+ All Categories
Home > Documents > Storia Tony - La Repubblica.it - News in tempo reale - Le...

Storia Tony - La Repubblica.it - News in tempo reale - Le...

Date post: 16-Feb-2019
Category:
Upload: trandieu
View: 217 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
20
DOMENICA 17 GIUGNO 2007 D omenica La di Repubblica LONDRA N on è male girare per la città in macchina con Tony. Il rivestimento d’acciaio dell’auto blin- data è tanto spesso da risultare comico, come mi fa notare il PM. Tanto che una volta dentro, si ha l’impressione di stare in una Ford Focus piuttosto che in una Jaguar. Ci vuole uno sforzo notevole, se non strenuo, per chiudersi alle spalle la pesante portiera. Ma poi si fila. Gli agenti curvi sulle moto, con le loro strisce gialle luminescen- ti, ci ronzano intorno come provvide vespe per liberare la strada davanti a noi. Solo una volta siamo costretti a frenare, tra Downing Street e Westway. Anche se ormai il potere si va ritraendo da lui come una marea calante, resta ancora un po’ di tempo per goderci questo lusso al presente. È veramente un piacere girare per la città nell’auto di Tony. Il momento migliore è quando ci avviciniamo a Hyde Park Corner. Invece di fare la rotatoria come tutti gli altri scemi o perdenti, noi infiliamo direttamente la diagonale, passando sotto l’arco e davanti alla statua neoclassica di Apollo, ebbro di potere sul suo carro trainato da quattro ca- valli; e poi svoltiamo proprio davanti al civico n°1, London, un indirizzo di tutto rispetto. Stiamo parlando dell’islami- smo in Gran Bretagna, e devo notare che nel suo modo di circolare, Tony ha un punto in comune con gli islamisti bri- tannici: quello di passare abitualmente col rosso. Per gli islamisti è un modo di ostentare disprezzo per le leggi del Paese (e per il buon senso); mentre Tony lo fa per contra- stare gli islamisti. Mi accorgo ora che il PM non ha allacciato la cintura. Glielo faccio notare affettuosamente, ma lui minimizza e alza le spalle. Forse ho scoperto perché sembra così giova- ne: dieci anni senza problemi di traffico! Ma non è stato sempre così. Gli agenti di scorta sono una conseguenza , e non certo la sola, dell’11 settembre. (segue nelle pagine successive) cultura I graffiti, parole ribelli sui muri d’Italia FILIPPO CECCARELLI la lettura Quei monumenti agli orrori del passato EVGENIJ EVTUŠENKO il reportage I ricordi ritrovati del popolo migratore JENNER MELETTI il racconto La volta che persi a Wimbledon GIANNI CLERICI le tendenze Il look sobrio delle copertine dei libri ROBERTO CALASSO, DARIO OLIVERO e MICHELE SERRA MARTIN AMIS Il 27 giugno il Primo ministro britannico lascerà il numero 10 di Downing Street e il potere. Un famoso scrittore lo ha accompagnato nei suoi ultimi impegni Storia Tony FOTO REUTERS di Repubblica Nazionale
Transcript

DOMENICA 17GIUGNO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

LONDRA

Non è male girare per la città in macchina conTony. Il rivestimento d’acciaio dell’auto blin-data è tanto spesso da risultare comico, comemi fa notare il PM. Tanto che una volta dentro,

si ha l’impressione di stare in una Ford Focus piuttosto chein una Jaguar. Ci vuole uno sforzo notevole, se non strenuo,per chiudersi alle spalle la pesante portiera. Ma poi si fila. Gliagenti curvi sulle moto, con le loro strisce gialle luminescen-ti, ci ronzano intorno come provvide vespe per liberare lastrada davanti a noi. Solo una volta siamo costretti a frenare,tra Downing Street e Westway. Anche se ormai il potere si varitraendo da lui come una marea calante, resta ancora un po’di tempo per goderci questo lusso al presente. È veramenteun piacere girare per la città nell’auto di Tony.

Il momento migliore è quando ci avviciniamo a Hyde

Park Corner. Invece di fare la rotatoria come tutti gli altriscemi o perdenti, noi infiliamo direttamente la diagonale,passando sotto l’arco e davanti alla statua neoclassica diApollo, ebbro di potere sul suo carro trainato da quattro ca-valli; e poi svoltiamo proprio davanti al civico n°1, London,un indirizzo di tutto rispetto. Stiamo parlando dell’islami-smo in Gran Bretagna, e devo notare che nel suo modo dicircolare, Tony ha un punto in comune con gli islamisti bri-tannici: quello di passare abitualmente col rosso. Per gliislamisti è un modo di ostentare disprezzo per le leggi delPaese (e per il buon senso); mentre Tony lo fa per contra-stare gli islamisti.

Mi accorgo ora che il PM non ha allacciato la cintura.Glielo faccio notare affettuosamente, ma lui minimizza ealza le spalle. Forse ho scoperto perché sembra così giova-ne: dieci anni senza problemi di traffico! Ma non è statosempre così. Gli agenti di scorta sono una conseguenza , enon certo la sola, dell’11 settembre.

(segue nelle pagine successive)

cultura

I graffiti, parole ribelli sui muri d’ItaliaFILIPPO CECCARELLI

la lettura

Quei monumenti agli orrori del passatoEVGENIJ EVTUŠENKO

il reportage

I ricordi ritrovati del popolo migratoreJENNER MELETTI

il racconto

La volta che persi a WimbledonGIANNI CLERICI

le tendenze

Il look sobrio delle copertine dei libriROBERTO CALASSO, DARIO OLIVERO e MICHELE SERRA

MARTIN AMIS

Il 27 giugno il Primo ministro britannico lasceràil numero 10 di Downing Street e il potere. Un famososcrittore lo ha accompagnato nei suoi ultimi impegni

Storia Tony

FO

TO

RE

UT

ER

S

di

Repubblica Nazionale

la copertinaStoria di Tony

Da Londra a Edimburgo, da Belfast a Washington,dall’Europa a Bagdad e alla base aerea britannicadi Bassora. Gli ultimi frenetici impegni dell’uomoche per dieci anni ha guidato la Gran Bretagna. Il bilancioè ricco di successi che rischiano di essere tutti messi in ombradal conflitto nel quale ha impegnato il suo Paese

Blairil ragazzo prodigio e la guerra(segue dalla copertina)

EDIMBURGO

Andiamo al Corn Exchange, dove trapoco Tony denuncerà gli Scots Nats,i nazionalisti scozzesi. In un mo-mento di pausa prima di prendere

la parola mi viene incontro e mi dice: «Stamattinaho avuto uno shock».

Già, penso io: ci avrei scommesso! Stavo quasiper dirglielo: dev’essere stato uno shock. L’ho vi-sta, la prima pagina dell’Independent, con quellafoto in ombra che lo fa apparire come uno bracca-to, tormentato, e soprattutto isolato. E poi quel ti-tolo: BLAIRAQ. «Secondo un sondaggio, il 62 percento dei britannici crede che, dopo le dimissioni,il lascito duraturo del suo governo sarà …».

Ma ovviamente avevo sbagliato tutto. Ci volevala mia ridicola inesperienza per pensare che fos-se quello lo shock di cui Blair aveva voglia di par-lare. Non è da lui sollevare un tema del genere.Chiunque altro lo avrebbe fatto. È impossibile so-pravvalutare la spettrale, malaugurante persi-stenza della questione irachena.

«Sono stato alla Gmtv», prosegue il PM, muo-vendo la testa a scatti con finta indignazione, «ec’erano anche le modelle di Kate Moss. Cinque osei, tutte stupende».

«Vestite?...».«Non molto. Altissime, tutte in minigonna. E le

minigonne che portavano erano incredibilmentecorte. Qualcuno mi ha detto: “Ma lo ha notato,quanto sono corte?”. E io: “Ma quando mai!”».

«Beh, a quell’ora del mattino…», ha borbottatoil mio collega (e coetaneo: più vicino ai sessantache ai cinquanta).

«Ma no!», gli ha risposto il PM; «non era poi tan-to presto».

Bisogna stare attenti a non dare un’idea sba-gliata del nostro premier, notoriamente legatissi-mo alla moglie. La sua non è stata un’uscita licen-ziosa, e neppure maschilista, ma solo un modo diparlare giovanile, da ragazzo. Alto ma non impo-nente, il passo appena un po’ esitante, con queisuoi occhi azzurri sorprendenti per la pienezza, lagentilezza e la limpidezza dello sguardo, mi fapensare che adolescente fa rima con effervescen-te. Mentre noi invecchiamo, non sono solo i poli-ziotti a diventare più giovani; succede anche aiprimi ministri. E all’improvviso mi viene in men-te che chi mi governa sia un capoclasse.

«No, l’ora non c’entra», conclude scuotendo la

testa. «Non è mai troppo presto». Per me lo sarebbe, non certo per lui. Quella mat-

tina, dopo un lungo discorso (seguito da doman-de e risposte) al King’s Fund del Servizio sanitarionazionale, seguito dall’apparizione alla Gmtv,Tony si presenta a sorpresa al quartier generaledel Labour, e sono appena le otto e mezza. Musi-ca! Tè, caffè! Un sondaggio esclusivo dell’Inde-pendent rivela tra l’altro, molto più sommessa-mente, che per il 61 per cento dei britannici Blairè stato un buon Primo ministro; e tra i sostenitoridel Labour si arriva all’89 per cento. È una realtàche appare evidente: i presenti lo accolgono conun mormorio di adorazione chiaramente perce-pibile e se lo mangia con gli occhi.

I nuovi uffici, su un solo piano, sono un altroesempio di quanto Blair abbia fatto concreta-mente per il partito. Fino al 1995 la sede del La-bour era alla Walworth Road, SW 17, in uno stabi-le che Tony Blair aveva definito «uno schifo»,mentre Alastair Campbell lo giudicava «orrendo».Per la fanteria del partito, passare da quel vecchioquartier generale fuori mano, angusto, intriso diun sentore di sconfitta, alla nuova sede della Mil-libank Tower è stata una promozione non di pococonto: adesso basta attraversare il fiume e si è su-bito in Parlamento. Poi è arrivato il potente com-puter Excalibur, fulmineo nel contrastare le diffa-mazioni e millanterie dei Tories. Il simbolismo —la modernità elettorale, la macchina del partito —non poteva essere più chiaro.

Blair ha “scelto” il Labour, ma ha anche rein-ventato se stesso come la sua antitesi. Un mutan-te: qualcosa come un democristiano tedesco-americano del ceto medio. In confronto, GordonBrown è un tipo da pesce fritto e Woodbine. Ma ilpartito lo ama. È lui che lo ha destato a nuova vitae gli ha fatto guadagnare valanghe di voti.

Al Point Conference Centre di Edimburgo, inun altro momento di pausa, Tony Blair mi avvici-na per domandarmi come ho impiegato la miagiornata. «Dato che me lo chiedi: a fare il protetti-vo con il mio Primo ministro». Chissà perché il no-stro rapporto, almeno da parte mia, sta assumen-do un leggero, ma comunque deplorevole carat-tere di flirt. «Qualche smacco l’hai già avuto alleelezioni di medio termine. O al Parlamento euro-peo. Ma stavolta sarà probabilmente la tua pri-ma... bocciatura».

«Non la prima. C’è stato il 2004. E il 2002».«Il “Cheriegate”. Tutte scemenze, no?»«Assolutamente». Ma subito, in un modo che

gli è tipico, mi chiede: «E a te come sta andando?Se qualcuno attacca i tuoi libri mica ti lasci ab-battere!».

Poco prima aveva confessato che non eranostate solo le minigonne a metterlo in crisi allaGmtv. Lo aveva colpito il contrasto tra la sua fac-cia sul monitor e la vivacità, lo smalto delle ripre-se del 1997. «Il processo di invecchiamento sulloschermo», aveva detto. Non un prima e un dopo,come nel caso di Abe Lincoln, il bel pioniere com-pletamente rinsecchito dopo la guerra civile. Co-munque, e da qualunque punto di vista, in politi-ca dieci anni sono tanti.

«C’è anche un processo di invecchiamento in-terno», ho detto io. «Non è che ti indurisci, al con-trario: diventi più morbido. E ti vengono in men-te certe frasi, tipo “l’operato di una vita”. Oppure“lascito”. Ma tu sei d’acciaio. Come la tua auto».

«Già: corazzata. «Non c’è stato bisogno di sottolineare le propor-

zioni. La recensione di un libro non è un plebisci-to, né una marcia di un milione di persone, e nep-pure una bara avvolta nella bandiera, o un interoPaese (o forse una regione) messo a ferro e fuoco.

The Den (il Covo)Il numero 10 è un palazzone alto, largo e profon-do. Fa pensare a un albergo di campagna, ma am-mobiliato come una sala d’aspetto di HarleyStreet. L’atmosfera è quella di un luogo di sosta odi passaggio. Si transita davanti a un usciere cherutta con discrezione. Nei corridoi, tra segretariedal passo elastico o trotterellante («Il PM è ancoranel suo ufficio?»), spin doctor o tecnocrati che simuovono con aria trasognata, circolano di conti-nuo gli inservienti con i secchi della spazzatura o icarrelli di servizio.

Quello che si avverte di Primo acchito è un cli-ma palpabile di civiltà e tolleranza, quasi eguali-tario. «Tony», mi ha detto un membro del suo staff,«è uno che non ti fa mai sentire inferiore». Dopotutto, presiede a Downing Street un uomo che ri-sponde a un diminutivo. A rigor di termini, era co-sì anche nel caso di Ted Heath o di Jim Callaghan.Ma è difficile immaginare di poter parlare adesempio di Dai Lloyd George, Andy Bonar Law,

MARTIN AMIS

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

VIVIENNE WESTWOOD

La sua follia è stata l’Iraq

Il mio giudizio su Tony Blair? Negativo. Io credevo in lui, ma mi so-no sentita tradita. Blair ha cercato di vendere al mondo l’immagi-ne di una cool Britannia che di cool ha ben poco. Blair ha punta-

to tutte le sue carte sul design, sull’architettura, ma di strutturale e co-struttivo oggi non lascia nulla. Blair ha condannato la classe operaiainglese. È sparita, non esiste più, perché nessuno si è battuto permantenere la proprietà della Rolls Royce, della Bentley e della Miniin Inghilterra. E il business ora è in mano ai tedeschi.

Tra i pochi meriti del Primo ministro c’è quello di aver fatto diven-tare Londra l’ombelico del mondo. La città piace e attrae nuovi capi-tali dalla Russia e dall’India, tutto questo però ha un prezzo. Per an-dare a mangiare al ristorante ci vuole un mutuo. La gente non ha letasche piene di soldi e così si butta sul cibo spazzatura, ingrassa e stamale. Ma la colpa più grave di Blair è stata quella di essersi buttato nel-la guerra in Iraq, una avventura folle che ha trasformato Londra in unobbiettivo strategico per i terroristi. Oggi, dopo gli attentati su me-tropolitana e autobus, la città è presidiata, ci sono poliziotti dapper-tutto e la paura serpeggia. Per il minimo sospetto un inglese finiscein galera e ci sta per giorni anche se non ha fatto del male a nessuno.Ecco perché io che mi considero la più inglese degli inglesi, ho dise-gnato una t-shirt di protesta, con la scritta “I am not a terrorist”, perdenunciare il clima assurdo che si è venuto a creare. E tutto per unaguerra che nessuno voleva e che Blair ha dichiarato solo per fare pia-cere agli americani.

Testo raccolto da Laura Asnaghi

CASO PINOCHETL’ex dittatore cileno arrestato a Londrail 17 ottobre su richiesta della magistraturaspagnola L’estradizione viene negatae Pinochet torna in Cile

ADDIO PRINCIPESSAIl 31 agosto muorein un incidente stradalea Parigi. Blair la definisce“people’s princess”,la principessa del popolo

IL PIÙ GIOVANEA 43 anni Tony Blair vincele elezioni alla guidadel Partito laburistae diventa il più giovanepremier britannico dal 1842

ILL

US

TR

AZ

ION

E M

IRC

O T

AN

GH

ER

LIN

I

LA STILISTAInglese doc, è stata

insignita del titolodi Ufficiale

dell’Impero britannico

IN GRAN BRETAGNA

NEL MONDO 1998

1997

Repubblica Nazionale

il ragazzo prodigio e la guerraStan Baldwin, Nev Chamberlain, Winnie Chur-chill, o magari, perché no, di Tony Eden.

Secondo alcuni, l’amministrazione Tony hainaugurato lo “stile divano” nell’arte del governo,scavalcando spesso e volentieri i normali canalid’influenza. Il PM tende ad appoggiarsi al suo piùstretto entourage di fedelissimi, consulenti oesperti in campo mediatico. Nel maggio-giugno1997 si era deciso che la determinazione dei tassidi interesse sarebbe stata affidata alla responsabi-lità della Banca d’Inghilterra. A chi lo avvertiva cheun cambiamento di quella portata andava discus-so in sede di gabinetto, Tony aveva risposto: «Oh,non se la prenderanno. Faremo un giro di telefo-nate».

Oggi mi danno accesso al Den, per poter vederela “denocrazia” (come qualcuno la chiama) inazione. Si discute del cambiamento climatico edei colloqui esplorativi per la creazione di un«mercato del carbonio». Tony ascolta sei o setteinterventi («Quei due continuano a darsi addosso

a vicenda… La cancelliera Merkel vuole arrivare aun accordo… L’incontro con gli indiani è andatobene… I giapponesi si sono mostrati quanto maisuscettibili... L’americano ci ha dato del filo da tor-cere»), prima di intervenire con tutto il peso dellasua conclusione: «Dobbiamo avere ben chiaro co-sa vuol dire per il mondo degli affari americanonon far passare i contratti con la Cina. Affronteròla questione con Bush».

Passiamo al piano di sopra per un podcast conBob Geldof sull’Africa — un tema che ossessionaBob da un quarto di secolo, e da dieci anni suscitail costante entusiasmo di Tony. Poi di nuovo giù,dov’è riunito un tavolo multietnico di vescovi.Qualcuno ha descritto il potere come una droga,un afrodisiaco; Maksim Gorkij lo aveva definitoun «immondo veleno». Ma per gran parte del tem-po è anche mortalmente noioso, una noia cance-rogena. Come tutti i politici, Tony ha sette o ottosorrisi diversi. Per i vescovi vanno bene i sorrisi deltipo due o tre. Quando gli tocca di fare il giro di un

locale affollato, alla fine il sorriso gli si trasformain una sorta di ghigno e i suoi occhi diventano du-ri come diamanti.

La noia è tutto quello che il mondo non vede —la fatica nascosta di dosare, assecondare, offrire lafaccia, avere sempre l’aria incoraggiante. È que-sto che mantiene i politici più o meno onesti, e im-pedisce quel processo di cui Bob Geldof parlavapoc’anzi, su nella Sala bianca: «Ma non vi pare unabaggianata? Che sta succedendo? Celebrità poli-ticizzata o politica “celebrizzata”?». E a questopunto si era posta la domanda: che sarà Tony, unavolta lasciata la carica? Un ex politico?

«No», ha risposto. «Sarò un’ex celebrità».

BelfastAl solito, viaggiare col corteo delle auto — dal Geor-ge Best City Airport fino a Stormont Castle — ètutt’altro che divertente. A volte si è costretti a pro-cedere a 110 all’ora e la distanza di sicurezza racco-mandata dal Codice della strada diventa un lonta-no ricordo, per non parlare della visione periferica.Chi è al volante deve allenarsi a guidare con gli oc-chi fissi sull’odioso retro di una jeep, e il passegge-ro non tarda a condividere quest’ossessione.

Eccoci al castello: una visione emozionante,quest’immenso edificio che trasuda intransigen-za. Ma che sta succedendo? Mentre il corteo delleautomobili procede lungo Stormont Road, vedia-mo avanzare verso di noi alcune figure che agita-no le braccia con sconcertante ostilità. Un mo-mento impegnativo per il cordone di sicurezza.Che siano gli irriducibili, gli ultimi ribelli duri amorire, venuti con la voglia di risuscitare gli scon-tri del passato? No, sono qui per l’Iraq.

Si entra nel castello e Blair rilascia qualche in-tervista prima della storica allocuzione nellaGreat Hall. Passo il tempo a cercare di analizzarel’anarchia del suo accento — un fritto misto diDurham, public school di Edimburgo, Essex (l’e-stuario), con un pizzico di Australia (dall’età diuno a quattro anni). Il PM sta rievocando le sue va-canze da bambino a Donegan, quando accade l’i-neluttabile. «Un’ultima domanda, Primo mini-stro», dice l’intervistatore. «Questo è un risultatodi enorme portata, ma sembra che il suo lascitoprincipale sarà….». Gli occhi azzurri di Blair si ap-pannano e per un attimo sembrano voler cancel-lare se stessi.

