ci va dimezzo anche Rachele, la mogliedel Duce, che lui sostiene esserestata infedele al marito. In unavecchia intervista filmata fatta aun suo amico e che io ho editatoper RaiTre è stata addirittura la fi-glia Edda a raccontarlo. Questavoce è stata spesso ripetuta maquando Boratto scrisse il diario,nel ‘46, non ne aveva parlato an-cora nessuno: un indizio a favoredell’autenticità del testimone.

C’è in Boratto qualcosa di Le-porello, il valletto fidato di donGiovanni. Tra l’aria famosa: “Ma-damina il catalogo è questo delledonne che amò il padron mio” equeste sue memorie c’è unastretta parentela. “Non si picca sesia ricca, se sia brutta se sia bella,purchè porti la gonnella, voi sa-pete quel che fa.” Così Leporellodescrive don Giovanni e in modoanalogo Boratto parla di Musso-lini. E’ uno sguardo dal buco del-la serratura, possibilmente la ser-ratura della camera da letto.

Mussolini ha comunque affa-scinato nel male e nel bene gli ita-liani. Queste memorie ci aiutanoa capire qualcosa di un personag-gio così complesso? La storiogra-fia contemporanea, penso a DeFelice e a Pierre Milza per il Ducema anche a Robert Dallek perKennedy, a Martin Gilbert perChurchill o a Joachim Fest per Hi-tler, ha ricominciato ad usare labiografia come strumento di co-noscenza storica. Questa imma-gine di Mussolini ossessionatodal sesso è certamente unilatera-le e parziale ma è anche certa-mente vera. Il don Giovanni diMozart in superficie è un perso-naggio comico ma a lui si accom-pagna un forte odore di zolfo.

A volte si incontrava con le Petaccial Terminillo. Se Claretta si sentivaindisposta, era la sorella Miriama sgattaiolare nelle ore notturnenella camera di Mussolini‘‘

IL RAPPORTO

Nelle foto qui a fianco e a sinistra,

la relazione dell’agente Usa che ha

acquisito le memorie di Boratto

NICOLA CARACCIOLO

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

UN AMERICANO

A ROMAIl mito dell’Americanella commedia direttada Steno nel ’54 con un irresistibileAlberto Sordi

I SOLITI IGNOTIIl colpo dei colpiorganizzato da unabanda di poveracci tra cui Gassman, Totòe Mastroianni nel filmcult di Monicelli (’58)

LA GRANDE

GUERRAMonicelli (’59) raccontaeroi e vigliacchi al fronte. Grande cast:Sordi, Gassman, Valli,Silvana Mangano

L’ARMATA

BRANCALEONEGassman guida un pugno di sbandati in un Medioevo grottesco.Lo dirige MarioMonicelli nel 1966

IL SORPASSOCapolavoro di Risi del ’62 con Gassmancialtrone perfetto che trascina Trintignant

Maccheronem’hai provocatoe io ti distruggo:io me te magnoVerme!

Nando

Alberto Sordi

Se ne vannosempre i miglioriOggi a tedomani a luiTocca a tutti

Dante

Totò

E allora senti unpo’: mi tedisi propri un belnient, hai capito,faccia di merda

Busacca

Vittorio Gassman

L’hai visto“L’eclisse”?Io c’ho dormito.Bel registaAntonioni

Bruno

Vittorio Gassman

E voi bifolchiuscite dallafanga, farò divoi un’armataveloce et ardita

Brancaleone

Vittorio Gassman

Commedia all’italiana

Era dicembre, tutt’e due levolte. Cinquant’anni fa, nel1954, usciva Un americano

a Roma, che espandeva legesta di un personaggio in-classificabile, Nando “det-

to l’americano”, già apparso in un epi-sodio del film Un giorno in pretura

(«America’ facce Tarzan!»). Regista ungentiluomo che si firmava Steno e giàaveva fatto film per e con Totò assiemea Mario Monicelli; sceneggiatori Con-tinenza, Fulci e il giovanotto Scola;protagonista un attore che, malgrado iprimi due film di Fellini, nel cinemanon aveva ancora sfondato. AlbertoSordi. Trent’anni fa, 1974, l’ormai ce-lebre ex ragazzo Scola — fulminato dalcinema una mattina che, andando ascuola, attraversò piazza Vittorio a Ro-ma e vide De Sica che dirigeva Ladri di

biciclette — portava in sala C’eravamo

tanto amati. La summa della comme-dia all’italiana.

Tra questi due titoli, in questi 20 anni,vive l’avventura del genere cinematogra-fico italiano per eccellenza. Il solo vero ro-manzo popolare dell’Italia del dopoguer-ra. La storia gloriosa della commedia all’i-taliana, che così si chiamò quando un filmintitolato Divorzio all’italiana (1961) vin-se l’Oscar per la sceneggiatura e allorarimbalzò da noi la definizione: comedy

italian style. Chi quei film li fece non ama-va teorizzare, definire, proporsi comescuola. Chi erano? Questa stagione, gliestremi della cui parabola i due film oggicelebrati contengono anche se ci sonostati un prima e un dopo, gli annunci co-me gli strascichi e poi una quantità di sciee risonanze fino a noi, è stata animata dafigure non riducibili a un unicum ma chetuttavia sono state gruppo. Una cinquinadi assi ne è stata la bandiera: Sordi, Gas-sman, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni.Qualche attrice (Vitti, Sandrelli, ma an-che Tina Pica e Franca Valeri). Una for-mazione di scrittori: Age, Scarpelli, Vin-cenzoni, De Concini, Flaiano, Suso Cec-chi d’Amico, Benvenuti, De Bernardi,Maccari, Pinelli, Sonego e altri ancora. E iregisti, da Monicelli a Risi, Comencini,Steno, Lattuada, Loy, Magni, Wertmuller.E Scola: il più giovane e quello che su di séha riassunto un bagaglio che comprende-

va la frequentazione del giornalismoumoristico e della comicità dialettale,l’ombra di Fellini e la scuola di Fabrizi oTotò, la temperie neorealista, quella delboom, il deciso orientamento ideologicoa sinistra.

Un gruppo che, senza proclami, ha fon-dato uno spirito. Sferzante, irriverente,deciso a graffiare. Risultato di una varietàdi contributi e storie. Per molti l’esperien-za delle redazioni satiriche del dopoguer-ra, il magistero di Metz e Marchesi. Le fon-ti d’ispirazione spazieranno da Maupas-sant alla vicenda di un Pautasso vittimad’incidente sul lavoro che passa dentro alfilm I compagni; e lo stesso clima attra-versa film come Un americano a Roma,Poveri ma belli e I soliti ignoti, come an-che le periferie romane narrate da Pasoli-ni. Storie che hanno trovato la loro con-vergenza nell’ereditare e superare, fon-dere, la comicità con il radicamento sto-rico e sociale dei capolavori di De Sica eRossellini. Per ridere e far ridere, sì, mamai dimenticando l’ingiustizia sociale, iconflitti di classe, la debolezza umana.

Il punto più alto di questo viaggio è in-torno al ‘60, quando l’Italia del miracoloeconomico si riflette tanto in film che, sul-lo sfondo dell’atteso rinnovamento delcentro sinistra, sdoganano la “memoriatradita” o sepolta della Grande Guerra,dell’antifascismo o della Resistenza (Sor-di tenente Innocenzi in Tutti a casa e par-tigiano Magnozzi in Una vita difficile),quanto e soprattutto in quelli di presa di-retta sull’oggi. Il vedovo, Il vigile, I mostri,e Il sorpassoche è il cuore di tutto. Così co-me Dino Risi, il suo regista, è colui che me-glio ha interpretato la mutazione antro-pologica di quegli anni di euforia tantoavida quanto effimera: incarnata dal suoBruno Cortona cinicamente ma ancheingenuamente proteso con la sua spiderscattante a divorare la strada, la moder-nità e le opportunità della vita. Un insie-me di coordinate che, potete scommet-terci, i grandi vecchi Monicelli e Risi sa-rebbero riluttanti a classificare come a ri-vendicarne la gloria, ma che tutt’oggi co-stituiscono un enorme patrimonio. L’u-nico, parliamo non solo di cinema ma diespressione in generale e di racconto del-l’italianità, condiviso e riconosciuto sen-za confini generazionali.

I precetti di un grande sceneggiatore (I soliti ignoti, La grande guerra, Tutti a casa)

Autore, fatti sempre da parte

Può accadere che qualche autore sbrigativo, perritenere d’essere nelle sfere alte della scritturae della narrazione cinematografiche, conside-

ri precetti corrivi ciò che invece sono norme nobilie fondamentali. Pigrizia e fanatismo di sésono forse mamma e papà di taluni chesperano di far innamorare le platee igno-rando ciò a cui esse hanno diritto.

Non è forse vero che quando ti viene rac-contata l’Iliadepensi: voglio proprio vede-re che cosa succede a tutti questi eroi esal-tati e come va a finire questo assedio, an-che se lo sai benissimo?

Vedi un film in cui l’autore scansa pro-tagonisti e racconto e indica se stesso perfarsi notare, e dici: questo è un certo filmitaliano di questo secolo e mi interessa poco. Lospettatore - e prima di lui il lettore - è ragionevol-mente disposto a stringere intima amicizia con unpersonaggio, dell’autore gli basta sapere nome ecognome.

Con questo si vuole intendere che vi sono al-

meno due canoni da rispettare, sia nel drammache nella commedia (che poi è solo un modo di-verso di raccontare un dramma). Il primo è quel-lo che fa stare lo spettatore aggrappato ai brac-

cioli - se si è convinto a venire al cinema- perché vuole vedere come va a finire ilfilm. Il secondo è questo: un autore si in-nalza soltanto se è capace di abbassarsial livello del personaggio, anzi, se sa spa-rire dentro di esso.

Cose che dalle nostre parti Rossellini,De Sica, Zavattini hanno inutilmente in-segnato, e che probabilmente sono stateapprese con maggiore interesse in altripaesi cinematografici.

Ce ne sarebbe un’altra di norma inevita-bile, che forse viene prima delle altre: la presenza,nella storia, di un’anima. È l’anima che crea il cor-po, dice il filosofo. Se si crea un film soltanto perriempire lo schermo, per riempire il vuoto persona-le, o del conto in banca, il film viene vuoto, e poi re-sta vuota la sala.

