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D Laomenica - La Repubblica.it - News in tempo reale - Le notizie e i video di...

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DOMENICA 2 LUGLIO 2006 D omenica La di Repubblica cultura Paco Taibo II racconta Pancho Villa MASSIMO CALANDRI e PACO IGNACIO TAIBO II la memoria Balenciaga, nostalgia della perfezione NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI la lettura I miraggi dell’orto delle meraviglie MARCO LODOLI e ROSSELLA SLEITER spettacoli Ostaggi della muzak, tappezzeria sonora ERNESTO ASSANTE e MICHELE SMARGIASSI PARIGI A ccadeva nell’agosto del 1936, sulla strada della Normandia, in prossimità di Alençon, al limita- re della foresta di Perseigne, tra la capitale e le pallide spiagge sulla Manica. Una pianura soffi- ce, tagliata da corsi d’acqua, squadrata da confini geometrici tra boschi e prati, e da doppi filari d’alberi diafani e svolazzan- ti come coriandoli. Oggi quel paesaggio elegante lo si attraver- sa distrattamente sull’autostrada, andando a Deauville o a Honfleur, dove tanti parigini passano i fine settimana. Allora le strade si tuffavano nel cuore della campagna normanna, si im- mergevano nelle luci e nei colori raccontati da Flaubert e da Proust, e raffigurati da Monet. Prima dell’estate del ‘36 nel traffico rurale si distinguevano le automobili delle famiglie borghesi dirette agli ippodromi, ai casinò e agli stabilimenti balneari dei grandi alberghi sulla co- sta. Fu uno scandalo quando lungo quell’itinerario compar- vero colonne di ciclisti e treni traboccanti operai con mogli e figli, con sacchi da montagna e bottiglie di vino. Le immagini cambiarono. I nuovi villeggianti non venivano dai quartieri della Parigi benestante, né dal Faubourg Saint-Germain né dalla Plaine Monceau, ma da quelli popolari descritti nei film il reportage Il collezionista dei contratti di schiavitù FEDERICO RAMPINI BERNARDO VALLI di Duvivier e di Renoir. Dei quali il divo del momento, Jean Ga- bin, ex ballerino delle Folies-Bergère ed ex cantante di music hall, era l’eroe, con la sua faccia da operaio. Era una conquista e un’invasione. Un successo e una violazione. Per alcuni, per molti borghesi, uno stupro del paesaggio della “doulce Fran- ce”. Per gli altri un abbraccio alla stessa dolce Francia. * * * Un redattore di L’écho de Paris, trovandosi in quei giorni ap- punto in prossimità della foresta di Perseigne, inciampò in una comitiva di scolari guidati dal maestro e con meta il ma- re. Cantavano a squarciagola l’Internazionale e nei loro sguar- di il giornalista vide «lampi d’odio». Ne fu traumatizzato a tal punto che, spinti i suoi quattro figli in automobile, saltò al vo- lante e si allontanò di gran fretta per sfuggire a quelle occhia- te ostili. Secondo lui assassine. Scrisse poi, raccontando l’av- ventura, di avere visto la Francia ferita a morte da quell’irru- zione popolare, proletaria, in luoghi superbi, sublimi, e al- l’improvviso inquinati dall’odio e dalle note dell’Internazio- nale. La «brava gente» doveva difendere con tutti i mezzi la pa- tria violentata. Su una rivista di estrema destra, Combat, la reazione fu ancora più dura. Gli operai in marcia verso il ma- re e la montagna, o già accampati sulle spiagge mediterranee e atlantiche e nelle valli alpine, vi erano paragonati ai «barba- ri germani» e come tali da prendere a fucilate. (segue nella pagina successiva) le tendenze Ballerine, e le donne scesero dai tacchi LAURA ASNAGHI e LEONETTA BENTIVOGLIO Rivoluzione vacanze Settant’anni fa in Francia il Fronte popolare vara la legge delle ferie pagate E colonne di proletari partono alla conquista di spiagge e vette FOTO HENRI CARTIER-BRESSON/MAGNUM-CONTRASTO Repubblica Nazionale 27 02/07/2006
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DOMENICA 2 LUGLIO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

cultura

Paco Taibo II racconta Pancho VillaMASSIMO CALANDRI e PACO IGNACIO TAIBO II

la memoria

Balenciaga, nostalgia della perfezioneNATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI

la lettura

I miraggi dell’orto delle meraviglieMARCO LODOLI e ROSSELLA SLEITER

spettacoli

Ostaggi della muzak, tappezzeria sonoraERNESTO ASSANTE e MICHELE SMARGIASSI

PARIGI

Accadeva nell’agosto del 1936, sulla strada dellaNormandia, in prossimità di Alençon, al limita-re della foresta di Perseigne, tra la capitale e lepallide spiagge sulla Manica. Una pianura soffi-

ce, tagliata da corsi d’acqua, squadrata da confini geometricitra boschi e prati, e da doppi filari d’alberi diafani e svolazzan-ti come coriandoli. Oggi quel paesaggio elegante lo si attraver-sa distrattamente sull’autostrada, andando a Deauville o aHonfleur, dove tanti parigini passano i fine settimana. Allora lestrade si tuffavano nel cuore della campagna normanna, si im-mergevano nelle luci e nei colori raccontati da Flaubert e daProust, e raffigurati da Monet.

Prima dell’estate del ‘36 nel traffico rurale si distinguevanole automobili delle famiglie borghesi dirette agli ippodromi, aicasinò e agli stabilimenti balneari dei grandi alberghi sulla co-sta. Fu uno scandalo quando lungo quell’itinerario compar-vero colonne di ciclisti e treni traboccanti operai con mogli efigli, con sacchi da montagna e bottiglie di vino. Le immaginicambiarono. I nuovi villeggianti non venivano dai quartieridella Parigi benestante, né dal Faubourg Saint-Germain nédalla Plaine Monceau, ma da quelli popolari descritti nei film

il reportage

Il collezionista dei contratti di schiavitùFEDERICO RAMPINI

BERNARDO VALLIdi Duvivier e di Renoir. Dei quali il divo del momento, Jean Ga-bin, ex ballerino delle Folies-Bergère ed ex cantante di musichall, era l’eroe, con la sua faccia da operaio. Era una conquistae un’invasione. Un successo e una violazione. Per alcuni, permolti borghesi, uno stupro del paesaggio della “doulce Fran-ce”. Per gli altri un abbraccio alla stessa dolce Francia.

* * *Un redattore di L’écho de Paris, trovandosi in quei giorni ap-

punto in prossimità della foresta di Perseigne, inciampò inuna comitiva di scolari guidati dal maestro e con meta il ma-re. Cantavano a squarciagola l’Internazionale e nei loro sguar-di il giornalista vide «lampi d’odio». Ne fu traumatizzato a talpunto che, spinti i suoi quattro figli in automobile, saltò al vo-lante e si allontanò di gran fretta per sfuggire a quelle occhia-te ostili. Secondo lui assassine. Scrisse poi, raccontando l’av-ventura, di avere visto la Francia ferita a morte da quell’irru-zione popolare, proletaria, in luoghi superbi, sublimi, e al-l’improvviso inquinati dall’odio e dalle note dell’Internazio-nale. La «brava gente» doveva difendere con tutti i mezzi la pa-tria violentata. Su una rivista di estrema destra, Combat, lareazione fu ancora più dura. Gli operai in marcia verso il ma-re e la montagna, o già accampati sulle spiagge mediterraneee atlantiche e nelle valli alpine, vi erano paragonati ai «barba-ri germani» e come tali da prendere a fucilate.

(segue nella pagina successiva)

le tendenze

Ballerine, e le donne scesero dai tacchiLAURA ASNAGHI e LEONETTA BENTIVOGLIO

Rivoluzionevacanze

Settant’anni fa in Franciail Fronte popolare varala legge delle ferie pagate E colonne di proletari partonoalla conquista di spiagge e vette

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la copertinaRivoluzione vacanze

Nell’estate del 1936, a poche settimane dalla vittoriaelettorale, il governo presieduto da Léon Blumfa approvare in Parlamento la legge sui “congés payés”Due settimane di ferie all’anno che non figuravanonel programma e nemmeno nelle rivendicazioni sindacaliUn nuovo diritto che ha cambiato la vita di tutti

BERNARDO VALLI

SUCCESSI INIZIALI

Nel 1935 l’alleanza tra

socialisti della Sfio e Pcf

si afferma alle municipali

Nel 1936 il Fronte popolare

vince le elezioni in Spagna

stetizza soltanto, non cancella, la sem-pre più evidente disuguaglianza della“condizione”. Insomma, trionfa l’indi-vidualismo, e viene decretata la conse-guente parità di diritti degli individui (aldi là della loro appartenenza etnica o so-ciale), ma al tempo stesso quel che ideo-logicamente non è più ammissibile di-venta, resta inevitabile nella realtà eco-nomica e sociale della nostra epocaugualitaria in cui prevale, appunto, la di-suguaglianza delle condizioni. La qualecompromette spesso la parità delle oc-casioni offerte agli individui.

* * *Allora, nella Francia in cui trionfa il

Fronte Popolare (e il trionfo sarà effime-ro, il primo governo durerà soltanto unanno), il problema si pone in terminimolto più rozzi. Più brutali. Al di là delleapparenze e nonostante la retorica uffi-ciale, l’impermeabilità delle classi è me-glio preservata di quanto lo sia in molti al-tri paesi avanzati e democratici. La Fran-cia degli anni Trenta non esprime una so-cietà esemplare sul terreno dell’ugua-glianza. Le rapide ascese sociali raccon-tate nella letteratura, nei romanzi di JulesRomains e nelle commedie di Jean Gi-raudoux, non hanno molti riscontri nel-la realtà. I discorsi infiammati alla tribu-na di Palazzo Borbone, con cui i deputa-ti esaltano i principi repubblicani, non ri-specchiano sempre quel che accade fuo-ri dal Parlamento. Il ritratto del Paese fat-to dagli storici è piuttosto grigio. Tra ledue guerre mondiali, l’alcolismo e la tu-bercolosi portano la mortalità maschile,soprattutto tra gli operai, a livelli scono-sciuti nelle altre nazioni industrializzate.La popolazione attiva rappresenta appe-na il cinquanta per cento, ed è una popo-lazione vecchia, poiché meno di un abi-tante su tre è sotto i vent’anni. Se alcuneregioni, attorno a Parigi e a Lione, nellevalli della Senna e del Rodano, vivonouna veloce modernizzazione, altre cono-scono un brusco impoverimento: nelSud, nell’Ovest e nel Sud Ovest: dal Midialla Bretagna e alla Guascogna. Gli agri-coltori subiscono il ribasso dei prezzi dei

loro prodotti. E i lavoratori dell’industria,i più numerosi, hanno visto i salari dimi-nuire del quindici per cento in cinque an-ni, in seguito alla politica deflazionistadel governo Laval. Non manca la disoc-cupazione, che sfiora il milione.

* * *Ma più dei salari in ribasso e della di-

soccupazione che rischia di diventarecronica, pesa la condizione operaia: i rap-porti umani sul lavoro sono sempre me-no tollerabili e tollerati. Henri Dublef pa-ragona (in Le Déclin de la IIIe République,Le Seuil, 1976) la vita in fabbrica alla vitain caserma: con gli aspetti positivi e nega-tivi di un paternalismo (il “fordismo”),che comporta una disciplina rigorosa,dal controllo puntiglioso degli orari al-l’assenza di pause durante i turni. A ren-dere l’atmosfera più soffocante sono iservizi di spionaggio delle grandi azien-de, alla costante caccia di sindacalisti,militanti socialisti e comunisti, o di sem-plici lettori di giornali di sinistra. I quali,appena scoperti, vengono licenziati. Lamediocrità delle abitazioni nelle ban-lieues, descritte da un medico che vi haesercitato la professione (Louis-Ferdi-nand Céline in Voyage au bout de la nuit,pubblicato proprio in quegli anni, 1932)non contribuisce a migliorare la vita deglioperai.

* * *Nella società urbana, ormai maggiori-

taria rispetto a quella rurale, la bottegavive invece momenti felici. La boutique èil tipico luogo del sistema di scambiofrancese, ed è esaltata, favorita dal pote-re che la considera un solido bastionecontro il comunismo e il socialismo. È ilconcreto, più visibile simbolo della li-bertà di mercato. Al contrario di chi vivedi modeste rendite, dei proprietari dipiccole imprese, e in generale del restodelle classi medie, i bottegai non sonostati decimati dalla crisi del ‘29, appro-data in ritardo sulla costa europea del-l’Atlantico. Di fronte allo Stato, che li te-me, essi brandiscono la minaccia del fa-scismo, con il quale si schierano, se ne-cessario, per difendere i loro interessi. La

stagione è favorevole al fascismo: il qua-le è al potere in Italia da quasi tre lustri, inGermania da tre anni, ed è da pochi gior-ni approdato in Spagna, dove il 18 luglioè scoppiata la guerra civile.

* * *La vittoria del Fronte Popolare (for-

mato da socialisti, radicali e comunisti,con quest’ultimi, i comunisti, fuori dalgoverno) è avvenuta tra gli insistenti,spesso angosciati, appelli antifascisti,non inascoltati nella Francia repubbli-cana in cui rimbalzano le arroganti ri-vendicazioni delle vicine dittature, al dilà delle Alpi e del Reno. I movimenti fa-scisteggianti trovano un terreno favore-vole anche tra il Mediterraneo e l’Atlan-tico, nella Francia rurale e urbana in cuile ferite della Grande Guerra (un milionee mezzo di morti) non si sono ancora ci-catrizzate. E sono ferite che stimolano losciovinismo. Quei movimenti, standoagli osservatori più allarmisti, alimenta-no nel Paese la minaccia di una non lon-tana guerra civile. L’antifascismo hacontribuito, anzi determinato, in quel-l’agitato, tormentato 1936, la prima veraunione della sinistra, dopo il fragile, e co-munque incompleto e ormai remoto,Cartel des Gauches del 1924.

Tra coloro che non hanno preso trop-po sul serio i richiami antifascisti, e rifiu-tano di vedere le tragedie che si profilanoall’orizzonte politico europeo, ci sonocuriosamente due giovani professori:una coppia destinata ad avere un ruolo digrande rilievo nella sinistra, perlomenoquella intellettuale, non soltanto france-se, un decennio dopo. Mentre il FrontePopolare si prepara a governare, dopo ilvoto del 3 maggio, Jean Paul Sartre e Si-mone de Beauvoir vanno in vacanza aVenezia, dove vogliono vedere i quadridell’amato Tintoretto, scoperto nel mu-seo del Prado, durante un viaggio a Ma-drid. Scendono poi a Napoli, ma non pre-stano attenzione alle navi cariche di sol-dati diretti in Etiopia, dove l’Italia fascistaha appena conquistato un effimero im-pero. In quanto al putsch del generaleFranco, i due giovani professori francesi

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

PRIMI DISORDINI

Lo scandalo finanziario noto

come “affaire Stavisky”

scatena nel ’34, a Parigi,

violente manifestazioni

di destra e di sinistra

(segue dalla copertina)

Con più ironia il Canard en-chaînépubblicò, il 12 ago-sto, una vignetta in cuiuna borghese ingioiellata,immersa in una vasca po-sata proprio sul bagna-

sciuga, diceva indignata, indicando lafolla scamiciata e in mutande che lestava intorno: «Non posso certo condi-videre l’acqua con quei bolscevichi».

* * *Tra l’entusiasmo di chi aveva conqui-

stato il diritto a un tempo libero retribui-to, e lo smarrimento indignato di chi per-deva l’esclusiva di un tradizionale privi-legio di classe, è cominciata la prima sta-gione dei “congés payés”, delle vacanzepagate, votate dal Parlamento appenariunito dopo la vittoria elettorale delFronte popolare. Sono trascorsi set-tant’anni e, mentre il rito estivo delle va-canze si ripete come una routine, le lon-tane immagini della Francia popolareche scopre il mare e le Alpi, il camping, gliostelli della gioventù e le gite in bicicletta,sono quelle di una pacifica e riuscita ri-voluzione sociale e culturale.

Sono immagini che occupano un po-sto particolare nella mitologia della sini-stra, non soltanto francese. La nostraepoca, quella in cui viviamo, è forse la piùintransigente nell’intera storia dell’uo-mo, per quanto riguarda l’uguaglianzache possiamo chiamare “identitaria”.Un’uguaglianza che non ammette di-scriminazioni codificate tra classi socia-li (come tra bianchi e neri, tra uomini edonne, tra eterosessuali e omosessuali,tra sani e handicappati...). Il riconosci-mento formale dell’uguaglianza siestende sempre di più: ed è un’innega-bile e irrinunciabile conquista. Questasensibilità culturale, spesso tradotta inleggi, ha tuttavia limiti precisi: essa ane-

PROPOSTA A SINISTRA

Il leader comunista Maurice

Thorez auspica nel 1934

un «Fronte popolare

del lavoro, della libertà

e della pace»

LA STORIA

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IN TANDEM

Una foto di Roger-ViolletIn copertina, una celebrefoto di Henri Cartier-Bresson scattatanell’estate 1936 sulle rive della MarnaIn basso, le prime paginedi due riviste dell’epoca

Col Fronte popolarela libertà in busta paga

in vacanza, Simone e Jean Paul, lo giudi-cano un avvenimento di breve durata. Lapolitica non li esalta. Diffidano dei co-munisti e si sono ben guardati dal votare,prima di lasciare Parigi.

* * *Mentre Sartre e de Beauvoir visitano

Napoli e Pompei, la Francia conosce mo-menti di intensa esaltazione e di altret-tanta intensa paura. Il risultato del se-condo turno delle legislative, annuncia-to il 4 maggio, oltre alla vittoria ineditadella sinistra unita, riserva un’altra nontanto trascurabile sorpresa. Il Partito so-cialista (Sfio: Sezione francese dell’Inter-nazionale operaia) ha ottenuto più votidelle altre formazioni del Fronte, e quin-di Léon Blum, suo più alto esponente,sarà il presidente del Consiglio. La suapresenza alla testa del governo darà al-l’impresa un tono, un significato partico-lare. Nel febbraio dello stesso anno Blumè stato aggredito e ferito dai militanti diestrema destra dell’Action Française, nelcentro di Parigi, al grido di «A morte l’e-breo». E quando riceve l’incarico di for-mare il nuovo governo da Albert Lebrun,il Presidente della Repubblica, è appenauscito da una lunga convalescenza. Hasessantaquattro anni, i baffi spioventi, icapelli lunghi bianchi, un fisico allampa-nato che contrasta con quello correntetra i politici di allora, piuttosto corpulen-ti, rotondi, spesso con una pancia che ri-schia di far saltare i bottoni del gilet. Hagesti aristocratici (ma non l’andatura,dettata dai piedi piatti) e uno sguardo iro-nico, dietro le lenti del pince-nez. In gio-ventù ha conosciuto forti ambizioni let-terarie, ed è stato critico e saggista in rivi-ste che tra i collaboratori contavanoProust e Zola. È stato anche poeta (pessi-mo, secondo Gide). Passa le sere nella re-dazione del Populaire, dove scrive e ri-scrive per ore i suoi articoli, di cui cambiacinque anche sei volte l’attacco. Un suobiografo (Jean Lacouture, Léon Blum, LeSeuil, 1977) lo presenta come l’intellet-tuale che tenta di far sopravvivere le tresintesi del socialismo riformista (di JeanJaurès): far convivere l’idealismo e il ma-

terialismo, il riformismo e la rivoluzione,il patriottismo e l’internazionalismo. Ilsuo socialismo cerca di conciliare la ri-volta contro l’ingiustizia e l’esigenza del-la ragione.