Ho assistito al giuramento di rito all’Assembleain collegamento tv: ne valeva la pena. Ian Paisley,il vecchio zelota sempre in splendida forma mal-grado i suoi ottant’anni suonati, e l’impassibileMartin McGuinness del Sinn Fein, che mi ricordail professore dell’Agente segreto di Conrad, il ma-

gro megalomane il cui pensiero «accarezzava im-magini di rovina e distruzione». Eppure eccoci al-la convergenza di quel duo, in un’atmosfera di agi-tazione tanto a lungo repressa da essere sul puntodi esplodere nell’ilarità. L’ilarità dell’irreale. Sia-mo quasi alla ola.

Frattanto, fuori dal castello, varie scritte ci ri-cordano le vicende locali: «No al santuario», «Giu-stizia per i protestanti». Ma lo striscione più gran-de, quello che convoglia il massimo di energia,proclama: «IL LASCITO DI BLAIR: 600.000 MOR-TI IN IRAQ». E alla tappa successiva, una visita dicortesia al venerabile quotidiano The News Letter,per strada ci si para davanti un tipo malmesso, af-fiancato da un agente e da un cane poliziotto chegli abbaia contro, con in mano un cartello: «BLIARWANTED. CRIMINALE DI GUERRA». (Bliar è ungioco di parole tra il cognome del Primo ministroe liar, bugiardo, ndr).

In genere quello che vediamo e sentiamo sono idiscorsi trionfali e gli applausi, ma non assistiamoai momenti culminanti, alle più intense soddisfa-zioni della vita di un politico: il piacere, l’appaga-mento persistente e profondo di poter dire: «Ave-vo visto giusto!» In un altro castello, quello di Hil-lsborough (il rifugio della Regina a Belfast), ho oc-casione di essere testimone di uno di questi mo-menti. Blair trascorre una quieta mezz’ora con iltitubante Teddy Kennedy e il temibile Peter Hain.Per una volta la Storia — l’inesorabile imprevisto— ha colluso coi loro desideri. Ma tutto si svolgeall’insegna dell’understatement, tra silenzi e mez-ze frasi sottotono, come si conviene a una vittoriaconquistata a fatica. Ted Kennedy racconta di es-sere stato coinvolto nella vicenda irlandese fin dalBloody Sunday del 1972 (l’anno sabbatico di Blair,che all’epoca se ne andava in giro con una chitar-ra di nome Clarence). Quel giorno c’erano statitredici morti, e il bilancio complessivo delle vitti-me è di circa 3.500, l’equivalente di un brutto me-se in Iraq. A Bassora, Blair dirà ai soldati che la lot-ta in cui sono impegnati è «infinitamente più im-portante dell’Irlanda del Nord», semplicementeperché da essa dipende «il futuro del mondo».

In aereo, nel corso di una breve udienza col PM,gli dico che gli eventi della giornata mi hanno ov-viamente interessato e coinvolto, ma anche inti-midito. Quanto tempo ci vuole per evolvere dalterrorismo alla politica? Riesce a immaginare, nelfuturo Parlamento iracheno, gli spettri di Moqta-da al-Sadr e di Abu Musab al-Zarqawi che si guar-dano con occhi sorridenti? «Ci si dovrà arrivare»,ha risposto. «Qualcosa del genere alla fine dovràaccadere».

(segue nelle pagine successive)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 17GIUGNO 2007

2000

TORRI GEMELLEDopo l’11settembre Blair promettealleanza agli Usa. Segue la guerrain Afghanistan ma anche il primo calodi popolarità del premier

2001

ATTACCO IN KOSOVOLa Nato bombarda le forzeserbe.Blair sostiene con forzal’operazione, in nomedell’ “ingerenza umanitaria”

FIOCCO AZZURRONasce Leo Blair,il 20 maggio. È la prima voltain centocinquant’anniche un premierha un figlio mentre è in carica

MUCCA PAZZAPrimo caso del virus “muccapazza” in Essex, primo passofalso del governo Blair,accusato di non essereriuscito a prevenire il problema

“DEVOLUTION”Nel luglio si riunisceper la prima voltail Parlamento scozzeseAvviata anche la riformadella Camera dei Lord

1999

SIERRA LEONEIntervento armatobritannico nel. Paese africanoche mette subito fine a un’atroceguerra civile

HUGH GRANT

Qui governano i tabloid

Quando ho interpretato il ruolo del Primo ministro in Love Ac-tually non mi sono sentito particolarmente intimorito. Potreidire di aver cercato di renderlo in modo reale, ma sarebbe una

bugia: non ho mai incontrato Tony Blair né ho tentato di imitarlo. Hocomprato un libro di politica, ma era così noioso che non ho supera-to pagina tre. L’unica cosa che ho chiesto allo sceneggiatore di LoveActually è stata quella di non rendere infallibile il personaggio, per-ché ho scoperto che alle ragazze piaccio di più se non sono perfetto.

Non seguo la politica di nessun Paese, tantomeno quella del mio.Sono talmente suggestionabile che credo a tutto quello che sento di-re in televisione e scherzo, solo fino a un certo punto, quando mi ri-petono che cambio opinione continuamente. Se trovo qualcuno chemi sembra abbia buone motivazioni dico: hai ragione. Ma poi sequalcun altro esprime un punto di vista completamente diversopenso all’improvviso: no, forse, ha ragione quest’ultimo. Non ho maicapito come una persona può essere così convinta del suo punto divista da riuscire poi ad affrontare la propria vita senza mai vacillare.Io vacillo in continuazione. È per questo che sono riluttante a parla-re di politica. Trovo perfino leggermente disgustoso vedere attori chepredicano sulla politica. Io non ho niente di interessante da dire sul-l’argomento e sulle mie scelte politiche, tranne il fatto che secondome se questo governo ha una colpa è quella di piegarsi troppo ai me-dia. Discutere Tony Blair come guida uscente del Paese è ridicolo.Questo Paese è sempre stato governato dai tabloid, non da Tony Blair.

Testo raccolto da Silva Bizio

L’ATTOREHa interpretatoil ruolo di primoministro in LoveActually nel 2003

PRIMA PAGINAMomenti-chiave della parabola di Blair sui giornalibritannici: la vittoria elettorale del 1997; la terza (storica) vittoriadel Labour alle elezioni politiche; il sondaggio dell’Independentsul suo lascito: per il 69% dei cittadini è la guerra in Iraq

Repubblica Nazionale

la copertinaStoria di Tony

(segue dalle pagine precedenti)

WashingtonSit-roomnon è una delle solite contrazioni america-ne per sitting room. Vuol dire situation room, la saladove è in corso la teleconferenza tra Bush e Blair,fiancheggiati da Condi e da Cheney, con i rispettivicomandanti e ambasciatori in Iraq. A momenti sisvolgerà un rituale accuratamente predisposto: idue leader procederanno fianco a fianco, spalla aspalla verso l’Ufficio Ovale per discutere, con altripartecipanti, dei problemi dell’Africa, dell’Iran edella «sicurezza energetica». L’atmosfera in questicorridoi, con gli assistenti e gli agenti segreti, è qual-cosa che non ha nulla di lontanamente simile. Nonrichiama nulla alla mente, se non forse una sorta diaccademia futuribile del potere allo stato puro.

Lo stile non è da premier, bensì presidenziale. Lacarica del presidente in quanto tale è esaltata e rive-rita in ogni momento. Lo si percepisce fin dall’in-gresso su Pennsylvania Avenue, nel faccia a faccia —documenti alla mano, i diversi accrediti stampa, laspilletta al bavero della giacca che identifica i mem-bri della delegazione, il documento d’identità confotografia — con gli accigliati addetti alla sicurezza,vere incarnazioni del più disgustato scetticismo.Qui tutto trasuda tolleranza zero e l’orgogliosa ten-sione del protocollo ai massi-mi livelli. È un peculiare profu-mo d’America che emana daquella coreografia sostenuta,nel terrore di qualunque an-che minimo movimentospontaneo. Questo sì che ri-chiama qualcosa alla mente:un set cinematografico. Dopoun ritardo prodigioso, un nu-mero incalcolabile di falsi al-larmi e tutta una serie di proveraffazzonate (con tanto dicontrofigure), Harrison Ford eJeremy Irons ci concedono i loro quindici secondi;dopo di che ricominciano i ritardi, i falsi allarmi e leprove abborracciate.

Praticamente tutti — dai parolai semianalfabetidella blogosfera («Eccolo qua, il cagnolino di Dow-ning Street, di nuovo qui al fischio del suo padrone»)a re Abdullah dell’Arabia Saudita (che ha incomin-ciato a sfidare gli americani perché «non vuol passa-re per il Tony Blair arabo») — concordano sull’altoprezzo pagato dal premier britannico per essere sta-to troppo vicino a Bush. Una scelta definita «tragica»da Neil Kinnock e «abominevole» da Jimmy Carter.Peraltro lo stesso Blair ha detto con sorprendentefranchezza, nel corso di una recente intervista, che«da una parte… intrattenere un buon rapporto colpresidente americano fa parte dei compiti del pre-mier britannico». Una tradizione che risale, a partequalche fluttuazione, ai tempi di Churchill e al tra-monto dell’impero britannico. Smettiamola di farfinta che sia cosa facile dire di no all’America. Unconto è «essere uno dei principali membri della Ue»;altro è incarnare, come disse Clinton, «la nazione dicui il mondo non può fare a meno».

Ho occasione di farmi un’idea di questa disparitàmentre aspetto nella Roosevelt Room la prossimamossa di Harrison e Jeremy, masticando una cara-mella graziosamente offertami al passaggio da Karl

Rove. Alcuni membri dello staff del Primo ministrostanno comparando le note contabili dei suoi viaggiall’estero con l’equivalente del presidente Usa. Aogni spostamento, Tony Blair ha al suo seguito unatrentina di funzionari e collaboratori, più cinqueguardie del corpo. Mentre Bush viaggia accompa-gnato da 800 persone, più 100 guardie del corpo. Sepoi nello stesso viaggio è in programma la visita a dueStati diversi il numero degli accompagnatori sale a1600, e se gli stati sono tre arriva a 2400. Una volta adestinazione, Blair usa qualunque mezzo di tra-sporto disponibile, mentre Bush fa caricare sul suoaereo da trasporto una limousine per uso personalee una per il seguito, il suo elicottero privato e il suofurgone per il rifornimento di combustibile. Un bri-tannico commenta con tono dimesso: «Ci fate ap-parire come persone semplici». Un’interpretazioneche potremmo definire molto diplomatica.

Alla conferenza stampa nel Giardino delle RoseBush e Blair si scambiano le rituali frasi di commia-to. Il presidente, che da sei anni è circondato da gen-te pronta a piegarsi in due al suo più fiacco tentativodi battuta umoristica, si considera ormai — tra le al-tre cose — un uomo estremamente spiritoso. Va det-to però che in quest’occasione sta dando il meglio disé. Si dimostra generoso e affettuoso, pronto a rico-noscere la sofferenza politica che ha causato a Blair.

Seguono poi gli omaggi codifi-cati alla sua «influenza» sul te-ma del riscaldamento globale(«una questione seria») e un ri-ferimento accondiscendentealla soluzione dei due Stati inMedio Oriente.

Dal canto suo, il PM ribadi-sce con passione la sua tesi or-mai cristallizzata: dopo l’11settembre l’Occidente nonaveva altra scelta che unirsicontro il nemico planetario.Da qui la sua decisione, presa

nella convinzione di fare la cosa giusta. Durante ilcolloquio risuonano a distanza, dalla PennsylvaniaAvenue. i clamori dei dimostranti. È come se da qual-che parte tra i cespugli, in riva al lago artificiale, ungoblin minuscolo e furente cercasse di sforzare almassimo la voce, riuscendo a malapena a superareil miagolio incessante delle telecamere.

Dopo una sessione celebrativa all’Ambasciatabritannica (Irlanda del Nord), lasciamo Massachu-setts Avenue per dirigerci verso l’Andrews Air ForceBase con una colonna di automobili formato totali-tario. A ogni incrocio e a tutte le svolte un’auto di ser-vizio sgombra la carreggiata per mezzo miglio intor-no al seguito di Tony. Così sfrecciamo con le nostrelimousine e Rolls e i nostri camion Swat sul cavalca-via che sormonta il raccordo sgombro da ogni trac-cia di traffico, fino alla pista di decollo dove ci atten-de l’aereo che via Heathrow ci porterà in Kuwait.

Non mi pare che il mio sostegno alla guerra — difatto inesistente fino al momento in cui è esplosa— riceva una scossa quando indosso l’elmetto dacontraerea e il giubbotto antiproiettile del peso diuna decina di dieci chili (come se dovessi prepa-rarmi a chissà quale esplorazione radiografica), emi introduco faticosamente nella pancia di un

Hercules C-130.Subito dopo la sveglia, alle 4.30, ho estratto due

bottiglie d’acqua da una specie di minibar dabambini, pieno zeppo di Seven-Up e aranciate; ela mia prima colazione è stata insolitamente leg-gera, a base di cereali All-Bran e caffè nero fuman-te. Ci riuniamo sulla piazzola per raggiungere l’ae-roporto a bordo di un umile pullman. Attraversia-mo la tetraggine quasi artistica di Kuwait City, unaconurbazione che sembra priva di qualsiasi toccofemminile: nessun colore tranne quelli commer-ciali, nessuna curva che non sia devozionale. E sututto grava una foschia sinistra, come di polvereumida.

All’interno l’Hercules è praticamente privo di su-perfici; è tutto un insieme di interiora — tubazioni,sacchi, grovigli di fili elettrici e cinghie. E dappertut-to le scritte: danger, warning, emergency. In luogodelle tranquille comunicazioni del capitano, un sol-dato recita urlando le istruzioni di sopravvivenza (dicui non riesco ad afferrare neppure una sillaba). Glioblò non sono accessibili, per cui devo affidarmi aisegnali acustici per rendermi conto delle fasi del de-collo: suoni fantasmagorici, striduli o sbuffanti, co-me nei film di fantascienza dove un qualche aereo datrasporto disastrato va orbitando senza posa nelvuoto intergalattico. Un’altra novità è l’impatto del-la forza di gravità che mi fa piegare con tutto il busto

a destra al momento del decollo (e più tardi a sinistra,al momento dell’impatto a terra).

Tony viaggia nella cabina del pilota e all’aeropor-to di Bagdad sbarca elegantemente in completo ecravatta. Per quanto ho potuto vedere, in nessunmomento ha subito l’ingombro delle bardature disicurezza. Un po’ come durante il primo viaggio,quando in un contesto assai più ameno ha disde-gnato di usare la cintura di sicurezza della sua Jaguarblindata. Cos’è mai questo tratto da Primo ministro?Noi tutti a grondare sudore sotto le nostre corazze;lui no. Eccolo attraversare la pista d’atterraggio co-me il prescelto che ha sempre diritto all’eccezione, ilredento, l’eletto.

Inutile dirlo: qui non ci sarà il solito corteo di auto.Darebbe troppo nell’occhio sulla strada verso Bag-dad, l’“autostrada della morte”. Tony si inerpica sulsuo Black Hawk, io sul mio Cobra. Con fatalistico di-stacco osserviamo il ragazzo dalla pelle scura cari-care la mitragliatrice montata sul treppiedi. Voliamobasso, poco sopra i fili del telegrafo. A quell’altezza(come mi hanno spiegato) un missile non fa in tem-po ad armarsi prima dell’impatto. Anche se il Cobrafosse colpito, non esploderebbe. Durante il voloemettiamo fiammate: così un eventuale proiettilecredulone è attratto da quel calore invece di cercareil nostro. Chiudendo gli occhi si percepisce qualco-sa come una musica, quasi un tintinnio, atonale più

MALCOLM MCDOWELL

È stato un’occasione persa

Nessun rimpianto. Blair mi fa pensare a Madonna, come lei èstraordinario nelle relazioni pubbliche, ma analizzando afondo non c’è molta sostanza. Il problema grave è che ha pro-

messo molto e ha mantenuto poco. E quando si è prostrato alla po-litica di Bush il risultato è stato disastroso. Sulla guerra in Iraq la po-sizione giusta è stata quella della Francia e dei milioni di personeche sono scese in piazza per manifestare contro. È strano che nonabbia ascoltato milioni di inglesi, persone comuni, lavoratori diogni genere che pagano le tasse e che hanno fatto la fatica di usci-re di casa, per un primo ministro laburista dovrebbe essere natu-rale mostrarsi sensibile al volere della gente.

Non penso che sia un truffatore, è una brava persona, miglioredel vostro Berlusconi, ma un premier eletto con una maggioran-za schiacciante, credo la più forte del dopoguerra, aveva l’occa-sione e il potere di cambiare qualcosa. Il suo governo è statoun’occasione persa, la gente è delusa. Ha fatto qualcosa di buo-no, ma non certo per il cinema, lo ha distrutto abolendo la picco-la tassa sul biglietto. Oggi si fanno pochissimi film, chi vive di ci-nema, registi attori e maestranze, se ne vanno in America. Il tea-tro funziona ancora bene, ma soprattutto perché è un’attrazioneturistica che porta soldi, non per amore della cultura. Non so co-sa aspettarmi dal futuro, non sono cinico e spero di avere qualchebella sorpresa. Comunque so che finirà finalmente il circo tipoHollywood davanti al numero 10 di Downing Street. GordonBrown è sicuramente più serio.

Testo raccolto da Maria Pia Fusco

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

“CHERIEGATE”Cherie Blair, moglie del premier,si scusa pubblicamenteper i rapporti d’affaricon Peter Foster,condannato per frode

2002

WARIl 20 marzo cominciala guerra. Tutti i sondaggiindicano oggiche per l’opinione pubblicabritannica sarà questoil principale lascito di Blair

STERLINA SÌ, EURO NOIl primo gennaio l’euro diventa la monetadell’Unione europea Scompare il marcotedesco ma la Gran Bretagna decidedi non rinunciare alla sterlina

VIA IL MINISTROA metà dicembre, dopo settimanedi polemiche, si dimette il ministrodegli Interni David Blunkett,accusato di aver favoritol’ex amante Kimberly Quinn

2004NO WARIl 16 febbraio circa un milionedi persone manifestanoa Hyde Park contro l’imminenteguerra in Iraq, che inizieràmeno di un mese dopo

2003

SCIENZIATO SUICIDALa Bbc accusa il premierdi aver falsificato i dati sulle armidi Saddam. Si suicida David Kelly,lo scienziato testimone della Bbc

PACE CON GHEDDAFIVisita di Blair a Tripolidopo l’ammissionedi responsabilità del regimelibico nell’attentato all’aereoPanAm precipitato su Lockerbiein Scozia nel 1988

‘‘L’errore più graveIl nostro maggior trionfoè stato rimuovereil governo conservatoreQuanto al peggior errore,lo lascerò scoprireall’onorevole membrodell’opposizione

CAMERA DEI COMUNI30 luglio 1997

‘‘‘‘

ILLUSTRAZIONE MIRCO TANGHERLINI

Tutti concordanosull’alto prezzopagato da Blairper essere stato

troppo vicino a Bush

L’ATTOREVolto notissimo

del cinema ingleseEra Alex in Arancia

Meccanica di Kubrick

Partito di governoUna cosa mi è chiara:la sterilitàdell’opposizioneNon ho aderito al Partitolaburista per protestare,ma per governare e nefarò un partito di governo

CONGRESSO DELLE UNIONSsettembre 1995

Lady DianaPiaceva alla gente,che le voleva beneEra la principessadel popolo e tale resterànei nostri cuorie nella nostra memoriaper sempre

SEDGEFIELD31 agosto 1997

IN GRAN BRETAGNA

NEL MONDO

Repubblica Nazionale

che militare. Poco prima del nostro arrivo, un colpo di mortaio

ha sfondato una Toyota Landcruiser nel parcheggiodell’Ambasciata britannica, la nostra prima tappanella Green Zone. Mentre Blair sparge tutt’intorno ilsuo sorriso contratto, mi metto a parlare con Jackie,dello staff direzionale. «Qui ormai ne arriva uno algiorno», mi dice. «Finché si sta dentro va tutto bene.Fuori ci sono i ricoveri duck-and-cover (abbassati ecopriti). Sono come scatole: quando arriva il segna-le, hai cinque secondi per infilarti lì dentro. Hot me-tal, schegge: è da cinque o sei settimane che ce liprendiamo. A questo punto non mi importa se misono messa una gonna bianca appena lavata».