IL CAPOLAVOROGassman e Trintignant in “Il sorpasso” di Dino Risi

IL PREMIO OSCARMastroianni e la Sandrelli in “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi

IL MORALISTAA fianco il manifesto

di Giuliano Nistri per la pellicoladiretta da Giorgio Bianchi

e uscita nel ‘59. ProtagonistiAlberto Sordi e Vittorio De Sica

PAOLO D’AGOSTINI

FURIO SCARPELLI

Un doppio anniversario: cinquanta e trent’anni. Nel dicembre ‘54

esce “Un americano a Roma” di Steno con un giovane Alberto SordiNel dicembre ‘74 è la volta di “C’eravamo tanto amati”

di Ettore Scola. Sono considerati il film di avvio e il film di chiusura di quellastraordinaria stagione del cinema italiano che, nel 1961 con “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, conquista un Oscar e un nome...

Venti formidabili annii film del nostro autoritratto

LE FRASI

Furio Scarpelli

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

Scola:la battuta?Non è tuttoma, certo, aiuta

C’è la storia di quando diventò per la prima volta regista permezza giornata. Una sera telefona Zavattini: «Stai guardan-do la tv? Questo cantante, questa canzone: dobbiamo subi-to farci un film. Abbiamo quattro giorni per scrivere la sce-neggiatura». Era Modugno che cantava Volarea Sanremo. Ilfilm s’intitolò Nel blu dipinto di blu, con De Sica in uno dei

suoi ruoli da seducente imbroglione («costava mezzo budget del film»). Unamattina il regista venne arrestato per questioni fiscali «e chiamarono me: io,giovincello, dirigere De Sica. Fortuna che al pomeriggio il regista fu rilascia-to». E di quando, studente, vignettista del Marc’Aurelio e “negro” di Metz eMarchesi che lavoravano in albergo con il lettone cosparso dei dieci copioniche scrivevano contemporaneamente, si presentava trafelato all’uscita dascuola a consegnare le battute che aveva scritto. E i due: «Questa la buttiamo,

questa va bene per Macario, questa per Tino Scotti, questa per Totò». Ettore Scola. Non può che essere lui il testimone di questo doppio anni-

versario. Di Un americano a Roma precocissimo sceneggiatore («con lafirma, non più negro») e di C’eravamo tanto amati acclamato regista. «Èvero che il patrimonio della commedia è un’eredità viva. Che anche i ra-gazzi di oggi vedono quei film, che sono un riferimento per i registi piùgiovani. Però è anche un po’ triste. Perché se poi gli fai vedere i grandi ca-polavori, Ladri di biciclette, Paisà, Roma città aperta, una sottile noia siinsinua in loro. La commedia non è l’unica eredità, è la più fruibile e faci-le. La commedia è figlia del neorealismo. Tutto da lì è partito. Per fortunac’erano Zavattini o Amidei. Convinti che ci fosse qualcosa da raccontare

in reazione alla retorica del ventennio. Oggi: mi stupisco non che non ci siaun De Sica — non ci sono neanche un Verdi o un Manzoni — ma che non

abbiano lasciato traccia quella sensibilità, quell’urgenza. Mi viene in men-te, a proposito di questo venire a noia che mi intristisce, un episodio di Ma-stroianni. Di quella volta che dopo aver portato a cena fuori la figlia Barbaralesse di nascosto nel diario: “A cena con papà. Ha parlato tutto il tempo deltempo di guerra e dei tedeschi. Che palle!”. D’accordo, oggi non ci sono più inazisti, ma è pieno di disagi, possibilità di sogni e utopie che non vengonorealizzate, materia ricca; eppure si fa un cinema tutto intimista e privato».

Ma è buffo che tutti voi artefici della commedia siate riluttanti ad assu-mere la paternità di un patrimonio che, proprio grazie alla combinazionetra serietà e comicità, è il più resistente, condiviso.

«Intanto “commedia all’italiana” è un coperchio che mette insieme di tut-to. Cominciata come reazione agli anni difficili e modo più gaio di vedere ilmondo, all’inizio ha prodotto film elusivi, qualunquisti. Brutti. Fortuna chegrazie a Monicelli, Risi, Comencini e dopo grazie un po’ anche a me, ha pre-so una fisionomia più amara. In giro non si incontravano solo belle Bersa-gliere. È durata grazie a questo?».

È vero o no che un insieme di diverse storie, motivazioni e provenienze,ha dato luogo a uno spirito riconoscibile?

«Ma a patto di dire che Fellini è stato il re della commedia all’italiana. Di-cono: non era impegnato. Scherziamo? È stato l’autore più politico. E perfi-no Pasolini ha dentro di sé un po’ di commedia all’italiana».

Infatti il clima che attraversa Un americano a Roma, Poveri ma bellio I soli-ti ignotiè lo stesso della Roma raccontata contemporaneamente da Pasolini.

«Accattone è parente di quei film: la celebrazione del gaglioffo romano siaccompagna all’analisi del deserto sociale intorno a lui. Cioè gli elementi fon-danti delle migliori commedie. Quando preparavo Brutti sporchi e cattivi fe-ci leggere la sceneggiatura a Pasolini. Andammo a cena a San Lorenzo, lo stes-so ristorante dove andò l’ultima sera. Ebbe un’idea bellissima: fare un prolo-go al film come se fosse la prefazione a un libro. Ma prima che io potessi fini-re venne trovato il suo cadavere a cento metri da dove stavo girando la scenadi Manfredi che viene avvelenato con i maccheroni. Se oggi abbiamo una vi-sione unitaria di quella stagione lo si deve all’intensità di scambi e rapportianche con i grandi come Pasolini, De Sica, Amidei. Un pomeriggio a casa diZavattini in via Angela Merici era un godimento, perché si sapeva di trovaresempre vino e parmigiano buoni, e poi una lezione. Non come oggi che arri-va questo o quello dall’America che ti fa pagare e dice pure cazzate».

Comune a voi testimoni è rivendicare im-pegno e motivazione ideologica.

«Non è che fossimo così pensosi. Sembrauna civetteria minimizzare, ma per quanto miriguarda all’inizio la mia ambizione era di imi-tare chi ammiravo. De Sica ma anche Steno. Efare il negro per i film di Totò mi sembrava ilmassimo della felicità. Certo non ci si mettevaa tavolino a distillare una visione “politica”dell’Italia. Anzi, l’humus dal quale nascevamotutti oltre che quello delle riviste umoristicheera quello, un po’ turpe, dell’avanspettacolo.Altro che veline, quelle ballerine erano tuttegrassocce e con le gambe storte. Più miserieche nobiltà insomma. Nessuna preordinata fi-losofia, un istinto comune sì. E non va sottova-lutato mai l’apporto degli attori. Noi autori cirisentivamo un po’ quando nelle interviste gliattori si prendevano tutti i meriti, a partire daSordi che era il re della negazione degli altri. Maè vero che senza Sordi o il Gassman buttato giùdal piedistallo di principe della dizione non sa-

rebbe stata la commedia all’italiana che conosciamo». Per esempio il Nando Moriconi di Un americano a Roma?«Di certo noi sceneggiatori non scrivevamo nel copione “uanagana”: tut-

ta invenzione sua. E fu invenzione sua quella di irridere la gioventù goffaignorante e drogata d’America. Mica come ora che i giovani, chissà perché,sono intoccabili». (p. d’a.)

DRAMMA

DELLA GELOSIAAmore e morte neldramma popolare conMarcello Mastroianni,Monica Vitti e GiancarloGiannini. La regia, del1969, è di Ettore Scola

C’ERAVAMO

TANTO AMATITrent’anni di storia nellevicende di Gassman,Manfredi e Satta Flores,ex partigiani innamoratidella Sandrelli (Scola, ’74)

STRAZIAMI

MA DI BACI SAZIAMIL’amore trionfa dopotante sciagure. Nel castDino Risi (’68) chiamaNino Manfredi, PamelaTiffin e Ugo Tognazzi

Come il contedi Montecristosono tornatoricco e spietato

Marino

Nino Manfredi

Una sofferenzad’amore puòessere collegataalla lotta diclasse?

Oreste

Marcello Mastroianni

A un’umanitànova! E che lemezze porzionidiventino intereper tutti!

Antonio

Nino Manfredi

IL RE DELLA MEZZADedicato a De Sica (apparenel ruolo di se stesso)“C’eravamo tanto amati”(sopra) è una carrellata su 30 anni di storia italianaattraverso le vite di un portantino (Manfredi), un intellettuale (Satta Flores) e un avvocato (Gassman)osservati con tenerezza e malinconia. Nella foto sotto,Ettore Scola

SPAGHETTIGli americanismi nati

in Italia dopo la guerra trovano nel Nando

Moriconi di Sordil’incarnazione più divertente.

