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Panorama · Costruita la piscina (a Costa-bella, diciamo noi, a Cantrida dice la maggioranza) a un...

Date post: 07-Nov-2019
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Panorama Anno LIX - N. 14 - 31 luglio 2011 - Rivista quindicinale - kn 14,00 - EUR 1,89 - Spedizione in abbonamento postale a tariffa intera - Tassa pagata ISSN-0475-6401 www.edit.hr/panorama Minoranze il voto infranto
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Minoranze il voto infranto

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2 Panorama

Panorama testiAffreschi, patrimonio sconosciuto

Conservazione adeguata del patrimonio artistico istriano ancora trop-po poco noto e, nel contempo, una sua significativa valorizzazione in am-bito turistico, estesa, s’intende, ai centri che lo ospitano. La regione istria-na ha dato una nuova prova dell’intendimento presentando il 14 luglio a Draguccio la monografia Tracce colorite degli affreschi istrani. Due le ver-sioni (croato-slovena e italiano-inglese) che in quasi 280 pagine, attraverso le foto di Ivo Pervan e i testi di Željko Bistrović, con la redazione di Jasna Perković Milosavljević, ci presentano con esemplare rigore scientifico una trentina di edifici sacri eretti tanto nell’Istria croata che slovena. Un’ini-ziativa transfrontaliera dunque, che, come detto dall’assessore alla cultura Vladimir Torbica, fa capo al progetto “Revitas” che si propone di dare nuo-vi stimoli alla valorizzazione dell’entroterra istriano.

Nella stessa mattinata il presidente della regione Ivan Jakovčić e il sin-daco di Cerreto Emil Daus hanno firmato la lettera d’intenti per realizzare a Draguccio la “Casa degli affreschi istriani”, presenti fra gli altri Oriano Otočan, assessore regionale ai rapporti internazionali e Teobaldo Rossi, in rappresentanza dell’assore veneto alla collaborazione transfrontaliera e transregionale Roberto Ciambetti (ms).

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Panorama 3

In primo piano

di Mario Simonovich

Quel che ci riserva talvolta la scena politica non potrebbe essere emulato dallo scritto-

re di teatro con la fantasia più sbri-gliata del mondo. Anche perché, se questi mettesse in scena certe situa-zioni che risultassero troppo diver-genti dal vissuto o dal comune sen-tire, molto spesso non sarebbe cre-dibile. Invece quanto sta accadendo con il convento di Daila, ovvero a Cittanova, mostra che la realtà rie-sce davvero a confondere con rela-tiva facilità la mente di quel sempli-ci di cui parlano i vangeli, annidan-dosi talvolta anche all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, impersona-te magari dai massimi reggitori del-la Chiesa. Questa volta la mossa è stata fatta dal papa in persona, che ha sospeso per un solo minuto mons.Ivan Milovan, vescovo di Parenzo e Pola, attribuendo i suoi poteri al ve-scovo vaticano Abrila y Castella, il quale ha potuto così firmare un ac-cordo secondo cui la diocesi istriana e la parrocchia di Daila restituisco-no ai benedettini di Praglia (Padova) gli immobili cittanovesi e un risar-cimento di sei milioni scarsi di euro per imposte e spese giudiziarie. Se la resa in natura fosse impossibile, c’è un alternativa: il versamento di circa 25 milioni di euro. Il vescovo istria-no dev’essersi sentito mancare il te-reno sotto i piedi: l’esborso di una tale cifra significherebbe la banca-rotta e la diocesi si ritroverebbe, alla lettera, in strada.

Il caso manco a dirlo, ha origi-ne con l’avvento del potere jugo-slavo che, usando i ben noti metodi nei confronti dei frati qui arrivati nel 1880, li costringe ad andarsene e na-zionalizza i beni del convento, com-prendenti, oltre agli edifici che si af-facciano su una bellissima spiaggia, anche una vasta area di circa 600 et-tari. Lasciata l’Istria, i religiosi van-no all’Abbazia di Praglia che, per loro tramite, si considera erede del-la proprietà istriana e che, nel tor-mentato iter degli accordi intersta-

tali e relativi indennizzi, verrà risar-cita dallo stato italiano con 1,7 mi-liardi di lire. Senza negare il fatto, venuto in Croazia il tempo della resa dei beni, l’Abbazia richiede l’asseri-ta proprietà.

Nel frattempo però anche in loco la situazione è cambiata. Innanzi-tutto la Croazia ha reso il convento e i terreni alla parrocchia di Citta-nova, ovvero alla Chiesa, che a sua volta li ha venduti in parte a priva-ti, così come faceva lo stato con le case degli esuli. Secondo voci non confermate, nell’affare sarebbe coinvolto anche un nome eccellen-te, quello di Mate Vekić, l’impren-ditore croato che è stato anche pre-sidente dell’associazione della mi-noranza croata in Italia. Parte dei terreni è stata inglobata nei campi da golf, cosa che, oltre a favorire un enorme giro d’affari e interessi, ha anche fatto salire vertiginosamente il prezzo delle aree.

Tutto bene fino a quando non si era fatta avanti l’Abbazia di Pra-glia. Volendo risolvere la questione all’interno, la Santa Sede aveva for-mato una commissione di tre cardi-nali: Attila Nicora, Urbano Navar-rete e, fatto non trascurabile, mons. Josip Bozanić, il cui responso è sta-to: restituire. Detto per inciso, non è difficile arguire che se il più impor-tante esponente della gerarchia croa-ta si era allineato sulle posizioni dei due colleghi, non c’erano proprio scappatoie.

Sarà forse per questo che mons. Milovan ha annunciato che si rivol-gerà alla presidente del governo e all’avvocato di stato senza citare in alcun modo il cardinale che sarebbe invece, visto in un ragionamento lo-gico e rispettoso delle gerarchie, il primo riferimento.

Tutto a parte, e da godere, infine, il modo in cui la questione è stata af-frontata dai politici e media croati, locali compresi, che, manco a dirlo, subito hanno parlato di irrdentismo mentre sarebbero bastati un paio di sani riferimenti all’eterno teatrino della politica. ●

Come finirà la contesa fra l’Abbazia di Praglia e la nuova realtà in quel di Cittanova?

Daila, la diocesi in ginocchio

La baia della tristezza Costruita la piscina (a Costa-

bella, diciamo noi, a Cantrida dice la maggioranza) a un paio di centinaia di metri dall’ospe-dale pediatrico (di Costabella, diciamo noi, di Cantrida dice la maggioranza), è venuto il momento della messa a pun-to dell’intera area che fa capo al polo natatorio in cui la cit-tà ha risposto da tempo la sua compiacenza. Un’area che si identifica essenzialmente nel-le spiagge e relativo accesso al mare a destra della ripida via-bile che si diparte dalla princi-pale. L’arenile, riassettato con un intervento di notevole mole, si estende in parallelo al capace polo natatorio arrivando a con-globare la piccola baia che si trova in fondo, verso occidente, contigua al piccolo istmo che la divide dall’impianto ospeda-liero che ospita i bambini. Fino a qualche tempo fa, ogniqual-volta si parlava dell’area nata-toria la spiaggia risultava asso-lutamente anonima. Nelle ulti-me settimane però i media del-la maggioranza usano sempre più spesso un nome: “Ploče”. Al giornalista minoritario che ha chiesto spiegazioni è sta-to risposto che si trattava di un vecchio toponimo recuperato.

Senza mettere in dubbio la veridicità dell’asserito, vor-remmo ricordare che la cita-ta ansa era ben nota ai fiuma-ni come “Baia dell’amore” e che ora, per la sorte che a cui il nome è inevitabilmente de-stinato, potrebbe essere defini-ta in maniera molto più idonea dalla denominazione Baia della tristezza.

Costume e scostume

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4 Panorama

Panorama testi

SommarioN. 14 - 31 luglio 2011

www.edit.hr/panorama

Panorama

IN COPERTINA: La splendida volta della chiesa della Madonna dei Campi (Visinada) tratta dalla monografia “Facce colorite degli affreschi istriani”

4 Panorama

IN PRIMO PIANOCome finirà la contesa fra l’Abbazia di Praglia e la nuova realtà di Cittanova?DAILA, LA DIOCESI IN GINOCCHIO... 3di Mario Simonovich

ATTUALITÀConseguenza delle stragi del 22 luglioNORVEGIA, UN SOGNO SPEZZATO... 6a cura Bruno Bontempo

ETNIADisappunto e riprovazione per la decisione dei giudici costituzionaliMINORANZA, VOTO INFRANTO.... 8di Mario Simonovich

ECONOMIACrisi nell’Eurozona, preoccupazione per gli attacchi in serie ai mercati finanziariSENZA CRESCITA L’ITALIA NON RIUSCIRÀ A SALVARSI....................10a cura di Bruno Bontempo

SOCIETÀIn Somalia una tragedia di proporzioni bibliche che coinvolge 11 milioni di persone SICCITÀ E FAME, LA CONDANNA DEL CORNO D’AFRICA...................12 a cura di bruno Bontempo

RIFLESSIONI IN CORNICE......... 13di Luca Dessardo

LA STORIA OGGINel Risorgimento l’inizio del processo studiato solo ora dalla storiografia politicaIL MONUMENTO AL SERVIZIO DELLA MEMORIA NAZIONALE..... 14di Fulvio Salimbeni

TEATROLusinghiero il bilancio della serie di spettacoli presentati in luglio a Cividale UN MITTELFEST MOLTO MATURO E RIFLESSIVO................................... 16di Massimiliano Deliso

CINEMAIncoraggiante il bilancio del 58.esimo Festival del cinema di PolaQUANDO ETÀ FA RIMA CON QUALITÀ...18di Mario Simonovich

FOTOGRAFIAWalter Carone scoprì Brigitte Bardot prima che divenisse celebre e fondò la rivista Photo...ESSERE AL MOMENTO GIUSTO NEL POSTO GIUSTO.........................20a cura di Bruno Bontempo

ARTEA distanza di 16 anni, ad Abbazia tornano in mostra le opere di Mladen VežaIMMUTATA FEDELTÀ ALLA FIGURAZIONE........................22di Erna Toncinich

ITALIANI NEL MONDOGLI ISTITUTI DI CULTURA SONO 89 VETRINE DI ITALIANITÀ...........24a cura di Ardea Velikonja

MADE IN ITALYIL GELATO NON SOLO COME DESSERT MA COME PRIMO PIATTO........................26a cura di Ardea Velikonja

REPORTAGEVisita ad una delle più belle regioni d’Italia, la Toscana, e tappa in Umbria (2.fine)ASSISI, STORIA, ARTE E SPIRTUALITÀ.... 28di Ardea VelikonjaISOLE E ETNIA: CHERSOIl presidente Gianfranco Surdić spera che i lavori possano iniziare il prossimo autunnoLA SEDE CI A PALAZZO PRETORIO PRESTO SARÀ REALTÀ...................34PAESAGGIO DELLA MEMORIA, DELLA SOFFERENZA E DELLA NOSTALGIA........................................38di Francesco Surdich

MUSICASua coetanea sulla soglia dei 60 anni, non molla invece Antonella RuggieroBLASCO, DIMISSIONI DA ROCKSTAR....44a cura di Bruno Bontempo

SPORTShanghai: rinasce l’Italia della pallanuoto, la Croazia si consola con bronzo e visto olimpicoSETTEBELLO E FEDE, ACQUA AZZURRA, ACQUA CHIARA..........46Copa America: deludenti Brasile e Argentina, l’Uruguay torna agli antichi splendori CELESTE, IL NUOVO COLORE DEL CALCIO SUDAMERICANO.......... 48Il ciclismo polese piange RajkovićEDY, L’ULTIMO DEI ROMANTICIa cura di Bruno Bontempo

ARBOREALINO, CURATIVO SIMBOLO DI LUCE... 50di Daniela Mosena

MULTIMEDIAGuida di PCWord (2 e continua)COME SCEGLIERE IL TABLET GIUSTO................................................52a cura di Igor Kramarsich

Ente giornalistico-editorialeEDIT

Rijeka - Fiume

DirettoreSilvio Forza

PANORAMA Redattore capo responsabile

Mario [email protected]

Progetto grafico - tecnicoDaria Vlahov-Horvat

Redattore grafico - tecnicoSaša Dubravčić

Collegio redazionale Bruno Bontempo, Nerea Bulva, Diana Pirjavec Rameša, Mario

Simonovich, Ardea VelikonjaREDAZIONE

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[email protected]

La distribuzione nelle scuole italiane di Croazia e Slovenia e nei Dipartimenti di italianistica delle Università di Croazia e Slovenia avviene all’interno del progetto “L’Edit nelle scuole II” sostenuto dall’Unione Italiana (Fiume- Capodi-stria) e finanziato dal Governo italiano (ai sensi della Legge 296/2006, Art. 1322, Convenzione MAE-UI N° 2840 del 29 ottobre 2008, Contratto N° 104 del 3 settembre 2009).

Consiglio di amministrazione: Roberto Bat-telli (presidente), Fabrizio Radin (vicepresiden-te), Agnese Superina, Franco Palma, Ilaria Roc-chi, Marianna Jelicich Buić, Livia Kinkela.

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Panorama 5

Agenda

Ancora un grande riconosci-mento da parte del presiden-

te della Repubblica italiana Gior-

gio Napolitano ad una connazio-nale dell’Istria. Questa volta ad essere insignita dell’onorificenza dell’Ordine della Stella della Soli-darietà nel grado di Cavaliere della Repubblica Italiana è stata la presi-dente della Comunità degli Italia-ni di Valle Rosanna Bernè. In una recente dichiarazione la Bernè ha tenuto a sottolinare che “il meri-to di questo ambito riconoscimen-to va a Valle e al grande sostegno che ho da parte di tutti gli attivitisti della Comunità che dirigo da qual-

che anno a questa parte. Pertanto mi sento di condividere anche con loro e con tutti i vallesi l’immensa giooia per questo riconoscimento. Questa onorificenza è per me uno stimolo a ancora di più nel ruolo che già ricopro, nella promozione della lingua e della cultura italiana a Valle e oltre, a livelli più ampi, in ambito della nostra Comunità na-zionale”.Da ricordare che la Co-munità degli Italiani di Valle conta 420 iscritti su una popolazione to-tale di 1000 abitanti.●

Dopo le elezioni del 10 luglio nel capodistriano si è costitu-

ito il nuovo consiglio cittadino nel corso del quale a vicensindaco in rappresentanza della Comunità Na-zionale italiana è stato eletto Al-berto Scheriani, in pratica una rie-lezione. Scheriani era presidente della CAN di Capodistria e quindi alla seduta costitutiva di questo or-gano è stato eletto al suo posto Ful-vio Richter. Nel congedarsi dal po-sto di presidente della CAN Alber-to Scheriani ha voluto ricordare che

“abbiamo svolto un lavoro intenso e molte cose sono state fatte. Da cita-re soprattutto i successi in ambito ai progetti europei - ultimo tra i quali il progetto “Lingua” grazie al quale abbiamo finalmente ottenuto il no-stro Salotto del libro, futura libreria italiana a Capodistria. Nel suo in-tervento Scvheriani ha lodato anche il Comune i cui finanziamenti sono aumentati di ben il 20 per cento e ha rimarcato il valido lavoro in seno alle istituzioni minoritarie, in pari-colare nel campo dell’istruzione.

Eletti pure i tre consiglieri che co-stituiranno la CAN costiera e sono Fulvio Richter, Alberto Scheriani e Roberta Vincoletto.●

La 26.esima edizione del concorso internazionale di pittura “Man-

dracchio” di Volosca ha visto un re-cord nella partecipazione: oltre cen-to artisti tra grandi e piccini per due giorni hanno trasformarto la pittore-sca cittadina liburnica in una galle-ria all’aperto. Il concorso, ideato tan-ti anni or sono dalla Comunità degli Italiani di Abbazia assieme al pittore connazionale Claudio Frank, è sta-to organizzato assieme assieme alla Municipalità e all’ente turistico. E

come ogni anno una apposita giuria ha assegnato i primi premi in tre ca-tegorie: la prima quella generale ha visto vincittrice Ivana Pipal, nella se-

conda, professionisti il primo posto è andato a Eda Mihovilià, infine nella sezione arte fotografiaca il premio è andato a Georgetta Ponte.

L’interesse del pubblico per que-sta tradizionale manifestazione è di anno in anno più grande specie per la giornata in cui a i moli, le calet-te sono state invase dai bambini che con treppiede e pennello hanno dato sfogo alle loro fantasia.. Quest’anno i pittori in erba sono stati ben 93 con il più giovane di appena 13 mesi.●

Dopo le elezioni lascia l’incarico di presidente della CAN a Fulvio Richter

La manifestazione ideata 26 anni fa dalla CI di Abbazia suscita sempre più interesse

Rosanna Bernè è anche responsabile del Settore Coordinamento attività delle CI

Scheriani riconfermato vicesindaco di Capodistria

Al Mandracchio di Volosca record di partecipanti

La presidente della CI di Valle Cavaliere della Repubblica

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6 Panorama

Attualità

Inevitabile conseguenza delle stragi del 22 luglio scorso

Norvegia, un sogno spezzatoa cura di Bruno Bontempo

Erano centinaia le finestre e le ve-trine chiuse da tavole di legno.

Ma i negozi hanno riaperto e mentre i fiorai fanno ancora tristi affari d’oro vendendo a 5 euro l’una le centina-ia di migliaia di rose che continua-no ad accatastarsi attorno al Duo-mo di Oslo: dopo le stragi di Anders Behring Breivik la Norvegia cerca di tornare alla normalità. “Ci sarà una Norvegia del prima ed una del dopo”, ha detto il premier Jens Stoltenberg, ma è palpabile nel paese la voglia di non perdere l’identità. Orrore e mor-te sono piombati sulla Norvegia in un grigio venerdì, un pomeriggio d’esta-te, a metà delle tre settimane di va-canze collettive di un paese che fino ad oggi coltivava il mito della sicu-rezza e della pace. Hanno colpito il cuore del governo di uno dei pae-si più attivi in campo internaziona-le, non tanto per essere il paese che assegna il Nobel per la Pace (e che per il premio al dissidente Liu Xia-bo si è attirato minacce e boicottag-gi da Pechino), quanto per il suo sta-tus di potenza petrolifera mondiale. “La violenza non ci deve terrorizza-re”, ha detto il premier Jens Stolten-berg, mentre la polizia annunciava la sospensione degli accordi di Schen-gen, la messa in sicurezza della fami-

glia reale e dei principali personaggi politici del paese. Ma è già certo che si è spezzato il sogno di sicurezza di un intero paese.

Nel dolore, i norvegesi cercano di ritrovare loro stessi. A cominciare dal partito laburista, che ha annunciato il piano per la rinascita di Utoya. L’iso-la venne donata al partito nel 1950 e per 61 anni il campus estivo ha for-giato generazioni intere di politici, compresa Gro Harlem Brundlandt, la premier di tre mandati tra il 1981 e il 1996 e vero obiettivo di Breivik, e lo stesso Jens Stoltenberg, il cui ufficio è stato devastato dalla bomba il 22 lu-glio scorso. Il piano di rinascita è sta-to lanciato con una raccolta pubblica di fondi. I primi 5 milioni di corone li ha offerti un tycoon dell’industria alberghiera ed edilizia, il 49enne mi-liardario (anche in euro) Petter Stor-dalen. “La nuova Utoya sarà di tut-ti” ha detto Eskil Pedersen, capo di quel movimento giovanile del parti-to laburista (Auf) che Breivik ha cer-cato di soffocare nel sangue. “Quelli che hanno perso la vita devono ve-dere che lottiamo per il futuro della democrazia norvegese”, ha aggiunto Stordalen, sottolineando che “nella mia scelta non c’entra la politica, lo avrei fatto per qualsiasi partito”. An-che questo è un modo per tornare alla normalità norvegese. ●

L’Europa lancia l’allarme per i fenomeni di intolleranza e razzismo, che risultano sempre più diffusi e radicati

Quelle schegge impazzite della destra estremaAnders Behring Reivik, ovve-

ro un’altra scheggia impaz-zita partita dalla macchina

dell’intolleranza e del razzismo ali-mentata dai movimenti di estrema de-stra. Questo, in base alle informazio-ni finora disponibili, lo scenario che si è presentato agli occhi di chi guar-dava attonito al massacro avvenuto in Norvegia e si chiedeva cosa, oltre alla follia omicida, possa aver spinto un uomo a fare quello che ha fatto.

I segnali d’allarme sulla deriva xe-nofoba e populista che sta investen-do in questi ultimi anni l’Europa non sono mancati. Ma troppe volte - come indica la tragedia norvegese - sono stati ignorati o presi troppo alla leg-gera. A poco sono servite le denun-ce lanciate già a metà degli anni ‘90 da Steig Larsson, l’autore svedese dell’ormai celeberrima trilogia Mil-lenium prematuramente scomparso, quando fondò la rivista anti-razzista e anti-estremista Expo. Ed è passato quasi inosservato sui media il monito venuto a giugno dal Consiglio d’Eu-ropa, il quale ha puntato il dito con-tro l’uso sempre più frequente di ar-gomenti xenofobi da parte dei leader delle formazioni di estrema destra. Razzismo e intolleranza - si può legge nel rapporto scritto da chi “sorveglia” l’evolversi della situazione fin dal ‘94 - sono fenomeni ormai radicati e non più relegati a frange estremiste e mar-ginali della società europea. Le leggi in vigore vanno applicate più severa-mente ma non bastano più.

È necessario che i politici adotti-no e seguano un apposito codice eti-co e si astengano da discorsi razzisti. Nell’ormai lontano ottobre del 2002 a Londra la polizia scoprì in casa di David Tovey, 37 anni, un arsenale di armi ed esplosivi più che sufficien-te per una strage. L’uomo, dissero gli investigatori, credeva realmente nella supremazia della razza bianca ed era pronto a colpire. Nel maggio de 2006 un ragazzo di Anversa (Belgio), sim-patizzante del movimento razzista Vlaams Belang uccise una beby sitter

Una marea di fiori per ricordare le vittime dei massacri di Oslo

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Panorama 7

Attualità

L’Europa lancia l’allarme per i fenomeni di intolleranza e razzismo, che risultano sempre più diffusi e radicati

Quelle schegge impazzite della destra estrema

del Mali e una bimba di due anni, ol-tre a ferire una turca. Fu poi condan-nato all’ergastolo con l’aggravante di strage a fondo razzista. E in Finlan-dia, nel 2007, un fan di Unabomber e dell’autore della strage di Oklahoma city, prima di suicidarsi ammazzò 8 persone dentro una scuola. In Germa-nia, nel 2010, un sondaggio ha rileva-to che un tedesco su dieci vorrebbe un nuovo Fuhrer.

Lo scorso aprile una milizia un-gherese vicina al partito di estrema de-stra Jobbik (entrato nel Parlamento di Budapest con il 16,7 p.c. dei consensi) ha minacciato e costretto una comuni-tà Rom a lasciare il suo quartiere con l’aiuto della Croce Rossa. Solo qual-che settimana fa l’Europarlamento ha tolto l’immunità al lepeniano Bruno Gollnisch, che dovrà ora rispondere del reato di incitamento all’odio, men-tre il leader xenofobo olandese Geert Wilder è stato prosciolto da un’analo-ga accusa.