Proseguiamo la nostra tirata, con varie interruzio-ni, verso il “Palazzo”, la residenza del Primo mini-stro, per una conferenza stampa: divani immensi,candelabri dorati, rose finte, luce artificiale. Ecco AlMaliki che avanza lungo il morbido e spesso tappe-to rosso per andare a salutare e baciare il presidenteTalabani. I due scompaiono dietro lo steccato delletelecamere. Qualcuno fa domande ostili, si sentonoi flebili acuti delle proteste di Blair e la voce barito-nale e didattica di Talabani: progresso, migliora-mento, le forze di sicurezza irachene, il dialogo conle tribù, un canale con l’Iran, colloqui costruttivi, lastrada davanti a noi…

Facciamo una puntata a Maud House, il quartiergenerale dell’Unità di supporto britannica, giusto in

tempo per un altro allarme. Il generale David Pe-traeus, che fisicamente ricorda un po’ Wolfowitz, hauna risata nervosa, a scatti. Ma al sibilo della sirenasbatte appena le palpebre.

«È l’incontro di Apocalypse Nowcon Disneyland»:questo il fulminante verdetto di un colonnello bri-tannico. Segue un interludio all’eliporto (che sem-bra una piscina di cemento grigio a secco), dove sipuò trovare un po’ d’ombra e cercare di mettere or-dine nel groviglio delle squallide impressioni. LaGreen Zone fa pensare al quartiere delle ambascia-te nella capitale di un qualche staterello sudameri-cano, dopo il tracollo, gli sconvolgimenti e la penu-ria di un periodo di rivoluzioni e massacri. Mi ritro-vo a contemplare una poltrona riccamente ornata,lugubremente issata in cima a un mucchio di rifiuti:un simbolismo fin troppo calzante.

Di nuovo in macchina, e via su strade accidentateattraverso Bagdad: le case d’appartamenti che sem-brano piccoli parcheggi a due piani, immondiziaovunque, le piscine coi loro rivestimenti verdi senzaun filo d’acqua.

A Bassora succede qualcosa a Blair. Siamo alla ba-se aerea, più o meno l’unica base operativa super-stite nel Sud, dopo che la città è stata abbandonataall’atomizzazione generale: fazioni sciite, milizie tri-bali, bande armate. Al bar (che un tempo era la salariservata ai vip), dopo alcune centinaia di strette dimano e altrettante conversazioni di dieci secondi,

Blair fa un discorso ragionevole, ragionevolmenteben accolto. Poi ripiega in una stanza laterale peruna sessione a porte chiuse col cappellano, vari uffi-ciali e un gruppo di giovani soldati, venticinque cir-ca. È qui che succede qualcosa.

I responsabili parlano del lato «duro e oscuro» deirecenti eventi sul campo (perdite di arti e di vite uma-ne), delle esperienze che ti trasformano, del fatto che«questi ragazzi sono stati costretti a crescere moltoin fretta». E quando arriva il turno di Blair, è come seavesse esalato tutto il suo ossigeno. Non solo è in gra-ve imbarazzo per insufficiente competenza e pre-parazione (su munizioni, tattiche, progetti), masembra del tutto incapace di trovare il giusto accen-to, il tono di voce, l’atteggiamento, i termini appro-priati per quella circostanza. «Dunque ammazzia-mo più noi dei loro di quanti loro ammazzino dei no-stri… E voi ritornate là fuori per acchiapparli. Otti-mo, davvero…». Bisogna dire che tra tutti gli uominipresenti in quella sala, il PM appariva come il menoarticolato. Non solo: anche il più giovane di tutti.

Mi trattengo dopo che il PM si congeda. In capo adue minuti un boato fa tremare i muri della stanza.«Tutti seduti a terra», ordina l’ufficiale. Una volta ac-cucciati, il caporale con cui stavo conversando, chesembra un ragazzo, continua a parlare senza nem-meno un secondo di pausa (tanto sono abituali le in-terruzioni di questo tipo) dellapotenza di fuoco dei missilianticarro Tomahawk. Prendocongedo, subito dopo il via li-bera, da quelle facce serie e unpo’ accigliate; e il nostro grup-po se ne va, lasciandoli in undeserto non solo fisico ma spi-rituale, sotto quella coltrebiancastra di polvere e sabbiache fa pensare a una benda digarza sporca calata sui volti acoprire il fiato. Ci infiliamo dinuovo nell’Hercules e allac-ciamo le cinture per il breve volo di trenta minuti perKuwait City.

Da persona a persona «Pronto, qui Downing Street, siamo momenta-neamente assenti. Si prega di lasciare un messag-gio dopo il segnale di ottimismo». Questa la bar-zelletta che si racconta in giro. Di fatto l’ottimi-smo, l’“alto tono morale” che tanto fa infuriare isuoi detrattori non è un atteggiamento adottatoad arte da Blair per completare l’elenco dei suoimeriti. È una qualità innata, come la sua fede reli-giosa, parte integrante e non separabile della suapersonalità. Si è detto di lui che è un manicheo,uno che vede tutto in bianco e nero — di qua la lu-ce, di là il buio pesto. Lo hanno definito un self-an-geliser, uno che si crede un angelo, convinto dellabontà delle sue scelte solo perché è lui a farle. È aquesto meccanismo che viene ricondotta, credo,la tesi di Blair sulla guerra in Iraq. Le forze delle te-nebre sono schierate contro quelle della luce; enoi non possiamo permetterci di perdere. A mioparere, queste proposizioni sono entrambe per-fettamente veritiere. Non possiamo permettercidi perdere — eppure perderemo in questo terre-no che la coalizione si è scelto.

In Iraq ho potuto stare a quattr’occhi con lui per

SVEN-GÖRAN ERIKSSON

Esce di scena da vincitore

Sono fermamente convinto che Tony Blair sia uno dei piùgrandi politici di sempre. Lo stimo molto, ha fatto tanto per laGran Bretagna. C’ero anch’io quando sono state assegnate

proprio all’Inghilterra le Olimpiadi del 2012, a Singapore nel luglio2005, e in quella occasione il primo ministro Blair ha dato l’enne-sima prova della sua straordinaria,e sempre presente, capacitàcomunicativa.

Poi sulle questioni legate alla guerra in Iraq è giusto che ognu-no abbia le proprie idee, questo è un altro discorso. Ma è innega-bile che lui sia un politico di grande spessore e un formidabile co-municatore. Dal 2001 al 2006 sono stato commissario tecnicodella nazionale inglese e ho avuto modo di incontrarlo cinque osei volte: è un uomo molto simpatico. Tra i suoi tanti interessi c’èil calcio, è tifoso del Newcastle.

Non dimenticherò mai il nostro primo colloquio, all’aeropor-to, in occasione di una visita a Londra del premier svedese. Era ilfebbraio 2001, io ero appena diventato comissario tecnico e fuichiamato a partecipare a quell’incontro. Quando mi vide, TonyBlair venne verso di me sorridendo, disse «Sven, benvenuto in In-ghilterra»; poi mi propose una curiosa scommessa: «Il nostro è unlavoro impossibile, lei sulla panchina della nazionale e io sullapoltrona di primo ministro: vediamo chi tra i due resta più a lun-go nel suo incarico».

Ha decisamente vinto lui. Testo raccolto da Giulio Cardone

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 17GIUGNO 2007

È SCANDALO“Cash for Honours”:finanziamenti al partito in cambiodi onoreficenze. Il 14 dicembreBlair è il primo premierinterrogato dalla polizia

2006

NO ALLA PENA CAPITALESmentendo due suoi ministri(Esteri e Interni),Blair dichiarache la Gran Bretagnaè contraria alla pena di morte,anche per Saddam

BOMBE NELLA METRO7 luglio: attentati suicidinella metro di LondraI morti sono 56. Resteràil giorno più nero nei diecianni di premiership di Blair

2005

G8 A GLENEAGLESIl maggiore risultatodel summit in Scozia nelluglio 2005 sonoi 50 miliardi di dollariin nuovi aiuti promessiall’Africa

ULTIMO GIORNOIl 27 giugno lasceràla guida del Partitolaburista e la poltronadi Primo ministroa Gordon Brown

2007

L’8 maggio diventaoperativo l’accordoper l’Irlanda del Nord:il protestante Paisleyè premier, il cattolicoMcGuinness è il vice

Le armi di Saddam/1Non ho assolutamentealcun dubbio sul fattoche troveremo le provepiù chiare dell’esistenzadei programmi di armidi distruzione di massadi Saddam Hussein

CAMERA DEI COMUNI8 luglio 2003

‘‘Le armi di Saddam/2Abbiamo ricevutoinformazioni suiprogrammi di Saddame le sue armi e abbiamoagito di conseguenzaLe troveremo mai?La risposta è che non lo so

INTERVISTA11 gennaio 2004

‘‘I media nemiciDi questi tempi l’aspettopiù difficile in assolutonel nostro mestiere— se si eccettuanole decisioni di primariaimportanza — è averea che fare con i media

Da REPUBBLICAdel 13 giugno 2007

‘‘

IL CTÈ stato commissariotecnico dellanazionale inglesedal 2001 al 2006

LA FAMIGLIA

Tony Blair, all’anagrafeAnthony CharlesLynton Blair, è sposatodal 29 marzo 1980con l’avvocatoCherie Booth,sua ex collegaLa coppiaha quattro figli:Euan, 23 anni,Nicky 22,Kathryn 19e Leo 7Il piccolo di casa Blairè nato quando il padreera Primo ministroin carica. Un simileevento era accadutosolo una volta,nel 1849

un’ora intera. Normalmente, ad eccezione di rarimomenti, non si è mai soli con Tony Blair. C’èsempre il fotografo, il documentarista, l’assisten-te col registratore alla mano. E poi c’è il superegoprofessionale del PM, addestrato alla cautela,consapevole in ogni momento che anche unamezza parola può ritorcersi contro di lui e aleg-giare sul suo capo come un Saturno incombente.Ma nei rari momenti di contatto diretto appare di-verso: ha una presenza fisica che colpisce, è piùsensibile, e anche molto più divertente dell’uomoche siamo abituati a vedere.

«Hai visto il film The Queen?», gli chiedo. Siamoin volo verso la Germania, su uno di quei vecchi elenti Hawker-Siddeley presi a prestito dalla regiaflotta. Il capo dello Stato è lei, la Regina, non ce loscordiamo; e ha completato da poco il suo undi-cesimo quinquennio.

«No, non l’ho visto».Beh, gli dico, è uno di quei casi in cui tutti han-

no sbagliato tutto. Hellen Mirren è come sempreuna gioia per gli occhi, ma nel ruolo della reginaElisabetta è un vero disastro, con tutto quel sarca-smo, quell’ironia. Io l’ho incontrata per una deci-na di secondi, la Regina: una giovenca. Non sem-bra anche a te?

«No, questo non lo posso condividere», mi ri-sponde contorcendosi sul se-dile»

«Ma tu — l’attore che ti im-persona — ti ha colto in pieno!Con quell’alone, quello splen-dore di gioventù. E lo splendo-re del potere. Che effetto fa, ilpotere? Dà alla testa?».

Sì, mi risponde; ma c’è an-che la responsabilità, che ti fastare coi piedi per terra. A mepiace pensare di poterne farea meno. Devi essere in gradodi metterlo in gioco, lascian-

do un certo spazio alle scelte istintive. Affrontarela possibilità di perderlo. Per poterlo usare.

«Ti ricordi gli autografi per le mie figlie?», gli di-co qualche giorno dopo (ma prima della brevissi-ma puntata in Iraq), nel “covo” di Downing Street.«Mi basta uno scarabocchio su questo notes».

«Ma no, qui ci vuole la carta intestata del Primoministro».

«La piccola vorrebbe anche il tuo numero di te-lefono. Ha sette anni. Aspettati una sua telefona-ta».

«Il numero è sulla carta intestata, credo. Anzino, c’è solo l’indirizzo. Dunque, si chiama... Fer-nanda?».

«Sì. E la piccola si chiama Clio, con la i, non conla e».

No, non c’è mai tregua.«Clio», ho ripetuto. «La musa della storia». «… Clio. Ecco qua». «Allora, che effetto fa vederlo calare come la ma-

rea?... Il potere, intendo dire».«Finora tutto bene. Quando verrà quel giorno,

probabilmente mi aggrapperò al battente dellaporta. Ma per adesso penso che posso semplice-mente… lasciarlo andare».

Traduzione di Elisabetta Horvat(© Martin Amis, 2007)

Eccolo attraversarela pista d’atterraggio

come il presceltoche ha sempre dirittoall’eccezione, l’eletto

Repubblica Nazionale

il reportageVite nomadi

Si chiama Goffredo Bezzecchi, è il patriarcadi una famiglia rom. È l’unico zingaro, dice, ad averconservato le foto degli antenati violando l’usanzadi bruciare ogni cosa appartenuta ad un morto. Una storiaper immagini che attraversa l’Europa dalla Sloveniaall’Italia tra pogrom, cavalli e mestieri perduti

ROGOREDO (Milano)

Avvengono ancora, i miracoli a Milano.Chiedi a Goffredo Bezzecchi, nato a Postu-mia nel 1939, se esistano fotografie di lui edella sua famiglia, deportata in Italia nel

1943 e messa in un campo di concentramento per i Rom.Chiedi se esista una memoria che aiuti a raccontare la sa-ga dei Bezzecchi, un tempo fabbri in Slovenia, dove gira-vano con il mantice e il carbone per «fare le scarpe dei ca-valli» e per costruire falci per il grano. Goffredo Bezzec-chi, nel suo campo di Rogoredo, fra la tangenziale est, laferrovia e sotto i cavi dell’alta tensione, spiega che nulladi tutto questo può esistere perché c’è «il culto dei mor-ti». «Non si parla di chi non c’è più. Quando uno muore,fino a vent’anni fa si bruciava anche la casa. Adesso laspogliamo di tutto: letti, cucina, televisore, divani… Tut-to ciò che è stato usato dai morti, viene bruciato. Poi ab-bandoniamo la casa, la vendiamo».

Goffredo Bezzecchi, l’anziano del campo— ci stanno lui e i suoi figli e i nipoti, trenta-trè persone nella stessa famiglia allargata ealtri Bezzecchi vivono fuori — ha però un se-greto. «Per rispetto dei morti si debbonobruciare soprattutto le loro fotografie. Ma ioquelle della mia mamma le ho tenute. Sonoforse il primo Rom che ha osato fare questo.Le tengo in una scatola che anni fa ho con-segnato a una delle mie figlie». Pochi minu-ti e la piccola scatola di legno è sul tavolo del-la cucina. Tutti i Bezzecchi accorrono perguardare quelle foto in bianco o nero, o coni primi colori sgranati, che mai avevano vi-sto. «Ecco, questa è la mia mamma, Ida Brai-dich. Di mio padre, che si chiamava Goffre-do come me, non ho nulla. È morto disper-so in guerra. Lui, zingaro, combatteva perl’esercito italiano. Ecco, questo è il mio pa-trigno Michele. Mia madre si era risposata.E questo sono io, quando ero bambino e giravo con lamamma a chiedere il manghel, l’elemosina».

È domenica e i Bezzecchi sono tutti alla kher, nella “ca-sa” che è poi un misto di roulotte, prefabbricati da terre-motati, belle villette che sembrano chalet svizzeri. I bam-bini giocano in una piscina di plastica. Forse è il postogiusto, questo, per raccontare una storia Rom. «Solo lastoria della mia famiglia. Anche noi, come voi gagi, sia-mo diversi gli uni dagli altri. Invece per tanti altri italiani(anche noi siamo cittadini di questo Paese) noi siamorom, zingari, nomadi, tutti uguali… L’ho imparato dapiccolo, vicino a Genova. Stavo guardano altri bambiniche erano nel cortile della scuola, dietro una rete, duran-te la ricreazione. Quando mi hanno visto si sono messi agridare: pidocchioso, lavati. C’erano anche le maestre esi sono messe a ridere. Mi sono detto: forse credono chesia una scimmia in gabbia. Ma poi ho pensato che nellagabbia di rete c’erano loro. Io avevo la mia libertà. E an-dando via mi sono messo a ridere anch’io. Vede, con voigagi il rapporto è strano. Ne abbiamo subite di tutti i co-lori, ma girando l’Italia noi Bezzecchi abbiamo capitoche c’è anche chi ci invidia. Avevo un amico gagi vicino aPiacenza. Mi disse che non era mai stato a Milano. E in-

vece noi, prima a piedi, poi a cavallo e adesso con il cam-per, abbiamo girato tutta l’Europa. Sono tornato adessodal Portogallo. Sono stato alla Madonna di Fatima, e pri-ma a quella di Lourdes. In Camargue, a fine maggio, hopartecipato al pellegrinaggio a Saintes-Maries-de-la-Mer. È una Madonna nera e la leggenda dice che fosseuna zingara».

Il primo ricordo è il fuoco. «Avevo quattro anni. In Slo-venia abitavamo in una casa di tronchi fatta costruire daMussolini, perché quella di mio padre era una famigliacon tanti figli da dare alla Patria. Poi un contadino una se-ra ci avvertì del pericolo, ci disse di scappare, perché i fa-scisti ustascia avevano deciso di bruciare le case deglizingari. Ecco, il primo ricordo è la mia casa in fiamme.L’ho vista da lontano, dalla montagna».

A piedi, con la mamma, fino a Trieste. Anche ifascisti italiani si danno da fare. Caricano i Romsu un carro bestiame e li deportano nel campodi concentramento per zingari a Tossicia inAbruzzo. «Di quei giorni non ricordo nulla. Ri-cordo invece gli anni dopo la guerra. Ero a Geno-

va ed ero accanto a un bidone. Ven-devo benzina di contrabbando, eanche sigarette. I soldati americanimi davano chewingum e sigarette. Ecosì ho cominciato a fumare da bam-bino». I Rom più grandi cercavano dalavorare al porto. «Senza nemmenoparlare, c’era un capo che con la manoindicava un sacco di zucchero, da unquintale. Se riuscivi a caricarlo in spalla,eri assunto». I viaggi a piedi con la mam-ma che ancora si deve risposare. «L’ho fat-ta tutta, l’Italia del nord e quella centrale.A Lugo di Romagna mia madre bussa a unportone, per chiedere un soldo o un pezzodi pane. Esce un energumeno che senzaparlare la prende a pugni in faccia fino a far-la sanguinare. A Rovigo il nuovo compagnodi mia madre una notte sfonda la porta diuna scuola perché il freddo stava ucciden-

do noi bambini. Sono arrivati i carabinieri. Hanno vistoche tremavamo e ci hanno portato delle coperte. “Bastache andiate via domattina presto”».

Ci sono figli e nipoti, accanto al “vecchio” Goffredo chea ottobre compirà 68 anni. «Mio figlio, che lavora all’O-pera nomadi, dice che a Milano c’è solo un Rom anzianocome me. Con la vita che facciamo, non arriviamo a cin-quant’anni. Ma sono contento. Da ragazzino la vita eradurissima. Non potevi entrare in un cinema, a Vogheranon ti lasciavano entrare in piscina. Insomma, entranotutti e tu no. Ti fanno diventare il bandito Giuliano. Dagrande, non è che siano arrivati fiori e rose. Ma sono an-cora qui, nel mio campo. Io un appartamento avrei po-tuto averlo ma so che dentro ai muri ti viene la malinco-nia. Ci sono i balconi, ma se sei triste servono solo a but-tarti di sotto. Mi sono sposato, ho fatto cento mestieri eotto fra figli e figlie. Uno purtroppo non c’è più. Il camponon è una casa come le altre. Qui si può vivere tutti assie-me o almeno vicini. Io entro nelle case dei figli o dei ge-neri e loro entrano in casa mia. In un appartamento, sipuò fare? E poi il campo ti permette di non essere mai so-lo, di capire gli altri. Faccio un esempio. Per anni e anninoi abbiamo mangiato i ricci, quegli animaletti che han-

JENNER MELETTI

“Guardavo gli altribambini nel cortile

della scuolaMi gridavano: lavatiPensavo: mi credono

una scimmiaMa in gabbiac’erano loro”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

I ricordi ritrovatidel popolo migratore

Repubblica Nazionale

no tanti aculei. Trovarli non è facile. Segui la loro traccianei campi, devi distinguerla da quella dei topi. Il riccio èfurbo. La traccia fa tante giravolte, si infila fra gli arbusti.Eppure, dopo anni di tentativi, guardi un campo e capi-sci dove il riccio ha fatto la sua tana. Alla brace sono buo-nissimi. Ecco, se un uomo è capace di capire i ricci, nonriesce forse a capire cosa c’è nel cervello di un altro uo-mo, magari soltanto guardandolo negli occhi? Se entrial campo entri in casa. Se entri in casa io ti offro damangiare. È una vergogna non offrire il cibo. E conuno sguardo capisci che l’altro uomo ha bisogno disedersi alla tua tavola perché sulla sua oggi magarinon c’è nulla».

