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TRÓPOS ORIZZONTI - iris.unipa.it · Contributi di Giorgio Bertolotti Federico Leoni Rocco Ronchi...

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TRÓPOS ORIZZONTI OPERE COLLETTANEE
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TRÓPOS ORIZZONTI

OPERE COLLETTANEE

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Direttore

Gaetano CUniversità di Torino

Comitato scientifico

Gianluca CUniversità degli Studi di Torino

Nicholas DUniversity of Dundee

Federico LUniversity of North Carolina at Chapel Hill

Jeff MUniversity of Tasmania

Roberto SUniversità di Torino

Gianni VProfessore emerito Università di Torino

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TRÓPOS ORIZZONTI

OPERE COLLETTANEE

Le collane “trópos orizzonti” e “trópos profili” estendono laproposta nata con la rivista «trópos» attraverso la pubblicazionedi opere collettanee (nella sezione “orizzonti”) e monografiche(nella sezione “profili”) che riflettono su temi della tradizioneermeneutica, ma che si prestano altresì a interagire con altriambiti disciplinari, dall’estetica all’architettura, dalla politicaall’etica.

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La questione dell’eventonella filosofia contemporanea

Atti del ciclo di seminari di “associazionealetheia”

a cura di

Michele Di Martino

Contributi diGiorgio Bertolotti

Federico LeoniRocco RonchiRoberto TerziLuca Vanzago

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Copyright © MMXIIIARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, /A–B Roma()

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: ottobre

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Indice

Prefazione

Introduzione. Il ritorno dell’eventoMichele Di Martino

Prima della coscienza: evento, materia e percezionenella filosofia di BergsonRocco Ronchi

La concezione processuale della natura in WhiteheadLuca Vanzago

Esperienza o tautologia? La questione dell’evento inHeideggerRoberto Terzi

Deleuze. Il divenire come coincidenza degli oppostiFederico Leoni

Σῴζειν the event. Derrida e l’«esteriorità»Giorgio Bertolotti

Profili autori

Indice analitico

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645591pag. 9–9 (ottobre 2013)

Prefazione

Il presente volume raccoglie gli atti di un ciclo di seminari svol-tosi presso l’Università degli studi di Milano tra il febbraio eil maggio del . Tali seminari si sono articolati in due par-ti di circa due ore ciascuna, la prima dedicata alla lezione, laseconda alla discussione. Qui, tuttavia, riportiamo i soli testidelle lezioni frontali, che i docenti invitati hanno avuto mododi rivedere e riscrivere, a partire dal percorso originale. Adorganizzare il ciclo di seminari sono stati gli studenti di filoso-fia che hanno dato vita all’Associazione studentesca Alétheia(associazionealetheia.it).

. Fa eccezione il contributo di Giorgio Bertolotti.

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645592pag. 11–39 (ottobre 2013)

Introduzione

Il ritorno dell’evento

M D M

: . La storia, tra continuità e discontinuità, – . Laquestione dell’evento nella filosofia contemporanea, – . At-traverso il linguaggio, i due fronti dell’evento, – . L’evento,un ritorno?, .

. La storia, tra continuità e discontinuità

Nel Pierre Nora pubblica un articolo dal titolo Il ritornodell’evento, facendo riferimento alla ricomparsa della catego-ria di evento nella storiografia contemporanea dopo che glistorici più eminenti della prima metà del Novecento, comeper esempio Henri-Irénéè Marrou, o Lucien Febvre e FernandBraudel della scuola delle Annales, l’avevano espunta in favoredi una concezione della storia intesa come “lunga durata”, valea dire come narrazione complessa, omogenea e unitaria nellasua struttura e priva di vere e proprie rotture. Il termine eventoera comparso per la prima volta nei testi degli storici positivistinella seconda metà dell’Ottocento, secondo un’accezione se-gnatamente scientifica: l’evento storico non sarebbe altro cheil «“dato di fatto” puro» che giunge fino a noi, «attraverso il

. P. Nora, Le retour de l’événement, in Id., J. Le Goff, Faire de l’histoire. NouveauxProblèmes, Gallimard, Paris , pp. -; trad. it. di I. Mariani, Il ritorno dell’avveni-mento, in Fare storia, Einaudi, Torino , pp. -. Anche se il termine événementnel volume citato viene tradotto con “avvenimento”, preferiamo qui tradurre con“evento”, rispettando la distinzione che il francese stesso opera tra avénement eévénement.

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Introduzione

veicolo di una cronaca o di un documento, rimanendo inconta-minato, cioè senza essere interpretato e assimilato in un nuovocontesto». Facendosi strada la consapevolezza del carattereutopico di una storia fatta senza interpretante e sulla scorta dicerta filosofia della storia tedesca (sono di riferimento pensatoricome Weber o Dilthey da una parte e Hegel dall’altra), gli stori-ci successivi si scagliano con forza e non senza successo controla mancanza di profondità della prospettiva positivistica finché,tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la storiografia torna adessere abitata dalla categoria di evento. Poiché «la presa in contodella struttura ha obbligato la storia a non essere più “evene-menziale” nel vecchio senso del termine», l’evento che Noramette in questione, sancendone il ritorno, non è più quellodel positivismo, ma è qualcosa di più problematico. Lo storicocontemporaneo, a partire dagli anni Ottanta in maniera semprepiù consistente, lavora quindi sulla base di un quadro teoricoche contempla assieme struttura ed eventi, grazie a cui la storiaè “costretta” a «non limitarsi a dipanare il filo di una continuità,ma a far intervenire la discontinuità attestata dall’evento».

Il termine latino eventus, da evenire, rimanda a qualcosa di e-venuto, di compiuto, a un esito o un risultato. Dal punto di vistasemantico sembrerebbe quindi sovrapporsi al termine italia-no “fatto”, formato anch’esso da un participio passato. Eppure,tutto del modo in cui la questione dell’evento fa irruzione sulfinire dell’Ottocento induce a pensare che si tratti di qualcosadi più. Se l’evento è quel fatto particolare capace di produrreuna discontinuità, una rottura nella continuità strutturale delprocesso storico, non si tratta più semplicemente di qualcosa dicompiuto, come esito di premesse in qualche modo rintraccia-bili, ma di un “accadimento” che, segnando un punto di svolta,

. C. Violante, La conoscenza storica secondo Henri-Irénée Marrou, in H-I. Marrou,La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna , p. XVIII.

. M. Zarader, L’événement, entre phénoménologie et historie, in «Tijdschrift voorFilosofie», juin , n. , p. -, p. . L’articolo non è tradotto in italiano, perciòtutte le volte che è citato si tratta di una traduzione nostra.

. Ibidem.

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Introduzione

porta con sé un elemento di novità non riducibile al “prima”, alpunto da segnare esso stesso la separazione, la cesura tra il “pri-ma” e il “dopo”. Quindi, sebbene per un verso il positivismointenda fare un uso scientifico, “oggettivistico” della categoriadi evento, per altro verso, l’evento è precisamente ciò che perantonomasia, in virtù della sua irriducibilità a delle premesse, sisottrae alla «sfera dell’oggettività, non appartiene a un passatoin sé che lo storico si accontenta di esumare». Getta un po’ diluce sulla contraddizione che sembra segnare l’accezione concui i positivisti guardano all’evento, dissolvendone la portata, laseguente osservazione di Pierre Nora:

Mosso dall’ambizione di trasferire i metodi sperimentali nell’ambi-to delle scienze sociali, questo gruppo di storici [i positivisti] si èproposto solo di attestare scientificamente un fatto, di ricostruirlopazientemente per recuperare tutto il passato attraverso una serie dieventi costituiti a loro volta da una raccolta di fatti, e ricondurre ladiscontinuità di eventi unici alla catena di una causalità continua. Ècome se i positivisti avessero preso in prestito dal presente il prin-cipale degli elementi che dovevano modellare il suo volto, ma perrelegare rigorosamente nel passato la sua validità; come se proprioi positivisti, per cui lo storico non doveva essere di nessun tempoe di nessun paese, avessero accusato il colpo del presente, ma peresorcizzare inconsciamente i suoi pericoli accordando all’evento ildiritto di cittadinanza solo in un passato inoffensivo.

Il termine che la storiografia positivista fa suo non costi-tuisce un carattere peculiare della sua sola impostazione dipensiero, ma entra a far parte del suo vocabolario, per così dire,sotto la pressione del presente. Tralasciando per un momen-to il problema relativo alle diverse accezioni in cui il termine“evento” può essere utilizzato, è utile notare che esso cominciaa farsi strada in ambito storico in concomitanza con la radicalemessa in discussione filosofica dell’intera storia della metafisicache parte da Nietzsche, prosegue con Bergson e Whitehead e

. C. Romano, Evento, in Enciclopedia filosofica, volume IV, Bompiani, Milano, pp. -, p. .

. P. Nora, op. cit., pp. -.

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Introduzione

trova il suo momento apicale in Heidegger. E, come vedremo,se c’è un termine che funziona come “leva concettuale” atta ascardinare gli assunti dell’ontologia classica è proprio quello dievento. Dalla metà dell’Ottocento ad oggi, l’evento appare sem-pre più come una nozione guida, come «la punta di diamantedi una critica delle grandi teleologie storiche e della pretesatotalizzante che le sottende».

Ciò che accade nella storia della storiografia è quindi a benvedere legato a doppio filo alle vicissitudini che hanno trava-gliato il pensiero filosofico da Nietzsche ai giorni nostri. Doposecoli in cui la filosofia aveva mostrato scarso interesse per talenozione, essa si è oggi prepotentemente imposta come unaquestione nei confronti della quale nessuno può concedersi difare professione di indifferenza. Basti pensare a filosofi comeDerrida e Deleuze, o a coloro che se ne sono occupati e sene occupano nella forma di una fenomenologia dell’eventoin Francia, come Marion, Benoist o Romano. Il fatto che larivoluzione filosofica che si è consumata nell’ultimo secolo emezzo abbia coinvolto altre discipline, come per esempio lastoria, in un ripensamento radicale dei propri fondamenti e chetutto ciò abbia gravitato in gran parte attorno ad una parola,fa dell’evento una «parola epocale [mot d’époque]», che può for-se non avere le fattezze e «la consistenza di un concetto; maneppure deve essere intesa come una semplice parola d’ordine[simple effet de mode]. Quando un’epoca si raccoglie così su unaparola, e vi si riconosce, occorre in genere vedervi l’indice diuna questione [question] che le si impone».

Al di là delle divergenze, anche molto profonde, tra le varieprospettive con cui il tema è stato sviluppato – e di cui il volumerende almeno in parte ragione – emerge la singolare e significa-tiva convergenza nell’uso di uno stesso termine. La nozione dievento, provvista di una indubbia carica polemica, è stata, perdir così, una sorta di cavallo di Troia con cui ad un certo punto

. C. Romano, op. cit., p. .. M. Zarader, op. cit., p. , n. .

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Introduzione

la filosofia, volgendosi verso se stessa, ha fatto il suo ingresso inquell’unitario (o presunto tale) edificio dei saperi che va sottoil nome di ontologia classica o metafisica, per rimetterne indiscussione da cima a fondo gli assunti.

. La questione dell’evento nella filosofia contemporanea

Come si sa, la filosofia si è affermata, a partire dalla instaura-zione socratico-platonica, come tentativo di costruzione di unsapere razionale, che non dovesse fare appello per giustificarsiad elementi della tradizione, mitici o dogmatici, o a qualsivo-glia autorità altra da sé. Per questo motivo essa si è imposta inantitesi alla doxa, mettendone in questione i fondamenti, facen-doli passare al vaglio della ragione, allo scopo di stabilire unsapere certo, capace di mostrare la validità dei propri contenuti,vale a dire di esibire da sé il proprio fondamento. «È correttochiamare la filosofia scienza della verità», dice Aristotele nellaMetafisica. È ciò che ribadirà Husserl più di due millenni piùtardi, affermando che «fin dai suoi primi esordi la filosofia haavanzato la pretesa di essere scienza rigorosa». Il movimen-to di problematizzazione dell’ovvio, di tematizzazione di quelsapere che potrebbe non divenire mai oggetto di riflessione,proprio della filosofia, ha a che fare con la messa in opera diuno sguardo del tutto particolare. Il theorein non è interessato aquesto o quell’oggetto particolare, ma all’oggetto consideratocome tale, astratto dal proprio contesto d’uso e di senso, lavoracoi concetti. Scienza universalizzante per definizione, la filoso-fia non ha di mira le cose concrete, ma gli enti, le cose quantoal loro essere. Tuttavia, il «grande progetto» di una scienza ca-pace di autolegittimarsi mediante la mostrazione dell’evidenza

. Aristotele, Metafisica, Libro II, b.. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft (), ora in Id., Aufsätze und

Vorträge (-), Husserliana Bd. XXV, hrsg. von T. Neon, H.R. Sepp, MartinusNijhoff, Dordrecht ; trad. it. a cura di F. Costa, La filosofia come scienza rigorosa,ETS Editrice, Pisa , p. .

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Introduzione

di cui sarebbe dotato il proprio fondamento ultimo «è entratoin una crisi irreversibile alle soglie dell’epoca contemporanea.L’attività chiarificatrice della ragione, che, mirando a una veritàlibera da condizionamenti e presupposti inindagati, pensava dipoter tutto illuminare, si è rivelata un abbaglio», almeno nellaforma che tale attività ha assunto per tutto quel periodo che vasotto il nome di “storia della metafisica”.

Per entrare nel vivo di una discussione sull’evento, nell’am-bito dei seminari di cui qui si raccolgono gli atti, ci siamo propo-sti di passare attraverso il pensiero di cinque autori – Bergson,Whitehead, Heidegger, Deleuze, Derrida –, affidandone latrattazione rispettivamente a Rocco Ronchi, Luca Vanzago, Ro-berto Terzi, Federico Leoni e Giorgio Bertolotti. Ci limiteremo,in sede introduttiva, a richiamare le modalità peculiari con cuiciascuno degli autori citati si è accostato all’evento.

a) Bergson, nell’introduzione ad uno dei suoi saggi più fa-mosi, L’evoluzione creatrice, lamenta l’incapacità della filosofia dipensare la vita: «in realtà – scrive – avvertiamo distintamenteche nessuna delle categorie del nostro pensiero – unità, mol-teplicità, causalità meccanica, finalità intelligente ecc. – puòapplicarsi esattamente alle cose della vita». E, poco oltre, ag-giunge che «invano cerchiamo di costringere il vivente entro inostri schemi». Un tale difetto del pensiero filosofico, che nelcontesto specifico si riferisce alla filosofia evoluzionista, sarebbein ultima istanza connesso con il modo in cui la metafisica hapensato l’essere. L’essere dell’ente, il come tale dell’oggetto, rica-vato per astrazione, si colloca su un piano statico-analitico. Ci siinterdice così l’accesso alla realtà, che è invece essenzialmentemovimento. Bergson fa cominciare la metafisica con la resisten-za di Parmenide alle obiezioni di Zenone, che mettevano inluce «le contraddizioni inerenti al movimento e al mutamento

. E. Redaelli, Evento, in Filosofia teoretica. Un’introduzione, a cura di R. Ronchi,UTET, Torino , p. .

. H. Bergson, L’évolution créatrice, PUF, Paris ; trad. it. a cura di F. Polidori,L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano , p. .

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Introduzione

così come se li rappresenta la nostra intelligenza». Di qui inpoi, la metafisica si sarebbe prevalentemente (se non unicamen-te) cimentata nel tentativo di superare queste contraddizioni,finendo col «cercare la realtà delle cose al di sopra del tempo,al di là di ciò che si muove e muta». L’inganno contenuto inuna simile impostazione consiste nel credere che con «questischemi», vale a dire con i concetti immobili con cui lavora la fi-losofia, che possono avere finalità unicamente pratica, «si possaricomporre il reale».

La gran parte delle aporie della metafisica derivano «dal fattoche confondiamo la speculazione e la pratica, o dal fatto che noispingiamo un’idea nella direzione dell’utile quando crediamodi approfondirla teoricamente». Il modello preso qui di miraè evidentemente quello aristotelico, dove il mutamento nonè altro che il succedersi di accidenti relativi ad una sostanzaimmobile e dove l’atto è sempre già deciso dalla potenza chelo precede. Che cosa rimane dunque inesorabilmente al difuori dell’impostazione metafisica? La maggior parte dei filosofi,compresi «quei pochi che hanno creduto al libero arbitrio»,«non giungono mai, qualsiasi cosa facciano, a rappresentarsila novità radicale e l’imprevedibilità». È Deleuze a coglierebene questo aspetto come la nota dominante del pensiero diBergson:

Si vede come un tema lirico attraversa tutta l’opera di Bergson: unautentico canto in onore del nuovo, dell’imprevedibile, dell’inven-zione, della libertà. Non c’è qui una rinuncia alla filosofia, ma untentativo profondo e originale di scoprirne il dominio proprio, perarrivare alla cosa stessa oltre l’ordine del possibile, delle cause e dei

. H. Bergson, La pensée et le mouvant, PUF, Paris ; trad. it. a cura di F. Sforza,Pensiero e movimento, Bompiani, Milano , p. .

. Ibidem.. Ivi, p. .. H. Bergson, Matière et mémoire, in Id., Oeuvres. Edition du Centenaire, PUF,

Paris , pp. -; trad. it. a cura di A. Pessina, Materia e memoria, Laterza, Bari, p. .

. H. Bergson, Pensiero e movimento, cit., pp. -.

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Introduzione

fini. Finalità, causalità e possibilità sono sempre in relazione con lacosa, una volta fatta, e suppongono sempre che «tutto» sia dato.

La realtà, perciò, non è mai l’attualizzazione dei suoi ante-cedenti, l’atto di una potenza, ma durata creatrice. In Bergson,come sottolinea bene il contributo di Ronchi, ha luogo un “sol-levamento” del cambiamento continuo, indivisibile, eteroge-neo e irreversibile ad assoluto: il divenire non è più il divenire diun che di stabile e permanente, di una sostanza, ma è esso stes-so l’assoluto. Se l’apparire, se il divenire mutevole e cangiantedel reale è già l’essere, allora si capisce perché nell’impostazio-ne metafisica bergsoniana si apra lo spazio per la novità assoluta:l’evento. Non questo o quell’evento particolari, ma l’eventoche è l’accadere, l’apparire stesso della realtà.

b) Di soli due anni più giovane di Bergson, Whitehead,pur essendo a conoscenza del pensiero del filosofo francese,propone per una via autonoma un concezione dell’evento permolti versi assai simile. Matematico di formazione, giunge allafilosofia relativamente tardi, sotto la pressione di preoccupa-zioni specificamente matematiche e dall’interno della mate-matica stessa. La critica all’ontologia tradizionale è mossa daWhitehead anzitutto per il fatto che gli sviluppi più recentidell’algebra collidono con l’imbrigliamento della realtà in quel-le categorie. L’obiettivo whiteheadiano consiste quindi nellaliberazione della scienza dal paradigma filosofico che inconsa-pevolmente adotta e che la frena. Vanzago indica nelle nozionidi identità, sostanza e accidente gli elementi portanti di queldispositivo che si tratta di lasciarsi alle spalle. L’idea di sostan-za implica infatti quella duplicazione della realtà tanto inutilequanto dannosa contro cui si scagliava anche Bergson. In lineadi continuità con l’impostazione bergsoniana, alla sostanza ari-

. G. Deleuze, Bergson (-), in Les philosophes célèbres, a cura di M.Merleau-Ponty, Editions d’Art Lucien Mazenod, Paris ; trad. it. a cura di P.A.Rovatti e D. Borca, Bergson (-), in Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino, p. .

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stotelica Whitehead contrappone allora l’evento come effettivo«fattore unitario, che ritiene in se stesso il divenire della natura»,come l’«elemento concreto primario che viene fissato nellanatura». Il percorso whiteheadiano, dalla matematica all’epi-stemologia e alla metafisica, gravita attorno al ripensamentodel concetto di natura: «è impossibile tener ferma la natura,e intanto contemplarla», afferma in uno dei suoi scritti piùsignificativi, smascherando l’inadeguatezza dei concetti dellametafisica a rendere ragione del mutamento continuo, del pro-cesso. La natura non è altro che l’avanzamento creativo dellarealtà, costituita da eventi, vale a dire da processi irreversibili,inafferrabili nella loro inidentificabilità. A differenza dell’en-te come tale, non è infatti possibile «riconoscere un evento,perché, quando è passato, è passato. Potete osservare un altroevento di carattere analogo, ma l’attuale spessore della vita èinseparabile dal suo accadimento unico». Il passaggio, il pro-cesso, è infatti ciò che per definizione resiste all’identificabilitàe alla concettualizzazione.

c) La questione dell’evento, in quanto legata alla “fine dellametafisica”, raggiunge certamente il suo culmine in Heidegger.Alcune espressioni heideggeriane, peraltro, quali “metafisicadella presenza”, “oblio dell’essere”, “differenza ontologica”,insieme alla nozione di Ereignis, hanno costituito, grossomododagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, una specie di ritornelloche qualunque pensatore successivo che non volesse apparireobsoleto non poteva permettersi di ignorare. In termini heideg-geriani, non si tratta tanto di pensare “contro” la metafisica o dirovesciarla (questo è ciò che aveva fatto Nietzsche, col risultatodi portare la metafisica a compimento senza tuttavia riuscire aprenderne congedo), quanto di rilevarne e decretarne la fine.Il pensiero dell’Ereignis si fa strada in Heidegger nel punto di

. A.N. Whitehead, Concept of Nature, Cambridge U.P., Cambridge ; trad.it. di M. Meyer, Il concetto di natura, Einaudi, Torino , p. .

. Ivi, p. .. Ivi, p. .

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esaurimento di un’impostazione di pensiero che, per così dire,si era conclusa. Ciò non significa votarsi all’irrazionalismo. Poi-ché «si parla contro la “logica”, si crede che venga avanzata lapretesa di rifiutare il rigore del pensiero, di fare dominare al suoposto l’arbitrio degli istinti e dei sentimenti e di proclamarecosì come vero l’“irrazionalismo”». Ma non si tratta di que-sto, bensì di «ripensare il logos e la sua essenza apparsa all’albadel pensiero», di guardare verso ciò che il pensiero riservadopo quella bimillenaria e ormai tramontata stagione di oblioe fraintendimenti che è la storia della filosofia. L’essere, cheera sempre stato pensato sul modello dell’ente, come presenza,non è più da intendere come qualcosa di determinato, ma comepuro orizzonte, come un «nulla attivo, caratterizzato da unaspecifica motilità»:

Pensare propriamente l’essere esige che si abbandoni l’essere comeil fondamento dell’essente a favore del dare che gioca nascosto neldisvelamento, cioè a favore dello «Es gibt». L’essere, in quanto è ladonazione (Gabe) di questo Es gibt, trova il suo luogo proprio (gehört)nel dare.

Per Heidegger non è più possibile pensare l’essere (qualeche sia la figura in cui lo si voglia identificare) come fondamen-to. Di più: è l’idea stessa di fondamento, di principio primo,di origine ad essere definitivamente abbandonata. È questauna delle ragioni per cui, negli ultimi anni, al termine essere,foriero di equivoci a causa della sua compromissione con latradizione metafisica, Heidegger preferisce quello di Ereignis:«l’essere svanisce nell’Ereignis». Non «una nuova configura-zione dell’essere accanto a quelle che hanno coniato i diversi

. M. Heidegger, Brief über den «Humanismus»; trad. it. a cura di F. Volpi, Letterasull’«umanismo», Adelphi, Milano , p. .

. Ivi, p. .. E. Redaelli, Evento, cit., p. .. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen ; trad. it. a

cura di E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli , p. .. Ivi, p. .

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Introduzione

nomi dell’essere», la cui storia è giunta al termine, ma il puromovimento ap-propriante e dis-propriante del venire alla lucedella fenomenalità, quel ritrarsi che si fa sfondo possibilizzan-do la manifestazione degli enti, un movimento di cui nulla sipuò dire. L’Evento «indica il punto cieco della ragione [. . . ]:ciò che non può essere [. . . ] portato a “significato” essendo lacondizione che precede e rende possibile ogni significato». Sedunque la filosofia nasceva con la pretesa di essere la scienzacapace di ostendere da sé il proprio fondamento, ci troviamoora di fronte ad un fondamento che si ritrae, che letteralmentenon è. L’impossibilità di dire il fondamento – «cosa resta da dire?Solo questo: l’Ereignis ereignet» –, come mostra il contributodi Terzi, apre ad una lunga serie di questioni e domande ancorada indagare.

d) «Rimango e voglio rimanere un razionalista, un feno-menologo, [...] vorrei rimanere un fenomenologo in ciò chedico contro la fenomenologia». Un’affermazione che non ci siaspetterebbe, forse, da parte di Derrida, un autore che, nel suoinfaticabile lavoro decostruttivo, ai margini del discorso filoso-fico, è stato tra i più acuti critici di tutto l’apparato concettualee terminologico della metafisica e della fenomenologia stessa.Se, da un lato, nozioni come quelle di origine, soggettività ecoscienza, identità, proprietà, pienezza ontologica, autotraspa-renza sono state oggetto di una costante, minuziosa e attentaopera decostruttiva, che ne smascherava ogni volta la presuntapurezza, la non autosufficienza, dall’altro, la prospettiva derri-diana non intende prendere congedo dalle istanze della filosofiae, addirittura, della fenomenologia. Se ne può parlare, al limite,

. S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger dal kairós all’Ereignis, Guida,Napoli .

. E. Redaelli, Evento, cit., p. .. M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. .. J. Derrida, On the Gift: A Discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc

Marion, in God, The Gift and Postmodernism, a cura di J.D. Caputo, M.J. Scanlon,Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis , p. , traduzionenostra.

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Introduzione

come di una «fenomenologia dell’impossibile», in cui la messa inquestione dell’evento si configura come «un ardito esperimen-to per mostrare che nulla si dà da sé, senza rapporto all’altro,né presentemente “in quanto tale”».

Quando Giovanna Borradori gli domanda, nel corso di unaintervista sull’attentato alle torri gemelle dell’ settembre, sepensi l’evento nel senso di Heidegger, Derrida risponde digetto: «Senza dubbio». Ora, oltre al legittimo sospetto cheil tema della discussione – l’« settembre», cioè qualcosa dieffettivamente accaduto – solleva a proposito di una similerisposta, va sottolineato che è «il movimento tra Ereignis edEnteignis quello che soprattutto a Derrida interessa», in unosbilanciamento che pesa forse più dalla parte dell’Enteignis,vale a dire del movimento es-propriante, che del movimentoap-propriante.

Della concezione derridiana dell’evento, di cui si cerchereb-be invano una trattazione sistematica, come nota Bertolotti,ci interessa solo sottolineare due elementi. Il primo ha a chefare con l’impossibile, il secondo con la scelta dell’« settem-bre». Se «un evento è solamente possibile, non fa che svolgereesattamente le possibilità che sono là e dunque non è un even-to», scrive Derrida. Affinché si possa parlare di evento occorreche esso sia inanticipabile e imprevedibile, in un certo sensoimpossibile, irriducibile a condizioni di possibilità: le sue con-dizioni di possibilità devono essere rovesciate in condizioni diim-possibilità. Perciò, solo «quando l’impossibile si fa possibile,l’evento ha luogo (possibilità dell’impossibile). È persino questa,

. M. Vergani, Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano , p. , corsivonostro.

. J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida,in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida,Laterza, Roma-Bari , p. .

. C. Resta, Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Guerini, Milano , p. .. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, prefazione a S.

Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Book, Milano , p. .

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irrecusabile, la forma paradossale dell’evento». Ad impedircidi confondere l’impossibile, che descrive il paradosso delle con-dizioni di (im)possibilità dell’evento, con il non possibile, entrain gioco il secondo elemento, l’attentato alle torri gemelle. Aldi là della risposta che Derrida offre nel testo alla domanda sedell’« settembre» se ne possa parlare come di un evento oppu-re no, il fatto stesso che si sollevi l’interrogativo in propositosegna la distanza dalla concezione heideggeriana: l’evento dicui parla Derrida ha a che fare con ciò che accade:

dopo tutto, ogni volta che qualche cosa accade e anche nella piùbanale esperienza quotidiana, c’è una parte d’evento e di singolareimprevedibilità: ogni istante segna un evento, come anche tuttociò che è “altro”, ogni nascita e ogni morte, anche le più dolci enaturali.

e) Debitore più di Bergson che di Heidegger, Deleuze, so-prattutto in Logica del senso, si cimenta nella fondazione di unanuova logica che scaturisca dalla nozione di evento. Ciò che quici interessa rilevare ha a che fare con un tratto decisivo (ben-ché secondo prospettive differenti e perfino opposte) in tutti ipensatori sin qui considerati, con un aspetto in qualche modoimplicato nella questione stessa dell’evento: il suo carattere pre-soggettivo o addirittura a-soggettivo. Assieme alla metafisica, ineffetti, cade anche il concetto di soggetto, che in maniera sem-pre più imponente da Descartes a Husserl si era fatto strada alsuo interno. È forse possibile parlare di un soggetto dell’evento,di un soggetto che di diritto precede e registra l’evento che gliaccade? In un senso trascendentale certamente no, non più, èevidente. Sarebbe il sintomo lampante di un modo ragionareancora metafisico, ancorato alla figura del fondamento stabile,immobile. Il primum è piuttosto l’evento, assolutamente liberoda tutte quelle categorie, come passato-futuro o causa-effetto e

. Ivi, pp. -.. J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida,

cit., p. .