Intanto, l’estrema destra “solo po-litica” consolida le sue posizioni. Dopo i successi conseguiti in Austria, Olanda, Danimarca, Francia, Roma-nia, Ugheria e Svezia è arrivato anche quello dello scorso marzo in Finlan-dia, dove il partito dei “veri finlande-si” è balzato al 19 p.c. diventando la terza forza politica del Paese.

L’ultima nota, in ordine di tempo, e non c’è nessuna attenuante, riguarda l’Italia e il nuovo “Borghezio-choc”.

L’ europarlamentare leghista - già noto per le sue uscite sopra le righe - ha af-fermato infatti che la gran parte delle idee dell’attentatore di Oslo, Anders Brievik, “al netto dei propositi violen-ti” è condivisibile. La sua dichiarazio-ne ha provocato la condanna unanime della politica italiana e il deciso inter-vento della Lega Nord, che scaricato il “pasdaran” padano, ha chiesto scusa alla Norvegia. Il ministro della Sem-plificazione Calderoli è dovuto inter-venire due volte a distanza di poche ore, prima per dissociarsi dall’euro-parlamentare (“Le sue considerazio-ni sono espresse a titolo personale e da valutare come delle farneticazio-ni”), poi per scusarsi a nome di tutto il partito: “La Lega Nord, ufficialmen-

te, chiede scusa alla Norvegia, già così duramente colpita dai folli attentati, e soprattutto ai familiari delle vittime, per le terribili e inqualificabili consi-derazioni espresse a titolo personale dall’on. Mario Borghezio”. Il quale non arretrava di un millimetro ed era tornato alla carica: “Le mie idee - ave-va contrattaccato - sono quelle di per-sone coraggiose e lungimiranti, come Oriana Fallaci”. Da più parti è arrivata la richiesta che Borghezio lasci il suo scranno europe e che i dirigenti leghi-sti intervengano per fermare i deliri carichi di violenza, d’odio e di fon-damentalismo di Borghezio, spingen-do per una sua rapida espulsione dal partito per indegnità. Qualcuno vuole denunciare Borghezio per istigazione all’odio razziale e apologia di reato, altri hanno parlato di “utopie regressi-ve di un’Europa libera da qualsivoglia contaminazione etnico culturale”.

Vicini a Borghezio sono rimasti in due: il collega d’Europarlamento Francesco Speroni (“Sto con lui; non penso che si debba dimettere: le affer-mazioni sono state anche strumenta-lizzate. Le idee di Breivik sono a di-fesa della civiltà occidentale”) e un francese del Front National di Marine Le Pen. Si chiama Jacques Coutela, è stato candidato del Fn alle cantonali dello scorso marzo, e ha dipinto Brei-vik come un “resistente, un’icona, un nuovo Carlo Martello in lotta contro l’invasione musulmana”. ●Anders Behring Breivik

La sede del governo norvegese danneggiata nell’attentato e i soccorsi alle vittime dell’isola di Utoya

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EtniaDisappunto e riprovazione per la decisione dei giudici costituzionali

Minoranza, il voto infranto

Una decisione di pretto stam-po politico cellofanata entro un’autorevole “dichiarazione

giuridica”. Vagliato entro un quadro nazional/amministrativo, si potrebbe definire così il passo con cui la Cor-te costituzionale croata ha abrogato il primo articolo della Legge costi-tuzionale sui diritti delle minoranze nazionali, che fra gli effetti pratici ha quello di privare la minoranza italia-na del doppio voto. Un passo tanto più significativo quando si consideri che la Legge costituzionale era stata modificata in senso “aperto” soltanto poco più di un anno fa.

Fra gli obiettivi che si volevano raggiungere, è stato detto nella mo-tivazione vi era la necessità di rispet-tare il principio giuridico-costituzio-nale in base a cui a termini di legge “non era permesso garantire e deter-minare in anticipo il numero di rap-presentanti al Sabor per nessuna mi-noranza etnica e su nessuna base”.

In buona sostanza è stata abolita la norma in base alla quale a un’et-nia, quella serba, venivano in antici-po garantiti dei seggi in Parlamento. Dunque all’unanimità i giudici hanno deciso che è costituzionalmente inac-cettabile che a una minoranza etnica, che rappresenta più dell’1,5 per cento della popolazione (dunque quella ser-ba) siano garantiti almeno tre seggi al Sabor nell’ambito del diritto di voto politico generale. Questo su un pia-no rigorosamente formale. L’aspetto sostanziale della faccenda è dato in-vece dal fatto che in tal modo è sta-to uno scrollone all’organizzazione della minoranza serba presiduta da Milorad Pupovac, quasi detentrice predestinata dell”investitura” dei de-putati in parola. Se ne è infatti com-prensibilmente compiaciuto il Forum democratico serbo, l’“organizzazio-ne parallela” che da tempo ha assun-to una posizione di forte contesta-zione nei confronti di Pupovac per il suo appoggio al governo di Jadranka Kosor. Un compiacimento scontato, dato che lo stesso Forum figura fra i

I presenti alla firma della Lettera d’intenti per i lavori di ristrutturazione della scuola ottennale S. Nicolò. Da sinistra: Norma Zani, Maurizio Tre-mul, Furio Radin, Vojko Obersnel, Iva Bradaschia Kožul, Silvio Delbello

e Alessandro Rossit (foto Goran Žiković)

a cura di Mario SimonovichFirmata lettera d’intenti tra UPT, UI e Città di FiumePresto la SE S.Nicolò verrà ristrutturata

Presto la scuola elementare con lingua d’insegnamento italia-

na di fiume S.Nicolò sarà dotata di un vano di sola biblioteca e di una sala multimediale. Questo quanto scaturisce dopo la firma delle let-tera d’intenti per la ristrutturazio-ne della sede della SE avvenuta di recente alla Municipalità di Fiume. A sottoscrivere la lettera sono sta-ti il sindaco Vojko Obersnel, il pre-sidente dell’Unione Italiana on. Fu-rio Radin, il presidente della Giun-ta dell’UI Maurizio Tremul, il pre-sidente dell’UPT Silvio Delbello e la direttrice della scuola Iva Brada-schia Kožul. Il progetto di ristrut-turazione viene finanziato per il 50 per cento dall’Università Popolare di Fiume assieme all’UI mentreil ri-mamente 50 per cento verrà elargito dalla Città di Fiume. Il progetto in questo conferma quindi la partico-lare sensibilità della Municipalità di Fiume verso l’istruzione e la scuola italiani, ha detto Silvio Delbello al termine della riunione. Il presiden-

te dell’UI Furio Radin ha invece ri-cordato la specificità della comunità etnica italiana, che gode dello status particolare di minoranza autoctona a Fiume. “Questo significa anche una particolare forma di collabora-zione con la nostra comunità Con la firma di questa lettera d’intenti con-fermiamo la politica generalmente accettata di convivenza con la mi-noranza italiana a Fiume in tutte le sue forme di attività e di lavoro”. Il presidente dell’UI e deputato al Sa-bor della Croazia ha inoltre ricorda-to che tale iniziativa riveste impor-tanza per gli alunni di tutte le nazio-nalità, ma anche per quelli privi di orientamento etnico, non solo quin-di per i ragazzi della comunità na-zionale italiana.

Nel ringraziare tutti la direttri-ce Iva Bradaschia Kožul ha detto che “Per noi questo è il coronamen-to del sogno di più generazioni. Per quanto riguarda invece la realiz-zazione della palestra speriamo di avere la stessa collaborazione”.

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Panorama 9

Etnia

Un momento della visita della delegazione italiana guidata dal presidente Giorgio Napolitano al Sabor di Za-gabria, presente pure il presidente dell’UI, Furio Radin (primo a destra)

soggetti che hanno portato la questio-ne dinanzi ai giudici costituzionali. Le altre sono sono l’HHO, ovvero il Comitato di Helsinki-Croazia che ha alla testa Ivan Zvonimir Čičak (e an-che questo la dettaglio la dice lunga sullo stato della democrazia in Croa-zia) GONG, il Partito socialista della Croazia e tale Ðuro Kalanj, quale pri-vato cittadino.

Furio Radin, il nostro rappresen-tante al Sabor, si e dichiarato ama-reggiato e arrabbiato per una senten-za di questo tipo. Un’amarezza tanto maggiore, rileva, in quanto di fronte a una legge restrittiva delle minoran-ze si mostra invece grande “generosi-tà” nelle norme per i croati all’estero. I parlamentari minoritari informeran-no i diversi fori europei e mondiali e non si esclude di portare la questione al tribunale di Strasburgo. Inoltre, già all’inizio presenteranno una proposta di legge costituzionale per impedi-re che persone con un passato politi-co possano diventare giudici costitu-zionali. “E di queste persone la Corte è piena, dalla presidente in giù.” Per quanto riguarda la nostra gente, la co-

munità nazionale italiana, molto pro-babilmente si andrà alle prossime ele-zioni con la vecchia legge mancando il tempo per cambiare la normativa e anche perché nell’anno delle elezioni non si deve modificare la legislazio-ne elettorale. Nel contesto ha invitato tutti gli italiani a votare in massa per protesta per il seggio specifico.

Da notare che Radin e Pupovac avevano inviato una lettera alle mas-sime cariche dello Stato e della Cor-te costituzionale: il presidente Ivo Josipović, la premier Jadranka Kosor, la presidente della Corte costituzio-nale, Jasna Omejec, il presidente del-la Commissione parlamentare per la Costituzione, Vladimir Šeks e la pre-sidente del Comitato nazionale per il monitoraggio dei negoziati di ade-sione all’UE Vesna Pusić. Nel mes-saggio si rilevava il profilarsi di una sentenza che avrebbe potuto porta-re a cambiamenti ulteriori della Leg-ge elettorale e, peggio, alla riduzione delle competenze dei deputati delle minoranze nazionali.

Anche nella lettera scritta al presi-dente Napolitano dopo la visita a Za-

gabria, esprimendo la gioia per l’in-contro previsto a Pola il 3 settembre, Radin scriveva: “Signor Presidente, tra i valori che Lei ha sottolineato ce n’è uno, quello del cosiddetto doppio voto, che purtroppo potrebbe venirci negato tra qualche giorno dalla Cor-te costituzionale croata. Pur essendo previsto dalla Costituzione di questo Paese, e sancito dalla Legge costitu-zionale sulle minoranze e dalla Leg-ge elettorale, una sentenza di questa corte potrebbe sopprimerlo, renden-do vana una battaglia che conducia-mo da un ventennio. Questa situa-zione assurda, e questi cambiamenti avverrebbero con una procedura an-ticostituzionale a quattro mesi dalle elezioni, il che potrebbe essere pro-fondamente lesivo nei confronti di un Paese che vuole fortemente diventa-re europeo.” Da notare per inciso che nel corso della visita a Zagabria, che aveva carattere ufficiale, l’anziano presidente italiano si era apertamen-te compiaciuto per quel doppio voto che è stato cancellato con una senten-za venuta solo un paio di settimane più tardi.●

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10 Panorama

Economia

Crisi nell’Eurozona, preoccupazione per gli attacchi in serie che prendono di mira i mercati e la Borsa

Senza crescita l’Italia non riuscirà a salvarsia cura di Bruno Bontempo

A meno di una settimana dall’ac-cordo faticosamente raggiun-to dai leader dell’Eurozona sul

nuovo salvataggio di Atene, l’ottimi-smo con cui l’intesa era stata accolta appartiene già al passato remoto e la paura del rischio contagio torna a do-minare i mercati. Sull’accordo Ue si è abbattuta la scure di Standard&Poors, che ha declassato a CC (appena due gradini sopra il default) il rating sulla Grecia proprio alla luce dei suoi conte-nuti. In particolare S&P ha rilevato che il coinvolgimento delle banche porterà inevitabilmente a un default selettivo, scenario per altro previsto dal “patto” siglato a Bruxelles dai i Paesi euro.

In Italia, l’allarme di tutto il mon-do economico, imprenditoriale e sin-dacale arriva con una voce sola. Una nota congiunta di imprese, banche, cooperative, sindacati per sottoline-are la “preoccupazione” per l’attac-co ai mercati finanziari. È per un ul-timo appello dopo mesi di pressing per chiedere al governo misure per la crescità: è “necessario un patto per

la crescita che coinvolga tutte le par-ti sociali; serve una grande assunzio-ne di responsabilità da parte di tutti ed una discontinuità capace di realizza-re un progetto di crescita del Paese in grado di assicurare la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occu-pazione”. Si è così coagulato il con-senso, anche ricordando l’invito alla coesione sociale lanciato dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano, e si invoca “lo spirito della concertazione del 1992”. La parola chiave dell’ap-pello è “discontinuità”, non per chie-dere una crisi di governo al buio, ma per chiedere ancora una volta al go-verno di non puntare solo sul rigore dei conti, comunque necessario, ma anche sulla leva economica, su mi-sure per spingere una crescita trop-po lenta. E di farlo con una visione più collegiale all’interno dell’esecuti-vo, con più spazio al lavoro dei mini-stri “economici” sul fronte dello svi-luppo, accanto all’impegno sui conti pubblici del ministro dell’Economia. “Guardiamo con preoccupazione al recente andamento dei mercati finan-ziari”, scrivono quindi le parti sociali:

“Il mercato non sembra riconoscere la solidità dei fondamentali dell’Ita-lia. Siamo consapevoli che la fase che stiamo attraversando dipende solo in parte dalle condizioni di fondo dell’economia italiana ed è connessa a un problema europeo di fragilità dei paesi periferici”.

A ciò si aggiungono i problemi di bilancio degli Usa, parzialmente rien-trati dopo che è stato evitato il default. La Casa Bianca e i leader del Con-gresso hanno raggiunto in extremis un accordo sull’aumento del tetto del debito. Una soluzione che non è quel-la che il presidente Barack Obama vo-leva, ma che “mette fine alla crisi che Washington ha imposto all’America” ed “evita di ritrovarci in una crisi si-mile fra 6, 8 o 12 mesi”. L’accordo assicura a Obama un aumento del tet-to del debito di 2.100 miliardi di dol-lari, “eliminando la necessità di ulte-riori aumenti fino al 2013”, scaccian-do lo spettro del default e rimuoven-do l’incertezza dall’economia. Ma è la seconda parte dell’accordo quella centrale. Obama, con una stoccata a repubblicani e democratici, ribadisce

Bocciati due greci, promossi a pieni voti gli istituti di credito italiani e austriaci maggiormente presenti sul mercato finanziario della Croazia

Gli Stress test dicono che la Nova Ljubljanska banka è «a rischio»Una banca slovena a rischio, due banche greche boc-

ciate e altre due in bilico. Sono questi alcuni dei ri-sultati più rilevanti degli stress test condotti dall’Eba, l’Autorità bancaria europea, su circa novanta istituti di credito dell’Ue. In totale a livello europeo sono otto le banche che non supererebbero l’ipotetico scenario di cri-si che prevede un calo del prodotto interno lordo dell’eu-rozona dello 0,5 per cento tra il 2011 e il 2012, un crollo delle borse del 15 per cento e una forte crisi del merca-to immobiliare. A preoccupare, però, non sono solo otto banche, ma anche altre sedici giudicate troppo vicine alla soglia di rischio.

In Slovenia sono stati testati due istituti: Nova Lju-bljanska banka e Nova Kreditna banka. Il primo gruppo, il più grande del paese, nello scenario più negativo si ritrove-rebbe nel 2012 con un livello di Core tier 1 (l’indicatore di solidità patrimoniale preso a riferimento per la simulazio-ne dell’Eba) del 5,3 per cento, di poco superiore al minimo

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Panorama 11

Economia

Crisi nell’Eurozona, preoccupazione per gli attacchi in serie che prendono di mira i mercati e la Borsa

Senza crescita l’Italia non riuscirà a salvarsi

Bocciati due greci, promossi a pieni voti gli istituti di credito italiani e austriaci maggiormente presenti sul mercato finanziario della Croazia

Gli Stress test dicono che la Nova Ljubljanska banka è «a rischio»del 5 per cento definito dalle autorità europee. Nova Lju-bljanska banka è attiva in tutta la regione balcanica, con le sole eccezioni di Albania, Grecia e Romania. Il secon-do gruppo ha invece superato abbondantemente la prova, arrivando all’8,0 per cento.

Dalla Grecia non arrivano invece notizie rassicuranti. Su sei banche esaminate, solamente due sono state pro-mosse. Gli istituti di credito austriaci, insieme a quelli greci, sono fra i più attivi nei Balcani. Erste Bank, che ha passato gli stress test dell’Eba con un livello di Core Tier 1 pari all’8,1 per cento, ha delle filiali in Romania, Croa-zia e Serbia, paesi dove è ugualmente presente Raiffeisen-bank (promossa con il 7,8 per cento). Quest’ultimo è un importante istituto anche in Slovenia, Bulgaria, Albania e Kosovo. Fra le italiane maggiormente presenti nei Balca-ni ci sono Intesa Sanpaolo e Unicredit, che hanno dimo-strato la propria solidità superando l’esame comunitario con rispettivamente l’8,9 per cento e il 6,7 per cento.

I due istituti sono molto presenti nella regione balcani-ca, in particolare in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Roma-nia, Bulgaria, Serbia e Slovenia. Anche gli altri italiani hanno avuto valutazioni positive: Ubi Banca del 7,4 per cento, Monte dei Paschi di Siena del 6,3 per cento e il Banco Popolare del 5,7 per cento.

L’Autorità bancaria europea ha chiesto alle otto ban-che bocciate di affrontare piani di ricapitalizzazione per 2,5 miliardi di euro. I sedici istituti in bilico, dal canto loro, dovranno prendere le misure necessarie per raffor-zare il proprio credito. “Resteremo vigili e continueremo a monitorare la capacità di ripresa del settore finanziario dell’Ue”, hanno affermato in una dichiarazione congiunta Olli Rehn e Michel Barnier, rispettivamente commissari agli Affari economici e al Mercato interno. “Siamo co-munque sicuri che le misure richieste alle banche garanti-ranno un settore finanziario più sicuro e in grado di soste-nere l’economia reale”. ●

che “agli americani più ricchi e alle grandi aziende va chiesto di pagare il giusto, rinunciando agli sgravi fiscali e alle speciali deduzioni”.

Le incertezze dei mercati si tra-ducono per l’Italia nel deciso amplia-mento degli spread sui titoli sovrani e nella penalizzazione dei valori di bor-sa, che comportano un elevato onere di finanziamento del debito pubblico ed un aumento del costo del denaro per famiglie ed imprese”. Per evitare che la situazione divenga insosteni-bile occorre ricreare immediatamente condizioni per ripristinare la normali-tà sui mercati finanziari con un imme-diato recupero di credibilità nei con-fronti degli investitori.

Intanto l’agenzia di rating Moody’s ha messo la Spagna sotto osservazio-ne per un possibile declassamento, accrescendo la pressione sul gover-no di Madrid, già in difficoltà nel risa-namento delle finanze pubbliche. An-che se l’esecutivo spagnolo è riuscito a conseguire gli obiettivi di bilancio a breve termine, le prospettive a lun-go termine restano poco promettenti a causa della crescita economica mode-

sta e della spesa pubblica delle regio-ni. Anche se la Spagna probabilmen-te non sarà esclusa dai mercati, il pia-no di assistenza finanziaria a favore di Atene aumenta il rischio di dinamiche di mercato avverse. L’ultimo cambia-mento di valutazione dell’agenzia ri-guardo alla Spagna risale al marzo del 2010 quando il giudizio sul debito so-vrano fu abbassato da Aa1 ad Aa2.

L’annuncio di Moody’s segue l’au-mento degli interessi pagati dall’Ita-lia sul debito pubblico: per colloca-re buoni del Tesoro decennali per 2,7 miliardi di euro è stato garantito un rendimento del 5,77 per cento, il più alto dal 2000, contro il 4,94 per cen-to dell’asta precedente, dello scorso 28 giugno

Il debito italiano, di circa 1.900 mi-liardi di euro, il 120 p.c.del prodotto interno lordo, è quasi il triplo di quello combinato di Grecia, Portogallo e Ir-landa. Ignazio Visco, vice direttore ge-nerale della Banca d’Italia, ha dichia-rato in un’audizione parlamentare che un persistente gap di 300 punti basi ri-spetto al benchmark tedesco rappre-senterebbe un problema notevole per il paese. Secondo l’iTraxx SovX, l’in-dice di rischio dei paesi europei occi-dentali elaborato da Markit, il debito dell’Europa occidentale è nel comples-so più rischioso di quello dell’Europa centrale e orientale, del Medio Oriente e dell’Africa. c. del Pil), ma anche che le previsioni dei mercati sulla salute finanziaria del paese sono negative. ●

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SocietàQuella in atto in Somalia si presenta come una tragedia di proporzioni bibliche che coinvolge 11 milioni di persone

Siccità e fame, la condanna del Corno d’Africaa cura di Bruno Bontempo

Quanto è lontano da noi il mon-do di quelli che muoiono per fame? È una domanda che ci

dovremmo porre più spesso. In que-sto mondo dove ogni giorno veniamo bombardati da notizie inutili, dai rea-lity della tv, al gossip, mentre nel re-sto del mondo le persone muoiono di fame, circa 825 milioni, secondo gli ultimi dati diffusi dalla FAO un bam-bino ogni otto secondi, e la condizio-ne di queste persone, equivalenti alla popolazione complessiva di 14 pae-si della dimensione dell’Italia, non è transitoria. Questi tragici dati, quelle immagini che le nostre tv fanno ve-dere solo saltuariamente, e che si tro-vano solo su internet, fanno disperata-mente da eco a un mondo fatto di con-sumismo, di surplus alimentare, a vol-te purtroppo di indifferenza.

La tragedia che sta sconvolgendo il Corno d’Africa e ha assunto dimensio-ni da catastrofe si poteva evitare. Am-pie aree di Somalia, Kenya ed Etio-pia sono nella morsa della carestia, un mostro che avanza e adesso minaccia anche Burundi, Gibuti, Sud Sudan e Uganda; in sostanza buona parte del-le regioni dei Grandi Laghi e del Cor-no d’Africa. Undici milioni di persone sono a rischio fame; dei morti non esi-stono stime attendibili ma le proiezio-ni del disastro non lasciano scampo. Il commento quasi unanime degli opera-tori che in questi giorni sono in prima linea è da piaga biblica: giurano di non aver mai visto nulla del genere, che si tratta della peggiore crisi mai affron-tata dall’Africa negli ultimi sessant’anni, che neanche la carestia che colpì l’Etiopia tra il 1984 e il 1985 e fece un milione di morti non ave-va assunto queste dimensio-ni. Le immagini sono quelle di carcasse di animali schele-triti lungo viottoli polverosi, di donne che vagano come impazzite dopo aver lascia-to i loro figli nella giungla, di migliaia di disperati che fug-gono alla ricerca di un infer-

no un po’ meno crudele raggiungen-do uno dei campi profughi presenti nell’area, che però sono lager.