Facchino, catramista, autista di camion per lavendita di bombole di metano poi padroncino, mu-ratore, ambulante di giocattoli, giostraio. «Se nonavessi avuto tanti figli, oggi magari sarei ricco». Pri-mo campo quasi fisso a Landriano, in una cascina.Poi, nei primi anni ‘70, un terreno concesso dalComune di Milano in via Zama, per le roulotte e lecarovane. Un altro contratto con il Comune in viaBonfadini, per trent’anni, per il

campo dove vivere e il lavoro diraccolta rottami. «Siamo arrivati qui

a Rogoredo tre anni fa, e appena si è sa-puto del nostro arrivo c’è stata una pro-testa in paese: hanno fatto un bloccostradale, non volevano questo campo,uno degli 11 del Comune di Milano. Orale cose si sono calmate. Noi stiamo quinel campo, loro stanno in paese. E nondiamo fastidio a nessuno. Da anni nes-suno di noi porta via nulla, nessuno fa ilmanghel. Io dico sempre: “Medico cura,ma tu cerca di guarire”. Per evitare pro-blemi, ti devi dare da fare. Io i miei figli liho mandati tutti a scuola. E tutti quellidella mia famiglia hanno un mestiere».

Nel campo di Rogoredo la saga deiRom Bezzecchi è arrivata alla quinta ge-nerazione italiana. Goffredo, il figlio diIda Braidich, si è sposato con Antonia Hudorovic e ha ge-nerato Paolo (operaio specializzato, sindacalista), Fran-cesco (che è morto giovane), Giorgio (segretario nazio-nale Opera nomadi e consulente per Rom e Sinti per i Co-muni di Milano e Pavia), Davide (custode — portinaio) epoi Gabriella e Tiziana (casalinghe), Marco (padroncinodi un camion) e Emanuela, ancora nel campo. «Anch’io— racconta Giorgio Bezzecchi, 47 anni — da piccolo an-davo in giro con una cassettina e vendevo mollette perstendere i panni, elastici, stringhe. Ricordo soprattutto laVal di Non, e non sono ricordi brutti. Ero molto piccolo enelle case mi accoglievano bene. Se non compravanonulla, mi regalavano una mela. Gli altri bambini mi guar-davano con invidia. Pensavano che io fossi libero di faretutto quello che volevo. Non era così. Al mattino in giro avendere, poi il pranzo, ancora in giro e alla sera si anda-va davanti al caseificio. Arrivavano i contadini e un goc-cio l’uno un goccio l’altro, ti riempivano di latte il pento-lino che avevi portato da casa. Se sei Rom devi capire ilmondo in cui stai entrando. La gente accetta gli zingarisolo a piccole dosi. Mio padre, con la carovana, non si fer-mava mai nello stesso paese più di un giorno. Arrivavi,vendevi, chiedevi e via. Restare fermi era come dire: in

qualche modo dovete mantenerci. Ed eravamo molto at-tenti alle altre carovane. Se ce n’era una davanti a noi,cambiavamo strada. Magari quelli rubavano e allora erameglio, per noi, non farci vedere in quel paese almenoper qualche settimana».

Giorgio Bezzecchi ha sposato una gagi e vive, con duefigli, fuori dal campo. «Nostro padre è stata la nostra for-tuna. Ci ha mandato a scuola tutti. Io sono ragioniere epoi ho fatto un corso di musicoterapia. Tutti i miei fratel-li hanno la terza media. Io sono stato il primo Rom mila-nese iscritto alle medie e poi alle superiori. Andavo a stu-diare a casa di un amico, figlio di un colonnello. Nella ca-rovana eravamo in troppi, non c’era lo spazio per aprirei libri».

Nel campo, fra piante di rosmarino e salvia, Biancane-ve, i sette nani e la Madonna di Lourdes, i bambini cor-rono sotto il sole, per asciugarsi dopo la piscina. «Qui aMilano tutto sta cambiando. Nel 2001 c’erano 2200 fraRom e Sinti, ora sono almeno 5000 e i nuovi arrivati sonoquasi tutti Rom romeni. Il Comune non riesce più a dareuna mano alle comunità storiche, deve solo affrontare le

nuove emergenze. La tensione è molto alta,con centinaia di bambini mandati all’ele-mosina o a rubare. Ma io dico sempre: i Romnon esistono. Ci sono i Rom romeni, quellidella ex Jugoslavia, i Sinti, ci siamo noi cac-ciati dagli Ustascia. Nessuno è uguale all’al-tro, ognuno è responsabile delle proprieazioni. Non si può dire: i Rom fanno questo,i Rom fanno quello. Che legame c’è, fra imiei figli e quelli del Rom di Craiova? I mieifigli hanno problemi uguali a quelli degli al-tri italiani. Uno è Co. co. pro, l’altro è volon-tario nel servizio civile. Il loro problema ètrovare, come tutti gli altri, un lavoro vero eun futuro».

La quarta generazione ha la faccia di Ivan,27 anni, manutentore di estintori. «Anchegli altri miei cugini lavorano: una al Mc Do-nald’s, un’altra è cassiera, uno fa le pulizie,l’altro è ragioniere… Io vivo al campo per-

ché sono un Rom e amo la tradizione. Qui ci si sposa an-cora con la “fuitina”. Si scappa con la ragazza, poi lei tor-na, viene sgridata e maltrattata. È tutto un rito. E alla finesi fa la festa, con tutti quelli del campo invitati a mangia-re il maialino allo spiedo». La quinta generazione è con-tenta perché le scuole sono finite. Manuel, 7 anni, pas-serà tutta l’estate al campo perché gli piace parlare solocon i bambini come lui, che chiamano il pane «maro» epoi magari giocano con un «barolo», un sasso.

Il camper appena tornato dal Portogallo sembra giàpronto per un nuovo viaggio. Ogni volta, l’anziano Gof-fredo prende con sé, assieme alla moglie Antonia Hudo-rovic, un nipote diverso. Il viaggio sarà anche una scuola.Goffredo racconterà a Manuel o Francesco che i Romodiano il colore bianco, perché bianchi sono i letti e le len-zuola degli ospedali, dove gli zingari entrano e non esco-no quasi mai perché si decidono a chiedere aiuto soloquando sono ormai alla fine. Racconterà di quel fuoco vi-sto in Slovenia, quando anche lui era bambino. Dell’uo-mo cattivo di Lugo di Romagna. Di un «miracolo» nasco-sto in una cassetta di legno. Dei tanti campi costruiti afianco della tangenziale e sotto l’alta tensione. «Ma lì nonci sono balconi. Quelli servono solo a buttarsi di sotto».

“È una vergognanon offrire il ciboCon uno sguardocapisci che l’altrouomo ha bisogno

di sedersialla tua tavola perchésulla sua non c’è nulla”

L’ALBUMNell’altra pagina, in alto da sinistra, fotodella famiglia Bezzecchi oggi. Il patriarca Goffredoè al centro. A sinistra il figlio Giorgio,alla sua sinistra la moglie di Goffredo Antonia,a destra l’altro figlio Ivan; al centro, l’ultimagenerazione, Manuel e Francesco, mentre giocanoin piscina con un amico. In questa pagina in alto,la carta di identità di Ida, la madre di Goffredo;foto di un pellegrinaggio; il camion con le bomboledel gas di Goffredo. Qui sopra, un angolo votivodel campo rom di Rogoredo. A sinistra foto d’epocadi parenti e antenati dei BezzecchiNella prima istantanea a destra, l’arrivo in Italiadi Michele, patrigno di Goffredo insieme a Ida(al centro della foto) e a Janina, sorella di Goffredo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 17GIUGNO 2007

FOTO SILVANO DEL PUPPO/FOTOGRAMMA

Repubblica Nazionale

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

il raccontoAnni verdi

A otto giorni dall’inizio del più blasonato torneodi tennis del mondo, che il 25 giugno aprirà a giocatorie pubblico i suoi mitici cancelli, l’Istituto italiano di culturaa Londra dedica all’evento una mostra fotograficaE uno scrittore-tennista rievoca la sua indimenticabilepartecipazione nei lontani Cinquanta...

«Epoi vedi, Giovannino: se continuerai così, potraigiocare gli Championships».Nel suo incantevole angloligure, Lord DanielHanbury, fondatore proprietario e chairman delLawn Tennis Club di Alassio, così parlava al bam-bino Clerici, nel lontano 1936.

Da poco Giovannino (il personaggio protagonista del romanzo IGesti Bianchi, Alassio 1939) aveva iniziato l’esperienza del tennis,grazie alle lezioni di D.H. Sweet, il maestro britannico noto per le suestravaganze: indossava, invece che lunghi pantaloni di flanellabianca, come tutti i Signori Soci, certi calzoni alla zuava che giunge-vano addirittura a lasciare scoperto il polpaccio.

«Cosa sono gli Ciampioncip, Lord?», s’informò Giovannino, che,ancora inesperto di ogni etichetta, si rivolgeva a Lord Hanbury co-me a un vecchio zio.

«Il più importante torneo del mondo. Lo giocano dal 1877, tre an-ni dopo la fondazione del club. Sorge in un sobborgo di Londra,chiamato Wimbledon. Si trova in campagna, ma c’è un grande sta-dio, dove ogni anno giocano i tennisti più bravi, nell’ultima setti-mana di giugno e nella prima di luglio: di fronte a più di tredicimilapersone, Giovannino».

«E io, io», riprese Giovannino, «riuscirò anch’io a giocare lì?».«Se continui così, Giovannino, ci riuscirai. Ma devi impegnarti,

essere bravo, ubbidire a Mr. Sweet. E non perdere tempo, il sabato,con tutti quei bambini vestiti da soldati: non ci andare, ascoltami».

Per le mie diserzioni di balilla mio padre ebbe qualche fastidio: matutto si aggiustò con un certificato medico. Ancora non esisteva unente chiamato mutua, ma il concetto del certificato compiacenteera già chiaro nella cultura dei nostri medici.

Mi allenai quindi cocciutamente, sino a partecipare, nel 1938, alprimo turno del torneo internazionale di Alassio.

E, quando Mussolini dichiarò da Palazzo Venezia che la dichiara-zione di guerra era stata presentata agli ambasciatori di Francia ed’Inghilterra ebbi in dono dal maestro Sweet, che se ne andava, unasplendida Dunlop, e ci giocai per cinque anni. Finché ad Alassio tor-narono i miei amici inglesi.

Non Lord Hanbury. Considerai per anni quella nostra conversa-zione una specie di promessa. E alfine, dopo aver gareggiato qua elà, la mia domanda di iscrizione agli Championships ottenne dalWimbledon Lawn Tennis and Croquet Club parere favorevole.

Fiducioso per qualche vittoria nei tornei della Riviera, mi misi instrada alla volta di Londra con la mia rossa Cinquecento Fiat: il com-pagno che avrebbe dovuto accompagnarmi, un tennista milanese,mi diede buca, e il viaggio richiese quindi due giorni e una notte.

Il torneo comincia, abitualmente, il lunedì. E, negli anni Cin-quanta, la domenica era ancora sacra, non solo per i credenti, maper qualsiasi inglese di buone maniere.

Fermai dunque la mia Topolino di fronte al più imponente tra icancelli del club, tanto grande che ci sarebbero potuto passare unodi quegli autobus rossi a due piani. Scesi, e traguardai oltre le sbar-re in ghisa nera e oro: di fronte a me si apriva una prospettiva di so-gno. Uno due tre quattro cinque campi verdissimi, di erba ancor piùperfetta di quella che Pino, il giardiniere, accudiva di fronte alla miavilla di Alassio.

Una prospettiva incantata, sulla quale, mi resi d’un tratto conto,avrei avuto l’impegno di gareggiare.

Quella prima rapinosa impressione mi immobilizzò per qualcheminuto. Ma, come mi riebbi, avvertii un richiamo alle ragioni per lequali ero venuto a trovarmi di fronte al cancello. Dovevo scenderesu uno di quei prati, provare a corrervi, a scivolarvi, e soprattutto acolpire qualche palla: saltavano pochissimo, quasi in diagonale, miavevano raccontato i miei zii tennisti, gli azzurri Cucelli e Del Bello.

Erano intanto trascorsi non meno di dieci minuti, e non era ap-parsa anima viva. Feci un tentativo ad alta voce, infruttuoso: e, ri-

correndo a tutto il mio coraggio, provai a suonare il clacson dellaCinquecento.

Non era passato mezzo minuto che una figura in divisa blu e cap-pello a visiera si fece viva e si diresse verso di me, per arrestarsi, guar-dandomi incredula e chiedendomi, alla fine, cosa volessi.

Il mio inglese era, a quei tempi, molto scolastico. «I want to play»,riuscii a mormorare, per la più viva sopresa del guardiano.

«To play?», ribatté. «To play tennis».«Here at the Club? Are you a member?».«I am a player. I must play the tournament».L’uomo si portò una mano agli occhi. «But today is Sunday. The tournament begins Monday».In un disperato tentativo provai ad aggiungere: «I must try thecourts».Scosse la testa, più divertito che incredulo.«Come back tomorrow. We open at ten». E girò sui tacchi.Tornai alla guida. Dopo un par d’ore di disperati tentativi riuscii

finalmente a rintracciare l’hotel riservato ai tennisti. E, nella hall, miimbattei in un gruppetto che ritornava da un allenamento. Si svol-gevano, gli allenamenti, in un club meno lontano di Wimbledon: alQueen’s Club, situato a Barons Court. A poche stazioni di metropo-litana.

Con il coraggio della disperazione mi infilai nella metropolitana,sbagliai stazione d’arrivo, ritentai. Giunsi finalmente a pochi metridal Queen’s Club e superai con infinite difficoltà il controllo all’in-gresso. Appena entrato, mi diressi alla segreteria e chiesi di allenarmi.

Chi ero? Con chi volevo allenarmi? Avevo prenotato un campo co-me tutti gli altri Wimbledon Players?, mi fu chiesto. Ai miei dinieghicresceva, nella segretaria, la perplessità, tanto quanto scemavano lemie speranze.

Per una felice coincidenza entrava in quel mentre dalla porta unmio collega giocatore, l’inglese John Barrett. A lui mi rivolsi, con isentimenti di un naufrago per una scialuppa di salvataggio. Lo pre-

GIANNI CLERICI

Giovannino va a Wimbledon

FO

TO

PA

OLO

AR

ALD

I

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 17GIUGNO 2007

gai di autenticare il mio status, di intercedere perché mi si lascias-sero far quattro palle.

La segretaria finì di percorrere il foglio di prenotazione dei cam-pi. Dichiarò che non ce n’era mezzo libero, sino all’orario di chiu-sura. «Che almeno mi lascino provare, John», insistetti io. «Magaritrovo qualcuno che conosco, qualche giocatore amico». John pe-rorò la mia causa, e questo mi ottenne, alfine, assieme a un’occhia-ta compassionevole, un lasciapassare per gli spogliatoi.

Con le mie racchette sottobraccio, osservai qualche mio collegaimpegnatissimo nell’allenamento, e svicolai verso i campi periferi-ci, occupati dai soci. Da uno di questi stavano giusto uscendo duesignore che, in quei tempi, avrei definito anziane: sulla cinquanti-na. Rivolsi loro il più accattivante dei sorrisi, offrendo di far due pal-le. Parvero sorprese quanto compiaciute, sinché la più anziana del-le due mi domandò se fossi un nuovo socio, e, alla mia risposta —«Wimbledon player» — scoppiò in una risata. Mentre la sua amica siscusava andandosene, scese sul campo, per iniziare un palleggiovolonteroso quanto inefficiente.

Simile imbarazzante vicenda continuò per venti minuti, sinchégiunse un inserviente ad abbassare la rete: era scoccata l’ora dichiusura.

Ritornato all’albergo nell’avvilimento più assoluto, mi ritrovaidi fronte il programma del giorno seguente. Giocavo nel turnod’avvio, sul campo numero 16, contro uno jugoslavo che già ave-vo battuto abbastanza facilmente in Riviera, Stefan Laszlo. Daimiei amici seppi anche che un’auto del torneo sarebbe venuta atrasportarci, e questo attenuò la mia angoscia di incerto passeg-gero della metropolitana.

Stanco com’ero, riuscii comunque a dormire.Il mattino seguente l’auto dotata di bandierina verdeviola, i colo-

ri del club, ci trasportò oltre l’enorme porta di ghisa, i Doherty Ga-tes. Sbarcammo, e mi affrettai in spogliatoio, ad indossare i mieipanni, rigorosamente bianchi. Mi diressi, alla fine, verso il campo

numero16, il più periferico del club. Stavano ad aspettarmi benquattro gentiluomini, e a loro mi presentai: uno era l’arbitro, tre igiudici di linea.

Iniziai qualche timido accenno di ginnastica, sino all’arrivo delmio avversario. Laszlo giunse, finalmente, scortato da due tipi concappello a tesa e impermeabile, dall’aria ufficiale. Ci salutammoamichevolmente: nonostante la difficoltà di comunicare in inglese,avevamo avviato un buon rapporto, nel corso dei precedenti torneidella Riviera. Sapevo che già aveva partecipato a due tornei inglesidi preparazione ed ebbi subito modo di confermarmi che non imi-tarlo aveva costituito una imprudenza colpevole. I suoi colpi più ov-vi scivolavano via, all’impatto con l’erbetta, quasi la palla fosse in-saponata. Quanto a me, colpivo sempre in ritardo, non tenevo den-tro un palla.

L’arbitro suggerì che ruotassimo le racchette per sorteggiare labattuta. Persi, e sui servizi nemmeno troppo violenti dell’avversa-rio, non rimediai un quindici.

Ad ognuno dei suoi colpi, e anche ai miei errori, i suoi due ac-compagnatori battevano le mani con aria militaresca, quasi qual-cuno glielo suggerisse. Quanto a me, era giunta nel frattempo a so-stenermi l’anziana signora con cui avevo palleggiato al Queen’sClub: insieme ai due figuri, costituivano tutto il pubblico presente.

Cercai di attenermi ad una tattica dilatoria: non cercare mai unpunto vincente, ma tenere il più possibile la palla in gioco, per abi-tuarmi ai rimbalzi. Dopo un primo set perduto, questa mia decisio-ne parve rivelarsi vincente, tanto che, trovata la via della rete, pa-reggiai il conto dei set.

Col suo stile da terraiolo, Laszlo rimaneva in fondo al campo, e ar-rivai a dirmi che una simile costrizione tattica giocava solamente amio favore.

Iniziai a condurre il terzo set, mentre gli applausi dell’anziana si-gnora prendevano il sopravvento su quelli dei due spettatori iugo-slavi, vivamente contrariati col mio avversario ancor prima che con

me. Cominciavo a intravedere una vittoria, quando, in un allungo arete, il polpaccio che reggeva i miei sessantacinque chili parve rifiu-tarsi. Si irrigidì, tanto che dovetti bloccarmi, zoppicai verso l’arbi-tro, gli domandai se potessi sedermi su una delle panchine ai bordi:in quei tempi, ancora non usavano le sedie utili a riposarsi ai cambidi campo.

Non riuscii praticamente a difendermi sino alla fine del set, ab-bandonato ancor prima che perduto.

Mi fu alfine concesso di sedermi, gentilmente accudito dalla vecchiasignora, mentre i due tipi confabulavano col mio avversario, lancian-domi di tanto in tanto occhiate malevole. Come i giudici ebbero termi-nato la loro tazza di tè, mi fecero cenno di riprendere il gioco.

Ammansito dal riposo, il mio polpaccio non pareva opporsi allamia tattica d’attacco, che mi portò in breve avanti di un break. Ma,come ormai intravedevo l’emozione del final set, il muscolo si misenuovamente in sciopero: in modo tanto definitivo e doloroso checonfigurai, per subito abbandonarla, l’ipotesi di un ritiro.

Stretta la mano al mio avversario che se ne andava, scortato daidue poliziotti impegnati ad evitarne la fuga dal paradiso di Tito, ri-manevo a raccogliere tristemente le mie cose, quando sentii im-provvisamente una voce famigliare: «Giovannino».

Era lui, il mio maestro, Mr. Sweet.Lo abbracciai, preoccupatissimo per gli imminenti rimproveri. «Bad luck, cattiva fortuna», lo sentii invece dire.«Sono un asino», risposi. «Per una volta che riesco a giocare qui,

non ero ben preparato. E forse, con i miei studi, sarà anche l’ultima».Sweet sorrideva. «Sei l’unico dei miei allievi ad essere arrivato a

Wimbledon», affermò. «È un onore, per me. E deve esserlo anche perte. Devi essere fiero, non vergognarti».