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così via, che trovano il loro senso unicamente in relazione alsoggetto che le esperisce.

Nella misura in cui il soggetto, l’«attore», cessa di costituirela prospettiva della filosofia, è l’evento, con le categorie imper-sonali che porta con sé, a dettare i termini della prospettiva.Il compito dell’individuo, per parte sua, è di saper diventare«figlio dei propri eventi [o degli eventi che fa propri] e nondelle proprie opere», facendosene carico, una volta che li haincarnati. In questo senso l’evento, come singolarità assoluta,non ha nessun qui ed ora, poiché il qui ed ora è sempre in rife-rimento ad un soggetto. L’evento deleuziano è, analogamentealla durata creatrice di Bergson e al processo di Whitehead, purodivenire, libero dalle anguste briglie della logica classica. Non visono quindi cose che divengono altro da ciò che erano primain virtù di questo o quell’evento, ma innanzitutto vi è la rela-zione tra oggetti, in quel tutto aperto e cangiante che è il reale,il che delinea i contorni di un quadro che, come suggerisceLeoni, presenta più di un’analogia con quello leibniziano. Perun verso, quindi, il segno indelebile che su di me lascia l’eventoche mi incarna e che in questo modo duplico in me stesso; peraltro verso, il suo carattere eminentemente impersonale e aldi sopra o al di là di ogni logica tradizionale: «da un lato, laparte dell’evento che si realizza e si compie; dall’altro, “la partedell’evento che il suo compimento non può realizzare”».

. Attraverso il linguaggio, i due fronti dell’evento

Non è un caso che la questione dell’evento si sia fatta stradaassieme ad un ripensamento radicale del linguaggio e che sipossa perciò parlare – in un senso certamente molto ampio, te-

. G. Deleuze, Logique du sens, Les Editions de Minuit, Paris ; trad. it. di M.De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano , p. .

. Ivi, p. .

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nendo presente la varietà di prospettive che qui contempliamo– di una grammatica dell’evento.

A ben vedere, le coppie sostanza-accidente, potenza-atto ecosì via, come la credenza che esistano oggetti in sé, al di làdel tempo, non sarebbero altro che il riverbero metafisico dellastruttura della lingua greca, che si fonda sulla coppia soggetto-predicato. Di qui verrebbero quei due errori, anche del sensocomune, cui Whitehead dà il nome di simple location e misplacedconcreteness. L’«uso abusivo dell’astrazione», che conduce ascambiare l’astratto (oggetto) con il concreto (evento), è pertan-to in qualche misura un effetto linguistico. Non sovrapponibilea questa è la critica heideggeriana, i cui termini ci sono certa-mente più familiari, che attribuisce al valore copulativo che ilverbo essere è andato acquisendo in greco l’origine della misti-ficazione metafisica: «siamo quindi involontariamente portati,quasi non vi fosse altra possibilità, a interpretare l’infinito “esse-re” a partire dall’“è”». Alcune delle ragioni per cui il pensierodell’evento porta con sé un linguaggio caratterizzato da espres-sioni paradossali, o è spesso accostato mediante una sorta diteologia negativa, sono quindi presto dette: né la singolaritàassoluta (in ultima istanza coincidente con la dimensione evene-menziale del divenire processuale), né il puro significante chenon rimanda ad alcun significato (non essendo perciò nemme-no più un significante, dal momento che non esiste significantesenza significato) possono essere indicati per mezzo del nostrolinguaggio, essenzialmente sostanzialistico. Per la filosofia «ilsingolo è eternamente apeiron», ammoniva Husserl, poichél’oggetto della sua indagine è la pura essenza. Il linguaggio chetematizza l’evento è pertanto costretto, quale che sia la manierae la prospettiva, a frequentare i confini delle sue possibilità.

. A.N. Whitehead, Science and the Modern World, Cambridge University Press,Cambridge ; trad. it. di A. Banfi, La scienza e il mondo moderno, Bompiani, Milano, p. .

. M. Heidegger, Einführung in die metaphysik, Max Niemager Verlag, Tübingen; trad. it. di G. Masi, Introduzione alla Metafisica, Mursia, Milano , p. .

. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, cit., p. .

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a) I paradigmi che Bergson, Whitehead e Deleuze elabo-rano a partire dalle suddette ragioni anti-aristoteliche, anti-metafisiche e anti-sostanzialistiche, presentano più di un trattocomune: i termini di durata, processo e divenire, così spessoaccostati all’evento, sono in effetti significativamente vicini traloro. Dal momento che non è certo nelle corde dell’ontologiaaristotelica, abitata da «un’idea chiusa di possibilità, possibi-lità meccanica, senza movimento, inchiodata all’istantaneitàdel presente», com’è quindi possibile rendere ragione dellanatura processuale, mutevole e creativa del reale? Con qualelinguaggio, con l’ausilio di quale logica? La proposizione, cheil senso comune malato di aristotelismo fa gravitare attornoal soggetto, nel momento in cui ha luogo uno spostamentodell’accento dal soggetto al predicato, diviene proposizionespeculativa. Così, al centro della frase, e perciò del pensieroche in essa si fa strada, non è più il soggetto, l’autoidentico,l’omogeneo, bensì il predicato, l’eterogeneo, più capace direstituire l’andamento creativo dell’oggetto del suo discorso.Dal punto di vista logico-linguistico, in una certa tradizionespeculativa, che l’assoluto sia concepito come sostanza (que-sta volta, nel senso spinoziano), monadologicamente, comeSoggetto (è il caso di Hegel) o come processo non fa moltadifferenza: è sempre all’opera un pensiero del divenire. Nellaprefazione alla Fenomenologia dello spirito si trovano infatti leprime straordinarie riflessioni sulla torsione che qualsiasi filo-sofia che voglia assumere il punto di vista dell’assoluto deveimprimere alle proprie proposizioni: «la natura del giudizio oproposizione in generale (natura che implica in sé la differen-za di soggetto e predicato) viene distrutta dalla proposizionespeculativa», poiché «ciò che nella proposizione ha la forma dipredicato, è la sostanza stessa».

. P.A. Rovatti, Un tema percorre tutta l’opera di Bergson. . . , introduzione a G.Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. IX.

. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La NuovaItalia, Firenze (), p. .

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Se si tratta di vedere il movimento dal punto di vista delmovimento o, utilizzando un’espressione verbale, il diveniredal punto di vista del divenire o, finalmente nei nostri termini,l’evento dal punto di vista dell’evento, nell’abbandono dellacentralità del soggetto è implicato precisamente l’abbandonodella centralità della sostanza nel senso di Aristotele, che agiscee patisce senza mai agire né patire. Diremmo, ad esempio: ilsoggetto X percorre il tratto di strada che va da A a B. Eppure,né esiste anzitutto la sostanza-soggetto X, né si deve confon-dere il movimento con il tratto di strada, con lo spazio chesepara A da B. «Lo spazio percorso è passato, il movimento èpresente, è l’atto di percorrere». Esiste quindi il divenire, ilprocesso, il continuo e creativo differire del reale. L’assoluto èdunque ad un tempo singolarità e differire. Se dal pensiero delsoggetto si produce una realtà frammentata, spezzata, già deci-sa, senza spazio per la novità, dallo spostamento dell’accentosul predicato emerge il pensiero del divenire come continuumsingolare e irreversibile, senza parti, in quanto mai disponibilenella sua interezza. «Nel complesso l’unità dei molti non è quin-di già data, non precede i “molti”, non è la sostanza-sostrato dicui i molti (contraddittoriamente) si predicano, ma è un’unità“autopoietica”, unità sempre “emergente” e, perciò, sempre sot-toposta a “riorganizzazione” (movimento retrogrado del vero).È un’unità che non è, ma che si fa attraverso la differenziazione-attualizzazione di un virtuale». È per questa ragione che lalogica del senso di Deleuze, contrariamente alla logica tradi-zionale, è una logica in cui gli opposti, lungi dall’escludersi avicenda, convivono pacificamente e addirittura coincidono.

Vi è allora un ultimo risvolto dell’operazione di superamen-to del soggetto, legato più alla svolta trascendentale che daDescartes a Husserl ha caratterizzato la modernità che alla

. G. Deleuze, Cinéma I – L’Image-mouvement, Les Edition de Minuit, Paris ;trad. it. di J-P. Manganaro, Cinema . L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano , p. .

. R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione: dal modello veicolare al modelloconversativo, Mondadori, Milano , p. .

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metafisica di Aristotele. La prospettiva che emerge chiaramen-te dalla lettura di Bergson Whitehead e Deleuze vuole infatticollocarsi al di là (o al di qua) di quella rivoluzione epocale apartire da cui il problema della verità è in qualche modo scivola-to nel problema della certezza, o dell’autocertezza del soggetto.Assumere il punto di vista dell’assoluto significa anche liberarsidecisamente dall’impostazione trascendentale, per cui la possi-bilità di parlare dell’assoluto sarebbe limitata a ciò che nella oalla soggettività costituente si manifesta. Termini come perce-zione o esperienza, in questo quadro, non indicano più il campoentro il quale la natura si rivela, ma, al contrario, un eventointerno alla natura stessa. L’evento come accadere processualedel mondo non è relativo ad una soggettività, ma è assolutoo, appunto, l’assoluto. L’assolutizzazione del divenire, in ciòche di comune possiamo riscontrare in questi autori, comportadunque il superamento della metafisica classica e, insieme alsuperamento della soggettività trascendentale, l’abbandono diqualsiasi forma di correlazione.

b) Anche in Heidegger, o forse bisognerebbe dire soprat-tutto in Heidegger, la critica al linguaggio, almeno dalla metàdegli anni Trenta in poi, si sviluppa parallelamente al pensierodell’evento e intende anzitutto mostrare come l’idea corrispon-dentista della verità trovi il suo radicamento nella struttura delgiudizio, ossia nella proposizione di matrice aristotelica. L’usocopulativo del verbo essere sarebbe uno dei maggiori responsa-bili della nascita della filosofia come metafisica, come ontoteolo-gia. Ciò che Heidegger vuole affermare è che la domanda sullaverità non ha sempre coinciso e in effetti non consiste nellaricerca del fondamento. La verità come disvelamento, comealetheia, «non concerne il giudizio espresso studiato dalla logi-ca come problema, ma la manifestazione originaria del sensodell’essere».

. C. Sini, Heidegger e la domanda sul senso dell’essere, in Heidegger e la metafisica,a cura di M. Ruggerini, Marietti, Genova , p. .

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Prima di dedicarsi alla formulazione di un altro linguaggio odi un’altra logica, però, si tratta anzitutto di prender coscienzadella peculiare indisponibilità del linguaggio che, in modo ana-logo all’Ereignis, non è un prodotto o uno strumento nelle manidell’uomo, pur mantenendo rispetto ad esso un riferimentostrutturale: tanto l’Ereignis quanto il linguaggio sfuggono alpossesso e all’arbitrio umano. L’Ereignis «non può più essereoggettivato né come un fatto né come un avvenimento, essopuò venire esperito solo come il “donante” nel suo tracciarela Lichtung del venire alla presenza degli enti». In altri termi-ni, con l’Ereignis si interrompe quel gioco linguistico per cuiqualcosa sta, in quanto segno, per qualcos’altro, poiché «non c’ènulla, al di fuori dell’Ereignis, cui l’Ereignis possa essere ricon-dotto, in base a cui esso possa essere spiegato. L’Ereignen non èil risultato (Ergebnis) di qualcosa d’altro: esso è, al contrario, laDonazione (Die Er-gebnis)». La barratura a croce da un certomomento in poi apposta sulla parola essere, se si pensa anchealla lettura che ne farà poi Derrida nella Grammatologia, vuo-le identificare precisamente quella dinamica per cui «l’esserenon può essere il significato di un significante, perché non c’èparola che lo possa dire; tanto che se lo dico, subito mi pento diaverlo detto e sono costretto a barrarlo». Chi porta in un certosenso ai suoi limiti il discorso heideggeriano è quindi Derrida,le cui descrizioni dell’evento non possono mai rispondere alladomanda “che cos’è?”, essendo questa la domanda metafisica

. S. Gorgone, op. cit., p. .. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Verlag Günther Neske, Pfullingen ,

Gesamtausgabe, vol. XII; trad. it. a cura di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio,Mursia, Milano , p. .

. «Questa barratura è l’ultima scrittura di un’epoca. Sotto i suoi tratti si can-cella, rimanendo leggibile, la presenza di un significato trascendentale. Si cancellarestando leggibile, si distrugge mentre si dà a vedere l’idea stessa di segno. In quantode-limita l’onto-teologia, la metafisica della presenza ed il logocentrismo, quest’ul-tima scrittura è anche la prima scrittura» ( J. Derrida, De la grammatologie, Minuit,Paris ; trad. it. a cura di G. Dalmasso, Della Grammatologia, , Jaca Book,Milano , p. ).

. C. Sini, op. cit., p. .

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per eccellenza. L’evento non trova spazio all’interno dell’ap-parato concettuale dell’ontologia, è rispetto ad essa esteriore eirriducibile: «rimozione dell’esteriorità, della traccia, questa è lastrategia della metafisica, l’unica strategia che può consentirea tale metafisica di cancellare le tracce della propria origine eimporsi come metafisica della presenza e del proprio».

Da un lato, quindi, il pensiero dell’evento non ha a che farecon il tentativo di trovare nuovi modi per dire l’essere. Ognifigura del fondamento, decentrata in se stessa, trae ora la pro-pria origine da un altrove che, ormai impensabile in terminidi presenza, «si scarta dall’opposizione presenza-assenza (pre-senza negata) con tutto ciò che essa implica». Dall’altro, ilmodo – forse, rispetto a quello appena visto in Bergson, Whi-tehead e Deleuze, non così dissimile nelle sue istanze – in cuiè sviluppata la decostruzione della soggettività trascendentaleconduce a ben altri risultati. Se è vero infatti che l’Ereignis haun carattere indubbiamente pre-soggettivo, è altrettanto veroche, com’è noto, è anche l’evento della reciproca coapparte-nenza di essere e uomo. Leggendo Heidegger alla luce delsuo debito nei confronti di Husserl, si può infatti arrivare apensare alla coappartenenza uomo-essere segnata dall’Ereigniscome ad un modo, benché in un contesto concettuale ormaidistante, di ripensare e radicalizzare l’intenzionalità dell’ultimoHusserl, vale a dire l’«a-priori universale della correlazione»

così come è presentato nella Crisi. Del resto, basta pensare adalcune delle più note espressioni legate all’Ereignis, come adesempio il “venire alla luce” o il “venire alla presenza dellafenomenalità”, per accorgersi che il riferimento all’uomo, pur

. M. Vergani, op. cit., p. .. J. Derrida, Positions, Minuit, Paris ; trad. it. di M. Chiappini e G. Sertoli,

Posizioni, Bertani, Verona , p. .. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale

Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Husserliana Bd.VI, hrsg. von W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag ; trad. it. di E. Filippini,La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net, Milano , p. ,n. .

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accuratamente svestito degli abiti trascendentali, non è maiperso. E, in questo senso, nemmeno Derrida intende liberarsidelle istanze fenomenologiche. Le analisi derridiane sull’eventocome l’impossibile non vogliono avere un carattere evocativo,metaforico o poeticheggiante, esse intendono al contrario ri-spondere ad esigenze fenomenologiche: a che condizioni si dàevento? Solo se le sue condizioni di possibilità si rovesciano incondizioni di impossibilità. In questo quadro, il soggetto, perquanto decostruito da cima a fondo, non è mai scavalcato.

Abbiamo dunque individuato almeno due fronti aperti dallaquestione dell’evento. In una battuta, diremo che se il primo,inaugurato da Bergson, Whitehead e Deleuze, si colloca al difuori del solco della fenomenologia, nella direzione di un “rea-lismo speculativo” che rigetta in blocco la svolta cartesiana e ladifferenza tra essere e apparire, il secondo resta all’interno del-la tradizione fenomenologica. Sul primo fronte, l’abbandonodella sostanza aristotelica ha di mira più la rottura definitivacon il riferimento alla misura umana che la messa in crisi delfondamento come tale. Seguendo Heidegger e Derrida, invece,ci si lascia alle spalle la metafisica del fondamento secondo unaprospettiva che non rinuncerà mai a quel portato epocale dellamodernità, magistralmente espresso nella fenomenologia, checonsiste nella correlazione.

. L’evento, un ritorno?

Per quanto possa apparire paradossale, è proprio all’internodel pensiero greco – di un certo pensiero greco – che si puòindividuare la prima fioritura di un pensiero dell’evento. Ildato curioso, di cui non è superfluo anche solo prendere nota,consiste nel fatto che, se si segue il filo dei manuali di storia dellafilosofia, prima che in Nietzsche, Bergson e Whitehead, unatematizzazione corposa dell’evento la si trova solo negli stoici.Ma, come si sa, il quinto secolo avanti Cristo è anzitutto il

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secolo di quella forma di pensiero che si esprime nella tragedia.Quando la filosofia comincia ad imporsi, infatti,

deve legittimarsi contro i più convalidati discorsi del tempo, e latragedia rappresenta proprio il culmine di ciò che è già stato con-validato. Così il teatro delle idee sfida il teatro della tragedia – losi vede soprattutto in Platone – e sempre da allora ciò che sembraessere stato perduto, o esiliato, dall’orbita di quel che la filosofia può“vedere” è precisamente quel che si trova o si vede nella tragediagreca. Direi che questa “espulsione” della tragedia getta i semi delsuo necessario – o “destinale” – ritorno

Comprendere in che consista la tragedia non significa sem-plicemente riprendere i testi di Eschilo, Sofocle e Euripide checi sono pervenuti e studiarli minuziosamente, ma in primo luo-go cercare di capire che cosa accadesse nella rappresentazionedella tragedia, a quale tipo di esperienza desse luogo e qualeforma di pensiero, se così si può dire, portasse ad espressione.Trattandosi di qualcosa che «non può essere dischiuso – alme-no originariamente – nel linguaggio del concetto», ci aiutaa compiere qualche passo in questa direzione una breve sostasull’esperienza della mimesis da cui e con cui nasce il teatro. Colteatro la poesia non è più recitata da un interprete che man-tiene da essa una certa distanza per un pubblico che rimanedistaccato, in ascolto. Nell’immedesimazione totale di tutti isoggetti coinvolti che nel teatro accade, queste distanze sonoletteralmente polverizzate, fuse nel tutt’uno di un evento incui interprete, poesia e pubblico non costituiscono più – o noncostituiscono ancora – tre poli distinti.

In questa prospettiva il tratto originario della mimesis risiederebbenell’effetto di spersonalizzazione e spossessamento che produce, enel momento del suo sorgere indicherebbe la possibilità di produrreun «effetto» di immedesimazione tale che fruitore, attore e evento

. D. Schmidt, La filosofia e il pathos della tragedia <http : / / www.giornaledifilosofia.net/public/scheda.php?id=>.

. Ibidem.

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rappresentato perdano la loro identità e vivano in unità nello spazioaperto della rappresentazione.

Il tipo di conoscenza che accade nella partecipazione allatragedia non ha nulla a che vedere con l’apprendimento di unamorale che si può ricavare al termine di un discorso – o anchedi una storia ben orchestrata nella sua trama –, che portasse aquesta o quella conclusione a riguardo di questo o quel tema.La famosa formula eschilea del pathei mathos fa riferimento adun genere di conoscenza che non ha bisogno dell’elaborazioneconcettuale dell’intelletto per essere recepita e sedimentarsi.Non c’è lavoro analitico, non c’è medium, non occorre alcunaspiegazione: qualcosa accade come un tutto di cui ognuno èparte prima ancora di scoprirsi come individuo separato. Cosìcome, da un lato, gli attori sulla scena non interpretano dei per-sonaggi, ma, per così dire, sono quei personaggi, dall’altro lato,il pubblico non assiste ad uno spettacolo, ma è parte integrantedella scena.

Il rinvio che l’immagine arcaica è in grado di operare con ciò chein essa è rappresentato, non essendo regolato dalla legge della so-miglianza e dell’imitazione, non nasce strutturalmente per essereanalogon, ma per essere symbolon: esso [. . . ] riesce solo se produceun effetto di spersonalizzazione e di lacerazione della membrana cheordinariamente separa identità del rappresentato e alterità del rap-presentante. Già nel significato di mimesis come evento dell’imme-desimazione che coinvolge le tre dimensioni della rappresentazione,cantore – rappresentato – fruitore per sortire un effetto pedagogicoe rituale che si realizza a livello simbolico l’atto rappresentativo deveincrinare un’identità e divaricare al suo interno due dimensioni com-penetrantisi: l’identità e l’alterità, la presenza e l’assenza, la verità ela parvenza.

. A. Le Moli, Mimesis e ripresentazione. Dal platonismo all’ermeneutica, in AA.VV., Ermeneutica e filosofia antica, a cura di F. Trabattoni e M. Bergomi, Cisalpino,Milano , pp. -, p. .

. Ibidem.

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È questo un primo senso in cui è possibile parlare di eventoa proposito della tragedia greca: l’accadimento di qualcosache non si fa comprendere tramite il rinvio ad altro, al suosignificato, ma che si impone con la sua potenza travolgente dase stessa e insieme col contributo di tutta la polis.

Facciamo ora un passo ulteriore con l’ausilio di un celebreesempio: l’Edipo re di Sofocle. Cosa accade nell’Edipo re? Perrispondere, saremmo in prima battuta tentati di raccontare lastoria di Edipo, dal suo arrivo a Tebe fino all’esilio. Ma c’è unaltro modo di rispondere, che non individua più in Edipo ilreale protagonista della tragedia, ma in qualcosa d’altro.

Se il protagonista fosse Edipo, avremmo un soggetto bendefinito che compie, essendone o meno il responsabile, unaserie determinata di atti fino a scoprirsi, nel volgere di un solgiorno, l’autore del male contro cui si sta battendo. Nella cor-nice tragica, però, l’azione e l’uomo tragici «si profilano noncome delle realtà che si potrebbero circoscrivere e definire, del-le essenze, per dirla con i filosofi del secolo seguente, ma comedei problemi che non comportano risposta, degli enigmi i cuidoppi sensi restano incessantemente da decifrare». Il significa-to delle azioni dei soggetti tragici – si domanda Vernant – «nonrimane in gran parte oscuro a colui stesso che le commette, dimodo che non è tanto l’agente a spiegare l’atto, ma piuttostol’atto che, rivelando, a cose fatte, il suo senso autentico, ricadesull’agente, chiarisce la sua natura, svela ciò ch’egli è e ciò cheha realmente compiuto a sua insaputa?». Da osservazioni diquesto tenore, che in se stesse esprimono qualcosa di ben notoa chiunque conosca la tragedia, si è spesso soliti scivolare, quasisi trattasse di una naturale conseguenza, nella posizione di unaltro problema, espresso sotto forma di interrogativo: il sogget-

. J-P. Vernant, Il soggetto tragico: storicità e transtoricità, in Id., P. Vidal-Naquet,Mythe et tragédie deux, Éditions La Découverte, Paris ; trad. it. di C. PavanelloMito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, Torino , p. .

. J-P. Vernant, Edipo senza complesso, in Id., P. Vidal-Naquet, Mythe et tragédieen Grèce ancienne, F. Maspéro, Paris ; trad. it. di M. Rettori, in J-P. Vernant, P.Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino , p. .

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Introduzione

to tragico è libero o necessitato a compiere ciò che compie?Poteva o non poteva agire diversamente? Se, tuttavia, si tieneconto del fatto che nella tragedia l’«aspetto di inchiesta sull’uo-mo, come agente responsabile, ha solo valore di contrappuntoin rapporto al tema centrale», c’è ancora da riflettere sullacentratura, sull’adeguatezza di tale domanda, prima di impe-gnarsi a trovare una risposta. Si tratta cioè di comprendere chisia il protagonista, quale sia il tema.

Ciò che nell’evento tragico dell’Edipo re accade non è lasemplice narrazione della storia di Edipo, ma l’incrociarsi e ilrovesciarsi l’uno nell’altro del discorso umano e del discorsodivino. Quando Edipo, in apertura, dichiara che sarà lui stessoa fare luce sulla vicenda della peste a Tebe – ego phano –, staospitando in se stesso, ad un tempo uniti nel detto di una solafrase, ma ancora separati, il discorso umano e quello divino.L’espressione edipica è suscettibile di una doppia traduzionea seconda che si tratti del punto di vista dell’uno o dell’altrodiscorso: «son io che metterò in luce il criminale – ma anche:scoprirò me stesso criminale». Così, lo stesso Edipo che èall’inizio isoumenos theoisi, pari agli dei, finisce per essere isakai to meden, uguale al nulla. Il che non va letto in sensocronologico, come il passaggio da uno stato ad un altro, mapiuttosto come l’evento dell’incrociarsi dei due discorsi, in unatensione destinata a rimanere tale.

Spingendo questa lettura dalla parte del discorso divino, lacolpa di Edipo ci appare come «il rovescio della potenza sopran-naturale che si è concentrata in lui per perderlo». Si potrebbedire che non c’è alcun Edipo prima di quell’evento di rovescia-

. Ivi, p. .. Sofocle, Edipo re, .. J-P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’Edipo re,

in Id., P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, cit., p. .. Sofocle, Edipo re, .. Ivi, -.. J-P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’Edipo re,

cit., p. .

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mento, non c’è nessun Edipo che, dall’essere sovrano veneratodai tebani, si trova poi a cadere in disgrazia fino a richiedereper se stesso l’esilio. Di più: sotto questo profilo, se l’aporia tralibertà e necessità è destinata a non trovare soluzione, è per-ché la domanda è della filosofia, non della tragedia. Se Edipofosse libero o meno è la domanda del filosofo che, rileggendola tragedia sotto la lente del principio di non contraddizione,pensa alla convivenza di libertà e necessità come alla riunione ditermini inconciliabili. Ma «Aristotele, che elabora una teoriarazionale dell’azione sforzandosi di distinguere più chiaramen-te i gradi di impegno dell’agente nei suoi atti, non sa più cosasiano la coscienza e l’uomo tragici: essi appartengono per lui aun’epoca trascorsa». Spingendo nella direzione del discorsoumano, vediamo lo stesso evento dal punto di vista dell’uomo,che è ad esso esposto e perfino abbandonato. Così, nell’Edipore, attraverso la figura di Edipo accade anche la messa in scenadella condizione umana.

L’evento del confluire, o dell’emergere da una sola sorgentedel discorso divino e di quello umano è il vero protagonista,ciò che accade nella tragedia. In questo secondo senso in cuiabbiamo evidenziato la possibilità di parlare di evento a propo-sito della tragedia, il punto di vista non è ancora né quello deldio, né quello dell’uomo, ma è portata ad espressione la pro-fonda unità di un mondo fluido quanto instabile in cui questeseparazioni, almeno alla maniera in cui siamo soliti guardarle,non sono ancora avvenute. Con l’avvento della filosofia, questomondo viene allontanato come tale e quindi ricompreso in ter-mini razionali, tanto da Aristotele quanto dagli stoici. L’unità didiscorso umano e discorso divino si rompe e, se in Aristoteletroviamo l’assolutizzazione del discorso umano, negli stoicitroviamo l’assolutizzazione del discorso divino, ormai svuotatodella sua dimensione religiosa e ridotto a discorso sulla puramotilità di un destino necessario, di cui l’uomo è in balìa e che

. Cfr. Aristotele, Poetica, a .. J-P. Vernant, Edipo senza complesso, cit., p. .

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si manifesta nella singolarità degli eventi, da intendersi qui inun senso ancora diverso.

Sotto lo sguardo dei greci questo mondo fluido ed ambiguo di con-cetti trasposti e di simboli si scinde e si fissa nella singolarità univocadelle figure: i sensi traslati cadono, la molteplicità delle rappresen-tazioni si fa molteplicità delle sostanze. Per la prima volta le coseescono dalla sfera magica dell’evento, s’elevano dalla dispersione edall’instabilità degli accidenti all’unità immobile dell’essere [. . . ]. È ilmondo delle forme che sorge, e con esse appare per la prima voltalo spazio, separato dal tempo, nel cui flusso l’evento lo trascina e colquale l’esperienza esistenziale e la mentalità primitiva lo confondono,lo spazio come limite della forma che lo crea, e fuori della quale essoè nulla, quello che noi conosciamo dell’arte greca e che sarà definitoda Aristotele, lo spazio “in cui il mondo”, come egli dice, “è quantoalle sue parti e non è quanto al tutto” [. . . ]. La realtà è esorcizzata:la trama delle relazioni simpatetiche, sulle quali opera il magico,si rompe, i regni della natura si dividono, i movimenti e le forzerientrano nei limiti delle grandezze: [. . . ]: le potenze abbandonanola sfera delle cose visibili, che s’apre al dominio dell’uomo [. . . ]: dalciclo dell’evento si staccano gli dei della forma.