“Un americano a Roma” diSteno sembra costruito su

misura per un attore in crescitache su questo film ha costruito

la sua immagine futura

FA

RA

BO

LA

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spettacoliTv e cinema

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

La Cina e l’Antonioni proibitoFEDERICO RAMPINI

LPECHINO

e proteste di chi non è riuscito ad ave-re i biglietti, un tafferuglio all’ingres-so, la polizia che deve contenere glispettatori, l’immensa sala gremita, etantissimi giovani. È successo ieri se-

ra a Pechino e non era un concerto rap. All’Acca-demia del cinema si proiettava un didascalicodocumentario, vecchio di 32 anni, lungo quattroore, commentato in lingua straniera coi sottoti-toli. Ma per i cinesi quel documentario è un mi-to. Fu realizzato qui in un periodo terribile dellaloro storia, tutti ne conoscevano l’esistenza, nes-suno lo aveva visto. Era stato messo all’indice co-me un oltraggio alla Cina, il suo autore fu defini-to «un verme al servizio degli imperialisti» e ad-ditato come un traditore perfino nelle scuole.Il film-tabù è Chung Ku-Cina di MichelangeloAntonioni, che ieri sera per la prima volta dal1972 è stato riabilitato e proiettato davanti alpubblico cinese. Il regista italiano lo aveva fil-mato qui nel bel mezzo della Rivoluzione cultu-rale, su invito del governo di Pechino che — persua stessa ammissione — condizionò i suoi mo-vimenti e scelse le cose che doveva vedere. Sal-vo poi censurarlo duramente con un editorialedel “Renmin ribao” (Quotidiano del Popolo) del30 gennaio 1974 intitolato «Intenzione sprege-vole e manovra abietta».Antonioni divenne pedina inconsapevole di unregolamento di conti tra fazioni. Lo aveva invi-tato il premier moderato Zhou Enlai, l’arteficedello storico incontro tra Mao e Nixon, che sta-va avviando la normalizzazione diplomaticacon il resto del mondo. Antonioni doveva ser-virgli per rivelare la Cina agli occidentali dopoanni di isolamento, mostrandone un volto bo-nario e rassicurante. Ma contro Zhou Enlai erain agguato la «banda dei quattro», il gruppoestremista ispiratore della Rivoluzione cultura-le che includeva la moglie di Mao, e ci andò dimezzo Antonioni.Eppure Chung Ku non prestava il fianco alle ac-cuse. Non a quelle accuse. Rivisto oggi, colpisceper la sua simpatia verso il maoismo. La sceltadei soggetti è quasi sempre apologetica, una

elegante traduzione della propaganda ufficiale:il patriottismo delle operaie in fabbrica, le sedu-te di dottrina rivoluzionaria, i canti e le gare deibambini a scuola, il duro ma gratificante lavorodei contadini nei campi, la giovane partorienteche subisce un cesareo senza anestesia (sosti-tuita dall’acupuntura) con un beato sorriso sul-le labbra. I commenti trasudano ammirazione.Durante il cesareo: «Anche le tecniche medichevogliono dimostrare che si possono vinceregrandi ostacoli con mezzi semplici». Di frontealla povertà di massa: «Ci si sente contagiati davirtù dimenticate come il pudore, la modestia,la decenza». In sala scoppiano fragorose risatetra i ventenni. La grande assente in Chung Ku è proprio la tra-gedia della Rivoluzione culturale. Nulla nel do-cumentario lascia intuire ciò che sta accadendo

davvero in quegli anni: l’uso golpista dell’eserci-to da parte di Mao per far fuori i moderati, le pur-ghe di massa, le persecuzioni, i processi somma-ri, le autocritiche umilianti in pubblico, i lagerdedicati alla «rieducazione», la chiusura delleuniversità, gli studenti e i docenti mandati alconfino nelle campagne, la paralisi della ricercascientifica vittima delle battaglie contro la «cul-tura borghese». Certo Antonioni non fu il solo anon vedere. Alberto Moravia, che lo aveva pre-ceduto in Cina esplorandola all’inizio della Ri-voluzione culturale (1967), esaltò Chung Ku: «Lecose più belle del film sono le notazioni elegantie autentiche sulla povertà sentita come fatto spi-rituale, prima ancora che economico e politico».Mentre cresce la mia delusione, comincia a par-larmi nell’oscurità della sala la mia vicina di pol-trona, una donna sulla cinquantina. Il 1972 eraun anno importante per lei: «Il mio ritorno a Pe-chino, dopo che mi avevano costretto a servirenell’esercito». Di fronte al mio stupore per lacensura ad un film così poco critico, mi correg-ge: «Io capisco che lo abbiano proibito. Mo-strando come vivevamo, questo film ci rivelavapiù poveri e arretrati di quanto i nostri leader vo-levano far credere. Guardi quei contadini delloHunan che fuggono dallo sguardo della cine-presa. Il commento del regista dice che non so-no abituati a vedere stranieri ma la ragione èun’altra: si vergognano, come tutti i poveri delmondo». Grazie a lei vedo Chung Kucon altri oc-chi, quelli cinesi. Diventa meno innocuo. Nelcentro di Shanghai appaiono nel 1972 casupoledi una miseria africana, con tetti di paglia e mu-ra di terra; lungo le strade senza automobili ra-gazzini seminudi trainano a braccia enormi car-retti. «Sembra la Corea del Nord» sospira la miavicina. Il suo giudizio su un’intera classe diri-gente: «La loro colpa peggiore fu di tenerci nellapovertà». Lo dice con la rassegnazione della ge-nerazione perduta, che vede la Cina di oggi epensa che tutto sarebbe potuto accaderetrent’anni prima.Antonioni ha la sua rivincita. I commenti invec-chiano male. Le immagini, anche incomplete,hanno una forza che non si piega.

IPARIGI

l regista francese Philippe de Broca èmorto l’altra notte a 71 anni nell’O-spedale di Neuilly, periferia elegante

di Parigi, per un tumore che gli aveva im-pedito di promuovere il suo nuovo film.Una beffa del destino, molto più grandedi quelle con le quali, per più di quarantaanni, Broca ha farcito il suo cinema: usci-to il 6 ottobre scorso “Vipère au poing” èuno dei campioni d’incassi della stagio-ne. Divertente, eccentrico e gran sedut-tore (tre mogli e molte compagne tra lequali l’attrice Marthe Keller), Broca è sta-to il regista simbolo della commedia, del-l’intrattenimento leggero, delle grandiproduzioni. Dal suo sodalizio con Jean-Paul Belmondo sono nati sei film, il pri-mo dei quali sul bandito “Cartouche”(con Claudia Cardinale) è stata la consa-crazione del regista. È il 1961 e Belmondopattina tra la Nouvelle Vague (nel ‘60 hagirato “Fino all’ultimo respiro”) e un ci-nema che si rivelerà più nelle sue corde

(nel ‘63 Broca lo dirige in “L’uomo di Rio”,altro immenso successo).

Nato nel 1933 a Parigi da una famigliadi piccola nobiltà, ma con grande venaartistica, Philippe de Broca inizia i suoistudi come operatore. Cosa che lo con-durrà in Algeria, arruolato nel serviziocinematografico dell’esercito francese.Rimarrà tre anni, ma filmando sempredi meno. «Se riprendevo gli atti di vio-lenza dei soldati francesi venivo subitocensurato» racconterà. Quando tornain Francia la Nouvelle Vague sta persbocciare. Alla fine degli anni 50 è assi-stente di Claude Chabrol per ben trefilm: “I cugini”, “Le beau Serge”, “A dop-pia mandata” che segnerà il suo primoincontro con Belmondo. È anche assi-stente di François Truffaut per “I 400colpi”. Ma Broca ha voglia di ridere e difare ridere, il cinema intellettuale nonfa per lui, e lui trova il coraggio di dera-gliare dai binari dei “Cahiers du Cine-ma” senza per questo perdere la stima

di Truffaut e compagni. Con Montand e Marthe Keller gira

“Non tirate il diavolo per la coda” (1968),altro grande successo; con Piccoli “Dar-sela a gambe” (1971); e ancora con Bel-mondo (e Vittorio Caprioli) “Come si di-strugge la reputazione del più grandeagente segreto del mondo” (1973); conGirardot e Noiret “Disavventure di uncommissario di polizia” (1977). Nell’88(ma gli anni 80 non saranno generosi)scopre una giovane Catherine Zeta-Jo-nes in “Le mille e una notte”.

Negli anni 90 ha un buon successo inpatria (un po’ meno da noi) con DanielAuteuil nei panni di “Il cavaliere di La-gardière”, e un flop con “Amazone”, ul-tima collaborazione tra lui e Belmondo.Alla notizia della morte di Philippe deBroca, l’attore si è detto “totalmentesconvolto” mentre il presidente Chiracha reso omaggio “a un grande regista cheresterà uno dei grandi nomi del nostrocinema”.

JAMES CAMERON NEL 2500

LOS ANGELES. A 7 anni dal

successo del “Titanic”, il regista

James Cameron (nella foto) torna

con una storia di fantascienza

ambientata nel 2500 e basata sui

racconti dell’artista giapponese

Kishiro. Le riprese di “Battle

Angel” inizieranno nel mese di

maggio e dureranno due anni.

JEUNET, FESTIVAL VIETATI

PARIGI. Secondo un tribunale di

Parigi “Un long dimanche de

fiancailles” di Jeanne-Pierre

Jeunet, con Audrey Tautou, non

potrà partecipare ai festival in

Francia perché prodotto, in

parte, dalla Warner Bros. Accolte

le proteste dell’Associazione dei

produttori francesi.

Il manifesto di

“L’uomo di Rio”

uno dei film che

de Broca girò con

Belmondo

MUSICA

Una mostra su Ray Charles

alla Hall of Fame di Cleveland

LOS ANGELES. A meno di sei mesi dalla

sua scomparsa, Ray Charles viene celebrato

con una mostra alla “Rock and Roll Hall of

Fame” di Cleveland. In “The genius of Ray

Charles”, aperta al pubblico fino al prossimo

settembre, sono esposti gli strumenti appar-

tenuti al grande musicista e molti dei premi

vinti nella sua lunga carriera. Ray Charles è

morto il 10 giugno scorso all’età di 73 anni.

CINEMA

Kevin Spacey e Kate Bosworth

insieme nel film su Bobby Darin

LONDRA. Kevin Spacey e Kate Bosworth

sono i protagonisti del film biografico

“Beyond the Sea” sul cantante Bobby Da-

rin, famoso tra la fine degli anni 50 e l’ini-

zio dei 60. Alla prima londinese, Kate Bo-

sworth ha confessato che non aveva mai

sentito il nome di Darin prima che Spacey,

anche produttore del film, gli proponesse

il ruolo.

TELEVISIONE

Gli Osbourne ancora protagonisti

questa volta per un furto in casa

LONDRA. Un anello con uno zaffiro di 24

carati e un orologio tempestato di diaman-

ti. Sono i due pezzi forti della collezione di

preziosi che i ladri hanno portato via dalla

casa inglese di Ozzy Osbourne e di sua mo-

glie Sharon. La coppia, protagonista con i

due figli di un noto reality show su Mtv, è

stata sorpresa nel sonno dai ladri penetrati

nella casa di Chalfont St. Peter nel Buckin-

ghamshire.

