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Ron Fawcett - MI CHIAMAVANO BANANA FINGERS

Date post: 08-Mar-2016
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Nel 1979, Fawcett era il più famoso arrampicatore della Gran Bretagna, e tra i migliori del mondo, membro di una nuova ondata di atleti la cui dedizione all’allenamento trasformò questo sport, spingendo i limiti in avanti più velocemente di quanto non fosse mai accaduto prima. Vie come Lord of the Flies e Strawberries erano all’avanguardia mondiale al tempo, e sono ancora considerate sfide estreme, a trentanni di distanza. Fu anche il primo a porsi come arrampicatore professionista, trasformando il suo talento in carriera. Ma ben lontano dall’amare le luci della ribalta, Ron trovava la pressione della fama troppo pesante da sopportare, e alla fine degli anni ottanta si eclissò. Ora, per la prima volta, ci racconta la sua straordinaria storia, come il suo amore per la natura e l’ambiente si siano trasformati in una passione per l’arrampicata che lo ha portato al top – e lo ha quasi consumato.Oggi Ron vive nel Peak District con le sue due figlie.
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I RAMPICANTI EDIZIONI VERSANTE SUD Ron Fawcett M i C hiaMavano B anana F ingers
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I R A M P I C A N T I

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Titolo originale: Rock athletePubblicato da Vertebrate Publishing, Sheffield,UKCopyright © Ron Fawcett and Ed Douglas, 2010

2011 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 MilanoPer l’edizione italiana tutti i diritti riservati

1a edizione Marzo 2011

www.versantesud.itISBN 978-88-96634-29-5

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Ron Fawcettcon Ed Douglas

MI CHIAMAVANOBANANA FINGERS

Traduzione di Lorenzo Frusteri

I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

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PrologoUn Centinaio di “extremes”1

Giù nella valle, le luci stavano salendo mentre il tramonto sprofondava nella notte. Misi la mano nel sacchetto della magnesite per prendere il sigaro che vi avevo nascosto prima di uscire di casa, lo accesi e mi sdraiai sulla piatta sommità di grit, espirando. Il fumo salì dritto come un fuso nell’aria. Non c’era un alito di vento. I miei occhi si chiusero e i miei stanchi muscoli cominciarono a rilassarsi. Proprio dall’altra parte della valle c’era il piccolo cottage dove vivevo. Avrei fatto un bagno e avevo bisogno di una birra. L’aria stava cominciando a raffreddarsi. Ma per il momento ero felice di restare immobile per qualche minuto e di godermi il tepore della roccia contro la mia schiena. Finalmente, ero in pace. Era stato un lungo giorno. Avevo parcheggiato la mattina sotto Froggatt Edge, la falesia di gritstone parzialmente cavata che contorna Big Moor, guardando il Derbyshire a ovest e con la città di Sheffield alle spalle. Era una limpida mattinata d’autunno e le ghiaie e le querce sotto Froggatt erano dorate. Sotto il sole l’aria si stava scaldando in fretta, sarebbe stato un giorno caldo, ma la falesia guarda a ovest e così per il momento era ancora in ombra. Non c’era nessuno in giro. Poggiai le mani sulla roccia e capii all’istante che l’aderenza sarebbe stata ancora buona dopo la fredda nottata. Mi sedetti e mi sfilai le pedule, allacciandomi le scarpette e cercando di non pensare a ciò che mi proponevo di fare. Era un progetto immane: cento vie di grado E in un giorno. Non avevo fatto una lista, e non avevo pensato troppo

1 - 1 Il titolo originale “a century of extremes” rappresenta un gioco di parole. Può significare infatti “un secolo di cose estreme, di estremismi” ma anche, appunto “un centinaio di vie di grado Estremo” (grado E nella scala inglese). NdT.

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precisamente a dove poter trovare il maggior numero di vie con il minor sforzo possibile. In realtà volevo solo una ragione, un obiettivo, che mi facessero stare all’aperto tutto il giorno, che mettessero alla prova il mio corpo, per scoprire di che cosa fossi capace. Non c’era un secondo fine. Non ero lì per gli sponsor. Non mi importava che ciò che facevo venisse riportato sulle riviste specializzate. Volevo solo ritrovare quell’abilità che sentivo di avere perso. Per quasi venti anni avevo passato ogni momento da sveglio o arrampicando o pensando all’arrampicata. Il mio corpo era rodato da un ininterrotto regime di allenamento che avevo iniziato ad accusare: centinaia di flessioni ogni giorno, e sessioni apparentemente interminabili di ripetute con la corda dall’alto su vie che un tempo avevo trovato dure. Avevo consacrato praticamente tutto ciò che possedevo allo sport. Che cosa mi era rimasto? Iniziai, volevo andare avanti, salendo slegato Downhill Racer, il problematico2 capolavoro del mio vecchio amico Pete Livesey, arcuando le sue prese scavate e poi proseguendo oltre, un vero gioiello di via. Arrampicai in discesa Long John’s Slab, la più facile E sulla sua sinistra. Due fatte, novantotto da fare. Spostandomi verso sinistra lungo la falesia continuai, scalando vie che avevo fatto così spesso che conoscevo ogni presa prima di raggiungerla. Potevo sentire l’energia crescere dentro di me, e cancellai dalla mia mente tutto ciò che non fosse salire la roccia. Tornai alla placca, recuperai il materiale e mi diressi a destra, verso un settore più liscio lì vicino, dove le vie erano ancora più impegnative. Ero sempre stato un po’ un “tiraprese”, più a mio agio su vie più strapiombanti, in cui entra in gioco la forza. Ma avrei risparmiato un sacco di energie per dopo, arrampicando su queste placche, anche se 2 - “Flawed” in inglese, letteralmente “difettoso”: in quanto via con prese scavate, artificiali. NdT.

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erano pericolose. Mi strinsi le scarpette, strofinando le suole con le palme delle mani per pulire ogni rimasuglio di sporco, e mi diressi in su, aggiungendo altre cinque vie alla mia tabella di marcia. Ancora più a destra la falesia diveniva più strapiombante, e sentii una fitta di preoccupazione. L’ultima volta che ero stato qui avevo subito una brutta caduta mentre scalavo slegato e mi ero rotto una gamba. Oggi non ci dovevano essere errori. Avevo preso il mio progetto così alla leggera che non avevo portato niente da mangiare. Ero affamato. Avrei dovuto continuare lungo il bordo della brughiera verso Curbar Edge e un’altra manciata di vie da salire slegato, invece scesi giù per la collina verso la macchina e corsi giù a Hathersage. Mi misi a sedere in un bar, sbirciando due commesse carine che giravano tra i tavoli. Sarei voluto restare e magari fare conversazione. E invece, eccomi ancora in strada, salire in macchina e ritornare verso Stanage. Non mi era mai piaciuta granché la grana della roccia a Stanage. Non reggeva il confronto con il grit con cui ero cresciuto nello Yorkshire. La trovavo piena di licheni e poco sicura, e di conseguenza non conoscevo così bene le vie che mi prefiggevo di scalare. Iniziando dall’estremità destra della falesia, provai un’idea che avevo escogitato per procedere più velocemente. Avevo portato le mie scarpette più vecchie, che ormai si erano allargate e quindi mi stavano grandi. Potevo camminare tranquillamente con quelle ai piedi tra una via e l’altra, ma facendo un paio di giri di nastro intorno alla tomaia speravo che sarebbero state perfette per quando dovevo arrampicare. Iniziando da The Dangler, mi mossi verso sinistra, maledicendo qualunque autore della guida avesse deciso di descrivere la falesia nel senso opposto. Dove ero? Inoltre, la mia trovata delle scarpette non funzionava, e quindi mi misi di nuovo il mio paio normale, accettando di massacrarmi i piedi per risparmiare tempo.

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Ero incavolato nero. Un vecchietto in calzoni alla zuava e grosse scarpette mosce mi acchiappò mentre mi spostavo lungo la falesia, provando ad attaccare bottone sui bei vecchi tempi, i tempi di Joe Brown e Don Whillans. Non volevo sembrare maleducato, ma ero molto impegnato e frustrato al contempo. Le cose non erano più tanto facili. Avevo la motivazione per cambiare marcia quando si trattava di scalare vie più dure, ma questo mi lasciava scoperto su vie di grado inferiore, sulle quali pensavo di non aver bisogno di lottare. Su una apparentemente innocua chiamata Fern Groove, mi ritrovai con piedi e dita che scivolavano via dalle prese, gli occhi che esaminavano la roccia davanti a me, perplesso su cosa fare dopo. Era solo E1, il grado più facile degli Extreme, ma mi ritrovai a scendere dalla via. Mi sentii scosso, stavo perdendo slancio3. Un poco più in là, incontrai due arrampicatori che riconobbi, Johnny Dawes e Martin Veale, che stavano provando difficilissimi progetti con la corda dall’alto. Ecco la nuova generazione che faceva sul serio. Avrei potuto abbandonare il mio piano proprio lì, e unirmi a loro per il resto del pomeriggio. Sembrava divertente. Ma ero timido con loro, e il fardello del mio obiettivo era ben piantato sulle mie spalle. Continuai. Ma il tipo di vie E che cercavo stava scarseggiando, ora. Salii slegato una placca chiamata Wall End Slab Direct, e poi il meraviglioso, sprotetto spigolo di Archangel, ricacciando indietro nella mia mente il pensiero che potessi essere in pericolo. Mi ero più o meno dimenticato che ero slegato, tuttavia mi sentivo sotto pressione. Facendomi strada attraverso le felci, ormai alte fino ai fianchi, che in quella stagione stavano diventando color bronzo, iniziai

3 - “Momentum” in inglese, letteralmente “inerzia”. Rappresenta anche una tecnica di arrampicata: passare da una presa all’altra senza fermarsi, ma sfruttando appunto l’inerzia dei movimenti del corpo. NdT.