Abbracciai il mio vecchio maestro. «Peccato non ci fosse ancheLord Hanbury», osservai.

«Non c’è più. E morto nel 1948. Aveva preso freddo, in una gior-nata di pioggia, qui a Wimbledon».

L’ESPOSIZIONE

Si inaugurerà il 20 giugno, e durerà fino al 6 luglio,la mostra di fotografie di Paolo Araldi intitolata Time, please.History and Mood of Wimbledon. La mostra sarà allestitapresso l’Istituto italiano di cultura a Londra al numero 39di Belgrave Square. Ulteriori informazioni si possono trovareconsultando i siti www.paoloaraldi.come www.icilondon.esteri.it. Tutte le fotografie che illustranoqueste pagine sono di Paolo Araldi

FO

TO

PA

OLO

AR

ALD

I

Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

Gessi, pennarelli, bombolette spray per lasciare un messaggio sul muroRabbioso o malinconico, disperato o anticonsumistico,spesso semplicemente sberleffo feroce. Un libro adesso raccoglie

e cataloga quarant’anni di slogan e disegni di rivolta individuale e clandestina contro tuttoUna carrellata di frasi che arredano il viscerale sotto-mondo sovversivo. Un “underground”metropolitano dalla storia antica che quotidianamente si rinnova

senso e spessore a questa forma di co-municazione misconosciuta che «sinutre di certezze e assoluti» dispiegan-dosi sulle pareti delle città. Là dove «imuri sono luoghi di massima contami-nazione e sperimentazione» della lin-gua e dei segni. Mao con i baffi, Previticon le corna, Rudolph Hess propostoPremio Nobel per la pace, Andreotticon una ciambella di salvataggio. Gesù,Totò e Bambi, colombe, ragni, galli,porci, stelle, fiori, missili, croci. Gli uni-versali che vibrano, «la storia che acca-de dappertutto», come scrive GiorgioVasta, lasciando sui muri tracce di sgo-mento e irrisione.

Cinque scrittori, alfieri della parolascritta e ragionata (Marcello Fois, RaulMontanari, Christian Raimo, Luca Ra-stello, Piero Sorrentino) accompagna-no la rassegna con brevi racconti chedovrebbero confermare l’importanzadi quell’oscura emersione. Compitoarduo, per la verità, in un mare ma-gnum di immagini, colori e saette lessi-cali: «Dovete darci il denaro e poi ne ri-parliamo». «Donne usciamo dalle cuci-ne». «La proprietà è un furbo». Vorticilessicali da antologia, pernacchie tipo-grafiche, puntigli e virtuosismi da wri-ter: «Confermo quanto avevo scrittoprima anche se cancellato». Segue lafirma, di antica reminiscenza satirica:«Pasquino». Che si può dire di più?

Due righe merita semmai l’autore diquesta specie di impresa iconografica,Negrin, mezzo italiano e mezzo balca-nico, già aiuto regista di Strehler e regi-sta televisivo lui stesso, oltre che foto-grafo e documentarista. Nel contribu-to che accompagna la sua personalecollezione, questa specie di entomolo-go dei rivolgimenti sociali racconta lemodalità, le gioie, i pericoli di una cac-cia che dura ormai da quarant’anni eche l’ha portato a riprodurre migliaia emigliaia di segni: «Esco all’alba, vado in

un quartiere e cammino a caso andan-do a scovare ogni testimonianza rima-sta sui muri, sovrapposta, strappata,cancellata, sovrascritta». Pare di capireche a volte si porti dietro una specie discala per riprendere meglio le scritte.

Non di rado quest’attività l’ha espo-sto a minacce, inseguimenti, equivoci.Eppure: «Ogni scatto è una grandeemozione, è come se fosse la prima vol-ta, come se quel reperto fosse la chiaveper decifrare una parte di realtà. Quan-to soffro», confessa, «ogni volta chepassando per una certa strada senza la

mia macchina fotografica individuouna scritta, un graffito o un manifesto emi ripropongo di ritornarci il giornodopo con tutta l’attrezzatura, rima-nendo poi deluso nello scoprire chequel muro è stato cancellato o il mani-festo è sparito».

Ma a parte l’amarezza di Negrin per imancati scatti, non è che il materialemanchi all’appello visivo. Scritte, dise-gni e incisioni strabordano dal volumedando vita e rappresentazione all’ef-fervescenza capricciosa, all’ombracrudele, all’abisso degli istinti. C’è la

L’Italia delle parole ribelli

PoliticagraffitiS

ui muri d’Italia, la danza de-gli archetipi. Una potenzasotterranea, maledetta, sel-vatica che dal ventre mollo eprofondo dell’immaginariotrova espressione dove può

e come può.Gessi, dunque, pennelli, pennarelli,

bombolette spray, volantini cicl. inprop. incollati sui portoni, sbaffi riden-ti, sfregi demoniaci, strappi rabbiosi,malinconici brandelli di carta, parodieanti-pubblicitarie appiccicate in cimaai semafori. Il brulichio del messaggio,l’energia psichica dell’odio, l’impel-lenza magmatica della rivolta, il solenero della comunicazione.

Ma poi, anche così: la storia muraled’Italia. Dal sessantottino «Ho ChiMinh osare lottare amare» a «Bush sei +infame de Fabio Capello!». In mezzo ilcaos, l’inclassificabile, l’epidemico,l’anonimo. «Domani sarà peggio»,Mussolini che ringhia sopra un mazzodi rose, «Vogliamo un Papa cattolico»,«È morta la Costituzione», «Vietatal’entrata agli uomini», «Gelato artigia-nale, orgoglio nazionale», «Craxi nonpagamo un cazzo», «Gladiatori vi pagala Cia», «Geronzi faccia da culo» (segueil claim: «Banca, la tua amica ladra»),«Odio chiama odio», «2001 odissea nel-lo spaccio», «Laziali cani lebbrosi», «Machi ve se ‘ncula».

Inversioni, corrispondenze, ibrida-zioni, cortocircuiti, anarchie, isterie,futurismi, surrealismi, condensazioniistantanee, uscite estatiche. «Muri pu-liti, popoli muti». Grafiche fasciste, gra-fiche ottocentesche, grafiche senzatempo, non-grafiche, avanguardia ap-plicata al necrologio di Lucio Battisti,tavole dense di spermatozoi, consigli:«Se puoi evita la solitudine».

I guerrieri barbari, anche nudi, neigraffiti della destra. I disegni di bottigliemolotov dall’altra parte. Frecce espli-cative: «cerino», «stoffa», «benza». Ilcanto altissimo dell’estremismo nero:«Noi siamo lo splendido vivere in unmondo di morti». E la folgore epifanicadell’ultrasinistra: «Cossiga magari testrozzi».

Il libro, debitamente e riccamente il-lustrato, si presenta rovesciando la fra-se che le Brigate Rosse scrissero nel car-tello messo in mano a uno dei primi se-questrati, Idalgo Macchiarini (ripresocon un revolver puntato sulla guancia):«Niente resterà impunito». E Niente re-sterà pulito, come da scritta su fondoazzurrino a cura del «Collettivo acqua esapone», s’intitola questa straordina-ria raccolta che Alberto Negrin ha mes-so a disposizione del pubblico.

Nell’introdurla, Edoardo Novelli dà

FILIPPO CECCARELLI

QUELLA MALEDETTAESTATEUn aereo di linea con 81 persone

a bordo esplode sul mare di Ustica.

Nessuno è stato punito.

Questa inchiesta spiega perché.

Fo

todiA

ssunta

Serv

ello

GIOVANNI MINOLIcon PIERO A. CORSINI

La tragedia di Ustica e la strage di Bologna

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 17GIUGNO 2007

Dal cantodell’estremismo nero— “Noi siamolo splendido viverein un mondodi morti” —alla folgoredell’ultrasinistra:“Cossiga magarite strozzi”Al proclamaideologicoche comprende tutti:“Muri puliti, popolimuti”. Passandoper gli stereotipiantisemitie xenofobifino all’ultimatum:“Chi cancellasarà cancellato”

morte, più di quanto s’immagini. Ci so-no i martiri, «Avevamo un camerata tratutti il migliore». E i carcerati da libera-re, i nemici da colpire. Maligni esteti-smi in rima zoppicante introduconol’imbarbarimento dei codici espressi-vi: «Non tirate i sassi dal cavalcavia, ti-rateli alla polizia».

Tra l’archetipo e lo stereotipo, oltre-tutto, il passo e breve e sui muri lo sicompie più facilmente. Dunque, anti-semitismo a iosa. Ostilità contro gli ex-tracomunitari: «Fuori dalle balle».Tribù, gang, bande che sfuggono le di-

verse classificazioni identitarie perrompere le gabbie abitualmente alle-stite dagli analisti sociali.

È la ribellione. Ma a che cosa? Boh. Atutto, si direbbe. Al potere, forse. O ma-gari al silenzio. Chi regna e chi parla, delresto, non ha bisogno di sporcare le pa-reti delle case.

Sintomatico è il rapporto tra i politi-ci ufficiali e le scritte. Preso dall’entu-siasmo, sembra di ricordare che unavolta Berlusconi ne raccomandò l’uso,salvo poi pentirsi e rettificare. «Le scrit-te sui muri sono il libro dei popoli»,

scolpì un giorno Bossi e Il Sole delle Al-pi, rotocalco leghista, annunciò ancheun concorso perché i lettori ne indicas-sero la più efficace. Ma poi non se ne fe-ce nulla. Con il che l’unico leader che ri-sulta aver commissionato graffiti (nescrive Umberto Cicconi in Segreti e mi-sfatti, SapereDuemila, 2005) è BettinoCraxi: ma non per caso al culmine del-la sua sconfitta e disperazione, quandoin un triste Natale, dalla Tunisia, spedìil suo amico-fotografo a Milano per al-lestire una campagna di «Viva Craxi» e«Bettino ritorna». Per inciso: Negrin hafatto in tempo a fotografare quel che re-stava dell’insegna sul portone della di-rezione del Psi a via del Corso.

Comunque nulla di nulla l’universograffitaro ha a che vedere con il mondodella politica perché è appunto, rispet-to ad essa, un sotto-mondo viscerale,eccessivo, spontaneo, clandestino; èunderground nel senso pieno della pa-rola. Vai a sapere da quali inferi provie-ne la mano che l’altro giorno ha verga-to: «Bentornato capitano Priebke». Lapolitica ignora le scritte sui muri, o lecancella, o le teme a dismisura, perchéoltre a coglierne l’intima valenza sov-versiva, la pars destruens della società,sa che quelle vernici hanno il potere dimettere a nudo l’indispensabile codadi paglia delle istituzioni. Così bastache qualcuno scriva «Bagnasco vergo-gna!» perché la Chiesa, con l’ovvio in-coraggiamento dello Stato, si rinserri inuna specie di spaventatissimo vittimi-smo a base di scorte, blindature e servi-zi di vigilanza 24 ore.

E d’altra parte: è storia antica quantola scrittura. Fin dai tempi degli antichiromani e delle iscrizioni di Pompei lafolla incognita e inselvatichita, «la bel-va più immane» secondo Cicerone, tut-to conosce fuorché il senso della misu-ra. Le periferie ne accolgono le manife-stazioni in forma di schegge, spezzoni,

lacerti, glutinum mundi, alchimia so-ciale, brodi di cultura e al tempo stessodi cottura.

E va da sé che le scritte rientrano apieno titolo negli atti di vandalismo, ecerto nessuno ha piacere di vedersi in-sozzate le pareti di casa. Eppure, allalunga, dietro al materiale più dispara-to, dai filosofi di strada alle finte locan-dine del circo, dalle saracinesche usatecome tazebao fino allo splendido recu-pero dei santini di San Precario, ecco,per quanto sbigottiti e turbati si arriva acogliere in tutto questo una margina-lità addirittura feconda. Una specie diistintivo contrappeso senza il quale,forse, il potere diverrebbe più superboe totalitario di quello che è già; e il sape-re più dogmatico, la religione più pre-scrittiva, l’arte ancora più sciagurata-mente omologata, i costumi intolle-ranti, le istituzioni disseccate.

Spuntano qua e là, nel libro di Ne-grin, pitture rupestri-metropolitaneche catturano lo sguardo come monitiinconsapevoli, indizi catastrofici o au-tentiche anticipazioni della storia. C’èun trenino lisergico dipinto a Bolognadurante i moti del ‘77 che segna chiara-mente un passaggio d’epoca. Nei pres-si dell’università, un Berlinguer arram-picato in cima a un totem che colpisceper intensità profetica. E della stessamano, forse, un ritratto di Moro dal vol-to segnato e in maglietta: a distanza ditrent’anni il dileggio sfuma in tragedia,il futuro prigioniero delle Br sembraun’icona sacra, un ecce homo e la co-lonna su cui è dipinto una stazione del-la via crucis.

Perché poi tutto riemerge sui muriquando gli archetipi si mettono a bal-lare. «Chi cancella sarà cancellato».Su fondo giallo, un fiore come firma. Ecosì niente davvero resterà pulito.Ammesso che su questa Terra lo siamai stato.

LE IMMAGINITutte le foto che illustranola pagina sono tratteda Niente resterà pulitodi Alberto NegrinQui sopra, da sinistra:Roma 2003, Roma 2003,Roma 2000, Roma 2004,Roma 2003, Roma 2004,Roma 2005. In alto,Roma Università 1977Qui a sinistra, Roma 2003In basso, da sinistra:Bologna Università 1977(sopra e sotto),Roma 2004, Roma 1987,Bologna 2002

IN LIBRERIA

L’editore Rizzoli manda nelle librerie il 20 giugno,nella collana BUR 24/7, il libro di Alberto NegrinNiente resterà pulito, a cura di Edoardo Novellie Giorgio Vasta (421 pagine, 15 euro)Il libro raccoglie anche cinque racconti di altrettantiautori: Marcello Fois, Raul Montanari,Christian Raimo, Luca Rastello e Piero SorrentinoIl sottotitolo del volume recita: “Il raccontodella nostra storia in quarant’anni di scrittee manifesti politici” e infatti la sua parte maggioreè costituita dal paziente lavoro fotograficodi Negrin, del quale si pubblica anche un testoche spiega la sua ossessione di “leggere i muri”

Repubblica Nazionale

la letturaRimozioni

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

Che cosa faranno di noi i mo-numenti, se una volta li ac-cumuliamo indiscrimina-tamente, una volta altret-tanto indiscriminatamen-te li distruggiamo, dopodi-

ché li collezioniamo, gonfiandone ilprezzo, ne facciamo commercio, per poiricominciare a venerarli, invece di riflet-tere seriamente sulle persone in onoredelle quali sono stati eretti e capire chierano, cosa hanno fatto di buono, e cosadi imperdonabilmente crudele?

Un colossale Lenin di bronzo, diven-tato proprietà privata di un milionarioamericano non privo di immaginazio-ne, mostra il suo berretto proletario

macchiato dagli escrementi dei gabbia-ni newyorkesi, e con il braccio teso indi-ca nuovi orizzonti all’umanità interadalla terrazza di un ultimo piano diManhattan, mentre il suo fedele disce-polo compagno Stalin, di bronzo anchelui, custodisce il parcheggio di un risto-rante di emigrati russi nel Texas. Ma i lo-ro monumenti da quattro soldi, premu-rosamente ritoccati con vernice dorata oargentea, si possono tuttora trovare an-che nelle vie centrali delle grandi città,negli orti dei contadini, nelle stazioni fer-roviarie e nei cortili delle scuole.

Io non amo il vandalismo verso quellestatue che rappresentano dei documen-ti storici del passato e non ho provato al-cun entusiasmo al tempo della loro di-struzione. Ma voi ed io viviamo in un’e-poca pericolosa, nella quale quelle stes-se persone immortalate dai monumentie con tante vite umane sulla coscienzapotrebbero candidarsi con successo allapresidenza. Se risuscitassero, Lenin,Stalin e i loro avversari — Mussolini, for-se perfino Hitler — troverebbero senzasforzo numerosi gruppi di sostegno. Per-ché le loro crudeltà sono così lontane, re-mote, mentre le ruberie e il cinismo dioggi li abbiamo davanti agli occhi. E per-ché quasi in tutti i Paesi, indipendente-mente dai sistemi politici, la gente soffre

EVGENIJ EVTUŠENKO

Quei monumenti agli orrori della Storia

FUTURISMONell’immagine grande Vinicio

Paladini, Olympic GamesMuseo di Storia della fotografia

Fratelli Alinari, Firenze

Se resuscitassero,Lenin, Stalin

e i loro avversari,Mussolini, forseperfino Hitler,

troverebbero senzasforzo numerosi

gruppi di sostegno

FO

TO

FR

AT

EL

LI A

LIN

AR

I

Repubblica Nazionale

Prima li accumuliamo, poi li distruggiamo. Prima li svendiamoall’ingrosso, poi torniamo a venerarli dimenticandocichi o che cosa quei simboli di marmo rappresentavano

La nostra ammirazione patologica per statue ed effigi nascondeil desiderio di trovare leader in cui credere.Ecco le riflessioni

del maggior poeta russo vivente sul nostro spaesamento politico

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 17GIUGNO 2007

per l’assenza di persone per cui si vor-rebbe votare incondizionatamente. Unvecchio proverbio russo dice, alludendoal senso di disagio che prova il disonesto:«In testa al ladro il cappello brucia». Mache fare se i cappelli bruciano contem-poraneamente sulle teste di tutti i candi-dati contrapposti? Tocca astenersi dalleelezioni o votare secondo il principio delmale minore. Perché è certo che i politi-ci non vanno scelti solo in base alla ra-gione, ma anche per amore.

L’amore, così come lo intendevanoPetrarca, Shakespeare o Pasternak, oggisi è sensibilmente ridotto nel mondo. Inmolti casi è stato sostituito da contratti dimatrimonio o da un soddisfacimentoigienicamente corretto della sessualità,quando si ha paura di contrarre l’Aids eper non ricorrere alla masturbazione cisi accoppia legalmente sotto gli pseudo-nimi di boyfriende girlfriend— scelta di-ventata ormai perfettamente accettabi-le agli occhi di papà e mamme che fino apoco tempo fa ne erano indignati. Mache altro possono fare! Se al tempo deglihippy l’“amore libero” era una protestacontro l’ipocrisia borghese, oggi è diven-tato una nuova forma di conformismo,conveniente dal punto di vista sanitarioed economico.

E che dire poi dell’amore politico,quando in politica sono così pochi quel-li della cui onestà e ragione ci si possa in-namorare. Naturalmente esistono an-che le persone zombizzate dalla politica,che con occhi ardenti d’amore applau-dono Dick Cheney, Le Pen o Zhirinov-skij, così come ai concerti applaudono iloro idoli, i cantanti che li zombizzano. IBeatles con il loro pacifismo sincero,non calcolato, Joan Baez con la sua can-zone We shall overcome oggi appaionocome grandi predicatori e filosofi sullosfondo del cinismo contemporaneo,quando la politica si è apertamente tra-sformata in business, solo camuffato dadifesa della morale e dell’uomo. Ma qua-le morale, quando la maggioranza dellapopolazione e la maggioranza del parla-mento sono contro la guerra, ma la guer-ra continua, perché qualcuno non perdala cosiddetta faccia! Oggi nessuno deileader mondiali ha il diritto di scagliarela prima pietra contro qualcuno, perchériceverebbe in risposta una gragnola dipietre non meno meritate. Sarebbe inve-ce ora di accogliere finalmente la formu-la di Dostoevskij, «Tutti sono colpevoli ditutto»: ci sentiremmo meglio.