In breve

L’attore Kevin Spacey

Addio de Broca, regista di BebelLAURA PUTTI

Antonioni sul set del documentario girato in Cina

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i saporifrantoi d’Italia

LA CONSERVAZIONEPer evitare ossidazioni

conservare l’olio in bottiglie

di vetro scuro o fasciate,

lontano da fonti di calore

LA COTTURAL’extravergine si mantiene

inalterato fino a 180 gradi

oltre un certo limite termico

il glicerolo si decompone

IL CONSUMOIl tempo di consumo ideale

per l’olio è di due anni, ma il

freddo non provoca

alterazioni qualitative

DOP LAGHI LOMBARDI

Un olio per pochi intimi: la dop deilaghi lombardi è un recente coltraltarealla sontuosa produzione di spumantidi Franciacorta. Solo quattro i frantoiautorizzati alla vendita, orgogliosidelle vecchie macine a pietra. Laproduzione è frutto di un blend di oliveFrantoio, Leccino e Casaliva. Gustofine con sentore di nocciola. Unextravergine in linea con la cucina di lago. Viaggiando da Rovato (uscitaA4) verso il lago di Iseo, fermatevi a visitare il monastero di San Pietroin Lamosa, insediamento dei

benedettini. Da non perdere il Monte Isola.

IL RISTORANTE Il Volto, via

Mirolte 33 , Iseo. 030 981462

chiuso mercoledì e giovedì

a mezzogiorno prezzo medio

vini esclusi: 70 euro

L’ALBERGO Villa Kinzica,

viale provinciale 1, Sale

Marasino. 030 9820975

camere doppie

a partire da 80 euro

IL NEGOZIO Sorelle Bonardi, via

Mirolte 16/b, Iseo. 347 5400820

L’OLIO Extravergine Velum, Frantoio

Vela, via Cristini 5, Marone.

030 987252. La bottiglia da litro sugli

scaffali a 24 euro

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

OlioLICIA GRANELLO

La spremuta di successo

La nuova produzione d’olio

ammonta a 800 mila tonnellate

IL TEMPOLa qualità dell’olio

migliora quanto più è

breve il tempo tra

raccolta e spremitura

IL COLOREGli oli da olive mature

hanno colore giallo

oro, quelli da olive

precoci sono verdastri

tartare di calamari e zuppa di pomodo-ro alla vaniglia con extravergine in sca-glie, elaborata da Jesus Ramiro Flores,chef spagnolo trapiantato a Miami. Ten-denze, filosofie, talenti diversi, accomu-nati dalla passione, quella per l’olio diqualità, tanto forte e selettiva da indurretutti o quasi i partecipanti a portarsi dacasa il proprio extravergine preferito.

Dalla celebrazione nei Paesi Baschi aqui, il passo è breve quanto un sospiro,se è vero che oggi, in centinaia di piazzeitaliane, tra grandi città e piccoli comu-ni, si festeggia “Pane e Olio in Frantoio”,la manifestazione inventata dall’Asso-ciazione Nazionale Città dell’Olio(informazioni sul sito www. cittadello-lio. it).

Perché mai come oggi l’extraverginefa tendenza, è di moda, fa bella mostrasulle tavole, nei migliori ristoranti delmondo. Tale e tanto, il prestigio rag-giunto, che la scorsa settimana la Food& Drug Administration, l’ente america-no di controllo su farmaci e alimenti, haautorizzato a riportare in etichetta leproprietà salutari dei grassi polinsaturi,di cui l’extravergine è ricco.

Anche i dati economici cominciano asupportare, seppur timidamente, il

mercato di qualità, se è vero che a frontedei 2.700 milioni complessivi, l’olio bio-logico l’anno scorso ha fatturato 207 mi-lioni di euro e 50 milioni sono attribuibi-li agli extravergine dop.

I grandi numeri, invece, premianoancora produzioni quasi mai all’altezza.Questione anche di cultura, visto chesiamo in bilico perenne tra il «pizzicaquindi è buono» (errore!), e lo stupore difronte all’idea di spendere 15 euro peruna buona etichetta.

Un’inchiesta condotta da EttoreFranca, docente di agronomia all’uni-versità di Urbino, rivela che davanti agliscaffali del supermercato ci dividiamoin due categorie: i fideisti, che vanno acolpo sicuro scegliendo sempre la stes-sa marca, e tutti gli altri, ovvero la stra-grande maggioranza, capaci di confron-tare anche quattro, cinque bottiglie dif-ferenti, per cadere poi irrimediabilmen-te su quella più a buon mercato. Secon-do l’ultima ricerca Nielsen, la crisi eco-nomica penalizza tutti i consumicompreso l’olio, ma esclusi elettrodo-mestici e apparecchi elettronici, davan-ti ai quali le urgenze del bilancio fami-liare sembrano magicamente svanire.

Ma quelli delle Città dell’Olio non de-

mordono. Nei giorni scorsi, il presiden-te Enrico Lupi ha presentato la primaCarta degli oli Dop italiani, con tanto dimappa delle are di produzione, a ognu-na delle quali corrisponde la descrizio-ne delle caratteristiche e degli abbina-menti consigliati. Una difesa sul campodai mille e uno tentativi di guadagnarsila fiducia del consumatore attraversovari trucchi in etichetta, dalla scritta“spremitura a freddo” — che il regola-mento europeo autorizza solo per olifranti sotto i 27 gradi — alla bassa aci-dità. Per l’origine solo la provenienzacertificata delle olive dà diritto a circo-scrivere l’area di produzione. In teoria,dovrebbe essere finito il tempo dell’olioche diventa toscano con la sola fabbricadi imbottigliamento in regione. Ma leviolazioni sono continue, le etichettebugiarde, i provvedimenti dell’Autho-rity arrancano.

Il tutto, in attesa delle sospirate deno-minazioni comunali (progetto lanciatoda Luigi Veronelli) che molto ci aiute-rebbero ad evitare di confondere, neinostri piatti, il vero extravergine e quel-lo prodotto a partire da misture vegeta-li, raffinate e trasformate in «buon olioda tavola mediterraneo a bassa acidità».

Lavorato a freddo, fruttato o a bassa acidità mai comeadesso l’extravergineconquista i palati più esigentiI produttori oggi fanno festa spalancando le porte ai gourmet e perfino la Fda americana autorizzaun’etichetta sulle bottiglie per segnalare le “proprietàsalutari” del prodotto mediterraneo per eccellenza

DOP MARCHIGIANA

Gli extravergine di questa zona sono

divenuti celebri per il sapore lieve di

mandorle fresche perfetto per

esaltare la cucina di pesce, tanto sui

crudi che nelle cotture. Dalla cantina

Umani Ronchi di Osimo si arriva a

Senigallia e di qui a Portonovo, la

perla del Conero, dove è consigliabile

una passeggiata sulla spiaggia con un

aperitivo al Clandestino. Da vedere, in

zona, le bellissime grotte di Frasassi.

Obbligatoria la visita ad Arcevia,

Morro d'Alba e Corinaldo, piccoli

gioielli medievali

IL RISTORANTE Uliassi

Cucina di Mare, via Banchina

di Levante 6, Senigallia.

071 65463. Chiuso il lunedì

Prezzo vini esclusi: 85 euro

L’ALBERGO Locanda della

Marina, via Strada della

Marina 265, Senigallia.

071 6608633. Camera doppia

a partire da 80 euro

IL NEGOZIO Spaccio Umani Ronchi,

Ss 16 km 310, Osimo. 071 7108716

L’OLIO Frantoio della Rocca di

Vittorio Beltrami, via Cardinal Pandolfi

1, Cartoceto. 0721 898145. La bottiglia

da mezzo litro di “Covo de briganti”

biologico a 14 euro

itinerari

Le prime coltivazioni d’olivo

risalgono al 4000 a. C.

Le varietà di olive principali, nel

mondo, sono circa 350

Anna Abbonaètitolare insieme almarito Ernesto e aifratelli Abbona della“Marchesi di Barolo”,una delle maisonvinicole più antichee blasonate d'ItaliaMa è anche unagrande, appassionatagourmet, impegnata ascovare e promuovereprodotti e locali inogni angolo d’ItaliaQuesti i suoisuggerimenti ai lettoridi RepubblicaBuon viaggio

4000 a.C.

800mila

350

I SAPORIL’olio può avere sapore

amaro, aspro, dolce o

carciofo, tipico delle

spremiture più recenti

Immaginate dodici cuochi tra i piùbravi impegnati davanti alle ri-spettive postazioni di lavoro, inun’immensa cucina attrezzata.Immaginateli mentre si guarda-no intorno con aria furtiva prima

di estrarre da uno scaffale nascosto unabottiglia fasciata e con quel liquido “be-nedire” il piatto di fronte a sé. E succes-so più o meno così, durante il concorsoper il miglior piatto con l’extravergineprotagonista, momento clou del“Mejor de la gastronomia”, il più cele-bre congresso mondiale di gastrono-mia di tendenza, che ha riempito giornie notti dell’ultima settimana a San Se-bastian.

Per il secondo anno consecutivo, lecucine del Kursaal, il palazzo della cul-tura affacciato sul mare basco, hannoospitato la finale del concorso per il mi-glior piatto con l’extravergine. E per il se-condo anno consecutivo le richieste dipartecipazione, arrivate da ogni partedel mondo, si sono tradotte in 12 piattiselezionati per la passerella finale. Sel’anno scorso il più bravo di tutti era sta-to Andrea Menichetti, proprietario-chef del ristorante toscano “Caino” (duestelle), quest’anno a vincere è stata la

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

LE CALORIEL’olio ipocalorico non

esiste, tutti gli oli hanno

le stesse calorie aldilà

di sapore e colore

LA LEGGEPer classificare un olio

come “olio d'oliva”

basta che ne contenga

una minima quantità

Osorella, comandano gli Elleni/quando l’ulivo vuol piantarsi o co-glier/ lo facciano i fanciulli della ter-ra/ vergini e mondi”. Così Gabrieled’Annunzio, con aggiornata orto-grafia, per celebrare le virtù di que-

sta pallida pianta che, donata agli uomini da unadea, Pallade Atena, di cui non si conoscono amo-ri, viveva in una atmosfera di castità.

E di santità. L’Europa non sarebbe stata cri-stiana se Israele non avesse fatto dell’unto delSignore il Chrestos, Cristo.