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ad agitarmi per il tempo. Avrei probabilmente fatto più vie in un’altra falesia. Le sezioni di parete a Stanage stavano diventando più isolate e distanti. Dopo aver salito slegato Count’s Buttress, decisi di correre indietro lungo la sommità della falesia e giù al parcheggio, ora quasi un chilometri più su lungo la strada. Il mio bottino era di cinquantasei vie. In macchina, misi un album di Lou Reed e volai su per la collina, poi giù oltre Higgar Tor, fino al piccolo parcheggio sotto Burbage. Le vie qui erano più corte e l’aderenza più di mio gradimento. La falesia non prende il sole sino a sera, quindi la roccia era ancora fresca. Cambiai marcia salendo problemi corti ma strani, diversi gradi più duri di Fern Groove; mi sentivo forte e sicuro, ancora una volta pieno di fiducia, l’inerzia di nuovo dalla mia parte. C’erano molte vie dure l’una vicino all’altra e mi sentivo stranamente ispirato dai loro nomi: Above And Beyond The Kinaesthetic Barrier (Sopra e oltre la barriera cinestetica), Pebble Mill (Mulino del cristallo4). Devo essere sembrato pazzo a quegli arrampicatori che incontrai quel giorno. Correvo da una via all’altra in preda a una specie di frenesia. Non potevano certo sapere che avevo fatto cose come questa per la maggior parte della mia vita. Quando ero giovane, e spesso da solo, avevo imparato da autodidatta a scalare così, slegato, nelle falesie intorno alla casa di quando ero bambino: a Embsay, un piccolo, chiuso villaggio fuori da Skipton. In quei giorni, il mio appetito sembrava insaziabile. Mi sentivo assolutamente a mio agio muovendomi sulla roccia. Era il luogo in cui io dovevo essere e potevo rimanerci anche quando tutti gli altri se ne erano già andati al pub. Ero completamente dominato dalla mia passione per l’arrampicata. Il giorno si stava consumando, e sebbene io avessi spinto 4 - “Pebble” è un piccolo cristallo di roccia che sporge distintamente dal resto della parete liscia. NdT.

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il mio totale sulle settanta vie a Burbage, non mi restava che un paio d’ore di luce. Potevo essere più vecchio e più saggio, ora che ero sui trent’anni, ma non avevo certo cambiato le mie abitudini. Stava tuttavia diventando più difficile trovare quella scintilla che prima arrivava così facilmente. La mia vita sembrava meno sicura di quando ero un ragazzo che faceva impazzire i suoi genitori con tutti i guai in cui si cacciava. Il mio primo matrimonio era finito pochi mesi prima e non ero sicuro di dove stessi andando. Tutto sembrava incerto. Forse era questo che stavo facendo quassù: provare a dare un senso alle cose, nei luoghi che conoscevo meglio. Di nuvo in macchina, avevo una scelta. Scappare giù lungo la strada verso Millstone Edge, una cava di grit che conoscevo bene ed era vicina, o guidare qualche chilometro indietro verso Curbar, dove ero stato quella mattina. Millstone poteva essere più vicina, ma era più alta di Curbar, e questo avrebbe significato che avrei dovuto scalare di più. Con una ventina di vie ancora da fare, non pensavo che avrei avuto sufficiente tempo o energia. Così mi diressi a sud. Le falesie hanno ciascuna il suo carattere, e Curbar non fa eccezione. È un posto tosto, spesso strapiombante e minaccioso, più della sua vicina Froggatt. La prima grande parete è alta e leggermente appoggiata. Iniziai da una famosa via di Joe Brown, chiamata Right Eliminate, una strana fessura da corpo. Quando ero un giovane arrampicatore, con una corda di canapa intorno alla vita, legata a una cordaccia a trefolo, una via come questa era all’incirca la più dura del paese. Brown era stato uno degli eroi della mia gioventù, una leggenda per la mia generazione di arrampicatori, adulti nei tardi anni sessanta. In più, lui era un eroe della classe operaia, con un passato come il mio. Non venivo da una famiglia agiata che potesse sostenere la mia eccentrica passione per l’arrampicata. Mio padre guidava un camion per vivere, e mia madre lavorava al vicino mulino.

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Scorrendo lungo la falesia, incontrai John Allen che guidava un amico su per la sua piccola, bella placca chiamata Kayak. John era un maestro del grit che aveva impressionato il mondo dell’arrampicata da ragazzo, alla metà degli anni settanta, un vero e proprio wunderkind�. Un po’ più giovane di me, in quel momento sembrava rilassato, era in giro per divertirsi e senza preoccuparsi di dove stesse andando. Avevo bisogno di continuare a muovermi. La sera si stava esaurendo e i moscerini erano usciti a darmi la caccia lungo la falesia. Il mio cervello mi faceva male per la tensione di aver arrampicato così a lungo slegato. Guardai il mio villaggio attraverso la valle e desiderai essere a casa. Ma non avevo ancora finito. Al momento in cui raggiunsi il settore di Apollo, si erano accese le luci nella valle. Mi tolsi la maglietta, misi a posto la mia attrezzatura e corsi verso la zona di Deadbay Crack, mezzo arrampicando e mezzo saltando giù proprio lungo la fessura e poi ancora su per l’incavo. Dopo essere corso ancora su al settore di Apollo, gli ultimi, pochi problemi che dovevo scalare erano tutti i miei favoriti. Sentivo che il traguardo era vicino. Il sole era sparito da un pezzo, ma sapevo, ora, che ce l’avrei fatta. Quando le misi tutte insieme, le mie cento vie sommate facevano 1200 metri di arrampicata. Avevo anche camminato e corso più di venti chilometri muovendomi tra le falesie. Le gambe mi facevano un po’ male. La pelle delle dita, invece, dopo decenni di arrampicata era intatta. Quando arrampicavo forte, la gente spesso mi chiedeva quale sarebbe stato il mio prossimo passo. È una domanda che molti atleti devono arrivare a temere, prima o poi. Ed è una domanda che però la gente smette di fare dopo un po’, quando comincia a pensare che per te non ci sia un

� - In tedesco. “Ragazzo prodigio”. NdT.

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prossimo passo da fare. Non mi importava. Quando uscii di scena, avevo ancora un sacco di altri progetti. Guardandomi indietro adesso, sembra un altro mondo, specialmente quando ero solo un ragazzo cresciuto a Embsay. Ma posso ancora ricordare l’eccitazione che sentivo a scuola, mentre sognavo a occhi aperti, morendo dalla voglia di tornare fuori, ancora sulle brughiere, ad arrampicare.

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il giro del latte

Mio padre non era un gran chiacchierone. Anche quando passavo tutto il giorno con lui, non parlavamo quasi mai. Era uno di quei tipi degli Yorkshire Dales che semplicemente tirava avanti. Il suo lavoro era guidare un camion attraverso le fattorie locali per raccogliere il latte per il Milk Marketing Board. In quei giorni, alla metà degli anni sessanta, il latte si portava ancora in fusti di alluminio. Papà scendeva giù dalla cabina per aiutare gli allevatori a caricarli sul pianale del suo camion. Amavo andare con lui. Posso ancora vedere il suo bel viso con la sua ampia zazzera sulla fronte, mentre studiava la strada al mattino. Durante le vacanze scolastiche, quando riuscivo a con-vincerlo, sfinendolo, a portarmi con sé, papà mi faceva alza-re verso le quattro e mezzo: le prime luci dell’alba in estate, ma buio pesto in inverno. Come prima cosa accendeva il fuoco. Papà amava la routine. Posso ancora vederlo mentre appoggia i rotoli di giornale che aveva accartocciato la notte prima sulla griglia, per poi metterci con cautela sopra dei le-gnetti, tutti della stessa lunghezza, e infine la giusta quantità di carbone. Il fuoco avrebbe riscaldato la casa e l’acqua per quando la mamma e mia sorella si sarebbero alzate, qualche ora dopo. Poi avrebbe fatto il caffè. Era, per quanto mi ricordo, l’unica persona in tutto il villaggio a bere caffè. Sembrava incredibilmente esotico. Lo ordinava dal negozio del vil-laggio ed era fatto arrivare apposta, a un costo esorbitante. Era proprio caffè macinato, non solubile! Lo metteva con il cucchiaino in una caraffa e poi lo filtrava con un colino da tè. A nessuno era permesso toccarlo. Mi sembra ancora di sentire quell’aroma diffondersi per tutta la casa. Ne beveva una tazza subito, e preparava un thermos con il resto per la

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sua seconda colazione. Avrei sempre voluto chiedergli per-ché bevesse caffè invece che tè come tutti gli altri papà, ma non l’ho mai fatto. Le migliori erano le mattine estive, quando l’alba spun-tava proprio mentre armeggiavamo in cucina. Per colazione prendevo un panino con la marmellata e una tazza di tè, e un altro panino con la marmellata per pranzo, poi partivamo. Papà imboccava la strada secondaria da casa nostra a Emb-say verso nord, Skipton e poi su verso Grassington, a ovest di Crookrise ed Embsay Moor verso Rylstone. Imparai a co-noscere tutte le fattorie: Grange, Raise Gill, Buckden. C’era un cane con tre zampe alla fattoria sulla strada tra Coniston e Kettlewell, e un cartello a Oughtershaw, sperduta nel nulla, che diceva “attenti ai serpenti”. Penso che queste gite siano state le mie prime avventure. È difficile spiegare quanto questi luoghi significhino per me. Sin da giovane, li esploravo tutto solo. Volevo sapere cosa ci fosse dietro l’orizzonte, dietro il profilo delle colline che dominavano il mio mondo. A Embsay, a sud c’era una alta cresta di calcare, se guardavi a nord invece c’erano Em-bsay Crag e Crookrise. I miei genitori non avevano un’auto, e andavamo raramente in esplorazione. Io amavo girovagare nelle brughiere; potevo andare a Deer Gallows e non tornare fin quando non fossi stato stanco o affamato. Amavo sem-plicemente stare all’aperto, nella natura, a guardare gli ani-mali selvatici e contento di essere da solo. Quando iniziai ad arrampicare, sebbene amassi farlo e sapessi di essere bravo, all’inizio fu soprattutto per starmene nelle brughiere. Ritornavamo dal giro del latte alle cinque del pomeriggio, e la mamma ci faceva trovare la cena in tavola. Se papà era tranquillo, la mamma era l’opposto. Amava chiacchierare. Papà voleva solo una vita senza scossoni. Si svegliava presto sei giorni su sette, e quando tornava a casa era esausto. Vole-va solo sedersi e leggere il giornale. La domenica la passava