Sogno un futuro in cui i dirigenti degliStati, riuniti in un forum mondiale, inve-ce di scagliarsi reciproche accuse co-mincino col parlare ciascuno delle pro-prie colpe, seguendo l’esempio di papaWoityla, che all’inizio del suo pontifica-to fu un po’ troppo polacco, ma poi, purrimanendo tale, verso la fine della vita sisentì cittadino di tutte le nazioni e chie-se perdono per le crudeltà dei crociati,dell’Inquisizione, e per quei cattolici checonsegnarono gli ebrei nelle mani dellaGestapo. Perché non dovremmo fanta-

sticare un po’: ecco il genere di leader chevoi e io sicuramente ameremmo. Dopo-tutto nel secolo scorso ci sono stati anchedei bellissimi esempi: Gandhi, NelsonMandela, lo stesso Gorbaciov, la cui irre-prensibilità è stata offuscata solo dall’in-decisione durante il colpo di Stato. Fra gliamericani è rimasto ingiustamente sot-tovalutato il coscienzioso Carter, con lasua purezza provinciale: proprio per di-screditarlo fu evidentemente combina-to lo scontro dei due elicotteri durante iltentativo di liberare gli ostaggi in Iran. Inpolitica abbiamo un gran bisogno non di“professionisti” consumati come carteda gioco unte, ma proprio di semplicipersone oneste e perbene, che si possa-no amare. Per questo molti tutt’a un trat-to hanno cominciato a innamorarsi inmaniera patologica dei monumenti:

perché comunque si ha voglia di amare. A un deputato della nostra Duma è

stata addirittura regalata per il suo com-pleanno una copia in miniatura di quelmonumento a Dzerzhinskij che dopo ilfallimento del colpo di Stato filo-stali-niano dell’agosto 1991 è stato abbattutodal suo piedistallo dinanzi all’edificiodel Kgb. La figura storica di Dzerzhinskijsi sottrae a un’interpretazione univoca.Fu un sincero rivoluzionario fin dallapiù giovane età, e trovandosi in carcerea Varsavia scrisse nel suo diario cheavrebbe dedicato la vita a distruggeretutte le prigioni sulla Terra. Paradossal-mente, fu proprio lui il fondatore diquella rete di campi di concentramentoper detenuti politici che avrebbe poipreso il nome di Gulag. A suo onore vadetto che fece molto per i besprizorniki,i piccoli vagabondi rimasti senza geni-tori dopo la rivoluzione: per loro orga-nizzò delle colonie, uscendo dalle qualiquesti orfani diventavano talvoltascienziati, ingegneri, scrittori. Ma chi liaveva resi orfani nella maggioranza deicasi? Non forse proprio quell’organizza-zione che Dzerzhinskij presiedeva?Penso che proprio per questo sia mortoper collasso cardiaco.

Adesso si sente dire con sempre mag-

giore insistenza che il monumento aDzerzhinskij sarà rimesso al suo posto.Dio non voglia che questo accada. Ionon lo ritengo colpevole di tutti i delittidell’epoca staliniana, e tuttavia anchelui ha molte colpe, poiché ha tradito ilsuo giuramento giovanile. È stato que-sto a ucciderlo. Se il suo monumentofosse nuovamente collocato in quellostesso posto, potrebbe ispirare la partepiù pericolosa della nostra società,quella che non sente la colpa per le atro-cità nella nostra storia e di conseguenzapotrebbe anche ripetere qualcosa di si-mile. Invece, ecco, trovo disgustoso ilvandalismo nei confronti dei monu-menti ai soldati sovietici che hannocombattuto in Europa contro il nazi-smo. Quei ragazzi morti in guerra nonavevano colpa di quel che facevano alleloro spalle i nostri carnefici, fra l’altro ailoro stessi padri e nonni.

Oggi non bisogna celebrare devota-mente la rinascita dei monumenti di co-loro che in un modo o in un altro hannoavuto molte colpe verso il nostro popoloe l’umanità. Ma non bisogna neppure di-struggerli barbaramente o profanarli. Civuole un atteggiamento che sia sì educa-tivo, ma accompagnato da un’analisi at-tenta e pacata. Dio non voglia che i mo-numenti ci trascinino in una guerra civi-le, come fecero un tempo quelli che poisono diventati monumenti.

Ricordo una volta, credo fosse il1957, che eravamo rimasti a chiacchie-rare e a bere ben oltre la mezzanotte inun ristorante. Quando alla fine ci cac-ciarono dal locale, un simpatico sculto-re ubriacone dal naso rosso, molto so-migliante alle caricature che raffigura-vano lo zio Sam sulla rivista Krokodil,mi invitò nel suo atelier per proseguirela bevuta. Mi ritrovai in compagnia dimolti Lenin, Stalin, Dzerzhinskij. Lui sifaceva beffe delle sue sculture, leschiaffeggiava, le prendeva maligna-mente in giro, tanto gli erano venute anoia, anche se viveva e beveva propriograzie ai soldi che quelle statue gli frut-tavano. Prima che me ne andassi, ina-spettatamente mi regalò un piccolobusto di Khrusciov.

Qualche anno dopo, quando Khru-sciov cominciò ad attaccare brutal-mente i miei amici artisti e io interven-ni pubblicamente in loro difesa, torna-to a casa tirai fuori dall’armadio quelpiccolo busto e cominciai a calpestarlofuriosamente. Ma Khrusciov si rivelòrobusto, non si ruppe, si staccò solo unpezzettino di naso. Non lo buttai nellapattumiera, come se qualcosa mi aves-se trattenuto, e mi ricordai che comun-que era stato lui ad aprire i cancelli delGulag e a liberare tante persone inno-centi, sopravvissute per miracolo, esempre lui, rischiando la testa, avevadefinito Stalin un assassino.

Sicché sarà la storia stessa a decidere,alla fine, che cosa gettare nella discarica,e che cosa no.

Traduzione di Emanuela Guercetti

ADOLF HITLER

Cancelliere dal 1933 e Führerdella Germania dal 1934

alla sconfitta nella Secondaguerra mondiale nel 1945Si suicidò nel suo bunker

con gli Alleati ormai alle porte

BENITO MUSSOLINI

Fondatore del fascismo,fu primo ministro e dittatoredal 31 ottobre del ’22 fino

al 25 luglio del ’43. Fu uccisodai partigiani a Dongo

il 28 aprile 1945

STALIN

Prima segretario generaledel Partito comunista

e poi dittatoreassoluto dell’UnioneSovietica dal 1929

alla sua morte nel 1953

SADDAM HUSSEIN

Il dittatore irachenoal potere dal 1979, deposto

dall’esercito americanonel 2003 e condannato

a morte per criminidi guerra nel 2006

FRANCISCO FRANCO

Capo di Stato e delle forzearmate in Spagna dal 1939

al 1975. Salì al poterecon un colpo di Stato contro

la Repubblica e tre annidi guerra civile

LENIN

Il suo partito bolscevicoprese il potere in Russia

nel 1917 con la Rivoluzioned’ottobre, instaurò il primogoverno dei Soviet e pose

le basi dello Stato socialista

Sogno un futuroin cui i dirigenti

degli Stati, riunitiin un forum mondiale,comincino col parlare

delle proprie colpeinvece di lanciarsireciproche accuse

Repubblica Nazionale

Il regista ha segnato vistosamentee clamorosamente mezzo secolodi cinema: con Pane, amore e fan-tasia, madre di tutti i blockbuster;Tutti a casa, apoteosi del vero spi-rito della commedia all’italiana;

Pinocchio, summa del suo “cinema deibambini”. Ma Luigi Comencini è statoun uomo segreto che ha attraversatoquesto mezzo secolo silenziosamente ediscretamente. Fino a uscire di scena inpunta di piedi —dopo che già datempo la salute loaveva costretto a unisolamento pienodi dignità — lo scor-so 6 aprile a quasi 91anni.

Tanto segreto, èstato Comencini,che sono soltantogli specialisti a con-servare memoria diaspetti della suapersonalità e dellasua attività magariparalleli e contiguima non stretta-mente connessi al-la sua opera e allasua creatività d’au-tore. Tra gli episodipiù autonomi dalcinema, apparte-nenti alla sua etàgiovanile, c’è peresempio l’impegno giornalistico mili-tante e antifascista durante l’occupa-zione tedesca e il soggiorno svizzero.Condiviso con una folta comunità difuoriusciti italiani, in particolare quellidi orientamento socialista — tant’è chenell’immediato dopoguerra Luigi scri-verà da critico cinematografico sull’A-vanti!, gloriosa testata del partito diNenni — insieme ai molti che erano già,o sarebbero diventati, celebri artisti e in-tellettuali. Giorgio Strehler per tutti.

È la materia sulla quale indaga Rena-ta Broggini con ricerche, saggi e articoli.Mettendo in risalto l’educazione fran-cese: Luigi trascorre l’adolescenza nelsud-ovest della Francia per ragioni lega-te all’attività paterna. E mettendo in ri-salto la sua formazione protestante, do-

PAOLO D’AGOSTINI

Regista geniale, ma anche critico cinematografico, appassionatodi architettura, giornalista e militante antifascista. È nelle pieghe di percorsimeno conosciuti che il papà del “Pinocchio” televisivo, e di film come

“Pane, amore e fantasia”, trovò la sua strada maestra. Di quelle esperienze giovanili e degli scritti ignotial grande pubblico si occupa adesso un libroche per la prima volta alza il velo sulla sua proverbialediscrezione. Mentre tutta Italia celebra l’artista scomparso con retrospettive, mostre e convegni

Appunti di vita di un Maestro schivo“Considero Tutti a casa uno dei miei

migliori film, perché oltre che raccontarein modo avvincente i folli avvenimenti

dell’8 settembre 1943, è un film educativo”

I CAPOLAVORIDall’alto, Pane, amore e fantasiadel 1953; La Grande Guerradel 1959 e , in basso,L’ingorgo del 1979

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

Comencinisegreto

vuta alla madre svizzero-tedesca: quan-to di più inimmaginabile e contrastan-te, come impronta di rigore morale, perchi si sarebbe trovato ai vertici della Ro-ma cinematografara e cialtrona della ri-costruzione e del boom.

Sullo sfondo, un’educazione senti-mental-culturale che tramite l’incantoper i classici e per i grandi anni Trentafrancesi approda al cinema (cui egli pre-sterà anche una pionieristica attenzio-ne “conservativa” fondando con Alber-to Lattuada la Cineteca Italiana di Mila-no, poi diretta da suo fratello Gianni),partendo dagli studi di architettura edalla scoperta delle avanguardie e di LeCorbusier. Tutti gli interessi di quellastagione tanto densa finiscono con l’in-trecciarsi e alimentarsi l’un l’altro: nel’44 scrive una serie di articoli sotto il co-mune titolo di Cinema e socialismo.

Ora, a rompere doverosamente unadiscrezione che ha forse eccessivamen-te assecondato lo stile di questo artistacosì schivo, si moltiplicano gli omaggi insua memoria. Dal 24 giugno al 2 luglio laMostra del Nuovo Cinema di Pesaro glidedica una vasta sezione del suo pro-gramma pubblicando (l’una e l’altra co-sa a cura di Adriano Aprà) una raccolta disaggi sul suo cinema completa di unapreziosa bibliografia sul Comencini cri-tico cinematografico e giornalista fra il1938 e il 1947. E accogliendo una tavolarotonda sabato 30 giugno cui parteci-perà la famiglia: le due figlie registe, Cri-stina e Francesca, e un’altra, Paola, sce-nografa. Nello stesso momento esce inlibreria (a inizio luglio per le edizioni IlCastoro) Al cinema con cuore 1938-1974,anch’esso curato da Aprà: primo di duevolumi che hanno l’ambizione di fare or-dine in un ricchissimo archivio che neltempo ha già a più riprese alimentatopubblicazioni sparse, ma in parte anco-ra inedito (vedi la lettera postuma indi-rizzata a Vittorio De Sica, che in questapagina riproduciamo in parte); e desti-nati a sistematizzare e mettere a disposi-zione la gran quantità di scritti dedicatida Comencini al cinema. Proprio e deglialtri. Dal 30 giugno al 29 luglio la “sua” Ci-neteca Italiana in collaborazione con laCineteca Nazionale di Roma allestiràuna retrospettiva completa dei film. E c’èda sperare che Baldini Castoldi Dalai ri-lanci il bel libro autobiografico, curatonel ‘99 dalla figlia Cristina, Infanzia, vo-

Repubblica Nazionale

I DOCUMENTIQui sopra, i particolari autografidella prima scena del Pinocchiotelevisivo di Luigi ComenciniIl regista schizzò anche alcunidettagli sulla fatturadel burattino collodiano

Illustrazione di VsevolodNicouline/Italgeo trattadal libro “Pinocchioe la sua immagine”edito da Giunti

IL LIBRO

Luigi Comencini. Al cinema con cuore1938-1974. Questo il titolo del volume curatoda Adriano Aprà che sarà in libreria a inizio luglio(Quaderni Fondazione Cineteca Italiana,Il Castoro, 264 pagine, euro 22). È una raccoltadei molti scritti sul cinema del regista di Tuttia casa. Nell’immediato dopoguerra Comencinirecensì sul giornale socialista Avanti!i capolavori del neorealismo. Dal libro è trattoil testo inedito pubblicato in questa paginaGli appunti di sceneggiatura del Pinocchiotelevisivo, anch’essi inediti, sono pubblicatiper gentile concessione del Fondo Comencinidella Fondazione Cineteca Italiana di Milano

I PROTAGONISTI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 17GIUGNO 2007

Caro De Sica,vedo oggi su la Repubblicache questa sera Raitredarà Pane, amoree…e quindi Pane amore e gelo-

sia. Il pezzo che il giornale dedica all’avvenimento siconclude puntualmente con la frase di rito: «Il film Pa-ne amore e gelosiavinse anche un Orso d’argento a Ber-lino, ma Comencini fu accusato di aver tradito il neo-realismo per dar vita al genere “rosa”». Dell’altro film(Pane amore e...) si dice soltanto che è di Dino Risi.

Ma c’è di più: questo mio film, con il quale avrei uc-ciso il neorealismo, non sarebbe poi nemmeno mio,in quanto secondo voci autorevoli (Lollobrigida) il ve-ro autore saresti tu.

Ma allora… anche l’uccisore del neorealismo sare-sti tu, tu che con Rossellini ne sei il più insigne rappre-sentante!

Io però... francamente non ci capisco più nulla: sesostengo che il film è mio, ho assassinato il neoreali-smo. Quindi meglio sostenere che il film non è mio.Perdo un film ma anche un’accusa infamante.

Purtroppo, caro Vittorio, l’accusa di aver ucciso ilneorealismo te la devi prendere te, ed è un po’ ridico-lo perché il film che tu hai fatto — se lo hai fatto — nonti assomiglia proprio. Anzi, non ti assomiglia per nien-te. Tu però hai abbastanza film importanti sulle tuespalle da Sciuscià a Ladri di bicicletta, su, su fino a L’o-ro di Napoli e La ciociara. Puoi ben ospitare in fami-glia anche un “brutto anatroccolo”.

Dal canto mio sto molto meglio alleggerito da que-sto incomodo. E mi trovo benissimo con i miei ventu-no titoli di film che mi piace rivedere.

Sono abbastanza vecchio e tra non molto ti verrò atrovare. Mi sono segnato il tuo indirizzo: da via A. G.Bragaglia, via De Sica, fino alla campagna. Zona LaStorta. La prima cosa che farò sarà una petizione pertoglierti da questo posto orribile, allo sprofondo, e far-ti avere un busto al Pincio, possibilmente ingabbiato,per evitare che i vandali lo deturpino.

Un abbraccio.Tuo

Caro De Sica, chi ha ucciso il neorealismo?Una lettera immaginaria (e inedita) all’autore di “Sciuscià”

LUIGI COMENCINI

PINOCCHIOAndrea Balestri era il bambino

che interpretava Pinocchio nel filmtv del 1972. Aveva otto anni

GEPPETTONino Manfredi vestì i panni di mastro

Geppetto. Il ruolo nel Pinocchioresta tra i più belli della sua carriera

IL GATTO E LA VOLPEÈ stata una delle poche occasioni

cinematografiche considerate “alte”per Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

LA FATA TURCHINAQuasi vent’anni dopo la “bersagliera”

di Pane, amore e fantasia la Lollobrigidadiventa la “fata dai capelli turchini”

listi di Milano, sett-ott. 2004) di RenataBroggini: «Mi salvai dal fronte. Fu un ca-so anche questo legato al cinema. A Mi-lano avevo conosciuto Carlo Ponti chespesso mi regalava i biglietti per andareal cinema. In caserma c’era un mare-sciallo che si occupava dello spaccio.Per ingraziarmelo, ogni tanto gli regala-vo i biglietti. Era contentissimo e mi do-mandava sempre: come posso sdebitar-mi? E io: non si preoccupi, verrà il mo-mento. Un giorno gli ordinarono di fareuna lista di soldati per il fronte russo. Michiese se volevo andarci. Gli risposi ov-viamente di no e lui mi assegnò al repar-to degli ammalati, dei riformabili. Di-ventai specialista nello sturare i cessi.Ogni tanto il maresciallo mi chiedeva sevolevo andare al fronte, come fosse unoptional, e io gli dicevo di no».

Ma più di tutto vale quanto Comenci-ni ha scritto — anche a caldo — sui ca-polavori neorealisti e soprattutto su DeSica. «Nel 1945, subito dopo la Libera-zione, divenni critico cinematograficoper il giornale socialista di Milano Avan-ti! e uno dei primi film italiani che re-censii fu Sciuscià. La proiezione misconvolse, e compresi improvvisamen-te che si apriva una nuova pagina del ci-nema italiano. Per la prima volta, un filmera lo specchio della realtà, uno spec-chio ironico, affettuoso, ma anche im-pietoso. Il cinema italiano, dunque, nongirava più le spalle alla vita. Scrissi tuttoquesto sul quotidiano, e l’indomanimattina ricevetti un biglietto da De Sicache mi ringraziava per quello che avevoscritto. Era a Milano e andai a trovarlonel camerino del teatro dove recitava inuna commedia musicale. Riuscii a ve-derlo sulla scena mentre cantava e bal-lava, con il famoso sorriso che gli avevadato tanto successo in Italia. Non riusci-vo a immaginare come quel simpaticochansonnier potesse essere l’autore delfilm così drammatico e profondo cheavevo visto il giorno prima. Eppure loera. Credo che proprio la sua esperienzateatrale in un campo così diverso sia unadelle chiavi che aiutano a capire l’arte diDe Sica, la sua importanza come regista,e quella che per me è una delle sue virtùessenziali: la capacità di sapere sempreraccontare con affetto e delicata ironiale storie più amare. I due capolavori cheseguirono, Ladri di biciclette e UmbertoD., lo hanno confermato pienamente».

cazione, esperienze di un regista.In viaggio tra le pagine di Al cinema

con cuore s’incontrano infinite perle.Come il brano La mia Resistenza che cidà sia la misura autobiografica del Tut-ti a casa di un’intera generazione, sia diquanto quel film capitale abbia incar-nato il fondamento e l’originalità dellacommedia all’italiana: di una formad’espressione che ha scelto un linguag-gio popolare per parlare a tutti di cosegravi e importanti. Di film che, se spo-gliati di alcuni elementi chiave come gliattori che li hanno interpretati o i dialo-ghi concepiti da Age e Scarpelli, avreb-bero assunto tutt’altro tono, piena-mente “serio” ma molto meno comuni-cativo. Ecco: «L’8 settembre 1943 mitrovavo a Roma in borghese perché di-staccato dal mio reggimento (a Udine),al quale ero stato chiesto per incarichicinematografici da Carlo Ponti... Consi-dero Tutti a casa uno dei miei film mi-gliori, perché, oltre che raccontare in

disi, allora permetti che io scappo a casamia?». E la scritta, sulla scena finale delriscatto armato di Innocenzi, “Napoli,28 settembre 1943”, «data che è consi-derata l’inizio della resistenza in Italia».Ma Comencini ricorda anche il fatto chel’ambasciatore italiano a Mosca sconsi-gliò di accettare l’invito al festival (allo-ra) sovietico «perché il film denigraval’esercito. Mi aiutò Giancarlo Pajetta». Eil fatto che Alberto Sordi avrebbe prefe-rito un altro finale a quello che cono-sciamo, dove da pusillanime si fa com-battente contro i tedeschi: «più o menoquesto: Innocenzi, caduto sempre piùin basso, vede passare gli americani ric-chi e vincitori, stende una mano chie-dendo una sigaretta, l’americano dauna jeep gliene butta un pacchetto.Umiliato e vinto, il buon Innocenzi loraccoglie e ne fuma una».

Il racconto completa l’altro citato inun articolo (Luigi Comencinigiornalistae politico in Tabloid, Ordine dei Giorna-

modo avvincente i folli avvenimentidell’8 settembre 1943, è anche un filmeducativo: anche chi non sa niente diquel brano della storia d’Italia seguecon passione e divertita curiosità il rac-conto. La semplicità nell’enunciare ifatti è un atteggiamento fondamentaleper rendere un film gradevole».