* * *Léon Blum accetta l’incarico di forma-

re e presiedere il nuovo governo, ma, co-me vuole la regola, aspetta un mese pri-ma di assumerne le funzioni. In quell’in-tervallo accadono tante cose. La borghe-sia spaventata fa uscire dal Paese almenosette miliardi di franchi. La fuga di capi-tali indebolisce ancor più la esausta eco-nomia. E nel frattempo la tensione salenelle fabbriche. È un’eccitazione senzaviolenza, in cui prevale la gioia inconte-nibile, gonfia di speranza, per la vittoriaelettorale della sinistra. Gli scioperi e iconflitti sociali cominciati il 1° maggio,tra i due turni del voto, quando già si pro-filava il successo del Fronte, si estendonodalle cartiere e dalle officine aeronauti-che a tutta la siderurgia. Il giorno in cuiBlum si presenta in Parlamento, il 6 giu-gno, gli scioperanti sono due milioni. Emolte fabbriche sono occupate. Sono oc-cupati anche i grandi magazzini Lafayet-te, dove si organizzano balli e si cantanole canzoni di Prévert, che con altri scrit-tori partecipa allo sciopero che è ancheuna festa. André Malraux, tra poco co-mandante di una squadriglia repubbli-cana in Spagna, è in testa a una delle co-lonne di parigini (più di un milione) cheil giorno della festa nazionale, il 14 luglio,sfilano in Place de la Nation, davanti alpalco su cui ci sono Blum e il suo gover-no, con alle spalle una grande scritta: Abas la guerre! Vive la Paix!

* * *In quel contesto, mentre nelle fabbri-

che si sciopera e si festeggia, e mentre cre-sce l’inquietudine del mondo degli affa-ri, emerge l’idea dei “congés payés”. Piùcome una rivendicazione di benesseregenerale e di identità culturale popolareche come un’esigenza materiale e di ca-tegoria. Il diritto alle vacanze pagate di-venta il prolungamento estivo di un mo-vimento sociale che non si sa come rias-

sorbire. Léon Blum capisce il valore sim-bolico che il riconoscimento di quel di-ritto può assumere. Non è nel program-ma originario del Fronte Popolare, maviene subito affiancato alle principaliriforme: la settimana di quaranta ore, icontratti di lavoro nazionali e gli aumen-ti dei salari. Riassumendo si può dire chegli operai escono dalle fabbriche occupa-te per riversarsi sulle strade che condu-cono al mare e in montagna.

Qualche anno dopo, nella Francia oc-cupata dai nazisti, davanti al tribunale diRiom che lo accusa di non aver prepara-to la Francia alla guerra, Léon Blum spie-gherà con efficace semplicità l’effettodelle vacanze pagate: «Non sono uscitospesso dal mio ufficio durante il mio mi-nistero; ma ogni volta che ne sono uscito,che ho attraversato la grande periferiaparigina e che ho visto le strade coperteda colonne di vecchie automobili, di mo-tociclette, di tandem, di coppie di operaicon indosso pullover ben assortiti, i qua-li mostravano quanto l’idea di tempo li-bero svegliasse anche in loro una certa ci-vetteria naturale e semplice; tutto questomi ha reso consapevole che, attraversol’organizzazione del lavoro e del tempolibero, avevo nonostante tutto apertoqualcosa di simile a una schiarita in vitedifficili, oscure... che avevo creato in lorouna speranza».

* * *Le vacanze pagate non figuravano

neppure nelle rivendicazioni del piùgrande sindacato (la Cgt). Per il quale ilvalore che più contava era il lavoro. Nonla vacanza. Non il tempo libero. Non sivoleva dare l’idea che gli operai chiedes-sero di «essere pagati per non fare nien-te». Sarebbe stata insomma una rivendi-cazione illusoria, esagerata, contropro-ducente. Avrebbe macchiato l’immagi-ne del «popolo che ama il proprio lavo-ro». Un anno prima, durante uno sciope-ro alla Renault, le vacanze pagatevenivano all’undicesimo posto nella listadelle richieste. Dopo la domanda di «unparcheggio per le biciclette».

I “congé payés” esistevano già in tanti

altri Paesi. E il concetto di tempo liberoera ben radicato nelle socialdemocraziescandinave. Nel cuore dell’Europa, trabreve campo di battaglia, nella giovaneRepubblica Cecoslovacca, una delle so-cietà più industrializzate e avanzate del-l’epoca (e anche la più vulnerabile, chepresto sarebbe stata soffocata da Hitler),le palestre frequentate dagli operai eranoi templi della democrazia. Nell’Italia fa-scista c’era il Dopolavoro e nella Germa-nia nazista il Kraft durch Freude. Il Fron-te popolare non inventava dunque un belnulla. Fu l’intelligenza di Blum, e l’inven-tiva di Léo Lagrange, sottosegretario alloSport e al Tempo libero, a dare smalto aun’idea tutt’altro che nuova.

Lagrange era un avvocato, aveva tren-tasei anni, era un pezzo d’uomo, appas-sionato e silenzioso. Era un assiduo mili-tante socialista, deputato d’Avesnes(Nord) e, per l’aspetto imponente, atleti-co, e il carattere deciso, sembrava desti-nato a esercitare il potere. Léon Blumpensa subito a lui quando cerca di dareun ampio senso, sociale e culturale, allariduzione della settimana lavorativa (aquaranta ore) e al diritto alle vacanze pa-gate (due settimane all’anno), che crea-no un tempo libero a disposizione dellaFrancia popolare. Lagrange annunciasubito che in una società democraticanon si tratta di «caporalizzare» i diverti-menti e i piaceri delle masse come acca-de nelle dittature, dove esistono organiz-zazioni incaricate di gestire i passatempidella gente affinché essa non pensi, nonrifletta. Ognuno deve poter scegliere(«nella gioia e nella dignità») come usareil proprio tempo libero. In qualche meseLagrange progetta e realizza strutturesportive. Ma subito, nell’estate del ‘36, ot-tiene dalle Ferrovie dello Stato il quaran-ta per cento di sconto per gli operai diret-ti al mare e in montagna. Così favoriscequella che Blum chiamava «la riconcilia-zione con la vita naturale degli operai se-parati e frustrati».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 2 LUGLIO 2006

FUORI I SOCIALISTI

L’unità della coalizione

si sfalda il 10 aprile del 1938

quando Édouard Daladier

forma un governo radicale

senza ministri della Sfio

TRIONFO STORICO

Nelle politiche del 1936

il Fronte conquista

il Parlamento. A giugno

il socialista Léon Blum

costituisce il suo governo

A PALAZZO MATIGNON

La maggioranza approva

un accordo su ferie pagate,

settimana di quaranta ore

e libertà sindacale

che diventa subito legge

LA STORIA

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PECHINO

«Il marito Yang e la moglie Zhang non vanno d’ac-cordo e non possono vivere più insieme». Di-pinto a grosse pennellate d’inchiostro nero inideogrammi cinesi su una sottile carta di riso, il

testo s’inizia come fosse una sentenza di divorzio. Poi peròcambia la natura giuridica, e cambia anche il soggetto, passan-do di colpo alla prima persona singolare: «Di conseguenza ioYang vendo qui mia moglie Zhang per 270 yuan, davanti a duetestimoni. Nessun membro della famiglia potrà fare opposi-zione. Dopo la vendita Yang è liberata dal dovere di portare ilmio cognome. Anno 1930». Un’altra pergamena è in carta dibambù, colorata di rosso. «Sono diventato prigioniero dell’op-pio, non posso cambiare questa cattiva abitudine, devo vende-re le mie proprietà. La terra che possiedo negli ultimi anni hadato magri raccolti, a causa della siccità vale poco. Con questodecido di vendere mia moglie Zhou per 28 dollari d’argento. Fir-mato Yu, anno 1928».

Questi documenti eccezionali sono contratti di vendita diesseri umani, regolarmente stipulati in Cina fino a pochi de-cenni fa (e forse ancora adesso). Le carte d’epoca, tutte origi-nali, fanno parte di unacollezione privata unica almondo. Un avvocato disuccesso, Ding Haihua,che lavora per uno dei piùimportanti studi legali diPechino, nel tempo liberocoltiva una passione sin-golare. Da anni setacciaogni angolo della Cina allaricerca di questi reperti.Dalle soffitte dei contadi-ni nelle campagne pove-re, fino ai mercatini dell’u-sato di Pechino e Shan-ghai, il denaro e la pazien-za di Ding hanno messoassieme un archivio diprodigioso interesse perricostruire una dimensio-ne tragica della storia ci-nese: la secolare consue-tudine dei poveri di ven-dere i propri familiari e ri-durli in schiavitù — i figliper lavorare nei campi al-trui, mogli e figlie comeserve e concubine. Esiste anche la variante dell’affitto, i con-tratti a termine in cui un contadino cede a pagamento la pro-pria moglie a un uomo per qualche anno e poi ha il diritto di re-cuperarla, a condizione però che in quel periodo la donna ab-bia dato all’altro almeno un figlio maschio.

Tutti questi contratti “maledetti”, un piccolo museo dell’or-rore, sono preziosi e rari. I firmatari se ne vergognavano e li di-struggevano non appena possibile, per evitare che venissero ri-trovati dai propri discendenti. Lo schiavismo, pur essendo sta-to praticato in Cina per millenni — fu il metodo più diffuso disaldare i debiti da parte degli agricoltori rovinati dalle ricorren-ti calamità e carestie — ufficialmente fu abrogato e messo fuo-rilegge dall’imperatore Kangxi dopo la sua ascesa al trono nel1654, per placare i moti violenti di ribellione dei servi che ri-schiavano di destabilizzare la dinastia Qing. Ma come dimostrala sbalorditiva raccolta privata dell’avvocato Ding, la messa albando imperiale è stata disattesa, il commercio di esseri uma-ni ha prosperato in tutte le epoche fino alla nostra.

I contratti sono testimonianze importanti, tesori di storia cherivelano le condizioni di vita di un popolo. Per consuetudine ilvenditore si premura sempre di citare le motivazioni, le sciagu-re che lo spingono a separarsi dal familiare o in certi casi a ven-dere se stesso. Da quelle brevi e scarne frasi di giustificazioneche introducono immancabilmente l’atto di vendita, si intui-

sce che la diffusione di questa pratica non l’ha resa meno abiet-ta. Se alcuni missionari europei all’inizio del Novecento aveva-no coniato un giudizio sprezzante sulla coscienza del popolocinese — «per loro vendere il maiale o il figlio è la stessa cosa» —, i documenti legali rivelano una realtà diversa. Si indovina inquei poveri disgraziati uno scrupolo morale, trapela l’ansia delvenditore di giustificarsi agli occhi degli altri, di invocare com-prensione mentre sta per commettere l’irreparabile.

Il pezzo più antico della collezione risale all’epoca dell’im-peratore Wan Li, dinastia Ming, anno 1578. Per la qualità dellacarta e la bellezza della calligrafia — merito dello scrivano lega-le di allora — è a modo suo un’opera d’arte. In questo caso lacoppia dei Ma, marito e moglie, decidono di cedersi insieme alSignor Zhao per 15 monete d’argento. «Siamo stati colpiti da undisastro naturale. Abbiamo perso il raccolto. Ci vendiamo vo-lontariamente. In seguito alla vendita ci trasferiamo a vivere nelluogo dedicato alle tombe degli antenati di Zhao e ne diventia-mo i guardiani. Coltiveremo il terreno adiacente. Daremo metàdel raccolto al padrone. La morte estingue il contratto, pertan-to Zhao non sarà tenuto a pagarci le spese di sepoltura».

Un balzo in avanti di tre secoli, e la situazione non migliora.È del 1890 il caso di una madre che deve dare via il terzo figlio.Nel contratto esige che siano spiegate le circostanze: «I bam-bini piangono giorno e notte per la fame e per il freddo, decido

di vendere il piccolo di treanni perché gli altri soprav-vivano. Con questo lui ces-sa di essere mio e diventa ilfiglio di Liang che può cam-biargli il nome e prendereogni decisione sulla suaeducazione. Non ci saràmai più un contatto tra me eil bambino».

La fame atavica, la piog-gia che non arriva oppurearriva troppo violenta e pro-voca inondazioni devastan-ti, i raccolti che negli annibuoni bastano appena perla sussistenza, le tasse esose,le scorribande mortali deisignori della guerra, la cru-deltà degli usurai, infinel’oppio che dilaga soprat-tutto dall’Ottocento in poi esemina la miseria anche trafamiglie borghesi: è un do-lente affresco di secoli di pri-vazioni, di soprusi e di soffe-renze, ricostruito in un mo-

saico di micro-testimonianze personali trascritte su questicontratti. Fino a spingersi in epoche sempre più vicine. Anno1929, il contadino Dang non ha neppure i soldi per pagarsi loscrivano, il suo contratto è redatto nella rozza calligrafia di unsemianalfabeta, pieno di errori e appena leggibile: «La mia vitaè miserabile. Vendo il mio quarto figlio alla famiglia che può far-ne quello che vuole, io perdo ogni diritto e non avrò più nulla ache fare con lui».

Anche i poveri non sono uguali fra loro. Questi contratti rive-lano la sorte particolarmente ingrata delle donne cinesi, com-prate e vendute da padri, mariti, fratelli, suoceri che possono di-sporre di loro come merci. Le cinesi fino alla caduta della dina-stia Qing nel 1911 non hanno personalità giuridica, non pos-siedono né ereditano beni. La nascita di una figlia è una disgra-zia persino per una famiglia ricca, costretta a stanziare una do-te importante per maritarla; tra i contadini le bambine sono unpeso così insopportabile da essere non solo vendute ma spes-so uccise. La scrittrice americana Pearl S. Buck, cresciuta in Ci-na, nel suo romanzo La buona terradel 1931 offre agli occiden-tali uno dei primi affreschi moderni e realistici di una società pa-triarcale dai costumi feroci, dove nelle campagne il matrimo-nio impone obblighi di servitù, e alle ragazze di buona famigliaè imposta la penosa menomazione dei “piedi fasciati”. Nellacollezione dell’avvocato Ding un contratto del 1935 è dettato dauna moglie abbandonata: «Mio marito è partito da undici anni

FEDERICO RAMPINI Cercando queste carteDing insegue un ricordofamiliare: tutte le sorelledella madre furonovendute e scomparveronel nulla. “Io – dice –spero sempredi imbattermi in attiche mi parlino di loro”

UNA MANIA NATA PER CASO

Il collezionista di contratti di schiavitù

si chiama Ding Haihua,

è un avvocato di successo

Ha cominciato la sua

straordinaria raccolta dodici

anni fa, quando

in una bottega antiquaria

di Pechino trovò per caso

l’atto di un padre

che vendeva moglie e figlia

“per estinguere i miei debiti del valore

equivalente a tutto l’oppio

che ho consumato finora”

il collezionista di contrattiSchiavi

il reportageMicrostoria

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

ProstituteQui sopra, il contratto

d’acquisto, datato 1946

e registrato all’ufficio

di polizia di Changchung,

della diciannovenne Sun,

destinata al mestiere

di prostituta. L’acquisto

fu effettuato dal signor Wan

Nella sequenza di foto in alto,

altri ritratti segnaletici

di ragazze avviate

alla prostituzione

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to divampare la rivoluzione. Rispetto alla base di par-tenza la condizione femminile sotto il comunismo hafatto progressi immensi. Non omogenei, però. Il de-stino delle cinesi nelle campagne rimane diverso daquello delle donne di città. La Cina del 2006 ha anco-ra il record mondiale dei suicidi femminili — 150mi-la all’anno, una donna si uccide ogni quattro minu-ti — e la loro frequenza è tre volte più alta nelle cam-pagne che nei centri urbani. A causa degli aborti se-lettivi nelle campagne mancano all’appello 40 mi-lioni di donne. Questo provoca uno squilibrio de-mografico — troppi maschi destinati a restarecelibi — che a sua volta fa rinascere antichi abusi.In una fiorente economia di mercato dove ab-bonda il denaro e si scavano le diseguaglianze so-ciali, rinascono forme di schiavismo antiche: iltraffico di bambine vendute come mogli o pro-

stitute. Secondo l’In-ternational LabourOrganization, il regi-me di Pechino na-sconde i veri dati sul-l’ampiezza del “nuo-vo commercio di esse-ri umani”. Fin dallametà degli anni No-vanta gli attivisti uma-nitari hanno segnalatoun risorgente businessdegli schiavi, minoren-ni venduti alle fabbri-che-lager del Guang-dong con la complicitàdi poteri locali corrotti.Un rapporto ufficiale delDipartimento di Statoamericano nel giugno2006 denuncia: «Le stimeufficiali parlano di dieci-ventimila vittime del traf-fico di schiavi in Cina ognianno ma la realtà può esse-re assai superiore. Il 90 percento sono donne e bambi-ni venduti dalle provincedello Henan, Hunan, Si-chuan e Yunnan per esseredeportati nelle zone più ric-che del paese a scopo di sfrut-tamento sessuale».

L’avvocato Ding ha comin-ciato la sua collezione di maca-

bre carte nel 1994, al ritorno in pa-tria dopo un lungo periodo di studio

e di lavoro negli Stati Uniti. Un weekenddi dodici anni fa stava curiosando nella via degli antiquari di Pe-chino quando si è imbattuto in una pila di vecchie carte. Lì inmezzo c’era l’atto firmato da un padre che vendeva moglie e fi-glia «per estinguere i miei debiti del valore equivalente a tuttol’oppio che ho consumato finora». Da quel momento non hapiù smesso di comprare e catalogare contratti. Non è una cu-riosità nata per caso. Collezionando quei documenti in realtàl’avvocato Ding insegue un pezzo di storia personale. «Miamamma — racconta il legale — viene da una famiglia numero-sa e aveva molte sorelle. Una dopo l’altra furono vendute tuttedai suoi genitori, negli anni Trenta e Quaranta, durante il pe-riodo dell’occupazione giapponese. Solo mia madre si salvò daquel destino perché fuggì di casa nel 1941 per unirsi ai partigia-ni comunisti di Mao. Nella guerriglia conobbe mio padre. Do-po la vittoria della rivoluzione nel 1949 divennero funzionari digoverno e allora mia mamma fece tutto il possibile, smosse au-torità e usò raccomandazioni, pur di ritrovare le sue sorelle.Non c’è mai riuscita. Oggi probabilmente saranno morte. Iospero di imbattermi almeno nel contratto di vendita di una del-le mie zie. Finora non ho tracce. Sia loro che le carte sono scom-parse nel nulla».

per fare il soldato, non ha mai dato sue notizie, mi ha lasciatacon un figlio piccolo. Non abbiamo più da mangiare, ho biso-gno di risposarmi. Mi vendo come moglie per 70 dollari d’ar-gento, è la somma che devo pagare per il riscatto a mio suoceroa cui appartengo».