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controllando il camion. Il fluire regolare dei giorni signifi-cava tutto per lui. La gente ogni tanto mi domanda se mio padre fosse appassionato di sport, come me, ma era troppo stanco per fare qualunque cosa tranne lavorare. Quando sei cresciuto con persone che lavorano così duramente è diffici-le pensare che arrampicare possa essere il tuo lavoro. La mamma era più aperta e più socievole. Erano così differenti, e qualche volta per questo litigavano. Lei era fi-glia unica e suo padre, Billy, era arrivato da Culcheth nel Lancashire più o meno al tempo della grande guerra. Billy gestiva un mercato ortofrutticolo e vendeva frutta, verdura e altri generi alimentari in un piccolo negozio ricavato in casa. Era alto, con un viso ampio e aperto, un effetto ingiganti-to dalla piccola statura di sua moglie Winnie. Winnie, mia nonna, era di qui, di Skipton. Erano persone generose. Mi ricordo ancora il giorno della morte di mia nonna Winnie. Ero appena adolescente, e restai a piangere a più non posso sulla panchina del loro giardino. Billy aveva un debole per le frattaglie e mi offriva sempre strani cibi, come stufato di cervello, cotto per un’eternità nel Rayburn�, o trippa cruda, stagionata con sale e aceto. Mi diceva: «Prova un po’ di que-sto, Ronald, ti farà crescere i peli sul petto!» Io volevo essere uomo e intendevo dimostrarlo, ma sommergevo quella roba con l’aceto per nasconderne il sapore. Anche Billy amava parlare. Mentre era fuori a lavorare in giardino, attaccava bottone con qualunque passante. Ve-devo persone saltare oltre il muro e sgattaiolare dietro casa attraverso i campi, pur di non essere catturati e non doverla ascoltare per la successiva ora! Aveva questo accento fanta-stico, con una predominanza dello Yorkshire, ma con ancora un po’ del suo originale Lancashire.

� - Il Rayburn è un modello di forno molto diffuso. NdT.

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Vivevamo tutti vicino, non solo la famiglia di mia ma-dre, ma anche quella di mio padre. Da bambino, tutto il mio mondo era racchiuso in poche centinaia di metri. Embsay è un piccolo villaggio, e quando nacqui si stava accrescendo. C’era una vecchia filanda ancora in funzione, durante la mia infanzia, e dove appunto lavorava mia madre, che tuttavia, quando noi figli eravamo piccoli, aveva smesso per qualche anno. Lavorai lì da giovane, e mi ricordo ancora le chiac-chiere e gli scherzi che giravano tra le donne. Era il posto perfetto per tenere banco, per la mamma! Come i suoi genitori, era formidabile in cucina. Tornando a casa da scuola, da ragazzetto, la trovavo alle prese con il forno: focaccine dolci, pane. Aveva una forte fisicità, e se qualcosa andava storto mi abbracciava. Papà non mi toccava mai, eccetto che per darmi un bello scapaccione dietro la testa se avevo fatto qualcosa di male. Qualche volta provo a spiegare alle mie figlie come era il mondo a quel tempo, come era crescere tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta nello Yorkshire rurale, e mi rendo perfettamente conto di sembrare un vecchio strambo. Ma la vita era così diversa. Quando sono nato io, nel maggio del 1���, la Seconda Guerra era finita da appena dieci anni, e non si era esaurito quel senso di austerità e parsimonia che aveva caratterizzato quel periodo. Giravano pochi soldi. Se volevo qualcosa, dovevo guadagnami il denaro per comprarla. Comunque, non c’era neppure molto da comprare. Billy Bate aveva un’auto, ma il mio altro nonno no, e papà aveva solo il camion. Non avevamo il telefono quando ero piccolo, e la tivù, in bianco e nero, aveva solo due canali. A quel tem-po le televisioni si affittavano, forse perché erano meno af-fidabili e troppo costose per essere comprate. Camminando lungo Skipton, si vedevano apparecchi appoggiati sul piane-rottolo di quelli che non ce l’avevano fatta a pagare le rate, in attesa di essere ritirati. Papà aveva il suo giornale preferi-

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to, e tutte le settimane ricevevamo i fumetti “Victor”, che lui leggeva per primo, minacciando di darci uno scapaccione in caso contrario. Amavo leggere di Alf Tupper, “il duro della pista”. Veniva dalla classe operaia come me, e nonostante i più strenui sforzi dell’establishment dello sport, riusciva sempre a vincere. Andare a Skipton era una botta di vita. Era un posto fio-rente nei primi anni sessanta, orde di operai che fuoriusci-vano dai cancelli delle fabbriche come un’onda di marea, prima che gli opifici chiudessero. Nonostante ciò non anda-vamo mai a teatro, e non ero tipo da film. Non ero mai stato in un ristorante fino quando non andai negli Stati Uniti per la prima volta. Papà e mamma pensavano che perfino la pizza fosse cibo straniero, figuriamoci il curry, era fuori dal mon-do! La vita della classe operaia in un piccolo villaggio dello Yorkshire era profondamente conservatrice, e suppongo che i comportamenti che le persone tenevano allora, oggi sareb-bero considerati come gravi pregiudizi. Ma c’era un forte senso della comunità e le persone si proteggevano a vicenda. Ho sperimentato quello strano paradosso del nord, di vivere in un posto che è allo stesso tempo estraneo e partecipe della nostra isola. Mi ricordo di quando, nei primi anni settanta, ritornai a casa da un viaggio nella Yosemite Valley, dove la mia men-talità era stata ampliata, e il mio corpo messo alla prova, e mi distesi sul prato davanti a casa nel sole estivo a pensare a tutto ciò che avevo appena passato e a quanto tutto a Ebsay fosse tranquillo e stabile, in confronto all’America. La cosa più straordinaria è che nessuno dei miei genitori mi aveva mai chiesto niente in proposito. Si astenevano dal farlo, an-che se in realtà avrebbero voluto sapere. Si erano limitati a dire: «Sei stato via figliolo?», e questo era tutto. Non molto prima che morisse, mi ricordo che ero sedu-to con papà a guardare il telegiornale. C’era un servizio su

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degli avvenimenti in America, e papà, con un cenno verso lo schermo commentò: «Tu ci sei stato lì, figliolo, non è vero?». C’era una punta di orgoglio nella sua voce. In tutti quegli anni non aveva mai detto una parola, ma tutto era arrivato in profondità. Papà proveniva da una famiglia di allevatori dello Yorkshire del nord, nelle Dales. Era nato nel 1�2�, proprio al di là del confine nella valle di Lancashire’s Ribble dove suo padre, Fred Fawcett, lavorava come mezzadro a Bashall Eaves. In seguito a un delitto irrisolto nel 1�34, Bashall Ea-ves divenne noto come “Il villaggio che non parla”. Mia sorella aveva tutte quelle vecchie foto dell’epoca vittoria-na, raffiguranti famiglie dello Yorkshire, segnate dal mal-tempo, che guardavano dritto nell’obiettivo fuori da fattorie che probabilmente ora sono occupate da impiegati. Nonno Fawcett traslocò in una casa a due passi dalla nostra. Aveva sposato Frances, una donna di Hubberhole. Il fratello di lei era un tipo benestante di nome Jeff, che aveva comprato una bella vecchia fattoria e la terra di Embsay che dà su Skipton. Fred Fawcett aveva lasciato Bashal Eaves per lavorare nella fattoria di Jeff, che produceva principalmente latticini. Jeff e sua moglie Ethel, la mia prozia, si rivelarono esse-re un po’ più eleganti di noi. Si stavano facendo strada nel mondo. Ethel aveva un guardaroba che nessuna altra donna della famiglia poteva permettersi. Indossava cappelli, guan-ti e abiti per le feste. Le altre donne non avevano abiti del genere. All’inizio degli anni cinquanta, Jeff costruì alcune villette su un piccolo appezzamento della sua terra, a meno di cento metri dalla fattoria dietro il bungalow dove viveva nonno Bate. Quando furono finite, papà e mamma si trasfe-rirono in una di esse. Era moderna, ma non c’era il riscalda-mento e accendevamo il fuoco nel salotto solo a Natale. Se ti lamentavi del freddo, ti veniva dato un lavoro da fare o ti veniva detto di metterti un maglione. Ora queste case vengo-no vendute a 2�0.000 sterline…

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A quel tempo, i bambini non chiedevano ai genitori come si fossero conosciuti e che cosa amassero l’uno dell’altra. Erano solo papà e mamma, così fissi nelle loro abitudini come le stelle e la luna. Erano lì e basta. Se facevo qualcosa di male, papà mi assestava un buffetto dietro la testa, e se ero triste o preoccupato mamma mi abbracciava. Guardandomi indietro, fu questa crescita molto sicura e piuttosto protettiva a darmi una passione per la natura che dura da tutta la vita. Anche se vivo in Derbyshire da trent’anni, considero ancora lo Yorkshire come casa. Sapevo, comunque, che la nostra famiglia era più com-plicata della maggior parte delle altre, anche se non ne par-lavamo. Tanto per cominciare, c’era zio Norman. Norman era il fratello più giovane di papà, e viveva con loro padre nel villaggio. Era stato uno studente brillante, aveva vinto una borsa di studio per la Ermysted’s Grammar a Skipton e poi una per Cambridge. Era il primo della nostra famiglia ad avere un simile curriculum di studi. Prese una laurea di pri-mo livello e divenne capo patologo per la polizia del North Yorkshire. Poi le cose iniziarono ad andare male. Non è mai riuscito a raccontare cosa successe. Forse lo stress diven-ne troppo forte per lui, o forse era semplicemente fatto in quel modo. Era entrato in una realtà completamente estranea alle sue esperienze di bambino, e forse si sentiva perso, in-trappolato tra i due mondi. Qualunque sia stata la ragione, la sua salute mentale cominciò a precipitare. Fu ricoverato in un ospedale psichiatrico e poi tornò a vivere con nonno Fawcett. Era qualcosa di cui non si parlava mai in famiglia. Norman, quando ero bambino, passava il tempo a fare strane cose, come andare in giro per il villaggio nudo e spa-ventando a morte i vicini. Papà diceva che faceva così per non dover lavorare. Altri in famiglia, me compreso, trova-vano questo comportamento imbarazzante. Ma per qualche ragione io mi trovavo bene con zio Norman. Non faceva