A partire dal mese di gennaio, oltre 96.000 persone sono fuggite in Ken-ya, più di 74.000 in Etiopia e circa 2.500 a Gibuti, Paesi a loro volta col-piti dalla drammatica siccità. La cau-sa è una crisi ambientale e sociale tan-to acuta quanto silenziosa che sta vi-vendo il Corno d’Africa, la penisola sul lato est del continente africano che comprende Somalia, Eritrea, Etiopia, Gibuti. Le difficoltà che si trovano ad affrontare gli operatori umanitari non sono poche e, spesso, non solo logisti-che. Organizzazioni umanitarie come Unicef, Unhcr lavorano quotidiana-mente con i governi locali per forni-re aiuti alle popolazioni locali. Tutta-via, ampie zone di territorio sono pre-da dei signori della guerra e di fazioni

islamiche. La Somalia è uno dei pae-si più colpiti, devastato dalla peggio-re siccità degli ultimi decenni. Nella capitale Mogadiscio, 300mila persone (su un totale di 2,5 milioni), ogni gior-no, non possono essere raggiunti dagli operatori umanitari, anche a causa del gruppo islamico Al-Shabaab.

Tuttavia, anche se le razioni di cibo riuscissero ad arrivare a destina-zione, sarebbero insufficienti a copri-re il fabbisogno della popolazione. A complicare le cose, nella capitale Mo-gadiscio c’è anche un diffuso senti-mento anti-occidentale. Il Programma Mondiale di Alimentazione ha cerca-to di sostenere la popolazione somala, dando vita ad un progetto di alimen-tazione mirata (integratori per bambi-ni malnutriti e donne in stato di gravi-danza e allattamento). L’Onu ha affi-dato la distribuzione del cibo a diverse

Ong presenti sul territorio o al governo locale, ma “l’or-ganizzazione impiega un ri-goroso monitoraggio e con-trollo, affinché le provviste non vengano rubate o vada-no sprecate”, fanno sapere delle Nazione Unite.

Un altro metodo è sta-to quello di collaborare con alcuni istituti scolastici del nord del paese, in modo che ai bambini fosse garantito il pranzo, di solito l’unico

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Panorama 13

Società

La non-rivoluzione di Breivikdi Luca Dessardo

Dopo lo shock iniziale per la stra-ge in Norvegia, dobbiamo fare

uno sforzo per capire. Lo chiede da noi pure il 32enne autore della stra-ge, Anders Behring Breivik – che ha concepito l’avvenimento come l’ini-zio di una crociata contro la musul-manizzazione dell’Europa ed il mar-xismo che la permette.

Bollare a priori Breivik come un mostro è troppo semplicistico, e pure controproducente. Al di là di quanto potrebbe sembrare ovvio, dobbiamo fare uno sforzo per smantellare razio-nalmente la sua tesi, altrimenti il ri-schio è quello di farlo effettivamen-te diventare una figura di martire per una marea di persone che per igno-ranza più che per cattiveria soffrono di xenofobia e antisemitismo.

A proposito, l’idea di uccidere “i propri” piuttosto che gli stranieri ha senso: si tratta di eliminare i “tradi-tori” che con i loro ideali eccessiva-mente tolleranti hanno permesso agli immigrati di prendere potere e che continuano a rendere possibile la si-tuazione. Da questo punto di vista, eliminare i giovani laburisti ha senso in quanto ci si libera di una potenzia-le futura classe dirigente inadeguata quanto quella attuale.

Tuttavia, la logica di Breivik è fal-lace in quanto suppone che i “marxi-sti” abbiano davvero le redini del po-tere. Invece i marxisti oggi stanno al massimo complottando contro il pre-mier Silvio Berlusconi (chiedo scusa per l’ironia), ma di certo non sono più la forza di cui tener conto dell’epoca del “Manifesto comunista”. Al con-trario in questo momento il mondo occidentale sta vivendo un forte ri-torno ad una destra più conservatrice. Numerosi Paesi europei sono sempre meno disposti a tollerare le a volte troppe (bisogna dirlo) libertà religio-se pretese dai musulmani, e basti pen-sare al divieto del burqa in pubblico varato in Belgio, oppure al divieto di costruzione di minareti in Svizzera. Per non parlare poi della reazione ini-

ziale alla strage: prima ancora che si sapesse il colpevole, tutti hanno pen-sato ad un attacco terroristico da par-te di fondamentalisti islamici.

Insomma, la tesi di voler scuo-tere le coscienze non regge proprio, anche perché queste coscienze stan-no già prendendo una via meno tol-lerante rispetto al passato, appunto come reazione al problema che muo-ve lo stesso Breivik – la presenza sempre più “ingombrante” degli im-migrati. Altro che leader di un’élite: Breivik è solo il prodotto di un vol-gare sentimento xenofobo largamen-te diffuso.

Non solo, ma l’intera roboan-te questione del manifesto non è al-tro che un abbaglio. Di questo noto-rio documento di millanta pagine che egli ha pubblicato sul web e nel quale spiega il proprio atto “atroce ma ne-cessario” già numerosi media hanno messo in evidenza l’eccesiva somi-glianza al manifesto dell’Unabomber Ted Kaczynski (l’uomo che dal 1978 al 1995 ha seminato il panico negli Stati Uniti mandando bombe per po-sta). Ma se il manifesto di Kaczynski è originale e persino interessante, non è così per Breivik, il quale copia mol-to, ma ne stravolge il senso, e viene meno quando tenta di darne uno nuo-vo.

In fin dei conti l’atto in sé è stato del tutto gratuito ed inutile, un mero fatto di cronaca nera – come lo de-finisce Claudio Magris – e l’inte-ra impalcatura ideologica, lungi dal sostenerlo, sembra buttataci sopra a casaccio. In conclusione, quello che emerge è una personalità che soffre da illusioni di grandezza, ma cui fon-damentalmente mancano intelligenza e soprattutto carisma. Voglioso di far sentire il proprio confuso messaggio Breivik voleva un processo pubblico, ma gli è stato negato. Potevano anche concederglielo: l’unico interesse che possiamo nutrire nei suoi confron-ti è quello leggermente macabro che abbiamo per gli assassini, non quel-lo che potremmo avere per i rivolu-zionari.●

Riflessioni in corniceQuella in atto in Somalia si presenta come una tragedia di proporzioni bibliche che coinvolge 11 milioni di persone

Siccità e fame, la condanna del Corno d’Africapasto del giorno. Questo, da un altro lato, potrebbe incentivare anche i ge-nitori dei piccoli a mandarli a scuola, combattendo il basso tasso di alfabe-tizzazione somalo (37,8 p.c. - 2011). Combinando i costi del cibo, di distri-buzione e pagamento del personale, il Programma Mondiale dell’Alimenta-zione fa sapere come ci sia un deficit di 300 milioni di dollari. Le donazioni, per essere utilizzate come aiuti diretti, richiedono un minimo di due mesi.

Anche questa crisi alimentare si poteva prevedere e impedire. Lo stes-so relatore speciale all’Onu per il di-ritto al cibo Olivier De Schutter il mese scorso aveva indicato ai mini-stri del G20-agricoltura le misure da prendere, ma nulla di concreto è stato fatto. Ancora una volta così i governi iniziano a occuparsi dell’emergenza solo dopo la sua esplosione, quando i dati dell’eccidio non consentono più di ignorarla. Oxfam ha già accusato i governi occidentali per avere igno-rato i segnali evidenti della crisi afri-cana ora in atto, anziché mettere a di-sposizione gli 800 milioni di dolalri che avrebbero permesso di mitigarla sul nascere.

L’esperto di food security Patrick Webb della Friedman School of Nutri-tion Science and Policy all’Università Tufts spiega come “ciò che rappresen-ta il catastrofico fallimento di tutti i si-stemi a cui la popolazione si affida per sopravvivere: la siccità ha prosciugato i loro raccolti e ucciso il bestiame, non è rimasto nulla.

La crisi frattanto dilaga nell’inte-ro Corno d’ Africa, verso il Kenya e l’Etiopia dove almeno 135mila cit-tadini somali si sono già riversati tra gennaio e luglio alla ricerca di cibo, e 3mila ogni giorno vi stanno ora mi-grando. Oltre 11 milioni di esseri uma-ni rischiano di morire per fame, altri la denutrizione e il degrado.

Nel frattempo, in Etiopia i neoco-lonialisti asiatici e del Golfo persico producono cibo e biocarburanti desti-nati all’export, su milioni di ettari di terre rapinate alle popolazioni locali con la complicità di un regime ditta-toriale.●

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14 Panorama

La storia oggiNel Risorgimento l’inizio di un processo studiato solo ora dalla storiografia politica

Il monumento al servizio della memoria nazionale di Fulvio Salimbeni

Quando l’Italia, conclusa la Gran-de Guerra, arrivò a Trieste, ven-nero immediatamente smantel-

lati i monumenti in ricordo della de-dizione del capoluogo giuliano agli Asburgo e di Sissi, la sfortunata consor-te di Francesco Giuseppe, oltre alla sta-tua di Massimiliano, il fratello dell’im-peratore, cancellando ogni testimonian-za monumentale della presenza austria-ca, mentre furono quasi subito messi in cantiere il complesso monumentale di Attilio Selva per i Caduti in guerra, il Faro della Vittoria e il sacrario di Ober-dan, a rivendicare l’anima italiana e ir-redentista della città. A Capodistria nel 1944 collaborazionisti slavi delle auto-rità tedesche d’occupazione distrussero il monumento a Nazario Sauro, mentre nel 1948 analoga sorte, ad opera delle autorità jugoslave, toccò all’erma mar-morea (del 1919) di Pio Riego Gam-bini, volontario irredentista caduto nel 1915. A Sebenico, invece, per istigazio-ne del poeta Vladimir Nazor nel 1945 fu abbattuta la statua del Tommaseo. Diversa, ma altrettanto significativa la vicenda del monumento al bano Jelačić in Zagabria, che, originariamente collo-cato con la spada snudata a nord, verso Budapest, a ricordo della sua campagna contro gli insorti ungheresi del 1849 e rimosso con l’avvento al potere del re-

gime comunista, ritornò al proprio po-sto dopo la proclamazione dell’indipen-denza della Croazia, ma questa volta orientato verso sud, in direzione oppo-sta. È di questi, giorni, infine, la notizia che nella capitale macedone è stata eret-ta una monumentale statua ad Alessan-dro Magno, per rivendicarne l’autocto-nicità contro la Grecia.

Questi episodi si sono voluti ricor-dare per far intendere il rilevante valore simbolico, di là da eventuali pregi ar-tistici, dei monumenti ancora nell’età contemporanea. Oggi vi sono ben altri mezzi di comunicazione politica, dal-la televisione a facebook e internet, ma nell’Ottocento e ancora fino almeno alla metà del Novecento, furono questi alcuni dei veicoli principali della me-moria nazionale, di cui solo ora la sto-riografia politica incomincia ad accor-gersi, diverso essendo ovviamente il discorso per la critica d’arte, che, però, se n’era occupata quasi esclusivamente in un’ottica estetica. Mutato il modo di concepire la pratica storica e ampliata-si la prospettiva metodologica a un’im-postazione pluridisciplinare, è giunto il momento della scoperta dei monumenti pubblici come preziose fonti per inten-dere gli innovativi versanti della ricerca storica e della sociologia della comuni-cazione che sono rispettivamente la co-struzione della memoria d’una comuni-tà, in questo caso nazionale, e la diffu-

sione d’un messaggio ideologico, quale si sia. Così sono nati i lavori di Bruno Tobia sul romano Altare della Patria, eretto per celebrare il 50° anniversario dell’unità italiana (1911), e sulla monu-mentalità fascista, così come quelli di Emilio Gentile sulla politica architet-tonica fascista, pur essendo entrambi non storici dell’arte, bensì contempora-neisti. Recente, poi, è il volume di Guri Schwarz Tu mi devi seppellir. Riti fune-bri e culto nazionale alle origini della Repubblica (UTET), che sposta l’atten-zione all’ultimo significativo momento delle fortune della monumentalistica d’impegno civile, dedicato alla cele-brazione della Resistenza.

È in tale clima che si situa, dunque, la nuova attenzione degli studiosi per la componente monumentale della storia dell’Ottocento, alla cui valorizzazione un’ulteriore, positiva sollecitazione è venuta dalle celebrazioni in corso del 150° dell’Unità, che hanno investito un po’ tutti gli aspetti della civiltà risorgi-mentale, e all’interno delle quali si si-tua un’interessante mostra padovana, da poco conclusa, avente per soggetto Scolpire gli eroi. La scultura al servi-zio della memoria, di cui è pure dispo-nibile il relativo catalogo, a cura di Cri-stina Beltrami e Giovanni C. F. Villa (Silvana, Milano 2011, pp. 160, con 70 illustrazioni, € 18,00), la cui pri-

La statua di Dante eretta nel 1896 a Trento, allora nell’Austria Ungheria, come simbolo della cultura italiana.

Alessandro Magno in bella mostra a Skopje. In barba alle obbiezioni di carattere storico, i macedoni lo ritengono per tradizione “uno dei loro”

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ma parte comprende i saggi dei curato-ri, la seconda le riproduzioni dei boz-zetti e delle opere di cui si ragiona nel testo, fornendo così un utile, e aggior-nato, strumento di consultazione e lavo-ro. Questa strategia di pedagogia civile del pubblico tramite statue e complessi monumentali, tipica non solo del caso italiano, ma dell’Europa del tempo, come attestato dai risultati d’un conve-gno, svoltosi a Viterbo il 10-12 marzo scorso, dedicato proprio a Celebrare la nazione. Grandi anniversari e politiche della memoria nel mondo contempo-raneo, mirava in particolare a educare e a coinvolgere quei larghi settori del-la cittadinanza ancora analfabeti, che non potevano essere raggiunti con testi scritti, donde lo sforzo capillare di pre-sentare loro nella maniera più plastica ed evidente possibile i protagonisti e gli eroi della redenzione nazionale. Dietro alle statue e ai monumenti che possia-mo ammirare nelle vie e nelle piazze delle città italiane, benché oggi non ci dicano quasi più nulla, v’è una vicen-da complessa e articolata, che coinvol-ge la politica, l’arte, la storia, le tecni-che comunicative. Se efficaci veicoli in tal senso furono il teatro lirico - si pensi solo al Verdi della prima stagione, pa-triottica - e la pittura storica, da Hayez ai Macchiaioli, con le pubbliche espo-sizioni, che, peraltro, potevano essere apprezzate solo da una certa utenza, le sculture e le composizioni monumenta-li collocate nei centri abitati non pote-vano non essere viste, e quindi non col-pire, chiunque passasse davanti a esse. Merito del catalogo sopra menzionato è appunto quello d’aver documentato con ricchezza di dati tutto il complicato pro-cesso culturale nel senso lato del termi-ne che sta dietro a ognuna d’esse.

Quando, nel 1848, con la concessio-ne dello statuto carlalbertino nel regno di Sardegna, le iniziali illusioni suscita-te dal riformismo di papa Pio IX e lo scoppio della prima guerra d’indipen-denza inizia a porsi la questione di cele-brare i nuovi eroi, le commissioni a ciò proposte devono far fronte a innumere-voli problemi, di diversa natura. Intanto chi effigiare. Di statue ce n’erano sem-pre state nelle città europee, ma alme-

no fino alla rivoluzione francese riguar-davano soltanto santi, sovrani e condot-tieri. Con la laicizzazione e secolarizza-zione della società, le nuove religioni politiche, che alla Divinità sostituisco-no la Patria, ai martiri cristiani quel-li sacrificatisi per la causa patriottica, ai principi assoluti gli uomini politici e gli statisti dedicatisi alla libertà, unità e indipendenza d’Italia, investono pure l’arte, donde la volontà di trasmettere ai contemporanei e ai posteri la memo-ria di questi eroi e benemeriti. Da qui i concorsi pubblici per scegliere i monu-menti ritenuti più idonei, in cui alle ra-gioni estetiche si sovrapponevano quel-le più propriamente politiche, doven-dosi decidere chi “monumentalizzare” e come rappresentarlo, in maniera da trasmettere nella maniera più efficace i valori che egli rappresentava, ma anche dove collocarlo, onde dargli il massimo d’evidenza e di visibilità. Ecco, allora, le discussioni sui bozzetti presentati alle prove concorsuali, le richieste ai vinci-tori di modificare o integrare le loro pro-poste, non ritenute del tutto convincenti o confacenti alle finalità del progetto, in tali confronti d’idee, attestati dai verbali delle sedute e dai carteggi con gli arti-sti, ma anche dagli articoli della stampa, che seguiva con attenzione tali vicende, ritenute di primario rilievo, emergendo sia i contrastanti gusti estetici - con il graduale passaggio dal classicismo ca-noviano a un certo verismo - sia la di-versa immagine che del raffigurato si voleva immortalare, più o meno eroica, più o meno borghese, più o meno idea-lizzata, più o meno realistica. Questa è una procedura che riguarda sia re Vitto-rio Emanuele II, sia Cavour, Garibaldi

e Mazzini - che, per l’esser stato consi-derato sino alla fine un rivoluzionario, incominciò a veder riconosciuti i pro-pri meriti in tale prospettiva solo mol-to dopo gli altri -, oltre a personaggi come Massimo d’Azeglio, Cesare Bal-bo, Vincenzo Gioberti, Quintino Sella, mentre a Venezia, in ricordo dell’eroica lotta della Repubblica Veneta del 1848-49, si dedicherà particolare attenzione a Daniele Manin e a Niccolò Tommaseo. Ma in questo ideale Panteon statuario rientreranno anche scienziati come Ga-lileo Ferraris, simbolo della nuova cul-tura positivista e progressista, trionfante sull’oscurantismo clericale, così come i maggiori letterati, espressione della lin-gua e letteratura nazionale, manifesta-zione suprema della civiltà italiana, da Manzoni a Petrarca, allo stesso Tom-maseo (cui la città natia già sul finire dell’Ottocento dedicò quel monumen-to di cui s’è detto in apertura) e a Dan-te, la cui statua inaugurata a Trento nel 1896 è un esplicito manifesto irredenti-sta. Non diverso, d’altronde, il discorso per Trieste, con i monumenti a Rosset-ti e a Verdi, altra icona risorgimentale, oggetto d’un pregevole studio di Vania Gransinigh, che uscirà a breve e di cui non mancheremo di dare conto.

Tutto ciò ben spiega l’importanza che l’arte monumentale ebbe nell’Ot-tocento, ma anche i furori che essa nel Novecento scatenò causa i valori ideo-logici in essa impliciti. Quando, perciò, passeggiando per le nostre città, passia-mo davanti a tali opere, teniamo presen-te che esse sono documento emblema-tico d’un momento cruciale della no-stra storia, che riguarda in pieno anche l’Istria, Fiume e la Dalmazia.●

La storia oggi

Nel Risorgimento l’inizio di un processo studiato solo ora dalla storiografia politica

Il monumento al servizio della memoria nazionale

A Trieste il monumento a Massimiliano d’Asburgo fu smantellato all’av-vento dell’Italia. Dopo anni poassati in deposito, nel 1961 fu collocato a

Miramare, per tornare alla sede primitiva nel 2008

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TeatroLusinghiero il bilancio della serie di spettacoli presentati in luglio a Cividale

Un Mittelfest molto maturo e riflessivo

Incominciamo dalla fine, simil os-simoro anacronistico permetten-do, forse per l’amore che mi lega

a certe opere di Schubert, in special modo a “ la morte e la fanciulla.” Adoro l’introduzione, particolarmen-te nella versione che accompagna i movimenti del Balletto di Roma, quella che, per intenderci, Gustav Malher riadattò per orchestra d’archi e che viene, con la medesima orche-strazione, trasposta anche in quartet-to. I primi dieci minuti sono trascen-dentali, la FVG Mitteleuropa, ben di-retta da Alfonso Scarano, sottolinea in maniera magnifica le coreografie create da Paolo Santilli, per poi con-tinuare senza tentennamenti di alcu-na sorta fino ad arrivare alla conclu-sione. Un riguardo particolare, oltre che a tutto il corpo di danza, anche al direttore artistico Walter Zappolini. Piacevole anche la suite precedente, musiche di Antonín Dvorak e Sergej Prokofiev, intitolata “ Pasto a due: Otello/ Giulietta e Romeo”.

In questi giorni non faceva pro-priamente caldo, e come ben sanno gli autoctoni, a Cividale di regola fa sempre un po’ più freddo, ma il clima quasi autunnale ha regalato a questa

edizione del Mittelfest un colorito di-verso, più riflessivo, con un’ identi-tà diversa da quella vista negli anni passati, uno stacco vero e proprio. Il primo botto si è avuto con la presen-za di Emir Kusturica, non nelle vesti di regista, bensì di musicista. Non di-

scuto le scelte di nessun artista, sia chiaro, ma la versatilità è sempre di pochi, e se come regista alcune sue prove sono da considerare assoluta-mente all’altezza, come musicista le sue performances lasciano parecchio a desiderare: è stato un già sentito e

In Time, il coreografo ungherese Pal Frenak ha messo in scena il complesso sistema dei rapporti umani ricorrendo all’uso della mimica, del linguaggio dei segni e dei movimenti corporei, appartenenti a diversi campi dal teatro, al circo, alla moda. L’interrogativo essenziale a cui ri-spondere era: fino a che punto i legami tra le persone sono determinati dall’assenza di sincerità e fino a dove è possibile spingere le pulsioni dei

ruoli maschile e femminile

La caduta dei muri ha favorito anche la rinascita mu-sicale: l’orchestra di Tallinn, diretta da Andres Musto-nen, si è presentata con composizioni dell’estone Arvo Pärt, il georgiano Giya Kancheli, l’uzbeko Alexander Knaifel, l’ucraino Valentin Silvestrov e il polacco Kr-

zysztof Penderecki

Udinese, docente a Trieste e nella città natale, Glauco Venier si è esibito il 19 luglio presso la chiesa dell’Ab-bazia di Rosazzo in un concerto formato da improvvi-

sazioni per piano solo.

di Massimiliano Deliso

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Teatro

Lusinghiero il bilancio della serie di spettacoli presentati in luglio a Cividale

Un Mittelfest molto maturo e riflessivo

Ulisse era un migrante? E un migrante, oggi, è un nuo-vo Ulisse? Il progetto coreografico di Roberto Zap-palà s’impernia sul rapporto mantenuto dai bianchi occidentali, nei confronti di chi è costretto a migrare. L’Ulisse del mito era uno straniero e, come tale, si con-frontava con l’etica dell’accoglienza. Molte delle tra-giche odissee odierne seguono proprio le sue rotte.

Un’immagine del balletto Odisseo

Emir Kusturica canta. L’esibizione è stata ancora un’occasione per rimpiangere quanto è stato in grado

di dare in precedenza nel campo della regia...

Il Balletto di Stato accademico di danza popolare “Igor MOjsejev” ha proposto uno spettacolo di danze tradizionali

un già visto del quale si poteva tran-quillamente fare a meno.