Così l’evento – termine con cui Diano propone di tradurrela parola greca tyche – non trovando più un posto proprio all’in-terno del mondo delle forme, viene da Aristotele ripreso comequel fatto che, non necessitato da nulla, può irrompere nell’e-sistenza dell’uomo e produrre «un capovolgimento completodella vita». L’evento si modula qui come «tyche-caso». Sebbe-ne nella Fisica Aristotele distingua tra automaton, cieco caso cheriguarda il mondo della physis, e tyche, relativa invece al mondodi quell’ente capace di prefiggersi dei fini che è l’uomo, i duetermini appartengono in ultima analisi al medesimo genere,in quanto «tutti gli eventi che non accadono in vista del fine esi sottraggono alla necessità della forma hanno come ultimo

. C. Diano, Forma ed evento, Neri Pozza, Venezia , pp. -.. Aristotele, Etica nicomachea, a .. C. Diano, op. cit., p. .

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principio il nulla e si producono “da sé”». Il che, ovviamente,non esclude che ciò che accade possa essere dall’uomo ricom-preso in vista dei propri fini, anche modificandoli, venendo cosìdotato di un senso.

Diverso è il discorso per gli stoici, per cui è più opportunoparlare di «tyche-destino». Il perno attorno a cui ruota il pen-siero degli stoici non è la forma, ma l’evento come «momentodi un processo che si chiude nel ciclo, un verbo del discorso di-vino» senza connotazioni di valore: «gli eventi sono necessarie questa necessità è provvidenza: ogni evento è un bene? Nonin sé, ma nella connessione con gli altri. In sé non è bene némale, è un fatto». Il singolo è ciò che esiste, il resto è un’aggiun-ta superflua dell’uomo, il contingente è necessario e assoluto,parte di un ciclo provvidenziale di cui non si è padroni. Se sipensa alla differenza tra la logica aristotelica e quella stoica sicomprende ancora meglio: «forma e contemplazione di formail dio di Aristotele, e theoria, contemplazione di forme, la scien-za; evento e concatenazione ciclica e provvidenziale d’eventi ildio degli stoici, e ragione o discorso d’eventi la scienza, logos:da un lato il sillogismo categorico della forma che ignora glieventi, dall’altro il sillogismo ipotetico dell’evento che ignorale forme».

Mettendo a frutto questo rapido accenno al mondo dellatragedia greca, possiamo allora conclusivamente introdurrel’ipotesi che non sia un caso se al punto di esaurimento del-la storia della metafisica irrompe nella scena qualcosa comel’evento. Se la filosofia si era affermata prendendo le distanzedal mondo dell’“altra della Grecia”, la Grecia dell’evento, nellavoro di incessante autocritica che si è sviluppato nell’ultimosecolo, ha sentito l’esigenza di riappropriarsene, di ritornarvisopra, di ricomprenderla. Certo, i termini non possono più

. Ivi, p. .. Ivi, p. .. Ivi, p. .. Ivi, p. .

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Introduzione

essere quelli della tragedia, sono quelli della filosofia, ma sipuò leggere l’irruzione dell’evento nella scena filosofica da Nie-tzsche ad oggi come il ritorno, nella filosofia, di ciò da cui lafilosofia per imporsi aveva preso le distanze, come il riemergeredell’altra origine dell’Occidente. L’evento, il punto di resistenzaal linguaggio del concetto, indifferente al principio di non con-traddizione, l’indefinibile per definizione, il fiume carsico dellastoria della filosofia ritorna oggi ad interrogarci, non tanto perfarci ripiegare su noi stessi, ma per consentirci di guardare inavanti con una rinnovata e più profonda coscienza della nostraorigine.

Hölderlin si riferiva alla “vitalità orientale” dell’antica Grecia. Egli,come Nietzsche, Heidegger e altri ancora, ha mostrato che il mondogreco – specialmente la tragedia greca – è più oscuro, più ricco,più strano e meno “occidentale” di quanto fossimo propensi a cre-dere. Prendere consapevolezza di ciò significa comprendere che lapropria cultura conserva qualcosa di strano e persino di estraneoche non abbiamo ancora compreso e che anzi costituisce la storiaeffettiva delle nostre radici. [. . . ] Non si può «saltare oltre la propriaombra»; noi traiamo il nostro pensiero dalle storie, dai linguaggi edai presupposti che abbiamo ereditato. Volgersi criticamente alleradici di quelle eredità, non per rispolverarle ma per comprenderlemeglio, significa – credo – aprire una relazione più progressista conla propria cultura e il proprio tempo.

Michele Di Martino

. D. Schmidt, op. cit.

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645593pag. 41–67 (ottobre 2013)

Prima della coscienza

Evento, materia e percezione nella filosofia di Bergson

R R

: . Il paradigma della correlazione e le due accezioni delFuori, – . Il materialismo bergsoniano, – . L’immagi-ne in sé, – . La riduzione bergsoniana, – . L’evento inBergson, – . La teoria della percezione, – . Il dispositivofotografico della coscienza, – . Cinema e filosofia, – . Ba-zin: l’ontologia dell’immagine fotografica, – . Pasolini: ilcinema come lingua scritta della realtà, – . Benjamin: l’incon-scio ottico, – . Conclusione: la terza via tra fenomenologiae realismo ingenuo, .

. Il paradigma della correlazione e le due accezioni delFuori

In effetti, prima della coscienza non c’è altro che la coscien-za. Sarebbe una forma di intollerabile ingenuità immaginareun prima della coscienza che fosse causa, condizione della co-scienza stessa. Quando si parla di “prima della coscienza” si fariferimento ad un prima che è ancora coscienza. Si tratta allora,a partire da Bergson, di considerare ciò che è prima della co-scienza declinata come intenzionalità, ossia ciò che viene primadella correlazione coscienza-mondo, prima di quel principiocorrelazionale che da Kant in poi ha caratterizzato la modernitàfilosofica e che ha in qualche modo interdetto ai moderni, unavolta per tutte, la possibilità di una scienza speculativa dell’asso-luto, liquidandola come metafisica. L’assioma della modernitàche cercheremo di tematizzare è a nostro avviso rintracciabilenel principio generale della correlazione soggetto-oggetto –

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Rocco Ronchi

o, detto altrimenti, uomo-essere –, che ha trovato espressionein tutte le parole chiave del pensiero moderno e del pensierocontemporaneo, dalla sintesi a priori kantiana all’intenzionali-tà husserliana, dal Dasein del primo Heidegger all’Ereignis delsecondo, fino alla nozione di segno e interpretazione dell’erme-neutica contemporanea. In tutte queste espressioni, cosa vienedetto? Cosa è detto nella sintesi a priori di Kant come nellanozione husserliana di intenzionalità? Cosa è detto nel concettoheideggeriano di Ereignis? È detta sempre la correlazione, lacorrelazione coscienza-mondo come fondamento oltre il qualenon si può risalire. È detta la correlazione come presuppostoincircoscrivibile e sempre in atto, sempre “fungente” – direbbeil fenomenologo.

Questo principio generale della correlazione ha trovato unadelle sue formulazioni più felici in una frase di Sartre: «La co-scienza e il mondo sono dati nello stesso momento: per suastessa essenza, il mondo è, insieme, esterno alla coscienza erelativo ad essa». Sartre vuole chiarire cosa significa intenzio-nalità a un pubblico che ancora non aveva la familiarità collessico husserliano che possiamo avere noi oggi. Quello enun-ciato da Sartre è, per dirla un po’ provocatoriamente, il nostrodogma, il dogma moderno per eccellenza: la coscienza intesa co-me intenzionalità, come trascendenza attiva. Con l’espressione“trascendenza attiva” si fa riferimento proprio all’atto del tra-scendersi, all’atto del rivolgersi fuori, un atto che – come Sartremostra molto bene – è assolutamente “de-sostanzializzato”.Non c’è insomma “qualcosa” che si trascende: la coscienza èpiuttosto l’atto stesso del trascendersi. Sartre, per descriverequesta dinamica, usa l’espressione «s’eclater vers», «esplodereverso». Verso dove? Fuori, verso il fuori. Anzi, non è nemmenouna sola esplosione, Sartre ci invita ad immaginare «una serie

. J-P. Sartre, Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: L’intentionna-lité, in «Nouvelle Revue Française», , , pp. -; trad. it. a cura di F. Fergnanie P.A. Rovatti, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, inMaterialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano , pp. -, p. .

. Ibidem.

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Prima della coscienza

organizzata di esplosioni che ci strappino a noi stessi, che nonlascino neppure a un “noi stessi” l’agio di formarsi dietro diesse, ma che ci gettino invece al di là, nella polvere arida delmondo, sulla dura terra, tra le cose». La coscienza – continuaSartre in questa sua bella descrizione dell’intenzionalità – «nonha un “di dentro”. La coscienza altro non è se non il fuori di sestessa ed è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza,che la fanno coscienza».

Un antico commentatore di Sartre ha osservato che in que-ste pagine egli mette in opera una sorta di “de-borghesizzazione”della coscienza. Essa non sarebbe più una proprietà privata, mafuori, là fuori, nel mondo. Il nostro parere, tuttavia, è che tale“de-borghesizzazione” andrebbe radicalizzata ulteriormente,ed è a questo scopo che chiameremo in causa Bergson. La que-stione che crediamo si debba porre oggi consiste proprio nellaproblematizzazione di questo “fuori” verso il quale la coscienzaintenzionale ci farebbe esplodere. Il “fuori” al quale accediamoattraverso la coscienza intenzionale è in realtà un «fuori clau-strale, un fuori nel quale è sensato sentirsi reclusi». C’è unastrana “claustrofobia del fuori”. Questo fuori al quale siamoassegnati dalla coscienza in quanto intenzionalità è infatti unfuori che è sempre relativo a noi, è sempre per noi. Ecco perchéla “de-borghesizzazione” della coscienza – che consiste in unattacco alla categoria della proprietà privata anche in ambitoepistemologico – operata da Sartre non è forse così radicalecome sembrerebbe e come Sartre stesso pensava.

«Può darsi, effettivamente, che i moderni – ha scritto Quen-tin Meillassoux nel suo Après la finitude – abbiano l’oscurasensazione di aver irrimediabilmente perso il Grande Fuori, ilFuori assoluto dei pensatori precritici: quel fuori che non eraaffatto relativo a noi, che era dato come indifferente al suo

. Ivi, p. .. Q. Meillassoux, Après la finitude. Essai sur la nécessité de contingence, Seuil,

L’ordre philosophique ; trad. it. a cura di M. Sandri, Dopo la finitudine. Saggiosulla necessità della contingenza, Mimesis, Milano-Udine , p. , trad. leggermentemodificata.

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stesso darsi, per essere solo ciò che è, esistente tale e quale inse stesso, che noi lo avessimo fatto oggetto dei nostri pensierio meno; questo Fuori che il pensiero poteva percorrere conla sensazione giustificata di trovarsi in una terra straniera – diessere, stavolta, interamente altrove». Il dogma moderno dellacorrelazione coscienza-mondo ci interdice esattamente questo«Grande Fuori».

. Il materialismo bergsoniano

Veniamo allora a Bergson. Il nostro titolo recita: Prima dellacoscienza; poi prosegue: Evento, materia, percezione nella filosofiadi Bergson. Considereremo anzitutto il materialismo di Bergson,sebbene la parola “materialismo”, nella vulgata dell’interpreta-zione bergsoniana, possa sembrare fuori posto. Eppure, il primadella coscienza come correlazione, ciò che è veramente fuori, il«Grande Fuori» è precisamente ciò che Bergson chiama “mate-ria”. Naturalmente, questa materia, pur non essendo altro checoscienza poiché – come abbiamo detto in apertura – primadella coscienza non può esservi che la coscienza stessa, è unacoscienza d’altra natura rispetto alla coscienza-intenzionalità. Sitratta di una “coscienza virtuale”, infinita, di una coscienza chenon è autocoscienza. Potremmo dire che prima c’è una percezio-ne che non è appercezione, prima della coscienza-intenzionalitàc’è una coscienza che prescinde dall’unità formale e materialedell’ego; c’è una coscienza senza testimone, come una sorta dispettacolo senza spettatore. È quanto ci presenta Bergson inuno dei testi più affascinanti dell’intera storia della metafisicaoccidentale, vale a dire il primo capitolo di Materia e memoria.È un testo difficilissimo, a dispetto della nomea che Bergsonaveva di filosofo limpido.

Ci troviamo quindi al cospetto del paradosso di una coscien-za che non è intenzionalità, che non è trascendenza, non è l’atto

. Ibidem, trad. leggermente modificata.

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Prima della coscienza

del trascendersi verso il fuori in quanto è fondamento, condizio-ne di possibilità della coscienza-intenzionalità: ciò che Bergsonchiama materia è, per così dire, una coscienza più vecchia dellacoscienza intenzionale. È una coscienza che – per usare la ter-minologia di Sartre – non esplode fuori, ma è già da sempre ilfuori. Anzi, rispetto al fuori rappresentato da questa coscienzaoriginaria o assoluta, la coscienza in quanto autocoscienza, inquanto intenzionalità, è il dentro, è una sorta di piega riflessiva diquel fuori. Per dirla ancora alla maniera di Sartre, ma mutandoil senso di ciò che scriveva nel suo saggio sull’intenzionalità, sipotrebbe dire che questa coscienza-materia non è là fuori pressol’albero, là fuori nella polvere, poiché è l’albero, è la polvere.

Questa materia-coscienza è qualcosa di simile ad un grandepiano di luce che non ha bisogno per sussistere come tale di untestimone che la osservi. Per chiarire il senso del materialismodi Bergson, vorrei citare un passo di Gilles Deleuze, trattoda uno dei suoi testi i più ferocemente bergsoniani, Cinema. L’Immagine-movimento, in cui sembra commentare proprioquei passi di Sartre sulla coscienza come trascendenza. Deleuzemarca molto bene la differenza tra la coscienza-intenzionalità ela coscienza come è intesa da Bergson nelle pagine di Materiae memoria. Nel materialismo bergsoniano egli individua infatti«una rottura con tutta la tradizione filosofica, che poneva laluce piuttosto dalla parte dello spirito, e faceva della coscienzaun fascio luminoso che traeva le cose dalla loro nativa oscurità.La fenomenologia partecipava ancora pienamente di questatradizione antica; solo che, invece di fare della luce una luce diinterno, l’apriva sull’esterno, un po’ come se l’intenzionalitàdella coscienza fosse il raggio di una lampada elettrica (“ognicoscienza è coscienza di qualche cosa. . . ”). Per Bergson, è tuttol’opposto. Sono le cose a essere luminose di per se stesse, senzanulla che le rischiari: ogni coscienza è qualche cosa, si confondecon la cosa, cioè con l’immagine di luce». Se la tesi di fondo

. G. Deleuze, Cinéma I – L’Image-mouvement, Les Edition de Minuit, Paris ;trad. it. di J-P. Manganaro, Cinema . L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano , p. .

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della fenomenologia afferma che la coscienza è coscienza diqualche cosa, quindi, in Bergson la coscienza è qualcosa. Evedremo che si tratta di qualcosa di simile ad una fotografia, una«foto già presa e scattata in tutte le cose e per tutti i punti, ma“traslucida”». Ha luogo qui un rovesciamento dello schematradizionale che metterebbe la luce dalla parte del soggetto,intendendo l’oggetto come qualcosa di opaco che la luce dellacoscienza renderebbe in qualche modo significativo. Anchela più radicale interpretazione dell’intenzionalità di Husserl,quella di Sartre, continua a pensare in questo modo. In Bergsonvale invece il contrario: la parte opaca ricade tutta dalla partedel soggetto.

Per articolare in maniera più precisa il discorso sul materia-lismo bergsoniano e sulla concezione bergsoniana dall’evento –di un evento non più pensato come luogo della correlazione, mavergine dalla correlazione –, occorre partire dalla definizioneche Bergson dà della materia. Scrive Bergson – ed il passag-gio è corsivizzato, il che indica il suo valore di definizione, didefinizione in senso spinoziano, di definizione che deve costi-tuire una premessa assiomatica del discorso –: «Chiamo material’insieme delle immagini, e percezione della materia queste stesseimmagini riferite all’azione possibile di una certa immagine determi-nata, il mio corpo». Il seguito del presente contributo consisteràin un commento scandito in due tempi a questa proposizione.

. L’immagine in sé

Partiamo dalla definizione di materia come «l’insieme delle im-magini». Si tratta di una definizione molto problematica, cheha posto non pochi problemi ai lettori fin dalla prima appari-zione del testo. Bergson stesso, infatti, consapevole di quanto

. Ibidem.. H. Bergson, Matière et mémoire, in Id., Oeuvres. Edition du Centenaire, PUF,

Paris , pp. -; trad. it. a cura di A. Pessina, Materia e memoria, Laterza, Bari, p. .

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fosse stata ellittica la presentazione di questa nozione nell’operaoriginaria, nella prefazione alla settima edizione di Materia ememoria dichiara che il proprio tentativo è quello di conside-rare la materia «prima della dissociazione che l’idealismo e ilrealismo hanno operato tra la sua esistenza e la sua apparenza».E aggiunge, in un modo quasi ironico considerando la com-plessità dell’argomentazione, che la propria concezione dellamateria sarebbe, «molto semplicemente, quella del senso co-mune». Prosegue quindi nella sua analisi affermando che chinon bazzica la filosofia, e cioè la stragrande maggioranza degliesseri umani su questo pianeta, troverebbe certamente sconcer-tante apprendere dall’idealista che l’oggetto esiste soltanto peril soggetto, che non ha una esistenza indipendente da questacorrelazione. Ma anche la proposizione del realista, almeno insenso filosofico, sarebbe per lui altrettanto sconcertante perchéegli procede a una distinzione tra qualità primarie e qualitàsecondarie dell’oggetto, tra ciò che è vero dell’oggetto in sée ciò che invece pertiene soltanto, come diceva Galileo, allanostra rappresentazione sensibile. Per il senso comune invecel’oggetto esiste in sé. Scrive ancora Bergson: «l’oggetto è, inse stesso, pittoresco come lo percepiamo: è un’immagine, maun’immagine che esiste in sé. Questo è precisamente il sensocon cui assumiamo la parola “immagine” nel nostro primocapitolo».

La nozione di “immagini che esistono in se stesse” è certa-mente una delle più iperboliche che siano state prodotte dalpensiero filosofico del Novecento, e dobbiamo essere grati aquei filosofi che hanno portato la loro attenzione su di essa.Ma, una simile concezione consente veramente di lasciarsi allespalle le dispute dei filosofi? La proposizione bergsoniana nonsuona forse tremendamente idealista? Affermare che la materiaè l’insieme delle immagini che esistono in se stesse – dove resta

. Ivi, p. .. Ivi, p. .. Ivi, p. .

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ancora da capire cosa significhi l’“in sé” –, in effetti, equivale adaffermare che l’essere è così come appare, senza residui di sorta.L’oggetto, per Bergson, è infatti «pittoresco come noi lo perce-piamo», e certamente una proposizione di questo genere mettedefinitivamente fuori gioco il realismo. D’altro canto, potrebbetrattarsi di idealismo se e solo se Bergson avesse voluto direche l’essere è come ci appare. Il “ci” è decisivo. Se l’espressione“la materia è l’insieme delle immagini” significasse già che “lamateria è così come ci appare”, allora quell’apparire supporreb-be un soggetto, un sostrato, un qualcuno a cui appare: qualcosaappare a qualcuno. Se fosse presente la preposizione riflessiva“ci”, così importante nella filosofia del Novecento, lo spetta-colo supporrebbe uno spettatore, la coscienza implicherebbeun testimone, un ego, un polo egologico. Ma non è ciò chedice Bergson. Affermando che “l’essere è come appare”, nondice affatto che “l’essere è come ci appare”. La differenza tra ledue espressioni consiste tutta in quell’«in sé» che caratterizzal’immagine. Essa non è né un’immagine di, né un’immagineper. Non esiste per noi, ma in se stessa. Ecco perché pensarel’immagine in se stessa è un paradosso, forse un delirio, ma,come vedremo, un delirio fecondo di tesori speculativi.

Se prendiamo tra le mani i testi classici sull’immagine, adesempio certi passi del Sofista o del Cratilo di Platone, vi tro-viamo chiaramente enunciato che l’immagine è immagine diqualcosa, è un “secondo oggetto simile” differente dall’originale(del resto, se fosse identico non sarebbe affatto immagine). Diqui la relazione di partecipazione dell’immagine all’originale,che ha il suo fondamento proprio in questa differenza – differen-za che è rapporto, che è correlazione: “l’immagine è immaginedi”. Ce lo insegna Platone, ce lo insegna tutta la tradizione e, daquesto punto di vista, anche il senso comune – checché ne dicaBergson – pensa l’immagine come “immagine di”. O, ancora,ce lo insegna tutta la psicologia dell’immagine, per la qualesarebbe quantomeno sconcertante trovarsi a pensare un’imma-gine senza interpretante. Immagine di è immagine per. Quelladeterminata traccia sulla sabbia, ad esempio, è per me caccia-

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tore traccia di qualcosa, io sono l’interpretante incarnato delpassaggio dell’animale. Occorre un per, un soggetto-sostratoperché l’immagine funzioni come tale.

Queste due definizioni di immagine, che sono poi la mede-sima – l’immagine come immagine di e come immagine per –,trovano la loro sintesi più completa ancora in un testo di Sartre.Domandandosi cosa sia immagine, ne L’immaginario, egli ladefinisce come «un certo modo con cui l’oggetto appare allacoscienza o, se si preferisce, un certo modo con cui la coscienzasi dà un oggetto». Vale a dire è una forma della coscienza inte-sa come intenzionalità. L’immagine, in altri termini, sarebbeun modo di intenzionare l’oggetto. Quando “immagino Pie-tro”, cosa sto facendo? Intenziono Pietro come assente, comeintuitivo-assente, lo pongo come assente. L’immagine, così,non è altro che una forma della coscienza, una forma dell’inten-zionalità, come la memoria o la percezione. Sono modi diversidi «s’eclater vers», modi diversi di trascendersi verso il fuori, diporre: nel caso dell’immaginazione, di porre qualcosa comeintuitivo-assente; nel caso della percezione, di porre qualcosacome intuitivo-presente; nel caso della memoria, di porre qual-cosa come passato, come presente-passato (io mi ricordo di). Latesi di Sartre è comunque netta: l’immagine è una coscienza suigeneris, ma comunque coscienza-intenzionalità.

Il paradosso bergsoniano dell’immagine in sé, a ben vedere,rovescia anticipatamente la posizione sartriana e la posizionefenomenologica. Per Sartre e per tutta la fenomenologia – che,si tenga presente, fiorisce in Francia quando Bergson è ormaiun pensatore maturo – l’immagine è coscienza di qualche cosa.Per Bergson, per il Bergson del primo capitolo di Materia ememoria, è piuttosto la coscienza ad essere immagine in sé, eproprio in quanto immagine in sé è originariamente materia,è qualche cosa. A cogliere molto bene la differenza essenziale

. J-P Sartre, L’Imaginaire, Psychologie phénoménologique de l’imagination, Gal-limard, Paris ; trad. it. a cura di R. Kirchmayr, L’immaginario. Psicologiafenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino , p. .

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che separa l’impostazione fenomenologica da quella bergsonia-na è ancora una volta Deleuze. Egli, sempre nel suo testo sulcinema, dipinge le posizioni di Husserl e Bergson come duerisposte diverse alla stessa “grande questione”, che troviamoben descritta – se ci è concesso l’anacronismo – nella Crisi dellescienze europee: si tratta infatti della crisi della metafisica dellascienza moderna, che è una metafisica dualista, cartesiana. Ilproblema è dunque quello assai antico del rapporto tra res ex-tensa e res cogitans, tra movimenti nello spazio e immagini nellacoscienza. Un problema che restava senza soluzione e che davaluogo a due diverse concezioni che però – come giustamenteosserva Husserl nella Crisi – si complementano l’una con l’al-tra: da un lato, una posizione positivista, materialista, realista– incarnata oggi ad esempio dalle neuroscienze – e, dall’altro,una posizione di tipo spiritualista. Scrive Deleuze: «Ciò chesembrava senza via d’uscita, in fin dei conti, era l’affrontarsidel materialismo e dell’idealismo, l’uno inteso a ricostruirel’ordine della coscienza con puri movimenti materiali, e l’altro,l’ordine dell’universo con pure immagini nella coscienza. Eradunque necessario superare a tutti i costi questa dualità dell’im-magine e del movimento, della coscienza e della cosa. Nellastessa epoca, due autori assai differenti stavano per intrapren-dere questo compito, Bergson e Husserl. Ognuno lanciava ilproprio grido di guerra: ogni coscienza è coscienza di qualchecosa (Husserl), o meglio ogni coscienza è qualche cosa (Berg-son)». Il primo, saldava così nel modo a noi più noto ciò cheil dualismo cartesiano aveva separato. Il secondo grido, quellobergsoniano, «ogni coscienza è qualcosa», fa invece riferimentoad una coscienza che non si declina più come intenzionalità,vale a dire ad una coscienza precedente la correlazione.

. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentalePhänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Husserliana Bd.VI, hrsg. von W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag ; trad. it. di E. Filippini, Lacrisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net, Milano .

. G. Deleuze, op. cit., p. .

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Prima della coscienza

. La riduzione bergsoniana

Riassumendo, abbiamo detto che se Bergson avesse effettiva-mente affermato che l’essere è come ci appare la sua nozione diimmagine non avrebbe costituito alcun mistero per noi. Essasarebbe stata interamente riconducibile alla nozione di feno-meno elaborata dalla fenomenologia e del tutto giustificatasarebbe stata l’assimilazione della cosiddetta “riduzione berg-soniana” alla riduzione fenomenologica. Nelle prime tre righedel primo capitolo di Materia e memoria si trova una formulache a tutta prima sembrerebbe uscita dalla penna di Husserl:«per un istante fingeremo di non conoscere niente delle teoriedella materia e delle teorie dello spirito, niente delle discussionisulla realtà o l’idealità del mondo esterno». Sembra proprio dileggere Husserl quando ci invita a sospendere tutte le nostresussunzioni intellettuali, a mettere in opera l’epoché fenome-nologica. E ogni riduzione fenomenologica, come si sa, portaa un resto, a un residuo, a qualcosa che permane al terminedella riduzione. Qual è il resto, cosa resta per Bergson? «Eccomidunque in presenza di immagini, nel senso più vago con cuisi possa assumere questa parola, immagini percepite quandoapro i miei sensi, non percepite quando li chiudo». Questo«Eccomi» non ha il senso della scoperta di un soggetto fungenteal fondo del mondo della vita, al quale tutto è riferito, come sefosse un polo trascendentale. «Eccomi dunque» non è un prin-cipio, non è un cominciamento assoluto nel senso del cogitocartesiano e fenomenologico. Ha più il senso della sorpresache il senso dell’atto fondativo, denota una passività più che unalibera iniziativa. Ci si scopre improvvisamente circondati daimmagini che hanno l’aria di esistere in se stesse ben più chein me, ben più che come mie rappresentazioni. Tant’è veroche le percepisco quando apro gli occhi e non le percepisco piùquando li chiudo. Al termine della riduzione bergsoniana, il

. H. Bergson, op. cit., p. .. Ibidem.

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soggetto non si scopre, come avviene invece con la riduzionefenomenologica, a distanza dalle cose, una distanza che puòessere anche quella infinita del soggetto trascendentale; al ter-mine della riduzione bergsoniana il soggetto si scopre piuttostocome parte del mondo delle cose, sballottato qua e là come unanave in un mare agitato. Non è in relazione col mondo comeuno sguardo di sorvolo sul paesaggio, ma è parte del paesaggiovisto, “immagine tra le immagini” di questo mondo in divenire.

. L’evento in Bergson

Qual è dunque la tesi di Bergson? L’essere è l’apparire, l’esse-re è l’apparire stesso. La definizione di evento in Bergson è laseguente: l’essere è l’essere dell’apparire. Questo è il contenutoontologico dell’affermazione: «l’immagine esiste in sé». Delresto, questa conclusione – l’essere è l’essere dell’apparire – eragià contenuta nella ben nota tesi maggiore di tutta la metafisicabergsoniana: l’essere è durata creatrice. Che cosa comporta tale“sollevamento” del cambiamento continuo, indivisibile, etero-geneo e irreversibile ad assoluto? Per rispondere con una battutadi matrice siniana potremmo dire che comporta l’emancipa-zione dalla metafisica implicita nella struttura del linguaggioe, più precisamente, dalla metafisica implicita nella strutturadel linguaggio grammaticalmente strutturato. Tale metafisica,a partire da Aristotele, consiste nell’assunzione del giudiziocome luogo manifestativo dell’essere. Nel pensiero aristotelico,il luogo della verità e dell’errore e quindi il luogo in cui si mani-festa la struttura del reale è il giudizio. Assumendo il giudiziocome luogo dell’alétheia, come ambito nel quale l’ente si mani-festa, si struttura di conseguenza la realtà sul modello soggetto-predicato, sostanza-accidente: si costruisce cioè la realtà sulmodello del giudizio. La critica bergsoniana al linguaggio haperciò di mira quella metafisica in esso implicita che costringea pensare la realtà sullo schema soggetto-predicato, interdicen-done la comprensione speculativa. Nelle lezioni del -,

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Prima della coscienza

Bergson riprende la sua critica del linguaggio a partire dallatrasformazione grammaticale, addebitando al riflesso gram-maticale il prodursi della ristrutturazione dell’ente sulla basesoggetto-predicato. Col termine “grammaticale”, naturalmente,si fa qui riferimento alla scrittura alfabetica, ai grammata dellascrittura alfabetica. Liberarsi dalla struttura soggetto-predicatoconsentirebbe quindi di non concepire più il divenire in sensopredicativo, come accade a partire dal libro IV della Fisica diAristotele. In esso si dice infatti che il divenire è divenire di, cheperché ci sia divenire ci deve essere qualcosa che diviene, deveesserci passaggio dalla potenza all’atto, dalla mancanza alla for-ma. L’intera tradizione occidentale ha pensato il divenire comedivenire di – e allo stesso modo la coscienza come coscienza di –perché l’ha pensato nell’orizzonte del logos, cioè del linguaggio,cioè del giudizio. Qui si colloca la rivoluzione bergsoniana: ildivenire è elevato ad assoluto, non è più divenire di. L’operazio-ne è del tutto analoga a quella sopra illustrata a proposito dellacoscienza: dalla coscienza di alla coscienza assoluta. Il divenire èora la chose même, è la cosa stessa, l’assoluto o, se vogliamo, dio.In ogni caso, non essendo più un predicato, non è nemmenopiù affetto dalla mancanza. Se il divenire è l’assoluto, è ancheaffermazione, e da mancanza si fa perfezione.