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male a nessuno. Probabilmente anche lui mi voleva bene, visto che quando morì mi lasciò �00 sterline. Tutto il resto, compresa la casa di nonno Fawcett, andò in beneficenza, il che causò un certo trambusto. Eravamo in quattro figli, e io ero il maggiore. Dopo di me c’era mia sorella Alison, di sei anni più giovane, e poi Ri-chard, che ora fa l’allevatore a Wigglesworth, North Yorkshi-re. Il più piccolo, Clifford, fa il meccanico e ha un negozio di ferramenta. Lavora nel soccorso stradale vicino Bradford. Entrambi i miei fratelli hanno una propria famiglia adesso, e nessuno di loro è mai stato neppure lontanamente interessato all’arrampicata. Avevamo anche un fratellastro, Bryan, che era di cinque anni più grande di me. Sapevamo che Bryan aveva un altro padre, ma non ne conoscevamo l’identità e nemmeno fa-cevamo domande in proposito. Fin quando non sono stato molto più grande, non ho mai pensato a quello che potesse significare, o alle difficoltà e sofferenze che dovesse cau-sare. Quando ero giovane, era un dato di fatto e basta. Mia madre aveva avuto una storia con uno del villaggio quando era appena una ragazza, ed era rimasta incinta. L’aborto non era legale allora, e del resto lei avrebbe tenuto il bambino comunque. I suoi genitori erano straordinari. Bryan non sco-prì mai chi fosse suo padre. La gente dà per scontato che in passato ci fosse meno tolleranza, ma in tutta onestà, nessuno guardò mai Bryan o la mamma dall’alto in basso, neppure ne sparlò. Penso che ci abbia aiutato il fatto di avere così tanti parenti nel villaggio. Bryan viveva con nonno Bate, ma lui e mio padre sem-bravano andare d’accordo. Quando lasciò la scuola, a quin-dici anni, Bryan si imbarcò nella marina mercantile. Ogni volta che era via, io ne approfittavo per sgattaiolare in came-ra sua e ascoltare i suoi dischi. Era un grande appassionato di rock and roll, e aveva un bel paio di scarpe a punta nel suo

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armadio. Io mi provavo anche quelle. Quando si presentò per il suo corso di sei settimane, gli dissero che si doveva tagliare i capelli. Prima, però, riuscì a dire al barbiere che era stato un gran bastardo a tagliargli il suo ciuffo da rocker. Dopo il periodo di formazione, iniziammo a ricevere carto-line da tutto il mondo. Poteva tornare a casa con qualcosa di esotico come un ananas. Un ananas! Noi pensavamo che si trovassero solo in scatola! A quel punto, papà aveva smesso di lavorare per il con-sorzio del latte. Quando passarono alle autocisterne, gli dis-sero che avrebbe dovuto fare ancora formazione e prendere una nuova patente per guidarne una. Papà non aveva inten-zione di farlo, così Jeff comprò un camion e papà iniziò a lavorare per lui, caricando il mangime dai moli a Liverpool e consegnandolo agli stessi allevatori da cui prima prendeva il latte. Quando andò in pensione, avevano sei camion, e papà lavorava ancora tutto il giorno. Mi ricordo che un giorno, di mattina presto, andai con papà in macchina giù per la East Lancs Road, a prendere un carico e a trovare Bryan che era in porto. Io ero appena un adolescente e Bryan ci portò in giro mostrandoci la sua nave. Stavo crescendo, e continuavo a sbattere la testa nelle para-tie. Bryan e papà si sbellicavano dalle risate: «Rieccolo!». Vedere mio fratello che se ne spariva in giro per il mondo mi sembrava quasi insopportabilmente eccitante. Iniziò a fare fotografie, divenne piuttosto bravo, e ci mostrò delle imma-gini di luoghi come il Canale di Suez. Un po’ del fascino e dell’eccitazione del mondo si era trasferito anche su di lui. In un certo senso, volevo provare le stesse sensazioni di Bryan. Gite come quella a Liverpool mi permisero di distaccarmi un po’ dalla vita di Embsay. Andavamo in vacanza, certo, ma non spesso. Ricordo di una settimana a Flamborough Head quando avevo undici anni. E mi ricordo di essere salito sul Flying Scotsman quando si fermò alla stazione di Embsay,

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una volta. Inoltre c’è una foto in bianco e nero di noi quattro figli fuori da una roulotte fissa a Scarborough. Sono sicuro di essermi divertito, ma ho ricordi più for-ti delle visite di famiglia ai parenti di papà nel Dentdale. Facevano soprattutto i mezzadri, come mio nonno, oppure lavoravano nelle ferrovie sulla linea Settle-Carlisle. C’era-no delle regole non scritte, per le visite di famiglia nello Yorkshire rurale degli anni sessanta. Tanto per cominciare, non si andava con l’intento di trattenersi. La gente non aveva una camera degli ospiti, e anche se l’avessero avuta, la mag-gior parte dei nostri parenti avrebbe dovuto alzarsi presto la mattina seguente per andare al lavoro. Sarebbe stata una vera imposizione, aspettarsi di restare per la notte. Prendevamo in prestito il vecchio furgone Bedford di Jeff e andavamo su per le Dales per il pranzo, la domenica, per tornare a casa la sera stessa. Noi ragazzi ci sedevamo sul retro, tra gli attrezzi, attenti a non sporcarci i vestiti di olio. Le visite a zio Jack erano le mie preferite. Per prima cosa, viveva in un luogo selvaggio, isolato, in cima al Dentdale, proprio il tipo di posti che io iniziavo a cercare per me. Non aveva elettricità, cosa abbastanza normale per quelle zone negli anni sessanta, e usava ancora un bagno esterno, il che rendeva le nostre visite ancora più avventurose. Ma soprat-tutto faceva quel genere di cose che trovavo maggiormente eccitanti, come pescare il salmone di frodo. Il brivido di po-ter essere beccati aggiungeva proprio quel tipo di emozione per cui avevo sviluppato un certo gusto. Una volta, mentre ritornavamo a casa da una spedizione di frodo, Jack notò un aiuto sceriffo prima che lui vedesse noi, e mi passò il pesce che avevamo preso per farmelo nascondere sotto il cappotto. Il vice sceriffo conosceva i trucchi di Jack, ma non avrebbe certo perquisito un ragazzetto. Ricordo ancora che cercavo di sembrare innocente, mentre il mio battito cardiaco decollava. Devo confessare che, in un certo senso, seguii le orme di

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zio Jack. Ero spesso nei guai. Ogni volta che potevo, uscivo, su per le brughiere o giù al fiume, pensando a cose da fare per sfuggire alla noia. Il mio migliore amico e complice era Martin Brewster, il figlio del muratore del paese, che abitava quasi alla porta accanto a nonno Fawcett. Era difficile dire chi di noi fosse più discolo. Le mie prime arrampicate erano parte delle nostre avven-ture, solo un altro modo per stare all’aperto. Arrampicare era solo una delle tante scelte che avevamo a disposizione. Qualche volta vedevamo climber su a Crookrise, e li imita-vamo salendo sulle pareti con le calosce o con scarpe di tela, a seconda che stesse o no piovendo. Martin non si appas-sionò mai all’arrampicata. Mi ricordo che una volta, men-tre ci stavamo arrampicando su per delle placche di calcare, Martin si fece prendere dal panico, si girò e iniziò a correre giù finendo dritto in una recinzione di filo spinato. Si tagliò il braccio piuttosto malamente, e dovetti aiutarlo ad arriva-re fino a casa. Quell’incidente mi costò caro! Sua madre lo riferì subito a mio padre e io finii in castigo in camera mia. Questa era davvero la peggiore punizione per me, perché mi impediva di fare ciò che mi rendeva più felice: attività all’aria aperta. Qualche anno dopo, sarei sgattaiolato fuori dalla finestra e saltato giù, il che avrebbe solo fatto infuriare ancora di più mio padre. «Cosa pensi di fare buttandoti dalla finestra della camera? Ti ammazzerai e basta!». Il nostro piano più geniale fu la costruzione di un tubo-bomba. Non posso dire, onestamente, di chi fosse l’idea, o dove avessimo preso le nozioni per fare qualcosa di così stupido, ma sono sicuro che c’entrava del fertilizzante, che si trovava facilmente in una fattoria, e un tubo da impalca-ture. Infilammo un’estremità per terra, l’accendemmo e ci ritirammo a distanza di sicurezza. Il tubo eruttò una bella fiammata, che per un po’ continuò a bruciare. Quasi subito, però, il fondo del tubo iniziò a riscaldarsi e tutto il contenuto

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si rovesciò per terra. Non sarebbe stato niente, se non aves-simo commesso l’errore di accendere l’ordigno vicino alla strada che portava a Skipton. E così capitò che il poliziot-to della zona stesse passando in bicicletta proprio quando il tubo si rovesciò proiettando una grande fiammata attraverso la strada. Proprio al momento sbagliato. Mi presi una sonora manata dietro la testa per questo fatto. Oggigiorno, saremmo stati arrestati con l’accusa di terrorismo. Non tutte le avventure erano così delinquenziali. Pren-dendo l’ispirazione da zio Jack e dalla pesca di frodo al sal-mone, sviluppai un tocco magico per pescare le trote a mani nude. Si dicono un sacco di cose sbagliate su questa pratica. È molto più semplice di quanto ti vogliano far credere. Di sicuro non c’entra per niente il solletico�! Molto semplice-mente basta sbatterle fuori dall’acqua. Jack mi aveva mo-strato un gran trucco per prendere il salmone. Si nascondono sotto le rocce con la testa, lasciando fuori la coda: lui faceva scivolare sotto uno strano, minaccioso triplo amo, poi lo ti-rava su improvvisamente, acchiappando la coda e tirando fuori il salmone. Vendevo ogni trota che pescavo per uno scellino o due a nonno Bate, che a sua volta le rivendeva nel suo negozio. Inoltre potevo guadagnare qualche soldo anche tagliando i cardi nella pastura delle mucche per nonno Fawcett. Di tanto in tanto, lo aiutavo a portare il bestiame lungo la strada fino al mercato di Skipton, insieme a uno del villaggio che si chiamava Howard Peel, un vero personag-gio. Howard era conosciuto tra noi ragazzi con il sopranno-me di “Wuggins And The Egg”� perché girava sempre per il villaggio con un cesto di uova, di giorno o di notte, vestito di vecchi abiti da fattoria usati. Wuggins non aveva mai det-to una parola a nessuno fino agli ultimi anni della sua vita, � - La pratica della pesca a mani nude in inglese è detta “tickling”. Letteralmente “fare il solletico”. NdT.� - Letteralmente “Wuggins e l’uovo”. NdT.