Non tradisce invece le attese lo Slovensko narodno gledališče dra-ma di Ljubljana, che già ci aveva ingolosito alcune stagioni orsono. Ben guidati dalla regia di Diego de Brea, innovativo regista sloveno, Alojz Svete e Janez Škof, assieme a tutto il resto della compagnia, de-liziano il pubblico estremizzando concettualmente il tema del suici-dio usando, come metafora, il ci-nema muto dei primi anni del se-colo scorso, o meglio, ironizzando su una pellicola del maestro Ernst Lubitsch che era stata data per di-spersa. Perfetta la recitazione silen-ziosa accompagnata dalle musiche dal vivo, con una nota di merito per Jože Šalej al pianoforte.

”Ophelia”, da William Shakespe-are e Maria Pawlikowska-Jasnor-zewska, diretta magistralmente da Marcin Herich e prodotta da Teatr A PART di Katowice risulta, pur essen-do dinamicamente difficile da dige-rire, un chiaro esempio di grande te-atro. La compagnia polacca rilancia alcune sfumature che, in altre occa-sioni, sono passate in secondo piano, come il colore narrativo dei dettagli. Monika Wachowicz, non esagero, è

straordinaria, e dunque da rivedere prima. possibile.

Goli Otok, presentato in anteprima nazionale dal Teatro della Cooperati-va, è un’ efficace esposizione recitati-va a sfondo narrativo, dove si raccon-ta dell’”Isola Calva”, il luogo dove Tito, negli anni che vanno dal 1949 al 1956, internò quelli che venivano de-finiti i “ nemici della Jugoslavia”.

Biljana Srbljanović è una giova-ne e affacinante autrice serba, nota in Italia soprattutto per il suo “Diario di Belgrado”, apparso su La Repub-blica nel corso del conflitto nel Kos-sovo. Qui a Cividale è presente con la prima parte de “La trilogia di Bel-grado”, uno struggente e coinvolgen-te dramma teatrale che analizza il de-

grado delle periferie urbane attraver-so lo sguardo di quattro bambini. C’è qualcosa di sciccoso nella regia Paolo Magelli, che non tenta di analizzare il dolore o di banalizzarlo, ma di ren-derne appieno l’autenticità, con gran-de classe a mio parere.

Tralascio la descrizione dei nomi di grido che quest’anno hanno calca-to il palcoscenico del teatro Ristori, del Giovanni da Udine, della chiesa di San Francesco, non fosse altro per l’alta qualità degli spettacoli proposti nel corso di queste due settimane ci-vidalesi. Rimane il fatto che le radici culturali del Mittelfest rimangono in-variate nel corso degli anni, ed è que-sta, mi si permetta, la buona notizia che quest’edizione ci porta.●

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CinemaIncoraggiante il bilancio del 58. Festival del cinema di Pola

Quando l’età fa rima con qualitàdi Mario Simonovich

Due le osservazioni che sem-brano imporsi una volta che si siano tirate le somme sulla

58.esima edizione del Festival del ci-nema di Pola. La prima è che, se par-liamo di registi e relativi premi, di nuovo ha vinto la tradizione, a parti-re dal vincitore designato. Zagabre-se, Tomislav Radić ha superato i set-tant’anni, larga parte dei quali dedicati al mondo del teatro, cinema ed anche, in abbondanza, televisione, di cui sono prova fra l’altro, oltre una quarantina di pellicole, fra documentari e lungo-metraggi. Non bastasse, la sua ope-ra, intolata Kotolovina ha avuto altre quattro Arene, distribuite fra la coppia di attori protagonisti Mirela Brekalo Popović e Draško Zidar, il miglior at-tore non protagonista, Boris Buzančić e la sceneggiatura. Da aggiungere in-fine che al film è stato anche assegna-to il premio Oktavian, quale ambito ri-conoscimento della critica.

Assolutamente chiaro per il letto-re e spettatore croato, il titolo appare di lettura molto più difficile per quel-lo italiano. Si sa che il termine indi-

ca un modo specifico di preparare la carne fritta che è molto in uso fra la Croazia dell’interno, specie quella piana, tanto da divenire espressio-ne di un’ampia socializzazione - ad esempio a tutte le fiere e sagre di pae-se - vista talvolta anche in chiave na-zionale di contrappeso agli ultradif-fusi čevapčići, considerati volentieri di matrice peculiarmente serba.

Radić ha voluto ricondurre il tutto ad un ambiente familiare o, meglio, parentale. Intorno alla pentola fuman-

te e poi, nel consumo del contenuto, convengono i componenti di una fa-miglia che è tale solo se considerata nel legame di sangue. Di fatto su di essa si sono stesi spessi strati di una differenziazione su cui hanno influi-to non solo i tratti caratteriali - ricon-ducibili in ultimo esame alla già cita-ta consanguineità - ma anche la pro-gressiva adesione ai valori ambienta-li in cui i componenti si sono ormai inseriti, per cui basta che uno viva in Slavonia, un altro in Dalmazia e un terzo in Germania, e la differenzia-zione (leggi: la conflittualità) è ga-rantita. Giustamente il regista non si è fermato qui ma anzi, spingendosi in avanti, ha portato la vicenda a livel-li di alta drammaticità fino ad arriva-re alla simulazione di un pseduoince-sto, che, poi, come scontato, si rive-la appunto come inesistente. In sin-tesi, nessuna meraviglia che la giuria abbia ritenuto il film uno spaccato di vita che negli aspetti stilistici, ideali e di regia, trasforma un dramma fami-liare all’apparenza trascurabile in un insieme che definisce in maniera pre-gnante e raffinata il paese odierno.

Un merito merita la genesi della mostra. Data l’aria che tira nelle cas-se dei finanziatori, a lungo si è temu-to che sarebbe stata molto più pove-ra di quanto auspicato. Invece anche qui è successo un fatto che merita qualche riflessione: per la prima vol-ta alla rassegna, delle dieci pellicole nazionali in concorso, quelle non fi-

Tomislav Radić con l’Arena d’oro per il miglior film

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Panorama 19

Cinema

La rassegna all’Arena è stata aperta dal presidente Ivo Josipović (che ha salutato in italiano) qui ripreso con la direttrice Zdenka Višković -

Vukić, lo zupano Jakovčič, il ministro Mesic e il sindaco MiletićLea i Darija, il film che inaugurato le proiezioni all’anfiteatro polese

IL Festival è ottima occasione d’incontri: Damir Kajin con Veljko Bulajić

nanziate con il denaro pubblico ben-sì con quello messo da chi vi si è vo-lutamente impegnato “in proprio” si sono eguagliate a quelle della prima categoria, per un totale di dieci. Qual-cuno dirà che comunque sono poche. Forse, ma gioverà ricordare che an-che nel 2004 il numero era esatta-mente lo stesso.

La seconda osservazione di base sul festival è che, ancora una volta, superata la fiammata di bellicismo connessa alla guerra degli Anni no-vanta, le “vicende minime”, ovve-ro i dettagli intimistici hanno avuto ampiamente la meglio, nella mag-gior parte della produzione presen-te alla rassegna, sulle vicende “epi-che”. Nella stessa chiave di “progres-so civile” si dovrebbe interpretare an-che la dilatazione dello spazio dato alle pellicole per bambini e all’”ac-coglienza” nella rassegna di 7 seX 7, ovvero quello quello che i critici

hanno definito il primo film erotico, fra l’altro diretto da una donna, Ire-na Škorić. da ricordare infine che re-gista James Ivory, è stata consegnata un’Arena d’oro alla carriera.

Un cenno ancora merita una pelli-cola che forse merita maggior fortuna di quanto si è visto all’assegnazione dei premi. Si tratta di Lea i Darija, di Branko Ivanda, presentato nella se-rata d’apertura. Pur inserita in un fi-lone ampiamente sfruttato, la vicen-

da di due adolescenti zagabresi, uni-te dall’amore per il ballo e separate dalla guerra e dalle prevedibili con-senguenze del fatto che una è ebrea e finisce in mano ai nazisti, si è mo-strato comunque pregnante di una po-esia che ha reso la pellicola molto in-teressante.

Italia Paese amico: cinque pellicole

Quale Paese amico del Festival, l’Italia è stata presente con cinque pellicole di livello. Habemus Papam di Nanni Moretti e Io sono l’amore di Luca Guadagnini, presentati al cine-ma Valli, mentre al Castello sono sta-ti priettati Cosa voglio di più di Sil-vio Sodini, La doppia ora di Giusep-pe Capotondi e Una vita tranquilla di Claudio Cupellini.

(foto di Nirvana Ferletta e ar-chivio)

James Ivory

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Fotografia

... Essere al momento giusto, nel posto giustoWalter Carone scoprì la bellezza di Brigitte Bardot prima che divenisse celebre e fondò la rivista Photo

Il generale De Gaulle durante un comizio nell’ottobre 1947. In alto: l’omicida seriale dott. Petiot attende la sentenza nel marzo 1946

Forse è stato questo uno dei “segre-ti” del grande fotografo italiano

Walter Carone (1920-1982), come ri-corda Liza Japelj Carone nel testo che accompagna il catalogo della mostra che gli è stata dedicata a Palazzo Gra-visi, sede della Comunità degli Italia-ni “Santorio Santorio” di Capodistria, e che - organizzata dall’associazione culturale Peter Martinc e dalla CI in collaborazione con le Gallerie costiere di Pirano e il Festival estivo del Lito-rale - resterà aperta fino al 13 agosto. Si tratta di alcune delle sue notissime foto (di cui pubblichiamo una piccola selezione per gentile concessione del-la consorte dell’Autore, Catherine Ca-rone) che risalgono al periodo di mag-gior creatività nella carriera fotografi-ca di Carone, che apprese le basi della fotografia dal padre italiano. Trasferi-tosi a Cannes, aprì un studio fotografi-co per matrimoni, cresime ed altre ce-rimonie e come fotografo dimostrò da subito una certa abilità: attrezzò il por-tabagagli di una vecchia automobile come laboratorio fotografico, e men-tre gli altri fotografi tornavano negli studi per sviluppare le fotografie appe-na scattate, i Carone le sviluppavano dietro l’angolo e le mostravano subito agli invitati. E quelli le compravano.

Nel 1945 andò a Parigi a cercare fortuna, portando con sè la macchina fotografica e qualche pellicola. Iniziò a lavorare per varie riviste, come Ciné-vie, Elle, France-Dimanche e Point de vue, ma una vera affermazione la ot-tenne con la rivista Paris Match, pub-blicata per la prima volta nel 1949, ma va detto che l’odierna omonima rivi-sta di cronaca rosa ha poco o nulla in comune con i reportage leggendari dei suoi inizi. Il motto della rivista fu “Le poids des mots, le choc des photos” (Il peso delle parole, lo shock delle foto), e prima della diffusione di massa del-la televisione, i servizi all’interno del-la rivista furono quasi gli unici con-tributi fotografici sugli eventi attuali. Walter Carone ha realizzato in media 200 servizi all’anno e fu prima fotore-porter, in seguito redattore fotografico

a cura di Bruno Bontempo

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Fotografia

... Essere al momento giusto, nel posto giustoWalter Carone scoprì la bellezza di Brigitte Bardot prima che divenisse celebre e fondò la rivista Photo

Da sinistra: Jacques Prévert, marzo ‘55, Yves Montand e Simone Signoret, luglio ‘51, Catherine Denevue, gennaio ‘63

Il ritorno di Marlene Dietrich a Parigi, nel gennaio 1946. A sinistra: Brigitte Bardot nel maggio 1952

ed infine assistente del caporedattore della rivista. Poi fondò la rivista Pho-to nonché il Photo Journal, e pose fine a un’affermata tradizione del fotogior-nalismo con immagini contraddistinte da elementi di movimento, immedia-tezza e spontaneità.

Walter Carone ha immortalato Marlene Dietrich al suo rientro a Pari-gi, carpito fugaci momenti vacanzieri di Montand e Signoret, posto Brigitte Bardot sui tetti di Parigi molto prima che diventasse la diva universalmen-te nota. Durante un processo colse lo

sguardo di sfida dell’assassino seria-le Petiot, e l’indignazione che sollevò la pubblicazione di questa istantanea provocò un tale scandalo da indurre la Francia a vietare ai fotografi l’accesso alle aule dei tribunali, divieto che tut-tora permane. ●

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ArteA distanza di 16 anni, ad Abbazia tornano in mostra le opere di Mladen Veža

Immutata fedeltà alla figurazionedi Erna Toncinich

Ridestatasi dal suo già consue-to letargo invernale, la Perla del Quarnero si offre con una

notevole offerta di contenuti di vario genere: spettacoli musicali, canori, cinematografici, eccete-ra, festival e fiere di ogni tipo, Kaisernacht - notti imperiali, passeggiate in costume d’ epoca, com-petizioni sportive, mostre d’arte (anche queste di vario genere e livello). A proposito di mostre ci ha pensato il Museo croato del turismo del luogo, che nel Padiglione artistico Juraj Šporer presenta, dal 14 luglio e sino al 21 ago-sto c.a., un grande nome dell’ arte croata contem-poranea, Mladen Veža. È un ritorno che fa sem-pre molto piacere, dopo la personale del 1995, pre-sentata nello stesso spa-zio espositivo.

Trentacinque opere - temi florea-li e marine - provenienti da due col-lezioni private, di Mirna Sučić Veža e Martin Sučić, risalenti tutte agli ul-timi vent’anni di attività dell’artista (scomparso l’anno scorso all’età di novantacinque anni), testimoniano la classe di questo pittore e illustratore

rimasto sempre fedele alla figurazio-ne. La sua Bistra, il piccolo, ameno abitato sotto il massiccio del Bioko-vo, la sua Dalmazia, sono stati i mo-tivi interpretati centinaia e centinaia di volte da Veža, sia come pittore che illustratore.

Di famiglia numerosa e povera, il piccolo Mladen andava a scuola con un mozzicone di matita perché da in-tera era stata divisa tra i sei fratelli – scolari (dei dodici che ne aveva). Lui però sin da piccolo lasciava i suoi la-vori grafici sui massi sparsi per il pra-to dove, dall’ età di quattro anni, pa-scolava le pecore. Ritornerà su questi

spazi da adulto e artista affermato per rivedere i disegni della sua infanzia, inesorabilmente cancellati dal tem-po.

Talento molto precoce e promet-tente, viene notato da persone della sua Bistra – dal suo maestro che in-

via ad alcuni noti artisti croati del tempo un paio di lavori del ragazzino, e da un compaesano, rien-trato dall’America dove aveva fatto fortuna, che gli fornisce il denaro ne-cessario per raggiunge-re Zagabria. Qui, appena dodicenne, inizia a fre-quentare la Scuola stata-le artigianale, per acce-dere poi, appena dicias-settenne, all’Accademia di Belle Arti. A ventun anni ha già concluso gli studi ed inizia ad inse-gnare in alcune scuole di Zagabria, e poi di altre città della Croazia.

I primi anni del sog-giorno zagabrese sono durissimi, non possiede denaro, dorme dove gli ca-pita, si nutre delle mele che cadono dagli autocarri diretti al mercato. La persona che ad un certo momento gli porge una mano è un influente perso-naggio politico del tempio, Vladimir Maček, che lo prende in casa assicu-randogli così vitto e alloggio. Il gio-

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Panorama 23

Arte

vane Veža ammira e stima il suo me-cenate, lo considera il suo “secondo padre”, la cosa però gli procurerà in seguito molti guai, tra cui anche l’im-pedimento di esporre le proprie opere per ben trent’anni, dal 1950 al 1980: la Jugoslavia di Tito lo considera ne-mico del nuovo regime.

Risale solo al 1980 la sua prima grande mostra presentata nel Padi-glione Artistico di Zagabria, che ri-scuote grande interesse sia da parte del pubblico che della critica.

Sin dagli inizi del suo operare, Mladen Veža persegue uno svilup-po stilistico esente da ogni avventu-ra avanguardistica. Per lui la via del figurativo è quella giusta. Negli anni giovanili la sua espressione linguisti-ca s’innesta all’opera del suo gran-de maestro d’Accademia, Vladimir Becić, per costruirsi poi uno stile tut-to personale cogliendo la realtà nella

sua essenzialità, sfrondandola di ogni minimo particolare.

La realtà che il pittore percepisce è soprattutto la sua Dalmazia, il suo mare, le sue pietre, le sue case, i suoi uliveti, le figure di questo ambiente, gli interni rustici delle case i fiori di questa terra; di questa realtà che co-nosce da sempre egli riesce a resti-tuire i colori, la luce, le trasparenze, l’ atmosfera, la “mediterraneità”. E a questa realtà principe della sua ope-ra non vanno dimenticati gli scor-ci e le vedute date a guazzo di Za-gabria, dove il pittore risiederà sino alla scomparsa, come pure quelli di Parigi, città nella quale l’artista ha soggiornato nel 1950 grazie ad una borsa di studio concessagli dal go-verno jugoslavo. Pure di queste cit-tà il pittore è riuscito a rendere l’ at-mosfera, soprattutto la luce “bianca” di Parigi.

Molti ragazzi, ora adulti, che al tempo della Jugoslavia frequentava-no le elementari in lingua croata, ri-cordano certamente quello che senza dubbio era il più elegante e raffinato giornalino per ragazzi. Si chiamava “Radost” (Gioia) e veniva illustrato da eccellenti illustratori tra cui pri-meggiava Mladen Veža. E proprio nel campo dell’ illustrazione l’ arti-sta si era fatto conoscere anche a li-vello internazionale, tra i tanti pre-mi ottenuti come illustratore, quello conferitogli dall’IBBY, l’organizza-zione internazionale che promuove la letteratura e l’illustrazione per l’ infanzia.

Alla base dell’illustrazione – come della pittura dell’artista dalmata – sta una chiara forza disegnativa, una concisa impaginazione ed una senti-ta, viva partecipazione emotiva e po-etica. ●

Evidenti, nelle opere di Veža, l’accurata cura dedicata al paesaggio e la diffusa “mediterraneità”

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Italiani nel mondoSecondo i direttori che hanno partecipato all’audizione di fronte alle Commissioni Esteri

Gli Istituti di cultura sono 89 vetrine di italianità a cura di Ardea Velikonja

Un’azione coordinata, una pro-grammazione di lungo respiro, un’offerta culturale diversifi-

cata, corsi di lingua standard e un’uni-ca certificazione, personale qualifica-to. Questo, in estrema sintesi, aiute-rebbe il lavoro che gli 89 Istituti Italia-ni di Cultura (IIC) svolgono all’estero per promuovere la lingua e cultura ita-liana. Oltre alle risorse, ovviamente: tema, questo, su cui i direttori che han-no partecipato all’audizione di fronte alle Commissioni Esteri e Cultura del-la Camera Italiana hanno mostrato di avere una certa rassegnazione.

L’audizione fa seguito a quella del Ministro Frattini resa, sempre nell’am-bito dell’indagine conoscitiva su “Pro-mozione della cultura e della lingua italiana all’estero”.

Per l’occasione sono giunti a Roma Melita Palestini (Atene), Salvatore Schirmo (Barcellona), Rossana Rum-mo (Parigi) e Giuseppe Di Lella, già direttore a Madrid. Salutati dalla presi-dente Aprea (Cultura) e dal vicepresi-dente Narducci (Esteri), i direttori han-no svolto le loro riflessioni, partendo ovviamente dall’esperienza personale nei diversi Paesi in cui operano o han-no operato.

Melita Palestini, negli IIC da 20 anni ora ad Atene, ha richiamato le pa-

role del Ministro e la strategia del “fare sistema” per sostenere che “tutti noi già lo facciamo”. Così come nessuno, ha aggiunto, “con la crisi che corre si aspetta un aumento del finanziamento dal Mae”.

La grande risorsa cui guardare, per Palestini, è invece rappresentata dal-le regioni. “A volte arrivano nei Paesi esteri e non hanno punti di riferimento, quando le delegazioni regionali hanno grandi potenzialità e risorse. Alcune sanno che ci sono gli IIC e si rivolgono a noi che siamo inseriti nella struttura sociale del paese che ci ospita”. Altre invece no.

”Gli IIC sono 89 vetrine nel mondo: le regioni – ha aggiunto la direttrice - hanno potenzialità culturali, turistiche, hanno università locali da promuove-re, piccole e medie imprese. Certo, non tocca a noi coordinare l’azione politi-ca all’estero, quello è il compito della Farnesina. Ma potremmo rappresenta-re per le regioni un punto di proiezio-ne, una vetrina. Saremmo dei collabo-ratori in grado di dare spazio e visibi-lità all’Italia “minore”, non per impor-tanza, ma perché poco conosciuta”. Poco sfruttate, invece, le collaborazio-ni con le università e i loro professori che potrebbero illustrare “il progresso dell’Italia”.

Direttore a Barcellona, Salvatore Schirmo ha ricordato che l’ultima vol-

ta che il Parlamento ha sentito gli IIC risaliva al 2004. “Saprete che gli istitu-ti sono regolati dalle Legge 401; allo-ra era ministro De Michelis. La legge fu attuata da Spinetti, ora ambasciatore in pensione, e da Lo Monaco, ora alla Direzione Generale del Mae (Sistema Paese)”. La legge, ha aggiunto, “ha un impianto che regge ancora” e dal 90 in poi “ha garantito una nostra presenza sul territorio, importante, non virtuale. Perché il nostro è un lavoro di relazio-ni, tessute giorno per giorno”. Per que-sto, per Schirmo, l’idea degli “Hub” o degli istituti-modello in poche città, a coordinare le altre presenze dislocate sul territorio pone qualche perplessità perché “non può mancare la presenza sul territorio”. certo, l’informatica an-nulla le distanze, ma nulla può più del vedersi e parlarsi vis a vis, “se no si po-trebbe fare tutto da Roma”.

Certo, “occorre attualizzare la figu-ra e l’azione degli IIC” in modo tale da “confermare il loro ruolo di perno su cui far ruotare la promozione cultura-le e linguistica”. Con risorse adegua-te. Da tempo, gli IIC si confrontano con quelle messe in campo dai “colle-ghi” stranieri: “a Barcellona i francesi stanno in palazzo di sette piani, che io chiamo Ministero. Hanno pure il coor-dinatore per la lingua business orien-ted. Per noi competere è difficile. Lo facciamo, ma è difficile”. Quello che complica il lavoro è che gli IIC “opera-no con risorse incerte: la dotazione mi-nisteriale fino a due tre anni fa ci ga-rantiva uno zoccolo duro su cui opera-re, cui si aggiungevano gli introiti dei corsi, che sono variabili. Ora è incerta pure la dotazione del Mae, dunque le nostre programmazioni sono necessa-riamente di corto respiro per rispettare sacra legge della copertura della spesa. Non mi scrivo nella lista di chi vuole i fondi ministeriali, per carità, ma anche per chiedere sponsor ci vogliono even-ti di grande respiro. Se non lo sono, e coi tempi che corrono, come facciamo a chiedere una sponsorizzazione alle imprese?”.