Come impostare dunque il rapporto tra essere e apparire senon è più possibile pensare l’apparire, sul modello fenomenolo-gico, come l’apparire di qualche cosa per qualcuno? È evidenteche l’apparire, esso stesso, deve essere elevato ad assoluto: nonc’è niente che appare e non c’è nessuno a cui appare quello cheappare. L’apparire deve essere considerato, evenemenzialmente,nella sua trascendentale purezza, come atto non circoscrivibi-le, come l’evento stesso dell’essere, alla stregua del divenire.Materia, nel primo capitolo di Materia e memoria, non è in effet-ti altro che il nome dell’apparire come assoluto, dell’apparirein quanto tale. Materia è il nome dell’evento non più correla-to ad un ci, non più appropriato al Dasein. Nella concezioneheideggeriana, l’Ereignis rimanda sempre alla correlazione e alrapporto di appropriatezza e disappropriatezza che sussiste tra

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l’uomo e l’essere. La “misura” umana non è mai abbandonata.Qui, invece – e questa è la grandezza futura di Bergson –, ètolto precisamente il riferimento alla misura umana. L’eventoè pensato come puro accadere. Qui ha finalmente luogo quellaradicale de-borghesizzazione della coscienza di cui parlava Sar-tre, privata del suo radicamento umano, troppo umano, tant’èvero che per Bergson essa non è solo un fatto umano, ma puòessere estesa ai virus e alle stelle.

. La teoria della percezione

La proposizione bergsoniana su cui abbiamo sin qui lavoratoproseguiva quindi definendo la percezione della materia come«queste stesse immagini riferite all’azione possibile di una certa im-magine determinata, il mio corpo». Ecco la seconda questione, inmerito alla quale il contrasto tra concezione fenomenologica econcezione bergsoniana raggiunge il suo apice. Ora, se mate-ria è il nome per una coscienza virtuale che viene prima dellacoscienza-intenzionalità, abbiamo a che fare con una speciedi luce che si estende in tutte le direzioni a velocità infinitae che attende di incontrare uno “schermo” per dare luogo aqualcosa come l’«effetto di un miraggio». L’effetto di mirag-gio è una percezione cosciente. Abbiamo quindi anzitutto lamateria come percezione diffusa e impersonale e, in un secon-do momento, la percezione cosciente. Essa si genera quandotale luce incontra uno “schermo nero”, in cui si deposita comela luce si deposita per impressione, per calco negli alogenurid’argento del dispositivo fotografico arcaico: allora comparequella che noi chiamiamo percezione cosciente. Si può perciòsupporre che in ogni punto della materia sia presente una per-cezione infinita, così come le monadi di Leibniz costituisconouna contrazione del tutto da un punto di vista particolare. La

. Ivi, p. .. Ivi, p. .

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Prima della coscienza

percezione infinita del punto materiale è tuttavia una percezio-ne senza appercezione, una coscienza senza autocoscienza, unacoscienza virtuale.

Dal titolo del primo capitolo di Materia e memoria, sullaselezione delle immagini per la rappresentazione, è già possibile ar-guire che il corpo è per Bergson qualcosa di paragonabile ad unsetaccio che seleziona le immagini. Se la percezione coscientesi produce attraverso un’opera di selezione e riduzione, ciò si-gnifica che rispetto al reale l’immagine non è di più, ma di meno,poiché l’immagine come coscienza (immagine di e immagineper) è ottenuta per sottrazione. Innanzitutto ci sono le immaginiin se stesse, c’è un piano delle immagini che possiamo raffi-gurare come un rettangolo. All’interno di questo piano delleimmagini c’è poi un’immagine particolare, che spicca rispet-to a tutte le altre: quest’immagine particolare è il mio corpo,che differisce rispetto a tutte le altre immagini per il semplicefatto che “io lo sono”, perché non lo conosco a distanza, malo intuisco per auto-affezione. Così, nel piano delle immagini,il mio corpo costituisce un punto particolarmente sensibile,produce un fenomeno di perturbamento, come la screziaturadi un cristallo. Produce una specie di curvatura del piano, comese in quel punto il piano si alzasse perpendicolarmente e siriferisse a lui, al mio corpo in azione, al limite di quello stessopiano (si pensi ad una piramide). Tutte le immagini del pianoora si riorientano rispetto al vertice, che va a costituire il limitedel campo. Qui il termine “limite” è da intendersi in un sensokantiano: il corpo funziona come limite trascendentale, cioècome punto rispetto al quale la materia si flette. Esso fungeeffettivamente da soggetto.

Il corpo però non è un semplice punto, poiché è azione,è un corpo che agisce, dove agire equivale a rispondere allesollecitazioni che vengono da fuori. L’azione non comportasolo l’auto-conservazione, il mantenersi in vita, ma anche l’ac-

. Il richiamo a quello che sarà il concetto deleuziano di piano di immanenza,tra l’altro, è qui evidente.

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crescimento della propria potenza. Ora, questa immagine chepermette la ristrutturazione dell’intero campo e che si costitui-sce come limite del campo e come soggetto è appunto un corpoche agisce. Secondo Bergson, ovunque vi sia azione, ovunquevi sia un corpo che agisce, ovunque vi sia un corpo che vive, haluogo una certa esitazione nella risposta motrice. In altri termini,c’è vita, cioè corpo, azione, dove un’azione non si prolunganella sua risposta automatica, ma dove un’azione conosce, tra lostimolo e la risposta, un intervallo, che rappresenta un momen-to di esitazione. Dove abbiamo tale intervallo possiamo direche c’è un corpo vivente. E, naturalmente, più l’esitazione siapprofondisce, più si delinea un orizzonte di mondo intorno aquel corpo. Bergson intende affermare che ogni essere viventeha un “mondo ambiente”. Ma questo mondo ambiente da checosa è “misurato”? Che cosa misura il mondo ambiente dellamosca, nella sua differenza dal mondo ambiente della pianta,nella sua differenza dal mondo ambiente del virus, nella suadifferenza dal mondo ambiente dell’uomo? E che cosa misura,ad esempio, la differenza tra il mondo ambiente dell’uomoattivo, creativo e il mondo ambiente dell’uomo ormai abban-donato ad una vita abitudinaria, fatta di routine? Cosa misura ladifferenza tra queste diverse prospettive su quell’unico pianodella materia che è l’insieme delle immagini? Ciò che misurala differenza tra tutti questi mondi ambiente non è altro chel’esitazione nella risposta motrice. Quanto più l’esitazione siapprofondisce e il margine di indeterminazione della rispostaaumenta, tanto più mondo abbiamo.

Bergson conia addirittura una specie di legge generale ca-pace di stabilire a priori l’ampiezza del mondo ambiente di unorganismo. L’estensione della percezione cosciente, dei nostrisensi, o la quantità mondo sarebbero cioè direttamente propor-zionali all’intensità dell’azione di cui dispone un essere vivente.In altri termini, un vivente ha tanto più mondo quanto più lasua azione da reale, da azione che nasce per la semplice cor-rispondenza automatica ad uno stimolo, si fa virtuale, tantopiù aumenta il margine di indeterminazione. Quanto più di-

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minuisce il margine di indeterminazione, tanto più il nostromondo si restringe. Si tratta di una vera e propria teoria delmondo ambiente, potenzialmente rivoluzionaria anche in cam-po etologico. In questo senso, quanto più aumenta la finitezzadell’Esserci, il nostro non essere tutto, il non avere una rispo-sta automatica per tutte le situazioni problematiche, il nostroessere costretti a situazioni di paralisi, di dubbio, di angoscia,di indeterminazione nella risposta, tanta più luce si fa intornoa noi. Dunque, se la materia è un insieme di immagini e l’ap-percezione è il rapporto tra questo insieme di immagini e uncorpo in azione, l’unità di misura dell’esperienza è quanto puòun corpo.

Nel concepire la differenza tra la percezione e la cosa perce-pita soltanto come differenza di grado e non di natura ha luogoun altro elemento segnatamente materialista. La materia è giàdi per sé percezione illimitata e infinita, mentre la percezionecosciente si costituisce come rétrécissement, come riduzione,oscuramento di questa percezione. La nostra percezione allostato puro fa quindi veramente parte delle cose, anzi è nellecose, non ci porta verso di esse attraverso un atto di trascenden-za attiva. Si tratta di un’affermazione quasi scandalosamentematerialista, scandalosamente realista, che attirerà su Bergsongli strali della fenomenologia. Negli anni Trenta e Quaranta, adesempio, autori come Sartre, Merleau-Ponty, e prima ancoraPolitzer, tendono a liquidare Bergson accusandolo di essereun filosofo realista, ingenuo e precritico. E, in un certo senso,ma solo nella misura in cui Bergson intende effettivamenteemanciparsi dal principio della correlazione universale che lamodernità eredita dal pensiero kantiano, ciò che essi dicono ècorretto.

. Il dispositivo fotografico della coscienza

A proposito del tema della percezione, vi è ancora una questio-ne da affrontare. Potremmo domandarci: in che modo diviene

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rappresentazione cosciente ciò che originariamente è imma-gine in sé, ciò che originariamente è materia? Secondo qualeprocedimento, insomma, si viene a costituire la coscienza co-me intenzionalità? In effetti, di come avvenga tale conversionedella realtà in rappresentazione non sappiamo ancora nulla. Larisposta bergsoniana è veramente curiosa. Essa spiega comemai un filosofo che è stato contemporaneo della nascita delcinema, che addirittura dedica il quarto capitolo di una dellesue opere più famose, L’evoluzione creatrice, al tema del mecca-nismo cinematografico del pensiero, un filosofo che ha assuntoil cinema come metafora per indicare l’errore metafisico, pos-sa diventare e sia di fatto diventato, nelle mani di Deleuze, ilfilosofo del cinema. Un singolare destino per un filosofo cheaveva fatto del cinema la metafora stessa della spazializzazionedella durata! Secondo Bergson, infatti, la metafisica scambia iltempo con lo spazio, scompone e analizza il tempo riducendoloa somma di arresti immobili, di pose immobili, operazione chechiaramente trova nel cinema, nel fotogramma, nella scansio-ne per fotogrammi dell’immagine cinematografica un esempiostraordinario.

Bergson è il filosofo che usa il cinema come metafora per in-dicare la fallacia metafisica per eccellenza. Eppure, i due volumisul cinema di Deleuze sono interamente basati sulla filosofiabergsoniana. Come mai? Lo comprendiamo se ci interroghia-mo sul meccanismo con cui la percezione da impersonale si fapersonale, diventando cosciente. Tale passaggio infatti si spiegamediante una genesi di tipo fotografico. Naturalmente, quandousiamo l’espressione “genesi fotografica” intendiamo la foto-grafia dal punto di vista del dispositivo, non come “arte delfotografico”, intendiamo cioè la fotografia nella sua dimensionetecnica. Come si produce quindi la rappresentazione cosciente?Basta che un’immagine che esiste in sé abbandoni qualche cosadi se stessa. Perché l’immagine in sé si trasformi in rappresen-tazione occorre sopprimere, per mezzo di una specie di “taglio”o di “inquadratura”, «ciò che la segue, ciò che la precede, edanche ciò che la riempie» e conservarne «sotanto la patina ester-

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na, la pellicola superficiale». Scrive ancora Bergson: «Ciò che ènecessario, per ottenere questa conversione, non è illuminarel’oggetto, ma, al contrario, oscurarne alcuni aspetti, ridurlodella maggior parte di se stesso, in modo che il residuo, inve-ce che rimanere incastrato nel contesto [entourage] come unacosa, se ne distacchi come un quadro». La dinamica illustratada Bergson sembra davvero quella del dispositivo fotografico.Egli utilizza qui una metafisica che gli è molto cara, quella diLucrezio, attraverso la teoria del simulacro. Usando la lingua diLucrezio, però, Bergson sta descrivendo un’operazione squisita-mente fotografica, nella misura in cui l’operazione fotograficaelementare è, come ha scritto Stanley Cavell, il taglio operatoda una macchina.

Percepire in modo cosciente è quindi un tagliare: un’imma-gine viene staccata dalla continuità con le altre immagini, vienein qualche modo isolata dal suo contesto, viene incorniciata, vie-ne interrotto il suo rapporto col mondo-ambiente, allora essacessa di essere cosa e si fa tableau, quadro. La fotografia, avendola natura dell’impronta, del calco – un dispositivo fotograficoè un dispositivo indicale, e Bergson ha ben chiaro il caratteresemiotico di “indice” della fotografia – non riproduce la realtà,non è mimesi, non è “secondo oggetto simile”, ma procededirettamente sul corpo del reale per prelevamenti. Così fa la per-cezione: non riproduce la realtà, ma procede direttamente sulcorpo del reale, sulla materia delle immagini per prelevamenti.La fotografia-percezione preleva un pezzo di realtà, come dice-vamo, sopprimendo «repentinamente ciò che la segue, ciò chela precede ed anche ciò che la riempie», conservandone «soltan-to la patina esterna, la pellicola superficiale». Tale operazioneavviene automaticamente, comprimendo al massimo il momen-to demiurgico, cioè il momento dell’operatività umana. Lafotografia, del resto, ha una genesi automatica. Certo, c’è qual-cuno che spinge il pulsante, ma già una delle prime pubblicitàdella Kodak nel diceva: «voi premete il pulsante, noi facciamo

. Ivi, p. .

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il resto». La genesi dell’immagine fotografica è avvertita fin dasubito come una genesi largamente automatica, impersona-le, indifferente alla dimensione della soggettività. Baudelaires’infuria con la fotografia proprio per questo, perché la fotogra-fia è il contrario dell’arte intesa come demiurgia, come fattospirituale, come fatto umano. La sua genesi è meccanica, chi-mica, come dirà Roland Barthes. L’origine della fotografia è lachimica, non l’arte. Di più: l’origine della fotografia è l’impron-ta, è il calco, è quella dimensione meccanica che, a differenzadella dimensione iconica, non implica nessun aspetto di tipodemiurgico, “artistico”. Non c’è rappresentazione. Non vi ènulla di psicologico nell’immagine fotografica, almeno se la siconsidera nella sua genesi. Essa è parte reale della cosa, è la sua«pellicola superficiale».

Così Bergson pensa la percezione in rapporto alla materia.Come la fotografia, la percezione è parte reale della materia, èottenuta con un procedimento di tipo fotografico, come se cifosse uno schermo nero (il corpo in azione) sul quale la luceinfinita che percorre il piano della materia incontra resistenze esul quale si deposita un’immagine, quella, appunto, della nostracoscienza. «La percezione – scrive ancora Bergson – assomigliaproprio a questi fenomeni di riflessione che dipendono da unarifrazione impedita; è come l’effetto di un miraggio». Si no-ti come il procedimento fotografico assunto a paradigma e aspiegazione del passaggio dalla materia alla percezione spogli ilsoggetto di ogni iniziativa, rendendo una volta di più impratica-bile l’accostamento della percezione bergsonianamente intesaalla coscienza intenzionale. La coscienza intenzionale è luceche dal di dentro va al fuori, è luce che si trascende verso ilfuori, è un raggio di luce buttato sulla realtà opaca. Qui ci tro-viamo nella situazione esattamente opposta: la realtà è luce equello che noi chiamiamo soggetto è analogo alla lastra delfotografo su cui la luce s’imprime depositando un’immagine. Adifferenza della fenomenologia, la luce per Bergson viene tutta

. Ivi, p. .

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dal di fuori e non dal di dentro di una coscienza che “esplo-derebbe verso” il mondo illuminandolo come una specie difuoco d’artificio. La materia è luce, mentre il corpo vivente incui si rifrange diventando percezione è solo, dice Bergson, «unoschermo nero».

. Cinema e filosofia

Concludendo, vorremmo dedicare dello spazio ad una breveriflessione su cinema e filosofia. La tesi sostenuta da Deleuzenei suoi due volumi sul cinema è che il cinema sia nella suaessenza bergsoniano e non fenomenologico. È bergsonianoperché è materialista ed è materialista nel senso bergsonianoperché il dispositivo audiovisivo è largamente autonomo dalladimensione del soggetto. Il dispositivo audiovisivo è automati-co e, anche se usato da qualcuno, mantiene una sua autonomiatecnica. Esso è in grado di catturare del reale liberandolo dallamaniera umana, in un certo senso, liberandolo dalla corre-lazione. Il punto di contatto tra cinema e filosofia, secondoDeleuze, sta nel fatto che il cinema, quando è fedele alla suavocazione originaria, è il luogo in cui viene messa alla provaquella che Bergson ha chiamato una volta «l’ultima impresada tentare». Impresa che consisterebbe nell’«andare a cercarel’esperienza nella sua fonte, o piuttosto al di sopra di questasvolta [détour] decisiva in cui, flettendosi nel senso della nostrautilità, diventa propriamente l’esperienza umana». Andarealla ricerca del mondo prima dell’uomo o dopo l’uomo o indipen-dentemente dall’uomo. Questa è l’ultima impresa della filosofia:liberare l’evento dal suo rapporto costitutivo con la manie-ra umana, con il ci. Quest’ultima impresa è anche l’impresa,

. Ivi, p. .. Il termine “dispositivo audiovisivo” è qui usato per indicare l’intero insieme

di quei dispositivi che permettono, seguendo la logica dell’impronta, di catturarepezzi di realtà.

. Ivi, p. .

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secondo Deleuze, che caratterizza il cinema in quanto regres-sione “figurale” al fondamento non umano dell’esperienza,regressione all’immagine in sé. Il cinema è una via per lasciarcialle spalle il nostro “mondo ambiente”, per lasciarci alle spalleil mondo che ha nel Dasein il suo cuore pulsante e accederefinalmente al Grande Fuori.

Deleuze pensa in particolare al grande regista russo DzigaVertov e al suo cineocchio. Il cineocchio di Vertov non è piùl’occhio della mente, l’occhio dello spirito, non è più l’occhiodella coscienza, non è più l’intenzionalità, ma è un occhiodella materia. Il cineocchio desoggettivizza completamentel’ambito dell’esperienza, deborghesizza veramente la coscien-za: è pura visione di un occhio non umano, visione di unocchio che sarebbe nelle cose. Questa lettura del cinema co-me regressione al fondamento non umano dell’esperienza,come passo indietro nella materia, nel piano di immanenzache non è più curvato su un centro come sul suo limite, sem-bra forse una interpretazione azzardata del cinema, che pertanti aspetti può sembrare un’arte così umana, così a misurad’uomo. Eppure, non è un caso se tale rilettura deleuzianadel cinema a partire da Bergson sia anticipata da autori chehanno a che fare molto più col cinema che con la filosofia,i quali, in tempi e luoghi diversi, hanno sviluppato proprioquesta idea “ontologica” e “realista” del cinema. Citeremo aquesto proposito tre nomi e tre saggi, due dei quali sono bennoti anche a Deleuze.

. Bazin: l’ontologia dell’immagine fotografica

Il primo autore è André Bazin, grande esponente della criticacinematografica, che ha dato un contributo decisivo all’esteti-ca del cinema moderno. Morto giovanissimo – fece appenain tempo a vedere I quattrocento colpi di Truffaut –, egli erarimasto folgorato, scorgendo in essi una promessa di futuro per

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l’intero cinema, dai prodotti del neorealismo italiano. Prendere-mo in considerazione un brevissimo saggio del : Ontologiadell’immagine fotografica. Attraverso l’immagine fotograficainfatti è la questione dell’essere che emerge. Il saggio di Bazinanticipa nelle sue poche pagine l’opera, forse molto più famosao almeno oggi più conosciuta, di altri due autori. InnanzituttoLa camera chiara di Roland Barthes, che in qualche modo co-stituisce lo sviluppo delle tesi di Bazin. Oppure, per citare unaltro autore oggi notissimo, Georges Didi-Huberman. Tuttoil lavoro di questo autore sull’impronta, sul calco e sul supera-mento della dimensione artistica nell’ambito estetico è infattigià anticipato nel saggio di Bazin del .

Affrontando il tema del realismo, Bazin sostiene che il cine-ma lo abbia risolto proprio in virtù della sua origine fotografica.Il realismo che il dispositivo cinefotografico rende possibile,tuttavia, non è il naturalismo, non è la mimesis, non è la riprodu-zione della realtà perché l’essenza della fotografia, dice Bazin,non è la rappresentazione della realtà, ma piuttosto il calco,l’impronta, il prelevamento di un pezzo del reale, l’essenzadella fotografia è, potremmo dire, il ready-made. Il correlatodell’indice fotografico da un punto di vista semiotico è dunquel’evento, il reale come evento. Il correlato della fotografia èl’essere dell’apparire. E Bergson, quando pensa al passaggio dallamateria alla percezione, pensa proprio a qualcosa di simile a uncalco che la materia opererebbe su una specie di schermo e dalquale risulterebbe una percezione. Il correlato noematico del-l’atto fotografico è ciò che è stato, è l’evento, l’aver avuto luogodi qualcosa: c’è una traccia, qualcosa è accaduto. Non so che cosasia accaduto, questo sarà sempre soggetto al dubbio, ma che èaccaduto qualcosa, di questo la traccia è vestigium indiscutibile.La traccia è sempre traccia di un evento, di un qualcosa che ha

. A. Bazin, Ontologie de l’image photographique, in id., Qu’est-ce que le cinema? I.Ontologie et Langage, Cerf, Paris ; trad. it. Ontologia dell’immagine fotografica in Checos’é il cinema?, Garzanti, Milano .

. R. Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Paris ; trad.it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino .

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avuto luogo, di un evento singolare. Del resto, la specificità dellatraccia rispetto agli altri segni consiste nel suo essere un ditopuntato sull’esistenza singolare, su qualcosa che è stato.

. Pasolini: il cinema come lingua scritta della realtà

Il dispositivo cinematografico, diceva Bazin, proprio grazie allasua struttura semi-automatica, cattura l’evento del reale. Egliparla di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione.Non è forse questo lo stesso linguaggio di Bergson, teorico dellapercezione? La percezione, sosteneva Bergson, non è altro dallamateria; semplicemente, differendo da essa per grado, è menodella materia. Il dispositivo, grazie alla sua genesi automatica,libera del reale allo stato puro. E per la prima volta col cinema,ancor di più che con la fotografia, oltre all’immagine delle coseabbiamo anche quella della loro durata. Ecco dunque il cine-ma: la mummia del cambiamento, il calco del cambiamento,la durata creatrice ricalcata, depositatasi in un’impressione. Ècurioso che anche Pasolini, nei saggi sul cinema contenuti inEmpirismo eretico, senza saperlo, faccia propria la tesi bergso-niana. Quando Deleuze legge Pasolini, infatti, lo fa a partire daBergson.

Se ora consideriamo le tesi sostenute da Pasolini nella suapolemica con i semiologi, e in particolare con un giovane Um-berto Eco (siamo tra il e il ), ci avvediamo facilmentedel loro sapore squisitamente bergsoniano. Per i semiologi ilcinema è linguaggio, come tale riconducibile alle grandi cate-gorie della linguistica: parola, langue e così via. Per Pasolini,invece, il cinema non è linguaggio, il cinema è extra-umano,è innanzitutto la lingua scritta della realtà. Ciò significa che larealtà come insieme di immagini esistenti in se stesse è giàcinema e che, grazie al montaggio, il cinema scrive, depositan-dola in segni scritti, in film, la lingua naturale della realtà. La

. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano .

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Prima della coscienza

vita, dice Pasolini – intendendo la nostra vita, la vita comune–, non è altro che un infinito piano-sequenza, un film virtuale.Un film virtuale che diventa film reale grazie alla morte, cheopera il montaggio. In effetti, quando morirò, saranno altri adassumersi il compito di ricordarsi di me, di quello che ho fatto,di costruire una storia, un racconto sulla mia vita che diventeràla memoria della mia esistenza. Altri monteranno il mio infinitopiano-sequenza, che perdurerà per un certo tempo. Pasolinigioca molto sull’analogia tra la morte e il montaggio, cioè tral’operazione che fa il regista, alla moviola, di ricomposizionedelle immagini all’interno di una storia unitaria e l’operazioneche la morte fa nella vita di ciascuno, nella misura in cui trasfor-ma la vita in un piccolo monumento. Ebbene, la premessa diquesto discorso è la seguente: la natura in sé – è quanto affermaPasolini – è un’immagine. La natura è già di per sé un piano-sequenza infinito, la materia come insieme di immagini è giàcinema. La materia in quanto coscienza virtuale, infinita, è uncinema infinito che, riflettendosi o imprimendosi nello scher-mo nero della morte, viene oscurato e ritagliato: l’operazionedella percezione è un’operazione di découpage.

. Benjamin: l’inconscio ottico

Infine, dopo Bazin e Pasolini, un altro autore che procede nelladirezione che stiamo tracciando – con il suo celeberrimo sag-gio, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica –è Walter Benjamin. Egli individua lo specifico del dispositivofotografico in ciò che chiama “inconscio ottico”. La fotogra-fia ha infatti una sua autonomia rispetto all’occhio che guardanell’obiettivo; l’obiettivo fotografico, in altri termini, non è unprolungamento del nostro occhio, la sua capacità di vedere è

. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbar-keit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt ; trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della suariproducibilità tecnica, Einaudi, Torino .

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Rocco Ronchi

indipendente dal nostro occhio, libera porzioni di realtà che ilnostro occhio non vede. Michelangelo Antonioni, nel film Blowup, mette in scena tale inconscio ottico nella famosa sequenzadel parco. Il protagonista, un brillante fotografo di moda, va ascattare delle foto apparentemente innocenti, che registranoinconsciamente un omicidio. Di qui comincia la vicenda del film.L’obiettivo aveva visto di più di quello che l’occhio poteva ve-dere, aveva visto altro proprio perché largamente autonomodal soggetto, capace di catturare un reale che non è il correlatodel soggetto.

Il cinema, secondo Deleuze, avrebbe di mira esattamentequesto genere di assoluto, l’esperienza pura, la materia primae dopo l’uomo. La fenomenologia non può comprendere ilcinema perché poggia sempre sul modello della percezionenaturale, mentre il cinema, secondo Deleuze, non prolungaaffatto la percezione naturale. Il cinema non è un medium nelsenso tradizionale del termine, non “estende” un organo. Piut-tosto il cinema lo perverte, cioè lo costringe ad un altro uso. Equesto è l’aspetto profondamente bergsoniano perché rendepossibile l’«ultima impresa» della filosofia, quella di «andare acercare l’esperienza nella sua fonte, o piuttosto al di sopra diquesta svolta decisiva in cui, flettendosi nel senso della nostrautilità, diventa propriamente l’esperienza umana». Il cinema,scrive Deleuze, va alla ricerca del «mondo di prima dell’uo-mo, prima della nostra alba, laddove il movimento era sottoil regime della variazione universale, e dove la luce, propagan-dosi sempre, non aveva bisogno di essere rivelata». È ciò chefa il cinema: risalita «verso il piano luminoso d’immanenza, ilpiano di materia e il suo sciabordio cosmico di immagini inmovimento».

. Cfr. supra, n. .. G. Deleuze, op. cit., pp. -.