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quando aveva imparato a leggere e scrivere, e per questo era finito sul giornale. Da allora non si era più zittito. Non sorprende, visto tutto il tempo della mia gioventù passato all’aperto, che la scuola fosse un po’ dura. Molti ar-rampicatori, mi risulta, hanno passato ore e ore di lezione guardando fuori dalla finestra e sognando la libertà. Come molti ragazzi del villaggio andai alle elementari con i panta-loni corti e un paio di zoccoli. Per mia fortuna, quando pas-sai alle medie a Skipton mi venne dato un paio di pantaloni lunghi, perché i ragazzi che portavano ancora i calzoncini venivano presi in giro senza pietà per il fatto di essere pove-ri. Tutti, o quasi tutti, compravano i vestiti nello stesso nego-zio a Skipton. Se avevi fatto un po’ di soldi, allora cambia-vi negozio, e così la gente avrebbe saputo che te la passavi bene. La scuola elementare del villaggio, che avevano frequen-tato anche papà e mamma, aveva abbastanza studenti per formare tre classi con tre insegnanti, una delle quali, la si-gnora Atkins, viveva di fianco a noi a Brackenley Avenue, da dove poteva continuare a sorvegliarmi anche fuori dalla classe. A essere sinceri, le elementari erano più o meno un prolungamento della vita al villaggio. Andavo abbastanza bene, mi sentivo sicuro e felice, e sembrava che andassi d’accordo con gli insegnanti, e perfino con il signor Shillito, il preside. Questa situazione proseguì, almeno all’inizio, anche quando arrivai alla scuola media di Aireville. Non posso dire di avere bei ricordi di quel posto. Aveva aperto solo pochi anni prima, per aumentare le possibilità educative, di fronte all’incremento delle nascite nel dopoguerra. A Skipton c’era già un consolidato ginnasio, ma a quanto mi ricordo non ho mai avuto nessuna reale possibilità di entrarci. C’erano solo

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pochi posti riservati ai bambini del nostro villaggio, e io non ero uno di questi. Gli insegnanti ad Aireville erano un misto di tipi vari, dai ruba-stipendio a quelli che si impegnavano veramente con i ragazzi. Al primo gruppo apparteneva il mio insegnante di educazione fisica. Per tutti i cinque anni delle medie di Ai-reville, dal settembre del 1���, scrisse esattamente lo stesso giudizio sulla mia pagella: “Si impegna a fondo”. Tecnica-mente parlando era vero: mi impegnavo sul serio. Mi piace-va l’attività fisica. Avevo iniziato a crescere prima dei miei compagni di scuola, e svettavo sopra i miei fratelli. Di solito facevamo un po’ di corsa campestre, e ne andavo matto. Ci veniva detto di correre da un punto a un altro e poi tornare indietro, e ci dovevamo arrangiare. Correre mi piaceva per la libertà che mi dava. La scuola aveva un programma di attivi-tà all’aperto, e includeva l’arrampicata. Era l’epoca di “Ou-tward Bound�”, e si pensava che la natura dovesse forgiare il carattere, quindi ritengo che molte scuole avessero quel tipo di programmi. Ma visto che non brillavo in altre attività più comuni come il calcio, agli occhi del mio insegnante di educazione fisica non avevo il diritto di partecipare alle gite di arrampicata fuori dalla scuola. Era così frustrante perché sapevo che a molti dei ragazzi l’arrampicata non interessava per niente. La scuola però organizzava gite escursionistiche al Lake District, un nugolo di bambini principalmente svogliati si snodava come un serpentone tra le felci. A quel tempo, sta-re a lungo in macchina mi dava la nausea. Vomitavo fuori dal finestrino dell’autobus dopo venti minuti. Poi, affamato perché non avevo più niente nello stomaco, divoravo il mio pranzo al sacco, rimanendo senza nient’altro che aria fresca per il resto della giornata, quando saremmo arrivati a desti-� - Letteralmente “Verso l’aria aperta”, un’organizzazione internazionale di scuole che mirava a formare gli alunni tramite la vita all’aperto. NdT.

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nazione. Ma adoravo stare tra le colline. Una delle giovani guide, reclutate per aiutare durante le gite, era Brian Swales, di un paio d’anni più grande di me, delle medie di Aireville. Brian era un ragazzone amichevole, con la passione per le Ford Cortina di duemila di cilindrata. Quando io iniziavo ad arrampicare, lui mi scarrozzava in macchina attraverso i Lakes a tutta velocità. Siamo amici da più di quarant’anni. Ritengo che la dolorosa scoperta che la maggior parte delle persone, perfino degli insegnanti, non si interessa real-mente di te, faccia parte del nostro processo di crescita. Ero e sono ancora abbastanza timido, e da ragazzo volevo compia-cere gli altri. “Coscienzioso” è un giudizio che ricorre spesso nelle mie pagelle, soprattutto i primi tempi ad Aireville. Ma la società non si aspetta molto da una ragazzo di campagna in una oscura scuola media del Nord durante gli anni sessan-ta. Gli insegnanti probabilmente davano per scontato che noi avremmo fatto le stesse cose dei nostri genitori, soprattutto lavori manuali e ripetitivi, come quello di mio padre. Con un po’ di fortuna, avrei avuto la possibilità di mettere in pratica le mie conoscenze di matematica, la materia in cui riuscivo meglio. Da qui derivò un certo disincanto per la scuola, e per il suo sistema costruito contro gente come me. Quando scoprii l’arrampicata, questo mi rese doppiamente ansioso di riuscire. Ma intanto maturai un atteggiamento aggressivo. Loro non erano interessati a ciò che mi appassionava? Bene, allora io non sarei stato interessato a ciò che loro mi offriva-no in cambio. La mia ultima pagella di inglese lo riassume perfettamente. “Ronald ammette la sua mancanza di interes-se e non sembra essere pronto a fare lo sforzo necessario per migliorare. I suoi compiti tendono a essere poco curati, ma le sue capacità emergono quando parla o scrive di qualcosa che lo entusiasma.” A giudicare da questo apprezzamento, la mia insegnante di inglese non riteneva che le cose che mi entusiasmavano

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fossero importanti per i miei futuri successi. Come avrebbe potuto, l’arrampicata, significare qualcosa di diverso da un passatempo per rompere la routine di una stupida vita lavo-rativa? Un insegnante però mi incoraggiò. George Spence-ley aveva partecipato a un’importante spedizione di studio in South Georgia, guidata dall’attore ed esploratore Duncan Carse alla metà degli anni cinquanta. Carse era famoso a quel tempo perché impersonava Dick Burton alla radio, e il suo studio si sarebbe rivelato molto utile in seguito, quando nel 1��2 le truppe inglesi sbarcarono in South Georgia du-rante la crisi delle Falklands. Il signor Spenceley insegnava geografia, e io amavo sentire le storie delle sue avventure. Mi dava articoli da leggere e mi incoraggiava. Sentivo di parlare a uno spirito più nobile, anche se avevamo origini molto differenti. Non so se arrampicasse, ma negli anni ses-santa c’era più di una sovrapposizione tra arrampicata ed esplorazione in generale. Si sentiva che erano collegate in un modo che ora si è perso. Se avevo fatto qualcosa di fan-tastico nel fine settimana, allora volevo raccontarlo al signor Spencely. Quindi la mia strada verso l’arrampicata, diversamente da molti altri, non passò attraverso la scuola o gli Scouts, oppure tramite amici più grandi già esperti. Andando in giro per le brughiere vicino a casa, sotto falesie come Deer Gallows o Crookrise, avevo visto climber all’opera, ed ero semplicemente curioso di provare. All’inizio ero o da solo o con Martin, anche se dopo essere precipitato nel filo spina-to facendosi male, perse interesse abbastanza rapidamente. Quel fatto accadde alla cava di Haw Bank, che al tempo ap-parteneva alla Skipton Rock Company. Al suo apice produ-ceva anche �0 mila tonnellate di calcare all’anno. Haw Bank guarda verso Embsay a sud: per me avere una grande falesia di calcare praticamente di fianco a casa era una benedizione, e al contempo poter arrampicare su meraviglioso grit nelle

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brughiere a nord. Alcuni ritengono che io abbia una parti-colare predilezione per il grit, visto che ho incominciato ad arrampicare su quel terreno e ancora ci scalo così spesso, ma non è del tutto vero. Amavo il calcare dello Yorkshire, che è di qualità molto superiore a quello del Peak, e iniziai ad amarlo fin dal primo momento. Oggi, i climber restano meravigliati di fronte a quel gran-de buco nella collina che si incrocia andando in macchina su verso Crookrise o Deer Gallows. Ma negli anni sessanta Crookrise era molto popolare tra i climber dello Yorkshire, prima che le vie venissero fatte saltare in aria in tanti pez-zettini e trasformate in cemento e autostrade. Ora la cava è recintata, quindi è difficile dire quanto ne sia rimasto, ma mi ricordo placche alte anche 3� metri, un lusso raro su calcare. Già abbastanza giovane ci salivo slegato le vie più facili, fino al “Severe10” nella scala attuale, spesso con gli stivali Wel-lington11 ai piedi, la calzatura standard per molte delle mie avventure all’aperto di quando ero ragazzo. Non sorprende che ricevessi commenti da parte di veri arrampicatori, se-riamente preoccupati alla vista di un ragazzetto – dovevo avere appena quattordici anni a quel tempo – che si aggirava dappertutto su un’alta cava di calcare senza le scarpe giuste. Mi sembra sconcertante adesso che io abbia fatto una cosa del genere. Era una follia, davvero. Ma dimostra che avevo una vera passione per le solitarie e che possedevo i requisiti psicologici necessari per spingermi in alto su una grande pa-rete senza corda. Ma devo avere preso lo spunto dalle stesse persone che avevo spaventato. Mi capitò di parlare con un tizio il cui nome, mi disse, era Arthur Champion. Gli chiesi se mi avrebbe portato a scalare e mostrato come usare una corda e via dicendo.