Per dare la misura della situazione, Schirmo ha spiegato che Barcellona si autofinanzia per l’87% e che i soldi del Il bellissimo edificio dell’Istituto di cultura di Madrid

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Italiani nel mondo

Secondo i direttori che hanno partecipato all’audizione di fronte alle Commissioni Esteri

Gli Istituti di cultura sono 89 vetrine di italianità Mae bastano per due mesi. “Pratica-mente se ci tolgono il contributo mini-steriale nulla ci differenzierebbe da una Spa!”.

Già direttore a Madrid, curatore di una mostra su Galileo che ha stregato la Spagna (e che la presidente Aprea voleva tanto vedere anche in Italia, al Parlamento, ma “purtroppo non ci sono i soldi”) Giuseppe Di Lella ha posto l’accento sul patrimonio immo-biliare degli IIC e sulle collaborazioni con le Fondazioni Bancarie.

”La sede di Madrid – ha detto – è ricca dal punto di vista patrimoniale ma povera di finanziamento. La sede dell’IIC vale 100 milioni di euro e co-sta uno sproposito di manutenzione. Il teatro, che usiamo per la maggior par-te degli eventi interni, l’ha ristrutturato Missoni”, ha aggiunto Di Lella secon-do cui sarebbe meglio vendere e paga-re un affitto.

”A Madrid siamo arrivati a 1 milio-ne e 200mila euro sponsor all’anno”, ha aggiunto, spiegando il ruolo impor-tante delle Fondazioni Bancarie che in Spagna destinano una percentuale degli incassi non all’acquisto di opere d’ar-te per incrementare il loro patrimonio, ma alla promozione di eventi cultura-li. Che, però, devono essere di un certo peso: “è più difficile avere 30mila euro che 300mila: le Fondazioni vogliono i grandi eventi, che hanno un ritorno si-gnificativo per lo sponsor”.

Un’altra questione aperta, per Di Lella è la mancanza di programmazio-ne e il frequente turn over di direttori e addetti che arrivano da Roma “che tra l’altro costano molto. Meglio puntare sulla qualità del personale locale, che alla fine sono quelli rimangono, il filo rosso che unisce le varie direzioni”.

Sta per lasciare Parigi dopo quattro anni Rossana Rummo, un’esperienza “impegnativa, ma importante” da cui ha desunto alcuni punti su cui interve-nire: “gli IIC devono agire al di là del-la comunità italiana presente sul ter-ritorio, ma proiettare la loro offerta ai “locali”. In passato gli IIC erano club di italiani all’estero, che sono impor-tanti e fondamentali, ma lo scopo de-gli istituti è promuovere l’internazio-

nalizzazione verso una cultura che non è la nostra”. Al secondo punto, Rum-mo inserisce l’offerta culturale diversi-ficata: “gli Istituti dovrebbero propor-re, in base alle esigenze del territorio, un panorama della cultura italiana am-pio e qualificato”, avendo cura di inse-rire “accanto alla promozione dei gran-di nomi, anche quelli dei nostri giovani talenti emergenti”.

Sul fronte-lingua, Rummo ha spie-gato che gli IIC “traggono profitto dai corsi, che possono essere affidati a strutture esterne o essere gestiti diretta-mente da noi, attraverso il reclutamen-to degli insegnati con concorso pubbli-co. Parigi recluta direttamente e gesti-sce internamente, ma quando sono arri-vata le stanze destinate alle lezioni non erano degne di noi: come ci presentia-mo – ha ricordato Rummo passando al quarto punto – è fondamentale: servo-no le infrastrutture tecnologiche, di of-ferte e di servizi che un paese civile eu-ropeo come l’Italia deve dare”.

L’Italia, per Rummo, dovrebbe an-che impegnarsi sulla certificazione: “in Italia se ne occupano 4 enti: ogni anno dobbiamo far venire gli insegnati nel-le due università che se ne occupano e spendiamo soldi risparmiabili. Che si faccia una certificazione unica, che sia data anche ai corsi degli IIC, anche perchè all’estero ci sono molti enti pri-vati che fanno corsi e che raccolgono molto pubblico, giocando anche sulle assonanze del loro nome (come “cen-tro culturale italiano” - ndr)”. D’accor-

do con Frattini che per le scuole italia-ne all’estero la scelta non potrà che es-sere il bilinguismo, Rummo ha spiega-to ai parlamentari che sarebbe di aiuto per trovare sponsor anche la defiscaliz-zazione delle loro donazioni, come ac-cade in Francia dove viene applicato un bel -64%.

I numeri di Parigi riferiscono di un contributo Mae di 360mila euro; le sponsorizzazioni sono passate dal 5% del 2008 al 13% di oggi “ma con gran-di sforzi”.

Anche Rummo, come Di Lella, ha parlato del personale locale: “da Roma arrivano addetti con buona volontà, ma scarsa capacità di organizzazione cul-turale e sulla comunicazione. Parlo di una formazione non in teoria, ma prati-ca: servono persone già impiegate, sap-piano fare un piano di comunicazione, un piano stampa, organizzare mostre. Serve formazione e riqualificazione so-prattutto per il personale a contratto lo-cale che non ha nessun incentivo: loro rimarranno nella sede, ma hanno la car-riera bloccata e non qualificata. Biso-gna rivedere questo aspetto per incen-tivarli, non solo economicamente, ma soprattutto professionalmente”.

Quanto alla razionalizzazione, Rum-mo ha detto che “la Francia ha chiuso molte più sedi delle nostre. D’altra par-te è una tendenza che ci accomuna tut-ti. Ma a livello nazionale l’intervento di tutti soggetti coinvolti - Mae Mibac e Regioni - richiede un intervento più so-stanziale”. (ma.cip.\aise)

Una delle tante presentazioni all’IIC di Parigi

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Made in ItalyAlla seconda edizione dell’appuntamento gastronomico a tappeto hanno preso parte prestigiosi chef nazionali ed internazionali

Il gelato non solo come dessert ma come primo piattoa cura di Ardea Velikonja

Si è appena conclusa la sei gior-ni del Gelato d’Alta Gastrono-mia, una golosa manifestazio-

ne per valorizzare i prodotti certifi-cati made in Italy a cominciare dal Prosciutto di Parma e Parmigiano Reggiano.

“Il Gelato nel Piatto”, ovvero a tutto pasto, non solo segregato tra i dolci, è stato nei menu di cento tra i più importanti pastry chef e celebrity chef, nei migliori ristoranti dello Sti-vale e del mondo (ma sempre capita-nati da chef italiani).

Il Parmigiano Reggiano, il Pro-sciutto di Parma e altri prodotti Dop ma anche prodotti eccellenti come l’Amarena Fabbri, che fanno cono-scere il “buon Paese” nel mondo,sono stati al centro de “Il Gelato nel Piat-to con Parmigiano-Reggiano, Pro-sciutto di Parma e prodotti Dop, Igp, Stg”, una singolare sperimentazio-ne del Gusto giunta alla sua seconda edizione.

“Il Gelato nel Piatto 2011” è pro-mosso dal giornale on-line INfor-maCIBO, diretto da Donato Troia-no, con il sostegno di Alma (Scuola internazionale di cucina italiana di Gualtiero Marchesi), di Parma Ali-mentare (il Consorzio che si propone di “sostenere” in Italia e nel mondo i prodotti alimentari tipici) e di Fie-re di Parma (che organizza Cibus il più accreditato Salone dell’Alimen-

tazione). Main sponsor sono i Con-sorzi del Parmigiano-Reggiano e del Prosciutto di Parma, Fabbri 1905 e Carpigiani. Patrocinio la Provincia di Parma, il Comune e la Camera di Commercio di Parma.

Ecco alcuni dei piatti, elaborati dai migliori chef italiani, offerti dai ristoranti in Italia e all’estero.

Crema soffice di Parmigiano-Reggiano 36 mesi, Prosciutto di Par-ma, pesche veronesi e gelato all’aneto è la ricetta che prepara Diego Magro chef all’ Aromi Restaurant dell’Hotel Hilton Molino Stucky alla Giudecca di Venezia.

Spinosini con l’amarena Fab-bri in un turbante di gelato di pa-tate grigliate e Parmigiano Reggia-

no, granella di Prosciutto di Parma su crema di pistacchio e fiori di timo, è opera di Massimo Pasquarelli, il primo Chef italiano a conquistare la stella Michelin in Asia, attualmente Chef al The Aberdeen Marina Club di Hong Kong.

Terrina di zucchine alla menta con gelatina di brodo di Parmigia-no Reggiano, Prosciutto di Parma e gelato di Parmigiano Reggiano, è il coloratissimo piatto ideato dallo Pa-olo Teverini, una stella Michelin, ri-storante omonimo a Bagno di Roma-gna.

Gelato al Prosciutto di Parma, con Parmigiano Reggiano, Vitello chianino I.g.p. e Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, la ri-cetta di Gaetano Trovato, due stel-le Michelin, al Ristorante Arnol-fo - Relais & Chateaux a Colle Val d’Elsa (SI).

Parfait di Mela Verde con chip di Parmigiano Reggiano, Sorbetto di mela, Prosciutto di Parma caramella-to. Bon Bons di latte al miele di Tri-foglio. arriva da Singapore questa ri-cetta di Lino Sauro, executive Chef al ristorante Gattopardo.

Prosciutto di Parma con gelato al Parmigiano-Reggiano su carpac-cio di fichi e insalatina di ficoide gla-ciale e mela grany smith. Lo ha idea-to Nicola Batavia, chef del ristorante ‘l Birichin di Torino e di Casa Lon-

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Made in Italy

Alla seconda edizione dell’appuntamento gastronomico a tappeto hanno preso parte prestigiosi chef nazionali ed internazionali

Il gelato non solo come dessert ma come primo piattodra, locale appena aperto nella capi-tale inglese.

Carote di Ispica, capperi di Pan-telleria, mandorle d’Avola arancia di Ribera, olio extra vergine Valle del Belice: un piatto preparato a più mani, dal “cuoco e oste” Filippo La Mantia, nel suo omonimo ristoran-te in Via Veneto a Roma, insieme ai suoi due pasticcieri Andrea De Bellis e Antonio Colombo.

Insalata di Prosciutto di Par-ma con pane nero e zucchina fritta; mousse, gelato e croccante al Parmi-giano-Reggiano Bonat. Questo piat-to singolarissimo è stato ideato dal-lo chef Luca Cesarini del Pelican Hill Resort, situato a Newport Coast della California.

Prosciutto di Parma con dadini di melone giallino alla menta con Ge-lato al Parmigiano Reggiano e bac-che di pepe rosa, preparato dallo chef “Gegè” Mangano, uno degli chef più valenti e talentuosi della Puglia, nel suo ristorante “Li Julantuùmene” a Monte Sant’Angelo.

Passato ghiacciato di pera e champagne, Prosciutto di Parma croccante e gelato al Parmigiano-Reggiano: lo stellato Guido Haver-kock, Executive Chef al Ristorante i Portici Hotel di Bologna, ha prepara-to questo Antipasto servito in coppa Martini.

Scaloppa di fegato grasso d’ana-tra e mela renetta in Prosciutto di Parma croccante, salsa ai pisel-

li e menta con gelato al Parmigia-no-Reggiano, è la ricetta ideata dal-lo chef Enrico Bergonzi del ristorante Al Vèdel di Colorno in provincia di Parma.

Gelato al foie gras, salsa di Ama-rena Fabbri, Prosciutto di Parma croccante e Parmigiano-Reggiano, in carta al Grand Hyatt di Pechino e cre-ato dal suo chef Giovanni Parrella.

Alcune dichiarazini dei sostenito-ri dell’evento. Esprimo, nel concede-re il nostro patrocinio a questa inizia-tiva, dichiara il Vice-Presidente della Provincia di Parma Pier Luigi Ferra-ri, la viva soddisfazione per il gran-de risultato raggiunto. La promozio-ne dei nostri campioni di eccellenza è destinata a suscitare sempre più in-teresse grazie al coinvolgimento di ben 100 chef internazionali. “Il Gela-to nel piatto” manifestazione che sta ottenendo crescente apprezzamento è ormai divenuto marchio riconosciuto dal pubblico e dagli esperti”.

’La seconda edizione di questa manifestazione, che gia’ al suo esor-dio nel 2010 ha dimostrato l’attenzio-ne di prestigiosi chef nazionali ed in-ternazionali, rinnova l’opportunita’ di affidare al mondo della ristorazione il ruolo di ambasciatore della cultu-ra alimentare italiana ‘’, sottolinea il presidente della Camera di Commer-cio di Parma e di Parma Alimentare, Andrea Zanlari.

“Da sempre Fabbri porta fuori dai confini italiani la bontà e la quali-

tà del gelato italiano, promuovendo-ne la conoscenza e la diffusione” af-ferma Nicola Fabbri, Amministrato-re di Fabbri 1905. “ Abbiamo mes-so a disposizionedi tutti i ristoratori che hanno scelto di usare ingredienti Fabbri un kit di prodotti ad hoc: se-gno concreto del nostro impegno in questa manifestazione che abbatte le frontiere del gelato. Non solo quelle geografiche, ma anche quelle del gu-sto: questo dolce freddo e cremoso è pronto a rivelarsi ingrediente perfetto in ogni tipo di ricetta”.

Insomma per sei giorni professio-nalità, tecnica, passione e simpatia sono state le carte vincenti per questo evento originale, dedicato ai migliori prodotti del made in Italy.●

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ReportageVisita ad una delle più belle regioni d’Italia, la Toscana, e tappa in Umbria (2.fine)

Assisi, storia, arte e spiritualità testo e foto di Ardea Velikonja

Continuiamo il nostro viaggio nel “cuore” dell’Italia. Oggi è prevista una tappa in Umbria

ovvero al lago Trasimeno, a Perugia e all’eterna Assisi. Partiamo dalla base, ovvero Chianciano Terme. Si parte e si costeggia il bellissimo lago di Tra-simeno, il quarto per grandezza in Ita-lia, al quale faremo una sosta al ritor-no. Due ore d’autobus ed eccoci arri-vati ad Assisi. Gente ovunque, tanta gente: giovani, meno giovani, anziani, tutti intenzionati a visitare le due fa-mosissime Basiliche di Santa Chiara e San Francesco. La prima cosa che ci colpisce sono le scale mobili di cui è munito il parcheggio degli autobus. E la guida ci spiega che gli operatori tu-ristici della zona hanno “rubato” l’idea a Perugia, che già 27 anni fa aveva messo a punto istituito le scale mobi-li al fine di permettere l’accesso al al centro storico anche a persone che per l’età o motivi di salute ne sarebbero state impedite.

Arriviamo alla porta d’entrata del-la cittadina situata sul colle, come tut-te quelle toscane, e subito ci troviamo di fronte la bellissima Basilica di San-ta Chiara, con il suo piazzale colmo di

gente che, nell’attesa di entrare nella chiesa, si sofferma ad ammirare il pa-norama della cittadina dal belvedere. Entriamo in chiesa in cui vige un asso-luto silenzio e vediamo alcune clarisse, le monache dell’ordine di santa Chia-ra molto ben distinguibili per l’abito marrone e il velo monastico nero. Tutti in fila, sempre nel silenzio più assoluto passiamo alla parte superiore della ba-silica per arrivare alla cripta, costruita negli anni dal 1850 al 1872, che con-serva i resti terreni della Santa, collo-cati all’interno della cripta illuminata. Avanzando, sempre in silenzio, ver-so la parte superiore della cripta, tro-viamo alcune reliquie particolarmente ben conservate: un saio di San Fran-cesco ed una veste - fra le altre - rea-lizzata proprio dalla Santa. Gli ogget-ti erano stati ritrovati nel 1850, nel se-polcro ricavato sotto l’altare. Usciamo dalla chiesa per raggiungere la piazza e immortalare la fontana alle cui spalle si staglia l’imponenete edificio sacro e risaliamo il colle dove si trova l’abita-to vero e proprio di Assisi. La via via principale trabocca di negozi e nego-zietti che offrono diversi souvenir e in partricolare oggettini in ceramica fatti a mano.

Arriviamo fino in cima al colle dove troviamo il Palazzo comunale il cui lato settentrionale è imperniato sul

Tempio di Minerva, un esempio unico di abbinamento di un tempio d’epo-ca romana con la più moderna torre. Scendiamo quindi dal colle e davanti a noi, imponente, si affaccia la grande Basilica di San Francesco, impagabi-le spettacolo architettonico dopo il re-stauro effettuato a tempo di record in conseguenza dei danni del terremoto che colpì l’Umbria nel 1997. La basi-lica è annoverata tra i luoghi più cele-bri della cristianità. È costituita dalla sovrapposizione di due chiese: la Ba-silica Superiore e la Inferiore accanto alle quali sorge un grande campanile romanico.

Entriamo tutti con il naso all’insù per ammirare le 28 opere delle “Sto-rie di San Francesco” opera prima di Cimabue e successivamente di Giotto. Sempre nella Basilica Inferiore è pos-sibile visitare lo splendido locale che ospita le Reliquie di San Francesco, un piccolo ma significativo insieme di og-getti appartenuti al Santo e “Il Museo del Tesoro”. Bello anche il chiostro in cui ci fermiamo aspettando la fila per scendere fino alla parte inferiore in cui sono contenute le reliquie del San-to. “Salutato” quindi il grande piazza-le della basilica inferiore, felici ed ap-pagati per aver visto questa bellissima città, scendiamo verso l’autobus dato che dobbiamo partire per Perugia.

Siamo arrivati a Siena il giorno in cui si celebrava la festa della Con-trada della chiocciola: anche bam-

bini e adolescenti indossavano il tipico costume

Una bella veduta di Assisi dal belvedere dinanzi alla Basilica di Santa Chiara

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Quarto fra i laghi italiani e il più esteso fra quel-li dell’Italia peninsulare, il Trasimeno, chiamato an-che lago di Perugia, è entrato nella storia con la sconfitta dei romani ad opera di Annibale nel 217 a C. Per favorire la visita della città che si trova sul-la collina, già 27 anni fa gli operatori turistici han-no pensato bene di costruire cinque rampe di sca-le mobili che permettono anche ai turisti più anzia-ni di arrivare nel cuore della Rocca Paolina, costru-ita - a dispetto dei perugini - dal Papa Paolo III.

Il lago Trasimeno e Perugia

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Assisi può essere considerata la patria spirituale d’Italia, qui visse gran parte della sua vita San Francesco, il patrono d’Ita-lia. Assisi è una città santuario che non ha perso il suo impian-to medievale e che conserva un grande patrimonioartistico in cui primeggiano le opere realizzate da pittori quali Giotto e Ci-mabue, considerati a ragione i padri della pittura italiana. Le reliquie di San Francesco si trovano nella basilica e, anche se è proibito fotografare, siamo riusciti ad immortale il sarcofa-go. La Basilica di Santa Chiara, realizzata con la tipica pie-tra rosa estratta dalle cave del Monte Subasio, contiene pre-ziosi affreschi risalenti al periodo che va dal XII al XIV secolo.

La raccolta Assisi

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Assisi può essere considerata la patria spirituale d’Italia, qui visse gran parte della sua vita San Francesco, il patrono d’Ita-lia. Assisi è una città santuario che non ha perso il suo impian-to medievale e che conserva un grande patrimonioartistico in cui primeggiano le opere realizzate da pittori quali Giotto e Ci-mabue, considerati a ragione i padri della pittura italiana. Le reliquie di San Francesco si trovano nella basilica e, anche se è proibito fotografare, siamo riusciti ad immortale il sarcofa-go. La Basilica di Santa Chiara, realizzata con la tipica pie-tra rosa estratta dalle cave del Monte Subasio, contiene pre-ziosi affreschi risalenti al periodo che va dal XII al XIV secolo.

La raccolta Assisi

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Panorama testi

Ritorno in Toscana: Siena e San Gimignano

Pochi sanno che la repubblica di Siena rappresentò forse l’unico stato occidentale in cui funzionò una democrazia pura a favore del popolo che cessò con l’avvento di Carlo V (1555) spalleggiato, manco a dirlo, dai fiorentini. San Gimignano è la “Manhattan italiana” perchè in origine aveva settanta-due torri, di cui oggi ne sono rimaste 16. La bella cittadina si-tuata, come tutte, su un colle, è conosciuta per le ceramiche.

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Panorama 33

Reportage

Un’oretta circa ed eccoci arrivati in centro, ai piedi del colle su cui sor-ge la Rocca Paolina e si allarga il cen-tro storico. E qui prendiamo le già lo-date cinque rampe di scale mobili, co-struite ben 27 anni fa con una decisio-ne più che azzeccata dato che l’ascesa al centro storico era veramente dif-ficcoltosa. Arriviamo direttamente nella città necropoli, su cui papa Pa-olo III edificò la fortezza denomina-ta Rocca Paolina (1540), all’epoca tanto odiata dai perugini, anche per-ché tolse luce alle loro case. I rappor-ti erano tanto tesi che i cannoni della guarnigione pontificia furono puntati contro l’abitato per intimorire la città che aveva combattuto contro il Papa. Dalla Rocca arriviamo alla prinicipa-le piazza con il Palazzo Donini (1716-24, sede della Giunta Regionale), con splendidi affreschi.

Dalla terrazza dei Giardini Carduc-ci, che poggia su quel che rimane del-la Rocca, si gode uno splendido pano-rama a 230° che spazia su una buo-na parte dell’Umbria. Qui nacque nel 1877 il “Canto d’amore” del celebre poeta.Tempo un gelato e via verso il lago Trasimeno. È tardi e il viaggio è lungo. Arriviamo al lago: tempo mez-zora per fare il giro e dare un’occhia-ta all’antico borgo di Passignano. Fac-

ciamo una passeggiata lungo il lago, il più grande dell’Italia peninsulare e il quarto, dopo quello di Como, per gran-dezza in Italia. È diventato un centro di balneazione per la maggior parte degli umbri, che abitano una delle poche re-gioni italiane che non hanno il mare. Breve visita, senza toccare il centro storico, e via ritorno a Chianciano a preparare la valigie dato che la mattina dopo inizia il viaggio d’avvicinamento ai patri lidi.

Ed eccoci l’ultimo giorno della visi-ta alla bella Toscana. Alzataccia come al solito, e partenza alle 7 per Sie-na. Un viaggio in velocità per arriva-re quanto prima alla cittadina dato che poi ci sono problemi per l’entrata in città degli autobus turistici. Entriamo dalla parte della Contrada della Chioc-ciola che proprio oggi festeggia la sua giornata. Tutta la contrada è in festa, bandiere ovunque, bambini con il co-stume della contrada per strada, tam-burini lungo le vie. Insomma si vede che ogni contrada vive la propria tradi-zione. Andando verso Piazza del cam-po la guida ci spiega che gli abitanti di Siena sono talmente legati alle tradi-zioni della propria contrada “che non hanno tempo per altro” sicché questa è la città con minor criminalità e consu-mo didroga in Italia. Come dire già da piccoli i ragazzi imparano ad amare e tutelare la propria contrada e quindi vi-vono tutti per questo.