La più recente di queste carte legali ha solo sessant’anni ed èil primo caso in cui si usano la fotografia e le impronte digitaliper l’identificazione dell’“oggetto”. È una transazione specialeche ha come titolare il signor Wan, uomo d’affari, nel 1946. Il do-cumento ha doppio uso: da una parte Wan compra la ragazzaSun, diciannovenne; dall’altra con lo stesso contratto Wan re-gistra Sun presso l’ufficio di polizia della città di Changchungperché eserciti regolarmente il mestiere di prostituta. È indica-to l’indirizzo del bordello e il nome del suo manager. Nel con-tratto, che sembra copiato su un modello standard, la ragazzao il suo acquirente hanno riempito le seguenti caselle sotto lacandidatura al bordello: «Ragione - povertà. Familiari - fratellominore. Prostituzione volontaria - sì».

Lo spaccato della Cina pre-comunista che emerge dai con-tratti d’acquisto di “carne umana” ritrovati dall’avvocato Ding,ricorda in quale stato versava questo paese quando Mao Ze-dong si mise alla testa dei suoi partigiani per la lotta armata. Lamiseria estrema dei contadini cinesi è il carburante che ha fat-

Carte antiche

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Ding Haihua è un avvocato di Pechino con un hobby singolare:raccoglie i documenti con cui, da secoli e fino a pochi decenni fa,in Cina veniva suggellata la vendita di esseri umani

In queste pagine,alcuni

dei contratti di schiavitù

raccolti dall’avvocato Ding

con una paziente ricerca

tra negozi d’antiquariato

e mercatini. Il più antico

risale al 1578, il più recente

è della metà degli anni

Quaranta. Nonostante

la schiavitù in Cina sia stata

abolita nel 1654 dall’imperatore

Kangxi, questa collezione

dimostra come sia rimasta

abbondantemente in uso

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la memoriaMiti della moda

NATALIA ASPESI

Se oggi si materializzasse in mezzo alla folla una signoraspersa in una specie di tendona da campeggio dai gros-si fitti bottoni, con enormi maniche ingombranti e con,sotto l’immenso cappello rigido di paglia, un viso com-punto incattivito dalla propria preziosità, la gente siscanserebbe nervosa e infastidita per l’anomalia, la stra-

vaganza, l’arroganza, l’eccessiva occupazione di spazio. Nel 1951quella signora non sarebbe mai comparsa in strada se non nell’atti-mo in cui, scendendo dalla sua limousine dalla porta spalancata daun autista in divisa, si sarebbe precipitata dentro i saloni profumatidel Ritz a Parigi o in qualsiasi altro luogo pomposo riservato, allora,al mondema anche già al demi-monde. Oppure al numero 10 di RueGeorge V, dove dal 1937 aveva stabilito il suo atelier il Genio, il Mae-stro, il Monaco della haute couture, naturalmente Cristóbal Balen-ciaga, il creatore spagnolo diventato leggendario per la sua crudeleesigenza di perfezione, tanto da attirare quella scintillante moltitu-dine di ricchissime signore decise a raggiungere con l’abito i massi-mi vertici della lontananza imperscrutabile e della raffinatezza ini-mitabile: e non importa se i mariti che impassibilmente pagavanoquei costosissimi “Cape de dentelle”, o “Manteau abuki en soie ner-vurée rose intense”, o la “Robe bustier Ballon” oppure “Chou”, ca-volo, di costosissimo ga-zar bouillonnée, insegui-vano poi delle simpati-che donnine meno abbi-gliate e quasi sempre piùin carne e più fresche.

Balenciaga è morto nelmarzo del 1972 a 77 anni,dopo essersi ritirato nellasua Spagna natia, e da al-lora continua ad essere ilfaro schivo e praticamen-te sconosciuto di quel-l’arte in via di estinzione(o già estinta?) che è lamoda. Ultimamente poiè come se la nostalgia perl’eleganza e la raffinatez-za ormai perdute inquanto obsolete, si fosseconcentrata sulla sua no-bile figura sfuggente esulle sue meraviglie crea-tive: tanto che, corsi e ri-corsi, recentementeavendo gli stilisti annusa-to un certo bisogno di ri-torno a una ormai inesi-stente e temuta signori-lità, ci si è messi di buonalena a sfogliare le vecchieriviste, le fotografie diAvedon o Horst o Penn,per carpire i segreti, in-carpibili, dell’infaticabilesua invenzione di unamanica chimono, di unagonna a palloncino, delcollo sapientemente sco-stato, della famosa lineacocoon, bozzolo. Le mo-stre poi, si susseguono: sene è appena chiusa una aParigi, alla FondazioneMona Bismarck, intitola-ta trionfalmente Perfe-zione condivisa per ma-gnificare i trent’anni diintesa vestimentaria tral’ascetico couturiere l’av-venturosa americana mi-liardaria plurimaritata,defunta nell’83: dove,con l’appassionata su-pervisione di un altrogrande couturier d’epo-ca, Hubert de Givenchy,erano esposti tra l’altrouna quarantina di toilettebalenciaghe sfibrate, ap-passite dagli anni, appar-tenute alla mai sazia da-ma, oltre alla collezionepersonale del fedele ememore Givenchy e acerti famosi abiti da spo-sa, indossati cupamentedalla regina Fabiola delBelgio o da più misteriosee languide Madame Son-soles de Llanziol o Madame Elena Salama.

Si apre adesso sempre a Parigi, al Musée de la Mode e du Textile,una sontuosa mostra antologica dedicata all’irraggiungibile icona.Questa volta meno preci aristocratiche e più commercio, visto chel’inaugurazione cade nei giorni delle sfilate di quel che resta dell’e-sangue e pubblicitaria alta moda, e che il curatore è il giovane Nico-las Ghesquière, che dal ‘97 lavora per il marchio Balenciaga, adatta-to ai tempi massicciamente mercantili, oggi di proprietà Gucci, cioèdel finanziere Pinault. Anche gli Stati Uniti fremono. E per l’annoprossimo è prevista una grandiosa Balenciaga e il suo retaggio alMeadows Museum di Dallas che userà come sfondo agli abiti la suacelebre collezione di arte spagnola.

Ma chi era CristóbalBalenciaga al di là del suo folgorante giro ma-nica che secondo la rivista di settore Dépeche Modedel 1939, avreb-be, allora, rivoluzionato la storia della moda? I ritratti fotografici diCecil Beaton, Rafael Carpersoro, Henri Cartier-Bresson, Juan Gye-nes, François Kollar, o quello dipinto nel 1927 da Lipnitzki-Violetmostrano dapprima un impeccabile giovanotto dai capelli scuri im-pomatati e dallo sguardo caldo e malinconico, in doppiopetto gri-gio, cravatta a pallini e fazzoletto bianco nel taschino, poi un signo-re ingrassato con occhiali, dentro un camice bianco, che spilla me-raviglie diafane su brutte modelle aristocraticamente legnose, op-pure discute con la severissima Madame Claude, sua assistente.

La sua scarna biografia, che nulla racconta di piccante o di appe-na appena interessante, causa il suo assoluto bisogno di privacy cheoggi appare del tutto stravagante (vedi gli stilisti che annunciano al-la stampa fidanzamenti e divorzi omo), ci dice almeno qualche da-to anagrafico: che nacque il 21 gennaio 1895 a Guetaria, paese ba-sco: padre pescatore, mamma, ovvio, sarta. Prima folgorazione, an-cora piccino, la visione della marchesa de Casa Torres, elegantissi-ma, che lo turba profondamente non tanto per il fascino, essendo la

signora vecchissima,quanto per il frusciare as-sordante della sua toiletteparigina. Fanciullo, il suodestino è segnato ed è lamamma a insegnargli a ta-gliare e cucire, come nessunsuo collega saprà mai fare.

A 16 anni apre il suo primoatelier a San Sebastián, a 18 lasuddetta marchesa lo invia aParigi per incontrare Poiret, a20 inaugura la sua prima mai-son de couturesempre a San Se-bastián, residenza estiva dellacorte, le nobildonne accorrono.1931, cade la monarchia, le si-gnore spariscono. 1936, guerracivile, non gli interessa, emigra inFrancia. 1937, a Parigi nasce laMaison Balenciaga. Immediatoaffollamento di miliardarie e cele-brità. 1940-44, guerra, occupazionenazista della Francia. Non interessané a Balenciaga né ai suoi colleghi,Chanel si fidanza con un nazista, glialtri lavorano alacremente per la hau-te couturecollaborazionista. Per amo-re della moda, anche lui. Anni Cin-quanta, siderale trionfo, la maison ha cinquecento dipendenti, gliabiti sono i più cari di Parigi, i più severi, i più minacciosi, i più visio-nari, per questo le signore, dalla duchessa di Windsor a quelle dameamericane dai tanti mariti che poi entreranno nel crudelissimo Pre-ghiere esaudite di Truman Capote, si ordinano vestiti a decine, pernon parlare degli indispensabili cappelli: berretti alla Watteau, ca-che-chignon, capeline canotier, à l’espagnole, toque Renaissance,pill-box, eccetera. 1956, i giornalisti vengono banditi dalle sue colle-zioni riservate alle sole clienti e costretti a tornare un mese dopo. Lofanno, anche dagli Usa, tanto è terrorizzante il suo prestigio. Il mon-do cambia, le donne cambiano, cambia la moda: arrivano, massimoludibrio, il prêt-à-porter, la rivoluzione sessuale, i giovani, la rivoltastudentesca, Mary Quant e Biba, il ’68: è troppo per chi è stato para-

Tuniche, kimono, abiti, tailleur. La rivisita-zione comincia dagli schizzi delle mani-che. Le maniche dallo scalfo basso, am-

pie, fluttuanti, arricciate, orientali. Le manicheche Balenciaga strappava all’improvviso e fa-ceva ricucire. All’inizio del 2007 cadono i 35 an-ni dalla morte della “Garbo della moda” ed è giàun collage di iniziative. Mostre, libri, tendenze.Tornano le stole introdotte nel ‘51 disegnate daOlivier Theyskens per Rochas. Si riaffaccianogli abiti a palloncino nelle sfilate Emporio Ar-mani e Alexander McQueen, e il fiocco maxi inquelle Yves Saint Laurent. Ma anche i modelliattillati davanti e fluidi dietro proposti da Mar-ni e Louis Vuitton.

Il primo museo a ripercorrere la carrieracreativa dello stilista basco tra il ‘38 e la fine deiSessanta è Les Arts Decoratifs, Musée de la Mo-de et du Textile di Parigi che, a metà luglio, incollaborazione con Thames & Hudson pubbli-ca in Francia e in Inghilterra Balenciaga Paris,con foto d’epoca e un’introduzione di PamelaGolbin. Da giovedì prossimo al 28 gennaio ilmuseo espone 160 tra modelli e schizzi, 20 deiquali firmati da Nicolas Ghesquière, direttoreartistico della maison dal ’97 e curatore dellarassegna. Abiti che sintetizzano un’epoca: dal-la petite robe noire, il tubino nero, ai curatissi-mi accessori, guanti, borse, cappelli, ma anchemantelli di taffetà e cappe da toreador. L’anto-logica parigina approderà poi al Victoria & Al-bert Museum di Londra, al Kyoto Costume In-stitute e al Metropolitan Museum of Art di NewYork.

Nei Cinquanta i vestiti a palloncino e la lineacocoon, il cappotto barrel-line avvolgente, latunica, la sagoma diritta, quella a sacchetto, lagiacca del tailleur a scatola. Nei Sessanta la li-nea Impero, i modelli semplici, il kimono. Intutti i modelli si ritrova la passione per il dise-gno architettonico e per il colore nero. «Unbuon couturier — suggeriva Balenciaga nel ‘68— deve essere architetto per i progetti, sculto-re per la forma, pittore per il colore, musicistaper l’armonia e filosofo per la misura».

Idee da indossaremaestra l’architettura

I modelli esposti al Musée de la Mode

AMBRA SOMASCHINI

“È un fenomeno –scrisse Cecil Beaton –che il figliodi un pescatore senzaalcuna possibilitàdi occhieggiareil gran mondo abbiaun simile gusto innato”

L’eleganza perdutaBalenciaga

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 2 LUGLIO 2006

INEDITI

Qui sopra, in esclusiva,

le lettere originali del 1968

con le quali l’Air France

commissionava

a Balenciaga le divise

per le sue hostess

e i bozzetti. La foto grande,

anch’essa inedita,

è di André Durst

e ritrae lo stilista

con una modella

(copyright André Durst, 1940)

DAL DISEGNO ALLA COLLEZIONE

Nella pagina a fianco in alto, disegni

originali di Balenciaga del ’52 (a sinistra)

e del ’62; in basso il modello

della collezione ’62 (realizzato)

e uno di quella del ’65

fotografati da Kublin

gonato a Zurbaran ma anche a Poulenc, a Schoenberg, a Bunuel.Chiude tutto, e se ne torna in Spagna, a Valencia, dove morirà quat-tro anni dopo.

Zero notizie sulla sua vita privata, però: inaspettatamente, il suonome appare nell’Enciclopedia Glbtq (gay, lesbian, bisexual, tran-sgender & queer): «Balenciaga non si sposò mai. Questo fatto, oltreil suo lavoro nella moda, hanno suscitato pettegolezzi sulla sua ses-sualità. Uomo profondamente riservato, non ha mai parlato pub-blicamente di sé». Quindi viene riportata una frase cattiva della col-lega Chanel: «È ovvio che odi le donne. Guarda come nasconde le ca-micette sotto le giacche, proprio per enfatizzare le rughe del loro col-lo». Niente da ridire, visto che non c’è giorno in cui non si scopra cheun grande era gay, ultimo in ordine di tempo il primo ministro vit-toriano Benjamin Disraeli, con sospetti anche sul collega e rivale po-litico William Gladstone (The Politics of Pleasure, autore WilliamKuhn, Free Press, £ 20).

Però tra i pochi suoi amici, lo ricorda affettuosamente Cecil Bea-ton nel suo diario (Self-portrait with Friends, Penguin Books, pp. 431,£ 4.95): «Cristóbal è una persona quieta, calma, anche serena: appe-na si entra nel suo appartamento si subisce il suo fascino. Non c’èmaggior piacere che stare in sua compagnia». È il febbraio 1960, Bea-ton, appena arrivato a Parigi, e la sua amica Marie-Louise Bousquetsono invitati a cena dal solitario Balenciaga: lo trovano seduto da-vanti al camino, come sempre vestito tutto di nero, assorto nei detta-gli della morte «non necessaria» di Camus, sul giornale della sera. Lacasa: pareti verde scuro e grigio pallido arredata nel suo tipico stile au-dace, pesanti candelabri, alari massicci, un grande blocco di cristal-

lo sul tavolinetto, applique molto semplici, due grandi ce-spugli di azalee, una bianca e una rosa, in vasi di porfido.Secondo lo schizzinoso Beaton, frequentatore assiduo digrandi famiglie blasonate, «è un fenomeno che il figlio diun modesto pescatore spagnolo, un povero ragazzo connessuna possibilità di occhieggiare il gran mondo, abbiaun simile gusto innato... Il suo appartamento è la provadella purezza della sua visione. Ammette quanto gli piac-cia girare per antiquari e scoprire preziosità, eppure lesue stanze sono così spoglie e sgombre che si capisce co-me ogni cosa sia stata scelta come risultato di una spie-tata selezione ed eliminazione». Secondo Beaton, cheun paio di anni prima aveva disegnato in un baleno i150 costumi fin de siècle del film Gigi di Minnelli, l’a-

mico Cristóbal impiegava una quan-tità spasmodica di energia vitale percreare i suoi modelli sublimi: «Ed èper questo che sono così belli, il ri-sultato di profondità di pensiero,intensa concentrazione, anchesofferenza fisica».

Finalmente una passione ina-spettata: la neve. La montagna in-nevata, confida il couturier, ha uneffetto molto rilassante sui suoifragili nervi, tanto che ogni inver-no deve concedersi almeno unao possibilmente due lunghe va-canze in montagna. Il suo mas-simo piacere: starsene a lettocon le finestre spalancate alfreddo e al sole, con ogni lussonecessario a quelle quote, tipofiori di serra e frutta, croissante marmellata di ciliegie, ca-viale e patate calde. E final-mente, Beaton apre un pic-colissimo squarcio sui suoiaffetti: «L’amico di Cristò-bal, il giovane Ramon, entrònella stanza con la sua pellescura e il suo sorriso...».

Irraggiungibile, terro-re dei suoi colla-

boratori, pernon parlaredei giornali-sti inutil-mente que-stuanti unasua parola,uno che sem-pre si rifiuta diincontrare leclienti anche secoronate, chedisprezza ilmonde privan-dolo della suapresenza, pernon parlare deldemi-monde, og-gi inseguito sottoforma persino didive televisive da

ogni stilista di suc-cesso, è però infor-

matissimo sui piùscandalosi potin, gos-

sip, prima che arrivinoagli altri. Per dire della

sua eroica intransigen-za vestimentaria: una

volta, facendo uno strap-po alla regola, comparve

alla prova di un abito principesco che una cliente di massimo rangodoveva indossare a un ricevimento epocale. La poverina deliziatadalla sorprendente apparizione gli indicò vezzosa i cambiamenti dalei suggeriti alla vendeuse, i regali pannelli accostati al corpo, e rico-perti da valanghe di ricami costosissimi. In silenzio, l’oltraggiatocreatore strappò l’abito in pezzi dicendo alla terrorizzata sua colla-boratrice: «E tutti quei ricami li pagherà di tasca sua!».

Quisquilie tipiche del genio davanti allo sfregio a una sua operad’arte, e che non possono intaccare la venerazione che circonda ilgrande, inimitabile couturier. Quirino Conti per esempio, nel suobestseller Mai il mondo saprà (Feltrinelli, pp. 371, euro 19.50), glidedica un capitolo intitolato, solennemente La luminosissima te-nebra. E citando Santa Teresa d’Avila per le abbacinanti visioni delMaestro fatte vestito, ne racconta per pagine e pagine la profonda,audace genialità: «La sua Moda. Autorevole, fiera, virtuosa, casta,come sognata; sfuggente, ardita, eppure anche carezzevole; sua-dente, languida e appassionata; stupefacente. Al pari di quella ge-nia di sognatori, visionari, veggenti e mistici, alla quale, per con-sanguineità, Balenciaga apparteneva come nessun altro. Esenz’altra possibilità. Necessitato a quella inflessibile, costitutivaluce, nella materia come nelle forme del suo lavoro. Forse mainiente di più radioso nella Moda».