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Prima della coscienza

. Conclusione: la terza via tra fenomenologia e realismoingenuo

Il paradossale materialismo bergsoniano, ripreso inconsapevol-mente da Bazin, da Pasolini e da Benjamin e esplicitamenteteorizzato da Deleuze, rappresenta una sorta di terza via, oggiper noi decisiva, tra le Scilla e Cariddi del pensiero filosoficocontemporaneo. Da un lato abbiamo la strada fenomenologica,di cui da un po’ di tempo si denuncia il progressivo esauri-mento, dall’altra la rinascita, in funzione antifenomenologica eantiermeneutica, di un’ontologia realista ingenua e dogmatica,in fondo positivista. Il materialismo che essa sbandiera è quellodel “fatto che sussiste in se stesso” e che la scienza registrerebbeobiettivamente. Mi pare che il materialismo bergsoniano nonsolo possa costituire una terza via tra fenomenologia e realismoingenuo, ma segni anche un ritorno possibile al senso propriodella pratica filosofica. La filosofia, infatti, se è filosofia e nonchiacchiera erudita, deve avere come oggetto esclusivo l’assolu-to: essa è la scienza speculativa dell’assoluto. E quando si diceassoluto, ab-solutus, s’intende una realtà sciolta dalla manieraumana, la realtà prima dell’uomo o dopo l’uomo. La terza viamaterialistica permette allora di restituire alla filosofia il suoantico oggetto. Questa mi pare la grande sfida che Bergson halanciato alla filosofia contemporanea e che Deleuze ha ripreso:provare a pensare, ancora una volta, un rapporto con l’assolutoche non venga a screziare l’assoluto stesso, riducendolo allamisura umana. In altre parole, si tratta di provare, ancora unavolta, a farla finita con l’uomo.

Rocco [email protected]

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645594pag. 69–96 (ottobre 2013)

La concezione processualedella natura in Whitehead

L V

: . Logica, matematica, epistemologia, – . Eventi eoggetti, – . Processo e realtà, .

In questo testo si intende trattare della concezione processualedella natura di Alfred North Whitehead e, più in generale, dellasua concezione della realtà. Come è noto, Whitehead, primadi fare il filosofo, fu un eminente matematico, logico ed epi-stemologo. Per analizzare adeguatamente la sua concezione ditemporalità, di processo, di evento, bisogna allora prendere lemosse, seppur in maniera molto sintetica, dalle opere mate-matiche, logiche ed epistemologiche. Lo faremo in manieranecessariamente soltanto rapsodica. Ci soffermeremo quindiinnanzitutto sugli elementi filosofici di tali opere, sia perchénon è questa la sede per approfondire la matematica, sia perché,non essendo un matematico, è giusto che rispetti il sapere altrui.In parte, tuttavia, allo scopo di collocare in una misura più ade-guata la riflessione speculativa di Whitehead, sarà inevitabileconsiderare le opere matematiche, poiché altrimenti si corre ilrischio di fraintenderne gravemente il pensiero.

Va ricordato che Whitehead nasce a metà dell’Ottocentoed è quindi contemporaneo di molti pensatori eminenti comeHusserl, Bergson e altri, con cui condivide anche il destino dicominciare a riflettere filosoficamente a partire da problemati-che scientifiche – se, naturalmente, all’interno del campo dellescienze vogliamo considerare anche la matematica. Diversaperò è la via attraverso cui Whitehead arriva alla filosofia: a dif-

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ferenza di questi altri pensatori, egli elabora il proprio pensieropartendo e passando dall’interno delle questioni più tecnichedella propria disciplina, per cui lo potremmo definire un “ma-tematico speculativo”. La prospettiva filosofica whiteheadianainfatti, oltre ad essere molto originale, è direttamente necessita-ta dalla sua precedente riflessione teorica sui fondamenti dellamatematica, della logica e poi dell’epistemologia e delle scienzefisiche. Questo è certamente un elemento di grande interesse,perché nel caso di Whitehead la filosofia dialoga costantemen-te, anzi prende le mosse dalle scienze non limitandosi né adun’operazione, in qualche modo parassitaria, di riflessione me-tateorica sulle scienze stesse, né ad una riproposizione in chiavepositivistica della giustezza delle scienze che, lungi dall’essereidolatrate, sono talora avvicinate e discusse in maniera moltocritica.

. Logica, matematica, epistemologia

La prima opera di Whitehead, che esce nel , si intitolaA Treatise on Universal Algebra with Applications. Si tratta delprimo volume di un’opera che doveva essere molto più ampia,ma che non vedrà mai la luce perché intanto Whitehead avevacominciato a lavorare, in collaborazione con Bertrand Russell,che era all’epoca suo allievo, alla ciclopica e notevole impresadei Principia Mathematica che verranno pubblicati nel . Vadetto innanzitutto che questa opera, che è chiaramente un’ope-ra matematica, tenta un’operazione abbastanza inusuale ancheper un matematico: l’unificazione delle diverse discipline mate-matiche alla luce di un concetto: quello di algebra universale.Richiamo brevemente il fatto che all’epoca – siamo alla finedell’Ottocento – era già in corso la grande opera di riflessionesui fondamenti della matematica e sulla relazione tra matema-

. A.N. Whitehead, A Treatise on Universal Algebra with Applications, TheUniversity Press, Cambridge .

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La concezione processuale della natura in Whitehead

tica e logica. Il nome di George Boole qui dovrebbe valerecome epitome di questa complessa storia. In effetti, Whiteheadprende le mosse proprio da Boole e da Grassmann, autoredi una Ausdehnungslehre, cioè di una teoria della estensione, etrova qui la chiave per l’unificazione delle concezioni mate-matiche. Di questa operazione ci interessano alcuni elementi,primo tra tutti l’idea che l’algebra consente una comprensionedelle forme al di là della concezione usuale della matematicain termini di concetti numerici. Il francese Louis Couturat,all’epoca molto famoso e oggi pressoché dimenticato, auto-re di un’opera su Leibniz, recensendo l’Algebra Universale diWhitehead notò la presenza dello spirito leibniziano. Notòcioè come fosse presente l’idea di una struttura concettualeche potesse permettere una comprensione generale della realtà.L’aspetto di maggiore rilevanza per noi, al fine di valutare losviluppo successivo della filosofia di Whitehead, consiste nelfatto che la nozione di algebra mette in discussione uno deipresupposti della filosofia occidentale da Aristotele in poi: lanozione di identità. Whitehead mostra infatti che la nozione diidentità così come è elaborata dalla logica classica vale soltantoentro certi limiti per la matematica, e che pertanto ha bisognodi un approfondimento e di una radicalizzazione. La nozionedi struttura della matematica, come vedremo, ha in Whiteheaduna valenza peculiare in quanto conduce ad una prospettivarelazionistica in opposizione alla concezione quantitativa dellamatematica, ossia all’idea che la matematica si occupi di numerie quantità. Per Whitehead la matematica si occupa invece di for-me e, in questo senso, la sua prospettiva è in linea di continuitàcon quella leibniziana, di cui, in un certo senso, travalica anchei limiti. Un ulteriore elemento consiste nella revisione dellalogica aristotelica fondata sulla relazione soggetto-predicato allaluce di una concezione, che viene da Boole e che Whiteheadgeneralizza, in cui fondamentale è la relazione mentre il nesso

. L. Couturat, L’algèbre universelle de Whitehead, in «Revue de Métaphysique etde Morale», , pp. -.

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tra soggetto e predicato viene riconsiderato come meno origi-nario della relazione stessa. Vi è infine un altro aspetto, per cuila nozione di algebra universale di Whitehead si avvicina aduna nozione matematica elaborata soltanto successivamente,che va sotto il nome di topologia. Tale nozione, a ben guardare,ha un precedente molto importante in Desargues – contempo-raneo di Descartes –, il quale già nel Seicento aveva elaboratouna concezione puramente morfologica della geometria, incui non valevano più le determinazioni metriche che sono allabase della geometria analitica cartesiana. Whitehead recuperaqueste intuizioni per mostrare come la matematica in generalee la geometria come scienza pura della spazialità possano esserefondate su basi non numeriche, il che avrà poi un’importanzadeterminante per la successiva elaborazione della questionedelle geometrie non euclidee. Mi limito a evocare temi che,naturalmente, andrebbero esaminati ognuno dettagliatamente.Era comunque importante segnalare che già nella prima ope-ra puramente matematica Whitehead pone delle questioni dicarattere speculativo.

Successivamente, nel , Whitehead pubblica un’operasui concetti matematici del mondo materiale, dal titolo OnMathematical Concepts of the Material World. In questo piccoloma denso lavoro Whitehead afferma che è possibile lavoraredal punto di vista puramente matematico su diversi concetti –lui li chiama concetti, ma si tratta di modelli di comprensionedel mondo materiale su basi puramente assiomatiche –, da uncerto punto di vista equivalenti, ma che in realtà differisconoprofondamente l’uno dall’altro e che possono essere divisi inalmeno due categorie per la scelta degli assiomi di base. White-head individua cinque concetti, di cui i primi tre sono fondatisulla traduzione assiomatica della fisica newtoniana, sono va-

. Tra l’altro, è utile tenere presente che nel , del tutto indipendentemente,vengono pubblicate anche le memorie di Einstein, tra cui quella sulla relatività.

. A.N. Whitehead, On Mathematical Concepts of the Material World, Proceedingsof the Royal Society, Dulan, London .

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riazioni su questo tema. Questa costruzione assiomatica dellafisica newtoniana si basa su tre nozioni originali, non derivabili,ossia punti spaziali, istanti di tempo e la materia che si situaall’interno di questi due contenitori, spazio e tempo, definiti inquesto volume. Emergerebbe di qui una concezione atomisticadella realtà, sia perché la realtà materiale, dal punto di vistalogico, risulta frammentata in concetti che sono punti atomi-ci, punti istante, sia perché i punti istante non sono connessiin una maniera ordinata, sono in qualche modo degli assolutiindipendenti dalle vicissitudini a cui è sottoposta la materiache è in essi situata senza essere con essi in relazione. A questitre modelli equivalenti Whitehead ne avvicina altri due, chesono invece fondati su un’unica relazione fondamentale ori-ginaria che introduce una nozione vettoriale, vale a dire unanozione di cui l’unico concetto non definito, l’unico assiomasu cui basare l’intera descrizione fisica è la relazione vettorialeche mette insieme lo spazio, il tempo e la materia. Sia pureda un punto di vista meramente formale, senza avvicinarsi aduna matematica di tipo gnoseologico o in generale filosofico,Whitehead mostra così che è possibile intendere altrettantobene la realtà a partire da un diverso dispositivo. Da un punto divista nozionale, quindi, tale dispositivo funziona perfettamente,alla luce di questo unico concetto indefinito, di questo assioma,che è però molto lontano dall’intuizione originaria che sta allabase della fisica newtoniana. L’ulteriore sviluppo del pensierodi Whitehead prende le mosse precisamente dall’idea che siapossibile trattare formalmente la realtà materiale egualmentebene con una prospettiva relazionistica invece che con la clas-sica prospettiva atomistica newtoniana. Pur senza prendere inquesto scritto posizione per l’una o per l’altra delle due mo-dalità, è già importante notare che è altrettanto lecito trattarela realtà materiale sia in termini relazionistici, sia in terminiatomistici.

Il problema della scelta tra questi modelli, ad ogni modo,rimane, ed è ciò a cui Whitehead si dedica negli scritti suc-cessivi alla pubblicazione dei Principia Mathematica, anche in

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opposizione a quella filosofia in essi implicita che fondamental-mente si può attribuire a Russell. Anche se gli autori sono due,infatti, sembra lecito sostenere che la prospettiva filosofica difondo sia russelliana. Del resto, è noto che Russell a quell’epocasosteneva una concezione atomistica della realtà ed è controdi essa, in fondo, implicitamente perché la cosa non viene maidetta, che Whitehead muove le proprie critiche elaborando unanuova concezione. Il primo esito di questa elaborazione è unoscritto del , che Whitehead pubblica in francese, dal titoloLa théorie relationniste de l’espace. È il primo momento in cuiappare pubblicamente una dottrina propriamente whiteheadia-na. In questa breve opera Whitehead propone una concezionerelazionistica dello spazio, classificandolo in quattro modi di-versi: spazio percettivo, distinto in spazio percettivo parziale espazio percettivo completo, spazio geometrico e spazio fisico.L’elaborazione di questa breve memoria consente quindi innan-zitutto di problematizzare le nozioni ovvie che sono alla basedella scienza fisica. Va inoltre ricordato che Whitehead avevascritto la propria tesi di dottorato, che è andata perduta, ma dicui conosciamo il contenuto, sulla nozione di fisica di campodi Maxwell, la cui importanza consiste nell’introduzione di unanozione di campo che avrebbe poi inciso notevolmente in mol-ti ambiti filosofici. Ciò che a noi qui interessa della nozionedi campo – si tratta, del resto, dell’interpretazione che ne dàWhitehead stesso – consiste nell’idea di totalità che introduce.Vale a dire, non esistono più innanzitutto degli elementi che poivengono modificati in una sintesi, poiché originaria è la totalitàstessa, il che è comprensibile da un punto di vista formale.

Poste così le premesse della sua successiva indagine episte-mologica, Whitehead si dedica finalmente all’analisi del pro-blema dello spazio che, come abbiamo accennato, viene postoin connessione con il problema della percezione. Ricordiamo,per inciso, che a quest’epoca è ormai acquisita l’importanza

. A.N. Whitehead, La théorie relationniste de l’espace, in «Revue deMétaphysique et de Morale», n. , , pp. -.

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delle geometrie non euclidee ed è quindi impossibile associareingenuamente la dottrina classica dello spazio fisico al model-lo euclideo di geometria, in quanto le altre geometrie – inparticolare quella riemanniana e quella di Lobacevskij, cioè lageometria ellittica e la geometria iperbolica – per quanto ri-guarda l’impianto formale sono già chiaramente legittime in sestesse. La novità contenuta nella mossa di Whitehead consistenel ritorno alla percezione. In altri termini, per poter porrein correlazione lo spazio fisico e lo spazio geometrico, cioè lospazio reale e lo spazio ideale bisogna trovare un nesso, unmedium: lo spazio percettivo. Così, il porsi del problema di cosasia la percezione mostra per la prima volta l’originalità della po-sizione whiteheadiana, perché per Whitehead, che si professae si professerà sempre un realista, la nozione di percezione nonimplica che ciò che è percepito dipenda dal percipiente. Vale adire, nel momento in cui è posto il problema della percezione,viene contestualmente sottolineato il fatto che trattare di perce-zione non significa ridurre ciò che è percepito all’attività di unsoggetto percipiente. D’altra parte, questo realismo non puòessere un realismo di tipo empiristico-atomistico. Ovvero, lapercezione di cui parla Whitehead, se non consiste nella regola-zione di ciò che è percepito da parte del soggetto percipiente,non implica neanche che ciò che è percepito sia descrivibilenei termini dell’empirismo classico anglosassone – pensiamo,in particolare, a Locke e Hume – e quindi secondo i canoni diun empirismo inteso alla stregua di una teoria atomistica dellapercezione.

Sicché, possiamo dire che già agli inizi della propria rifles-sione, Whitehead introduce una variante decisiva proprio inquanto pone il problema della comprensione della percezio-ne in termini irriducibili sia alla concezione empiristica, siaalla prospettiva trascendentale inaugurata da Kant. In effetti,ne Il processo e la realtà Whitehead sottolinea esplicitamente

. A.N. Whitehead, Process and Reality, Corrected Edition, The Free Press, NewYork (); trad. it. di N. Bosco, Il processo e la realtà, Bompiani, Milano .

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che la propria filosofia è in un certo senso una filosofia pre-kantiana. Questo, del resto, è stato uno dei motivi di grandefraintendimento dell’operazione filosofica whiteheadiana, spes-so travisata e interpretata come un ritorno a modi di pensaremetafisici. In realtà, la professione di filosofia prekantiana nonaccetta la deriva trascendentale così come, d’altra parte, nonaccetta nemmeno le premesse realistiche o dogmatiche; tentapiuttosto di superare l’alternativa stessa tra dogmatismo razio-nalistico o empiristico da un lato e impostazione trascendentalekantiana dall’altro. Quando Whitehead inizia ad elaborare lapropria posizione siamo nel e perciò ancora lontani dallapubblicazione de Il processo e la realtà, che uscirà soltanto, comefrutto delle Gifford Lectures tenute quell’anno, nel . Intanto,possiamo dire che Whitehead concepisce la percezione comeun evento della natura, interno alla natura. Ha luogo qui, perciò,da una parte, una naturalizzazione della percezione, dall’altra,e corrispondentemente, una ricomprensione – implicita qui,esplicita poi – della stessa nozione di natura, nella quale eviden-temente la percezione costituisce un elemento fondamentale.Ne derivano alcuni problemi schiettamente epistemologici sul-la natura, tra cui quello della causazione, su cui torneremo piùavanti.

Qualche anno dopo Whitehead scrive altri piccoli saggi: TheOrganization of Thought Space, Time and Relativity e, soprattutto,The Anatomy of Some Scientific Ideas (un breve scritto estrema-mente importante per approfondire la filosofia di Whitehead),nei quali introduce un ulteriore elemento. Stiamo naturalmen-te riassumendo in poche righe lo sviluppo di un pensiero moltocomplesso allo scopo di enucleare i termini fondamentali concui trattare la filosofia del processo di Whitehead. In questisaggi viene introdotto il fondamentale concetto di “durata” –in ciò che abbiamo visto fin qui, in effetti, è già implicito che

. Saggi poi inclusi nel volume The Aims of Education and Other Essays, Williamsand Norgate, London ; trad. it di F. Cafaro, I fini dell’educazione e altri saggi, LaNuova Italia, Firenze .

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il tempo deve essere messo in discussione. Così, la nozionedi durata emerge – siamo a metà degli anni Dieci, tra il e il – in un modo che sembra risentire dell’influenza diBergson, filosofo all’epoca già molto famoso e che in qualcheoccasione è da Whitehead anche esplicitamente citato. Tuttavia,se è vero che c’è una relazione approfondita tra i due pensatori– è infatti noto che i due si conoscevano e si apprezzavano reci-procamente –, è altrettanto vero che la filosofia di Whiteheadnon è in alcun modo riducibile a quella di Bergson, in quantoWhitehead elabora comunque autonomamente la propria pro-spettiva. La nozione whiteheadiana di durata ha pertanto soloun’assonanza con quella di Bergson.

Perché viene introdotta la nozione di durata? Non è difficilerintracciare il legame con quella nozione originaria, indefini-bile e assiomatica introdotta nel : la relazione che unificaspazio, tempo e materia. Definendola in termini di linearità evettorialità, effettivamente, si implica già un momento di esten-sione, e il tempo inteso come durata, avendo a che fare conl’estensione, non può consistere in una serie di istanti puntuali,puntiformi, atomici. D’altra parte, è fondamentale notare ancheche la nozione di durata qui introdotta non rimanda semplice-mente ad un’estensione temporale da intendersi come “tempoesteso” di contro alla concezione del tempo come mera seriedi istanti. Ci sono due elementi che complicano il quadro: perun verso, l’idea che, in modo conseguente all’assunzione dellaprospettiva della fisica di campo di Maxwell, la durata sia daintendersi alla luce del concetto di natura come totalità cheprecede le parti e si manifesta in esse. Una simile nozione didurata è immediatamente connessa ad una concezione olistica,si potrebbe dire, anche se il termine non è del tutto corretto, di“realtà naturale”. Per altro verso, la nozione di durata introdot-ta da Whitehead è una nozione non necessariamente lineare.Non si tratta cioè di pensare che la durata sia semplicementeuno spostamento temporale da A a B: la questione è ben piùcomplessa. Whitehead tuttavia sa bene che, mancando una suf-ficiente comprensione della natura della percezione in quanto

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tale, queste acquisizioni teoriche sono ancora acerbe. Pertanto,la relazione che individua tra realtà, percezione e durata chiede,implica una nuova riflessione sulla nozione di percezione.

. Eventi e oggetti

Prima di affrontare il tema in questi termini, tuttavia, White-head compie un altro passaggio fondamentale, di cui troviamotraccia nei cosiddetti “ Books”, cioè i libri scritti attornoal . Si potrebbe dire che si tratta di opere, le prime cheWhitehead pubblica, di filosofia naturale, per utilizzare un’e-spressione in generale desueta, ma ancora abbastanza comunenell’ambito filosofico anglosassone. Le opere in questione sonotre: I principi della conoscenza naturale, Il concetto di natura eIl principio della relatività dove, come il titolo lascia supporre,Whitehead compie anche un’analisi della relatività einsteiniana.Ciò che ci interessa direttamente, comunque, è il fatto che,soprattutto ne Il concetto di natura – che dei tre è il più popolare,il meno infarcito di equazioni, di analisi prettamente scienti-fiche – Whitehead comincia ad esporre un primo abbozzodella sua filosofia del processo, che viene inizialmente defini-ta organicistica. La serie di analisi che Whitehead conduce inquest’opera lo portano inoltre a criticare quella impostazionederivata dalla scienza fisica che qualche anno dopo sarebbe statapropugnata dal circolo di Vienna. Quindi, in anticipo sugli esitidella critica del circolo di Vienna, e proprio per questo criticatosuccessivamente dagli esponenti del positivismo logico, Whi-tehead prende una direzione controcorrente, considerando la

. A.N. Whitehead, An Enquiry Concerning the Principles of Natural Knowledge,Cambridge U.P., Cambridge ; trad. it. di G. Bignami, Ricerca sui principi dellaconoscenza naturale, Lampugnani Nigri, Milano .

. A.N. Whitehead, Concept of Nature, Cambridge U.P., Cambridge ; trad.it. di M. Meyer, Il concetto di natura, Einaudi, Torino .

. A.N. Whitehead, The Principle of Relativity, Cambridge U.P., Cambridge ;trad. it. di M.V. Bramès, Il principio della relatività, Edizioni Melquiades, Milano .

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La concezione processuale della natura in Whitehead

concezione prevalente della fisica e in generale della scienza,cioè il riduzionismo, mal fondata in quanto costruita su unainsufficiente analisi epistemologica delle scienze stesse. Ne Ilconcetto di natura noi troviamo così, insieme, la critica alla fi-losofia sostanzialistica di ascendenza aristotelica, la critica allaconcezione eminentemente cartesiana della realtà fisica intesacome res extensa, quindi come estensione senza articolazio-ni interne, e il nesso teorico che Whitehead istituisce tra lametafisica aristotelica sostanzialistica e la concezione cartesia-na di realtà naturale. Egli, infatti, nonostante Cartesio si fosseesplicitamente opposto alla filosofia scolastica di ascendenzaaristotelica, tende a sottolineare la stretta continuità tra la meta-fisica sostanzialisitca aristotelica e la concezione naturalisticacartesiana. In questo si potrebbe avvicinare, seppure in manieranon pedissequa, alla critica che Heidegger fa della concezionedella res extensa cartesiana alla luce della nozione aristotelica disussistenza.

Ma in quest’opera c’è anche una elaborazione dettagliata eparticolareggiata dei due concetti fondamentali della filosofia diWhitehead: evento e oggetto. L’evento viene introdotto comerisultato riflessivo, direi speculativo – se questa parola non cifacesse pensare subito alla speculazione metafisica, perché nonè di questo che si tratta, ma di un’evoluzione concettuale coe-rente delle nozioni precedentemente introdotte, cioè quelledi relazione originaria e di durata. La nozione di evento è inqueste opere fondamentale. La natura viene descritta in terminidi eventi, la realtà naturale nel suo complesso sarebbe fatta dieventi, da Whitehead concepiti come processi irreversibili, chenon si ripetono: ogni evento è unico e irripetibile. La naturastessa nel suo complesso è l’insieme degli eventi, o meglio, lanatura è l’avanzamento creativo – termine su cui ci sofferme-remo meglio più avanti – della realtà, è il fatto totale di cuii singoli eventi sono i fattori, cioè gli elementi componenti.Ma, siccome non ci sono né fattori in astrazione dal fatto, néfatto in astrazione dai fattori, c’è una coimplicazione tra fattoe fattori, cioè tra l’avanzamento creativo della realtà naturale

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e gli eventi che hanno luogo in essa – in un senso ovviamentenon inclusivo del termine “in”.

Ora, se gli eventi non si ripetono, che rapporto c’è tra glieventi intesi come componente fondamentale della realtà e ciòche la fisica, o in generale la scienza, e il senso comune consi-derano realtà? In effetti, Whitehead sa bene che noi esperiamola realtà naturale in termini di permanenze, di cose che si ri-conoscono, che si incontrano di nuovo, che ritornano, quindiil problema che qui si pone è quello, da una parte, di fondaresulla concezione relazionistica e processuale della realtà la cono-scenza scientifica stessa e, dall’altra, contemporaneamente, dimostrare perché la scienza fisica non parta da una concezioneprocessuale ma, al contrario, sembri in qualche modo dimenti-carla o ignorarla. Entra qui in gioco il secondo termine sopramenzionato: quello di oggetto. Gli oggetti sono per Whiteheadesattamente il riconoscimento dell’ente, il modo in cui è pos-sibile articolare la comprensione degli eventi, comprensioneche va intesa come percezione; vale a dire: prima di una com-prensione intellettuale vi è una base percettiva nell’apprensionedella realtà. Gli oggetti così intesi, però, non sono le cose, gliindividui separati e distinti, ossia gli oggetti del senso comune.Essi sarebbero piuttosto le articolazioni degli eventi, il che ri-vela una concezione strutturale della natura degli oggetti: nonhanno sussistenza propria, non sono cose che preesistono allaarticolazione degli eventi stessi, bensì sono l’articolazione deglieventi, il modo in cui gli eventi si articolano e sono pertantoclassificabili in strutture diverse e gerarchicamente ordinate.

La nozione di oggetto in Whitehead è perciò una nozionepiuttosto complessa – la si può trovare distesamente trattata siane Il concetto di natura, sia ne La scienza e il mondo moderno – poi-ché, da una parte, gli oggetti sono classificati e gerarchizzati dalpunto di vista dell’esperienza, dal più semplice al più complesso:prima gli oggetti di senso, i più semplici, poi gli oggetti percet-tivi e infine gli oggetti fisici, che sono oggetti percettivi nonillusori. Gli oggetti di senso sarebbero i più semplici proprioperché dotati di una minore stabilità e quindi intrinsecamen-

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te e intenzionalmente meno complessi; da essi si arriverebbequindi, attraverso un processo astrattivo, agli oggetti fisici, chesono nessi o complessi di oggetti di senso. D’altra parte, tutta-via, se mutiamo la prospettiva, essendo gli oggetti fisici i menocapaci di restituire la complessità del mondo nella sua proces-sualità, essi stessi potrebbero apparire come i più semplici. Inaltri termini, quegli oggetti che noi consideriamo i componentifondamentali della realtà, gli oggetti fisici, sono per Whiteheadsolo il frutto di un’astrazione concettuale. A ben vedere, siamoindotti a pensare che la realtà sia fatta di oggetti fisici per unamera finzione logico-pragmatica. Si tratta, infatti, di un proce-dimento di astrazione logica che, non essendo vero in sé, innome di una verità logica autonoma ed assoluta, diventa veroin quanto risponde ad esigenze pragmatiche. Detto altrimenti:noi dobbiamo riconoscere ciò che accade, dobbiamo essere ingrado di “sapere cosa c’è là fuori”. Gli oggetti fisici, pertanto,non godono affatto di un primato ontologico. La realtà cosìcome noi crediamo di constatarla, di viverla, non è la realtà“più autentica”, oggettiva, e occorre sottolineare che questoè il punto di arrivo di un percorso la cui origine si trova benradicata nelle premesse logiche e matematiche da cui White-head aveva preso le mosse. Non si tratta quindi per nulla di unafantasia, ma di un’elaborazione molto coerente di premessepuramente logiche ed epistemologiche: fino a qui, dunque,nessuna speculazione metafisica. Se crediamo che il mondo siafatto di oggetti durevoli è per un effetto del linguaggio, che ciabitua a credere che l’esperienza ci restituisce precisamente lesedie, i tavoli e così via. Ma questi non sono oggetti che esistonoveramente, bensì sono modi con cui noi classifichiamo la real-tà, mentre la realtà fondamentale consiste nella processualitàgenerale della natura. Se pensiamo a ciò che ci dice la fisica,sappiamo quantomeno che tavoli e sedie non sono che con-glomerati di elettroni, e questo lo accettiamo tranquillamenteproprio perché ce lo dice la fisica, ragion per cui non ci ponia-mo alcun problema nel dire: se la componente fondamentaledella realtà sono gli elettroni, i tavoli non esistono. La posizione

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di Whitehead è, sotto questo profilo, totalmente coincidentecon la posizione della fisica, secondo cui quello che vediamoo, meglio, che crediamo di vedere non è che una costruzioneintellettuale puramente apparente rispetto alla realtà vera epropria, data invece dalla “danza degli elettroni”. La distanzatra la posizione whitehadiana e quella della scienza ha a chefare con una diversa concezione di realtà originaria, che perWhitehead non è quella della fisica classica newtoniana. Essainfatti, invece che sugli elettroni intesi come elementi che, aloro volta, ontologicamente “sono sempre quello che sono”,si basa su nozioni originali: emerge qui l’idea di un passaggiocostante della natura, cioè di una processualità costante dellarealtà.