10 - Grado della scala inglese equivalente al V grado della scala UIAA. Vedi ta-bella a pag. 2��. NdT.11 - “Wellies”, calosce. NdT.

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Parte delle voci allarmanti che riguardavano ciò che fa-cevo doveva aver raggiunto mia madre, perché iniziò ad ac-corgersi del mio interesse per l’arrampicata. Se proprio do-vevo imbarcarmi in una cosa così palesemente folle, allora sarebbe stato meglio che imparassi a farla come si deve. Mi dette quindi il benestare per andare a scalare con Arthur. Sua madre aveva il chiosco del tè alla stazione degli autobus di Skipton e mia madre conosceva la sua famiglia. Erano fer-vidi credenti e praticanti, e sebbene i miei non lo fossero, questo fatto aggiungeva comunque un tocco di rispettabilità. Arthur era un giovane piacente, sui 1� anni, sempre sor-ridente. Era un capo scout ed era anche stato alle medie di Aireville, ma ora era tirocinante in un Istituto Tecnico a Kei-ghley. Il suo vero interesse era la speleologia però, e si era appena iscritto al Craven Pothole Club. Quando apparve, quel fine settimana verso il termine delle vacanze estive, fui colpito da quanto mi sembrò più vecchio e da quanto fosse improvvisamente diventato importante ciò che stavamo fa-cendo. La cosa migliore era che aveva un sacco di equipag-giamento. In qualche modo questo fatto rese ciò che faceva-mo più legittimo: questa era una cosa seria. Prendemmo il bus su per la strada di Grassington ver-so Rylstone. L’altura sopra il villaggio è un posto selvag-gio, quasi da brividi, specialmente di notte. C’è un sacco di storia in queste brughiere. Willian Wordsworth ci ambientò un poema, “La Bianca Cerva di Rylstone”, basato su una leggenda locale di un cervo che attraversava la collina dal villaggio fino alla cima dell’abbazia di Bolton ogni dome-nica, per pascolare fuori dalla chiesa mentre i fedeli erano all’interno a pregare. La leggenda era legata a una famiglia del posto, i Norton, che si rivoltò contro Elisabetta I in difesa del cattolicesimo. E c’è una croce sulla falesia più grande e un enorme obelisco a nord, che commemorano i soldati del posto caduti nella Grande Guerra. Rylstone ha un sacco di fantasmi.

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Tutto questo sembra così lontano. Neil Armstrong aveva passeggiato sulla Luna solo poche settimane prima, Harold Wilson era primo ministro e venivano inviate truppe in Irlan-da del Nord. L’Inghilterra era un paese diverso. Scorrazzam-mo sulle classiche vie facili: Monkey Puzzle, Twin Cracks, Falcon Crack, President’s Slab, Chimney Slabs Route Two, Chockstone Crack, Flake Climb e Trowel Face. L’ultima di queste era una via degli anni cinquanta di Allan Austin, l’uomo che avrebbe dominato la scena di Yosemite prima dell’arrivo di Pete Livesey, ma per il resto erano tutte vie dei primi tempi delle esplorazioni dello Yorkshire risalenti agli anni venti. Il momento saliente della giornata fu su Dental Slab, che la mia vecchia guida descriveva come la più accreditata per il titolo di miglior via di tutto lo Yorkshire, nel suo grado “Severe”. Non penso che allora lo sapessi, ma la via fu sa-lita per la prima volta da alcuni membri del Craven Potho-le Club, il club di Arthur, alla metà degli anni trenta. Uno di loro, Sidney Waterfall, viveva nel mio villaggio. Aveva ancora la sua scala da speleologia, che usò per pulire Den-tal Slab da erba e piantine. Dovevano essere tipi coraggiosi quelli, perché la via sembra molto più dura di quanto non sia in realtà. Doveva essere stato un vero salto nel buio. Avevo già affrontato vie di quel grado a Haw Bank Quar-ry, e anche più dure probabilmente, ma avere la corda e tutto il materiale, moschettoni, dadi e via dicendo, la rese specia-le. Mi ricordo di Arthur che scalava, e poi della corda che si tendeva, e il gesto di mettere le mani sulle prese di partenza. Rylstone è un magnifico grit, ruvido e invitante, perfino con le terribile scarpe che usavamo allora. Partiva con una sezio-ne ripida, e una difficile chiusura da due fessure orizzontali nella roccia, poi un passo a destra nella placca, poi a passetti a traversare in alto verso uno strano ribaltamento più su, so-

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pra un’altra fessura. Ci furono momenti in cui guardavo in alto e non riuscivo a vedere granché in termini di prese, ma presto mi ingegnai a risolvere il problema, usando le mani in spinta e alzando molto i piedi. Fu bellissimo. Poi fui in cima, molto soddisfatto di me. Sentivo che avevo fatto qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita. Sentivo che avevo trovato la mia vocazione.

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lord of the flies

“Ehi Chris – urlai verso il basso – occhio ora”. Ritornando di nuovo a quello che stavo facendo, scrollai le spalle e mi mossi su per la delicatissima parte alta di Lord of the Flies. Non mi ricordo adesso se intendessi davvero quel che avevo detto, cioè se fossi davvero in pericolo di cadere, oppure no. Il produttore Sid Perou ci incoraggiava sempre a dire qualco-sa per riempire i lunghi silenzi mentre arrampicavo, e avevo fatto la via così tante volte - più di una dozzina, come mini-mo – che alla fine la sapevo a memoria. D’altro canto, Gibby era il tecnico del suono, e con il fatto che dovesse armeggia-re con tutti quegli interruttori e contemporaneamente rollarsi le sigarette, non sono sicuro dell’attenzione che ponesse alle corde, che, tra l’altro, aveva semplicemente girato intorno ai suoi avambracci, invece che passarle nell’assicuratore. Qualche volta non importa cosa fai – quanto ti alleni duro, o quanto scali. Qualche volta il destino ti dà semplicemente una mano, e ti spinge oltre. Il film Rock Athlete rappresentò quel momento per me. Mi dette notorietà. Per la prima volta divenni famoso oltre il piccolo mondo dell’arrampicata di alta difficoltà, che finora era stato il mio cosmo. Mi dette un alto profilo, che potei sfruttare per guadagnarmi da vivere e scalare a tempo pieno, facendo di me, in effetti, il primo arrampicatore professionista della storia. Inoltre ispirò la nuova generazione di giovani climber a dedicarsi completa-mente allo sport. Gli arrampicatori, secondo il luogo comu-ne tradizionale, indossavano pantaloni spessi e maglioni di lana, e si appendevano ai chiodi. Ecco che invece qui c’era un tipo in calzoncini e canottiera, abbastanza forte e in forma per continuare ad arrampicare anche quando le cose diven-tavano troppo difficili. Gil Scott-Heron aveva predetto che

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una rivoluzione non sarebbe mai andata in televisione, ma la rivoluzione dell’arrampicata lo permise. Sid Perou era un avido speleologo, che lavorava come tecnico del suono per la BBC presso i vecchi Ealing Studios verso la metà degli anni sessanta. Nel 1��� fu coinvolto in un film sulla Cave Rescue Association chiamato Sunday at Sunset Pot, e grazie alla sua esperienza finì con il filmare le riprese sotterranee. Il documentario trattava del tentativo di salvataggio di uno speleologo di nome Eric Luckhurst, che era caduto sul fondo della Sunset Cave nei Dales, e che morì mentre veniva evacuato. Sid lasciò la BBC e fondò una sua casa di produzione, con lo scopo di filmare sport all’aria aperta come la speleologia, la canoa e l’arrampicata, mo-strandoli per quello che erano, piuttosto che per le strane interpretazioni che ne danno i media per renderli più dram-matici. Aveva appena finito una serie in cinque puntate intitolata Beneath the Pennines e avendo saturato ormai il mercato con i film sulla speleologia, stava cercando un nuovo proget-to. Pete Gomersall viveva vicino a Sid, e conosceva anche Gibby. Dopo aver parlato con loro, Sid si rese conto che nel mondo dell’arrampicata stava avvenendo un cambiamento epocale, e che farne un documentario avrebbe aggiunto una struttura narrativa al film, ben oltre il semplice raccontare al pubblico un mondo che non aveva mai visto prima. In un certo senso, mostrava ai non addetti ai lavori che l’arrampi-cata non era un fenomeno strano e spaventoso, ma un vero e proprio sport, con le sue regole particolari e la sua storia. Sid decise che si sarebbe concentrato su ciò che Pete Live-sey ed io avevamo fatto negli ultimi anni, come arrampicatori di punta del momento. Dato che gli erano state commissiona-te tre puntate, le divise tra una breve storia dell’arrampicata dagli anni sessanta in poi, una retrospettiva della carriera di Pete, e, nella terza puntata, la prima salita di una nuova via,