In vita, una leggenda per la sua crudele esigenza di perfezionee per l’implacabile difesa della privacy; in morte, un puntodi riferimento della haute couture per la inimitabile raffinatezzaA 35 anni dalla scomparsa cominciano, con una sontuosa mostraparigina, le celebrazioni per il geniale stilista basco

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SENIGALLIA

Aveva appena dieci anni,era il figlio del gestore magià doveva lavorare. «Ognimattina preparavo cento

bottigliette di gazzosa e cento di arancia-ta. Poi potevo andare a fare il bagno». Lu-ciano Chiostergi, figlio di Antonio, ades-so ha 79 anni e vive di ricordi. «La roton-da sul mare? Era un paradiso. Mio padrel’ha avuta in gestione dal 1935 al 1940. Laproprietà era dell’azienda di soggiorno,che faceva una gara d’appalto. Nel capi-tolato c’era scritto che il gestore dovevafornire piatti di porcellana, bicchieri dicristallo e posate d’argento. L’orchestradoveva essere di almeno cinque elemen-ti e conosciuta a livello nazionale. Il cuo-co, quando entrava nel ristorante per ri-cevere i complimenti dei clienti, era in ti-ght e cilindro. Sei camerieri in sala. Unacena costava cinque lire, una famiglia dioperai ci mangiava una settimana. E c’e-ra un signore che ogni estate, per due o tresere, prenotava e pagava tutta la sala. Fa-ceva mettere rose rosse su tutti i tavoli,poi arrivava lui accompagnato dall’a-mante. Solo loro due, nel salone vuoto. El’orchestra suonava per tutta la sera».

Torna a vivere la Rotonda a mare di Se-nigallia. Quasi cinque milioni di euro perridare a tutti ciò che era di pochi, e per fa-re riaffiorare dall’oblio quella che Alber-to Bacchiocchi, uno dei progettisti dellaristrutturazione, chiama «un’architettu-ra che favorisce la fantasia». «La Rotonda,

inaugurata nell’estate del 1933 — dicel’architetto — era il modello giusto per at-tirare i villeggianti di quel tempo. Con ipiedi sul cemento ma in mezzo alle onde,puoi immaginare di essere in alto mare.In una rotonda ci sono spazi che non sitrovano altrove. I duemila villeggianti de-gli anni Trenta cercavano un luogo sim-bolo della vacanza. Avevano bisogno diportare a casa un ricordo. E la Rotondaera anche una splendida occasione permostrarsi e farsi ammirare».

Non potevano immaginare, gli aristo-cratici romani che venivano a Senigalliaper «fare la stagione» — c’erano i Barbe-rini, i Baviera, i Seduceschi... — che già ilmondo stava cambiando. Nelle ville e al-la Rotonda cominciano ad arrivare gli in-dustriali del nord, che non hanno stem-mi araldici ma soldi da spendere. La rivo-luzione più grande e silenziosa è peròquella portata dai bambini. Per la primavolta i figli di genitori non nobili né ricchi,e che non hanno mai visto il mare, arriva-no alla colonia Maria Pia di Savoia. Sonoi figli di operai e tecnici dell’Unes, Unio-ne italiana esercizi elettrici. Stanno perore in divisa, seduti sotto il sole, a fare gin-nastica o a costruire castelli di sabbia. Al-le undici un fischio e tutti corrono in ac-qua. È così che nasce la vacanza al mareche tutti noi conosciamo: sole sullaspiaggia poi il tuffo in mare. Prima il «ba-gno» non esisteva. Chi andava in mare,per le «cure idroterapiche», lo faceva dinascosto, anche qui a Senigallia. «Primadella Rotonda — dice l’architetto SaraBerardinelli — ogni anno veniva costrui-ta una piattaforma di legno sul mare. So-pra venivano montati dei camerini che,con una scaletta interna, permettevanodi scendere direttamente in acqua al ri-

i luoghiRestauri

Fu inaugurata nell’estate del 1933: un’architettura studiata –i piedi sul cemento e gli occhi che guardano le onde tutt’attorno –per stimolare la fantasia e attirare la crema dei duemila villeggiantidi allora. Il 15 luglio prossimo Senigallia festeggia il ritornodella sua Rotondaristrutturata: un monumento sull’acquasospeso tra le vacanze di una volta e il nuovo turismo

JENNER MELETTIparo da sguardi indiscreti e dai raggi bru-cianti del sole. In quell’epoca l’abbron-zatura era identificata con il lavoro neicampi, dunque con l’appartenenza al ce-to popolare. Assolutamente da evitare».

Ma allora sembrava che il mondo nondovesse cambiare mai. Aristocratici, in-dustriali e agrari andavano alla Rotondaperché ogni sera c’erano feste e inven-zioni. «Mio padre Antonio — raccontaLuciano Chiostergi — aveva una grandefantasia. Una sera organizzò una festachiamata Perugina, perché nei cioccola-tini c’erano le figurine con il Feroce Sala-dino. Tutti si presentarono con costumiispirati a quelle figurine. E poi c’era la fe-sta della Marina militare, con le navi an-corate al largo e gli ufficiali in divisa bian-ca che arrivavano con le barchette». Il bardella Rotonda apriva al mattino. Dopo ilpranzo c’era il bridge, con tornei interna-zionali. La sera, ancora ristorante e poi ilballo. «Gli uomini in tight o frac, le donnein abito da sera. Non c’era paura, allora, aportare i gioielli. Donne e uomini di Seni-gallia si mettevano a fianco della passe-rella e stavano lì in spiaggia a guardare isignori che passavano».

Dopo la guerra la Rotonda — che eradiventata un magazzino militare ed ave-va subito un bombardamento — riesce ariprendere vita. E per vent’anni diventa ilsimbolo del nuovo divertimento. Via ti-ght e abiti lunghi, ristorante e salone daballo non sono più luoghi esclusivi. «Gliuomini arrivano in giacca (cucita dal sar-to famoso o, secondo le tasche, dalla ziache ha la macchina da cucire) — dice Pie-tro Leoni, docente di sociologia del turi-smo — le donne con il cappello. Dècol-letè alla Gina Lollobrigida, mezze mani-che con lo sbuffo. Sono gli anni del Boom,

la villeggiatura dura ancora almeno unmese, e qualche volta si esce la sera perandare alla Rotonda». Folla grandequando arrivano Gino Paoli e Fred Bon-gusto, Franco Califano e Mal dei Primiti-ves. «Sono gli anni in cui “grassezza è bel-lezza” e non si parla certo di diete. Ades-so sono i Comuni a mandare i bambini incolonia e tanti di loro vedono per la primavolta una tavola con minestra, secondo,contorno e frutta. Senigallia è comunqueun’alternativa a Rimini, che è lo sbocco amare del triangolo industriale e che giàviene chiamata “teutonen grill”, la gri-gliata di tedeschi che appena arrivati ar-rostiscono al sole. Senigallia vuole offrirequalcosa di diverso: meno folla, più spa-zio, più verde. E così riesce ad attirare, ol-tre agli italiani, anche gli stranieri più ab-bienti. La Rotonda è importante, in que-sta politica. È il luogo dell’ammiccamen-to e delle storie d’amore».

Il faro splende fino a metà degli anniSessanta, poi arriva la decadenza.«Quando la Rotonda ancora era un postobello — dice il sindaco di Senigallia, Lua-na Angeloni — ero troppo piccola per po-ter entrare. E dopo non valeva la pena: ilristorante era brutto, arredato in stile“egiziano”, la discoteca era pessima. Conla nuova Rotonda abbiamo fatto un inve-stimento forte, ma ora Senigallia ha que-sta vetrina di eccellenza. La nostra è an-che l’unica rotonda ancora esistente. Cen’è un’altra, molto bella ed in stile liberty,a Mondello di Palermo. Ma non è “roton-da”, è rettangolare. E poi la nostra ha ispi-rato Fred Bongusto e con la sua canzoneè entrata nelle case di tutti gli italiani».

Si chiamava “Kursaal” — letteralmen-te sala per le cure — il nonno delle roton-de italiane ed europee. «Gli edifici del

C’era una volta la rotonda sul mare

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

‘‘La canzoneUna rotonda sul mare

il nostro disco che suonavedo gli amici ballare

ma tu non seiqui con meAmore miodimmi se sei

triste così come meDimmi se chi ci separòè sempre lì accanto a tese tu sei felice con lui

o rimpiangiqualcosa di me

Io ti penso sempre saiTi penso

da UNA ROTONDA SUL MAREFred Bongusto, 1964

IL PROGETTOSullo sfondo, il progetto

originale della Rotonda

di Senigallia di Roberto

Forquet del maggio

1923 . Qui sopra, foto

scattate durante i lavori

di costruzione

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Kursaal — scrive Luciano Cardellicchionel volume Una rotonda sul mare, editoper presentare la prossima inaugurazio-ne del 15 luglio — nascono come sale diidroterapia ma si trasformano presto instrutture polifunzionali con attività perlo svago e il trattenimento, mantenendoperò invariata la loro denominazionemedica. Sono i monumenti del loisire delgioco d’azzardo che si attestano sul lito-rale, a conclusione del paseo come a SanSebastián o come elemento cerniera tranucleo storico ed espansione ottocente-sca, come a Ostenda».

In Italia il primo Kursaal viene apertocon lo stabilimento del “Bagno Baretti”,nel 1781, a Livorno. Nel 1835 viene aper-to lo “Stabilimento dei bagni dorici in An-cona”. Le cabine, rigorosamente distinteper sesso, vengono piazzate in acqua supalificate di pino conficcate nel fondale.Nel 1843 arriva lo stabilimento di Rimini,ma per la prima rotonda — anche se in ve-rità rettangolare — bisogna aspettare l’i-naugurazione dello stabilimento diMondello, nel 1912. La rotonda forse piùbella, con un padiglione che ha la sagomadella chiesa di Santa Sofia di Istanbul, vie-ne costruita nel 1924 a Ostia ma è poi di-strutta nel 1943 dagli Alleati.

«Negli anni Sessanta e Settanta — dicel’architetto Alberto Bacchiocchi — altre

rotonde sono state costruite a Rimini e aCastiglion della Pescaia, ma sono tenta-tivi di imitazione mal riusciti». Per l’inau-gurazione ci sarà festa grande, come il 7luglio del 1935, due anni dopo l’apertura,quando a Senigallia arrivò il principeUmberto di Savoia. Le foto dell’epocamostrano una folla immensa sulla spiag-gia. L’arrivo del principe segnò il lanciodella Rotonda. Si faceva a gara, per un po-sto al ristorante. E nel salone con i muribianchi sospesi sulle onde si faceva an-che il cinematografo e si organizzavanosfilate di moda, varietà e serate di gala.

La famiglia Chiostergi conserva anco-ra le tazzine in porcellana comprate per ilcaffè del principe Umberto. Dopo laguerra il padre Guido (che era stato se-

gretario del Fascio) ed il figlio Lucianonon hanno più ottenuto l’appalto dellaRotonda. «E allora nel 1947 abbiamoaperto Villa Sorriso, albergo con un salo-ne delle feste che è diventato la Capanni-na dell’Adriatico. Mina cantava solo danoi e nel locale della Versilia. E poi ven-nero Rita Pavone, Corrado, un giovanis-simo e spaesato Pippo Baudo…». A VillaSorriso resiste lo zoccolo duro di chi arri-vava nelle ville di Senigallia già prima del-la guerra. «Anche nel nuovo locale abbia-mo fatto fortuna con la fantasia. Organiz-zavamo delle feste che facevano parlaredi noi a Roma, a Milano e anche in Ger-mania. Una l’avevo chiamata Bagdad e sidoveva entrare in costume arabo. Ero an-dato a Firenze a comprare un baule pie-no di gioielli finti e li offrivo alle signorequando entravano. Ma in mezzo avevomesso anche un paio di braccialetti d’o-ro. Abbiamo chiuso nel 1979, quando ab-biamo capito che un turismo dove il pa-drone dell’albergo è in smoking dal mat-tino alla sera non interessava più nessu-no».

Si farà di tutto, nella nuova Rotonda,che all’inizio del pontile mostra un mo-saico di Enzo Cucchi. Sarà la casa dellacultura e delle arti, sede di convegni e diconcerti. «Useremo il nostro monumen-to sull’acqua — dice il sindaco Luana An-geloni — come simbolo di un nuovo turi-smo». La sera dell’inaugurazione ci saràanche un’«orchestra di cinque elementidi primo ordine», come stabilito nel capi-tolato del 1933. E nessuno dovrà restare afianco del pontile, come nei ruggenti an-ni Trenta, solo a guardare.

LA FESTAIl 15 e 16 luglio festa grande a Senigallia

per la riapertura della Rotonda a mare,

ristrutturata dal Comune con contributi

europei. Fuochi artificiali, tango, can can

con le vedette del Moulin Rouge. Alla festa

parteciperà Fred Bongusto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Ogni estate un uomoprenotava salae orchestra. Rose rossesui tavoli. Poi arrivavacon l’amante: sololoro nel salone vuoto...

BELLE EPOQUENelle foto in alto,

la Rotonda oggi;

qui sopra foto

d’epoca

e una vecchia

cartolina di Senigallia

con la sua attrazione

principale

La canzone è nata nell’inverno del 1962,dopo il Carnevale passato un po’ a Ric-cione e un po’ (martedì grasso) in pro-

vincia di Ancona, in uno di quei vecchi dan-cing di cui non ricordo più il nome. Tornatoa Roma, mi incontrai con Franco Migliacci acui, precedentemente, avevo lasciato un na-strino con la musica della Rotonda sul mare.Parlammo un po’ di tutto, poi il discorso sifermò sul fascino di quel mare a nord di An-cona e su come sarebbe stato bello scrivereuna canzone ispirata da tutto quel ben di dio(la rotonda sul mare, le stradine costruite pa-rallele alla sabbia e le reti da pesca danzantisulle onde...). Fino ad allora avevamo respi-rato un mare troppo partenopeo.

«Una rotonda sul mare / il nostro discoche suona / vedo gli amici ballare...». Invita-re una ragazza a fare due passi sulla rotondaera un po’ come comprometterla. Poche lu-ci, poca gente, pochi baci... Quando ero ra-gazzo, eravamo aiutati quasi sempre da un“mangiadischi”. Non sono sicuro che sichiamasse così ma quello di cui sono certo èche questo aggeggio, che avrebbe dovutofunzionare con un quarantacinque giri econ le batterie, sul più bello cominciava amiagolare. E quindi ad-dio atmosfera, addiomusica romantica.

Come tutti coloro chepoi sono diventati qual-cuno, ho cominciato acantare nei night. Nonsempre è stata un’espe-rienza fortunata, inquanto le ore erano tan-te. Cominciavi alle nove oalle dieci della sera e fini-vi alle cinque del matti-no. Una sfacchinata paz-zesca. Ma quello alloraera l’unico posto dove lavita pulsava, nel bene onel male. E poi il night erail luogo dove potevi in-contrare Bruno Martino,che a tutti noi ha dato le-zioni di professionalità e di musicalità. Poi ilnight si è allargato e quasi tutti noi siamo an-dati a cantare nei dancing. L’esperienza alnight ci aveva formato musicalmente.

Credo di avere partecipato quattro volteal festival di Sanremo. Era anche un bel mo-do di trovare il sole in inverno. Allora nonc’erano i drammi e l’invidia di oggi. E poi,mentre provavi Aspetta domani, il grandeCarlo Alberto Rossi veniva a farti i compli-menti, lui che aveva scritto E se domani eAmore baciami.

Cosa ha significato, per me, la Rotonda sulmare? Ho scritto e cantato centinaia di can-zoni che hanno fatto il giro del mondo. Ma-laga è stata incisa in portoghese da João Gil-berto, la voce più autorevole del mondo bra-siliano. Alcune canzoni che in Italia sonoandate così così (Che bella idea, Noi inna-morati, Doce doce, Moon...) sono lì in Suda-merica ad aspettare che io ritorni con la miaorchestra... e sarebbe la mia nona tournée.Una Rotonda sul mare è come un figlio for-tunato che sorride quasi sempre. Io le vogliobene ma ho con me altre creature (Frida,Amor segreto, Spaghetti a Detroit, Tre setti-mane...) e in questi giorni poi con un visosbarazzino è arrivato un nuovo brano: Cu-ba, tiempo de vacanza. Buone vacanze.

CHANSONNIERFred Bongusto

ha cominciato cantando

nei night e nei dancing

Quelle note ispiratedalle onde d’inverno

Le origini del successo degli anni ’60

FRED BONGUSTO

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Lo scrittore messicano, dopo quella di CheGuevara, ha finito la biografia dell’uomoche da bandolero, ladro e ricercato divenne

il grande eroe dell’indipendenza del suo Paese. Ecco,in esclusiva, il primo capitolo di quella storia straordinaria

Qui si racconta la storia di unuomo che era solito sve-gliarsi in un luogo quasisempre diverso da quelloinizialmente scelto perdormire. Aveva questa stra-

na abitudine perché per metà della suavita, per più della metà della sua vitaadulta, per 17 dei 30 anni che visse pri-ma di unirsi a una rivoluzione, era statoun fuorilegge: ricercato, ban-dolero, ladro, brigante, ladrodi bestiame. E aveva paurache la debolezza delle ore disonno fosse la sua rovina.

Un uomo che si sentiva adisagio quando aveva la testascoperta, che, essendo statochiamato in gioventù gorrachueca (“berretto storto”),non usava togliersi il cappellonemmeno per salutare.Quando, dopo aver lavoratoper anni su questo, chi narraebbe la visione che Villa e isuoi cappelli sembravano in-separabili, Martín LuisGuzmán, in L’aquila e il ser-pente, la confermò: «Villa in-dossava il cappello [...] cosafrequente per lui quando sta-va nel suo ufficio o in casa».Per dare sostegno scientificoalla faccenda, chi narra haesaminato 217 fotografie. So-lo in venti di esse appare sen-za cappello (e in molti casi sitrattava di situazioni che fa-cevano dell’assenza del cap-pello un obbligo: in una stanuotando, in altre quattro as-siste a dei funerali o a delle ve-glie funebri, in diverse altre è morto e ilcappello deve essere caduto nella spa-ratoria). Nelle rimanenti 197 porta di-versi cappelli; ci sono stetson texanisemplici, sombreros da contadino, ber-retti dell’uniforme federale con la visie-ra, enormi huaripas del Nord a faldalarga e cupola alta, copricapo huichol,cappelli larghi di palma compressa,texani a tre pieghe, salacot e berretti avisiera, quelli che allora si chiamavano“russi”. Il suo amore per il cappellogiunse al punto che una volta, dovendopassare in incognito, si procurò unabombetta, che lo faceva sembrare un«prete di campagna».

Questa è la storia di un uomo i cui me-todi di lotta si dice siano stati studiati daRommel (falso), Mao Zedong (falso) e ilsubcomandante Marcos (vero); che re-clutò Tom Mix per la rivoluzione messi-cana (piuttosto improbabile, ma nonimpossibile); si fece fotografare accan-to a Patton (la cosa non ha un grande in-teresse, George a quell’epoca era un te-nentello qualunque); ebbe una storiacon Maria Conesa, la vedette più im-portante della storia del Messico (falso,ci provò, ma non ci riuscì); e uccise Am-broise Bierce (assolutamente falso).Che compose la Adelita(falso), ma lo di-ce il Corrido de la Muerte de Pancho Vil-la, che di passaggio gli attribuisce anchela composizione della Cucaracha, enemmeno questo è vero.

Un uomo che fu contemporaneo di

Lenin, di Freud, di Kafka, di Houdini, diModigliani, di Gandhi, ma che non nesentì mai parlare, e se ne sentì parlare,perché a volte gli leggevano il giornale,non parve concedere loro alcuna im-portanza, perché erano estranei al ter-ritorio che per Villa era tutto: una picco-la frangia del pianeta che va dalle cittàtexane di frontiera fino a Città del Mes-sico, che di sicuro non gli piaceva. Unuomo che si era sposato, o aveva man-tenuto strette relazioni quasi coniugali,27 volte ed ebbe almeno 26 figli (secon-

do le mie indagini incomplete), ma alquale non piacquero mai troppo le noz-ze e i preti, piuttosto le feste, il ballo e so-prattutto gli amici.