A queste parole ne aggiunge però del-le altre, sui retroscena problematici chenon mancarono, come non erano man-cati un anno prima sulla La grande guer-ra di Mario Monicelli. Forbici misterio-se fecero sparire la battuta di Sordi/te-nente Innocenzi: «Se il re scappa a Brin-

Repubblica Nazionale

i saporiFrutti di stagione

Ricchissime di beta-carotene, che favorisce la tintarellaestiva,abbondano in sali minerali, ferro e calcio. Sonocompagne ideali per ottimi dessert, ma ben si sposanoanche con pesci e carni e risultano perfette essiccateEfficaci perfino nella cosmesi, i vellutati pomi vengonocelebrati questo weekend dalla Liguria alla Campania

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

LICIA GRANELLO

LE P

REP

AR

AZIO

NI

SecchePulite senz’acqua e snocciolateaprendo un solo lato, si mettonosu graticci con la parte internain alto, coperte da tulle o garzaAl sole di giorno, in casa di notteper proteggerle dall’umiditàAsciugatura finale in forno portato a 130 gradi e spento

ConfetturaLavate, aperte e snocciolate,si mettono in infusione con limonee zucchero per una notte. Cotturain pentola di acciaio o smaltoper mezz’ora mescolando.Quando il composto è compattosi mette in vasi, che vengono poicapovolti fino al raffreddamento

GelatinaPulite, snocciolate e divise,si cuociono a fiamma vivaper mezz'ora coperte d'acquainsieme ai limoni tagliati a fettine,schiacciando di tanto in tantoFiltrate in una garza, le albicocchevanno ridotte con zuccheroa fuoco basso e infine schiumate

SciroppateLa base è uno sciroppo densodi acqua e zucchero (o fruttosio)che si versa freddosulle albicocche ben pulitee snocciolate, fino a coprirleDurante la sterilizzazione(due mesi al fresco) si agitanodi tanto in tanto i vasetti

La granitaIn uno sciroppo di acquae fruttosio si cuociono, a fiammalievissima, albicocche sminuzzatee una bacca di vaniglia. Una voltaraffreddato e passato al setaccio,al purè si aggiunge succo di limonee si mette in freezer. Mescolaredi tanto in tanto

LE RICETTE

itinerari

L'affascinanteassemblaggio dipiccoli comunidell'entroterrasavonese, portail nome del torrentedi fondo valle. Qui si coltiva l'albicocca

di Valeggia (nomedi uno dei borghi) aromatica e resistente,festeggiata nell'ultimo weekend del mese

DOVE DORMIREIL RESPIRO DEL TEMPO B&BVia Don Peluffo 8Tel. 019-8878728Doppia da 75 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREQUINTILIOVia Gramsci 23, AltareTel. 019-58000Chiuso dom. sera e lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARECOOP. ORTOFRUTTICOLA DI VALLEGGIAVia Fratelli CerviTel 019-880368

Quiliano (Sv)

Jordi Roca, titolare con i fratelli Joan e Josep del “Celler de Can Roca”,ristorante-culto di Girona, Spagna, ha “ricreato” l’albicocca:bolla di zucchero soffiato farcita con la polpa, buccia coloratacon l’aerografo, nocciolo trasformato in morbidi cubetti

Fondata secondola leggenda da Ercole,appoggiata su unpromontorio allependici del Vesuvio, ècircondata daalbicocchetidi varietà gustosissime

Boccuccia liscia, Cafona e Pellecchiellasono raccontate da Plinioil Vecchio nella Naturalis Historia

DOVE DORMIREMIGLIO D’ORO PARK HOTELCorso Resina 296Tel. 081-7399999Doppia da 110 euro, colazione compresa

DOVE MANGIAREVIVA LO RE (con camere)Corso Resina 261Tel. 081-7390207Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMONDOFRUTTAVia Tirone di Moccia 56Tel. 081-7774530

Ercolano (Na)Costruita sui restidi una colonia ateniese,in una zona riccadi sorgenti ai piedidel Monte dei Cervi,fa parte del Parco delle Madonie. Laterra collinare e

fertileè ideale per la produzione di arance, limoni,olive e albicocche precoci

DOVE DORMIREIL VECCHIO FRANTOIOContrada FirrioneTel. 0921-663047Doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARENANGALARRUNIVia Delle Confraternite 5, CastelbuonoTel. 0921-671428Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA FIASCONAROPiazza Margherita 10, CastelbuonoTel. 0921-677132

Scillato (Pa)

In processione per l’albicocca. Da Sant’Anastasia a Ma-donna dell’Arco, negli ultimi giorni di giugno la campa-gna napoletana si veste d’arancione. Non ci sono santiche tengano: passato San Giovanni (con la laicissima ce-lebrazione del solstizio dedicata a noci e stregonerie) tut-ti in fila a raccogliere e celebrare, davanti a chiese e san-

tuari, la polpa soda e vellutata, allegra e potente dell’albicocca. Al solo addentarla, quand’è matura liscia, gustosa, mette alle-

gria. Parafrasando una vecchia pubblicità, buona qui, in bocca, equi, nel corpo. Perché è carica di vitamina A, B, C e PP, a cui ag-giungere diversi oligoelementi (magnesio, fosforo, calcio, man-ganese, zolfo, potassio, ferro). In più, l’albicocca è campionessadi beta-carotene, precursore della vitamina A, fondamentale perla produzione della melanina, la nostra personalissima scorta diprotezione solare, che ci garantisce un’irresistibile abbronzaturadorata.

Come se non bastasse, il beta-carotene difende l’organismodalla cancerogenesi indotta da agenti chimici, migliora la capa-cità visiva, rinforza ossa e denti, potenzia le difese immunitariee i filtri respiratori. Dulcis in fundo, la corposa presenza di pro-teine, a battezzare una piccola bomba di energia sana allo statopuro. Il tutto, con un impatto calorico trionfalmente basso.

Così benemerita da meritare l’oscar anche una volta essicca-ta, stato in cui mantiene praticamente intatti sali minerali, fibre— ben un quarto del peso totale — e sorbitolo, zucchero dalle

proprietà lassative.Così antica eppuresolida, da aver attra-versato la storia del-l’uomo senza mai la-sciarsi dimenticare.L’albicocca è una Ro-sacea (prunus arme-niaca) ereditata dal-l’agricoltura cinese,dov’è presente da al-meno quattromilaanni. Portata in occi-dente da AlessandroMagno, che la scoprìdurante una spedi-zione in Armenia, lasua diffusione è me-

rito degli arabi, bravissimi nella coltivazione come nella tra-sformazione, a partire dai sorbetti (sherbet) fatti con neve e pol-pa dei frutti. Furono loro a scoprirne l’ampio spettro terapeu-tico, dal mal d’orecchie alle irritazioni delle mucose, fino allafunzione stimolatrice nella produzione di emoglobina che lapremia come frutto anti-anemia per eccellenza.

Certo, per goderle al meglio, occorre siano salve da pesticidi, raccoltepremature e conservazioni interminabili. Meglio maturate un giorno inpiù che acerbe. Anche perché la cedevolezza della polpa si trasforma fa-cilmente in plus valore per succhi e frullati. Da una ricetta all’altra, guai atrascurare le applicazioni cosmetiche: l’olio ottenuto dal nocciolo è av-versario di rughe e smagliature, il succo filtrato è un efficace tonico per ilviso, il centrifugato corretto con un cucchiaio d’olio riesce come natura-lissimo impacco idratante, perfetto per preparare la pelle all’esposizionesolare, mentre in combinazione con lo yogurt funge da maschera anti-età.

I cuochi la amano per la sua capacità di aggiungere dolcezzaa dolcezza su registri diversi, totalmente svincolati dal tradizio-nale utilizzo nella sezione dessert. Così, se non esiste SacherTorte senza confettura d’albicocca, se i pasticceri di tutto il mon-do la declinano in mille preparazioni golose, la nuova cucinacontaminata l’ha acquisita come ingrediente. Basta pensare aun salato dagli accenti morbidi perché l’albicocca si accosti sen-za stridere. Storico abbinamento della cucina medievale, con fe-gato e piccione, oggi è facile trovarla insieme a gamberi, foie grase frattaglie di pesce.

I più fortunati, con amico contadino possibilmente biologico,se ne portino a casa un cesto intero, senza tema di scelta insanatra indigestione e marcescenza. Lavate e denocciolate, basteràaggiungere poco, pochissimo fruttosio e farle cuocere breve-mente. Dalla pentola ai sacchetti del freezer, le ritroverete, boc-coni di sole in cucchiaino, durante l’inverno.

Una dopo l’altraper assicurarsi

un posto al sole

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 17GIUGNO 2007

‘‘Anita DesaiCerto, vicino alla casa c’eranoalcuni albicocchi. C’erano le macchiedi iris che avevano terminato la fiorituraCera la voluta di fumo che si levavadal camino della cucina e una catastadi legna fuori dalla porta. Ma erano cosesecondarie, quasi insignificanti.Nanda Kaul non le teneva in gran conto,anche se in quel momento si era chinatasull’erba bassa e secca per raccogliereuna luminosa albicocca...

Da FUOCO SULLA MONTAGNA

FO

TO

DI P

ET

RIN

A T

INS

LA

Y T

RA

TT

E D

A N

EW

EN

TE

RT

AIN

ING

DI D

ON

NA

HA

Y / M

ER

EH

UR

ST

Le azotateL’azoto liquido permette di preparare dei golosi “cracker”gelati di frutta. Le fette sottili di albicocca si “impanano” nello zucchero semolato e poi si immergono nel gas freddissimoper un minuto in un contenitoreadeguato (polistirolo o marmo)

I bonbonIngrediente-base, le albicocchesciroppate, ben sgocciolatee riempite con panna montatapoco zuccherata, poi lasciateriposare in freezer per un’oraDopo immersione in cioccolatofondente sciolto a bagnomaria,vanno ancora in congelatore

L’insalataSi preparano in contenitori distinticipolla tagliata sottile e ammollatain acqua fredda, pesce biancoscottato in acqua bollentee limone, gamberi sbollentatinel sakè, insalata, albicocche in fettine e frullate. Si assemblatutto solo al momento di servire

La mela armena. Così i Romani chiamavanol’albicocca, perché pensavano che venissedall’Armenia. Ma in realtà il frutto dal bel-

l’incarnato, il frutto cui venivano paragonate leguance delle fanciulle in fiore, viene da più lon-tano. Dalla Persia, se non addirittura dalla Cina.In ogni caso da quel favoloso frutteto del mondoche fu l’oriente. Un oriente mitico più che geo-grafico. Una location esotica, una terra da Millee una notte piena di misteri e ricca di primizie.

Esattamente primizia significa in origine ilnome dell’albicocca che deriva dal latino prae-cocum, letteralmente precoce. Con questo ter-mine i Romani inizialmente chiamavano tuttequante le primizie. Ma quando questa parola fi-nisce sulla bocca degli Arabi diventa Al- Berquq.È il passo decisivo verso i nomi moderni del frut-to arancione, come lo spagnolo albaricoque, ilfrancese abricot, l’inglese apricot, il tedescoaprikosee il nostro albicocca. Così a furia di rim-balzi fra oriente e occidente, l’albicocca finisceper diventare la primizia per antonomasia, l’in-

carnazione della gio-vinezza condensata inun frutto. A riprova delfatto che l’origine diun cibo, più che la cer-tificazione quasi nota-rile di una provenien-za, è il racconto di unmillenario ping-pongfra le culture, di un ri-mescolamento diidee, di passioni, di gu-sti. Una storia di mi-grazioni gastronomi-che, di meticciati ali-mentari. Proprio co-me capita ai viaggiato-ri, gli alimenti passan-do da una terraall’altra finisconosempre per assomi-gliare al paese che visi-tano, ne assumono in-

somma gli umori anche senza volerlo.È quel che capita alle albicocche quando arri-

vano a Napoli e trovano la loro terra promessa aipiedi del Vesuvio, in quella lava nera come la pe-ce e fertile come una madre. In quel crocevia delMediterraneo sospeso, come diceva Goethe, trail bello e il terribile, quella che fu la mela armenasi carica della straripante energia del vulcano. Lavampata di rossore che illumina il velluto aran-cione della sua pelle delicata è il segno caratteri-stico che l’albicocca si è fatta vesuviana. Ha su-bito cioè quella metamorfosi tellurica che lagrande poetessa russa Marina Cvetaeva ricono-sceva a tutte le creature elette: umane, animali ovegetali. Come dire che vesuviani si diventa. Èquestione di carattere e non di anagrafe.

Duecentotrenta minerali diversi distillati dal-la terra eruzione dopo eruzione fanno la diffe-renza. Perché le pendici del vulcano non sonosoltanto il giardino più fertile del mondo maun’autentica, inarrestabile colata di sapore.

Sin dall’epoca di Plinio, l’abbondanza e l’ec-cellenza dei suoi frutti guadagnò a questo lem-bo di costa conteso fra acqua e fuoco il titolo diCampania felix. È questa concentrazione esplo-siva di linfe vitali il segreto della terra vesuviana.La più alta densità di minerali per chilometroquadrato alla quale corrisponde, per una diquelle insondabili simmetrie della natura, la piùalta densità di abitanti per chilometro quadrato.Questo grumo di vita, questo magma esplosivodi natura e di umanità è forse la vera formaprofonda di quella terra sempre gravida. La ra-gione nascosta che spiega il carattere degli uo-mini come il gusto delle albicocche.

Le belle vesuvianevenute da Oriente

MARINO NIOLA

L’epoca a cui risalgonole prime coltivazionidi albicocche

2000 a.C.

Le tonnellate di albicoccheprodotte in Campania,regione leader in Italia

50.000

Le chilo caloriepresenti in cento grammidi albicocche

26

Albicocche

Repubblica Nazionale

le tendenzeTra gli scaffali

Illustrazioni, foto evocative, intrecci grafici, immagini in rilievo: le copertinesono il più prezioso biglietto da visita delle migliaia di volumi esposti in libreriaMa dopo anni di “abiti” stravaganti, creati per sedurre il lettore e invitarloall’acquisto, i creativi ci ripensano: semplice è meglio. E trionfa il monocolore

Il rapportotra contenuto

e contenitoreè condizionato

dalle leggidel marketing

Gianluigi Toccafondo:“Bisogna puntare

sull’immagine”

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

Minimaliste

DARIO OLIVERO

Quellatutta nera dell’ultimo, nero, libro di Philip Roth, Everyman. Quella tutta bianca della nuo-va edizione del Giovane Holden, su espressa richiesta del suo autore J.D. Salinger. Quella tut-ta verde di Rigodon, che Louis-Ferdinand Céline terminò il giorno in cui morì. Quella biancacon codice a barre del Manuale di Judo di Yves Klein, l’inventore del blu perfetto. Quella az-zurra dell’ultima malinconica riflessione di George Steiner. Le copertine dei libri che spicca-no negli scaffali delle librerie seguono la regola aurea dettata da Enzo Mari, maestro di design

e inventore di copertine storiche (Bollati Boringhieri gli dedica una mostra in questi giorni a Milano): «Nel-la copertina le informazioni essenziali sono: autore, titolo, editore». Gli fa eco dall’altra parte del mondoYasuyo Iguchi, art director alla Mit Pressdi Boston: «Una bella copertina è semplice e non trendy. Non de-ve avere orpelli estranei».

Bianco, monocolore, due colori, un oggetto su campo bianco, due oggetti su campo bianco, un og-getto su campo bicromatico. Semplici, come le celebri copertine che Bruno Munari inventò per Einau-di nella prima metà degli anni Sessanta. O come quelle che Adelphi o Sellerio scelsero all’inizio della lo-ro avventura e non abbandonarono più. È difficile dire chi ha lanciato la nuova parola d’ordine: toglierequello che per anni si è aggiunto. «Vuole sapere quando è cominciato tutto?», chiede Alberto Lecaldano,direttore di Progetto grafico e art director per la casa editrice Voland. «1965: quell’anno Bruno Binosi eMario Tempesti misero sull’Oscar Mondadori di Addio alle armiun’illustrazione. Non fu la prima, ma fuun cambio di strategia».

«Ci sono cascato anch’io qualche volta — confessa ancora Mari — Una bella copertina con una bella illu-strazione e un libro bruttissimo. E questo accade perché oggi un libro vive quindici giorni, poi scompare perlasciare il posto alle nuove uscite. In questo sistema del supermercato la copertina diventa un’esca per ac-calappiare il pubblico». Se c’è “cascato” anche Mari, è segno che il lavoro fatto sui vestiti dei libri funziona.«Anche se ora ci sono questi segnali di ritorno alla semplicità, è sempre una scelta dettata da esigenze dimarketing, con il vantaggio però che inquina meno e riduce i costi», dice Giovanni Lussu, che disegnò queisemplici libri allegati all’Unità(un’esperienza descritta in Libri quotidianiedito da Stampa Alternativa, perla quale Lussu dirige una collana). «La copertina deve essere uno specchio di quanto si trova all’interno. Conl’introduzione del packaging si è perso questo rapporto. Il marketing è convinto che la copertina sia deter-minante. Per me quel che fa il successo di unlibro continua a essere il passaparola».

Ma tutti i creativi, per quanto di idee diver-se, sono d’accordo su un punto, ben sottoli-neato da Lecaldano e che è una seconda re-gola aurea: «Fanno eccezione i casi nei qualigli editori si affidano a grafici che riescono adare riconoscibilità, visibilità e coerenza all’immagine della casa editrice». A questo identikit corrispon-dono due figure di primo piano: Gianluigi Toccafondo e Guido Scarabottolo. Il primo presta la sua arte al-le copertine di Fandango, l’arte del secondo da quattro anni è inscindibile dai libri Guanda. Ma l’opera diun artista non rischia di sovrapporsi alla storia contenuta nel libro? «Più la copertina è descrittiva e menoaiuta il libro — dice Toccafondo — Quando l’immagine è autonoma dà più forza al libro. Bisogna punta-re sull’immagine e non sulla gabbia». Ma allora non si rischia di comprare un libro per la copertina? «Quan-do si pubblica Cheever, è sempre Cheever: la copertina non c’entra».Anche per Scarabottolo «il contribu-to dell’illustratore è autonomo rispetto allo scrittore e può aprire una diversa ipotesi di lettura. Si lavora sul-le impressioni, attraverso una sorta di empatia con l’autore del libro». E sul marketing: «Quando illustrouna copertina non penso al mercato, penso ai contenuti. Bisogna cercare con il lettore un’affinità cultura-le e intellettuale». E conclude laicamente: «Mi rendo conto che l’illustrazione è un po’ abusiva in letteratu-ra. Faccio una cosa di cui non sono convinto al mille per mille...».

TRATTO UNICOAlona Kimhi,Lily la tigre, Guanda(Guido Scarabottolo)

IL COLORE VIOLAFernando Royuela,La mala morte,Voland(Giovanni Lussu)

FOTOGRAMMIRocco Ronchi,

Liberopensiero.Lessico filosofico

della contemporaneità,Fandango Libri

(Gianluigi Toccafondo)

CHINA E TEMPERAMauro Covacich,Storia di pazzie di normali, Laterza(www.onze111.com;www.mekkanografici.co)

Vince il look che non si vede

Vestitii

deilibri

Fandango Libri e Guanda hanno fattouna scelta precisa: copertine affidate a illustratori che ormai sono indissolubilidai loro libri. E anche l’austera Laterzasembra essere convinta dell’ideaper la sua collana Contromano

D’autore

I colori senza toni di compromesso dei Canguri Feltrinelli,la cupa oscurità bruciata dal fuoco che richiama il titolo di Bompiani,i due colori con immagine in primo piano di Voland: semplicità d’impatto

Espressioniste

WHITE BOOKVladimir Archipov,

Design del popolo. 220invenzioni della Russia

post-sovietica, IsbnEdizioni (Fabrizio

Confalonieri)

CROMIE SOLARIKawabata Yasunari,

La banda di Asakusa,Einaudi

(Progetto grafico:Bianco)

FUOCO E FIAMMESandro Veronesi,

Brucia Troia,Bompiani

(Francesco Messina)

CALDE SENSAZIONIRossana Campo,

Più forte di me,Feltrinelli

(Grafica Feltrinellisu un disegno

dell’autrice)

Un solo colore, che può variaredal verde all’arancione al blu per la nuovacollana Letture di Einaudi. Le FormeGarzanti invece non accettano variazionidi colore, solo celeste. Uniche indicazioni:autore, titolo, editore. Solo bianco per IsbnEdizioni che porta in copertina in più il codicea barre e colora l’esterno delle pagine

COME IL CIELOGeorge Steiner,Dieci (possibili) ragionidella tristezza del pensiero,Garzanti (Studio Baroni /Bob Noorda)

Repubblica Nazionale

Materiali e tecniche diverse per rendereuna copertina piacevole anche al tatto:sul viola Mondadori usa un rilievoche sembra uno stucco; la nuova collananarrativa del Saggiatore ha una finestracon aletta colorata che lascia intravederel’interno del libro. Guardando la copertinadi Bcd ci si può specchiare

Sensoriali

INCONFONDIBILESándor Márai,La sorella,Adelphi

BLU ETERNOMaj Sjöwalle Per Wahlöö,Il poliziotto che ride,Sellerio

RITORNO AL PASSATOAlice Miller, Il drammadel bambino dotatoe la ricerca del vero sé,Bollati Boringhieri (Enzo Mari)

SPECCHI RIFLESSIThomas Kelly,

Il grattacielodell’Impero,

Baldini Castoldi Dalai(Mara Scanavino)

RILIEVI TATTILIVikram Chandra,Giochi Sacri,Mondadori(Cristiano Guerri)

Sellerio e Adelphi hanno sceltoquesto tipo di copertine quandohanno incominciato e non le hannomai abbandonate. BollatiBoringhieri è tornata alla vecchiaimpostazione quest’annoper il suo cinquantenario

Inossidabili

Con piacere — e qualche sorpresa — ho scoperto che in unacronaca da Barcellona di Marco Di Capua sull’Unità si par-lava di «quella formidabile controstoria dell’arte» che ver-

rebbe condotta da anni attraverso le copertine Adelphi. L’artico-lo commentava una mostra di Hammershøi che aveva luogo inquel momento a Barcellona (mostra strepitosa, posso dirlo per-ché anche a me è capitato di vederla). Rendendosi conto che, inuna cronaca da Barcellona, parlare di un pittore danese dell’Ot-tocento, il cui nome cercheremmo invano nelle storie dell’artecorrenti, poteva suonare sconcertante, Di Capua si rivolgeva con-fidenzialmente al suo lettore scrivendo: «Tu, caro lettore, forse co-nosci una o due delle sue opere dalle copertine Adelphi».