Arriviamo a Piazza del Campo con l’imponente Torre del Mangia. La piazza è gia pronta per il Palio di luglio che si tiene fra tre giorni. Tutti i nego-

zi, i bar e i ristoranti che si affacciano sulla piazza sono coperti dalle tribune, il percorso dove corrono i cavalli è già cosparso di sabbia che viene annaffia-ta al mattino e alla sera, dato il gran-de caldo. Ci sediamo a bere un caffè e chiedo alla cameriera che fa “i salti mortali” tra le impalcature per servire la gente: “Ma come fate a lavorare in queste condizioni?”. E lei mi fa “Per-ché? Cosa mi manca? Questo è il no-stro Palio e se serve salterò anche ol-tre i tavolini per servire”. Capita l’im-portanza di questa manifestazione per i senesi?

Tento di salire sulle Torre del Man-gia dato che l’altra volta che ci sono stata non ho potuto farlo. Piena di vo-lontà mi prepararo psichicamente, dato il caldo, a salire i 490 gradini, ma ecco che “il semaforo è rosso”. E sì, all’en-trata c’è una specie di semaforo con tanta gente in attesa. E il semaforo dice: rosso, tempo di attesa 25 minu-ti. E siccome noi di tempo non ne ab-biamo, niente salita alla Torre con mio gran dispiacere ma via, di nuovo in autobus per proseguire per San Gimi-gnano, la “Manhattan del Medio Evo”, una bella cittadina che è stata chiama-ta così perchè nel medioevo aveva ben 72 torri: oggi ne sono rimaste solo 16 che svettano sul colle che domina la Val d’Elsa. San Gimignano è famosa per la produzione vitivinicola, ovvero patria della Vernaccia e dello zaffera-no. Tempo di fare un giro tra i nego-zi di ceramica, un pranzo veloce e via di nuovo: la prossima tappa si chiama Fiume. ●

Lungo il tragitto fino alla basilica abbiamo trovato una statua viven-

te: qualche soldino nel contenitore e dopo averti fatto il segno della croce

ti dà un bigliettino con un detto

Il lago Trasimeno è diventato un importante centro turistico dell’Umbria

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Il presidente del sodalizio, Gianfranco Surdić, spera che i lavori possano finalmente iniziare il prossimo autunno

La sede CI a Palazzo Pretorio presto sarà realtàUna Comunità, quella di Cherso, che però opera in

condizioni molto disagiate in quanto è sistemata in un palazzo del centro storico della cittadina isolana, an-tico e malmesso, che attende da molto tempo l’avvio dell’opera radicale di ristrutturazione, progetto peral-tro già avviato dall’Unione Italiana. Nell’ambito del piano di interventi da realizzare con i mezzi delle con-venzioni MAE-UI, il progetto è partito infatti con l’ac-quisto dello stabile di Palazzo Pretorio e poi con i ban-di di concorso per i lavori di restauro e l’acquisto degli arredi e delle attrezzature per la sede di una Comuni-tà che l’Unione Italiana - come tiene a sottolineare il presidente della Giunta esecutiva, Maurizio Tremul - giudica “molto importante”.

I connazionali chersini sono impazienti, la questio-ne della sede si tira avanti da lungo tempo e - scher-zando - la paragonano a quella del leone di S. Marco, che da molti anni aspetta di venir rimesso nella nicchia vuota della Torre dell’Orologio. Ma alla luce dei più recenti sviluppi, la storia della sede CI sembra destina-ta ad andare finalmente a buon fine, sicuramente pri-ma - ne siamo convinti - della intricata vertenza legata al leone marciano o meglio alla sua (che qualcuno ri-tiene una brutta) copia. Al timone della Comunità c’è Gianfranco Surdić, che ha parecchi motivi per essere ottimista. “L’Unione Italiana ha dato i contorni defi-nitivi all’investimento, ha ottenuto tutte le licenze e il

progetto vola spedito verso l’assegnazione dei lavori alla ditta vincitrice della gara d’appalto. Si ha ragione di credere che i lavori potrebbero iniziare in autunno - ci introduce nell’argomento il presidente del sodali-zio -. La nostra sede di Palazzo Pretorio è un vecchio edificio, ex ambulatorio, che data dai tempi di Venezia e che ha un valore non solo simbolico, ma anche sto-rico, in quanto aveva fatto parte, in passato, del blocco di case che ospitavano il Conte Capitano che coman-dava il paese, e rappresentava il cuore della città”.

Il progetto della Casa degli ItalianiL’edificio, acquistato dall’Unione Italiana, consiste

in un pianterreno, due piani, un sottotetto. Al pianterre-no - dove c’è già in affitto una filiale della Zagrebačka banka - verrà realizzato uno spazio espositivo, al pri-mo piano è prevista una sala multifunzionale per in-contri, spettacoli e conferenze nonché un piccolo bar e una vasta biblioteca, al secondo uno spazio multime-diale che verrà adibito ad ospitare i corsi di italiano e altre attività dei giovani e l’ufficio della presidenza. Il progetto dell’architetto fiumano Marko Franković prevede che lo stabile sia munito anche di ascensore. “I vani del sottotetto, in un secondo momento, potreb-bero venir affittati, con il cui ricavato contiamo di co-prire le spese di gestione dello stabile, altrimenti dif-ficilmente sostenibili” spiega Gianfranco Surdić. In questi ultimi anni l’attività della Comunità italiana è

Gianfranco Surdić, il sindaco Kristijan Jurjako, l’ex console Fulvio Rustico e Daniele Surdić

La città di Cherso è gemel-lata con i comuni italiani di Motta di Livenza e Comac-

chio. Ma è stato un altro vincolo d’amicizia, quello che lega la so-cietà alpinistica Platak di Fiume alle sezioni CAI venete di Pieve di Soligo e Motta, a condurci an-cora una volta alla scoperta di al-cuni suoi bellissimi angoli di na-tura incontaminata. Attraversata dal 45esimo parallelo, con una

superficie di 405,78 km quadra-ti, ex aequo con Veglia, Cherso è la più grande isola dell’Adriatico per estensione territoriale. Allo stesso tempo, però, con una po-polazione che non raggiunge le 4000 anime, ha una media di otto abitanti per chilometro quadrato, che dà all’isola il primato di mi-nor densità demografica tra le iso-le abitate di tutto il Mediterraneo. Tra i quasi 3000 abitanti del suo

capoluogo, c’è anche una “co-lonia” di oltre 200 connazionali iscritti alla locale Comunità degli Italiani, nata nel 1982, dopo che dal ‘70 il Circolo Italiano di Cul-tura era stato sezione dell’Aspl. Il sodalizio, guidato dal presidente Gianfranco Surdić, oggi rappre-senta l’ultimo baluardo a difesa della lingua, della cultura e delle tradizioni italiane da sempre pre-senti sull’Isola.

di Bruno Bontempo

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stata spesso limitata proprio dalla mancanza di spazi adeguati. ”Abbiamo puntato molto sui corsi d’italiano per bambini, guidati dalla nostra concittadina, prof.ssa Isabella Mužić, laureatasi a Trieste. L’interesse è grande, anche perché essendo Cherso un centro turi-stico, la conoscenza dell’italiano è utile e importante - aggiunge Surdić - . I corsi sono aperti a tutti, anche a quelli che non sono di origine chersina. Il nostro com-pito è di mantenere viva la lingua, il dialetto istrove-neto, la cultura, le tradizioni italiane di Cherso, affin-ché non si finisca per venir trattati da stranieri a casa nostra. E lo facciamo anche in questo modo. La CI conta 240 soci, ma quelli che parlano l’italiano sono molti di più. Il clima di paura degli anni del dopoguer-ra ha contribuito a una dispersione degli italiani, molti dei quali non si sono mai iscritti alla CI e oggi non ci tengono più ad esprimersi, a dichiarare le propria na-zionalità e le proprie origini. Probabilmente potendo disporre di una sede già anni addietro, potendo orga-nizzare incontri, serate sociali e altro, saremmo riusci-ti a legare maggiormente i nostri connazionali al so-dalizio, così invece... Ora speriamo di recuperare i più giovani: ci ripromettiamo di rilanciare l’attività appe-na potremo disporre di una sede funzionale e di spazi adeguati. Speriamo non sia troppo tardi. Per gli anzia-ni organizziamo tornei di briscola e tressette, bocce e quattro-cinque conferenze nell’ambito della colla-borazione UI-UPT. L’ultima della serie ha trattato il problema della diffusione incontrollata del cinghiale, introdotto sull’isola nei primi anni ‘60 con lo scopo di arricchire l’offerta del turismo venatorio e diventato oggi il nemico numero uno di coltivatori e allevato-ri. I primi esemplari erano stati sistemati nelle riserve, ma già allora i cacciatori stranieri avevano ammonito che i cinghiali non potevano vivere dentro un recin-to, che sono animali talmente astuti che prima o poi avrebbero capito che dentro questo spazio limitato non avrebbero avuto cibo a sufficienza e ne sarebbero usciti in qualsiasi modo, o a nuoto o scavando delle gallerie sotto i recinti. E così è stato. Sono usciti dalle riserve, si sono moltiplicati e diffusi su tutta l’isola e cacciano attivamente, scegliendo come proprie vitti-me anche cerbiatti ed agnelli, che peraltro sono indi-

fesi di fronte alla loro aggressività. Il cinghiale è stato proclamato specie aliena, che in biologia si intende una specie vivente alloctona, la caccia è aperta tutto l’anno, però la lobby delle doppiette è molto forte e gli amanti dell’arte venatoria, forse per timore di ve-der scomparire una delle loro prede preferite, spesso rinunciano ad abbatterne qualcuno anche quando è a tiro, frenando così la campagna atta a ridurre la pre-senza dei cinghiali sull’Isola”.

Una minoranza che conta Come sono i rapporti con il Comune?”Siamo una minoranza abbastanza consistente in

rapporto al numero di abitanti, per cui anche le for-ze politiche devono tenere conto della nostra presen-za. Siamo rispettati, anche se il sostegno finanziario è contenuto perché il nostro è un comune con risorse molto limitate, e poi quest’anno ci sono stati i tagli ai fondi delle associazioni dovuti alla crisi economica”.

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Il presidente del sodalizio, Gianfranco Surdić, spera che i lavori possano finalmente iniziare il prossimo autunno

La sede CI a Palazzo Pretorio presto sarà realtà

Palazzo Pretorio, sede della Comunità degli Ita-liani, attende l’inizio dei lavori di ristrutturazione

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Qual’è il ruolo della CI nei rapporti di gemel-laggio tra Cherso e due città italiane, Motta di Li-venza e Comacchio?

”Siamo molto attivi anche in questo particolare tipo di contatti, veniamo inseriti nelle iniziative e lo scorso marzo ho fatto parte della delegazione cher-sina che è andata a Motta, guidata dal nuovo sinda-co, Kristijan Jurjako, per le celebrazioni del 501esi-mo anniversario dell’apparizione della Madonna. In agosto una delegazione mottense sarà a Cherso. Poi c’è anche il gemellaggio, più recente, con Comacchio, in provincia di Ferrara, e a giugno c’è stata la festa dell’amicizia Cherso-Comacchio, con la presentazio-ne dei prodotti tipici dell’isola e concerti bandistici e di sopele.”

Si parla pure di un possibile gemellaggio con Chioggia, la cui Amministrazione comunale si è già detta propensa a stabilire proficui rapporti con Cherso, dal momento che da sempre le storie della costa vene-ta si sono intrecciate con quelle dell’Istria, del Quar-nero e della Dalmazia. Chioggia è stata meta naturale dell’esodo. Oggi c’è ancora una consistente comunità chersina, il cui giornale si fa portavoce dei sentimenti e dell’attivismo di una chersinità diffusa tra tutti i con-tinenti e che non vuole dimenticare neanche ”i fratelli rimasti a Cherso e in buona parte associati nella locale Comunità degli Italiani. Dobbiamo capire che la no-stra attività ha un significato soltanto se punta al man-tenimento della continuità storica della nostra presen-za nella nostra isola d’origine” è stato il messaggio lanciato dagli esuli in occasione della festa patronale di San Isidoro.

Leone marciano, storia intricataMa il presidente della CI, Gianfranco Surdić,

ha un suo “sogno nel cassetto”.“Sì, è quello di veder il nostro leone di S. Mar-

co, che stava sulla Torre dell’Orologio, rimesso al suo posto nella nicchia che è vuota ormai da troppo tempo, e far felice la nostra gente, soprattutto i più anziani. Finora abbiamo incontrato tutta una serie di ostacoli che hanno impedito il ritorno del leo-ne. Lodevole l’operazione in corso da anni a Cher-so per salvare l’architettura veneta, come il conso-lidamento e la ristrutturazione di Palazzo Petris e il Torrione, ma si attende già da più di dieci anni il

completamento della Torre dell’Orologio con l’in-serimento del Leone di San Marco che, nonostante le tante promesse, trova sempre nuovi impedimen-ti per risalire al suo giusto posto e ridonare bellezza ed armonia a tutta la piazza. Forse con l’entrata del-la Croazia in Europa qualche tabù verrà a cadere, si spera, e questo leone tornerà al suo posto. Il leone è a Cherso, si tratta di una copia, ma finora gli esperti dell’Istituto nazionale per la salvaguardia dei beni storico/culturali, del Ministero e le autorità compe-tenti hanno sempre negato il loro consenso, giustifi-cando il diniego con il fatto che la copia non è con-forme all’originale (opinione condivisa anche da Luigi Tomaz, esule-chersino - è stato anche sindaco di Chioggia -, studioso e autore di numerosi testi, saggi e libri sulla storia di Cherso, nda). Dispiace vedere la nicchia vuota sulla storica torre, tutta in pietra calcarea a corsi regolari, probabilmente del XV secolo ma restaurata nel 1552, che secondo al-cune fonti sarebbe stata costruita su indicazioni de-gli allievi di Michelangelo. E a noi chersini è diffi-cile accettare il rifiuto imposto dagli esperti”.

Ricorderemo per sommi capi la tormentata e intri-cata storia del leone marciano di Cherso. Tutti o qua-si i simboli del dominio veneziano vennero distrutti dagli austriaci dopo la caduta della Repubblica ve-neta, nel 1797. Solo un leone, quello che si trovava all’esterno della Torre del porto, sui bastioni di po-nente, venne adagiato in mare per preservarlo dalla distruzione in atto e salvato. Fu ripescato nel 1905, restaurato a Venezia e poi messo sulla Torre dell’oro-logio dove rimase fino al 1943, quando fu definitiva-mente distrutto dai partigiani. Quello che ora si cerca di rimettere nella nicchia vuota sulla Torre dell’Oro-logio sarebbe una copia fatta - alquanto maldestra-mente - a Gorizia.

“Al di là di tutte queste vicende, oggi il leone non è più il simbolo di una nazione nemica, di una tirannia, ma di una storia, di una grande cultura adriatica - ag-giunge Gianfranco Surdić -. Il dottor Alberto Rizzi, uno dei massimi esperti di sculture esterne a Venezia, oltre che di leoni marciani, ha proposto che sulla Tor-re, al fianco del leone, vengano messi i simboli della Croazia di oggi, come aggancio alla più attuale realtà sociale e politica, senza penalizzare le tracce, i valori storici e culturali che la Serenissima ha lasciato anche sulla nostra Isola”. ●

La Torre dell’Orologio con la nicchia vuota

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Gita UI-UPT: i connazionali di Cherso a Trento

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Il turismo e la cultura progettuale sostenibileL’isola di Cherso (e di riflesso anche il suo

omonimo capoluogo) non ha certo un enor-me potenziale economico, limitato a poche atti-vità: turismo, allevamento - notissimo l’agnel-lo chersino -, pesca, agricoltura - tradizional-mente vino ma soprattutto olio d’oliva -, un po’ di cantieristica. Ne parliamo con un altro con-nazionale, pure della famiglia Surdić, Daniele, operatore turistico e consigliere comunale, an-che in veste di rappresentante della comunità italiana, e presidente della commissione cher-sina che cura i rapporti di gemellaggio e quelli economico-sociali e culturali internazionali.

“Già da lunghi anni abbiamo ottimi rapporti di amicizia, economici, culturali e sportivi con Motta di Livenza mentre è più recente il nostro accordo di gemellagio con Comacchio, uno dei centri mag-giori del delta del Po. Quest’anno vi siamo stati ospitati per un grande incontro giovanile su comu-nicazione ed elaborazione di progetti e temi di po-litica, ecologia, cultura, con Germania, Slovenia, Italia, promosso dall’Ue che ha voluto coinvolgere anche i Paesi in transizione e nel quale i nostri ra-gazzi hanno ben figurato. Nell’ambito della stessa iniziativa poi siamo andati in Germania, mentre in autunno saremo noi a ospitare l’ultimo di questo ciclo di incontri”.

Il ministero croato del turismo parla di tas-si di crescita a due cifre per presenze e pernot-tamenti, che forse mai finora avevano dato dei risultati così buoni già a metà stagione. Anche a Cherso l’annata era partita molto bene, un ot-timale più 19 p.c. di arrivi e addirittura più 21 p.c. di pernottamenti per il primo semestre, in-crementi che erano saliti rispettivamente al 38 e 41 p.c. per il solo mese di giugno. Un flusso che però a luglio ha subito qualche rallentamento, dovuto forse anche alle bizze del tempo.

“Il turismo resta la nostra attività economica più importante. Per fortuna finora non abbiamo ri-sentito tanto della crisi, anche lo scorso anno ab-biamo superato il momento difficile di congiuntu-ra economica e a conti fatti non sono stati segnalati dei cali nel numero delle presenze. Anche se per ti-

rare le somme della stagione in corso, ovviamente, bisognerà aspettare i dati di agosto e metà settem-bre, noi del settore stiamo seguendo con l’appren-sione di sempre l’andamento di questo altalenante 2011, iniziato con la Pasqua che è andata benissi-mo, come del resto il booking per l’alta stagione. Pure i risultati del primo semestre e di inizio luglio sono stati più che incorraggianti per il nostro setto-re turistico-alberghiero, che non vanta grandi strut-ture alberghiere, appena due hotel, per cui l’indu-stria dell’ospitalità si affida ai campeggi (Kovačine a Cherso, che ha 5000 posti ed è uno dei maggiori del Quarnero, e Slatina di S. Martino) e soprattutto al soggiorno presso gli affittacamere privati. Pro-getti per nuovi alberghi? Si va molto cauti, le gran-di strutture di una volta non vanno più bene e sono in contrasto con le esigenze di tutela della natura e dell’ambiente. C’è invece una progressiva affer-mazione della cultura progettuale sostenibile, con ottica rivolta alla conservazione e valorizzazione dell’architettura tradizionale. Ecco, noi come co-mune cerchiamo di agire in questa direzione”.

La struttura degli ospiti vede gli italiani nel-le primissime posizioni...

“Beh, qui sono sono un po’ come a casa, tradi-zionalmente molto presenti per vicinanza, per co-munanza di lingua e costumi, sempre graditi es-sendo anche dei buoni consumatori”.

Che cosa si è fatto per arricchire l’offerta tu-ristica?

“Abbiamo realizzato una serie di piste ciclabi-li, sentieri segnalati e due pareti attrezzate per l’ar-rampicata sportiva, nei pressi di Lubenizze e di Caisole. Le palestre di roccia, però, sono ben di-stanti dai nidi dei grifoni, l’avvoltoio simbolo di Cherso, in virtù del progetto di salvaguardia che viene promosso dall’Eco Centro Caput Insulae di Caisole, cresciuto negli anni e divenuto una stazio-ne ornitologica molto seria. Oggi conta circa 190 esemplari e vanta nuove strutture capaci di ospita-re anche gli esperti ed i volontari che vengono qui periodicamente per seguire i programmi di prote-zione di questi rapaci a rischio estinzione, sotto la guida scientifica del dottor Goran Sušić”. ● Iso

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Allevamento e olivicoltura, risorse vitali

La profonda baia di Cherso-città

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Paesaggio della memoria, della sofferenza e della nostalgia

Lo spunto per questo intervento, lontano dai miei tradizionali argomenti di studio e di ricer-ca, ma che riprende diversi motivi che, quando ra-gionavamo su un comune patrimonio di esperien-ze e sensazioni, sono stati spesso oggetto delle ri-flessioni che mi capitava di scambiare con Dui-lio negli anni di lavoro e di studio passati assieme nella Facoltà di Lettere dell’Università di Geno-va, mi è venuto leggendo uno dei racconti (I doni dell’Istria) dei Ricordi istriani di Giani Stuparich, una “elegia sentimentale di una perdita irrecupera-bile”, in cui il protagonista è il paesaggio istriano ed in cui lo scrittore, nato a Trieste da padre ori-ginario di Lussinpiccolo, ricorda come, prima an-cora di “prendere contatto diretto” con la terra dei suoi avi, ebbe la possibilità di conoscerla “nell’im-maginazione fervida” della sua infanzia. “L’isola paterna - scrive infatti -, a forza di ascoltare e di connettere cenni e racconti che se ne facevano a casa, era diventata il regno vivo delle mie scorre-rie fantastiche. Vedevo gli squeri su cui nascevano i bastimenti e vedevo partire a vele spiegate il ba-stimento del nonno. Per l’America (…). Mi pareva che molto più felice fosse stata, al confronto con la mia, l’infanzia di mio padre. Perché non ero nato anch’io nell’isola? Perché non avevo anch’io una casetta sulla riva, da cui mi sarei potuto gettare in acqua ogni ora del giorno?”.

Ed ancora da Stuparich: “Mio padre s’illumi-nava in volto, quando parlava delle insenature di Lussino che avevano nomi incantevoli: Val d’Ar-gento, Cigale, Val di Sole…, e parlava dei suoi scogli e del suo mare limpido, ricco di pesci. La barca e la pesca entravano nella mia vita segreta

di fanciullo ed io disprezzavo ogni altro giocattolo che non avesse forma di nave o non avesse qual-che relazione di mare.

Intanto l’Istria continuava ad arrivare in casa coi suoi doni. Papà vi aveva molti amici, in ogni parte. Oltre agli scampi e ai fichi di Cherso, arriva-vano i dentici di Cittanova e le ostriche del Quieto, venivano le damigelle d’olio da Umago e i bariletti di vino da Parenzo, le sottili bottiglie d’un preliba-to vino rosa da Dignano; veniva il capretto, il le-pre, il formaggio pecorino dell’interno e le pesche e l’uva da Capodistria e da Isola”.