Un personaggio con fama di beoneche a malapena assaggiò l’alcol in tuttala sua vita, condannò a morte i suoi uffi-ciali ubriachi, distrusse le damigiane dibevande alcoliche in diverse città con-quistate (lasciando le strade di CiudadJuarez che puzzavano di liquore quan-do ordinò la distruzione della bevandanelle cantine), e al quale piacevano i

frappé di fragole, le barrette di noccioli-ne, il formaggio asadero, gli asparagi inscatola e la carne cucinata sul fuoco finoa diventare come una suola di scarpa.

Un uomo che ha almeno tre “auto-biografie”, ma nessuna di esse è statascritta di suo pugno.

Una persona che sapeva appena leg-gere e scrivere, ma che quando fu go-vernatore dello stato di Chihuahuafondò in un mese cinquanta scuole.

Un uomo che, nell’era della mitra-gliatrice e della guerra ditrincea, usò magistral-mente la cavalleria, macombinandola con gli at-tacchi notturni, gli aerei, laferrovia. Ancora ci si ricor-da in Messico dei pennac-chi di fumo del centinaiodi treni della Divisione delNord che avanzava versoZacatecas.

Un individuo che nono-stante si definisse un uo-mo “semplice” adorava lemacchine da cucire, lemotociclette, i trattori.

Un rivoluzionario conuna mentalità da rapina-tore di banche, che pur es-sendo generale di una Di-visione di 30mila uomini,trovava il tempo per na-scondere tesori in dollari,oro e argento in caverne ecantine, in sepolture clan-destine, con cui poi com-prava munizioni per il suoesercito, in un paese chenon produceva pallottole.

Un personaggio che apartire dal furto organiz-zato di vacche creò la più

spettacolare rete di contrabbando pla-netaria al servizio di una rivoluzione.

Un cittadino che nel 1916 propose lapena di morte per chi commetteva bro-gli elettorali, fenomeno insolito nellastoria del Messico.

L’unico messicano che sia stato sulpunto di comprare un sottomarino, chefu cavaliere di un cavallo magico chia-mato Siete leguas, sette leghe, che inrealtà era una giumenta, e che realizzòl’aspirazione della futura generazionedi chi narra, evadere dal carcere milita-re di Tlatelolco.

Un uomo tanto odiato che spararono150 colpi contro la macchina su cuiviaggiava per ucciderlo, al quale tre an-ni dopo averlo assassinato rubarono latesta e che è riuscito a ingannare i suoipersecutori anche dopo morto, perchéanche se si dice ufficialmente che ripo-sa nel Monumento della Rivoluzione diCittà del Messico, quella severa mole dipietra priva di grazia che sembra cele-brare il decesso della rivoluzioneschiacciata da una lastra di cin-quant’anni di tradimenti, rimane se-polto a Parral.

Questa è la storia, dunque, di un uo-mo che raccontò e del quale racconta-rono tante volte le sue storie, in tanti ecosì svariati modi, che districarle sem-bra a volte impossibile.

Lo storico non può far altro che os-servare il personaggio affascinato.

(Traduzione di Luis E. Moriones)

Senza perdere la leggerezza

CON ZAPATAAccanto Pancho Villa a cavallo;

in alto nella pagina a destra,

una foto con autografo

del rivoluzionario e un ritratto

di gruppo con Emiliano Zapata

CAVALLERIANelle foto in alto Pancho Villa

e i suoi uomini. A centro pagina,

contadini che leggono

“El Machete”, una foto

di Tina Modotti del 1928

PACO IGNACIO TAIBO II Analfabeta, brigante e con fama di beoneMa fondò scuole, punì con la morte i brogli

elettorali e i suoi ufficiali ubriachiPer ucciderlo gli spararono 150 colpi

Solo allora riuscirono a levargli il cappello

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 2 LUGLIO 2006

GIJÓN

Paco Ignacio Taibo II, per gli ami-ci Paco 2, sostiene che la cultura deb-ba prima di tutto essere un diverti-mento. E considerato che la destraspagnola ha provocatoriamente defi-nito la sua Semana Negra un «circo»,una «pagliacciata», risponde con di-vertita coerenza. Come? Invitando al-la diciannovesima edizione del festi-val poliziesco di Gijón — dedicato al-la guerra civile iberica e in particolarea Guernica, «paese che tentò di fer-mare un golpe militare fascista» —una famiglia circense italiana. Inmezzo ai volumi e agli autori, tra unatavola rotonda e un premio letterario,i fratelli Rossi porteranno giocolieri escimmiette, la ruota panoramica e lozucchero filato, i clown e una giraffa.Ma c’è dell’altro. All’ingresso dellafiera, in fondo alla passeggiata e infaccia all’Atlan-tico, ci sarà untempio egizio adimensioni na-turali. «Sto an-cora cercandodi dare unaspiegazione aquest ’ul t imaidea: quando latroverò, saràmia premuracomunicarve-lo», spiega Paco2, ridendo sottoi baffoni.

La SemanaNegra, che de-butterà venerdìprossimo per chiudere il 16 luglio (unmilione e duecentomila visitatori, lapassata stagione), è forse la manierapiù romantica di rendere omaggio al-la città asturiana dove è nato 57 annifa. E dove il nonno materno morì,mentre a bordo del suo pescherecciocontrabbandava armi per gli anarco-sindacalisti. Cinquantasette anni ecinquantasei libri. Scritti in quellaCittà del Messico che lo ha adottatobambino insieme alla famiglia, esuledalla Spagna franchista, consacran-dolo poi come il padre della letteratu-ra poliziesca — e cioè, negra — dell’A-merica Latina. Giornalista, docenteuniversitario, storico (la biografia diChe Guevara, Senza perdere la tene-rezza, ha venduto in Italia oltre150mila copie), scrittore. Un giallo re-datto a quattro mani con il subco-mandante Marcos e pubblicato loscorso anno. Il prossimo progetto?Una storia del secolo passato tra Na-poli e il Messico, con un gruppo diemigranti e anarchici campani che ol-tre oceano pratica il nudismo e pro-duce illegalmente della grappa.

«Ma adesso mi concentro solo suquesta fiera letteraria, una fiera nelpiù ampio senso del termine: con de-cine di librerie ma anche negozi di ar-tigianato, luoghi dove poter bere,mangiare. C’è un festival di fotogior-nalismo, diretto da Javier Bauluz, vin-citore del Pulitzer. Una esposizione difumetti. Un democratico concorsogastronomico internazionale, “Melealla griglia”, con diritto all’assaggioper i bambini. Concerti musicali, arti-sti di strada. E la ruota, il circo. Tutte leattrazioni, insomma».

Cominciando dal suggestivo Treno

Negro, che come tradizione il primogiorno della Semana parte al mattinoda Madrid con il suo carico di giallisti,destinazione Gijón. Un convogliod’epoca affollato dagli ospiti del festi-val: scrittori rigorosamente “negri”, epoi fotografi, qualche giornalista.Chiacchierano e soprattutto brinda-no al padrone di casa, in un’atmosfe-ra giocosa e surreale. Racconta PinoCacucci, scrittore bolognese e spessotraduttore di Taibo, che gli ha affidatoil suo ultimo manoscritto su PanchoVilla: «Un’esperienza unica. Il trenoricorda l’Orient Express. Si viaggialentamente, senza fretta. A un certopunto viene inscenato un delitto. Ar-riva un investigatore, cominciano leindagini. E intanto si parla, si ride, siritrovano vecchi amici e si fanno nuo-ve amicizie, saltano fuori storie inedi-te e incontri curiosi. Una volta c’erauno scrittore colombiano che insie-

me a un bic-chiere di tequi-la mi offrì dellehormigas culo-nas, che tenevain un sacchetto.Formiche “cu-lone”. Giganti,con un enormeaddome. Ab-b r u s t o l i t e .Buone».

Cacucci eBruno Arpaiapartecipano,ciascuno conun racconto, aun’altra dellediavolerie di

Paco 2: un libro a tema (Guernica) delquale viene stampato solo un migliaiodi esemplari. Le copie sono distribui-te gratuitamente durante il festival:prima sul palco sono chiamati gli au-tori, quindi, a un segnale prestabilito,gli spettatori si lanciano sui volumi.«Attenzione — avverte Taibo — per-ché c’è sempre una mezza dozzina divecchiette vestite di nero e armate diombrello, pronte a qualsiasi violenzapur di assicurare una copia ai nipoti».

Quest’anno sul Treno Negro è statoinvitato il padre dello scrittore, anchelui Paco Ignacio — ma Taibo I, natu-ralmente — giornalista, romanziere,autore teatrale. E poi l’americano Ja-son Starr, il messicano Eduardo Mon-teverde. Norberto Romero («Il mi-gliore degli autori gotici spagnoli»),Almudena Grandes, l’inglese RichardMorgan. Il brasiliano Vernando Bo-nassi, il direttore della scuola di cine-ma di New York, Fred Barney Taylor,José Manuel Fajardo, il bulgaro Hri-sto Poshtakov. Jimmy Massey, autoredi Cowboys dell’inferno, («Un ex ma-rine che denuncia le atrocità dellaguerra in Iraq: fate attenzione, un li-bro sconvolgente»). Tra gli invitatispeciali ci sono l’italiano Carlo Luca-relli, il pachistano Tarik Alì («Un grannarratore, che racconta la storia daprospettiva araba e antifondamenta-lista»), il peruviano Santiago Ronca-gliolo, l’australiano Michael Ro-botham e molti altri. Tutti insiemeappassionatamente. Nel pomerig-gio, all’arrivo nelle Asturie, ad atten-dere i passeggeri c’è sempre la bandamunicipale. E la festa comincia. Anzi,continua. Perché la cultura è diverti-mento.

Benvenuti alla “Semana Negra”covo di giallisti, acrobati e anarchici

Al via a Gijón, in Spagna, il festival organizzato dall’autore

MASSIMO CALANDRI

PROLIFICOPaco Ignacio Taibo II (nella foto)

ha 56 anni e ha già scritto 57 libri

PanchoVilla

IL LIBRO

“Pancho Villa. Una biografía narrativa” di Paco Ignacio

Taibo II uscirà in Messico in agosto. In Italia arriverà

nel 2007 pubblicata da Marco Tropea Editore

Per Tropea sono uscite anche le avventure del detective

Héctor Belascoarán Shayne e romanzi

come “Rivoluzionario di passaggio”, “Ritornano

le ombre” e “Morti scomodi”, scritto a quattro mani

con il subcomandante Marcos. È del Saggiatore

“Senza perdere la tenerezza”, la biografia del Che

TaiboIIPaco

racconta

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noi irraggiungibili, e i cavalli sentono suoni che i nostritimpani non registrano, e gli uccelli notturni vedononel buio ciò che per noi è solo tenebra. E così l’occhiomeccanico della macchina fotografica di Paolo Spiga,nome d’arte che è già la testimonianza di una vocazio-ne, scova nelle venature concentriche delle cipolle,nell’arancio acceso del melone e soprattutto nell’infi-nita disponibilità del radicchio, indiscusso imperato-re trevigiano, una qualità estetica che nessuno sospet-tava. Gli ortaggi scompaiono come creature naturali, eriappaiono come colori di una tavolozza scatenata.

Purtroppo il sedano e le carote e i loro amici non pos-sono parlare, perché verrebbe voglia di domandare lo-ro: siete contenti di come siete stati rappresentati, del-la figura che fate appesi a pa-reti che hanno sostenuto per-sino quadri degli Impressio-nisti più celebrati, insommavi piace entrare in competi-zione col mondo dell’arte?

Temo che il radicchio, se potesse rispondere come nelle favole, primascuoterebbe la sua chioma rossastra, poi sbufferebbe, quindi nella suasimpatica calata veneta, come un attore del vecchio film di Germi Si-gnori e signore, direbbe: «De arte contemporanea mi no capisso un’o-strega, me par solo monade, mi me piaze star sprofondà nea tera, sontanto più beo cusitta…». E forse sarebbe spalleggiato dall’intera com-briccola vegetale, tutti insieme a dondolare e lamentarsi di essere di-ventati opere d’arte, striature astratte e luminescenti che potrebberoderivare da un virus impalato su un vetrino, o da una galassia persa nel-lo spazio, o dalle nervature di qualche vecchia palanca.

E magari, come in un cartone animato, la carota salterebbe a stan-tuffo sulle righe della bella introduzione del catalogo, scritta da Pia Pe-ra, una che di orti se ne intende e che li difende con passione, là dove di-ce: «Un fiore di pisello appare altrettanto stupefacente di un giglio e diun mughetto… e una corolla di melo è bella quanto e più di una rosa».Ecco, una patata è una patata è una patata, è straordinaria così com’è,come le pere di Pinocchio, buone nella polpa, ma anche nella buccia enel torsolo, se si ha fame davvero. Chi le coltiva lo sa, chi ci ha preso gu-sto a far crescere pomodori e lattughe in giardino o in terrazzo lo capisce bene. Ma gli artisti, sisa, sono artisti, sempre un po’ insoddisfatti della vita presente, e in ogni elemento cercano nuo-ve dimensioni, l’allegorica e la morale e l’anagogica, come già diceva Dante. E così grazie a que-ste foto scopriamo l’universo vorticoso nelle cipolle, l’apocalisse nel radicchio, le vibrazioni co-smiche nel sedano, però per favore non dimentichiamoci quello che i saggi insegnano da sem-pre: che la natura è perfetta così come si offre, e che per capire un’insalatina basta guardarla consimpatia, con attenzione, e naturalmente con un buon appetito.

Il dato sorprendente, certificato dall’Istat e diffuso dalla Coldiretti, è questo: quattro ita-liani adulti su dieci si dedicano a coltivare zucchine, pomodori, lattuga e ortaggi d’ognigenere e tipo. Lo fanno in campagna, ovviamente, ma anche sul terrazzo di casa, sul bal-concino appeso al sesto piano, su un davanzale generoso: qualsiasi posto va bene per zap-pettare, concimare, innaffiare e raccogliere. È la forma aggiornata degli “orti di guerra”,quelli immaginati dal fascismo per sopperire alla crisi economica nata dal conflitto mon-

diale, e che s’aprivano come fazzoletti bruni e colorati in ogni angoletto della città, e persino avia dei Fori Imperiali, come mostra un filmato della propaganda. Oggi la crisi è un’altra, eviden-temente, radicchio e finocchi e carote si trovano in qualsiasi stagione sui banchi di tutti i super-mercati, ma a quanto pare la gente ha sempre più bisogno di costruirsi il proprio hortus conclu-sus, uno spazio anche minimo di verde e di pace, una zona franca in mezzo al cemento e alle an-sie quotidiane dove ritrovare gesti antichi e pensieri sereni.

Girando per Roma, ad esempio — all’interno del Raccordo Anulare, dunque ormai nel cuoredella città — è facilissimo incontrare triangoli minimi di terra coltivata, campetti arati, filari esilie ben distesi, proprio accanto alle muraglie cinesi dei palazzi e alle rotaie degli Eurostar, e nonsembrano i resti di un mondo in via di estinzione, tutt’altro, sono un fenomeno che cresce e con-quista sempre nuovi ortolani. Le città danno molto, teatri, cinema, mostre, palestre, locali e con-tinue possibilità d’incontri, ma a quanto pare la gente sente ancora le necessità di azioni sempli-ci, di dedicarsi alla propria salute fisica e interiore, di trovare una corrispondenza naturale tra ungesto e un risultato. La città offre spettacoli a getto continuo, essa stessa è uno spettacolo che sirinnova ogni sera, ma alla lunga chiunque si stanca a fare soltanto lo spettatore, a mettersi in filaper un biglietto, comprare un posto a sedere, guardare, ascoltare, battere le mani e tornarsene acasa. E allora si ricomincia da un orticello in terrazza, così, per il gusto di decidere cosa piantare,per il piacere di seguire una piantina che cresce, per es-ser complici di un processo naturale. Insomma: peravere l’impressione di fare qualcosa di buono.

E alla bontà e alla bellezza degli ortaggi è dedicata lamostra Orto-Grafie, che dal 7 al 30 luglio si terrà pres-so la Casa dei Carraresi a Treviso. Si tratta di una seriedi grandi foto di ortaggi stampate su supporti più ma-terici rispetto alla tradizionale carta fotografica: cartestraccio, tele grezze, pannelli intonacati. Chi guardaqueste foto e legge le didascalie, rimarrà sicuramentesbalordito, forse addirittura confuso, e magari ancheirritato. E già, perché ritrovare in queste foto le formeperfette dei limoni o delle verze o delle rape rosse è pra-ticamente impossibile. Paolo Spiga, abilissimo foto-grafo, estrae dagli ortaggi immagini nascoste, li rendesimili a quadri espressionisti, li stravolge, deportan-doli dalla loro terra genuina al campo sofisticato del-l’arte più astratta.

D’altronde — questo è il ragionamento, credo — icani hanno un olfatto capace di raccogliere odori per

INDOVINA L’ORTAGGIO/1

A centro pagina,

zucchine e cetrioli

Qui sopra verza

sotto la brina e, accanto,

una foglia di carciofo

la mostraSi tiene dal 7 al 30 luglio

alla Casa dei Carraresi

di Treviso la mostra

“Orto-Grafie” di Paolo

Spiga. Sembrano quadri

astratti, ma sono foto

di comunissimi ortaggi

ripresi con particolari

accorgimenti di luce

Le immagini di queste

pagine sono state scelte

dal catalogo della mostra

e tra quelle escluse

Per informazioni

www.paolospiga.eu

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Cipolle, carote, verze, rape rosse. Da una serie di pazienti“incontri ravvicinati” con loro e con i loro confratellinasce “Orto-Grafie”, raffinata mostra fotograficache sta per debuttare a Treviso. Dove gli ortaggiscompaiono come creature naturali e riappaionocome linee e colori di una tavolozza astratta e scatenata

MARCO LODOLI

L’orto delle meraviglie

Secondo i dati Istat, quattro italianisu dieci si dedicano assiduamente

alla cura di un loro “hortus conclusus”,in campagna ma anche e soprattutto

su terrazzi, balconi e in quegli interstiziurbani dove il verde cresce a sorpresa

la letturaFoto d’autore

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E con le verdure insolitel’arte diventa laica

Nel Seicento i primi ritratti vegetali

ROSSELLA SLEITER

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Edire che il sogno di Gargantua, secondo Rabelais, eraquello di diventare un «piccolo pittore di verdure». Al-tro che piccoli, nella storia dell’arte alcuni di quegli ar-

tisti sono dei giganti. Ma non si sa se attribuirne il merito al-la bellezza degli ortaggi o al coraggio dei pittori, che, nelloscontro tra sacro e profano, scelsero di stare dalla parte del-

la scienza. Cardi, cavoli e carote pendono, lucidi e nobili, attac-cati a un filo prima di finire in pentola o in insalatie-

ra, sullo sfondo di una finestra oscurata. Li avevamagnificamente ritratti a olio nel Seicento, sot-

to il regno di Filippo Terzo, flaccido, rossiccio,pio e guerrafondaio come tutti gli Asburgo,

lo spagnolo Juan Sanchéz Cotán, religio-sissimo ed esteta, maestro di bodegón, onatura morta. La pittura metafisica, perqualche verso, comincia con lui e con icardi appesi a un filo.