Sì, è vero, Hammershøi come Spilliaert come Vallotton comeTooker come Colville come Willink come Oelze e altri ancora è unapresenza benvenuta — ed evocata ogni volta che sia opportuno —sulle copertine Adelphi. Se si guarda ai nomi appena citati, si no-terà che nessuno rientra in quella visione — a lungo dominante efondamentalmente risibile — secondo cui l’arte moderna, unavolta «risollevata dall’accademismo con l’avvento di Delacroix»(così scrisse una volta, sogghignando, Mario Praz), avrebbe se-

guito una via maestra che passava dai primi impressionisti perraggiungere poi Cézanne, quindi i cubisti, dispiegandosi infinenei cento fiori delle avanguardie. Appare evidente che, secondo lamuta «controstoria» adelphiana, le cose sarebbero andate intutt’altro modo.

Ho provato una volta a mostrare come, per le copertine diAdelphi, tentiamo di applicare una sorta di ecfrasi a rovescio — eho citato come esempio il rapporto fra i tronchi e i rami secchi diSpilliaert e i cinque volumi dell’autobiografia di ThomasBernhard. In quel caso si trattava di un rapporto sincronico fra pa-role e immagini. Ma sussiste anche un rapporto diacronico di tut-te le copertine di una casa editrice fra loro. A quel rapporto pen-siamo spesso — e talvolta perdendoci nei cunicoli della memoria.Proviamo a inventare incroci, allusioni, rimandi o constatiamoincompatibilità. Riconoscendo un solo limite a questo gioco:l’immagine scelta alla fine dovrà attrarre un ignoto lettore a pren-dere in mano quel certo libro e a passare alla cassa. Talvolta ci chie-diamo se questo oscuro lavorio venga percepito. L’articolo diMarco Di Capua ci incoraggia a pensare che qualcuno lo segua.

(© Roberto Calasso)

ROBERTO CALASSO

Riflessioni sulle copertine artistiche della casa editrice Adelphi

Il gioco delle relazioni multiple

Si attribuisce a Wilbur Smith una battuta molto efficace sulle coper-tine dei libri: “Se il nome dell’autore è scritto più grande del titolo,allora non è letteratura”. Spiritoso e soprattutto modesto, visto che

il suo nome in copertina è sempre enorme. E comunque è più o meno dentro questo pregiudizio che, come let-

tore, ammetto di essermi sempre orientato. Le copertine chiassose,troppo colorate, con autore e titolo strillati, genere “venghino signori!”sono istintivamente declassate dai miei neuroni. Sono stato segnatoquasi fin dall’infanzia dal bianco einaudiano, dal bigio contrito di saggieconomici appena ingentiliti da qualche quadratino alla Mondrian, chefaceva tanto kultura moderna, dalla perseveranza incolore di tutto oquasi il catalogo Bollati-Boringhieri, dal rigatino elegantissimo dellaPléiade, dall’esangue austerità di copertine che lasciavano intendere diquanto raramente si incrociassero le strade del piacere e del sapere.

Questa sindrome afflittiva è leggermente migliorata visitando le pri-me librerie straniere. Gli scaffali, già una trentina di anni fa, erano de-cisamente più variopinti, più ludici, più scintillanti, tanto da far sup-porre l’uso di coloranti alimentari, con quella fascinazione caleidosco-pica di certi boccettoni di vitamine americane. Per non parlare dei ca-

ratteri in rilievo, dorati e argentati, cheal giovane lettore italiano, abituato auna grafica quaresimale, facevano uneffetto da bassorilievo assiro, però ri-pensato a Las Vegas. Poi mi accorgevoche non solo i romanzacci, non solo lafantasy o il thriller, ma anche nobiliclassici, all’estero, si vestivano in quel-la maniera (come le puttane!!) per ri-chiamare la clientela. La letteratura,lassù in Europa, era già entrata nella so-cietà di massa, la società televisiva.

In patria, cominciavano a rimescolare le carte gli Adelphi e i Selleriosì dai colori gentili, sì dalla grafica distinta, però ben più civettuoli deilibri severi sui quali mi ero formato. Belli, insomma, quasi uno status-symbol da lasciare sui tavolini di case rasserenate dal benessere, nonpiù pura carta rilegata da affastellare negli incasinatissimi stanzoni del-le nostre giovinezze impegnate e sdegnose di comfort. E insomma, pia-no piano, mi sono almeno in parte affrancato dalla devozione origina-ria alla copertina noncurante (e noncurata). Ho rivalutato perfino cer-ti pacchianissimi Salgari e Verne dell’infanzia, con copertine ingenua-mente fumettistiche, il Corsaro Nero cupo e svettante sui marosi, ilNautilus avviluppato in tentacoli fasulli come i trucchi di cartapesta delcinema primigenio. Perché poi si scopre, vivendo e leggendo, che l’au-ra altissima e nobilissima della cultura andrebbe un pochino sdram-matizzata, e se non è consigliabile che un libro, per essere preso sul se-rio, luccichi come una facciata di casinò, non è neanche obbligatorioche abbia la fisionomia di una lapide, come tanti, troppi volumi chegiacciono sui nostri scaffali.

E così, venendo a sapere che le nuova tendenza della grafica librariasarebbe uno scicchissimo ritorno all’austerità, al monocromo, allosguarnito, mi auguro che non si esageri. Il libro, dai tempi della rilega-tura obbligatoria delle biblioteche dei nostri nonni, si è scamiciato pa-recchio, si è levato la grisaglia, e se ogni tanto va in giro con la camiciahawaiana, o bistrato, non è una tragedia. Sono per una grafica plurale,promiscua e magari spiazzante, magari un Nietzsche con coloratissi-mo disegno di Zarathustra in copertina (tipo Sandokan), o viceversa unCoelho o un Moccia senza nemmeno un orpello grafico, grigio topo co-me un saggio universitario. La scoperta, poi, viene quando il libro siapre, e la copertina scompare come un sipario che si ritira, e lascia solisulla scena le parole e il lettore.

Bianco, giallo o bigioQuando l’austerità

faceva rima con sapere

MICHELE SERRA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 17GIUGNO 2007

FINESTRE APERTEMilton Hatoum, Ceneri del Nord,

il Saggiatore (Fabrizio Confalonieri)

Repubblica Nazionale

‘‘

‘‘l’incontroAttrici fuori schema

ROMA

Selvaggia non esiste più. Era il1982. Era Forte dei Marmi. EraSapore di maredi Carlo Vanzi-na. Erano un costume azzur-

ro, un filo di perle di vetro tra i capelli, uncremino sbocconcellato con incerta sen-sualità sotto l’ombrellone. Non c’è piùquella bellezza rotonda e un po’ stolida daadolescente scambiata troppo presto perdonna. La sua bellezza è stata levigata daltempo. Come ripulita. Le unghie affilatedel tempo le hanno scavato nella facciaangoli acuti, smagrito la linea degli zigo-mi, allungato quella degli occhi. Una fili-grana di vene azzurre scorre sotto la pelledei polsi.

«A vent’anni ero più vecchia di adesso».Isabella Ferrari di anni ne ha quarantatré,li ha compiuti il 31 marzo. In questi giorniè sul set di Caos calmodel regista Antonel-lo Grimaldi, con Nanni Moretti e ValeriaGolino. Girano tra Roma e il Circeo. Uncammeo, un’esperienza dolorosa da nonprotagonista, una parte alla quale non ci siabitua mai. «La bellezza è stata per me unconto in banca aperto fin dalla nascita eassieme una tortura. Per molto temponon ho lavorato, mi dicevano tutti di no:“Sei troppo bella per questo ruolo”. Eddaje… In verità forse pensavano che nonfossi adeguata ma preferivano non ferir-mi. Noi del ramo siamo sovente ipocriti efifoni». Ride, una risata da ragazzina inmezzo alle compagne all’uscita di un li-ceo. «Scola un giorno mi ha spiegato chesono nata in un’epoca sbagliata: “Sarestistata perfetta per Visconti”. Già, invece hofatto Sapore di mare, a suo modo il mio so-lo film cult. Qualche settimana fa in un lo-cale di Milano, mi pare fosse il Plastic, im-provvisamente, hanno messo su Cantouna canzone, la mia unica e dimenticabi-le esperienza canora. Ti giuro, non ci vole-vo credere... Poi mi hanno spiegato chesono addirittura un’icona gay, vai un po’

tu a capire perché. Non ho approfondito,sono una contadina superficiale».

Quando mi ha aperto la porta m’aspet-tavo di trovarmi di fronte a un’attrice cal-ligrafica, restia a concedersi, d’umore in-termittente e un po’ blasé. Così come co-nosciuta al cinema e in televisione. Sco-pro invece una donna spaventata e alle-gra, senza capire fino in fondo come le dueanime possano stare assieme. Una donnache dice eccomi, se mi cerchi sono quidentro, prende in mano una raccolta diBertolt Brecht e legge: «Per questo ho curadi me stessa, guardo dove cammino e temoche ogni goccia di pioggia mi possa uccide-re». «Ho molta paura. Fatico ad affrontarela folla, a entrare nella sala di un cinema.Non guido in autostrada. Eppure mi pia-ce andare per i mercati a sgomitare. E mipiace ballare, tantissimo. C’è stato un pe-riodo in cui ingoiavo psicofarmaci dalledieci del mattino alle quattro del pome-riggio. Il mio medico omeopata, che peraiutarmi a allontanare l’ansia mi facevapasseggiare per villa Ada recitando il pa-dre nostro in latino, a un certo punto mi hadetto: “Non ho più medicine da darti, que-sto è il numero di un analista”. Ci sono an-data, è stata una cosa borghese, lo so, hosmesso alla fine del secolo scorso. Ora va-do a nuotare, imparo a respirare».

Ha appena terminato Le onde di Virgi-nia Woolf. «L’ho sottolineato tutto, mi so-no ritrovata in quelle pagine». È passataallo Straniero di Camus, l’uomo che desi-dera più di tutto cambiarsi la bocca, e haappena comprato Le illusioni perdute diBalzac. Ha conosciuto lo scrittore France-sco Biamonti e ha trascorso con lui lunghisilenzi più secchi e tormentati degli ulividella sua Liguria. Ha studiato poco, nonha fatto l’Accademia d’arte drammaticané frequentato i corsi del Centro di cine-matografia, ma possiede la cultura delledonne istintive che sono nate più di unavolta, sono cadute, non ce l’hanno fatta alasciare gli uomini sbagliati, sono riuscitea tradirsi da sole e a risollevarsi dai loropozzi. «Mi piacciono i libri semplici, hoscoperto che i classici lo sono, li capiscopersino io».

Fa un respiro profondo. «Dipingevo,una volta». Arrossisce, abbassa lo sguar-do. Poi gira la testa bionda, indica con uncenno la parete e ride: «No, quello è Schi-fano». Accanto ci sono due Alighiero Boet-ti. Lettere in colonna che diventano paro-le, fissano momenti particolari di una vitanella quale dimenticare il dolore è statodifficilissimo e ricordare la dolcezza lo èstato ancora di più: Fortuna, sfortunae At-tirare l’attenzione. «Amo le persone cheesistono e che desiderano. Sono semprein cerca di una pepita d’oro, di essere sco-perta, di essere amata, di essere voluta.Degli uomini e delle donne mi affascina iltalento e come sanno stare al mondo».

Il suo quadro è su un altro muro dellastanza, non più grande di dieci centimetriper otto, chiuso in una cornice avorio. Èuna marina notturna. La luminescenza diuna piccola barca bianca esplode nel ma-re nero e si sfrangia fino a accecare di lucela piatta solitudine che la circonda. La pa-

qualunque altra cosa, non sapevo nep-pure io che cosa, correvo a Roma sbat-tuta sul camion di mio zio, avevo pochimomenti di lucidità. Ho sbagliato mol-to e molto sofferto». Ora c’è una vita davivere e da dividere. Un grande studioluminoso, due computer, un lungo ta-volo con una pietra messa esattamentea metà. Da una parte sta lei, dall’altra ilmarito Renato De Maria, il regista diPaz. Quella roccia non è lì per caso.

Accanto, in un altro corridoio, molte fo-tografie. «L’album delle mie pance». Tere-sa, la figlia avuta da Massimo Osti, ha do-dici anni, Nina ne ha nove, Giovanni sei egli stessi gesti timorosi della mamma. «Hofatto questa famiglia numerosa perché hobisogno di aggrapparmi ad essa. I miei fi-gli mi hanno dato risposte, mi hanno cre-sciuta. Ora tocca a me dedicarmi alla loroeducazione e non sarà facile. Una volta,quando non recitavo, le mie giornate era-no totalmente vuote, temevo di essere di-menticata. Oggi sono una madre, forsenon ancora una buona madre, ma unagrande madre alla Ferzan Ozpetek, con ilfrigorifero sempre pieno. Sono molto po-co latina, ho gli occhi austroungarici dimia nonna, odio la volgarità e la sovrae-sposizione. In casa abbiamo un solo tele-visore, lo monopolizzano i ragazzi, io nonho alcun rapporto con la tv, dieci minuti ditg al giorno e nulla più. Ho cercato un po-sto con un cortile per vedere i miei figli gio-care all’aperto. Vorrei stessero lontanidall’effimero e dai reality».

Si costruiscono famiglie numeroseanche per avere una croce alla quale re-stare legati, un luogo non sempre confor-tevole dal quale si può scendere ma in cuiabbiamo bisogno di tornare per toccarein altre persone la carne della nostra car-ne. «A me piace viaggiare da sola, starenegli alberghi, mettermi a letto con legambe sollevate contro il muro senzanessuno intorno. Sto lontana perché mipiace pensare che ho una casa alla qualerientrare. Sono sempre stata fidanzata,mai un giorno da single. Ho la necessitàdi essere inchiodata a qualcuno. Ho avu-to pochissimi uomini, troppo pochi.Penso spesso con rimpianto a quelli aiquali ho rinunciato. Io ho bisogno delmaschio, di un uomo integro che non ab-bia paura delle donne. Sono all’antica».

Le chiedo del sesso. «Preferisco farlo enon parlarne. Mi arrendo sempre allasua bellezza». Le chiedo del corpo, deglianni che lo segnano, della sua bocca cheavrebbe intrigato Camus. «Non ho pau-ra d’invecchiare, ho il terrore di amma-larmi, prendo un sacco di medicine, tut-te omeopatiche. Sono stata molto infeli-ce, ho perduto persone care, credimi, soche cos’è la sofferenza. Ho smesso di an-dare in chiesa, sono passata attraverso ilbuddismo, oggi sento che Cristo mi so-stiene e ogni tanto prego. Sulla mia boc-ca mi salvo con l’ironia, l’ho rovinata conun’iniezione che doveva dare turgore al-le labbra. Non me lo avevano mai do-mandato, non mi vergogno a risponde-re con la verità. Me la tengo così». In po-litica, passata dai girotondi - «esperien-

lazzina lungo questa strada tranquilla delquartiere Parioli è invasa dal sole, dall’al-tra parte del cortile una madre litiga con ilfiglio dietro le persiane accostate. Le lorovoci d’ira sono gli unici rumori che arriva-no fin qui. Lungo il corridoio tra la cucinae l’ingresso della casa sono appesi gli altriquadri. In tutti c’è il buio, poi irrompe laluce. Nessun compromesso. Solo il bian-co e il nero, basta sfumature. Non c’è piùtempo da buttare via. C’è una vita da re-cuperare, quella di una bambina che sichiama Isabella Fogliazza. «A teatro, nel-le Due partite di Cristina Comencini, do-ve stavo in un ruolo piccolo e umile, ho ri-visto molte persone delle mie terre, lacampagna piacentina, ho recuperato miamadre e le sue amiche, è venuta fuori tut-ta la mia infanzia, ho sentito i brividi dei ri-cordi, mi veniva da piangere. Ho passatomolte notti insonni, ma sono stata felice,ero piena di energia».

C’è una vita da scavalcare, quella del-l’adolescenza. «Mio padre era un com-merciante di bestiame, l’odore di stalla-tico mi seguiva ovunque, nei cassetti,negli abiti, l’avevo nel naso. I miei si so-no separati. Volevo volare via, volevo

za finita» - confessa di non riuscire più aseguire nessuno. «Berlusconi ha esalta-to l’individualismo e la solitudine e cre-devo che la sinistra, a cui sento di appar-tenere, mi sarebbe piaciuta di più.Aspetto, sono pigra».

Isabella Ferrari è un’attrice che lavorapoco, che lo ha fatto spesso per necessitàe che non parla volentieri del suo me-stiere. «Posso fare l’elenco dei registi concui non ho lavorato, guarda, mi limito aquelli italiani: Amelio, Bellocchio, Ber-tolucci, Comencini, Crialese, Garrone,Lucchetti, Moretti, Muccino, Olmi, Pla-cido, Salvatores, Soldini, Verdone,Virzì...». È una battuta morettiana, unapiccola prova d’autore. «Non ho inter-pretato ancora il ruolo della mia vita.Una volta sognavo Anna Karenina, ogginon so. Per dire sì a un regista, voglio es-sere necessaria alla sua visione. Voglioessere scelta. In questi ultimi anni è sta-to finalmente così. Ecco perché sono li-bera. Io ho il desiderio carnale di fare ci-nema, mentre leggo un copione mi cari-co sulla schiena il personaggio con mol-ta difficoltà, come se fosse un fantasma.Mi sento improvvisata, incapace,schiacciata da quel peso, mi convinco diessere odiata da tutti quelli della troupe.Quando salgo sul set avviene il miracolo,ogni paura sparisce e mi diverto. Stareibene anche nei panni di un mostro. Vor-rei morire mentre recito, so che mi sa-rebbe lieve».

Qualche giorno fa è andata nella chie-sa di Santa Sabina, vicino al Giardino de-gli aranci, dove in realtà il profumo piùintenso che si avverte è quello dei tigli.«Ho pensato che in quella chiesa dovetutti si sposano io vorrei che si celebras-se il mio funerale. Vorrei tanta gente evorrei sentirmi anche quel giorno ama-ta. Amatissima». Chi non l’ama dovràastenersi. Il bianco, o il nero. Nessuncompromesso. Blacky, il gatto di casa, leaccarezza le caviglie con la schiena inar-cata per farsi aprire la porta e precipitar-si sulle scale. È, naturalmente, nero.

Sono sempre in cercadi una pepita d’oro,di essere scoperta,di essere amata,di essere volutaMi affascinail talento di uominie donne e comesanno stare al mondo

“A vent’anni ero più vecchia di ora”Adesso la protagonista di “Saporedi mare” di Carlo Vanzina di annine ha 43 e sta girando, con Grimaldi,“Caos calmo”. La sua bellezza

non ha più le rotonditàadolescenziali: è statalevigata dal tempoMa lei non ha “paurad’invecchiare” e parlasenza reticenze dei suoitimori e dei suoi sbagliDei figli, della famiglia,

dell’amore. Dei registi con cuinon ha lavorato e del suo “desideriocarnale di fare cinema”

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17GIUGNO 2007

FO

TO

CO

RB

IS

DARIO CRESTO-DINA

Isabella Ferrari

Repubblica Nazionale


Recommended