Gli eventi pertanto non sono altro che una mutazione, o me-glio, un “mutare” costante della natura. In questa formulazioneè già contenuto qualcosa che sarà poi sviluppato speculativa-mente nella filosofia del processo, cioè che la realtà originaria èpassaggio, passare, mutamento continuo, necessario. Parlare diatomi, in questo senso, sarebbe già un modo di concettualiz-zare e quindi di reificare il passaggio. Tale passaggio è inoltreirreversibile, perché gli eventi sono unici, di volta in volta irre-cuperabili e questo è un altro elemento di distanza dalla fisicaclassica, cioè dalla fisica di Laplace. Questi aveva infatti affer-mato che se ci fosse uno spirito in grado di conoscere tuttele condizioni date ad un certo momento dell’evento genera-le dell’universo, sarebbe in grado di ripercorrere in avanti eindietro tutti gli eventi dell’universo stesso. Si tratta evidente-mente di una concezione deterministica, non c’è una linea deltempo, non c’è un prima e un poi: nella concezione classicaè perfettamente uguale determinare lo stato dell’universo exante o ex post. L’impostazione filosofica, ma anzitutto fisica,whiteheadiana si pone in contrasto con questa idea: bisognaintrodurre la nozione di irreversibilità, e la nozione di irrever-sibilità a sua volta avrà un ruolo fondamentale nella nozionefilosofica fondamentale di Whitehead, quella di entità attuale,di cui tratteremo più avanti, intesa nei termini di un passare

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che accade e perisce. Da questo punto di vista, la concezionedella temporalità di Whitehead, basata sull’idea di finitudine– il tempo è sempre una struttura finita – consente di operareun ulteriore accostamento con Heidegger – certo, tenendo benpresente che la finitudine del tempo di Whitehead non è lafinitudine del tempo esistenziale dell’Esserci, la Zeitlichkeit, maè intrinseca alla natura stessa.

Dicevamo sopra, a proposito del linguaggio, che è ritenutoda Whitehead il maggiore responsabile del nostro modo diintendere la natura in termini di cose che perdurano nel tempo.Si tratta, com’è noto, di una concezione che si rifà ad una criticadel sostanzialismo aristotelico, cioè al fatto per cui le categoriemetafisiche di Aristotele sarebbero ricalcate su una precom-prensione linguistica della realtà. Eppure, è interessante notareche Whitehead muove tale critica in totale solitudine e indi-pendentemente dall’opera di altri filosofi. Egli è infatti, per cosìdire, un pensatore in proprio, non senza tutte le ingenuità chequesto implica, ma non è un pensatore professionale, un com-mentatore di filosofie altrui. Al di là di un lessico che può perciòsembrare ingenuo, è quindi da notare come ci sia un’identitàriflessiva, filosofica, tra la posizione di Whitehead e altre moltopiù accreditate. La critica di Whitehead al sostanzialismo aristo-telico ha di mira l’idea che le categorie metafisiche – sostanza,potenza-atto, energia nel senso di energheia, eccetera – sianocapaci di descrivere adeguatamente la realtà. Esse, per White-head, non sono altro che elaborazioni indebite di una ingenuageneralizzazione di categorie linguistiche da cui derivano dueerrori fondamentali, sia della scienza, sia del senso comune. Ilprimo è quello cosiddetto della “fallacia della localizzazionesemplice”, simple location, per cui gli enti sarebbero localizzabiliin un contenitore spazio-temporale univoco, sarebbero cioè“qui e non altrove”. Secondo una concezione relazionistica eprocessuale della realtà, tuttavia, le cose non possono esserein uno spazio e un tempo definiti per la semplice ragione chespazio e tempo, essendo effetti della evenemenzialità della na-tura, dipendono a loro volta dagli eventi e non possono perciò

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essere considerati come contenitori assoluti in cui includere glieventi stessi. L’altro errore che per Whitehead è fondamentalecriticare è quello della misplaced concreteness, cioè della “fallaciadella concretezza mal posta”, a causa della quale saremmo por-tati a scambiare una mera costruzione logica per la concretezzadell’esperienza, apparentemente capace di fornirci gli oggettiqui e ora. È anche qui all’opera quella vera e propria generaliz-zazione concettuale del senso comune che per Whitehead dàluogo, attraverso un nesso di derivazione diretta, alla scienzanormale, la scienza atomistica e materialistica, che non discutemai il senso comune. La scienza classica si limiterebbe infatti aprendere i dati del senso comune per farne una generalizzazio-ne secondo certi presupposti matematici, senza mai sottoporrea critica la validità dei presupposti stessi. Così, l’analisi dei duesuddetti errori, conferma nuovamente che è possibile conce-pire la realtà secondo un altro dispositivo, in maniera del tuttorigorosa e arrivando anche a esiti molto diversi da quelli dellafisica classica.

Abbiamo accennato sopra anche alla critica al materialismo.In effetti, Whitehead mette in relazione le analisi ore esposte– dalla critica del concetto quantitativo di matematica fino aidue errori fondamentali della scienza – con la nozione mate-rialistica della realtà. Pensare la realtà come materia, inerte omeno, significa in ogni caso escludere la possibilità di pensaread un nesso intrinseco tra natura e percezione. Sicché, la posi-zione materialistica della scienza sarebbe secondo Whiteheadalla base sia della filosofia di Cartesio, sia di quella di Kant,ossia di quelle filosofie per cui la realtà materiale ha semprebisogno di un soggetto esterno che ne definisca le leggi. Lafilosofia di Kant, in questo senso, non sarebbe che il contraltaredella filosofia cartesiana, proprio perché, se la materia di per sénon è in grado di istituire delle relazioni al suo interno, alloraqueste relazioni, che sono poi alla base delle leggi della fisica,devono essere ricondotte a un soggetto – naturalmente, intesocome soggetto trascendentale e non come singolo scienziato– esterno alla natura, che ne dica la legge e quindi il senso.

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Proprio all’interno di una evoluzione concettuale che emergeper moto proprio dalla riflessione critica sulla natura, sulle basidi una concezione fisico-matematica, Whitehead ritiene neces-sario istituire un pensiero della sintesi, cioè della relazionalitàinterna alla natura stessa. Si tratta di un pensiero che, come ave-vamo già accennato, si smarca sia dalla filosofia kantiana, sia daldogmatismo metafisico prekantiano. Vale a dire, è necessarioricomprendere la natura in senso proprio, in modo tale che lasintesi, cioè la relazionalità, sia trovata all’interno della natura,allo scopo di fondare filosoficamente la possibilità di pensarela relazionalità come attività sintetica che caratterizza la naturastessa e non soltanto lo spettatore esterno ad essa.

Se volessimo adesso fare un confronto con un altro auto-re, si potrebbe pensare a Merleau-Ponty, poiché, in un certosenso, Whitehead sta dicendo, a suo modo e con motivazionidiverse, quello che anche Merleau-Ponty dice quando evocala nozione kantiana di kosmos theoròs. Kant ne parla nell’OpusPostumum per dire che la natura deve essere compresa dal difuori e panoramicamente, dall’alto, cioè con lo sguardo di Dioche ne dà la verità. E l’oggetto della critica whiteheadiana con-siste esattamente nell’idea che la natura debba essere spiegatadal di fuori, il che non significa in uno spazio diverso, ma daun punto di vista filosofico e speculativo diverso. La natura,secondo Whitehead, può e deve essere spiegata dall’internodella natura stessa, senza che la sua traduzione in concetto laporti ad una separazione da esso. Il pensiero, in altri termini,deve essere fatto emergere dall’interno della natura – certo, nonnel senso di una generazione, per così dire, biologica – comenatura che pensa se stessa. Il soggetto capace di comprensioneconcettuale dell’oggetto, cioè del mondo, è quindi interno al-la natura, ma non come mero fatto naturale, bensì in quantonatura che porta se stessa a comprensione, natura che, in altritermini, si automanifesta – intuizione che è presente nella terzaCritica kantiana, ma che in Kant dà luogo ad una separazioneattuale, attuata, tra realtà umana e realtà naturale. La strada cheWhitehead decide di percorrere, al fine di evitare precisamente

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tale separazione – ed è per questo che ci siamo dilungati suipresupposti logico-epistemologici della filosofia della natura–, vuole passare dall’interno della scienza stessa. Agli occhi diWhitehead, che – non dimentichiamolo – è uno scienziato,uno scienziato speculativo, non si può semplicemente opporrela filosofia alla scienza con motivazioni antiscientifiche, il che,del resto, non è né necessario né sufficiente. Non è sufficienteperché di certo non basterebbe a persuadere gli scienziati, manon è neanche necessario perché in realtà è la stessa scienza che,se approfondita con uno sguardo sufficientemente critico e nondogmatico, permette l’evoluzione teorico-speculativa-filosofica.

L’acquisizione teorica fondamentale della filosofia di White-head è quindi sintetizzabile nei seguenti termini: la natura puòessere intesa dall’interno della natura senza che questo implichiil materialismo, cioè senza che questo implichi una riduzionedella comprensione della natura al rapporto tra un soggettoad essa esterno e la materia inerte. La nozione materialistica equella idealistica di natura sono per Whitehead complementari,in quanto entrambe mancano di comprendere il fatto che laconcettualizzazione della natura è possibile dall’interno dellanatura stessa. Quando Whitehead tratta il materialismo, non silimita a parlarne nei termini di quella concezione storicamentedefinita che emerge da Cartesio fino a Newton e Laplace, mane fa, per così dire, una figura dello spirito, cioè un modo concui in un certo momento storico e logico insieme, estrema-mente influente, la natura è stata concepita. Con la separazionecartesiana delle due sostanze e la conseguente determinazionedella verità della realtà materiale da parte della realtà pensan-te, si è attuata una separazione che si colloca all’origine dellafallacia della concretezza malposta che Whitehead intende su-perare. In questo senso, lo ripetiamo ancora una volta, egli nonvuole tornare a una concezione ingenua della natura, ma alcontrario elaborare una concezione che si fa carico degli esitiriflessivi, concettuali della filosofia moderna, per superarla. Finqui i presupposti, a ben guardare estremamente razionalistici,della filosofia speculativa whiteheadiana di cui ora dobbiamo

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trattare. Fin qui, cioè, nessun appello a un’intuizione misticadall’interno della natura, bensì un lavoro particolarmente sot-tile sui presupposti logico-ontologici della scienza naturale, dimatrice aristotelica quanto cartesiana.

. Processo e realtà

La filosofia speculativa di Whitehead, così – ponendo l’esigen-za di comprendere finalmente come la natura, intesa in quelmodo per cui il pensiero è un fatto interno ad essa, pensa sestessa –, si presenta come ulteriore evoluzione di un pensieroscientifico. Dovendo determinare la natura del pensiero nel sen-so sia oggettivo che soggettivo di questo genitivo, il problemaspeculativo in questione si mostra particolarmente complesso.La natura del pensiero e il pensiero della natura, al di là delgioco lessicale, sono lo stesso. La natura pensa e il pensieroha una natura, il che suona vagamente schellinghiano: White-head non cita quasi mai Schelling, ma, pur sapendo che non sitratta di una Naturphilosophie di tipo meramente o totalmen-te speculativo, non si può evitare di evocarlo. Ora, a nostroavviso – su questo, gli interpreti hanno assunto posizioni dif-ferenti –, le nozioni fondamentali della filosofia speculativa diWhitehead sono cinque: attualità, potenzialità, processualità,relazionalità e finitudine. Si tratta delle cinque basi concettualicon cui pensare la realtà nel suo complesso, dal punto di vistadi un pensiero capace di pensare la natura in quanto pensieroe non solo. Whitehead, qui, ribalta la tradizione di ricezionedel pensiero dei classici e li legge alla luce della propria filosofiaspeculativa. Innanzitutto vi è l’idea che egli riassume sotto laformula di principio ontologico, per cui ciò che esiste ha daessere motivato alla luce di qualcosa che esiste. Sembra unatautologia, ma contiene lo spunto di riflessione su cui fino adora abbiamo insistito e in virtù del quale la realtà deve essererecuperata, fatta emergere da se stessa.

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Quanto detto, a sua volta, si traduce in una concettualizza-zione della realtà in termini di ciò che Whitehead chiama entitàattuale, actual entity. Le entità attuali non sono altro che la tradu-zione in termini di filosofia speculativa della nozione di evento,ragion per cui, tra le caratteristiche fondamentali della filosofiaspeculativa whiteheadiana, abbiamo citato innanzitutto l’attua-lità. Cerchiamo ora di chiarire l’accezione di significato concui va inteso il temine attualità: actual è ciò che è active, attivo,attuantesi, ciò che esiste, che esiste in quanto si attua, è attua-zione. In tedesco si potrebbe tradurre con il termine wirklich,Wirklichkeit. In altri termini, ciò significa che reale, esistente èciò che si attua, o meglio, è il processo di attuazione e, perciò,il reale accade in quanto realizzazione di una potenzialità. Seuna simile formulazione, da una parte, ci ricorda Aristotele,dall’altra è giocata precisamente in funzione anti-aristotelicain quanto, per Whitehead, lo stagirita avrebbe comunque pen-sato l’attuazione a partire dall’attuato, l’entelecheia, ciò che è inprocesso di attuazione, in processo di divenire, alla luce di ciòche è divenuto, di ciò che si è attuato. Per Aristotele, infatti,l’atto precede la potenza, l’energheia è attuazione di qualcosache come tale precede non cronologicamente, ma ontologica-mente l’attuazione, il che significa che la realtà è pensata comequalcosa che già da sempre è stato, l’en del to ti en einai, dell’es-senza, che quindi predetermina il processo stesso. Il processowhiteheadianamente inteso, al contrario, non è ontologicamen-te predeterminato. Con esso si vuole affermare il primato –non solo fisico, ma anche ontologico – del processo in quantopassaggio, attuazione. Perciò l’idea metafisica fondamentale diWhitehead, che riprende e generalizza l’idea di evento, è pre-cisamente quella di entità attuale, di entità che si sta attuando,dove il passare stesso è più originario di ciò che si realizza nelpassare. Già il titolo dell’opera attorno a cui stiamo lavorando –Il processo e la realtà – è piuttosto eloquente. Il processo è il ter-mine generale con cui Whitehead nomina l’idea del passaggio,dell’attuazione nell’attuazione stessa, mentre si sta attuando; larealtà è invece ciò che risulta dal processo di realizzazione, il

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divenuto. Il termine “realtà” presente nel titolo dell’opera indi-ca pertanto ciò che generalmente intende sia il senso comune,sia la scienza come generalizzazione del senso comune: le coseche perdurano nel tempo, la res. Ma, abbiamo visto, la strutturaoriginaria della realtà nel senso speculativo di Whitehead è ildivenire, il processo, che Whitehead chiama anche il concresce-re. Se da una parte, però, vediamo dischiudersi davanti a noi lapossibilità di accedere a una comprensione più originaria dellarealtà, ora intesa come divenire e non come divenuto, dall’altra,siamo chiamati a spiegare perché questa nuova comprensionedella realtà sia in qualche modo heideggerianamente celata al-l’apprensione quotidiana, che continua a pensare la realtà neitermini di oggetti che perdurano. Implicitamente, Whiteheadsta dicendo qualcosa che a noi continentali suona familiareperché già sentito da Heidegger, cioè che la realtà, così comeessa è autenticamente, è nascosta sotto ciò che la realtà stessaproduce da sé. La realtà in quanto divenuto, dice Whitehead,non è un errore, è il modo in cui essa stessa si manifesta, ma ilprocesso di manifestazione non è già la realtà come divenuto.Non è difficile scorgere, nello sviluppo di un simile percorso,un modo autonomo di pensare la differenza ontologica.

La seconda questione fondamentale, da ripensare alla lucedella diversa concezione di realtà ora emersa, è quella della po-tenzialità. Essa non sarebbe più da opporre all’attualità, ma daintendersi come parte dell’attualità stessa. Se l’attualità è com-posta di potenzialità che si attuano, la potenzialità è elementocoessenziale dell’attualità nel suo attuarsi. Un simile modo dipensare la potenzialità richiama certamente ciò che Deleuze –probabilmente non senza relazioni con Whitehead – chiamavirtualità, in opposizione alla potenzialità intesa invece comeciò che è meramente possibile e che è come tale ricalcato sullarealtà già divenuta – idea, anche questa, già bergsoniana. In altritermini, la potenzialità nel senso inadeguato del termine è sem-plicemente qualcosa di già attuato, in un secondo momentoribaltato all’indietro e ripensato come premessa e presupposto,come qualcosa che doveva essere inizio e condizione di pos-

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sibilità di ciò che è accaduto. Bergson, in proposito, parla di“moto retrogrado del vero”, dove il potenziale è pensato co-me l’attuale retrodatato, come ciò che doveva precedere il datorealmente attuale. In questo senso, si potrebbe dire che la po-tenzialità non è mai pensata come tale. Pensare la potenzialitàsenza reificazioni significa invece considerarla come intrinsecaall’attuazione stessa, il che, a sua volta, significa pensare l’in-determinazione del processo, che non si attua secondo unateleologia deterministica in cui il potenziale diventa attuale el’attuale è l’inveramento del potenziale. Il potenziale e l’attuale,in ultima analisi, sono due facce dello stesso evento generale:il processo. Whitehead cerca in questo modo di pensare inmaniera radicale l’idea del passaggio in quanto passaggio, ilprocesso mentre passa, in quanto sta passando e non in quantoattuazione di qualcosa che possiamo identificare solo alla lucedi ciò che è già passato, già realizzato. L’acquisizione di unasimile prospettiva, naturalmente, richiede dei termini diversi,idealmente quantomeno, da quelli del linguaggio comune, cheè invece caricato da tutte quelle presupposizioni ontologicheche falsificano la comprensione della realtà originale.

Aristotele, in questo senso, non avrebbe fatto altro che ge-neralizzare metafisicamente l’idea di realtà già contenuta nellalingua greca. Ora, se così stanno le cose, svincolarsi da Aristo-tele significa fondare un linguaggio completamente diverso,ed è cosa che alcuni pensatori hanno cercato di fare. C’è unatradizione, in un certo senso occulta, che cerca di pensare larealtà in concetti diversi quelli sostanzialistici, una tradizioneche passa per gli stoici, che trova espressione in Leibniz, che simanifesta in Whitehead e poi ancora in Deleuze. Vi è in pro-posito un semplice esempio, tratto da un’analisi molto celebredi Quine che, ad un primo sguardo, potrebbe non sembrarelegata a quanto stiamo dicendo. Quando Quine affronta il pro-blema della traduzione assoluta, conducendo un esperimentomentale, descrive un esploratore che, recatosi in un certo postodell’Africa, si trova a dover tradurre un’espressione che gli in-digeni utilizzano nel vedere un coniglio: gavagai. Ovviamente,

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l’esperimento ha lo scopo di dimostrare che non si dà possibilitàdi traduzione totale, a causa di quei presupposti che, di fronteal termine gavagai pronunciato dall’indigeno alla vista del coni-glio, ci fanno pensare che lui stesso creda effettivamente cheesiste un coniglio fatto in un certo modo, che ha dei predicati,per esempio bianco e così via. Ma noi non possiamo sapere,dice Quine, che cosa esprima quel termine; semplicemente,proiettiamo la nostra idea di realtà sulla sua. Noi – ed è qui l’ele-mento interessante dell’analisi di Quine – non possiamo saperese quando l’indigeno dice gavagai sta pensando, ad esempio, auna apparizione temporale del coniglio o di parti del coniglio.Ma, così dicendo, forse, Quine si lascia sfuggire l’ipotesi piùinteressante, cioè che l’indigeno, col termine gavagai, non stiadicendo “il coniglio”, collocandosi, seppur inconsapevolmente,all’interno di una concezione sostanzialistica, ma qualcosa chepotrebbe suonare come: coniglieggia; in altri termini, nulla cidice che la parola gavagai stia traducendo un sostantivo piutto-sto che un verbo. Un verbo che certo non appartiene al nostrosenso comune, che fa invece uso dei verbi per dire, ad esem-pio: io vado, tu prendi, egli ama. Si tratterebbe di un verbocapace di esprimere la processualità di ciò che noi nominiamocoi sostantivi, e perciò capace di mostrare che noi articoliamoin modo sostantivale, sostanziale una realtà che in sé ammet-te una trasfigurazione lessicale, concettuale, categoriale. Unlinguaggio basato sulla verbalità rende così maggiore giustiziaall’idea di processualità. Se noi adottassimo questo diverso mo-do di parlare, infatti, ci avvicineremmo forse di più a quello cheWhitehead ha in mente quando parla di processo: non c’è ilconiglio, c’è il coniglieggiare. Qui è il linguaggio che si adattaalla nozione di evento, e non viceversa, perché anche la parolaevento, da un certo punto di vista, comporta una reificazione:l’evento stesso, se nominato all’interno di un linguaggio di tiposostanzialistico, sembra descrivere qualcosa che “sta lì”. Ma,evidentemente, non è ciò che Whitehead vuole esprimere; ildivenire processuale della realtà non si lascia descrivere in ter-mini consueti proprio perché il nostro linguaggio consueto è

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spontaneamente, ingenuamente sostanzialistico. Questa è laragione del tentativo whiteheadiano, che può essere poi giudi-cato più o meno riuscito, di trasformare il linguaggio – in effetti,i problemi che Whitehead incontra in questo suo tentativo nonsono pochi. Quando, ad esempio, pensa alla nozione di oggettoeterno per indicare le forme che ritornano, gli elementi checonsento l’attuazione di ciò che si forma e che, perciò, consen-tono il riconoscimento degli eventi, sceglie una formulazionepiuttosto infelice, perché carica di tutta una metafisica estrema-mente greve. L’idea di oggetto eterno vorrebbe essere, invece,semplicemente la traduzione dell’idea di potenzialità.

Quanto detto fino a qui ci ha consentito di delineare conpiù chiarezza il terzo caposaldo della filosofia whiteheadiana,l’idea di processualità: essa nomina la complessa concezionemetafisica che va sotto il nome di filosofia del processo, il di-venire in quanto divenire, pensato nel suo divenire verbale –basti, per evitare di pensare il divenire alla luce del divenuto,tenere a mente il termine coniglieggia. A sua volta, però, il di-venire stesso non può essere ingenuamente considerato allastregua di un dato di fatto, ma deve essere spiegato, ed è quiche ritorna l’idea di relazionismo cui si accennava all’inizio.Se la processualità di cui Whitehead parla è processualità dellanatura nel suo complesso, ma la natura nel suo complesso nonesiste – tutt’al più possiamo dire che si dà, poiché a esserciconcretamente sono gli eventi –, la natura come fatto generalenon è che il darsi degli eventi stessi i quali, in quanto entitàattuali, non sono cose, bensì processi. Di più: se tali processiconsistono nell’interconnessione generale della natura, la rela-zionalità è l’essenza intrinseca della realtà, nel senso che ognientità attuale non è una cosa, ma, in qualche modo, un nesso direlazione. Whitehead, infatti, afferma che un’entità attuale è ilmodo in cui diviene, dove il divenire è pensato come relazioneo, meglio, come presenza delle altre entità attuali in quella chesta divenendo. In altri termini, un’entità attuale è il modo incui tutta la trama complessiva della realtà si configura in unadata singola entità. Le assonanze con la Monadologia leibniziana

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La concezione processuale della natura in Whitehead

sono evidenti, ma la differenza è che Whitehead pensa reali-sticamente l’interconnessione tra le entità attuali, traducendospeculativamente quell’idea di percezione secondo cui la realtàpensa se stessa. Le entità attuali sono dati dell’esperienza, pen-sata realisticamente, nel genitivo soggettivo dell’espressione:sono l’esperienza che si attua. Esperienza qui significa percezio-ne nel senso più ampio, non empiristico de termine. Di qui lalegittima possibilità parlare di panesperienzialismo a propositodella filosofia di Whitehead, il che dà l’idea della vicinanza einsieme della lontananza di Whitehead da Leibniz.

Col termine panesperienzialismo si vuole descrivere la realtànel suo complesso come un insieme di processi d’esperienza,dove l’entità attuale è la singola istanziazione della generaleesperienzialità del mondo. Il divenire stesso è qualificato daWhitehead come un “far esperienza”. Il far esperienza qui nonè il contemplare, da parte di un soggetto, un oggetto separato.L’esperienza è il concrescere dell’entità attuale in se stessa inquanto esperienza, il che significa che nel fare esperienza l’enti-tà attuale si realizza, accede a se stessa e cioè è, dice Whitehead,causa sui. La nozione di esperienza, come quella di percezione,è qui chiaramente una nozione ontologica: non si tratta né dipura contemplazione, né di una relazione di senso, ma di qual-cosa che esiste, di una relazione effettiva, della realtà in quantotale. Questo è forse il passaggio speculativamente più ardito einsieme contestabile del pensiero whiteheadiano. L’esperien-za, infatti, viene normalmente intesa come prerogativa di unamente propria di alcuni tipi di esseri, magari non soltanto gliesseri umani, mentre in Whitehead esperienza è il nome dellarealtà in quanto diviene e si automanifesta. Qui è il panespe-rienzialismo: la realtà si manifesta a se stessa e l’esperire è unmanifestare che non implica alcuna separazione tra soggetto eoggetto, che, a loro volta, non sono altro che effetti dell’espe-rienza. L’esperienza è la relazionalità generale dell’universo cheaccade e in quanto tale manifesta l’universo stesso, per cui latotalità dell’universo per Whitehead è il divenire generale cheperò non c’è in assoluto, ma si dà, si mostra nei suoi compo-

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Luca Vanzago

nenti, nelle entità attuali stesse. Un simile modo di considerarel’esperienza, com’è evidente, prende definitivamente le distan-ze dall’impostazione cartesiana che, postulando la separazionedelle sostanze, dividerebbe contestualmente l’esperienza dalsuo autore.

Si è parlato di attualità, potenzialità, processualità, ma c’è unaltro elemento. La relazionalità, abbiamo detto, è la strutturadella processualità, ma la processualità non è pura relazionali-tà come semplice rete di interconnessioni, né implica in ognicaso che quello che accade non possa tornare. La concezionewhiteheadiana di processualità, infatti, contempla la possibili-tà che la realtà in quanto diveniente possa ripetersi, nel sensoche è possibile che dati modelli di realtà, ad esempio i modellifisici, possano perdurare: la realtà fisica concretamente intesaè per Whitehead un modello di realtà diveniente che però siripete. Anche se le leggi della fisica possono cambiare, cosìcome, del resto, il mondo stesso può cambiare, il mondo fisicoè in generale considerato una delle modalità di processo incui le strutture si ripetono. Con una clausola: all’origine nonè comunque mai l’uniformità, ma il processo di irreversibilità;l’uniformità appare come effetto di alcune modalità del pro-cesso stesso. Considerata sotto questo profilo, la processualitàdi cui parla Whitehead costituisce anche uno dei modelli filo-sofici più interessanti per pensare l’irreversibilità fisica. Nonè quindi un caso che, sebbene si tratti di filosofia speculativa,questa modellizzazione della processualità irreversibile sia statapoi recepita da scienziati come Ilya Prigogine, cioè da chi lavo-rava nel campo della fisica e della chimica, e non dai filosofi,che comunque, dal canto loro, hanno recuperato il dispositivowhiteheadiano per pensare precisamente quei fenomeni chePrigogine e altri scoprivano, ossia i fenomeni di indetermina-zione e di creazione di regolarità impreviste, le emergenze diordine a partire da strutture più semplici che come tali non pre-vedono questo ordine. Ciò, a ben vedere, ha una considerevolerilevanza filosofica poiché implica che le strutture di ordinesuperiore, che mostrano livelli di organizzazione effettivi, non

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La concezione processuale della natura in Whitehead

possano essere derivate da una struttura più semplice della ma-teria. Oppure, in altri termini, le strutture di organizzazioneindeterministica hanno delle caratteristiche non derivabili dalleloro componenti, irriducibili alle basi fisiche della realtà. Larealtà, che si manifesta con determinate qualità – pensiamo, adesempio, ai fenomeni complessi –, ha quindi delle caratteristi-che ontologiche specifiche inderivabili dalla realtà fisica di base.Così Prigogine, e chi ha lavorato scientificamente in questadirezione, ha ritenuto che la concezione filosofica di base piùadeguata per affrontare simili fenomeni non fosse il positivismodel Novecento, di cui tanta parte della fisica è permeata, mapiuttosto la filosofia di Whitehead.

Un ultimo elemento: la finitudine, la finitezza temporaleche da quanto detto sin qui deriva e su cui Whitehead insistemolto. La temporalità stessa è infatti contrassegnata dal perire.Whitehead descrive il perpetuo perire della natura, originatadall’idea di passaggio, con l’espressione perpetual perishing. È,paradossalmente, un passaggio che non passa mai, che non èmai passaggio in senso pieno. Si tratta di un passaggio che “siesaurisce” dove ogni singola entità attuale diviene ciò che è,per poi “tramandare” le proprie determinazioni all’universoche segue. È un modo di pensare la temporalità che, comeaccennavamo sopra, saremmo forse più disposti ad attribuire alsoggetto, contrassegnato dalla mortalità – pensiamo a Hegel o aHeidegger –, ma che Whitehead invece attribuisce alla realtà inquanto tale. Siamo quindi lontani dalla concezione platonianache intende la temporalità come immagine mobile dell’eterni-tà poiché, in quanto immagine, essa sarebbe già sbiadita. Quiil concetto di temporalità assume una valenza più pregnante.Perciò, in quanto forma del processo, la temporalità è per Whi-tehead la cifra ontologica della realtà stessa che, contrassegnatadall’intrinseca finitudine, non può essere comparata ad una pre-sunta struttura migliore, più perfetta, quale sarebbe l’eternitàche, come tale, non si dà. L’oggetto eterno, lungi dall’essere unoggetto che esiste per sempre, è piuttosto un oggetto che nonha una caratteristica processuale. Gli oggetti eterni – direbbe

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Luca Vanzago

Heidegger – sono pensati in base al loro senso temporale; es-si sono ciò che sono precisamente perché ritornano e quindinon sono inseriti nel processo, ma sono la manifestazione delprocesso.