Carciofi, baccelli, cetrioli si adagia-no sul piatto, ancora vivi, luminosi neicolori, punteggiati di fiori o di farfallesecondo lo stile elegante di GiovannaGarzoni. Di rara bruttezza e di eccezio-nale bravura, la Garzoni, adorata dagliaccademici romani di San Luca, segui-

ta a vista dal fratello in ogni viaggio, an-nunciando raffinatezze settecentesche

con trent’anni di anticipo (muore nel1670), faceva perdere la testa a principi e

duchi delle corti d’Europa, che per quei bac-celli o per quei carciofi, fissati con la tempera

su pergamena, erano pronti a pagare qualsiasicifra.Sono cose che succedono nel mondo della pittura

quando si scelgono soggetti diversi dal solito e si eseguo-no in modo originale. Fu proprio Caravaggio il primo, doposecoli di asservimento alla committenza religiosa o imperia-le, a difendere il diritto dell’artista a dipingere quel che vuo-le, non solo santi e vergini, non solo nobili ed eroi. Caravag-gio optò per un cesto di frutta, ma la via ormai era aperta an-che agli ortaggi. E non si chiuse più.

Nell’Herbarium di Cassiano dal Pozzo, uno dei pezzi piùimportanti della collezione reale inglese, dove c’è di tutto,più che ai mercati generali, i carciofi sono «mostruosi», scu-ri, strani, contorti, spinosi. Per un gioco sottile e bene orche-strato, Cassiano e il suo amico, il principe Federico Cesi, es-sendo papa Urbano Barberini, si inventarono la necessità diosservare, studiare, catalogare e ritrarre tutto ciò che esiste-va in Natura, anche per difendere Galileo Galilei dal tribuna-le della Chiesa. Così, insieme ai primi accademici dei Lincei,Cassiano e Cesi si imbatterono anche in carciofi e zucche.

Tra le cose che divertono gli archivisti e gli storici dell’artenel corso del loro lavoro non bisogna dimenticare l’incontrocon la patata e con la melanzana. La patata fu disegnata intutte le possibili forme per il mitico corsaro Drake. Sir Fran-cis avrebbe attraversato l’Oceano all’incontrario, dalla Co-lombia, dopo aveva combattuto e vinto gli spagnoli nei Ca-raibi, facendo rotta su Londra, con le patate nella stiva e unerbario fatto da mani indiane (d’America) dell’ignoto tuberoe dei primissimi fagioli, per farne dono alla Regina Elisabet-ta, la Grande Elisabetta. L’herbarium di Drake non raggiun-ge lo splendore degli olii di Sanchéz Cotán, ma una patata èuna patata, neanche van Gogh riuscì a renderle visivamenteinteressanti.

Le melanzane, «mala insana», «cattive e malsane» arrivatedalle Americhe, conquistarono i pittori prima dei cuochi, chenon capivano che farne. Passano gli anni e Bartolomeo Bim-bi, 1648-1730, correva nell’orto del Granduca di Toscana,ogni volta che cresceva qualcosa di insolito, un «melone mo-struoso» o una «zucca mostruosa». Il Bimbi ne era entusiasta,prima li osservava sulla pianta, memorizzava il colore dellevenature, il numero delle protuberanze; quindi li portava instudio e li dipingeva in maniera che subito se ne notassero lemostruosità. Cosimo Terzo dei Medici, vedendoli ritratti, sisarebbe sentito come Ercole che trasporta il primo albero dicedro dai giardini africani delle Esperidi alla Grecia. Ma no,di più. E il Bimbi, mentre stendeva l’olio sulla tela, si gustavala scena del Granduca che prendeva carta e penna per darnenotizia in Germania come in Olanda, in Inghilterra come aParigi, ai regnanti pari suoi. La zucca mostruosa sarebbe di-ventata rarità tra le rarità della Corte.

E dire che nel Nord Europa furono proprio gli olandesi conPieter Aertsen che sparge carote, cetrioli e verdure sul pavi-mento della cucina (La Cuoca, 1559) a cui si ispirò, vent’annidopo, Vincenzo Campi nel dipingere l’Ortolano, con i cesti dicavoli e zucche, a far riscoprire in pittura il bello della Storianaturale di Plinio il Vecchio. Verdure comprese, un soggettoborghese, visto senza pensare ai simboli, quando la parolaborghese aveva un altro peso in Europa.

INDOVINA L’ORTAGGIO/2

La foto grande è terriccio. In questa pagina

in alto, in senso antiorario: aglio, cipolla,

un pomodoro, un melone e cappuccio viola

Sotto, bietolino rosso e rape rosse

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In America la chiamano “elevator music”, musicada ascensore. È il tappeto melodico che ci accompagna in tutti i “non - luoghi”, note ansiolitiche da udire

e non da ascoltare, scritte per entrare da un orecchio e uscire dall’altro. Eppurequesto vapore sonoro che uccide il silenzio è diventato un business mondiale,perché tranquillizza e, in certe condizioni, spinge la gente a consumare di più

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

Il desilenziatore è in funzione,ma non te ne accorgi. Quandohai premuto il pulsante, quandole porte scorrevoli hanno glissa-to frusciando, dopo la scossettadi terremoto che mette in vibra-

zione la cabina dell’ascensore, solo al-lora percepisci qualcosa nell’aria, unasfumatura di luce? un leggero profu-mo? un rumore di fondo? Ecco, un ru-more liscio, bianco, vellutato: una mu-sica? Sì, una musica: riconosci il pia-noforte, ma non è precisamente unamusica, è un flusso di vibrazioni sono-re, gradevoli ma inafferrabili, gentili,educate e insulse,senza inizio né fi-ne, senza una veramelodia, senzapause o tempi for-ti; provi a seguire ilmotivo ma non c’èpiù tempo, sei ar-rivato a destina-zione, le porte sispalancano, escidal vapore sonorocome da una sau-na e finalmente tirendi conto cheneanche lì, nel-l’immobilità for-zata della cabina,nei pochi secondidel tuo viaggio ver-ticale, hanno voluto lasciarti solo coituoi pensieri, a tu per tu col silenzio.

Cosa c’è che non va, nel silenzio? Chici ha diagnosticato una silenziofobiacollettiva e cronica, chi ci ha prescrittouna cura palliativa di pillole sonore?Curioso, ma non c’è modo di saperlo. Ilfront managerdel bell’albergo romanosembra perfino stupito della domanda:«Non so, forse la direzione generale...Forse gli ascensori ce li forniscono giàcon la musichetta incorporata...». Nonè così. Indaghi ancora, ma i managerdelle grandi catene alberghiere cadonopure loro dalle nuvole: «Ci pensano i di-rettori dei singoli hotel», e i produttoridi ascensori si defilano: «Noi predispo-niamo solo l’impianto sonoro». Sta’ avedere che il dj dei nostri micro-ascolti

compagnia e inganna l’attesa. Così al-meno racconta Joseph Lanza, storicodella elevator music (c’è uno storico perqualsiasi cosa, nel gran bazar postmo-derno). Pare che questa speciale musi-ca da (mini) camera sia addirittura lamadre di tutte le lounge-music, la tap-pezzeria sonora che riveste ogni am-biente della nostra giornata comunita-ria: supermercati, piscine, gabinetti,ambulatori di dentista, aeroporti, saleoperatorie, taxi, parcheggi multipiano,carlinghe di charter, la musichetta sot-tovoce è lì che ti aspetta e ti accoglie e ticulla, è la non-musica di tutti i non-luo-ghi. Modesta all’apparenza. Aggressivanella sostanza. È un business gigante-sco, una miniera ancora tutta da sfrut-tare: i discografici italiani associati nel-la Scf se ne sono accorti in ritardo, soloora mettono ordine nell’anarchia dellediffusioni ambientali rivendicando i lo-ro diritti economici a grandi fendenti:nel 2005 il ramo musica d’ambiente hafatturato in royalties la bellezza di 5 mi-lioni di euro, il 200 per cento più del-l’anno precedente, un sesto dell’intero

fatturato della musica riprodotta.Niente male per un repertorio che

nessuno veramente ascolta, che è fattoper nonessere ascoltato. Musica-mobi-lio, da usare nella distrazione, come si facon i sedili degli autobus. Scriveva SaulBellow in un momento di malinconiaanti-consumista: «In ascensore siascolta solo l’idea di musica». Ma che

all’impiedi, il grande confiscatore del-l’ultimo spazio pubblico del silenzio, èun operaio manutentore, o un portiereche annoiato pesca a caso nello scaffaledei suoi cd.

Eppure la lift-music, la musica per gliascensori, non è una banalità casuale.Se ne può raccontare la storia, perfino lacultura. Che è un frammento di culturadella modernità, e pure di buona anna-ta: 1922, alba dell’era dei grattacieli. Igrattacieli sono alti, gli ascensori li sca-lano con autentici piccoli viaggi; sonoaggeggi nuovi e inquietanti, scatole chel’ansia claustrofoba associa in fretta abare mobili; la tecnologia è ancora ruvi-da, pulegge ingranaggi e catene, rumo-ri scosse e vibrazioni, e allora all’ex co-lonnello dell’esercito Usa George O.Squier viene l’idea di coprire i rumoriansiogeni con suoni ansiolitici, e inven-ta la muzak, la musica da udire e non daascoltare, la musica sedativa che tiene

L’idea venne nel 1922a un ex colonnellodell’esercito Usaper coprire i rumoriinquietantidei primi, rudimentalimontacarichi

MICHELE SMARGIASSI

muzakDal supermarket all’aeroportoprigionieri della musica-flebo

AEROPORTILa foto grande

è tratta dal libro

Transit di Marco

Brambilla (Booth-

Clibborn Editions,

1999) ed è stata

scattata al Charles

de Gaulle

di Parigi nel 1998

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 2 LUGLIO 2006

idea è? Muzak per gli americani è ormaisinonimo di musicaccia, ma per Ador-no «essere percepita solo come sfondo»è la condizione finale a cui tende inrealtà tutta quanta la musica moderna.Musica subordinata, musica per, musi-ca di secondo grado, ne consumiamogià più di quella scelta e goduta solo perse stessa. Musica per abitare: tivù pe-rennemente accese in casa. Musica perlavorare: il programma Music WhileYou Work fu lanciato dalla Bbc già neglianni Quaranta, sulla scia dell’intuizio-ne dei sette nani di Biancaneve-Disney.Musica per camminare: il walkman èstato uno degli oggetti fondamentali del

Novecento, l’iPod è il suo promettentenipotino. Musica, musica ovunque:subìta e non cercata, un’eterna onni-presente sinfonia, scrive Jacques Attalinel suo Bruits, ha sostituito ovunque ilrumore come sfondo necessario del pa-norama sonoro umano.

«Musica pericolosa»: in nome dell’e-cologia dell’orecchio sta però maturan-do la ribellione. Sul britannico Guar-dian Philippa Ibbotson, violinista clas-sica e studiosa dei rapporti fra musica esalute mentale, ha lanciato la crociatacon una serie di articoli: «La elevatormusic non eleva proprio nulla», scrive,«come il junk food, la junk music lascia

appesantiti e insoddisfatti». Forse an-che peggio: assuefatti. Almeno la loungemusic propriamente detta e corretta-mente usata, cioè quella delle sale d’a-spetto, dei cocktail bar, dei centri com-merciali, conserva ancora la forma del-la musica da ascolto: per quanto confi-nata sotto i 40 decibel della soglia di at-tenzione, come si nascondesse dietro letende per non essere notata, è articolatain brani che hanno un inizio e una fine,quasi sempre sono classici strafamosidel pop, del jazz, perfino classici (vannoforte Mozart, Debussy, Satie, ultima-mente i canti gregoriani) levigati e carta-vetrati da trascrizioni per pianobar: vo-lendo la si può davvero ascoltare, cioèseguire nello svolgimento melodico,padroneggiandone la struttura.

In ascensore no: è tutta un’altra musi-ca. Nei venti secondi fra il piano terra e ilterzo piano non c’è struttura che tenga,c’è posto solo per una musica a nastro, aloop, che s’avvolge su se stessa come l’a-nello di Moebius, che si morde la codacome un gatto, una marmellata omoge-nea che può essere presa e lasciata sen-za danno in qualsiasi momento del suofluire isotropo. Una musica così, già fat-ta, non c’era. Hanno dovuto comporlaapposta: ci sono già, da poco anche inItalia, etichette specializzate, i cui dischinon troverete nei negozi. Più scienzache arte, la musica per questi audito-rium da tre metri cubi è pensata per ri-spondere a requisiti psicologici precisi:univoca, a-problematica, inoffensiva,agnostica, impersonale, trasparente.Così può entrare da un orecchio ed usci-re dall’altro, non senza però aver lascia-to depositi nella nostra memoria invo-lontaria, come si diceva facessero le le-zioni scolastiche apprese nel sonno, colregistratore sotto il cuscino. La tappez-zeria sonora delle nostre minuscole sa-le da concerto targate Otis o Schindler oKone sta probabilmente cambiando inostri gusti musicali senza che nemme-no ce ne accorgiamo.

Ma abbiamo davvero ancora biso-gno, oltre un secolo dopo l’invenzionedell’ascensore, di sedativi da viaggio trail primo e il quinto piano? No, ma nelfrattempo la funzione della musicachill-out, scacciapensieri, è mutata.Non vuole più attenuare le nostre per-cezioni, ma stimolare le nostre azioni.Nei grandi magazzini, sostiene uno stu-dio del professor Umberto Lago dell’U-niversità di Bologna, la diffusione della

musica giusta (lenta, suadente, che in-voglia a sostare tra gli scaffali) incre-menta le vendite fino al 38 per cento.Come mucche nelle stalle industriali,sul tappetino sonoro ci lasciamo mun-gere meglio. Da strumento di acclima-tazione dell’uomo, organismo antiqua-to, nell’ambiente tecnologico, la musi-ca funzionale è diventata stimolatrice dicomportamenti appropriati. Quasisempre comportamenti di consumo.

Ma in ascensore non c’è nulla da com-prare, nulla da produrre, nulla da con-sumare. Perché, allora, et in elevator ego?Forse perché un’oasi di silenzio nel clan-gore delle nostre giornate, per quantominima, non siamo più in grado di af-frontarla. Quando il «silenzio improvvi-so» inopinatamente riappare, per un ca-so, un black-out elettrico, una pila scari-ca, non è una pausa di riposo, è un vuo-to d’angoscia. È silenzio di tomba, hor-ror vacui, è l’apocalittico Sound of silen-ce della canzone di Simon & Garfunkel.Nata per coprire i rumori inquietanti, lamusica da ascensore ora copre i silenziperturbanti. Idranti della nostra ango-scia, i desilenziatori allontanano i fanta-smi dell’afonia svuotando le menti estaccandole dal corpo: musica dis-cor-porante, che aspira a infonderci uno sta-to di estasi (o di Ecstasy?).

Siamo muzak-dipendenti. Quellagran testa di Brian Eno, uno che apprez-za il silenzio, ha capito per tempo chel’unica reazione efficace a una drogapadrona del campo è ridurne il danno:la sua Music for airports, per esplicitaammissione, è «silenzio attenuato», èun tentativo di inoculare qualche anti-doto nella piped music, la musica-fleboche ci iniettano direttamente in vena.Ma allora, nell’ascensore che ti riportain camera, mentre cerchi di sottrarti alnarcotico pianofortino new-agee mini-malista che ti si appiccica addosso co-me miele, ti vien da riflettere su quantofosse in realtà un severo sacerdote dellatradizione, una vestale di antichi valori,quel John Cage che fu etichettato musi-cista sovversivo quando nel 1952, manisulle cosce, immobile davanti al pia-noforte muto, eseguì per la prima voltain pubblico la sua più celebre composi-zione, Quattro minuti e 33 secondi di si-lenzio.

Nei grandi magazzini,secondo uno studiodell’Universitàdi Bologna,può incrementarele venditefino al 38 per cento

Augusto Martelli è forse l’esponente più celebredella “muzak” italiana. Artista celebre negli anniSettanta (sia per la sua musica, soprattutto lo

straordinario hit di Il dio serpente; sia per la sua vita pri-vata, con Mina), oggi non è più sotto i riflettori ma conti-nua a lavorare e produrre musica. Sono infinite le sigletelevisive che conosciamo a memoria e che Martelli hascritto, e altrettante le musiche di sottofondo, di com-mento, le colonne sonore, che il musicista ha realizzatoe realizza. E delle quali va fiero. «Come lavoro? Come tut-ti quelli che fanno un lavoro su commissione e che nonhanno bisogno del momento di ispirazione, se sanno fa-re il loro mestiere. Il musicista vero deve saper fare tutto,muoversi rapidamente anche in condizioni difficili. E in-vece oggi sembra che chiunque prenda una chitarra inmano possa dire di essere musicista, vengono chiamati“maestri” dei perfetti analfabeti e sono in troppi quelliche rubano il lavoro ai musicisti veri».

La musica di sottofondo o le sigle delle trasmissio-ni, insomma, richiedono una grande attenzione.

«Certo, come qualsiasi altra cosa debba essere fattabene. Io scrivo sempre dei pezzi pensando che possa-no diventare dei successi e piacere alla gente. Adesempio la sigla di Serie A, il programma televisivo cheè stato di Bonolis prima e di Mentana dopo, era partedi una ventina di brani di sottofondo che io avevocomposto per la “library” di Canale 5. Guardando la tvho visto che lo avevano scelto come sigla e ne sono sta-to molto contento».

Il suo lavoro viene spesso considerato di “serie B”.

«E chi lo fa si sbaglia di grosso. Ma è così solo in Ita-lia, perché all’estero chi lavora come me ottiene gran-di riconoscimenti. Giusto pochi giorni fa mi hanno te-lefonato chiedendomi di realizzare la canzone uffi-ciale di Barbie in tutto il mondo, e io ho accettato conentusiasmo. La canterà Elisabetta Viviani».

Lavorare su commissione non le pone molte limi-tazioni?

«Sì, ma è una sfida, è stupendo. Le faccio un esem-pio di cui vado fiero: nel 1971 venne da me la commis-sione interna della Scala di Milano perché bisognavafare dodici pezzi per Sinatra e la Barton Music (un edi-tore specializzato in musiche di commento per cine-ma e tv, che all’epoca forniva brani al grande cantan-te americano, ndr). Scelsero me, c’era pochissimotempo. Realizzai dodici pezzi in due giorni, a Milanocon l’Orchestra della Scala, feci tutti gli arrangiamen-ti, andò benissimo. Adesso quelli che vanno a Sanre-mo si mettono in dodici autori e ci mettono un anno ascrivere una sola canzone».

Rimpianti?«Davvero nessuno. Le voglie me le sono levate, mi

manca solo l’Oscar. Adesso aspetto di incontrare il sin-daco Moratti per aprire a Milano una scuola di perfezio-namento per i ragazzi che escono dal Conservatorio. In-somma non sto mai fermo. Ho un orchestra che è la finedel mondo, con dei bravissimi musicisti che insieme ame sanno passare dal classico al jazz, al pop. Un bravocuoco deve essere così, anche se gli ordinano delle uovaal tegamino le fa nella maniera migliore».