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come tentativo di mostrare la vera essenza di questo sport e il suo futuro. E qui entravo in gioco io. Per prima cosa, avevamo bisogno di un obiettivo. Dato che i primi due programmi della serie avevano mostrato vie in Yorkshire, Peak District, Lake District e Cornovaglia, era ovvio che avremmo ora girato in Galles. In seguito, nel libro Extreme Rock, che presentava una scelta delle vie più diffici-li dalla metà degli anni settanta alla metà degli ottanta, Pete Livesey scrisse che era stata interamente una sua idea quella di scegliere una via sul Dinas Cromlech. Disse che aveva pulito una linea sulla sinistra della sua via Right Wall nella primavera del 1���, salendone la prima sezione dura. Poi era stato obbligato a traversare, ricongiungendosi a Right Wall, quando l’arrampicata era diventata troppo dura. Secondo Pete, lui stesso disse poi a Sid che questa linea sarebbe stato un grande progetto da filmare per la serie, e si disse arrab-biato che Sid mi avesse dato il via libera su di essa. Non so se Pete avesse fatto molti progressi sulla linea di Lord of the Flies, ma né io né Sid gli parlammo mai dei possibili sog-getti per la terza puntata. Comunque, in molti sapevano della possibilità di un’altra via a sinistra di Right Wall. Sid mi chiese se mi sarei prestato per le riprese di una prima salita, lasciando a me e Gibby la scelta del luogo. Pri-ma demmo un’occhiata a Idwal, dall’altro lato delle colline rispetto a Dinas Cromlech nella Ogwen Valley. Avevo idea che ci fosse uno spazio libero sul Suicide Wall, così esplo-rammo un po’ la zona ma non trovammo niente di adatto, e inoltre Sid non era soddisfatto della luce. Così optammo per il Llanberis Pass, che dopo la Seconda Guerra Mondia-le aveva rimpiazzato la Ogwen Valley come nuovo centro dell’arrampicata in Snowdonia. Stavamo allo Ynys Ettws, il rifugio del Climbers’ Club che si trova proprio nella valle sotto Clogwyn y Grochan, il massiccio più vicino a Dinas Cromlech, quindi il Cromlech di sicuro era già nei nostri

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pensieri. L’ampio diedro che forma la parte centrale del massiccio era il più evidente simbolo dell’arrampicata in Galles, e io lo sapevo bene. Insieme alle vie classiche come Cenotaph Corner e Cemetery Gates, salite da Joe Brown e Don Whillans negli anni cinquanta, avevo fatto una salita in libera molto rapida di Left Wall, sicuramente prima di quella di Steve Wunsch, che viene normalmente accreditato della prima libera. Avevo anche ripetuto il capolavoro di Pete – Right Wall – salito per la prima volta nell’estate del 1��4, che seguiva il grande muro liscio tra Corner e Gates. Quello fu un vero passo in avanti, psicologicamente, se non tecnicamente. Tro-vare una via di salita sul lato destro del Cromlech è molto più difficile che sulla sinistra, perché è molto più strapiombante. Se ti spingi in fuori sul muro sinistro riesci a vedere dove stai andando, mentre sul destro è molto più difficile. Pete fu costretto a traversare la cengia che lo circonda – dopo essersi slegato dalle corde – salire Cemetery Gates, e poi dalla cima calarsi lungo la linea di Right Wall per vedere dove la nuova via dovesse passare. Quando fu finita, la via di Pete giron-zolava per la parete come se fosse la più piacevole delle ar-rampicate, ma lasciò un ovvio spazio libero per una via più diretta sulla destra di Cenotaph Corner. Aggiungere questa alle pagine del Cromlech sarebbe stato sostanzialmente più difficile. Come molti documentari televisivi, Rock Athlete era piuttosto costruito: diverse riprese montate insieme, e qual-che volta anche un po’ calcate, per mostrare quale impegno una nuova via dura richiedesse. Adesso sembra retrò, arri-vare a bordo della Vauxhall Viva di Gibby e montare una tenda Vango Force 10, ma penso che renda molto l’idea. I climber riconobbero l’autenticità e il pubblico ebbe un’idea di cosa fosse davvero la moderna arrampicata. La cosa più incredibile fu come fummo in grado di fare tutto – le ripre-

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se e l’arrampicata – con due soldi. Le scene di apertura mi mostrano mentre esamino le scarpette, con le punte bucate e pezzi di gomma penzoloni dalla tomaia. Non penso che le giovani generazioni riescano a capire quanto forte arrampi-cassimo con scarpette così scadenti. Fortunatamente, Sid mi fece avere un nuovo paio di EB a spese della BBC, insieme alla principesca somma di ottanta sterline, il mio compenso per la partecipazione in un documentario che sarebbe stato visto da milioni di spettatori. Sid, penso, era un po’ innervosito dalla mia tranquillità, e mi incoraggiava a parlare mentre arrampicavo. Io lo facevo già, in realtà, ma non era il tipo di conversazione che potevi proporre a un’audience di prima serata. Potevo sgridare le protezioni, offendere le dimensioni delle fessure e scioglie-re l’ansia con una sequela di parolacce. Per questo i miei commenti durante l’arrampicata, così com’erano in diretta, sembravano falsi. Ero così concentrato e assorto per la via, che parlare alla telecamera era impensabile, un fatto che fu notato dal critico televisivo Clive James: “Uniti nel possede-re dei corpi estremamente preparati, gli arrampicatori sono divisi nei metodi. Alcuni credono che qualunque mezzo sia lecito. Martellano dei tasselli a espansione dentro la roccia e poi li salgono con le corde. Se ne avessero i mezzi, costrui-rebbero una scalinata di marmo fino alla cima. Una razza più intransigente, accetta solo i normali chiodi come il massimo consentito dell’artificiale. I puristi più assoluti, invece, sal-gono per la parete senza nessun altro mezzo di progressione eccetto che la magnesite sulle dita. Credetemi, se non avete visto questi ultimi, dovreste. Si stanno evolvendo. Le loro dita sono lunghe e sensibili, come quelle di Vladimir Ho-rowitz o di certe specie di rane saltatrici. Accovacciati nel vuoto, con dita come antenne tastano la roccia in cerca di irregolarità, come un cieco che legga Keats. Piedi sensibili li spingono in alto. Oof! Aangh! Dicono pacati. Harf! Ungh!

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Hoof! chiaramente si sono buttati di molto alle spalle la lin-gua inglese”. Clive James era il più importante critico televisivo in Gran Bretagna, quindi ritengo che anche il solo fatto che avesse notato il programma fosse una buona notizia. Non credo che sarebbe stato tanto più eloquente di noi, appeso sulle dita a trenta metri da terra, ma a ciascuno il suo. Ho sempre pensato che una delle cose che attira, negli sport, è che ti portano fuori da te stesso, lontano dai tuoi problemi, e così oltre il linguaggio. Tuttavia, mi piace l’immagine di un cieco che legge Keats. Di sicuro c’è davvero della poesia su quelle pareti. Comunque, nonostante il sarcasmo sulla mia incapacità di esprimermi a parole, quei piccoli dialoghi nella puntata su Lord of the Flies assursero al rango di culto. A un certo punto, mi accorsi che mi stavo rapidamente acciaiando nel piazzare delle protezioni, e mormorai: “Avanti braccia, fate il vostro dovere!”. Non sono sicuro da dove venisse, anche se era il tipo di frase che potevo usare negli articoli di quel periodo. Per anni, in seguito, la gente mi avrebbe ricordato più volte quella frase, al punto che desideravo non averla mai pronunciata. La gente si imparava a memoria i miei commenti improvvisati come avrebbe fatto per una scenetta dei Monty Python. Anche Gibby dette il suo contributo, pro-babilmente istruito a dire qualcosa - qualunque cosa – che suonasse come un aiuto. «Non c’è un grande buco dentel-lato lì?» grido all’insù, mostrandosi attento e preoccupato per la mia sicurezza. L’espressione “buco dentellato”2� entrò anch’essa a fare parte del repertorio, dopo che Rock Athlete fu trasmesso, anche perché molti furono divertiti dal doppio senso di ciò che significava: il termine dentellato infatti in-dicava anche una crosta minerale che si forma sull’acciaio, e

2� - Crozzly pocket.

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che viene messa in cima ai muri di recinzione nelle città del nord per renderli più difficili da scavalcare2�. Dal punto di vista di un arrampicatore, il film appare molto diverso da quelli fatti oggi. Sid era appeso alla corda accanto a me, la risaliva con le jumar quando lo superavo e poi continuava a filmare di lato. Ogni volta che guardavo su o a sinistra, ecco che c’era Sid, come un angelo barbuto sopra la mia spalla. Non filmò mai direttamente da sopra, anche se ci furono delle riprese in campo lungo fatte dal-l’altra parte della valle. Così per gran parte del film non si vedono i miei piedi, e in alcuni casi sono tagliate anche le mani. Questo sarebbe ritenuto un grande difetto oggi, visto che tutto gira intorno al vedere esattamente i movimenti che gli arrampicatori fanno. Ma l’approccio di Sid aveva un’in-teressante conseguenza, che alcuni moderni produttori po-trebbero apprezzare. L’attenzione non era sull’arrampicata, ma sull’arrampicatore. Mi si può vedere completamente as-sorbito da ciò che sto facendo, concentrato e al tempo stesso perduto in esso. Filmando dall’alto, vedi a malapena il volto di chi scala. Di lato, invece, è ciò che noti maggiormente. È ipnotizzante, vedere un atleta immerso a quel modo, ignaro di ogni altra cosa intorno. L’unica altra produzione che posso paragonare a questo documentario, è il filmato che seguì Zi-nedine Zidane durante tutta una partita, riprendendo solo lui. Zidane, tuttavia, giocava in una squadra di calcio ufficia-le, mentre Lord of the Flies era una nuova via, un’occasione unica, e sebbene il film fosse per me un grosso affare, la via era la cosa più importante alla fine. Come al solito, affrettai molto la vera prima salita. A un certo punto, Sid mi ripre-se mentre mi calavo sulla via e pulivo le prese, ma non mi ricordo più se quello che si vede nel film è davvero quello che successe. La sera prima della salita ero andato a piedi su 2� - È un po’ come suggerire a un arrampicatore italiano di prendere un buco con dentro “cocci aguzzi di bottiglia”. NdT.