Per concludere, vorrei rapidamente osservare che la con-cezione whiteheadiana del reale si presenta come duale senzatuttavia essere dualistica: le entità attuali e le loro manifestazio-ni, cioè i loro nessi intrinseci strutturali che sono gli oggetti,sono pensati nella loro complementarità e non nella loro oppo-sizione. Sicché, la filosofia di Whitehead non è né dualistica, némonistica, anche se certamente contiene l’idea di una dualitàcome complementarità: tutto ciò che esiste è in natura, ma lanatura è qualcosa di più complesso di quanto il naturalismoscientifico ci induca a pensare.

Luca [email protected]

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645595pag. 97–127 (ottobre 2013)

Esperienza o tautologia?

La questione dell’evento in Heidegger

R T

: . Evento, questione dell’essere, fenomenalità, – . L’e-vento e la coappartenenza essere-uomo, – . Evento, «es gibt»,storia, tempo, – . L’evento al di là dell’essere, – . Lafine della storia dell’essere, – . «Il pensiero che si raccoglienell’evento», .

«Dal “evento” (Ereignis) è la parola chiave del mio pensie-ro»: così Heidegger indica con nettezza il ruolo fondamentaledella questione dell’evento nel suo pensiero, in quanto esito

. Nelle note utilizzeremo queste sigle (seguite dal numero di pagina dellatraduzione italiana indicata) per i testi di Heidegger richiamati più frequentemente:HGA (seguita dal n. del volume) = Martin Heideggers Gesamtausgabe, Klostermann,Frankfurt a. M., sgg.; CF = Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), HGA ; trad.it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Adelphi, Milano; CVL = Unterwegs zur Sprache, HGA ; trad. it. di A. Caracciolo, In camminoverso il linguaggio, Mursia, Milano ; ID = Identität und Differenz, in Identität undDifferenz, HGA ; trad. it. di U. Ugazio, Identità e differenza, in «aut aut», nn. –,, pp. –; TE = Zur Sache des Denkens, HGA ; trad. it. di C. Badocco, Tempo edessere, Longanesi, Milano ; SEM = Seminare, HGA ; trad. it. (dei Vier Seminare)di M. Bonola, Seminari, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano .

. M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», in Wegmarken, HGA ; trad. it.di F. Volpi, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, Adelphi, Milano , p. . InTempo ed essere Heidegger afferma che «i riferimenti e le connessioni che formanola struttura essenziale dell’evento sono stati elaborati tra il e il » (TE, p.). L’arco temporale - coincide con il periodo di composizione del noto eimportante trattato Beiträge zur Philosophie. (Vom Ereignis), pubblicato postumo nel. Faremo riferimento solo ad alcuni passaggi di quel testo, senza addentrarci inun’analisi tematica di esso, sia perché per la loro ampiezza e complessità i Beiträgerichiederebbero una trattazione autonoma, sia perché, per motivi che emergerannonel corso della trattazione, sceglieremo di privilegiare alcuni testi più tardi.

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Roberto Terzi

ultimo ed estremo del suo tentativo di trasformare la questionedell’essere e di aprire con ciò la possibilità di un «altro inizio»rispetto alla tradizione metafisica. Questa centralità del temadell’evento va al di là di una problematica interna all’operadi Heidegger, dal momento che questi è stato senza dubbiouno degli autori che ha maggiormente contribuito a imporrela questione dell’evento come uno dei temi capitali per tut-to il pensiero contemporaneo e che proprio la problematicadell’evento ha contribuito all’enorme influenza esercitata dalpensiero heideggeriano sulla filosofia successiva.

Il nostro intento sarà innanzitutto quello di fornire un qua-dro generale del ruolo dell’Ereignis nell’opera di Heidegger,mostrando alcuni degli ambiti essenziali in cui questo temainterviene e cercando, al tempo stesso, di mantenere vivo ilsuo legame con le radici fenomenologiche del pensiero heideg-geriano. Se privilegeremo soprattutto testi tardi di Heidegger,sarà anche perché uno dei motivi del loro interesse risiede nelfatto che essi spingono la questione dell’evento al suo limi-te: si tratterà di mostrare da un lato come il tema dell’eventocostituisca una radicalizzazione di motivi centrali del pensie-ro heideggeriano e una risposta coerente alle sue questionifondamentali; dall’altro lato bisognerà tuttavia anche far emer-gere che quello dell’evento è, per così dire, un pensiero-limite,ovvero che con il tema dell’evento il pensiero di Heideggergiunge al proprio limite. E tutto ciò non riguarda solo l’inter-pretazione del percorso heideggeriano, ma coinvolge anche lospazio problematico della sua eredità: quale ambito di pensierosi apre, con Heidegger e dopo Heidegger, una volta installatinel pensiero dell’evento?

. Evento, questione dell’essere, fenomenalità

La problematica dell’evento emerge e si impone nel pensieroheideggeriano a partire dalla metà degli anni Trenta, nel quadrodi una riconfigurazione complessiva del suo pensiero: si tratta

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ora non più solo di analizzare l’essere, la temporalità e la storici-tà dell’esserci per guadagnare a partire da qui il senso dell’esserein generale (come avveniva in Essere e tempo), ma di pensare latemporalità e la storicità dell’essere stesso nella sua verità e diricomprendere l’esserci in questo quadro. Il termine Ereignisrisponde quindi alla volontà di pensare l’essere stesso a partiredal nesso disvelatezza/nascondimento e in senso temporale-storico. Pensare l’essere come evento era tuttavia una direzionepre-delineata dall’impostazione stessa che Heidegger aveva datoalla Seinsfrage fin dall’inizio e rappresenta la risposta più coeren-te e radicale a quella questione: se l’essere non è un ente e deveessere compreso in questa sua differenza, se bisogna abbandona-re i concetti metafisici di causa e fondamento, l’essere si riveleràallora come evento, come il suo proprio accadere nel qualegiungono a manifestazione gli enti. L’essere non è un ente né ilfondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza.Evento dinamico o movimento, perché l’«essenza» degli enti(intesa non più come sostantivo, ma come verbo), non è qualco-sa di statico e dato, ma il dispiegarsi temporale e manifestativodel loro essere. D’altra parte, comprendere l’essere a partiredalla temporalità originaria, secondo quello che è fin dall’inizioil progetto heideggeriano, significa evidentemente pensare l’es-sere in un senso dinamico e in una prospettiva evenemenziale:al di là del significato dell’essere come presenza stabile, che hadominato l’ontologia tradizionale, bisogna pensare l’evento diquesta presenza stessa, riconducendola al pieno dispiegamentodella temporalità, che «non è, ma si temporalizza».

D’altra parte, il fatto che il tema dell’Ereignis sorga inizial-mente nell’ambito e in vista della questione dell’essere pre-scrive a sua volta la prospettiva e i limiti in cui il problemadell’evento compare nel pensiero di Heidegger. Bisogna infattiricordare che Heidegger non assume il termine Ereignis nel suosignificato comune e non si riferisce quindi ai singoli eventi,

. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, HGA ; trad. it. di P. Chiodi, a cura di F.Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano , p. .

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accadimenti, fatti che hanno luogo nel corso dell’esperienza.Detto nel linguaggio di Essere e tempo, non si tratta dell’eventocome fatto intramondano, che ha luogo all’interno dell’oriz-zonte del mondo e lo presuppone. Questo significa anche che,a differenza di quanto accade in altri autori, ciò che è in questio-ne nella problematica heideggeriana non è dunque il fenomenodell’evento singolare, ma l’evento dell’essere e le modalità delsuo accadere. In altri termini, si potrebbe dire, come vedremomeglio tra breve, che Heidegger analizza non tanto il fenomenodell’evento, quanto l’evento della fenomenalità.

Un ruolo cruciale nella «svolta» del pensiero heideggerianoè giocato dalla questione della verità, di cui Heidegger intende

. Heidegger è evidentemente coerente, all’interno della sua prospettiva, nel-l’escludere dall’analisi l’evento come fatto intramondano e semplicemente-presente,ma quel che bisognerebbe discutere è proprio se il fenomeno dell’evento singolaresia interamente riducibile allo statuto del fatto intramondano e se filosoficamentenon ci sia altro da dire su di esso. Questa obiezione contro Heidegger è stata sollevatain particolare da Claude Romano, che a partire da qui ha sviluppato una fenomeno-logia ermeneutica dell’evento: cfr. C. Romano, L’événement et le monde, PUF, Paris, e Id., Il possibile e l’evento: introduzione all’ermeneutica evenemenziale, a cura di C.Canullo, Mimesis, Milano .

. Come in molti altri casi, Heidegger si distanzia dall’uso comune del termineanche lavorando sul linguaggio e sull’etimologia, facendo valere due possibili modi– che per ora ci limitiamo a indicare in via preliminare – di intendere il termineEreignis. A) In primo luogo, Heidegger mette in risalto la presenza in Ereignis enel verbo sich ereignen (accadere) della radice eign- e del verbo eignen, connettendocosì Ereignis all’ambito semantico del «proprio» (eigen). Spesso Heidegger utilizzaperciò il verbo corrispondente in forma non riflessiva e in senso transitivo (ereigneninteso insieme come «far avvenire» e «appropriare») e per indicare le modalità e inessi dell’evento ricorre inoltre a una serie di termini composti a partire da questaradice. Da qui anche le difficoltà di traduzione di questi termini, per cui Ereignisè talvolta reso in italiano con «evento-appropriazione» o «evento appropriante». B)Meno frequentemente, Heidegger richiama anche l’etimologia autentica di Ereignise di sich ereignen, che provengono da forme dell’antico tedesco: il verbo eräugen (chesignifica adocchiare, gettare uno sguardo su, ma originariamente anche mostrare,esibire, ostendere, portare o mettere sotto gli occhi) e il sostantivo Eräugnis (cheindica ciò che è messo davanti agli occhi, l’evento in quanto visibile e manifesto). Inquesto caso siamo quindi di fronte a un legame tra l’evento e un ambito manifestativo-ostensivo. A questo proposito cfr. la voce «Ereignis», di P. David, in B. Cassin (sous ladirection de), Vocabulaire européen des philosophies, Seuil - Le Robert, Paris , pp.-.

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mettere in luce il significato originario. Bisogna risalire al di quadella concezione della verità come adeguazione del giudizio odella rappresentazione soggettiva al suo oggetto per cogliere ladimensione più originaria che essa presuppone: perché io possaformulare giudizi «veri» nel senso di «adeguati» all’ente, deveessere data l’apertura della dimensione stessa nella quale l’entemi è innanzitutto disvelato e io posso incontrarlo. La veritàoriginaria è dunque aletheia, nel senso etimologico del terminegreco: ciò che si disvela in quanto sottratto a un nascondimento,nascondimento che tuttavia permane e non può mai essere eli-minato completamente, dal momento che è la fonte stessa dellamanifestazione. La verità dell’essere accade dunque nell’unitàinscindibile di una disvelatezza e di un velamento, perché è ilmovimento unitario in cui l’essere lascia manifestare gli enti,ma nel permettere la disvelatezza degli enti si sottrae: l’essere èl’evento del venire-alla-presenza degli enti nel quale ciò che èdisvelato è l’ente stesso, mentre questo movimento si ritrae enasconde. Il concetto di evento risponde quindi alla necessitàdi rendere conto in modo unitario di questa dinamica – non dispiegarla nel senso di individuare un fondamento o una causa,ma di indicare fenomenologicamente il suo «come»: l’eventoindica il «come» della dinamica unitaria di disvelatezza e na-scondimento, perché, se l’essere non è altro che evento, esso èciò che fa sì che qualcosa (l’ente) accada, in modo tale che ciòche resta manifesto a noi è solo il «risultato» dell’evento e nonl’evento come tale, che invece si ritrae non essendo nulla in sé.

Nei termini che Heidegger utilizza nei Contributi alla filo-sofia, la verità è «la radura per il velamento (Lichtung für dieVerbergung) [. . . ] e questo perché [. . . ] verità dell’Essere in quan-to evento». Il velamento non è, tuttavia, un mistero assolutoe inaccessibile, qualcosa che semplicemente scompaia senzalasciar traccia di sé: in questa ipotesi, il velamento non sarebbe

. Cfr. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia, cit., pp. -.. Cfr. A. Fabris, A. Cimino, Heidegger, Carocci, Roma , p. .. CF, p. .

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nulla per la nostra esperienza e non avremmo alcuna base perparlarne, oppure ricadremmo in una sua lettura metafisica chelo trasforma in «qualcosa» di trascendente. Che la verità sia«radura per il velamento» significa che il velamento accade e sidisvela come velamento: con l’accadere di ciò che è disvelato(dell’ente), accade e si manifesta che c’è velamento (dell’esserecome evento). Si dà che l’essere si è ritratto e perciò rimanevelato. Il velamento è al cuore della disvelatezza e per questoc’è, in un senso peculiare, esperienza del velamento: il rappor-to umano alla verità è esser-esposti a un velamento che incidenell’esperienza.

Se si ricorda che Heidegger in Essere e tempo aveva postotutta la sua impresa sotto il segno della fenomenologia, seppurin un modo «eretico» rispetto a quello husserliano; se si tienepresente, d’altra parte, che anche tutta la successiva riflessioneheideggeriana sulla verità come aletheia ruota evidentemente at-torno alle questioni della disvelatezza, della manifestazione, delvenire-alla-presenza e quindi dell’apparire degli enti per l’uo-mo, si può allora vedere nella questione dell’evento un’ultimaed estrema radicalizzazione della problematica fenomenolo-gica. Per quanto generalmente si sia molto più prudenti nelmettere in relazione il cosiddetto «secondo Heidegger» con lafenomenologia, si tratta di un nesso che ci sembra debba inveceessere mantenuto e indagato, tanto per la comprensione delpensiero heideggeriano quanto per le sue potenzialità teoriche.Ciò che è in gioco nella riflessione heideggeriana sull’evento èforse proprio anche un pensiero non metafisico dell’apparire comepensiero dell’evenemenzialità dei fenomeni – sulla cui realizzabi-lità dovremo peraltro tornare al termine del nostro percorso.Pensare non metafisicamente l’apparire significa innanzituttoaccoglierlo come tale senza tentare di ricondurlo ad altre istanzeo condizioni, senza sottometterlo a dualismi trascendenti, al«principio di ragione» o al primato della soggettività. I fenome-

. Cfr. a questo proposito anche l’interessante saggio di A. Magris, I concettifondamentali dei «Beiträge» di Heidegger, in «Annuario filosofico», n. , , pp. -.

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ni non sono né qualcosa di semplicemente presente in modostatico, né qualcosa che si costituisca nei vissuti di coscienza,ma hanno un carattere di evento: accadono, vengono alla mani-festatività come donazione di un evento pre-soggettivo. L’uomoin quanto esserci è il Ci, il luogo di questa manifestatività, manon è colui che la costituisce o padroneggia, perché l’eventoaccade all’uomo prima di ogni sua iniziativa e l’uomo stesso,come vedremo tra breve, appartiene all’evento in cui divieneciò che è. Ma concepire il fenomeno in termini evenemenzialisignifica anche indicare il cuore di nascondimento e sottrazioneinsito in ogni manifestazione, l’impossibilità di portare l’esseread un disvelamento completo o ad una «evidenza». È significa-tivo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confrontinuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamen-te di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono,ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché siaqualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi diciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso delrichiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, farvedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò cheè messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo allamanifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò cherende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parla-re qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzituttodello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa. È inquanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra voltaguardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamocoinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.

Le diverse linee di questo pensiero dell’evento della feno-menalità saranno raccolte in Tempo ed essere nella problematica

. SEM, p. .. Cfr. M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge, HGA ; trad. it. di G.

Gurisatti, a cura di F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano , pp.-.

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della donazione, trovandovi la loro formulazione più incisiva:non bisogna affermare «l’essere è» (perché l’essere non è unente), ma piuttosto Es gibt Sein, «si dà essere», o, più letteral-mente, «esso dà/dona essere», dove l’«Esso» che dona l’essereè individuato nell’Ereignis. Dare, datità, donazione sono stateda sempre parole-chiave della fenomenologia, il cui obiettivoè proprio quello di descrivere e interpretare la datità dei feno-meni. Riprendendo questo lessico, Heidegger invita a pensareciò che è già «dato» a partire dal suo «es gibt», ossia a pensa-re il movimento della donazione come più originario di ognifenomeno dato in quanto è l’evento della sua manifestatività.L’essere stesso non è altro che il frutto di una donazione: «perpensare propriamente l’essere bisogna abbandonare l’essereinteso come il fondamento dell’ente a favore del dare nasco-stamente in gioco nel disvelamento, cioè a favore dell’“Essodà”. L’essere, inteso come dono (Gabe) da parte di questo “Essodà”, è dovuto al dare e si colloca in esso. [. . . ] in quanto dono diquesto disvelamento, esso resta trattenuto nel dare». L’Ereignisnon è un’entità misteriosa al di là dell’Es gibt, ma non è altroche questo movimento di donazione che si ritrae lasciando ma-nifestarsi il proprio dono. Pensare l’essere a partire dall’es gibtsignifica abbandonare ogni schema metafisico, fondazionaleo di riconduzione al soggetto: l’essere è il frutto di un even-to di donazione, senza che ci sia «qualcosa» o «qualcuno» che

. Cfr. TE, pp. e sgg., e sgg.. Pensiamo al famoso «principio di tutti i principi» enunciato da Husserl al §

di Idee I: «tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” [Intuition] (per così dire incarne e ossa) è da assumere come esso si dà [es sich gibt], ma anche soltanto nei limitiin cui si dà» (E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischenPhilosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, HusserlianaBd. III/ e III/, hrsg. von K. Schuhmann, Martinus Nijhoff, Den Haag ; trad.it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libroprimo: introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino , pp. -).Lo stesso Heidegger, in uno dei suoi primi corsi friburghesi, indica la centralitàdella questione e il suo legame essenziale con la fenomenologia: «che cosa significa“dato”, “datità”, questa parola magica della fenomenologia e la “pietra d’inciampo”per gli altri?» (M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie, HGA , p. ).

. TE, p. .

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doni, perché l’evento è un termine ultimo non ulteriormentericonducibile ad altro. E se l’Ereignis è evento appropriante(er-eignende), che fa accadere qualcosa assegnandolo al suo «pro-prio», l’appropriazione è qui inseparabile da un’espropriazione:«nel far avvenire (Ereignen) si annuncia come sua propria pecu-liarità il fatto di sottrarre ciò che gli è proprio (das Eigenste) al-l’illimitato disvelamento. Pensato partendo dal far avvenire, ciòsignifica: esso enteignet sich, “si espropria” di se stesso [. . . ]. Al-l’evento come tale appartiene l’Enteignis, l’“espropriazione”» .L’evento si espropria, perché si ritrae nel mentre dona quel chefa accadere e sospende così tutta la manifestazione al rovescioabissale di questa ritrazione inappropriabile.

. L’evento e la coappartenenza essere-uomo

Se si tratta di pensare il movimento della donazione che è piùoriginario di ogni fenomeno (ente) già dato, questo movimentoo evento coinvolge anche colui al quale gli enti si manifestano,ossia l’uomo. Il rapporto tra uomo ed essere – che è e resta, inmodi diversi, il perno del pensiero heideggeriano in tutte le suefasi – viene infatti ripensato nella sua forma più radicale proprioa partire dall’Ereignis. È in particolare in Identità e differenza cheHeidegger tematizza esplicitamente l’Ereignis come l’eventodella coappartenenza (Zusammengehörigkeit) tra uomo ed essere,ovvero come l’ambito «attraverso il quale uomo ed essere siraggiungono a vicenda nella loro essenza» e così «ottengonociò che per loro è essenziale».

Il segno distintivo dell’uomo consiste nel fatto che egliè aperto all’essere, è in un «rapporto di corrispondenza» edi ascolto con esso, «poiché ad esso è trasferita la sua pro-

. Cfr. CVL, p. .. TE, p. .. ID, p. .

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prietà (übereignet)». Dall’altra parte, l’essere in quanto esser-presente è in un riferimento essenziale all’uomo, perché so-lo quest’ultimo lascia che l’essere si manifesti e venga allapresenza:

tale presenza (An-wesen) ha bisogno (braucht) di una radura luminosa(Lichtung) e così, con questo bisogno (Brauchen), la sua proprietà restatrasferita (übereignet) all’essenza dell’uomo. Questo non vuole affattodire che l’essere sia primariamente posto dall’uomo e soltanto da lui.Al contrario appare chiaro come uomo ed essere siano traspropriati(übereignet) l’uno all’altro, appartengano l’uno all’altro.

Questa appartenenza reciproca non è una relazione che siaggiunga a posteriori a due termini (l’uomo e l’essere) già sus-sistenti, ma il loro legame originario e costituente. L’Er-eignis,evento di appropriazione, è l’accadere di questa originaria coap-partenenza tra essere e uomo in quanto loro co-appropriazionereciproca: uomo ed essere si co-appartengono in quanto «l’uo-mo [è] traspropriato (vereignet) all’essere, mentre l’essere [è]appropriato (zugeeignet) all’essenza umana»; si tratta quindi dipensare «questo fare proprio (Eignen) in cui uomo ed esseresono fatti proprii (ge-eignet) l’uno dell’altro, di tornare cioè aquello che noi chiamiamo Ereignis, l’evento». L’evento è il«medio» che fa accadere i due poli nella loro coappartenen-za conducendoli così al loro proprio: fa accadere l’uomo nelsuo proprio, ma il proprio dell’uomo consiste nell’essere tra-spropriato all’essere; fa accadere l’essere nel suo proprio, mail proprio dell’essere consiste nell’essere appropriato all’uomo.L’evento è l’accadere di questa reciproca appropriazione, per laquale ciascuno dei due è condotto al suo proprio solo essendofuori di sé nell’altro e questo perché, più precisamente, appar-tengono entrambi a un ambito più originario, l’Ereignis, cheregge il loro rapporto.

. ID, p. .. Ibidem.. ID, p. .

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Esperienza o tautologia?

Dal momento che l’essere non è un ente, ma l’evento delvenire alla presenza degli enti, l’essere ha bisogno dell’uomoper poter manifestarsi e consiste interamente in questo averbisogno e in questo darsi all’uomo. D’altra parte il carattereparadossale di questo rapporto è quello per cui l’essere, puravendo bisogno dell’uomo, non diventa per questo dipendenteda esso, perché l’uomo a sua volta ha il suo tratto fondamen-tale nell’appartenenza all’essere, in virtù della quale soltantol’uomo riceve la sua essenza originaria, prima di ogni deter-minazione successiva e metafisica come «animale razionale».Si tratta dunque di cogliere questo puro evento relazionale,«l’evento-appropriazione, quel rimbalzo di Essere ed esser-ci incui entrambi non sono due poli sussistenti, bensì la pura oscilla-zione stessa». Se l’essere ha bisogno dell’uomo il quale tuttaviaappartiene all’essere, «questo rimbalzo (Gegenschwung) di aver bi-sogno e appartenere costituisce l’Essere come evento» e quel chebisogna pensare ed esperire è «l’oscillazione (Schwingung) diquesto rimbalzo».

L’evento, «il rapporto di tutti i rapporti», è la pura relazionedi oscillazione e appropriazione reciproca tra uomo ed essere(così come tra essere e tempo, tra disvelatezza e nascondimento).L’analisi del rapporto uomo-essere ha specificato questo carat-tere relazionale dell’evento e ha fatto emergere in che sensodebba essere inteso il nesso tra l’Ereignis e l’ambito semanticodi eigen, «proprio»: l’evento è ciò che fa accadere qualcosa eche facendolo accadere lo conduce al suo proprio; l’accaderedell’evento è un «far avvenire» transitivo che è un processo di«propriazione». Ma il punto sta evidentemente nel cogliere la

. Cfr. CF, p. .. CF, p. , trad. mod.. CF, p. . Heidegger indica nel linguaggio l’ambito essenziale in cui l’evento

si dispiega e in cui quindi ha luogo l’appropriazione reciproca tra essere e uomo.Non possiamo approfondire in questa sede il rapporto tra evento e linguaggio, per ilquale rimandiamo in particolare al testo Il cammino verso il linguaggio, in CVL, pp.-.

. CVL, p. .

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concezione che Heidegger delinea del proprio: contrariamen-te all’impostazione dell’ontologia tradizionale, il proprio nonè un’essenza identitaria chiusa, la proprietà essenziale di unasostanza immanente ad essa, perché il proprio dell’uomo è diessere traspropriato all’essere e viceversa, e questo perché en-trambi sono «appropriati» a partire dall’evento. Heidegger attuadunque una doppia dislocazione della concezione tradizionaledel proprio. In primo luogo, opera un’identificazione del proprioe della provenienza: indagare il proprio di una cosa significa ri-salire alla sua provenienza, alla regione più originaria da cuiuna cosa proviene, a partire da cui essa perviene a sé e in cuiessa è mantenuta. In secondo luogo, Heidegger lega in modoinscindibile appropriazione ed espropriazione: non c’è proprio senon in un movimento di traspropriazione ed espropriazione,ovvero, come dirà Derrida, di «ex-appropriazione». Se l’uomoè fatto avvenire nel suo proprio solo in quanto è traspropriatoall’essere nell’evento, si può dire che il proprio dell’uomo non èdi proprietà dell’uomo. E questo movimento di espropriazione,come abbiamo già visto, è al cuore dell’evento stesso: l’Ereignisè Enteignis, si espropria (si ritrae nel mentre dona) ed espropria(conduce al suo proprio quel che fa accadere solo in un rapportodi traspropriazione reciproca con il suo termine correlativo).

Per quanto terminologia, concettualità e contesto teoricosiano profondamente mutati, anche in questa problematica del-la coappartenenza uomo-essere si può rintracciare l’eredità e latrasformazione di un punto di partenza fenomenologico. Lascoperta decisiva e il tema fondamentale della fenomenologiaè stata l’intenzionalità, intesa nel suo senso più ampio comecostitutiva relazione apriori tra l’io e il mondo: sintetizzandoil senso del proprio cammino una volta giunto al termine diesso, Husserl, nella Crisi delle scienze europee, afferma che pen-sare «l’a-priori universale della correlazione» è stato il compitoessenziale della sua fenomenologia. Heidegger ha sempre ri-

. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentalePhänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Husserliana Bd.

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conosciuto proprio nell’intenzionalità la scoperta fondamentaledella fenomenologia e già negli anni Venti affermava – seppurin un intento polemico anche nei confronti dello stesso Hus-serl, che sarebbe rimasto al di qua delle potenzialità racchiusenella sua idea – che il pensiero dell’intenzionalità avrebbe do-vuto condurre a «rivoluzionare l’intero concetto dell’uomo»

rispetto a tutte le immagini tradizionali. Attraverso quel cheè stato chiamato di volta in volta esistenza, essere-nel-mondo,trascendenza dell’esserci, estasi, insistenza nella radura o nel-la verità dell’essere, Heidegger non ha cessato di rimeditareil nucleo del proprio pensiero approfondendo l’«a-priori uni-versale della correlazione»: l’uomo non si caratterizza per ilpossesso di questa o quella proprietà particolare, ma per il suoesser-fuori-di-sé come apertura alla manifestatività; l’essere asua volta non è altro dal movimento (ritraentesi) del venire allapresenza e quindi alla manifestatività per l’uomo. Nell’eventodella co-appartenenza e co-appropriazione di uomo ed essere sipuò allora vedere un’ultima radicalizzazione di quel punto di par-tenza rappresentato dal confronto con l’intenzionalità, rimeditata insenso ontologico ed evenemenziale: si tratta di pensare l’eventostesso della correlazione, che fa accadere i suoi poli e rimanel’ambito in cui questi si coappartengono nella loro oscillazione.

VI, hrsg. von W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag ; trad. it. di E. Filippini,La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net, Milano , p. ,n. .

. M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz,HGA ; trad. it. di G. Moretto, Principi metafisici della logica, il melangolo, Genova, p. .

. Ancora nel suo ultimo seminario, tenuto a Zähringen nel , Heidegger siconfronta con la fenomenologia soffermandosi sulle stesse questioni che già neglianni Venti indicava come fondamentali: l’intenzionalità e l’intuizione categoriale.Sull’intenzionalità cfr. SEM, pp. -, dove Heidegger ribadisce che l’intenzionalitàdella coscienza si fonda sull’apertura estatica dell’esserci come ambito più originario,presentando tutta l’analisi di quest’ultimo come un approfondimento dell’«impulso[. . . ] ricevuto dal concetto husserliano di intenzionalità» (p. ); Heidegger stabiliscecosì una linea di collegamento tra intenzionalità, esserci, estasi, ma anche «insistenzanella radura» (cfr. ibidem), riformulazione che compare solo nella fase successiva allasvolta.