“Siamo musicisti da Oscar e non da serie B”Parla Augusto Martelli, forse il più celebre tra i creatori italiani di “muzak”

ERNESTO ASSANTE

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SpigolaCorpo allungato, color grigio

chiaroscuro, peso fino ai 15 kg,

è uno dei pesci più apprezzati e ricercati per la sua

carne chiara, delicata. La bottarga, che si lavora solo

dagli animali più grandi, gareggia con quella

di muggine per finezza

MuggineIl Mugil Cephalus è un pesce

a carne bianca che può vivere

a vari gradi di salinità: il suo habitat varia dalle coste

alle foci dei fiumi fino alle lagune più o meno salmastre

La bottarga che si ricava dalle uova, di color ambrato,

è fine e delicata

TonnoLa bottarga più nota e diffusa

ha gusto deciso, accentuato,

caratteristico di un pesce che pesa anche due o tre

quintali. Le dimensioni delle sacche ovariche

influiscono sull’intensità del gusto. Produzione legata

alla stagione della mattanza

LICIA GRANELLO

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

È tra l’estate e l’autunno che il rito lento della raccolta e dell’essiccazionedelle sacche ovariche delle diverse specie di pesci offre agli appassionatiil prodotto migliore. Profumate, dal gusto intenso e dalla fragranzaspeciale, le bottarghe diventano così le migliori amiche degli spaghetti

Golosità di stagionei sapori

Pesce spadaLungo anche quattro metri,

il pesce-simbolo della cucina

siciliana vanta carne bianco-rosata, scura intorno

alla spina dorsale, raffinata e vigorosa. Sulle coste

isolane è tradizione asciugare le uova ai venti

di scirocco e libeccio

MolvaPesce da grandi profondità

(anche 300 metri) viene

pescato nel basso Mediterraneo e intorno

ad Alghero. Dalle sacche ovariche, che possono

pesare anche un chilo, si ottiene una bottarga

di sapore delicatissimo e difficile da trovare

il testimonialLuigi Biggioè il “rais”(il responsabile)della tonnaradi Carloforte,sull’isola di SanPietro, a sud

di Cagliari, dove da secolisi ripete il ritodella mattanzaPer tutto il mese di giugnoe luglio si preparanole bottarghe e i cuoridi tonno sotto sale

Appoggiata

nella piana del Sinis,

zona di nuraghi

e torri spagnole,

è famosa per i suoi

vigneti e per gli

specchi d’acqua,

lo stagno di Mistras

e quello di Cabras,

uno dei più grandi d’Europa. Dal muggine si ricava

una bottarga soave, “L’oro di Cabras”

DOVE DORMIRESA REPOSADA

Via Bellini 43

Tel. 0783-392254

Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL CAMINETTO

Via Battisti 8

Tel. 0783-391139

Chiuso il lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREFRATELLI MANCA

Via Cima 5

Tel. 0783-290848

Cabras (Or)La più grande

e famosa delle isole

Egadi deve

il suo nome al vento

Favonio, che le porta

aria calda da Ovest.

A terra, prosperano

flora e fauna

mediterranee

Nel suo mare, vi è ancora una tonnara in attività

Qui si produce bottarga di tonno

DOVE DORMIREALBERGO AEGUSA

Via Garibaldi 11

Tel. 0923-922430

Camera doppia da 135 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA BETTOLA

Via Nicotera 47

Tel. 0923-921988

Senza chiusura estiva, menù da 30 euro

DOVE COMPRARECONSERVITTICA SAMMARTANO

Contrada Madonna 4

Tel. 0923-921054

Favignana (Tp)Affacciata

su una penisola

circondata

da lagune chiuse

da due affascinanti

lingue sabbiose,

Feniglia e Giannella,

ospita nella sua area

una pregiata oasi

faunistica e l’allevamento di cefali con annessa

produzione di bottarga

DOVE DORMIREFATTORIA IL CASALONE

Via Aurelia Km.140.5, località Pitorsino

Tel. 0564-862160

Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREI PESCATORI

Via Leopardi 9

Tel. 0564-860611

Aperto tutte le sere, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREORBETELLO PESCA LAGUNARE

Via Leopardi 9

Tel. 0564-860288

Orbetello (Gr)

‘‘

Da LE CENERI DELL’AMANTE CINESEdi Hubert Haddad

BottargaI venditori

L’aria era saturadi spezie. Una follameticcia occupavala stradae i larghimarciapiediVenditoridi bottarga,di orologio di gelsominicircolavanofra i gruppi rumorosidi arabi o africanie fra i tavoliniall’aperto dei caffè

Grattugiata, polverizzata, tagliata a fettine sottili, sottilissime, emulsiona-ta, marinata, tritata. Se «i diamanti sono i migliori amici delle ragazze»,come sosteneva Marilyn, la bottarga è la migliore amica della cucina d’e-state. Niente di nuovo, sotto il sole del Mediterraneo, se è vero che fra iprimi a trasformare le sacche ovariche dei pesci in prelibatezza gastro-nomica furono fenici, egizi (nelle piramidi sono state trovate delle bot-

targhe esternamente ancora integre, conservate nella paraffina naturale) e arabi, che labattezzarono butárih: ovvero, uova di pesce ancora all’interno del sacco vitellino.

Da allora a oggi, nulla è cambiato nella preparazione, almeno per quanto riguardal’artigianato di qualità. Chi ha la passione e la fortuna di accedere a una delle poche no-stre tonnare ancora in attività — Carloforte e Favignana in primis — o va a spiare il la-voro dei pescatori alle spalle dello stagno di Cabras, della laguna di Orbetello, delle con-servatorie di Cetara, in questo periodo può assistere a un rito lento, lungo, sapiente.

Le sacche ovariche estratte dal pesce durante la stagione degli amori, ovvero tra tar-da primavera e fine estate, vengono lavorate immediatamente, seguendo metodi e tem-pi che variano da specie a specie.

Per preparare la bottarga di muggine — colore aranciato e odore marino, che inmolti mettono in testa alla hit parade della categoria per il suo gusto morbido e soave— si catturano le femmine in procinto di lasciare la laguna per andare a riprodursi inmare aperto.

Le uova — fino a un terzo del peso del muggine — lavate in acqua dolce, sono messesotto sale per pochissimo tempo e fatte seccare per una decina di giorni: senza pressar-le, semplicemente compattate prima del confezionamento.

Di tutt’altra forza la ricetta della bottarga di tonno, che nasce da sacche grandi fino asei chili, messe prima in salamoia e poi “seppellite” sotto pietre pesanti.

Giorno dopo giorno, mattino e sera, per un paio di settimane, gli stessi pescatori gran-di e forti che pescano, trasportano e sezionano con abilità da chirurghi tonni anche didue, trecento chili (animali da trenta a sessant’anni d’età) si trasformano in abili e docilimassaggiatori. Tocca a loro, infatti, liberare le bottarghe in fieridai cumuli di pietre e reim-prigionarle dopo averle manipolate delicatamente col sale, per liberarle dai liquidi dipressatura. La maturazione dura dai due ai tre mesi, a seconda delle dimensioni. Piccoleo grandi che siano, il colore è intenso, originale, caratteristico, proprio come il sapore.

Come sceglierle? Giuliano Greco, titolare della storica tonnara di Carloforte, dove ognianno si celebra il rito della mattanza in contemporanea a “Girotonno” — l’evento che rac-coglie cuochi, artigiani e selezionatori uniti dalla passione per il manzo del mare — am-monisce: «Evitare gli esemplari troppo piccoli, perché sono facilmente saturi di sale. E an-che quelli molto grandi, i più difficile da far stagionare in maniera perfetta. La pezzaturaideale è intorno al mezzo chilo. Il momento di acquistarle va da fine estate all’inverno. Do-po, le bottarghe cominciano a perdere fragranza, meglio aspettare la nuova produzione».

Altro vincolo, quello della conservazione: oltre i sei mesi dalla data di confeziona-mento, la bottarga rischia di diventare un concentrato di sale. Che sia appena statacomprata o sia in via di esaurimento in frigorifero, il sottovuoto (ormai le sottovuota-trici domestiche sono di dimensioni poco superiori a una confezione di carta ali-mentare e il prezzo non supera i 200 euro) è il modo migliore di allungarle la vita, ri-ducendo al minimo la disidratazione.

Se siete in crisi di astinenza, programmate un weekend a fine agosto a Marzamemi, Si-racusa: al “Bottarga Festival” saranno disponibili le primis-

sime bottarghe che hanno appena com-pletato la stagionatura. Perfette

per gli spaghetti più go-losi di fine estate.

Le uova del mare

itinerari

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 2 LUGLIO 2006

SpaghettiLa ricetta più facile e appetitosapuò essere realizzata in biancoo con salsa di pomodoroTra le varianti, l’aglio scaldatonell’extravergineper aromatizzarlo e un pizzicodi peperoncinoLa bottarga, aggiunta dopola pasta, non deve mai cuocere

FilettoSopra la carne cottavelocemente su griglia o in padella antiaderente,si appoggia una fettina di burrodi bottarga, ottenuto lavorandoil burro ammorbiditocon bottarga grattugiata,lasciato poi avvolto nella cartada forno in freezer per mezz’ora

UovaLa versione “ittica” delle celebriuova al tartufo si realizzafacendo colorire il burro finoa che schiuma. Rassodatoil bianco, si appoggia il rossosenza farlo cuoceree lo si copre di lamelledi bottarga,che sostituiscono il sale

CrostiniIl pane casareccio un pocoraffermo va tostatoleggermente in forno. Ancoracaldo, si copre con la salsaottenuta facendo macerare la bottarga, grattugiatao in lamelle, con olioextravergine e polpa frescadi pomodoro privata dei semi

Origine, pregi e peculiarità di un prodotto che in Sardegna vanta una storia vecchia di secoli

MANLIO BRIGAGLIA

Per la bottarga, in Sardegna, ci sono due nomi e due pesci. Il nome ita-liano, bottarga, che in questo tramonto dei dialetti è diventato comu-ne anche per quelli che parlano sardo, e bottàriga, l’antico nome iso-

lano memore dell’arabo butárih da cui deriva. E due i pesci, il tonno e ilmùggine. Un tempo la bottarga di tonno era la più diffusa, veniva dallegrandi tonnare di Stintino, dalle parti dell’Asinara, e dell’isola di San Pie-tro, capitale Carloforte. Ora le tonnare non ci sono più: modifiche di cor-renti e inquinamento del mare hanno allontanato i grandi pesci dalle co-ste della Sardegna. Ogni tanto calano le reti, soprattutto al sud, e ci sonobuyers giapponesi che arrivano, trapanano con un piccolo arnese il pesceappena pescato come si fa col parmigiano, comprano e spediscono inGiappone con grandi aerei-frigorifero. Così negli ultimi venti-trent’anniha preso piede la bottarga di mùggine, che anche prima aveva i suoi tifosi.

La bottarga sono le uova del tonno o del muggine. Estratte dal ventre del pe-sce, vengono messe a salare per qualche ora, poi lavate e pressate ad essiccaresotto due tavole o due pesi, in modo da assumere la forma con cui vengono mes-se in commercio. Quella di muggine, pescata da metà luglio a metà settembre,quando il pesce è più grasso, lunga non più d’una decina di centimetri e alta nonpiù d’un paio. Quella del tonno grande come una (grande) pala di ficodindia,pesante qualche chilo. Grandezza inconfondibile, non meno del colore: brunoscuro quella del tonno, più virata verso un delicato arancio, specie quando è fre-sca, quella di muggine.

Nei ristoranti (la bottarga non è cibo casalingo, e anche il prezzo ha la sua par-te) viene servita con l’antipasto a fettine sottili, da indorare con un filo d’olio emangiare con lamelle di carciofi o sedano fresco a pezzetti, oppure chiamata acondire gli spaghetti: i gourmet la preferiscono grattugiata cruda, semplice-mente, così rimane intatto il profumo. Che darebbe alla testa e ai sensi, perché

anche la bottarga, come cento altri frutti del mare, ha fama di afrodisiaco. La patria della bottarga di muggine è il grande stagno di Cabras, nel golfo di

Oristano. Duemila ettari, l’ambiente umido più importante d’Italia e uno deipiù importanti d’Europa, popolato da migliaia di uccelli acquatici migratori: èla patria italiana del fistione turco, quando si levano in volo i fenicotteri tingo-no il cielo delle loro ali rosa, qui il loro nome è «sa genti arrùbia», il popolo ros-so. Uno stagno così grande che lo chiamano «Mare’e Pontis». Ci pescavano uo-mini organizzati in una ferrea piramide gerarchica, ogni strato con i suoi privi-legi o la sua fatica, perfino con suoi specifici arnesi di pesca (a chi la rete, a chi ilpalamito, a chi solo una fiocina). A metà Ottocento erano cento esatti: in alto gliinvidiati “servi di peschiera”, a stipendio fisso mensile, un tanto di grano al me-se e una piccola quota di pesci ogni settimana; a metà piramide altri venti ave-vano l’obbligo di aiutarli quando ce n’era bisogno, in cambio d’un soprassoldosettimanale; in basso altri sessantasei autorizzati a pescare nello stagno liberocon i “fassoni”, piccole imbarcazioni monoposto di erba palustre, più volte ras-somigliate a quelle con cui lavorano i pescatori del Titicaca, tra Perù e Bolivia.

Lo stagno era di proprietà del re di Spagna, nel 1652 uno di loro lo vendette acerti Vivaldi genovesi (143mila scudi sardi, diversi milioni a volerli contare ineuro) e un loro erede, il duca di Pasqua, lo rivendette a metà Ottocento a una fa-miglia di nobili oristanesi. A metà Novecento il movimento dei pescatori (or-mai quattrocento) sostenne il diritto-dovere della Regione sarda di espropria-re i proprietari di quello che chiamavano «un relitto feudale». Nel 1961 Giusep-pe Fiori ci fece sopra una grande inchiesta, il titolo del libro, Baroni in laguna,diceva tutto. La Regione finì per comprare lo stagno e affidarlo ai pescatori: daquarant’anni nello stagno c’è pesca e polemiche. Il bravo turista siede al suo ta-volo vista mare, non sa che in ogni fettina dorata c’è un pezzo di lotta di classe.

L’autore è docente di Storia contemporanea all’università di Cagliari

In ogni fettina un pezzetto di lotta di classe

Pomodori e mozzarellaNella variante super gustosadella classica caprese,la bottarga si sparge in lamellesottili sopra le fettedi pomodoro e mozzarella di bufala (tagliata e fattascolare) sovrapposte, al postodel basilico. Rifiniturad’obbligo con l’extravergine

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le tendenzeAl passo coi tempi

Tornano di moda, con abiti estivi e pantalonileggeri, le scarpe che furoreggiarono negli anniSessanta e che Marilyn e B.B. contribuironoa trasformare in accessorio cult. Tecnologichee colorate, adesso perdono il proprio connotatobon ton per trasformarsi in calzature sexy

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

LAURA ASNAGHI

MODERNISSIMEVerde mela intenso

ed elastici viola

per la Camper, l’azienda

ha chiamato l’artista

Susanna Muniz

per la sua collezione

di ultrapiatte estive

VISTO DI GARANZIATela grezza ingentilita

da fiorellini gialli

e fiocchetto bon ton

Una ballerina irresistibile

quella di Car Shoe

La comodità è garantita

dal plantare in cuoio

DA COLLEGIALECamoscio rosa, tomaia

con fibbietta laterale

per la ballerina

in stile collegiale prodotta

da Flexa. Disponibile

anche in giallo, verde

e blu oltremare

ANIMA ETNICARealizzata in canvas

con profili in pizzo

e suola in cuoio

la ballerina

Sete di Japuir

ha un’anima etnica

D’ispirazione indiana

SOTTO LE STELLEPreziosa come un gioiello, creata apposta

per l’abito da sera, l’ultrapiatta Marc Jacobs

illumina la notte di riflessi dorati. Imitazione

glamour della scarpetta da danza

COME UNA FOGLIASi chiama Jutta la ballerina verde foglia

aperta sui lati firmata Tod’s. Look

contemporaneo, ma dalla vaga ispirazione

retrò. Per donne che amano il classico

Ballerine«L

a ballerina? È il modo più femminiledi scendere dai tacchi». La stilistaRossella Jardini che guida la maisonMoschino, non ha dubbi. La sedu-zione non accetta mai mezze misu-re. Dai tacchi alti, che lasciano on-

deggiare il corpo in un affascinante movimento lento,si può passare direttamente alla scarpa ultrapiatta,classica ma non troppo, meglio se decorata, come daMoschino, con fiocchi e bottoni giganteschi o in tessu-to pregiato indiano (sete di Jaipur) oppure in materia-le tecno (Pirelli).

Ogni estate porta con sé una ossessione, una mania,un tormentone glamour. E in fatto di scarpe, la balleri-na si prende adesso una bella rivincita sulle sue “con-sorelle” esposte in vetrina. Ed è perfino in grado dicompetere con le super-modaiole zeppe. Per chiarire:nel gioco dell’hit parade della calzatura estiva, il primoposto va ex aequo all’accoppiata ballerina-scarpa conplatform. Tutte e due si contendono i favori del mon-do femminile. «È un gioco degli estremi che da sempreaffascina le donne», spiega Silvia Venturini Fendi. Laballerina non ha tacco ma è tutt’altro che priva di sexappeal. «Se indossate con eleganza e una certa aria sba-razzina, le ultrapiatte non sono affatto innocenti» spie-ga Bruno Frisoni, lo stilista di Roger Vivier, marchio fa-moso per le scarpe Belle de jour, rese celebri da Cathe-rine Deneuve nell’omonimo film di Buñuel. «Le balle-rine — ricorda Valentino — hanno furoreggiato neglianni Cinquanta. Ma col tempo hanno perso quell’ariaun po’ understate, di scarpe da ragazza per bene, perdiventare estremamente sexy. E io le disegno con lostesso spirito con cui tratto quelle con il tacco alto».

Non è, dunque, solo lo stiletto o il dieci centimetri “aspillo” a conferire una certa aria seduttiva a signore esignorine. «Se la donna accetta la ballerina, significache si sente forte e sicura di sé senza bisogno di ricor-rere ad artifici — ammette Alberta Ferretti — La calza-tura rasoterra dona una sensualità nuova più armo-niosa e più vera. Ed è forse per questo che le donne ditutte le età la amano».

Ma le calzature regine dell’estate richiedono un por-tamento speciale. «Il segreto sta nel sollevare il piede espingerlo in avanti appoggiando il tacco a terra e poi lapunta, il tutto con estrema naturalezza» spiega Rober-ta Rossi, titolare della Rossimoda, azienda che produ-ce tra l’altro la collezione Marc by Marc Jacobs, quasitutta centrata sulle ballerine. E aggiunge: «C’è un erro-re che spesso le donne commettono. Con queste scar-pe ai piedi pensano di essere delle ballerine professio-niste e tengono le ginocchia rigide imitando la Fracciche volteggia sulle punte. Ma portata così la ballerinaperde il suo sex appeal». I modelli da imitare sono altri.Ma quali? Secondo Max Verre, stretto collaboratore diTom Ford e stilista delle Voile Blanche, in oro o coloricaramella ingentilite da nastri in seta, «le icone di rife-rimento sono Brigitte Bardot, Jane Birkin e Romy Sch-neider. Loro sì che le portavano con grande malizia».