Nei confronti dell’olio i romani ebbero uncontegno ambivalente. Talvolta ai popoliconquistati lo imponevano come tributo.Talvolta ne vietavano loro la coltivazione pertenere alti i prezzi della penisola. Non è ben

chiaro fino a che punto es-so fosse preferito come ali-mento o come cosmetico.La ricetta della buona salu-te era così riassumibile perPlinio: vino dentro allo sto-maco, olio fuori per pro-teggere la pelle. Sulla stes-sa lunghezza d’onda i tifo-si facevano la coda per pro-curarsi una boccettina diquell’olio, misto a sudore,che gli atleti raschiavano

dai propri pori.A Roma l’ulivo era arrivato attorno al Cin-

quecento a. C. mentre la città passava da mo-narchia a repubblica. Un po’ più di tre secolidopo Catone illustrava due tipologie di pro-dotto: il normale, detto maturo e preparato agennaio, oppure il verde, di fine novembre odicembre.

Migliore quest’ultimo, aggiungeva Catone,e di prezzo più sostenuto: ma attenzione a

La pianta pallida e castache ci donò la dea

I romani imposerol’olio come tributoai popoli conquistatiPlinio lo consigliò perproteggere la pelle

“La prima voltache incontrai

l’albero d’ulivo”

non produrne troppo, dato il maggiore costopoteva rimanere invenduto.

Passano due secoli e mezzo e Columellaporta a quattro le principali tipologie. Infattil’olio maturo si è scisso nel cibario, da cucina.Mentre il verde si è scisso nell’acerbo: un su-perverde settembrino molto chic. Più carodunque e di maggiore reddito ma, a cagionedel suo prezzo, da non prodursene troppo. Arischio — ancora una volta — di restare in ma-gazzino. In ogni caso il passaggio da due aquattro tipologie esemplifica molto bene ilprogredire della gastronomia insieme allapolitica e a quello che noi chiameremmo svi-luppo economico. Ricchezza, ogni tanto, farima con raffinatezza.

Per la cucina all’olio il Medioevo è un disa-stro.

Burro e strutto la fanno da padrone anchenelle ricette di Bartolomeo Scappi, cuoco se-greto dell’inappetente Pio V, il papa di Le-panto. Eppure chi, sul finire del Cinquecen-to, girava per Umbria e Toscana come Michelde Montagne rimaneva folgorato dalla bontàdi un prodotto che “non raspava in gola”(strano che non se ne sia ancora fatto unospot da dedicare ai francesi). L’Ottocento è ilsecolo dell’industria: ma già cominciano irimpianti.

All’industria Agostino Bertani, relatore perla Liguria della Inchiesta Jacini (1877/1885)contrapponeva, elogiandoli, gli oli di fran-toio, aziendali: quelli che oggi si stanno feli-cemente imponendo sul mercato, denoccio-lati o non denocciolati. Al “c’era una volta”dei nostalgici si può rispondere “c’è”.

Adesso.

*Presidente dell’Istituto nazionaledi Sociologia rurale

DOP PENISOLA SORRENTINA Le olive di questa zona godono del fresco del monte Faito e della favorevole esposizione a sud.Risultato, un olio dai sentori dirosmarino accompagnamentoperfetto per la cucina mediterranea.Partendo da Castellammare di Stabia, all'uscita dell'A3, si puòraggiungere Varano, dove pochi annifa è stata rinvenuta una dimorapatrizia ora aperta al pubblico. Da visitare anche le vecchie terme di acque minerali.

IL RISTORANTE Torre

del Saracino, via Torretta 9

Marina di Seiano.

081 8028555. Chiuso

domenica sera e lunedì.

Prezzo vini esclusi: 65 euro

L’ALBERGO Hotel Crown

Plaza, strada statale 145

Sorrentina, km 11

Castellammare di Stabia.

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a partire da 150 euro

L NEGOZIO La Tradizione, via

Raffaele Bosco 273, Seiano Vico

Equense. 081 8028555

L’OLIO Frantoio Ferraro, località

Montechiaro (Vico Equense).

081 8028039. Dop Penisola Sorrentina

La bottiglia da mezzo litro a 8,70 euro

MARIO RIGONI STERN

Il libro

Fu in questo viaggio (a Bassanondr) che incontrai per la primavolta gli alberi d’ulivo. Conosce-

vo i rami perché alla domenica dellePalme ero sul sagrato della chiesa conquelli che li brandivano verso l’alto, ein attesa che la porta si aprisse ai col-pi dell’arciprete davamo colpi in te-sta alle ragazze tutte vestite di bianco.E mia madre i ramoscelli d’ulivo be-nedetto li bruciava nella stufa quan-do il temporale girava per le monta-gne e mio padre era in viaggio per lemalghe.

Quel giorno della mia andata a Bas-sano avevo incontrato gli ulivi dopoessere passato per i boschi ancora in-nevati: erano lì in quelle vallette amezzogiorno ai piedi delle monta-gne dove li avevano impiantati i Be-nedettini dell’Abazia di Campese, fi-glia di quella più famosa di Cluny, equei tronchi attorcigliati e screpolati,a volte traforati, reggevano i rami cheportavano «le palme» d’ulivo. Guar-dandoli attraverso i vetri della corrie-ra certamente mi commossi.

A quindici anni si è innamorati ditutto; ma se di tante cose con il passa-re del tempo ci si può disamorare, l’u-livo è l’albero che ancora mi rinnovaquella prima emozione ogni voltache lo ritrovo.

... Tra tutti gli alberi l’ulivo è quelloa cui più numerosi sono legati miti eleggende. E come altro poteva essere:dai suoi frutti si ricava l’olio che dà sa-lute e bellezza agli uomini. E lume aipoeti, e materiale ai pittori. E il suo le-gno polito e duro si usa per gli intarsi,per i lavori al tornio, per pavimentipreziosi. E bruciando in luminosafiamma dà calore e luce alle grigie se-re d’inverno.

da “Arboreto salvatico” Einaudi

CORRADO BARBERIS

L’ASSAGGIOSi prende un sorso e lo

si fa scorrere in bocca,

dopo l’assaggio si

mastica un po’ di mela

.

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il corpo44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

BellezzaIL BUSTO NELL’ARTE

Dalla Venere di Milo alle languide

donne di Klimt, da Paolina

Bonaparte del Canova alle

odalische di Matisse: tutti i grandi

artisti hanno raffigurato nei secoli il

seno muliebre, fissando canoni e

proporzioni. Appena accennato il

petto della Venere di Botticelli,

generoso e divaricato il busto della

Maja Desnuda ritratta da Goya

LA RELIQUIA DI SANT’AGATA

La mammella di Sant’Agata è

diventata una reliquia, custodita

dal 1376 con la testa nello scrigno

conservato a Catania e oggetto di

devozione popolare. Durante il

martirio la santa subì il taglio dei

seni. Sono numerose anche le

“Madonne del latte” ritratte con un

seno nudo mentre allattano. Il

seno vi appare come fonte di vita

LA STATUA DI BRITNEY

Una statua di cera con il seno in

lattice che i visitatori possono

comodamente palpare: è quella

che ritrae Britney Spears al museo

londinese di Madame Tussaud.

Anche altri personaggi popolari

sono ritratti in cera con dettagli

anatomici palpabili: ma a Jennifer

Lopez, Kylie Minogue e Brad Pitt si

può toccare il fondoschiena

Per chi se la sente adesso c’è lalievitazione “naturale”.Un’iniezione e per venti-quattr’ore il seno cresce diun paio di misure, si gonfiacome per magia, diventa tur-

gido come quello di una maggiorata.Niente bisturi: un lifting senza una goc-cia di sangue, un trattamento lamposenza sofferenze e senza anestesia. Ba-sta una doppia puntura di una specialesospensione salina. La procedura ri-chiede venti minuti circa, costa 250dollari e viene praticata da alcuni der-matologi in Florida. E’ l’ultima novitàsul fronte pre-chirurgico. Peccato chel’effetto sia, per così dire, a tempo, pec-cato che la soluzione venga assorbitadall’organismo, peccato che allo sca-

LAURA LAURENZI

dere dell’ora X la carrozza torni ad es-sere una zucca e la prorompente signo-ra venga restituita alla calma piatta diuna scollatura inadempiente.

Resiste, fra uomini e donne, il cultodel seno: vero feticcio nella società del-l’apparire. La sovraesposizione in pub-blicità, sulle copertine dei giornali, al ci-nema ma soprattutto in televisione nonlo ha inflazionato. Se Novalis scrisse «ilseno è il petto delle donne elevato a mi-stero», il vero mistero sembra essere lamirabolante quantità di trucchi, plasti-che, cilici magici, reggiseni biomecca-nici, push-up, integratori, capsule, bal-sami e impacchi che circondano il mito.L’impressionante corredo di ritrovatiimposti dall’obbligo di un seno fioren-te, i rimedi patetici e non che prometto-

no l’impossibile. Basta aprire la magicaporta di Internet per procacciarsi l’en-nesima pillola miracolosa, magari a ba-se fitoestrogeni oppure vitamine o an-cora chissà cosa.

Tutto questo perché non è il seno ma-terno ad essere esaltato ma quello dellaseduzione, baricentro, prima ancorache della bellezza oggettiva, del deside-rio erotico. Se gli italiani lo sognanoopulento e peccaminoso, gli stilisti, masolo loro, continuano a predicarlo mini-male e quasi smaterializzato. Smorzatigli eccessi anni 90 di seni fuori misura cisi è attestati su un giusto mezzo che tut-tavia non scende mai sotto la terza. «Ilmodo in cui la donna vede il suo seno èspesso un buon indicatore di come ve-de se stessa, della stima che ha di sé», ha

scritto Marilyn Yalom nel suo esaustivo“A history of the breast”. Lo scontentocomincia con l’adolescenza, quando leragazze chiedono a mamma per Nataleun buono sotto l’albero per la plasticaadditiva. E chi se ne importa se sette uo-mini su dieci considerano orripilante ilpetto siliconato, forse perché rimbalza.

Ambito e temuto, esibito o lasciato in-dovinare, assai più profano che sacro,fonte di orgoglio e di frustrazione, il se-no è doppio non solo per natura. Ed è laparte più commercializzata e sponso-rizzata del corpo umano. Il suo protago-nismo, la vetrina, la nudità, la malleabi-lità — gonfia e sgonfia, aumenta e ridu-ci, tatua, trucca, ritocca, imponi, esponi— nulla ha tolto all’impeto del suo ri-chiamo, assai prossimo all’ossessione.