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al Cromlech e avevo notato che la parete finale era piena di colate d’acqua, così corsi su slegato per la via Sabre Cut per sistemare una corda da calata, facendo morire dalla paura i membri di una cordata che mi videro. Calandomi lungo la linea di Lord, detti a malapena un’occhiata ai movimenti finali, pensando che sarebbero stati abbastanza facili. Ovvia-mente, si rivelarono essere altrettanto duri del passo chiave sotto. Almeno c’era un buon dado a proteggere gli ultimi sei metri. Più in basso, misi un buon chiodo appena sotto il pri-mo singolo duro, una cosa che alcuni trovarono controversa (entrambe queste protezioni ora non ci sono più). E poi andai a letto, sperando che la parete asciugasse entro la mattina successiva. Non c’è dubbio che non riuscii a salire Lord of the Flies a vista. Mi ero calato lungo la linea e avevo ispezionato molte delle prese e delle possibili protezioni, e avevo messo quel chiodo. Ma Lord fu un tipico esempio di come io affrontassi generalmente le vie nuove, proprio a metà strada tra il più puro stile a vista e la pratica ripetuta della via come avrebbe fatto Pete. Qualcosa in me ancora voleva che le facessi nello stile più puro possibile. E, cosa negativa, ero sempre molto precipitoso nell’approccio alle cose. La mattina dopo era bel tempo, e questo significava che la parete stava asciugando rapidamente, così molto presto mi trovai a legarmi alla base della parete di destra. Gibby sembra più nervoso di me nel film, e parlava a vanvera della corda, ma in realtà dentro di me bruciavo dalla voglia di ini-ziare, per scoprire come davvero fossero quelle prese. Dopo essere partito per delle sottili fessure, e poi tirando su buchi parecchio distanti, fino a una buona cengia intorno a nove metri da terra, arrivò la prima sezione dura, muovendosi a destra e su fino a una delicata sezione di dita in cui sceglie-re le protezioni era un vero dramma. Questo è un aspetto del salire vie nuove che scomparve durante gli anni ottanta,

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quando gli arrampicatori lavoravano maggiormente i tiri e i materiali migliorarono. Nel 1��� i dadi curvi non esistevano. I vecchi modelli simmetrici sarebbero saltati via dalle loro posizioni alla prima sollecitazione. Scegliere le protezioni qualche volta era altrettanto duro che fare i movimenti. Tutto il muro di destra era un vero rompicapo. Liscio, difficile da leggere e strapiombante, Lord richiese tutti i miei sforzi e concentrazione per rimanerci attaccato. E ancora, anche quando arrivai alla buona cengia a due terzi della via, mi trovai bloccato. Questa era la parte alla quale avevo dato una pulita sommaria; durante quella ricognizione pensavo che sarebbe stata facile. Ma semplicemente non riuscivo a vedere dove conducessero le prese. Fui costretto a imitare la tattica di Pete per la prima salita di Right Wall, traversare lungo la cengia per andare su Cemetery Gates, e poi calar-mi giù sulla corda di Sid per un rapido ripasso. Leggere la giusta sequenza fuori dalla cengia fu fondamentale. Imma-gazzinate le nuove informazioni, e con un buon eccentrico messo appena sopra, riuscii a combattere fino alla cima. Non mi ricordo chi venne fuori con il nome, ma dubito sia stato io. Mi ricordo che il libro da cui prendeva nome la via non mi era piaciuto. Molti ora ricordano Lord of the Flies sia per essere stata filmata, sia per l’impatto che ebbe sul mondo arrampicatorio all’epoca. Ma anche prima che il documentario Rock Athlete fosse trasmesso nel 1��0, quelli che conoscevano l’arrampi-cata nel Galles apprezzavano ciò che avevo fatto. Paul Wil-liams scrisse nella guida del Climbers’ Club che Lord aveva lasciato a bocca aperta quelli del posto; Geoff Milburn, sul numero di quell’anno del Climbers’ Club Journal, si chiese se non mi fossi sbagliato sul grado. “Questo stupendo tiro tra Cenotaph Corner e Right Wall, è stato inizialmente dato E� �a, e descritto come più duro e più continuo che Right Wall. Ora questo secondo me vuol dire solo una cosa: se dobbiamo davvero usare una scala di

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gradi aperta in modo intelligente, allora probabilmente è ar-rivato il momento di avere il primo E� del Galles, con un grado tecnico di �b o �c. Qualunque sia la decisione, non c’è dubbio che Fawcett sia ora molto più avanti di tutti gli altri arrampicatori di punta che cercano di fare sensazione, e che questo tiro, che deve essere considerato il più grande passo in avanti negli standard dell’arrampicata in Galles, è solo il catalizzatore che inizierà una reazione a catena nei prossimi anni.” Rock Athlete, d’altra parte, nonostante i molti giorni di ri-prese, non era ancora finito. Sid mi aveva filmato in piedi su un blocco staccato, mentre urlavo eccitato alla telecamera. Doveva essere il momento culminante, l’artista che celebra la sua nuova creazione. Quando Sid arrivò a casa e vide il girato in anteprima, tuttavia, scoprì che un pezzetto di roccia era finito nel meccanismo quando aveva cambiato la pellico-la per filmare gli ultimi pochi metri della via, e ora c’era una macchia nera al centro di tutta l’ultima scena. La parte finale doveva essere rigirata. Nel frattempo, alcuni “artisti” locali – uno di loro era un mio amico di nome Paul Williams – si erano arrampicati fino alla cima della falesia con un cric da automobile e avevano ribaltato il blocco staccato sul quale io mi ero messo in piedi alla fine di Lord, e quello era precipitato con un rombo co-lossale. «Cristo, è grande quanto un asteroide!», aveva detto Pete, mentre il blocco cadeva giù, diventava sempre più pic-colo e poi esplodeva sul sentiero che porta alla base della pa-rete come una bomba atomica. I frammenti alla base spaven-tarono e fecero scappare una cordata che il giorno seguente era andata lì per salire Spiral Stairs. Fortunatamente per me, non toccò nessuna delle prese della mia via, ma questo volle dire che le sequenze in campo lungo che avevamo fatto del Cromlech erano già obsolete. Se guardate attentamente, il blocco incriminato e fastidioso è ancora momentaneamente visibile nel film, preservato per i posteri.

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Papà Fawcett con i furgoni del latte alla fattoria dello zio Jeff a Embsay.

Mamma e papà a Bridlington. Nonno e nonna Bate nel loro giardino a Embsay.

Alison, Richard, Clifford, me e papà a Flamborough nel 1���.

2�3

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Malham Cove.

La prima salita di Moonchild (E4 �c) a Cha-La prima salita di Small Brown (E4 �b) a

Gibby e me a Bribham Rocks (Al Evans).

2�4

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Il vecchio, grande Pete Livesey (B. Cropper).

Astroman (�.11c), Yosemite.

Gibby e io in Verdon (John Beatty).

Io con Jerry Peel in Verdon (John Beatty).

2��

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2��Mi chiamavano Banana Fingers

Gill da seconda sul secondo tiro di Chrisalis (F�b) in Verdon (John Beatty).

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2��Mi chiamavano Banana Fingers

La prima salita di Milky Way (E� �b) a Ilkley.

Paul Williams a El Chorro in Spagna. La prima salita di Desperate Dan a Ilkley.

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TAV. 2��

Su e giù su Strawberries (E� �b) a Tremadog (Leo Dickinson).

La parete ovest di El Cap, Yosemite. Gill sulla cima di El Cap.

2��

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La prima salita di The Cad (E� �a) sul North Stack Wall, Gogarth.

2��

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Sul muro finale di Lord of the Flies (E� �a) a Dinas Cromlech (Paul Williams).

2�0

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In alto sulla via di Martin Atkinson Pierre- Il grande Wolfgang Güllich.

Bavarian Reality in Germania.

Revelations (F�a+) a Raven Tor (John Beatty).

2�1

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TAV. 2�2

Facendo la parte della star in Giappone (Que Handa/archivio Fawcett).

Salendo Edge of Extinction in Giappone. Con John Long a Joshua Tree (Bob Gaines).

2�2

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TAV. 2�3

In cima a High Tor dopo avere salito slegato Darius (E2 �c) in diretta televisiva (Al Evans).

La prima salita di Master’s Edge (E� �c) a Millstone.

2�3

Page 58: Ron Fawcett - MI CHIAMAVANO BANANA FINGERS

TAV. 2�4

Al decollo in parapendio in Snowdonia (John Beatty).

Gill ed io vestiti come H.M. e Martha Kelly a

Laddow Rocks (John Beatty).

Con Sid Perou in Verdon (John Beatty).

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TAV. 2��

Senza piedi sulla parte alta di The Prow (F�c) a Raven Tor.

2��

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Di corsa su per Ringing Roger nella Edale Skyline Race (David Holmes).

Sid che mi riprende mentre salgo Chrisalis (F�b) in Verdon (John Beatty).

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Con Natasha nel giorno della sua nascita. Con le bambine in Australia.

Con Brian Molineux in una truna di neve

sull’Eiger (Leo Dickinson).

Passando il tempo sulla “cengia che crolla”,

sull’Aiguille du Midi (Leo Dickinson).

2��

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Con le bambine nelle gole dell'Ardeche in Francia.

Salendo Not To Be Taken Away (Font �c) a Stanage (Pete O’Donovan).

2��

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indiCe

Prologo �

il giro del latte 15

Primi Passi 35

ron di Yosemite 63

Per l’amor di dio, Pete! 85

il masCalzone 10�

lord of the flies 130

strawberries 148

il CaPPio al Collo 170

Prestazioni al toP 190

Prendere il Volo 212

fare film 230

sUPer Veterano 252

rigraziamenti 270

salite e date signifiCatiVe 272

tabella di ComParazione dei gradi di diffiColtà 276

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Finito di stampare nel mese di marzo 2011da Monotipia Cremonese - Cremona

per conto di Versante Sud s.r.l. - Milano


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