Mi colpì subito la totale coincidenza delle espe-rienze e degli stati d’animo messi in evidenza da questi passi con quelli provati e vissuti nella mia prima infanzia quando, dopo aver abbandonato, nel settembre 1946 (avevo allora poco più di due anni), l’isola di Cherso, i miei familiari si erano stabiliti prima sui colli Euganei e poi a Padova, dove per molto tempo ogni anno, per le feste di Natale, avremmo ricevuto, da parte di una zia pa-terna che aveva voluto rimanere nell’isola a pasco-lare capre e a coltivare un po’ di terra, un grande pacco (un vero tripudio di odori e sapori) di fichi secchi, mandorle, noci, carne affumicata e formag-gio pecorino. In quegli anni, anch’io mi sarei co-struito, come Giani Stuparich, un’idea precisa fin nei minimi dettagli dei territori in cui ero nato che avrebbero costituito l’oggetto ricorrente di molte conversazioni familiari, soprattutto quando veni-vano a trovarci parenti ed amici che avevano vis-suto la stessa esperienza e l’incontro diventava inevitabilmente occasione di ricordi sospesi tra la nostalgia ed il rimpianto. Una nostalgia ed un rim-pianto che avrebbero contribuito a dare un volto ed una concretezza, nella mia immaginazione, a pae-

di Francesco Surdich

Il prof. Francesco Surdich (nella foto), nato a Cherso nel 1944, è preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, dove nel

1967 ha conseguito la laurea (110/110 e lode e la dignità di stampa) discutendo la tesi in Storia me-dievale “Ricerche sui rapporti tra le repubbliche di Genova e di Venezia all’inizio del XV secolo”. Esperto di letteratura e di esplorazione, Francesco è figlio dei chersini Anna Perini, classe 1922 (morì a Genova nel 1968) e di Giuseppe Surdich, nato nel 1914 e morto a Genova nel 1984, che pure era laureato in Lettere, a Padova, dove aveva discus-so la tesi di laurea sulle sacre rappresentazioni nella letteratura serbo-croata, ed aveva insegnato materie letterarie nelle scuole medie, prima a Pa-dova e dintorni e poi a Genova, dove la famiglia si era trasferita nel 1958, diventando poi Preside di scuola media. Una tradizione di famiglia deci-samente radicata, visto che anche l’altro figlio di Giuseppe Surdich, Luigi, nato a Cherso nel 1946,

insegna Letteratura italiana presso la Facoltà di Lingue dell’Università di Genova.

Dopo la laurea in Lettere, dall’anno accademi-co 1970/71 il prof. Francesco Surdich ha insegna-to Storia delle esplorazioni e scoperte geografiche alla Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, presso la quale dal 1997 ha ricoperto l’incarico di Presidente del corso di Laurea in Storia e dal 2002 è stato Vicepreside, prima di arrivare all’incarico attuale di Preside della Facoltà di Lettere. Ha al suo attivo quasi duecento pubblicazioni fra volu-mi, articoli, relazioni a convegni, ecc.

Dal 1982 è socio corrispondente della Deputa-zione subalpina di storia patria, dal 1992 fa parte del Comitato di coordinamento del Centro Italiano per gli studi storico-geografici, di cui è stato uno dei promotori, con l’incarico di coordinatore del-la sezione di Storia dei viaggi e delle esplorazioni, e del comitato scientifico del Centro Internaziona-le di Studi sull’Emigrazione Italiana, del comitato

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Paesaggio della memoria, della sofferenza e della nostalgia

saggi, sensazioni, sentimenti, sapori, odori, colori, ecc., al punto da arrivare a renderli, col passare del tempo, realtà concrete e familiari, come se fossero state il frutto di cose effettivamente conosciute ed emozioni e sensazioni realmente provate.

Grande fu quindi l’impatto emotivo quando, quasi ben trent’anni dopo (nel frattempo c’erava-mo trasferiti a Genova, perché mio padre voleva tornare a vivere in un paesaggio che gli ricordas-se quello della sua infanzia), ebbi l’occasione di poter vedere e verificare direttamente quanto per lungo tempo avevo sentito descrivere e che mi sembrò straordinariamente simile a tutto quello che avevo sempre immaginato: “Mi parve che il tempo fosse passato in un attimo, quando scesi sul suolo di Cherso” sottolinea sempre Giani Stupa-rich raccontando la stessa esperienza e ricordan-do che “la casa della nonna era grande, coi muri massicci, ed aveva un odore speciale: nella sua pe-nombra si fondeva l’odor d’incenso con l’odor di menta e col salso del mare”.

Sono le stesse sensazioni provate e poi raccon-tate, come frutto di una sorte di “mitologia dome-stica” (in questo caso nel capitolo introduttivo, dal titolo “Mi ricordo…”, della sua tesi di laurea) da una studentessa della facoltà di Lingue e lettera-ture straniere dell’Università di Genova, Viviana Malafarina, i cui nonni e bisnonni erano nati in Istria. Ricordando come d’estate, quando tornava, per trascorrervi le vacanze, sull’isola di Cherso nel riappropriarsi del paesaggio con lo sguardo lo immaginava popolato dei molti personaggi di cui aveva sentito narrare la storia, finisce poi per chie-dersi “perché è così difficile far capire agli altri cosa vuol dire sentirsi dentro quel mare, quel cielo, quel vento che profuma di magris, cosa vuol dire

sentirsi finalmente al posto giusto quando questo paesaggio interiore si specchia in quello esteriore della costa e delle isole istriano-dalmate?”

“Ogni estate - così inizia questa tesi - scese dal traghetto che fa la spola tra Brestova, in Istria, e l’approdo di Faresina (Porozina) sull’isola di Cherso, eravamo subito travolte dal forte profumo di magris che ricopre la terra arida ai bordi del-la strada. Credo di averlo visto anche in Italia da qualche parte ma ‘di là’ ha tutt’un altro profumo! Come la salvia. Là è più profumata, più velluta-ta… o perlomeno lo è nei miei ricordi.

Arrivate al punto più alto della strada, che da Faresina sale fino alla “sella” per poi arrivare a Dragosetti, mamma fermava la macchina. Solo un momento per respirare a fondo l’odore dell’isola, per guardare il cielo ampio e azzurro e il mare che avvolge lo splendido arcipelago, da quel punto di osservazione privilegiato che permette di abbrac-ciare con lo sguardo l’isola da est ad ovest nel-la sua interezza. (...) Tutto il viaggio era un cre-scendo di ricordi, nostalgie. Senso di appartenen-za, gioia in attesa di esplodere al fatidico momen-to dell’arrivo”.

In tutte queste esperienze ci troviamo di fronte ad un paesaggio della memoria ed, al tempo stesso, della sofferenza e della nostalgia, caricato spesso di potenti implicazioni simboliche ed immaginifi-che che, nell’ambito di nuovi settori di indagine come quelli della geografia umanistica e/o com-portamentale, nella quale viene attribuita una va-lenza fondamentale all’“azione umana e alle sog-gettività culturali”, può diventare un tipo di fonte da cui è possibile attingere “dati”, informazioni e suggerimenti necessari per farci ricostruire perce-zioni individuali e sociali di luoghi e paesaggi.

scientifico di “Casa America” e dalla Giunta della Regione Liguria è stato designato esperto regiona-le della Consulta Regionale per l’Emigrazione. Ha fatto parte del Comitato nazionale per le celebrazio-ni del V centenario del viaggio di Amerigo Vespuc-ci, del Comitato nazionale per il 750° anniversario della nascita di Marco Polo e del Comitato scienti-fico del Comitato nazionale per il V centenario del-la morte di Cristoforo Colombo. È membro del co-mitato scientifico di diverse riviste nel campo della storia delle esplorazioni ed ha diretto le collane “Le carte del viaggio” e “Paperback Università” della editrice Herodote (Genova-Ivrea) e “L’albero del cadirà” della casa editrice Diabasis (Reggio Emi-lia). Nel 1975 ha fondato la Collana “Studi di Sto-ria delle esplorazioni” nell’ambito della quale vie-ne pubblicata la rivista “Miscellanea di Storia delle esplorazioni”, che continua a curare e a dirigere.

Per gentile concessione dell’Autore, pubblichia-mo parte dell’intervento “Il paesaggio costiero istria-

no nella memorialistica degli esuli” presentato dal prof. Francesco Surdich al convegno “Amate spon-de: il paesaggio costiero mediterraneo” organizzato dal Centro italiano di studi storico-geografici, che si era svolto a Gaeta nel dicembre 2003.

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Da qui l’opportunità anche di prendere in con-siderazione, da questa particolare angolazione di studio e di ricerca, un materiale assai insidioso per la sua estrema soggettività come la memoria-listica. Nel nostro caso quella legata appunto alla traumatica esperienza dell’abbandono della pro-pria terra, da parte delle popolazioni di lingua ita-liana dei territori istriani, al termine della seconda guerra mondiale, in quelli che, sempre Giani Stu-parich, ha definito “tempi di disperata umiliazio-ne”, quando, non potendo rivolgere l’animo al fu-turo, diventava inevitabile ripiegarsi sul passato, non però “come chi cerca di consolarsi d’un passa-to felice, ma come uno che frughi in anni conside-rati perduti, per vedere se non fosse rimasto qual-che cosa di positivo, di cui far tesoro nella miseria e nell’avvilimento presenti”.

È questa, ad esempio, la dimensione nella qua-le per Marisa Madieri si colloca il ricordo della sua città natale, Fiume, “una città - scrive - di fa-miliarità e distacco che dovevo perdere appena conosciuta. Tuttavia - precisa subito dopo - quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lon-tananza, hanno lasciato in me un segno indele-bile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici. Per molti anni, dopo l’esodo, non ho più rivisto la mia città e l’ho qua-si dimenticata, ma quando ho avuto nuovamen-te l’occasione di passare per Fiume e quel tratto di costa che torna a Brestova, dove generalmen-te prendiamo il traghetto per Cherso e Lussino, ho provato la chiara sensazione di ritornare nel-la mia verità. Eppure non ricordavo nulla, alme-no consapevolmente, di Icici, Mucici, Laurana, Moschiena, e poco di Abbazia e di Fiume stessa. In realtà era me stessa che trovavo, guardando, come in uno specchio, quel paesaggio mutevole di asprezze e di incanti”.

Una sensazione condivisa ed estesa, al tempo stesso, ad una dimensione più universale, anche dal marito della Madieri, il triestino Claudio Magris che, parlando delle sensazioni provate lungo la stra-da che corre verso Cherso, dove i due scrittori erano soliti recarsi in vacanza ogni estate (“odore di sal-via, di mirto e di pino, salsedine sulla pelle, il ven-to che passa asciutto sul viso, lo stridio delle cica-le, incessante, fermo come la luce fulva del merig-gio, il miele e il bronzo dell’estate”), scrive che, nel flusso dei ricordi, nel sensualismo che si sprofonda nella natura, nei colori, negli odori, nella continua riscoperta delle proprie origini e nel sentirle scor-rere immediate e sempre efficaci e vive “dal mare viene incontro il ricordo di un’infanzia più antica di quella vissuta da ognuno o ancora di là da venire”: “…in quell’orizzonte che si spalanca c’è tutto e an-che tutto quello che si è perduto e che si continuerà a perdere (…). Tornando sull’isola, talvolta si pensa che forse pure la morte è il frutto di questa abitudi-ne alla dimenticanza, che forse si muore perché ci si scorda di essere immortali”.

Una condizione questa, per Claudio Magris, comune a tutti gli esuli, che egli identifica nel per-

sonaggio di Nino, il quale racconta la storia del pa-lazzo Petrina di Lussingrande e del capitano Pietro che l’aveva costruito dopo una gloriosa carriera al servizio della Repubblica di Venezia, “per andare a naufragare e a morire sugli scogli schiumosi e ribollenti delle Scilly, uno dei posti più maledet-ti del mondo” dopo avervi dormito una sola not-te. Una storia che Nino “racconta spesso, anche a casa, e comunque ogni volta che la barca, lascian-dosi indietro le due isole Oriule, grande e piccola, con la loro terra rossa, i fichi e l’acqua blu notte che si frange sugli scogli bianca come la neve, ar-riva in vista di Lussingrande”:

“Può darsi - ipotizza a questo punto Claudio Magri - che, almeno in certi momenti, quella sto-ria, per Nino, non voglia alludere solo alla’inco-stanza della fortuna in generale ma anche, più spe-cificamente, al destino degli italiani, vissuti da secoli su quelle isole, padroni di barca e abituati anche a spadroneggiare sui croati e poi, alla fine della seconda guerra mondiale, scacciati e fuggi-ti da quelle terre che la riscossa e la vendetta sla-va avevano strappato alla disfatta italiana, travolti nella’esodo che li aveva dispersi a migliaia - come Nino, che aveva lasciato focolare, barca e tutto il resto - o, pochi, rimasti a casa loro che non era più casa loro, vessati e intimiditi.

Ma ogni volta che si arriva sulla’arcipelago (…) ogni riferimento ad una Storia presente in tante cicatrici ancora fresche si dissolve, svanisce come foschia nei riverberi del sole sul mare e sul-le candide rupi ciclopiche ai bordi della strada, pa-esaggio epico e omerico in cui non c’è posto per le tortuosità della psicologia e dei risentimenti. La Storia viene assorbita. Come la pioggia e la gran-dine nelle fessure delle rocce carsiche, nel tempo più grande e incorruttibile di quella luce estiva e di quelle pietre di un bianco abbagliante; le feri-te e le cicatrici che’essa hanno inflitto non vanno in suppurazione, ma si asciugano e rimarginano, come graffiature sulla pianta del piede nudo che si taglia sbarcando sulla’isola e posandosi su quei sassi aguzzi” (Ibidem).

Ma se, dopo il ritorno, l’immersione nel pa-esaggio poteva diventare l’elemento in grado di annullare, o perlomeno di attutire, ogni forma di rimpianto e di risentimento, il paesaggio fisico ed umano che gli esuli erano stati costretti a lasciar-si alle spalle avrebbe rappresentato invece, per tante persone e per tanti anni, l’unica ancora di salvezza attraverso il ricordo e la memoria, uti-lizzati come una sorta di zattera a cui aggrappar-si dopo la lacerazione prodotta dal distacco, per recuperare almeno alcuni frammenti del proprio vissuto:

“Guardavo alla’Istria che mi lasciavo alle spalle (…) - scrive sempre Gianni Stuparich rievocando questo stato d’animo -. Mia, mia terra non più mia. Di quei profili, ch’erano imbevuti della mia giovi-nezza, conoscevo ogni tratto: non li avrei mai più ri-calcati. L’isola lontana dei miei padri, la petrosa ed aerea Lussino, m’era preclusa per sempre. Avevo la netta impressione che un’inesorabile lama fosse

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scesa a dividere, a staccare da noi una parte vitale della nostra terra, per sempre” (Ibidem).

In un contesto del genere, caratterizzato so-prattutto dal rimpianto per la “terra perduta” che, secondo Marisa Madieri, “si popola di ri-sonanze e ricordi che a poco a poco si ricom-pongono a mosaico, emergendo in piccoli vor-tici di un magma indistinto, che per lunghi anni s’è andato accumulando in un fondo buio e ina-scoltato”, la realtà geografica sarebbe emersa attraverso le consuete formulazioni descrittive. Ma questo tipo di rappresentazione, invece di ri-spondere ad una valenza meramente geografica, avrebbe finito col tinteggiarsi di colori e carat-teri emotivi ed affettivi, per cui, per la scrittrice di Fiume, Cherso avrebbe rappresentato “più un sentimento luminoso che un luogo concreto”, a proposito del quale ricorda un momento parti-colarmente suggestivo come “la sera quando il sole naufraga all’orizzonte”:

“Il mare si fa d’oro - annota infatti nel suo dia-rio -, le cicale tacciono d’improvviso e i gabbia-ni non volano più. I sassi della spiaggia, nell’aria subito fresca, cominciano a restituire lentamente l’ardore del giorno e nell’immobile silenzio solo la risacca ansima sommessa e pare il respiro del cie-lo, che trascolora in un cavo pallore. Allora i pen-sieri si fanno giovani e trasparenti e fluttuano lievi sull’acqua e nell’aria” (Ibidem).

Nasce dalla stessa situazione e risponde alle stesse esigenze anche questa descrizione inserita da Giani Stuparich nel racconto L’Istria e le Dolomiti:

“Se guardo indietro alla mia adolescenza e nella mia prima giovinezza, mi si apre una pro-spettiva di scogli, d’insenature sotto le costole scoperte della terra, di promontori e di portic-cioli: la mia Istria, coi suoi scenari digradanti negli azzurri e nei grigi, i tramonti che levigano lo specchio per riflettere in una placidezza rosa-ta sottili campanili e casette colorate dalle ver-di persiane, albe caliginose dentro cui sprazza improvvisamente la palla infuocata del sole su dall’acceso profili dei monti, mentre noi stiamo allontanandoci a forza di remi dalla riva, nella barca ancor umida di guazza fra arnesi di pe-sca; e le schiarite sotto la brezza di levante che mette un brivido alla vela; e sole sole sole, luce inebriante, aria mossa, saporosa d’alga e di sale; su su fino alle ultime veleggiate fuori dal porto d’Umago con mio fratello Carlo nelle sfuriate del maestrale”.

Un territorio descritto quindi con una forte par-tecipazione sentimentale, in cui la “terra perduta” diventa anche l’immagine di un’età ormai lontana nel tempo come l’infanzia e degli affetti familia-ri scomparsi. Così avviene anche nella raccolta di quaranta racconti legati alla vita fiumana ed ai pri-mi tempi di vita da profugo di Enrico Morovich, nei quali però la rievocazione del proprio passato non sconfina nel patetico e nel teneramente nostal-gico perché, come precisa proprio all’inizio de La tavolozza perduta, “noi esuli siamo un po’ come dei pittori immaginari che abbiano perduta la loro

tavolozza; ormai a colori non possono dipingere e tutt’al più si rassegnano a disegnare. E i disegni, per quanto ben fatti, son sempre un po’ tristi”.

In tutti i casi che abbiamo finora preso in consi-derazione possiamo dire, con Fremont, che l’inven-tario dei luoghi costituisce il senso dell’esistenza dell’individuo; ma è altrettanto importante consta-tare come le modalità affettive riscontrabili in tutti questi brani siano strettamente legate con alcuni ca-ratteri tipici del paesaggio adriatico (l’acqua, il sole, i golfi, ecc.), che diventa così l’elemento capace di innescare l’intero processo del ricordo.

La motivazione affettiva acquisisce naturalmen-te uno spessore ancora maggiore e si lega ad altri e diversi fenomeni, quasi che il mare potesse diven-tare, ad un tratto, da “contenuto” del discorso, si-stema ordinatore, come nel programma, dal titolo Piccolo cabotaggio, condotto da Giani Stuparich a Radio Trieste nel 1955: nel testo di quelle conver-sazioni appare subito evidente come il mare diven-ti metalinguaggio e come il discorso si strutturi at-traverso una serie di formulazioni che acquisisco-no abbondantemente moduli e circostanze proprie del linguaggio e dei termini marinareschi, per cui nostalgia e memoria, terminologia e linguaggio, parola e comunicazioni assumono in questo modo una rilevanza del tutto particolari.

Il mare diventa quindi catalizzatore d’ogni pro-cesso e si compiace di modificare l’individuo e di trasformarlo fintantoché non giunge ad essere, a sua volta, motivo di trasformazione, come ne La nostal-gia del mare, una raccolta di racconti dominati dalla tematica dell’irrazionalità della vita intesa come una colpa da espiare, dove, con la sua singolare fecon-dità inventiva e tematica, Enrico Morovich ci rac-conta di un gruppo di uomini prigionieri sopra un misterioso altopiano e del loro desiderio di andarse-ne, di fuggire, di tornare quindi a quel mare da cui, come tutti gli esuli istriani, erano venuti.

Il mare confine lontano dove l’orizzonte si scinde, può essere infatti anche l’annullamento, il nirvana, l’utopia, il mito, che da sempre, come Massimo Quaini ci ha più volte ricordato, hanno contribuito ad alimentare e costruire le concezio-ni e le rappresentazioni geografiche. Così avviene anche nel suggestivo capitolo dei Microcosmi di Claudio Magris intitolato Assirtidi, come si chia-mavano nell’antichità, assieme all’arcipelago di cui fanno parte, le isole di Cherso e di Lussino, dal nome del fratello di Medea che la maga, per amore di Giasone, aveva attirato in un tranello mortale su quelle acque e dal cui corpo gettato a pezzi nel mare sarebbero nate queste isole. “Il mare - sottolinea infatti Claudio Magris - scorre nelle vene, acqua originaria della specie e dell’in-dividuo, che nei primissimi anni dell’esistenza impara a respirare come un pesce e a nuotare pri-ma che a camminare. Forse è questa confiden-za vitale che rende spesso le civiltà rivierasche più limpide e gentili, più aperte allo straniero e al diverso, e stampa nei volti delle persone quella franca chiarità che si vede così spesso negli occhi della gente di queste isole”.●

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Ricerche

Fin dal primo periodo trascorso a Pirano (1941-1953), e poi specie negli anni successivi, a Trie-ste, ho constatato che sapevamo e si sapeva ben

poco sull’origine dei cognomi piranesi e istriani. Bi-sognava quindi approfondire la questione, e mentre stavo raccogliendo i materiali necessari per lo studio iniziando da quelli di Pirano mi capitò fra le mani il Dizionario dei cognomi italiani, pubblicato a Milano nel 1978 da Emidio De Felice, ove mi accorsi per pri-ma cosa che l’autore nel suo pur documentato libro ignorava del tutto l’Istria, classificando come trie-stini ad esempio Apollònio, Muiesàn e Parenzàn che sono invece tipicamente istriani.

Ho intrapreso così uno studio sistematico sui co-gnomi di queste terre, allargando man mano le ricer-che fino a comprendere tutti quelli presenti fra Trieste, l’Istria, il Quarnero, Fiume e la Dalmazia. Il loro stu-dio - va sottolineato - in quanto coinvolge diverse altre discipline (storia, geografia, araldica, lingue, dialetti, ecc.), ci permette di avere una maggiore conoscenza del nostro passato e delle nostre origini per esprimere in modo abbastanza esauriente la consapevolezza che siamo parte integrante di un’unica storia universale, intercollegati tramite i nostri avi da un intreccio di le-gami di sangue che ci affratella e ci unisce.

L’Autore

Che cosa ci dicono i cognomi usati in Istria, Quarnero, Dalmazia e Trieste

Scrignar, il costruttore di cassedi Marino Bonifacio

Šikić, Sikić, Sikich, Sichich, ŠikovićNel 1671, tra gli immigrati croato-montenegrini delle

Bocche, chiamati da Venezia a ripopolare la Polesana, giun-sero pure i Sichich/Šikić a Turtian (Turtigliano) di Pola, che poi, nel 1697 ad opera di Nico e Gasparo Sichich fondarono il villaggio di Sichici, oggi Šikići (cfr. Bertoša 1980-81, pp. 301, 306, 342, note 31, 32, e de Franceschi 1939-40, p. 192). Peraltro, Gasparo Sichich o Gašpar Šikić è abitante di Car-nizza già il 6/7/1690 (ACRSR 30°, 2000, pp. 228-230).

Tra i discendenti, don Felice Sichich, ( Abbazia, 1814) fu parroco di Portole e di Cittanova e arciprete, parroco e decano del Capitolo Collegiato di Pirano dal 1858 al 19/3/1895, data della sua morte. Fu anche consigliere concistoriale onorario, canonico onorario della chiesa concattedrale di Capodistria e cavaliere dell’ordine di Francesco Giuseppe I. In proposito si veda “La Porta Orientale”, n. 1-2, TS gennaio-febbraio 1961, p. 58 e p. 62, e Bonifacio 1992, p. 183, nota 85.