“Attente alle facili illusioni”Il chirurgo

Raoul Novelli, il chi-rurgo estetico mila-nese famoso per i

suoi interventi rapidissi-mi e poco invasivi, non hadubbi: un seno più gran-de è al primo posto tra idesideri delle donne.

Dottor Novelli, per ot-tenere un seno più gran-de e più tonico esistonoalternative meno aggres-sive all’intervento?

«Purtroppo, non anco-ra, almeno per quanto riguarda le dimen-sioni. Le iniezioni americane sono tempo-ranee, il “vacuum”, un’altra proposta arri-

vata dagli Stati Uniti e tra-sformata addirittura inun reggiseno che, grazieall’aspirazione, avrebbedovuto far aumentare ilseno in due mesi, si è rive-lato un flop…».

E allora che fare?«Riconciliarsi con la

propria immagine. Maper molte donne non è fa-cile: il seno ha a che farecon la sessualità, si co-mincia a preoccuparsene

a 20 anni e già a 21 si bussa alla porta delchirurgo».

(v.sch.)

GLI INTERVENTISono 150mila l’anno

le donne europee che

scelgono la mastoplastica

Trattamenti lampoper evitare il bisturi:in Florida è boomdelle iniezionisaline con effettopush up per 24 ore

L’ETÀLe donne che optano

per il bisturi hanno in

media 25-35 anni

25 anni

IL COSTOTra i 5-6mila euro il costo

dell’intervento di

mastoplastica additiva

5mila

GLI ESERCIZIStare a schiena dritta,

indossare sempre il

reggiseno, evitare il

troppo sole, mai bagni

esageratamente caldi e

sì alle docce fredde,

fare esercizi quotidiani

per i pettorali. Sono i

consigli fondamentali

per preservare la

bellezza del seno

TRUCCHI ANTICHILe egiziane usavano

unguenti naturali per

rassodare il busto. Nel

1000 a.C. le donne

indossavano una striscia

di stoffa sotto il seno, le

matrone romane lo

sostenevano con nastri.

Nel 1700 le dame lo

esibivano e “gonfiavano”

con eleganti corsetti

IL BIOMECCANICOBrevettato per sollevare

e aumentare il seno

con un meccanismo

di aspirazione, da

indossare 12 ore al

giorno per almeno dieci

settimane. E’ il nuovo

reggiseno biomeccanico

che promette meraviglie.I

benefici, però, sono

temporanei

L’ANNIVERSARIOCompie dieci anni il

reggiseno con il push-up,

lanciato con il nome

di Wonderbra, il

reggiseno delle

meraviglie che regala

almeno una taglia in più

Ora però impazza

il modello nudo, senza

spalline, in silicone

morbido e invisibile

Seno perfetto, solo per una sera

IL PIÙ BELLOE’ di Halle Berry il seno

più bello del mondo

Il primato le è stato

assegnato dalla

celebre rivista “People”

Ma la misura di seno

ideale resta quella di

madame Pompadour

che, secondo la

leggenda, stava in una

coppa da champagne

150mila

Sophia Loren misura la circonferenza

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le tendenze

Il furore d’aver libri può essere devastante. Si co-mincia con un minuscolo libello in brossura, peresempio Bartleby lo scrivano di Melville, e si fini-sce con l’edizione in folio De urbibus arcibus ca-stellisque condendis ac muniendis rationes ecce-tera, di Albrecht Dürer, edita a Parigi da Chrestien

Wechel nel 1535. Una passione vorti-cosa che alle estreme conseguenze,considerato che in Italia si pubblicano54 mila titoli ogni anno (e si stampanooltre 250 milioni di volumi), vi esiliadalla vostra stessa casa. Lo sapeva be-ne Giuseppe Pontiggia, scrittore, bi-bliofilo e animo gentile, che con lacomplicità di un raffinato artigianoaveva trovato il modo per conservare ilibri anche sul soffitto. Perché una vol-ta andava così: la buona borghesia labiblioteca se la faceva fare su misura.

Poi, sono cambiati i tempi e, mentre i libri si propaga-vano anche nelle case della working class, alla bibliote-ca si sostituiva la libreria o l’umile ma versatile scaffale.

Adesso che Repubblica ha portato nelle case degliitaliani oltre ottanta milioni di volumi in tre anni, acominciare dall’Enciclopedia, creando di fatto unmercato che prima non esisteva, il problema dellasilenziosa invasione di pagine ricompare in tutta la

sua virulenza. Che fare? Naturalmente provvedersidi una nuova libreria. Ma quale? Le opportunità so-no tante. Perfino troppe. E si rischia di scegliere d’i-stinto, ascoltando un’emozione. Dimenticando cheuna libreria deve essere agile ma capace (nel sensoletterale di «contenere»), autorevole senza diventa-re intimidatoria.

Libreria è una definizione impro-pria. Perché ormai le soluzioni sonotanto articolate che, per orientarsi,conviene organizzarle in categorie.Ci sono le classiche: librerie a tuttaparete, riservate ai libri, figlie diret-te delle biblioteche altoborghesi. Lemutanti: dove i libri convivono consoprammobili, foto di famiglia e og-getti di ogni tipo. Le pareti attrezza-te: sono lo sviluppo delle mutanti econsentono di organizzare l’inevi-tabile dotazione hi-tech, con i fili celati in specificicomparti e in qualche caso sezioni a scomparsa. Lelibrerie-scaffale: sono le più adattabili e possonoservire anche da divisori tra ambienti. Le librerie de-sign: premiano l’estetica pagando un prezzo allafunzionalità. In questo senso, di tendenza sono le li-brerie sospese, vincolate al soffitto o anche fissate al-la parete, quasi un quadro astratto tridimensionale.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

librerie

AURELIO MAGISTÀ

ARCHETIPISi chiama Kaos

perché nella sua

estrema asciuttezza

si propone come

archetipo di libreria

Di Astori per Driade

INCROCIIdeogramma o

origami? Sendai di

Toyo Ito per Horm è

fatta con 60 torniti di

legno multistrato

diversi e vetro

INTUIZIONINata dall’idea di un

foglio piegato a metà

e sostenuto da tiranti,

Pab B&B Italia si è

poi sviluppata in

sistema,

confermando

l’efficacia

dell’intuizione

originale. Disponibile

in diverse varianti

di composizione

NOMADISMIL’umile assemblaggio

di elementi tubolari in

acciaio costituisce il

corpo della libreria

Viceversa cela grandi

potenzialità di

accoglienza. Spirito

nomade.

CLASSICITÀEsemplare, la

classicità di un

evergreen come

Metropolis di

Tisettanta, che,

funzionale grazie alle

luci e alla scaletta,

si reinventa

cromaticamente

moderna

GHIRIGORIOccorre grande

sensibilità

estetica per scegliere

Bookwarm di Kartell

il superghirigoro

tridimensionale

ideato da Ron Arad

CUBI E SFERENella foto grande, la

Gallery Cubik Diliddo

& Perego, un sistema

che si integra con

i cubi qui sopra

PROVOCAZIONIPiù che una libreria,

una provocazione

bidimensionale in

feltro su struttura in

metallo, dove infilare

libri, giornali e altro.

È Soft Wall di

Carsten Gerhards e

Andrea Glucker per

B&B Italia

MARIO LUZI

“Le librerie a me più care sono due: una in legno,

ricolma di saggi letterari, l'altra in economicissimo

metallo, da archivio. Quella in legno mi fu regalata

dall'amico Romano Bilenchi, quando misi su questo

mio piccolo appartamento a Bellariva, alla periferia di

Firenze. Proprio perché piccolo ho dovuto disfarmi di

molti volumi, altrimenti sarei dovuto uscire di casa io.

Mi ha aiutato la donazione di parte della mia biblioteca

al centro studi a me intitolato a Pienza, ma per un breve

lasso di tempo: sono di nuovo prigioniero dei libri”.

ELVIRA SELLERIO

“In salotto ho le due grandi librerie a giorno dei libri

tenuti in ordine; e, in due vetrinette, i libri seri, di storia e

di critica. Poi in tutte le altre stanze, in scaffali

comperati ai mercatini, ho i libri del gusto; lì c’è un gran

via vai, perché ora che ho il refrigerio di Ragusa (la casa

di campagna), i libri partono in villeggiatura. I libri con

dedica invece li tengo tutti insieme democraticamente.

In una libreria bassa nel corridoio che va verso il bagno

ci sono poi i libri del cuore; quelli “sacri”, che rileggo.

Ho anche un leggìo da vasca, che uso molto”.

Nuovi scaffalidesign plasticio cromati per“ospitare” anchei milioni di volumiin più che il boomdegli ultimi anni haportato nelle case

I titoli pubblicati

ogni anno in Italia

54mila

Gli italiani che

leggono libri

41%

DAL CIELOAl Salone del Mobile

ha fatto scalpore

Graduate, di Jean

Nouvel per Molteni, è

vincolata al soffitto

con cavi di acciaio su

cui scorrono scaffali

Milioni di libri in piùfacciamo spazio

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

SELEZIONE DEGLI OGGETTI

A CURA DI AURELIO MAGISTÀ

50anniL’ITALIA FA BOOM

Segnali di benessere

di massa, nell’Italia

che, lanciata sulle

discese del boom

economico, ha

voglia di esibirsi ma

senza esagerare,

come certe signore

rievocate dal

giubbotto Moncler e

dalla maglia merinos

Conte of Florence.

Forma e funzione si

accordano nel

pantalone a bretelle

interpretato da

Patagonia. E fuori

pista, il relax dei

doposci Decathlon

e della sciarpa in

cachemire Tod’s

60anni

Pare oggi e sono passati trent’anni. Rac-contano il grande sci italiano con i pro-tagonisti di ieri, le immagini della cam-pagna promozionale di Colmar per lastagione che va a cominciare. Gros,Thoeni, De Chiesa con abiti che ripren-

dono tagli e colori della valanga azzurra. Loro neipanni di padri di famiglia, ma anche ironicamentea imitare i gesti di una volta, lanciati in uno slalomo gli sci alzati al cielo, come fossero su un podio. Esembra davvero che i tempi non siano cambiati, so-lo qualche chilo in più sui fianchi e i colori appenapiù carichi delle fotografie.