TUFFO NELL’INFANZIABicolore arancio-cuoio, modello Duilio,

la scarpa firmata Santoni ha il cinturino

alla caviglia effetto bebè. Un tuffo

nell’infanzia...

Ragazze, scendete dai tacchiLE PROTAGONISTE

AUDREY HEPBURNÈ Salvatore Ferragamo

a creare su misura per l’attrice

i modelli indossati nei film, a partire

da Vacanze romane del 1953

BRIGITTE BARDOTL’attrice lancia il nuovo modello

di scarpe sullo schermo negli anni

Cinquanta. Le indossa

in E Dio creò la donna (’56)

CATHERINE DENEUVEDisegnate da Roger Vivier,

le ballerine di Catherine in Belle

de Jour, film di Buñuel del 1967,

sono in vernice con fibbia argento

INTRECCI E TRAMEIn pelle intrecciata

color limone acceso

con frangia sulla punta

Di sicuro effetto

con la pelle abbronzata

Fa parte della collezione

estiva di Bottega Veneta

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 2 LUGLIO 2006

No, non sono semplicemente scarpe. Le“ballerine” hanno un’anima storica im-portante e radici che affondano lontano,

in territori aristocratici e fiabeschi come il cultodella donna-silfide e il concetto di élévation, lavaporosità dello stile aérien e l’idealizzazionedella figura femminile. Hanno un’estrema for-za simbolica e un significato letterario, legato almito dell’eterno femminino.

Il fatto è che la ballerina, intesa come scarpa,deve la sua nascita a Maria Taglioni, stella delballetto romantico (nacque nel 1804 e morì nel1884), di cui è considerata dagli storici la su-prema incarnazione. Non è direttamente a leiche si deve l’invenzione della scarpa con lapunta, i cui primi indizi risalgono addiritturaagli antichi greci. Ma fu Maria, grazie alla suafama, a consacrarne l’uso e a sancirne gli artifi-ci. E certamente la leggendaria calzatura trovòin questa interprete carismatica la sua più altadefinizione espressiva.

Pare che Maria sfoggiasse per la prima voltauna raffica di passettini sulle punte, in appositescarpe scollate e con robusta cucitura sulla pun-ta (non ancora munita del blocco solido cheriempie le scarpine delle danzatrici classiche),per un “divertissement” dell’opera Robert leDiable. Ma il vero e proprio stile puntato esplo-se in scena grazie a La Sylphide, titolo di cultodella divina Maria, che giunse nel 1832 a sanci-re la nascita del movimento ballettistico ro-mantico. Con la sua storia dell’amore, ovvia-mente irrealizzabile, di una creatura sovranna-turale per un mortale, La Sylphide generò l’ico-na quanto mai longeva della ballerina diafana eincorporea, che avrebbe condizionato profon-damente l’immaginario del balletto, coi suoidrappelli di creature angeliche, ondine e cignivoluttuosi nel sussultare in dolci agonie. Fu inrelazione a questi esseri fantasmatici e irrag-giungibili, ispiratori di sentimenti impossibili ocomunque infelicissimi, quindi perfetti per lemacerazioni degli spiriti romantici, che spiccò ilvolo la tecnica della danza classica, creata persuggerire una esasperata lievità, e abile nel re-stituire l’illusione di un corpo senza peso.

La scarpina magica, portatrice di tormentiper colei che la indossa (nel balletto la punta è unsupplizio riservato alle donne), ma ideale pertracciare nello spazio se-gni di sospensione ed eva-nescenza, fu l’elementochiave per lo sviluppo diquesto codice. Così im-portante da finire per tra-dursi in simbolo del ballet-to e oggetto-feticcio, ado-rato dagli spettatori più fa-natici, che nell’Ottocentosi contendevano i puntuticalzari delle loro stelle perusarli come coppe dichampagne. Oggi questonon accade più, non per-ché nel mondo manchinoi feticisti, ma perché ladanza classica non riscuo-te più quel plauso scrite-riato e isterico che all’epo-ca de La Sylphide ne face-va la forma di spettacolopiù contagiosa e trainante, un po’ come nel se-colo scorso è accaduto con il rock. Però, in com-penso, i ballettomani odierni adorano farsi fir-mare dalle ballerine più famose le scarpette indisuso (il consumo del prodotto, da parte dellestar, è continuo e sfrenato).

C’è poi un’ampia mitologia che riguarda lasostanza usata per riempire la punta. A lungo siadottarono il gesso o il cartone pressato, o unmiscuglio dei due materiali. Anni fa, nelle pun-te delle scarpette Porselli, nota ditta italiana, erafacile trovare pagine schiacciate dei vecchi elen-chi telefonici milanesi. Oggi si usano spessopuntali di materie sintetiche economiche, co-me la plastica, considerati però non di livello ec-celso. Le grandi danzatrici esigono tuttora i ma-teriali fibrosi di un tempo, utilizzati per esempiodalla ditta inglese Free, che confeziona le scar-pe per professionisti più ambite e care. Nei tea-tri e nelle scuole di Francia si calza molto Repet-to, la “maison” fondata da Rose Repetto, madredel coreografo Roland Petit, e ora specializzata-si anche in scarpe per non-ballerini, con mezzapunta (le “Bolscioi”), piccolo tacco (“Molly”),vezzoso nastro da avvolgere intorno alla caviglia(“Sophia”) e chiuse sul davanti con laccetti (“Zi-zi”). Altri marchi di successo per scarpette pro-fessionali sono l’americana Capezio, l’ingleseGamba, la francese Crait e la Sansha di Bangkok,mentre i danzatori russi e tedeschi adottanospesso le Bloch.

È al disegno essenziale e alla grazia intra-montabile di queste calzature che fanno rife-rimento, fin dagli anni dell’irresistibile cam-minata piatta di B. B. in Et Dieu créa la femme,non a caso quasi una danza, le decantate scar-pe “ballerine”.

La silfide romanticache volò sulle punte

L’esordio con Maria Taglioni, nel 1832

LEONETTA BENTIVOGLIO

Indossarlenon è facile,richiedono

un portamentospeciale:il segreto

sta nel sollevareil piede

e spingerloin avanti

appoggiandoprima

il tallonee poi la punta

ESTATE A SAINT TROPEZSportiva ma non troppo, di Max Verre

per Voile Blanche si ispira al film del 1968

La Piscine con Alain Delon, Jane Birkin

e Romy Schneider sugli amori a Saint - Tropez

PENSATA PER LA SQUAWSi chiama Odalia la ballerina in suede colore

mandarino con impunture a contrasto

Suola morbida in gomma con logo

a “nastro”, per donne squaw. Firmata Bally

CADUTE NELLA RETEBallerina orange in vitello liscio

e rete, suola in gomma ultraleggera

Per non sudare mai, anche

nelle giornate bollenti. Di Geox

COCCARDA IN MOSTRAPunta aperta, coccarda effetto lavorazione

all’uncinetto e fantasia accattivante:

Kenzo scalda l’estate con un modello

di sicuro successo. Imperdibile

PER TUTTE LE ETÀBianca e rossa con retina e cinturino

fisso: il modello proposto da Amaltea

è stato creato per conquistare donne

e ragazzine di ogni età

GRAN GALA IN ROSSOGran fiocco sulla punta e tela rosso

fiamma per la ballerina proposta da Donna

Karan. Perfetta per le occasioni speciali

si indossa anche sotto i jeans

DALLO SPIRITO LIBEROStile scarpa da ginnastica, la ballerina vista

da PZero si trasforma in un ibrido

di gran tendenza grazie alla suola in gomma

e alla P in bella vista. In brillante rosso lacca

MARILYN MONROELa star americana

è una delle pioniere

della ballerina. In questa

foto del 1948

la diva in posa mentre

fa esercizi ginnici

LA PRIMA STELLAMaria Taglioni e Joseph

Mazilier nel secondo atto

de “La Silfide” nel 1832

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 LUGLIO 2006

l’incontroAttor giovane

PARIGI

Divorato dall’ansia dellaprestazione, l’attor gio-vane è di solito una stra-na, fragile creatura. Du-

rante un incontro professionale puòessere molto nervoso, o molto cordiale.Nevrotico, oppure letargico. Può ri-spondere a monosillabi, o scaricarefiumi di parole. Pur sembrando fretto-losa, la sua vestizione è spesso studia-tissima.

Gael García Bernal (classe 1978) sfug-ge a questi luoghi comuni. È un attorgiovane rilassato, posato, incline al dia-logo. Vestito come ti aspetteresti fossevestito uno della sua età, uno normale:jeans, scarpe da ginnastica, camicia ascacchi fuori dai pantaloni, i capelli rac-colti in una esile coda di cavallo. E pen-si che la rising star del cinema mondia-le è un ragazzo che non ti gireresti aguardare per la strada, piccolino e deli-cato com’è, nonostante gli occhi chiarida madonna rinascimentale, il profiloimportante, la bocca così particolare.

Non ti gireresti anche perché lui nonfarebbe niente per richiamare l’atten-zione. «Che assurda follia è la fama, ol’energia che si concentra attorno al la-voro che uno fa», dice subito, a scansodi equivoci. Gael García Bernal vorreb-be essere come gli altri, anche se a 28anni (da compiere in autunno) è già undivo. Nel suo Paese non ne parliamo: inMessico è l’idolo, molto più della trop-po hollywoodiana Salma Hayek. Conquesta energia gentile, con l’aria di chinello zainetto tiene stipato tutto ciò chepossiede, García Bernal è già stato

Messico le carriere d’attore inizianodalle telenovelas? «Perché mancaun’industria del cinema. Perché, a dif-ferenza di paesi come il Brasile o l’Ar-gentina, abbiamo un governo che nonsostiene la sua cinematografia. A me èandata bene perché, vivendo già in unmondo di attori, quello dei miei genito-ri, non avevo ansia di entrarvi. In Elabuelo y yo avevo un piccolo ruolo: eroDaniel, l’amico del protagonista. Maper me era un gioco, un’esperienza iso-lata. E infatti, appena finito il liceo, a 17anni, un anno avanti, ho cercato diiscrivermi alla facoltà di Lettere e Filo-sofia dell’Università di Città del Messi-co. Volevo fare il ricercatore, volevoscrivere su temi sociali e culturali. Vo-levo collaborare a riviste, attraverso laletteratura e la filosofia arrivare a sape-re di tutto, a vivere varie vite. Alla finel’essere attore si avvicina a quegli idea-li. Stavo per iscrivermi all’universitàquando fu dichiarato uno sciopero.Durò un anno e mezzo e un’intera ge-nerazione restò lì, senza sapere che co-sa fare. Duecentotrentamila studenti

nientedimeno che il Che (nei Diari del-la motocicletta di Walter Salles), ElvisPresley (in The King di James Marsh),un prete predatore (nel Crimine di Pa-dre Amaro di Carlos Carrero) e, nel suotriplo salto mortale almodovariano diLa mala educación, allo stesso tempoun ragazzino violentato da un prete, unragazzo attore e un travestito (lo citeràpochissimo durante l’incontro, defi-nendolo «un film complicato, duro esolenne. Un viaggio artistico e profes-sionale, molto personale, di Pedro»).

Ora è il giovane Stéphane, artista esognatore in The Science of Sleep, ilnuovo film di Michel Gondry (Se mi la-sci ti cancello) che uscirà dopo l’estate.Stéphane che entra ed esce dalla realtà,che la confonde e la fa confondere, cheha uno studio televisivo del suo incon-scio, o forse dei suoi desideri, che amaStéphanie (Charlotte Gainsbourg), mache forse non la ama anche se alla finescappa con lei su un cavallo di pezzaverso un mondo di fiaba.

È in una suite del più lussuoso alber-go di Parigi, divorando un fondant auchocolat più di apparenza che di so-stanza, che Gael García parla del film edel suo personaggio. «Alla fine, nella ri-cerca della ragazza ideale, tutto gli vamale perché, per manipolare la realtà,lui cerca di manipolare i suoi sogni».Ma c’è il lieto fine. «Non credo che siaamore. Io credo che Stéphane sia unosolo che resta solo. Proprio perché, co-me diceva Calderón, “la vida es sueño ylos sueños sueños son”. La sapevo tuttaa memoria un tempo. È una delle cosepiù sagge che siano mai state scritte. Lavita è un sogno e i sogni sono soltantosogni. Non bisogna cercare di manipo-larli. Bisogna viverli per quello che so-no. Come Alberto Granado che scen-dendo le scale del Palazzo del Cinemadi Cannes dopo la proiezione di I diaridella motocicletta, dopo un’ovazionedi un quarto d’ora e quella sensazioneche tutto il mondo abbia già visto il filme sia lì ad applaudirlo, Granado che midice: “Che paura ho di svegliarmi inquesto momento e di trovarmi a ven-dere preservativi in una farmacia diCórdoba”. Sarebbe stato il suo destinose, studente in farmacia, non avessefatto il viaggio in motocicletta con CheGuevara alla scoperta dell’America La-tina».

Alla parola «Che» il viso si illumina, ilcorpo ha quasi un sussulto. «Quel filmmi ha fatto impazzire, mentre lo giravonon riuscivo a dormire per l’emozione.Io stesso mi vedevo pateticamente ro-mantico, ma facendo il “suo” viaggiorafforzavo le mie convinzioni. Diaridella motociclettami ha lasciato più se-reno e più confuso. Ora so che c’è an-cora tanto da fare e che si può».

Andiamo con ordine, cominciamodall’inizio, magari da El abuelo y yo (Ilnonno e io), la telenovela del debutto, aquattordici anni, nel ’92. Perché in

della più grande e importante univer-sità dell’America Latina si presero unanno sabbatico. A me andò bene, per-ché viaggiai molto. A diciotto anni ero aLondra e lì mi resi conto che avrei potu-to iniziare una scuola e una carriera».

Gael García si iscrisse alla CentralSchool of Speech and Drama. Disse cheera il fratello di Andy Garcia, ai tempiben più noto di lui, e trovò anche un fan(del “fratello”) che gli affittò una casa.«Mi sono detto: “Ci provo, vivo un po’qui”. Ma sapevo che sarei tornato inMessico. Tanto che un anno dopo mi so-no trovato a recitare in un film, poi in al-tri due, e non avevo ancora finito la scuo-la che già salivo i gradini rossi a Cannes».

Di Amores perros, primo incontro conAlejandro González Inarritu (GarcíaBernal ha avuto un piccolo ruolo anchenel suo nuovo Babelnon ancora uscito),ricorda una grande confusione perso-nale. «Quando ho girato Amores perrosnon sapevo che cosa volesse dire fare ci-nema e neanche come si faceva. Ma ilfilm era una cosa forte, anche se non ca-pivo di che cosa parlasse la storia. Me nesono accorto quando l’ho visto a Can-nes. Mi ha scosso in un modo brutale, èstato il più bel momento della mia vita.Alla fine mi è piaciuto molto».

Un anno dopo, nel 2001, è uscito Y tumamá también, il più grande successocommerciale nella storia del cinemamessicano. Un personaggio diametral-mente opposto al padrone del rottwei-ler da combattimento. «A quel punto lafuria incontenibile, la rabbia del prota-gonista di Amores perros avevano de-cantato. Ed è arrivato Alfonso Cuarón,che è un regista rigoroso, disciplinato,trasparente. Quel film è stato come unviaggio al quale abbiamo partecipatotutti insieme. Raccontavamo una storiache assomigliava alla nostra vita. Julio,il mio personaggio, ha molto a che farecon il contesto economico e sociale nelquale sono vissuto: la cosiddetta classemedia latinoamericana nella quale nonc’è lusso, ma alla quale non mancaniente: un livello culturale alto, moltainformazione e pochi mezzi. Una clas-se media oggi in via di estinzione, nonsolo da noi. Come me, Julio aspira a ru-bare una automobile e ad andare al ma-re con la ragazza che gli piace. Io l’ho fat-to molte volte. Con Y tu mamá tambiénho capito che avrei potuto fare l’attore,che è un mestiere pieno di incoscienza,qualcosa di molto interiore e di moltoorganico. E ho capito che di cinemaavrei anche potuto vivere».

Il denaro non gli interessa a dismisu-ra. Non ha avidità, né passioni consu-mistiche. Ha appena comprato una ca-sa a Città del Messico, un piccolo ap-partamento «che è tutto quello che miserve. Non ho neanche l’automobile.Farò più attenzione al denaro quandoavrò una famiglia da mantenere. Perora mantengo i miei progetti».

Tutti cinematografici e tutti in Mes-

sico. Come mai non emigra negli StatiUniti? «E perché? In fondo Los Angelesè a quattro ore di aereo. Come attore hola fortuna di poter vivere in molti posti,ma il mio centro energetico, il centronevralgico della mia attività, il luogodove posso crescere e sentirmi libero, èil Messico. Sento che solo nel mio Pae-se posso arrivare a cambiare le cose, aorganizzare un festival itinerante e gra-tuito di documentari, a lavorare su que-stioni ecologiche o svolgere un’attivitàpolitica seria e responsabile. InMessico, poi, vive tutta la mia famiglia».

Quale posto per il cinema, in tutti que-sti progetti? «L’ideale per me sarebbe difare due film e uno spettacolo teatrale al-l’anno. Fino ad ora ci sono riuscito. È sta-to l’anno scorso, durante le repliche diNozze di sangue in teatro a Londra, cheho scritto la sceneggiatura di Deficit.L’ho girato quest’anno, come regista.Pochissimo denaro, girato in video, faparte di una serie di trentadue docu-mentari, ognuno su uno Stato del Mes-sico, che chiederò di realizzare a moltiregisti. Non ce ne sono così tanti, e allo-ra li formeremo. Non abbiamo fretta, cisiamo dati una decina d’anni. Deficit èambientato a Morelos, lo Stato di Cuer-navaca, la città a sud di Città del Messi-co. È una storia sulla fine dell’impunità».

Gli Stati Uniti non protesteranno?«Perché dovrebbero? Sono troppo oc-cupati a rinchiudersi, a costruirsi muriattorno. Visto che cosa fanno alla fron-tiera? Hanno anche messo delle teleca-mere nei terreni di confine. Così, attra-verso Internet, i proprietari controlla-no che i loro terreni siano liberi. Ma seinvece vi accade qualcosa, allora avvi-sano la polizia americana e scatta subi-to l’allarme-immigrato».

Piccolo e delicato, jeans, camiciaa scacchi e scarpe da ginnastica...La stella nascente del cinemamondialeè un ragazzo di 28 anniche preferisce passare inosservato:

“Non traslocherò negliStati Uniti, il mio centrod’energia è il Messico,l’unico posto dove possosentirmi libero”. Effettodel suo film più famoso,Diari della motocicletta:“Mentre lo giravo

non riuscivo a dormire per l’emozione:facendo il viaggio del Che ho imparatoche c’è ancora tanto da fare”

LAURA PUTTI

Gael García Bernal

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Volevo iscrivermiall’università,fare il ricercatore,occuparmi di temisociali e culturaliMa ci fu uno scioperoe durò diciotto mesi...

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