Il Cadastre segnala nel 1945 in Istria solo 1 famiglia Šikić diventata Sicchi a Portole, cui va aggiunta in Brat-Šim 1985, I, p. 281, 1 famiglia Šikić a Pola.

Delle odierne 592 famiglie Šikić, in Croazia, solo una mi-nima parte è in Istria: 10 a Pola (e 1 Sikić), 2 a Medolino (1 a Bagnole), 1 a Pisino e Umago, 2 a Laurana, 5 ad Abbazia (di cui 1 a Veprinaz), 68 Šikić a Fiume (più 1 Sikich e 5 Si-chich), 150 a Zagabria (e 8 a Sesvete), 40 a Morter, 24 a Zara (più 5 a Zaravecchia), 13 a Korlat (Benkovac), 12 a Gospić, 12 a Vinkovci, 9 a Spalato e a Osijek, 8 a Ivankovo, 7 a Sisak, 6 a Karlovac, Ragusa e Valpovo, 5 a Slatina, 4 a Koprivnica e V. Gorica, 3 a Sebenico, ecc. A Trieste vivono soltanto 1 fa-miglia Sichich più 3 famiglie Sicchi ex Sichich.

Jireček 1985, p. 101, cita (nel 1331) ad Antivari un Sygo Sagne, Sigus de Rugi (1389) Stiepicho Sichovich (1431 no-bile, e il nome longobardo Sico portato nel sec. X da vescovi italiani e un presbiter Madelvertus f. Siconis a Terlizzi.

Il cognome croato Šikić (con variante Šiković, già nel 1431, oggi portata da sole 15 famiglie), ha per base il nome Sicus/Sico come i piemontesi e liguri Sicca/Sicco/Siccardi

e il cognome dell’Italia meridionale Sica/De Sica (Vittorio De Sica), già derivato dal germanico Siccardo/Sicardo do-cumentato in Italia dall’VIII sec. nelle forme abbreviate Sigo/Sikko/Siko del nome Sichard formato da sigu “vittoria” e hardhu “duro, forte”, ricordando che l’ultimo principe lon-gobardo di Benevento fu Sicardo figlio di Sicone. In merito De Felice 1978, p. 233, e Minervini 2005, p. 455, e il cogno-me Sica in Rapelli 2007, p. 645.

Già il 12/10/977 (CDI) troviamo a Capodistria il conte do-mino Sicardo, e il 6/9/1341 rileviamo un Sicha de Pisino.

Škrinjar, Škrinjarić, Skrinjar, Škrinar, Skrinar, Scri-gnar, Scrignàri, Scrignàro, Scrigner

Il Cadastre segnala nel 1945 nell’Istria e Quarnero 50 fa-miglie Škrinjar (in realtà Scrignar) e 2 Scrigner (1 a Uma-go, 1 a Lubianìa di Umago), di cui 18 famiglie nel comune di Umago (14 a San Lorenzo tra cui 8 a Škrinjari/Scrignàri), 6 a Verteneglio (di cui 3 a Scrignàri), 3 a Orsera a Marassi di Ge-roldìa, 1 a Frascherìa (Cittanova), 15 a Pinguente (di cui 6 a Duricici di Berda e 4 a Scrignari di San Clemente), 2 a Pisino, 4 a Bogliuno (3 a Borutto), 1 ad Albona di Sotto, 1 a Laurana, 1 a Masnovo di Breghi (Castua), cui va aggiunta 1 famiglia Scrigner a Pola (Brat-Šim 1985), I, p. 278. Un componente di tale famiglia è Aldo Scrigna da Pola mancato a Trieste nel 1993 lasciando il figlio Armido e il nipote Massimiliano.

Scrignar è attestato in Istria dal 1580, con il presbiter Matthaeus Scrignarius rettore della chiesa di Piemonte (AMSI 94°, 1994, p. 229), nel 1728 troviamo a Matterada e Petrovia Antonio Scrignar e nel 1741 Mattio Scrigner (Ci-gui 1999, p. 132 e 128). Inoltre, nel 1775-76 vi sono a S. Lo-renzo di Daila case e beni dei Scrignar, un bosco in contra-da Rupa degli eredi Scrignar e Giugovaz e dei Franceschi e un boschetto in contrada Biribazzi e Scrignaria dei Lalovich, Scrignar, Rasman, Schiauzzi, Vuctanovich (Catastico 1775-76, p. 151 e 53).

Oggi vi sono in Croazia 250 famiglie Škrinjar, di cui cir-ca un quinto in Istria, ossia 10 nel comune di Umago (6 a Babici, 1 a Umago, Catoro, Cipiani e Giuba), più 1 famiglia Skrinjar a Babici di Umago e 6 famiglie Scrignar (1 a Uma-go, 2 a Babici, 2 a Monterosso, 1 a Cittanova), 1 famiglia

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Ricerche

ACRSR: Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno dal 1970.

AMSD: Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria, Zara dal 1926 al 1934, poi Roma e Venezia dal 1966.

AMSI: Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Sto-ria Patria, Parenzo-Pola-Venezia-Trieste dal 1885.

Bertoša 1980-81: Miroslav Bertoša, Un episodio della colonizza-zione organizzata dell’Istria veneta: gli aiduchi a Pola e nel Polese, ACRSR 11°, 1980-1981, pp. 295-359.

Bonifacio 1992: Marino Bonifacio, Antichi casati di Pirano d’Istria: i Contento, AMSI 92°, 1992, pp. 147-228.

Brat-Šim 1985, I: Josip Bratulić i Petar Šimunović, Prezimena i naselja u Istri: narodnosna statistika u godini oslobođenja (Cognomi e località dell’Istria: statistica per nazionalità nell’anno della libera-zione, Pola-Fiume 1985.

Cadastre: Cadastre national de l’Istrie d’après le Recensement du 1er Octobre 1945, a cura di Josip Roglić, Sušak 1946.

Catastico 1775-76: Vincenzo Morosini IV, Catastico generale dei boschi della provincia dell’Istria (1775-1776), a cura di Vjekoslav Bratulić, Collana di ACRSR n. 4, Trieste-Rovigno 1980.

CDI: Codice Diplomatico Istriano (in 5 volumi), di Pietro Kan-dler, Trieste 1847-1849.

Cigui 1999: Rino Cigui, Le famiglie di San Lorenzo, Matterada e Petrovia, nel volume miscellaneo Il comune di Umago e la sua gente, Trieste 1999, pp. 127-132.

Costantini 2002: Enos Costantini, Dizionario dei cognomi del Friuli, Udine 2002.

De Felice 1978: Emidio De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano 1978.

De Franceschi 1939-40: Camillo de Franceschi, La topo-nomastica dell’antico agro polese desunta dai documenti, AMSI 51°–52°, 1939-40.

DEI: Dizionario Etimologico Italiano (in 5 volumi), di Carlo Battisti - Giovanni Alessio, Firenze 1975.

Jireček 1985: Constantin Jireček, L’eredità di Roma nelle città della Dalmazia durante il medioevo. Seconda parte. Do-cumenti. Nomi di persona, a cura di Giuliano Bonfante - Atti-lio Budrovich - Rita Tolomeo, AMSD 10°, Roma 1985.

Jireček 1986: Constantin Jireček, L’eredità di Roma nelle città della Dalmazia durante il medioevo. Terza parte (fine). B) Cognomi e soprannomi (nomignoli) nelle antiche città la-tine della Dalmazia negli anni 1000-1500, a cura di Attilio Budrovich - Mario Enrietti - Rita Tolomeo, AMSD 11°, Roma 1986.

Merkù 1982: Pavle Merkù, Slovenski priimki na zahodni meij, Trieste 1982.

Minervini 2005: Pantaleo Minervini, Dizionario dei co-gnomi pugliesi, Fasano di Brindisi 2005.

Rapelli 2007: Giovanni Rapelli, I cognomi del territorio veronese, Caselle di Sommacampagna (Verona) 2007.

Scrigner a Bassanìa. Quattro le famiglie Škrinjar a Vertene-glio, 1 a Parenzo, Villa di Rovigno e Zabrezani (Pisino), 8 nel comune di Pinguente (2 a Pinguente e Duricici, 1 a Ercovcici e Rozzo, 1 a San Martino, 1 a Scrignari), 4 a Giadreschi di Li-signano (Pola), 3 a Pola, 4 a Fiume, 60 a Zagabria, 5 a Sesve-te, 12 nella contea di Krapina-Zagorie (di cui 5 a Pregrada, 3 a Klokovec), 11 a Sisak (2 a Sisak, 4 a Joševica di Glina, 5 a Petrinja), 15 a Koprivnica (5 a Subotica Podravska, 5 a Cepe-levac), 8 a Pitomača, 5 a Petrijane (Varaždin), 4 a Osijek, 3 a Slavonski Brod, 2 a Karlovac e a Zaravecchia, 1 a Zara e di-verse altre. Inoltre: 2 famiglie Skrinjar a Laurana, 1 a Spalato più 1 famiglia Škrinar a Osijek e a Zagabria con grafie rare.

Dal cognome-base Škrinjar si è evoluto pure il patronimi-co Škrinjarić, oggi rappresentato da 192 famiglie, di cui 80 a Zagabria città, 16 nella sua contea (10 a Pisarovina, 6 a Po-kupsko), 11 a Petrinja e dintorni, 9 nella contea di Virovitica (6 a Gradina, 3 a Suhopolje), 5 a Sisak e a Velika Gorica, 3 a Osijek e a Varaždin, ecc.

Una parte degli Scrignar/Scrigner e simili, dopo il 1945 è esodata a Trieste, ove oggi contiamo 22 famiglie Scrigner, 4 Scrignar, 5 Scrignari e Scrignani, 1 Scrinari, 4 Scrigni, 3 Scrigna, tra i quali peraltro qualche Scrignani/Scrignari ex Škrinjar/Skrinjar è pure di origine slovena.

Infatti, il latino scrinium “cassetta”, oltre al celtico, ger-manico, francese, spagnolo (DEI, pp. 3424-25) è passato pure alle lingue slave, iniziando dallo sloveno, in cui da skrinja “cassa” più il suffisso –ar si è formato il nome di mestiere skrinjar “fabbricante di casse”, da cui il cognome sloveno di Azzida (S.Pietro al Natisone) Skrinjar italianizzato anche in Scrignaro e Scrignari a Monfalcone, in cui cui nel 1594 è documentato un Simonem Scrignarum o Simonem Scri-neru detto nel 1600 Simon Scrignar. Si vedano in proposi-

to Merkù 1982, p. 57 e p. 59, e Costantini 2002, p. 487, che definisce Skrinjar “costruttore di cassapanche” ossia “fale-gname”. Gli studiosi dimenticano però che anche in Slovenia la grafia Škrinjar prevale in assoluto di fronte a Skrinjar, per cui a Lubiana vediamo 15 utenti Škrinjar, 1 Skrinjar, 2 Škrinar e a Maribor 14 Škrinjar, 1 Skrinar, 1 Skriner.

Allo stesso modo, dal croato di matrice latina škrinja “cassa” è sorto škrinjar “costruttore di casse” e il cognome Škrinjar, giunto nell’Istria croata nella seconda metà del ‘500 dalla Dalmazia, sicché il suddetto prete di Portole del 1580 Matthaeus Scrignarius era dalmato. Gli Scregna/Scrigna/Screna/Scrina segnalati da Jireček 1986, p. 113, tra il 1282 e il 1391 a Ragusa, erano proprio gli antenati degli Škrinjar, cognome formatosi quindi in Dalmazia poi diffusosi in tutte le regioni della Croazia interna ivi divenendo pure Škrinjarić.

Del resto, a ulteriore conferma che il cognome istriano Scrignar/Scrigner non sia di formazione locale romanza, esso viene pronunciato dagli stessi istriani romanzi Scrìgnar/Scrìgner e non Scrignàr/Scrignèr alla veneta, mentre invece la forma italianizzata Scrignari si dice Scrignàri e non Scrì-gnari. E tra i cognomi croati derivati da professione, Jireček 1985, p. 26, registra appunto anche Škrinjar/Škrinjarić.

Va rilevato infine che il derivato di scrinium-scriniarius “custode” - d’epoca romana (DEI, pp. 3424-25), non è poi seguitato in Italia come nome di mestiere né come cognome Scrignàrio/Scrignàro o simile. Continuava comunque anco-ra nel secolo XII in Friuli, ove il 23/7/1180 (CDI) troviamo ad Aquileia un Johannes Nicolai Philippi scriniarius. (19 - continua)

Le puntate precedenti sono state pubblicate nei numeri 16, 17, 19 e 22/2009, n.ri 1, 6, 9, 11, 13, 16, 18, 20 e 22/2010 e n.ri 1, 5, 7, 9 e 11 /2011

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

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SportMondiali di Shanghai: rinasce l’Italia della pallanuoto mentre la Croazia si consola con bronzo e visto olimpico

Settebello e Fede, acqua azzurra, acqua chiara

alla pallanuoto italiana (“il movimen-to già c’è, siamo uno sport di nicchia ma rispettabilissimo”) gli azzurri si go-dono “il risultato eccezionale, epico e da settembre, dopo le vacanze, pensia-mo al futuro: a Londra naturalmente”. Si riparte con la certezza che la squadra c’è, che ha fatto vedere “una pallanuo-to meravigliosa - dice il capitano Stefa-no Tempesti - imprevedibile. Noi sare-mo meno grossi, ma siamo più fisici”. E sarà anche la multietnicità a dare quel quid in più a una nazionale che non ha sbagliato niente: Amaury Perez, da Ca-maguey (Cuba) a Rende (provincia di Cosenza) ha trovato la sua fortuna. A 35 anni “quando pensavo di appende-re il costume al chiodo - sorride il di-fensore - mi ritrovo a giocare per il mio paese. Già, l’Italia mi ha dato tutto e io

sono orgoglioso di rappresentare, an-che nello sport, questo Paese”.

La favola si racconta sulle stesse note di quel “po po po” che a Germania 2006 aveva fatto da colonna sonora agli azzurri di Lippi. Un inno quasi vintage per questa che è un’altra Italia, calottine in testa e 17 anni di fame da oro, perché dall’acqua di Shanghai riemerge il Set-tebello più bello della storia della pal-lanuoto: al crepuscolo di un mondia-le che ha già esaltato l’azzurro, la sto-ria la scrive la nazionale di Alessandro Campagna, il ct dei corsi e ricorsi, per-ché nel ‘94 a Roma lui sul gradino più alto del podio mondiale ci era già sali-to. Costume e calottina allora.

Stavolta gli è toccato il tuffo in pi-scina, da vestito: lo ha aspettato e co-struito lungo un torneo in cui questa

“piccola” Italia ha schiaccia-to tutti gli altri giganti (tra cui in semifinale la Croazia che, poi, contro gli ungheresi si è dovuta “accontentare” del bronzo). Gli ultimi in ordi-ne di tempo i serbi, campio-ni in carica: 8-7 in una finale thrilling, in cui sono serviti i tempi supplementari e due ri-gori parati da Tempesti - mi-glior portiere del torneo - per far esplodere la festa tricolo-re. La testa più che le braccia,

a cura di Bruno Bontempo

Un po’ Sacchi, un po’ ct che educa alla Prandelli: ma con un caposquadra a cui guarda-

re, Giorgio Napolitano. Il Settebel-lo targato Alessandro Campagna non vuole disperdere nel nulla quanto di straordinario fatto a Shanghai: l’oro mondiale, che torna a casa della pal-lanuoto azzurra dopo 17 anni, non è bene da buttare via nel giro di pochi giorni. Il tecnico campione comincia il day after del trionfo con una dedi-ca: “Al presidente della Repubbli-ca, noi abbiamo dimostrato di essere una squadra in un momento di gran-de divisione e individualismo, di es-sere un gruppo anche contro avversa-ri più forti, questo oro è per lui, per il caposquadra del paese”. Campagna ricorda i 150 anni dell’unità, celebra le parole di Napolitano a cui dice di volersi accodare chiedendo “alle fu-ture generazioni uno spirito di sacri-ficio che serve per fare belle impre-se. E così anche lo sport italiano si potrà togliere grandi soddisfazioni”. Per arrivare lì dove nessuno avrebbe mai scommesso, Campagna fa tesoro di tutto: delle storie dei suoi ragazzi, quelle felici e quelle meno, della sua esperienza di giocatore, dei consigli degli altri.

“Mi piace molto lo stile di Prandelli - dice l’allenatore del Settebello con lo squadrone campione riunito per la festa -, è un ct che educa: anche io credo di essere un educatore, insegnare l’etica è fondamentale, alla lunga produce risul-tati”. A cui si arriva anche con la tec-nica: e in questo gli sono sta-te utili le “lezioni” con Arrigo Sacchi che ha riunito i tecnici olimpici per dare le linee gui-da di come si arriva in fondo. “Ci ha fatto discorsi eccezio-nali - racconta Campagna - partendo da come è riuscito lui ad amalgamare persona-lità diverse come Gullit, Van Basten e Baresi, dando l’idea di cosa sia lo spirito di gioco ci ha aiutato tanto”. In attesa che l’oro faccia fare il boom

Il Settebello e (in basso) Federica Pellegrini: festa italiana a Shanghai

Page 45: Panorama · Costruita la piscina (a Costa-bella, diciamo noi, a Cantrida dice la maggioranza) a un paio di centinaia di metri dall’ospe-dale pediatrico (di Costabella, diciamo noi,

Panorama 47

Sport

Il ciclismo polese piange la scomparsa di Rajković

Edy, ultimo grande vecchio

Burbero dalla voce roca ma non scontroso, anzi, scanzonato. Io lo ricordo così, vulcanico e schietto, irriverente e polemico. Ma sempre ottimista,

catalizzatore, dalla tempra straripante di iniziative, visioni, idee vincenti. Uno che per il bene dello sport avrebbe fatto carte false, come si suol dire. Con Edoardo Edy Rajković se n’è andato uno degli ultimi grandi vecchi del-lo sport istroquarnerino, ma non solo. Polese purosangue, dirigente ecletti-co, segretario dello sport all’ombra dell’Arena, arbitro di calcio e boxe, oltre che di ciclismo, che aveva amato soprattutto ed al quale si era dedicato ani-ma e corpo. La sua vita è stata simile a una corsa a tappe, con Lui sempre in fuga, oppure a tirare la volata. Lo scorso 2 novembre aveva tagliato il Suo ultimo, grande traguardo, quello dei 90 anni tondi. Ha scritto alcune delle pagine più significative della storia del ciclismo polese, dando vita al Giro dell’Istria alla fine degli Anni ‘40, restando in sella alla sua creatura (che aveva promosso in collaborazione con la redazione sportiva de La Voce del Popolo) per quattro decenni, svezzandola, coccolandola e vedendola cre-scere fino a diventare una delle corse ciclistiche giovanili più apprezzate del mondo. Alle doti di insuperabile trascinatore, organizzatore, Edy univa quelle di tecnico (era stato anche selezionatore dell’ex Jugoslavia) e talent scout: la società ciclistica polese, che nel tempo cambierà vari nomi, da Pula a Siporex, da Uljanik a Ytong, diventerà una storica fucina di grandi talen-ti che andrà a pescare soprattutto a Lavarigo. Chi non ricorda Bruno Bulić, oggi impegnato come sindacalista, Nevio Valčić, il grande compione degli anni ‘50 e ‘60 venuto a mancare lo scorso anno, e Cvitko Bilić, forse il più grande corridore dell’ex Jugoslavia?

Fra i suoi tanti, divertenti aneddoti, che poi sono sempre uno spaccato di vita e della società passata, ricordo con particolare simpatia quello nato quando Edy si oppose alla nomina del rappresentante del Kosovo alla pre-sidenza della Federciclismo jugoslava. Il modello socialista di gestione pre-vedeva l’assegnazione delle cariche a rotazione, in chiave politica, anche in seno alle federazioni sportive, prescindendo dalla natura di un determinato sport e dalla competenza dei candidati. In quel caso Edy cercò di spiegarne l’assurdità di applicare ciecamente quello che oggi si chiamerebbe turnover, poiché nell’allora regione autonoma questa pratica agonistica era quasi sco-nosciuta. “Compagno Rajković - cercarono di spiegargli - l’avvicendamen-to deve seguire la ciclicità in base alla chiave prestabilita...” “La chiave? Ali svaka ključ ne otvara svaka brava... - replicò il Nostro, senza peli sulla lin-gua, destando ilarità per il suo croato poco rispettoso della grammatica e dei casi, ma facendo riflettere un po’ tutti -. Dovete capire, compagni, che non tutte le chiavi possono aprire tutte le porte...” Parole sante, caro Edy. (bb) ●

Mondiali di Shanghai: rinasce l’Italia della pallanuoto mentre la Croazia si consola con bronzo e visto olimpico

Settebello e Fede, acqua azzurra, acqua chiara l’intelligenza più che la fisicità e una difesa impressionante hanno messo in trappola i serbi. Un Settebello ricostrui-to in nemmeno due anni, passato dai fa-sti degli anni ‘90 al buio dei 2000. Me-rito, dicono i ragazzi del nuovo dream team, di quel ct-fenomeno-genio che ha fatto della panchina una missione, tra-smettendo dal cuore all’acqua quel fuo-co sacro che lui non ha mai smesso di alimentare. Per questo dopo aver bat-tuto tutti a Shanghai - Sudafrica, Usa, Germania, Grecia, Spagna, Croazia - ha superato anche l’ostacolo che sembrava impossibile. Agli altri, ma non ai sette belli: tutti in acqua per compiere l’im-presa da Valentino Gallo che ha regala-to il primo vantaggio azzurro, fino alle doppiette di Matteo Aicardi e di Chri-stian Presciutti, romanista nel sangue che non perde l’occasione per festeg-giare i gol alla Totti (il suo capitano di riferimento fuori dalla piscina): dito in bocca e mimo del ciuccio, dedica alla piccola Chloe nata proprio alla vigilia dei mondiali. Un risultato straordinario, una partita epica, concentrazione e te-nuta mentale, davvero incredibili. Italia d’oro, davanti alle superpotenze Serbia, Croazia e Ungheria: le stesse che - con il visto per Londra - Campagna ora spe-ra di ritrovare sul podio olimpico “non importa in che ordine”.

Gli ultimi spruzzi d’acqua nella pi-scina del nuoto di Shanghai non hanno cambiato il destino dei primi Mondia-li dell’acqua “Made in China”. È sta-to spettacolo, anche senza o grazie so-prattutto al fatto che non ci fossero più i supercostumoni. Il re è Ryan Lochte, la regina (anche di cuori) Federica Pelle-grini, che conferma l’exploit romano di due anni fa. Anche per loro l’obiettivo è Londra 2012: immaginate occasione più succosa per rimedette in gioco le meda-glie di Shanghai? La veneta Pellegrini è la regina del nuoto mondiale. Si con-ferma sul doppio trono (200 e 400 sl) di Roma 2009, dopo un biennio in cui ha perso il suo allenatore, ne ha cambiati due nuovi. Cambiata, cresciuta, dima-grita, forse anche sfidanzata, definirla la numero uno del nuoto italiano è decisa-mente riduttivo, perché è l’azzurra più vincente dello sport in assoluto. ●


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