L’ultima curva sulla neve riporta agli anni Set-tanta. La tecnica non ha più nulla dell’apertura dipunta di Gustavo, anche i tessuti e le imbottituresono evoluzioni sofisticate di materiali che ormainon si usano. Però i disegni sono quelli, le tinte an-che, magari più rosso che azzurro stavolta. Giacchecorte e avvitate, pantaloni aderenti il giusto. Il vec-chio berretto di lana, già sdoganato dal popolo del-lo snowboard, assomiglia alle caciottine lavorate amaglia dalla sorella di Stenmark e invidiate dall’in-tero circo bianco. Il piumino Moncler, che di sta-gioni ne ha fatte tante, riedito in versione originale,come i giubboni gonfi vestiti dai francesi che nel1950 salirono per primi l’Annapurna, ma anchenell’interpretazione vista addosso ai protagonistidelle olimpiadi di Grenoble del 1968, con il profilotricolore della nazionale di Jean-Claude Killy. Per-ché la citazione d’antan, nelle collezioni dell’inver-no prossimo, non si rifà a un’epoca sola. Se Andepropone, per il pubblico femminile, la giacca Dre-sda che sembra uscita dal fotogramma di un JamesBond «sciistico», Luis Trenker — che fin nel logodell’azienda riprende la firma del regista, sciatore eguida alpina sudtirolese — si spinge all’epoca eroi-ca degli sport invernali, materiali naturali per unabbigliamento anni Trenta e Quaranta, tutto gio-cato sul chiaroscuro. E i maglioni norvegesi con lerenne, osati finora solo da poche maglierie quasiartigiane, adesso si ritrovano sulle pagine di qual-siasi catalogo per la nuova stagione.

Poi ci sono i marchi che hanno il sapore di unavolta. Maxel, che ha corso sulle piste della Coppadel Mondo ai piedi di campioni come ErwinStricker e Ninna Quario, è tornata sul mercato do-po alterne vicende finanziarie, grazie all’impegnodella RodaSki di Conegliano Veneto, con una colle-zione che comprende modelli da competizione eattrezzi più tranquilli per ogni tipo di neve. Giulia-no Besson, ex discesista della valanga azzurra, hariacquisito il brand Anzi Besson — creato con l’a-mico e compagno di squadra Stefano Anzi, quan-do nel 1976 lasciarono il mondo delle gare sbatten-do la porta — che intanto veste le nazionali di Au-stria e Francia. E riparte con una forte spinta ancheFila, con una linea, la Fisi Replica, che ripete i capiprodotti per la Federazione italiana sport inverna-li, anche quelli ispirati, forse con un pizzico di sca-ramanzia, a quelli degli anni d’oro, quando erava-mo in cima alle classifiche mondiali. Lo sci va avan-ti ma la moda torna indietro, la tecnologia di un’au-to da corsa c’è perfino negli attrezzi dei patiti del te-lemark, la tecnica vecchia di oltre un secolo, anchequesta, ovviamente, tra i must della stagione cheprende il via nel prossimo weekend.

LEONARDO BIZZARO

le tendenzeModa sportiva

Giacche corte, pantaloni atubo, berretti di lana grossaTrionfano le fantasie anniSettanta, cambiano peròle imbottiture e i materialiCartoline dall’album della“Valanga Azzurra”, conqualche accessorio in piùper la sicurezza sportiva

Vestiticome Thoenisulle piste da sciva il tecno-vintage

VECCHI MAESTRILo sci è per pochi:

Bardonecchia si vota

agli sport invernali

E proprio dalla

stazione piemontese,

dove, sul fare del

Novecento si

tengono i primi corsi

con i maestri del

Nord, la passione si

allarga alle Alpi. Oggi

Bardo, come

Sestriere e le altre

località della Valsusa,

si sta preparando

all’Olimpiade 2006

CORTINA LA VIPLa stazione più

elegante delle Alpi

italiane è

protagonista nel ’41

di un Mondiale, poi

annullato dalla

guerra, nel ’56 delle

prime Olimpiadi in

Italia. Oggi

Cortina è una

delle mete preferite

dal jet set, ma anche

dai giovani vagabondi

dello sci in cerca di

pendii per snowboard

e telemark

E’ MONDIALEC’è la Valtellina

sotto

i riflettori, nella

stagione che sta

cominciando. I

Mondiali di sci di

fine gennaio sono

l’appuntamento clou

dell’inverno. Chi non

gareggia, può

cimentarsi sulla

pista Stelvio o sul

Canalone di

Madesimo,

celebrato dallo

sciatore Dino Buzzati

IO GENTILUOMO

Citazione di

quando la vacanza in

montagna era roba

da gentiluomini, la

giacca Patagonia in

cachemire si coniuga

con i pantaloni Pzero

in lana-cotone color

antracite che si

staglieranno netti

sulla neve. Perché un

gentiluomo, appunto,

non deve mai farsi

notare, nemmeno

quando non vuole

passare inosservato.

Per il passeggio,

il berretto, la sciarpa

e le calze Gallo con le

scarpe tecniche old

fashioned di Napapijri

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DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47

VIVA IL COLORE

Il revival di

Emilio Pucci, che

firma lo spezzato per

lei completato dalla

sacca, inconfondibile

nella gioia di vivere

delle fantasie

cromatiche, sintetizza

il culmine del vintage

che si conferma

tendenza dominante,

in particolare per i

primi anni Settanta.

Lo stivale Karakoum

2 Dolomite è in

edizione limitata, il

cappello Conte

of Florence e gli

aggressivi occhiali

in plastica iniettata

del duo D&G

70anniPIÙ VANITOSI

Che cosa è rimasto

di quel falò delle

nostre vanità, ovvero

degli anni Ottanta? I

lucidi piumini

Moncler che

scivolavano lievi e

longevi dal decennio

precedente, la

maschera Decathlon

da discesa libera,

coerente con la cifra

di un’Italia che voleva

vivere sopra le righe

E la rilettura di oggi,

neosobria come il

cap termico Mizuno

o i doposci Prada

magniloquenti,

da esibire con

il loro pelo nero

80anni anni

Non si può descrivere il senso di libertàche ti dà sfiorare la neve, con gli sci o conla tavola, lasciarsi andare eppure man-tenere il controllo. È gioia pura. Non c’èaltro sport che possa dare un’emozio-ne così forte. Mi piace sciare e mi piac-

ciono le montagne. Le ho conosciute fin da bambino,quando con i miei fratelli, John e Ginevra, ne abbiamopercorso le valli e sperimentato le piste. Ma le ho ca-pite a fondo soltanto durante il servizio militare. È aquegli anni che risale il ricordo più intenso. Ero negliAlpini e siamo partiti con un gruppo di commilitoniper un’escursione di due giorni. Non avevo mai usatole pelli di foca prima di allora. Ti permettono di scivo-

lare solo in avanti mentre il contropelo arresta la sci-volata all’indietro, ma è un’impresa complicata e fati-cosa. Per ore e ore abbiamo arrancato al freddo, tra laneve fresca, aiutandoci l’uno con l’altro, prima di rag-giungere la vetta. Quella è stata la prima volta in cui hoapprezzato davvero la discesa. Un piacere più inten-so perché sudato e guadagnato con tenacia. Mi vienein mente tutte le volte che prendo uno skilift.

Tantissimi sono i ricordi personali legati alle nostresplendide vallate piemontesi, nelle lunghe passeg-giate con gli amici, nelle serate trascorse in compa-gnia dentro i rifugi, nelle molte vacanze sulla neve.Sono felice che siano state scelte come teatro dei Gio-chi Olimpici del 2006. Credo che sia una grande oc-

casione, non solo per Torino ma per l’Italia intera.Dobbiamo essere bravi a trasmettere, anche a chinon conosce le nostre montagne, questo aspetto piùemozionale, le suggestioni che possono dare.

Nelle mie passioni sportive — che divido con Ju-ventus e Ferrari — la montagna ha un posto tuttosuo. E ce l’ha nel cuore della Fiat. Pensiamo alla Pan-da 4x4… sembra nata per stare tra le montagne. Ha«scalato» l’Everest, è diventata l’auto dei maestri disci, è stata la prima tra le piccole off-road ad arriva-re a una quota di 5.200 metri. Dallo stesso amore so-no nati altri due progetti, ai quali tengo in modo par-ticolare. Venti giorni fa abbiamo creato l’Alfa Ro-meo Ski Racing Team per lo sci alpino, con campio-

ni del calibro di Isolde Kostner, Daniela Ceccarelli,Kristian Ghedina, Massimiliano Blardone. E neigiorni scorsi abbiamo presentato il Fiat FreestyleTeam, la squadra con cui l’Italia si presenterà alleOlimpiadi nelle discipline di snowboard e sci free-style. Abbiamo voluto riunire i più forti rider italianisotto il marchio Fiat perché ci sentiamo affini.Quando li guardo saltare a trenta metri da terra,compiere acrobazie in volo o serpentine fra le gob-be, non vedo solo uno sport spettacolare, ma vedodegli atleti che si sono allenati con tenacia, mesco-lando tecnica e creatività, e, soprattutto, che mira-no a saltare sempre più in alto. È anche questo il sen-so della montagna, sfidare sé stessi a dare il meglio.

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Anche se

appartengono a un

altro millennio, sono

troppo vicini per

essere già storia,

i Novanta che

preannunciano

l’attuale voglia di

contaminazione. Un

melting pot di stili:

la giacca tecnica

Decathlon e lo zaino

Dakine attrezzato per

trasportare gli sci

o le tavole dell’ormai

pervasivo snowboard

(cui sono dedicati i

guanti in gore-tex Rip

Curl) si accordano

con il rigoroso

scarponcino Salomon

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“Con le pelli di focala mia impresa da alpino”

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Sci,snowboard,accessori.Ecco lenovità

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l’incontroVelocità e lentezza

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 NOVEMBRE 2004

Sembra un po’ ingiusto in-contrare da fermo l’uomoche corre. Sospenderlo nel-la sua corsa per domandar-gli se in una vita misurata inmillesimi di secondo e

scandita da frastuoni infernali, ritor-nare per due mesi d’inverno al tempocontato in ore gli porti l’incubo delnulla, nel silenzio della sua grandemaison di quindici stanze sul lago diGinevra, appena mosso dalle risatedei bambini e dalla voce della moglie,che sento parlare dietro di lui, nellaconfusione della partenza per le va-canze oltre mare. Ma vorrei capire co-me viva un dio della velocità costret-to dal calendario a non correre, perquelle settimane di animazione so-spesa tra l’ultima bandiera di ottobree il primo semaforo di marzo. L’inver-no a piedi di Michael Schumacher.

«Andare forte per me è più facile cheandare piano, è vero, ma senza queimesi di vita normale e lenta, non riu-scirei poi a correre per i sette mesi diGran Premi. Senza quel tempo fermo,senza i miei figli che neppure mi guar-dano correre alla televisione, e perfortuna, sarei schiantato dalla fatica edalla tensione. Andare piano è la con-dizione necessaria per andare forte».Un po’ di teoria della relatività? Losento ansimare. Affaticato dal riposoobbligato? «No, sono sulla cyclette epedalo». Neppure quando è fermo,quest’uomo sa stare fermo.

Tutto è davvero relativo, nella di-mensione diversa dove vive l’uomoche considera andare a 300 all’ora inrettilineo andare piano e giocare con ipropri bambini più emozionante cheinfilarsi nella tonnara dopo la parten-za con il branco. L’inverno del suo ri-

poso si muove più in fretta dell’estatedelle corse, perchè cambia la perce-zione del tempo e dello spazio che tor-nano umani. «Andare a 370 all’ora, co-me probabilmente sono andato varievolte, su un rettilineo, non producenessuna sensazione di velocità — an-sima — come volare a 900 chilometriall’ora, per la perfetta stabilià dellemacchine. Mi sembra di andare piùveloce quando vado in macchina aportare i bambini a scuola e devo fre-nare per non superare i limiti».

Frenare, appunto. Passare, dopol’ultima magnum di champagnesprecata dal podio, istantaneamentedalla guerra alla pace, dal fracasso al-la quiete, dal fronte alla casa, unatransizione che non tutti riescono asuperare, come sa ogni reduce de-presso e inquieto. Ma quando glichiedo come consumi i propri giorninegli inverni da pedone, ascolto lastoria di un qualsiasi padre in Panda,soltanto con molte Panda in garage,se le cifre di 80 milioni di dollari in-cassati all’anno raccontate dall’ame-ricana “Forbes Magazine” sono vere.«Faccio colazione, accompagno Micke Gina Maria a scuola, torno a casa afare un po’ di training, a guardare uncanale satellitare di news alla tv, per-chè quando ci sono i bambini non vo-glio che vedano gli orrori del mondo,torno a prenderli a scuola, gioco conloro, facciamo insieme i compiti».Guarda qualche film? «Se è adatto aibambini. Altrimenti li guardo con Co-rinna, con mia moglie, in aereo».

Avevo letto di lui che fosse un uomogelido, distante, e nel conversare trovosoltanto la quieta, al massimo un po’scontrosa, normalità di uno che cercanello spazio prezioso della routine dipadre di famiglia, la disintossicazionedalla droga del talento e dell’adrenali-na che lo consumano per il resto del-l’anno, «e pochi sanno come mi ridu-co senza accorgermene alla fine dellastagione, fisicamente, quando ci fan-no i test medici e mi spavento».

Sono 13 anni, da quando fu pescatonel 1991 per rimpiazzare il pilota fran-cese Gachot, incarcerato a Londra peravere aggredito un tassista, che Mi-chael Schumacher vive il rush dellacurva che gli vola contro dopo il risuc-chio della velocità impercettibile suldiritto, che deve rimbalzare tra glisballi siderali della sua vita da superpilota laureato da ogni record possibi-le — più titoli, pole positions, vittorie,podi, giri veloci di ogni altro — e quel-le ricadute invernali sul mondo dellaquotidianità che gli psicologi defini-rebbero il “crash”, lo schianto. La ec-cezionalità di Schumacher (l’accento,fra le tante storpiature che si sentono,va sulla “a”, parola sua) sta nel suoequilibrio, che pare follia in un mon-do di squilibrati professionali, che ri-

ogni lusso e necessità, che gli ricordale croci disseminate sulle curve e i ret-tifili, che gli sussurra ogni notte dipensare ai bambini e piantarla. Inve-ce lui le dice di essere felice così, dinon avere «sogni ancora aperti», co-me dice anche a me e questo le basta.

Non sogna neppure le corse, le bot-te, le uscite, nel sonno. «Quasi mai»,pedala. «Sono pessimista e fatalista.Se deve venire la mia ora, verrà e ionon ci posso fare niente. Ogni anno,quando si avvicinano le prove dellanuova macchina penso che quest’an-no non ce la farò e qualcuno ci scon-figgerà». Come Joe Louis, il grandepeso massimo che osservava i bambi-ni giocare e scuoteva la testa preoccu-pato, pensando che tra di loro ci fossequello che un giorno lo avrebbe mes-so al tappeto. «Sì, proprio come lui».

Uno come Schumacher avrebbe ildiritto di avere incubi, nel silenzio ap-piedato del lago d’inverno e dellagrande proprietà, un “domain”, co-me si chiama in francese, mentreguarda il calendario scivolare verso ilvia a marzo e di sentire, quando ri-pensa a una gara, l’immensa solitudi-ne del pilota. Quel senso di solitudinee di fragilità che afferrava i primiastronauti sparati in cielo da soli, sulcucuzzolo di missili sperimentali, inbalia di altri. E pregavano, come con-fessava l’americano Sheppard quan-do avvertiva sotto il sedere le prime vi-brazioni dei motori che «i costruttorinon avessero risparmiato troppo suimateriali».

Se la tua vita è appesa a una orga-nizzazione, da Montezemolo al mec-canico che fissa un bullone o stringeuna ruota, probabilmente è inevita-bile diventare fatalisti. Ma non siamoforse così tutti noi che voliamo, che cituffiamo in un’autostrada, che ci affi-diamo alla competenza del condutto-re del treno e del capostazione? «Nonmi sento neppure tanto solo, poi. Ab-biamo cento persone che lavorano inpista attorno alla macchina e comu-nico con la base continuamente. Mele sento tutte attorno, sedute con mesulla macchina, quando guido». Ahecco, un po’ di fantasia c’è, ma sol-tanto in positivo. Immaginazionecontrollata, e furba, come la guida.

Un guerriero che non ha paura del-la pace è un guerriero molto fortuna-to, molto saggio o molto coraggioso.E’ uno che sa usare il tempo del com-battimento per gustarsi il riposo, esfruttare il tempo della pace per ritro-vare la voglia della battaglia. «Non honessun problema di transizione dallacorsa alla casa, quando finisco di la-vorare, cioè di correre, divento un al-tro e poi viceversa. L’inverno a piedinon mi spaventa, anzi, lo aspetto conla stessa ansia con la quale aspetto lanuova macchina».

fiutano di ascoltare l’istinto di soprav-vivenza e staccare il piede.

Deve essere stato benedetto da Dio,un Dio nel quale dice di credere masenza frequentare chiese o riti oga-nizzati, da una invidiabile mancanzadi immaginazione e di fantasia, oltreche da una moglie che gli dice sempli-cemente di fare quello che vuol fare,fino a quando lo vuole fare. Noi che vi-viamo nella dimensione delle tan-genziali intruppate e del cambio del-l’olio, dottore, torni dopodomani,vorremmo immaginare una moglieleggermente isterica, che negli inver-ni appiedati del marito lo tormentacon la preghiera di smettere un me-stiere che ormai lo ha fatto ricco, in-sieme con il figli e i futuri nipoti, oltre

«Quick», mi dice nel suo inglesepuntiglioso e preciso come la sua ma-niera di guidare, rapido, immediato edeve essere vero, perchè la sensazio-ne che lascia l’aver parlato con il pe-done più veloce del mondo, costrettoa pedalare furiosamente sulla cyclet-te per trascorrere il suo inverno fa-cendo chilometri senza muoversi, èche ci sia qualcosa di morbido, sottola corazza, di flessibile sotto il leggen-dario equilibrio, una paura che non èquella di andare sparato in una curva,ma di spezzare il guscio del silenzioinvernale che lui si è costruito attor-no, per difendersi. E soprattutto perdifendere quei due bambini, che de-vono ricordargli la propria infanziasulla pista di kart, costretta a trasloca-re perchè gli abitanti del paese non nepotevano del rumore, fino a quando,dopo avere vinto il mondiale di For-mula 3, portò al padre, letteralmente,fisicamente, una valigia piena di sol-di, di sterline inglesi, che distribuiro-no anche ad amici disperati.

Naturalmente, come in tutte le sanefamiglie, sono in realtà i bambini chedifendono i genitori, sono Mick e GinaMaria che proteggono lui da un mon-do tenuto rigorosamente fuori da uninverno a piedi gustato e atteso, aiu-tandolo a mantenere i piatti della bi-lancia interiore in equilibrio ed è fintroppo facile capirlo. Quando gli do-mando se stia partendo in vacanza, suljet personale, con Corinna e anche conMick e Gina Maria, mi risponde conuna risata incredula, come se gli aves-si chiesto se ha la patente di guida.«Sempre — lo scandisce — ma sem-pre, vado in vacanza con i bambini, al-trimenti che vacanza e che riposo sa-rebbero?». Sarebbero le vacanze di unpazzo che non sa più correre adagio,neppure nell’inverno a piedi, quandomatura il frutto della velocità futura.

“Andare forte, perme, è più facile cheandare piano masenza questo tempofermo sareischiantato dallafatica e dallatensione: andarepiano è la condizionenecessaria perandare forte”

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VITTORIO ZUCCONI

Èil campione dei campioni, il pilotache da marzo a ottobre vince su tutti i circuiti di Formula Uno spingendo la sua Ferrari a 370 all’ora. Oggi

incontriamo da fermo l’uomoche corre e gli facciamoraccontare il suoinverno a piedi.Per capire come si fa a mantenerel’equilibrioquando, dentro

una vita misurata in millesimi di secondo, si ritorna per due mesiall’anno al tempo contato in ore

Michael SchumacherM

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