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. Evento, «es gibt», storia, tempo

Possiamo ora volgerci alla conferenza del , Tempo ed es-sere, di cui abbiamo già richiamato alcuni elementi. La confe-renza esordisce ricordando che l’essere non è un ente e quindia rigore non si potrà affermare «l’essere è», dal momento chelo «è» è predicato piuttosto degli enti. Il tempo a sua volta inqualche modo «è», si dispiega, e tuttavia non è a sua volta qual-cosa di temporale e di essente, non è un ente situato nel tempo.Anziché «l’essere è (ist)» e «il tempo è», bisognerà allora di-re «es gibt Sein», «es gibt Zeit»: questi sono gli «enunciati» dacui la conferenza prende le mosse e Heidegger assume questeespressioni nel loro significato letterale come «si dà essere», «sidà tempo» o, ancora più precisamente, «esso dà/dona essere»,«esso dà/dona tempo». Il percorso di Heidegger consiste nel-l’interrogarsi dapprima sulla modalità di donazione dell’essere,poi sulla modalità di donazione del tempo, per volgersi infineall’«Es», all’«Esso» che dona essere e tempo.

La modalità di donazione dell’essere è quella del «destina-re» (Schicken) storico. La manifestatività dell’essere, proprio inquanto nesso di disvelatezza e nascondimento, non è staticae immutabile, ma è intrinsecamente storica. Questo legameessenziale dell’evento con la questione della storicità è asso-lutamente caratteristica del pensiero di Heidegger, il cui ge-sto audace è consistito proprio nel porre come indissociabilila domanda sull’essere e la storicità, ricomprendendole l’unaattraverso l’altra. Si tratta di riuscire a rendere conto di una sto-ricità radicale della questione ontologica sottraendo, tuttavia,questa storicità a ogni storicismo meramente empirico e a ognistoriografismo: bisogna elaborare una concezione radicalmen-te storica dell’essere stesso e una concezione ontologica (nonsemplicemente antropologica, culturale o fattuale) della storici-

. Ricordiamo che l’espressione tedesca «es gibt» equivale normalmente all’ita-liano «c’è», ma letteralmente può essere letta come «esso dà». Il verbo geben significainfatti «dare» o «donare».

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tà, pensare l’essere nel suo rapporto essenziale alla storia e lastoria a partire dal suo riferimento all’essere. Questo implicauno scarto decisivo rispetto ad altre impostazioni del problema:prima di ogni storiografia e di ogni «conoscenza oggettiva»della storia, così come prima di ogni indagine sui singoli fattistorici, si tratta di pensare l’evento dell’essere come apertura dellastoria, come quell’ambito o inizio (Anfang) non-cronologico incui possono accadere i singoli eventi storici.

Questo sforzo ha il suo culmine con l’elaborazione, a par-tire dagli anni Trenta, di quella che Heidegger chiama «storiadell’essere». L’espressione deve essere intesa qui nel suo sensopiù radicale, perché essa non indica «né la storia dell’uomo edi una umanità né la storia del riferimento umano all’ente eall’essere»: «la storia dell’essere è l’essere stesso e soltanto es-so». Pensare l’essere come evento significa dunque pensarnela storicità ed «epocalità». «Storia dell’essere» e «destino dell’es-sere» designano, infatti, la donazione stessa dell’essere, il suoaccadere storico, il movimento con cui l’essere si dà e si sottraeepocalmente:

Il dare che, dando soltanto il suo dono, trattiene e sottrae se stesso,noi lo chiamiamo il destinare (das Schicken). [. . . ] Storia dell’essere(Seinsgeschichte) significa destino dell’essere (Geschick von Sein), nellecui destinazioni (Schickungen) tanto il destinare quanto Chi (das Es)destina, col loro annunciarsi, nel contempo si astengono. Astenersi sidice in greco epoché. Da qui deriva l’espressione «epoche del destinodell’essere». In tale espressione, «epoca» non indica un periodo ditempo nell’accadere inteso come un succedersi di accadimenti, bensìil tratto fondamentale che caratterizza il destinare come un astenersiche trattiene di volta in volta se stesso a favore della percepibilità deldono, cioè dell’essere.

. Su questa doppia e incrociata esigenza cfr. CF, pp. -.. Cfr. U. Ugazio, Il ritorno del possibile. Studi su Heidegger e la storia della

metafisica, Zamorani editore, Torino, , p. .. M. Heidegger, Nietzsche II, HGA .; trad. it. di F. Volpi, in M. Heidegger,

Nietzsche, Adelphi, Milano , p. .. TE, p. .

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Nell’accadere storico dell’essere ciò che rimane in primopiano e «visibile» è solo ciò che è donato (l’epoca storica coni suoi significati), mentre il donare stesso si ritrae. Questo si-gnifica che l’essere si dà sempre in una certa modalità storica,ma al tempo stesso nessuna epoca storica può essere la mani-festazione completa e definitiva dell’essere, non perché resti«qualcosa» di non-conosciuto dell’essere che potrebbe essereportato successivamente a manifestazione, ma perché l’even-to di un’epoca storica si sottrae a quest’epoca stessa, rimane,per così dire, come il suo «punto cieco». Poiché l’essere comeevento non è un ente, non c’è «qualcosa» di sovra-storico cherimanga nascosto al di fuori delle diverse destinazioni storiche,se non questo stesso movimento appropriante ed espropriante.L’essere è dunque il proprio accadere storico e la storicità, a suavolta, ha un carattere evenemenziale, perché si radica nell’even-to: «l’Essere in quanto evento-appropriazione è la storia (dasSeyn als Er-eignis ist die Geschichte)».

In tutte le sue diverse configurazioni storiche nel corsodella metafisica l’essere ha mantenuto secondo Heidegger unsenso fondamentale, che è stato per così dire lo spazio di gioco,l’invio destinale iniziale in cui si sono potute dispiegare le suedifferenti figure: «“essere” vuol dire, dagli albori del pensierooccidentale-europeo fino a oggi, “essere presente” (Anwesen)».Se essere ha sempre significato per l’Occidente essere-presenteo venire-alla-presenza, esso è determinato in qualche modoin riferimento al tempo, secondo l’intuizione che Heideggeraveva elaborato fin dagli anni Venti.

La modalità di donazione del tempo è indicata da Heideggercon il termine Reichen, tradotto con «arrecare» od «offrire». Iltempo originario non è né la serie di ora lineari del temponaturale in cui solo l’«ora» presente è realmente, né un tem-po vissuto della coscienza. L’esser-stato e l’avvenire non sonosemplicemente qualcosa che non è (non più o non ancora),

. CF, p. .. TE, p. .

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ma sono a loro volta modalità dell’essere-presente, del venire-alla-presenza per l’uomo e di riguardarlo, distinte da ciò cheè attualmente presente. Il tempo originario è allora il giocoreciproco, circolare e differenziale delle sue tre dimensioni chepassano l’una nell’altra e si offrono l’una all’altra determinan-dosi reciprocamente: avvenire ed esser-stato rimandano l’unoall’altro e dal gioco dei due scaturisce il presente. Ciascunadelle tre dimensioni offre se stessa alle altre e in questo modo sidischiude l’«aperto» dell’essere: il tempo apre dunque la radura(Lichtung) in cui si dispiega concretamente il darsi dell’esse-re come venire-alla-presenza, dove la presenza scaturisce dalgioco reciproco delle dimensioni temporali e quindi dal ruolocostitutivo dell’assenza. Ma se l’unità delle tre dimensioni tem-porali riposa «sul reciproco gioco di passaggi dall’una all’altra»,questo gioco non può essere messo in conto a nessuna delletre dimensioni prese singolarmente; perché si possa dispiegarequesto gioco reciproco delle tre dimensioni temporali, ci deveessere uno spazio-di-gioco, un ambito in cui può aver luogoquesto passaggio. È quella che Heidegger indica come «quartadimensione»: «il tempo autentico è quadridimensionale» e laquarta dimensione è in realtà, per importanza, la prima, perchéè l’«autentico offrire» che dona il tempo. La quarta dimensio-ne è lo spazio di gioco in cui accade il rimando e il passaggioreciproco di presente, esser-stato e avvenire, e che in questomodo «li tiene l’uno distinto dall’altro e quindi l’uno in quellavicinanza all’altro» che garantisce l’unità della temporalizza-zione: la quarta dimensione raccoglie e distingue le altre tre,impedisce che si fondano e collassino l’una sull’altra, ma in-sieme le mantiene nel loro legame costitutivo. Avvicinandole tre dimensioni al tempo stesso le allontana, determinandoquell’assenza e quella sottrazione che sono costitutive anchedella donazione del tempo.

. Cfr. TE, p. .. Tutte le citazioni, TE, p. .. TE, p. .

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L’essere si determina temporalmente come essere-presente,accadendo nella radura aperta dal tempo; il gioco delle di-mensioni del tempo si dispiega concretamente come venire-alla-presenza dell’essere nel suo intreccio con l’assenza, ossianell’aprire quella radura in cui può aver luogo l’essere-presentenelle sue differenti dimensioni. Bisogna prestare qui attenzioneal duplice regime di donazione che Heidegger mette in lucee che prepara il passo successivo della conferenza: l’esseredona le sue diverse figure storiche, lascia essere l’ente nellamanifestatività propria delle differenti epoche, ma il fatto stessodel destino dell’essere è il frutto di una donazione; il temposi dona e si dispiega nelle sue tre dimensioni, ma questo è asua volta il frutto di una donazione a partire dalla quarta dimen-sione. Essere e tempo sono riferiti l’uno all’altro ed entrambisono il frutto di una donazione non ulteriormente fondabileche li accorda sottraendosi e in virtù della quale tanto l’esserequanto il tempo rimandano al di là di sé. L’essere è appropriatoal tempo, il tempo è appropriato all’essere, i due si coapparten-gono a partire da ciò che li dona appropriandoli l’uno all’altro.L’Esso che dona essere e tempo è l’Ereignis, «che non solo portaentrambe le cose al loro carattere proprio, ma le custodiscenel loro coappartenersi e le mantiene in esso»: l’evento è il rap-porto originario che «fa avvenire (ereignet) essere e tempo sullabase del rapporto che è loro proprio». L’Ereignis dona essere etempo facendoli accadere nella loro appropriazione reciprocae nella loro coappartenenza, per la quale l’essere è determinatotemporalmente e il tempo si dispiega come presenza-assenzadell’essere. E se l’Ereignis è come tale Enteignis, espropriazione,esso è anche la fonte del sottrarsi dell’essere nel suo destino edel rifiutarsi del tempo rispetto al presente.

. Cfr. M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, prefazione di E. Lévinas,intr. di M. Marassi, trad. it. di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano , pp. e sgg., e sgg.

. TE, p. .

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. L’evento al di là dell’essere

Riformulando così, in questo testo densissimo, punto di arrivodi un percorso di oltre quattro decenni, molti dei motivi chepercorrevano le sue meditazioni precedenti, Heidegger compietuttavia anche un passo ulteriore, che riconfigura lo statuto dellaquestione dell’evento – un passo che si preparava da tempo eche ora viene affermato esplicitamente, anche se enigmatica-mente quanto al suo senso ultimo. Se l’Ereignis, in quanto èquel che dona essere e tempo, rappresenta il termine ultimoa cui la conferenza giunge, ciò significa che questo termine ul-timo non è più l’essere, che la vera Sache del pensiero non è piùquella questione dell’essere che Heidegger per lungo tempoha rivendicato come la propria questione e come la questionedel pensiero. Se l’essere è il frutto di una donazione nell’evento,per cui pensare l’essere nel suo proprio significa in qualche mo-do distogliere lo sguardo da esso, in quanto esso riceve il suoproprio da altro da sé, la conclusione esplicita che Heidegger netrae è che «l’essere svanisce nell’evento» e che «per quel pensieroche si raccoglie nell’evento [. . . ] l’essere, che riposa sul destino,non è più ciò che propriamente è da-pensare». Dal momentoche, come abbiamo visto, il proprio si identifica con la prove-nienza, pensare l’essere nel suo proprio significherà pensarnela provenienza dalla donazione dell’evento e dissolvere con ciòla questione dell’essere come questione ultima.

Heidegger mette in guardia, infatti, da un possibile equivo-co. L’affermazione della conferenza secondo la quale si trattadi pensare «l’essere in quanto evento (als Ereignis)» non de-ve essere intesa nel senso per cui l’evento sarebbe una nuovaconfigurazione storico-epocale dell’essere: in questa ipotesi

. TE, p. , corsivo nostro.. TE, p. .. Per l’identificazione del proprio e della provenienza, che abbiamo richiamato

in precedenza, e per le sue conseguenze sul rapporto essere-evento abbiamo presospunto dalle lucide analisi di M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, cit., pp. esgg., testo a cui rimandiamo in generale per una lettura dettagliata di Tempo ed essere.

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nella storia della metafisica all’essere come idea, come sostan-za, come essere-creato, come oggetto, ecc., succederebbe orala figura «essere come evento»; l’evento sarebbe così pensatocome «una modalità dell’essere» e «indicherebbe una nuovainterpretazione dell’“essere”, la quale [. . . ] figurerebbe comeuna prosecuzione della metafisica». Se si pensa l’essere a par-tire dalla donazione in cui accade ed è mantenuto, «essere inquanto evento» indica non che l’evento è una figura dell’essere,ma che l’essere è fatto avvenire nell’evento e mantenuto inquesto: l’essere appartiene a un ambito più profondo e unavolta compreso nella sua provenienza «svanisce nell’evento».L’evento non è una nuova figura storica dell’essere, ma il movi-mento di donazione-sottrazione che stava al fondo del destinostorico di tutte le figure metafisiche dell’essere. Se con l’eventonon siamo più semplicemente presi all’interno del gioco delleepoche dell’essere, ma abbiamo compreso la dinamica stessa diquesto gioco, l’altra conclusione che Heidegger coerentementetrae è che «la storia dell’essere è alla fine».

Si può allora comprendere lo statuto paradossale dell’Ereignisnel percorso di Heidegger: pensato come «risposta» alla que-stione dell’essere, esso giunge a superarla e a delimitarla; intro-dotto come ciò che deve rendere conto della storia dell’essere,conduce questa storia alla sua fine. L’Ereignis da un lato è untermine-chiave di Heidegger in quanto risposta coerente allequestioni che si era posto, dall’altro lato è un pensiero-limite: illimite estremo a cui Heidegger si spinge nella sua ricerca e iltema che conduce il pensiero stesso di Heidegger al suo limite.Negli ultimi anni del suo percorso Heidegger giunge a delimi-tare il ruolo centrale della questione sull’essere, mostrando viavia la sua perplessità e il suo imbarazzo verso questo termi-ne. Se Tempo ed essere è il documento più esplicito e decisivoin questo senso, altri testi lo testimoniano. In Zur Seinsfrage(), dopo aver ricordato il legame essenziale dell’essere e del-

. TE, p. .. TE, p. , corsivo nostro.

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l’uomo, ma anche gli inconvenienti in cui cade il pensiero perdover continuamente precisare che il legame con l’uomo nonè un’aggiunta estrinseca all’essere e viceversa, Heidegger affer-ma: «dovremmo quindi lasciare decisamente cadere la parola“essere”, che isola e che separa, così come la parola “l’uomo”.La questione della relazione tra i due si è rivelata insufficien-te», perché, dicendo che l’essere e l’uomo si co-appartengono,«continuiamo a lasciar essere l’uno e l’altro per sé». Lo «stesso»che domina di volta in volta il rapporto di essere e uomo comecoappartenenza «non è più affatto “essere”». Se l’essere si ri-solve interamente nella sua dedizione all’uomo, e se bisognatuttavia superare l’idea di separazione che il termine «essere»comporta, «lo sguardo del pensiero che vede già in questo am-bito può ormai scrivere l’“essere” soltanto nel modo seguente»:«l’essere». L’uomo a sua volta è «memoria dell’essere»: «ciòsignifica che l’essere umano fa parte di ciò che, nella barraturaa croce dell’essere, reclama il pensiero in una ingiunzione piùiniziale». A fianco di questo passo Heidegger ha aggiunto laglossa: «evento».

Lo svanire dell’essere nell’evento dipende da uno sdoppia-mento essenziale nella dinamica della donazione, che si riflettenel duplice modo in cui può essere interpretata l’espressione «la-sciar essere presente». Questa può essere intesa come «lasciareessere presente» e si riferisce allora all’ente presente, che è lascia-to essere, cioè liberato nell’aperto, dall’essere. L’attenzione èqui rivolta all’essere dell’ente, alla presenza di ciò che è presen-te, nelle sue diverse figure metafisiche; si tratta della differenzaontologica, la quale appare ora come la «verità» della metafisi-ca più di quanto non sia il suo oltrepassamento. L’espressionepuò altrimenti essere letta come «lasciare essere presente», «inriferimento all’evento»: l’accento cade qui sul puro «lasciare»

. Tutte le citazioni, M. Heidegger, La questione dell’essere, in Id., Segnavia, cit.,p. .

. Ivi, p. .. Ibidem.

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e si riferisce allora all’essere stesso, che è donato/destinatodall’evento. L’essere lascia essere l’ente solo in quanto è a suavolta «lasciato essere» in un movimento più profondo, quellodell’evento che lo dona e che non è più dell’ordine dell’essere:«quando l’accentazione è: lasciar esser-presente (anwesen las-sen), non c’è più spazio nemmeno per il nome essere. Il lasciareè allora il puro dare (geben), che rinvia esso stesso all’esso (es)che dà, e che è compreso come l’evento».

L’evento non è più comprensibile all’interno di una qual-sivoglia ontologia o di un pensiero dell’essere, metafisico onon-metafisico. Quale ambito di pensiero si apre allora, unavolta che ci si sia collocati nell’evento? Possiamo qui soltantodelineare i termini della questione, nella consapevolezza che,malgrado la presenza di alcune indicazioni di Heidegger, ladomanda è destinata a restare aperta e forse indecidibile se sirimane strettamente all’interno dell’orizzonte heideggeriano.

. La fine della storia dell’essere

Questa problematica può essere riformulata a proposito dellaquestione della storia, che è sempre stata inseparabile dal pen-siero dell’essere. Affermando che con l’Ereignis il pensiero nonsi trova di fronte all’ultima figura dell’essere ma, in un certosenso, alla «verità» di tutte le figure storiche dell’essere, “a Quel-lo che ha destinato a lui le diverse forme epocali dell’essere”,Heidegger giunge alla conclusione che «la storia dell’essere èalla fine». Interpretando unitariamente la storia della metafisicae dell’essere, esibendola come tale, Heidegger la «totalizza», larimette a se stessa e solleva così la domanda su quale altra confi-gurazione storica si apra nella contemporaneità: l’Ereignis aprecioè la prospettiva di un’altra storia, di una storia che dovrebbe

. Cfr. TE, pp. -.. SEM, p. , trad. leggermente modificata.. TE, p. .

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essere «altra» non solo nel suo contenuto, ma nella sua «forma»stessa di storia, per quanto questa distinzione possa qui valere.

Non si tratta evidentemente di una fine della storia in sensohegeliano (anche se il confine tra le due posizioni non è nettoe lineare): se l’espropriazione è costitutiva dell’evento stesso,non si dà qui né sapere assoluto né manifestazione piena edefinitiva dell’essere nella presenza. Se la metafisica è statacaratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò chedestina l’essere, quel che viene meno ora, in un certo senso, èl’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento:

il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale pertanto alla finedi questa storia della sottrazione. [. . . ] Ma il velamento, il qualeappartiene alla metafisica come suo limite, deve essere attribuito inproprietà all’evento stesso. Ciò vuol dire che la sottrazione [. . . ] simostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il qualecontinua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero vi presta attenzione.[. . . ] L’evento è in se stesso una Enteignis, «espropriazione» [. . . ] quelche al pensiero si mostra come ciò che è da-pensare è prima di tutto lamodalità di mobilità che è più propria dell’evento, ossia la sua dedizionenel mentre si sottrae. Dicendo questo, però, si dice anche che per ilpensiero che si raccoglie nell’evento la storia dell’essere, in quantoè ciò che è da-pensare, giunge alla sua fine, per quanto possa bencontinuare ancora a esistere la metafisica.

Il pensiero dell’evento non rimane più semplicemente presoall’interno del gioco epocale, nell’abbaglio della propria epocastorica con i suoi significati, e nell’oblio correlativo di quel chein questa epoca si sottrae, dell’evento di quei significati. Il suocompito sarebbe quello di pensare come tale la dinamica didonazione-sottrazione che fa accadere la storia e ogni epoca,per potersi muovere consapevolmente in essa e mantenersiesposto all’espropriazione.

Ma il fatto che con il pensiero dell’evento si esaurisca la que-stione e la storia dell’essere non concerne soltanto un’astrattaspeculazione filosofica. Si tratta piuttosto di un sommovimento

. TE, pp. -, corsivi nostri.

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Roberto Terzi

di tutta quanta la nostra storia europeo-occidentale, che, perHeidegger, è stata essenzialmente una storia «greca», perchégreca era la questione dell’essere che l’ha inaugurata. Se, comeè noto, buona parte della meditazione heideggeriana è consisti-ta in un confronto serrato proprio con la filosofia greca, bisognatuttavia ben comprendere il senso e il fine ultimo di questo con-fronto – il che contribuisce anche a chiarire ulteriormente lostatuto dell’Ereignis. È stato lo stesso Heidegger a fornire un’in-dicazione decisiva a questo proposito: «il compito che si poneal nostro pensiero odierno è quello di pensare ciò che è statopensato in modo greco ancora più grecamente»; si tratta di pen-sare l’impensato del pensiero greco volgendo lo sguardo allasua provenienza, ma ciò significa che «questo sguardo (Blick)è a suo modo greco ma, considerato in rapporto a ciò che èguardato (hinsichtlich des Erblickten), non è più greco e non losarà mai più». L’Ereignis è precisamente quel che si colloca «al dilà dei Greci», ciò che rompe con il privilegio storico-epocale delgreco: «non si riuscirà a pensare l’evento con i concetti di esseree di storia dell’essere; tanto meno con l’aiuto del greco (si trattaprecisamente di “andare oltre” esso). [. . . ] Con l’evento non sipensa più affatto in greco».

Quale sarà allora l’elemento e il linguaggio del pensierodell’evento, quale rapporto si instaura tra il logos greco e isuoi «altri» già-stati e a venire? Più in generale, quale storicità,

. CVL, pp. -, trad. mod.. SEM, p. .. Questa problematica richiederebbe allora di affrontare la questione del rap-

porto tra il pensiero heideggeriano dell’evento (proprio in quanto al di là dell’esseree dell’elemento greco), l’ebraismo e il cristianesimo. La questione è indagata rispet-tivamente dai testi di M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, intr.e trad. it. di M. Marassi, Vita e pensiero, Milano, , e di D. Franck, Heidegger etle christianisme. L’explication silencieuse, PUF, Paris, . Questi saggi hanno inol-tre il merito di sottolineare con lucidità l’articolazione fondamentale del pensieroheideggeriano che stiamo cercando di richiamare e che non è sempre mantenu-ta nella letteratura critica: il rapporto con i Greci (volto verso ciò che non è piùgreco); l’Ereignis come ambito irriducibile alla questione dell’essere, alla differenzaontologica, al greco; il legame di quest’ambito con la tematica del Geviert.

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quale configurazione storica e quale pensiero storico si apronodopo questa «fine», nel momento in cui il pensiero «si raccoglie(einkehrt) nell’Ereignis»?

. «Il pensiero che si raccoglie nell’evento»

«Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet» –vale a dire, secondo le diverse traduzioni e accentazioni possibi-li: l’evento avviene, l’evento fa avvenire, l’evento approprianteappropria. L’ambiguità di questa formula riflette quella del pen-siero dell’Ereignis. Dell’evento, punto estremo o limite dellaricerca heideggeriana dell’origine, resterebbe infine da dire solouna tautologia. Questa affermazione è l’espressione di un pen-siero che si trasforma in misticismo, affermando con una tauto-logia l’ineffabilità del proprio «oggetto»? O è l’indice del rigoree dell’estrema consapevolezza filosofica raggiunta da questopensiero? Quale prospettiva apre il pensiero dell’Ereignis? È unpunto di arrivo insuperabile o la base per una nuova parten-za? La risposta a queste domande non può essere semplice eunivoca.

Da una parte, Heidegger fornisce effettivamente alcune indi-cazioni essenziali sull’ambito di pensiero che si apre a partiredalla questione dell’Ereignis e, nel seminario che segue Tempoed essere, lo fa proprio discutendo la formula das Ereignis ereignete affrontando la questione che abbiamo posto: «che cos’è asse-gnato come compito da-pensare al pensiero raccolto nell’eventoe quale può essere la maniera adeguata del dire che vi corrispon-de?». La formula das Ereignis ereignet, «l’evento fa avvenire», hainnanzitutto la funzione di mettere in guardia «da come non vapensato l’evento», ma lascia aperto il problema di come pensar-lo «in positivo», problema che si riformula nella domanda: «che

. TE, p. .. TE, p. .. TE, p. .

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cosa fa avvenire l’evento? Che cos’è fatto avvenire dall’evento?E inoltre: il pensiero, che pensa l’evento, è il ripensare su ciòche è fatto avvenire dall’evento?». Che dell’evento si possa diresolo tautologicamente «l’evento fa avvenire», «non esclude dun-que, ma anzi include il fatto di pensare un’intera ricchezza diciò che è da-pensare nell’evento stesso». In questa direzione, ilpensiero dovrebbe dunque impegnarsi nell’esplorare il campodi ciò che l’evento fa avvenire, l’ambito di esperienza dischiusodall’evento. L’evento fa avvenire la coappartenenza tra essere euomo e dona l’essere stesso nella sua differenza dall’ente. Mase l’essere «svanisce» nell’Ereignis trovandovi il proprio luogo,anche la coappartenenza uomo-essere e la differenza ontolo-gica non dovrebbero mutarsi seguendo un percorso analogo?È quello che Heidegger riconosce in due passi del seminario.L’Ereignis fa avvenire la coappartenenza di essere e uomo, tut-tavia «in questo coappartenersi, i coappartenenti non sono piùallora l’essere e l’uomo, ma – in quanto fatti avvenire e appro-priati (als Ereignete) – sono i “mortali” nella Quadratura (Geviert)del mondo». Questa connessione è confermata dal passo sulladifferenza: «è necessario rimettere (erlassen) la differenza on-tologica al pensiero. Ora, dalla prospettiva dell’evento, invece,tale rapporto si mostra come il rapporto fra mondo e cosa –un rapporto che di primo acchito potrebbe in un certo qualmodo essere ancora concepito come il rapporto fra essere edente, ma concependolo così si perderebbe la sua peculiarità».Il riferimento è al tema del mondo in quanto Geviert, espostoin diversi testi della fine degli anni Quaranta e degli anni Cin-quanta: il mondo nel suo «mondeggiare» è dato dal reciprocorimando e dal gioco di specchi (Spiegel-Spiel) delle sue quattroregioni (terra e cielo, divini e mortali), che si dispiegano dina-micamente nella loro differenza a partire dall’unità della loro

. TE, pp. -, trad. mod.. TE, p. .. TE, p. , trad. mod.. TE, p. , trad. leggermente modificata.

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implicazione reciproca. Questo gioco, che disegna le diversefigure del mondo nel quale l’uomo abita in quanto mortale,implica inoltre il legame essenziale tra mondo e cosa: il mondoè dato dal dispiegamento delle quattro regioni, che si «raccol-gono» nelle singole cose; le cose ricevono la loro essenza solonella costellazione di rimandi della Quadratura, in un’implica-zione reciproca con il mondo, per cui le cose «custodiscono» e«generano» il mondo, il mondo «consente» le cose.

Questa connessione non è stata formulata da Heidegger sol-tanto tardivamente in questo seminario, ma è stata pensata findalla prima esposizione della tematica del Geviert, nel ciclo diconferenze Sguardo in ciò che è, tenuto a Brema nel . Il ciclosi apre con la conferenza La cosa, che descrive precisamente ilmondo come Quadratura. Nella terza conferenza, Il pericolo,Heidegger nota che il mondo così inteso è ciò che concede e sal-vaguarda tutto quel che ha luogo e «coseggia» in esso, dunquetutto ciò che è presente e assente, l’essere-presente stesso. Ilmondo si mostra allora come «la salvaguardia (Wahrnis) dell’es-senza dell’essere», «la verità (Wahrheit) dell’essenza dell’essere».Ma

in tal modo caratterizziamo ora il mondo dalla prospettiva che guar-da all’essere. Così rappresentato, il mondo è sottoposto all’essere,mentre in verità è l’essenza dell’essere a essere essenzialmente in baseal latente mondeggiare del mondo [glossa di Heidegger: “(evento)”]. Ilmondo non è un modo dell’essere a esso sottomesso. L’essere pos-siede come propria la sua essenza in base al mondeggiare del mondo. Ciòindica che il mondeggiare del mondo è il fare avvenire (Ereignen) in unsenso non ancora esperito della parola. Soltanto se il mondo avvieneespressamente l’essere – ma con esso anche il nulla – svanisce nelmondeggiare.

. Il tema del Geviert è esposto in diversi testi: cfr. in particolare le conferenzeBauen Wohnen Denken e Das Ding in M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, HGA ;trad. it. di G. Vattimo, Costruire abitare pensare e La cosa, in M. Heidegger, Saggi ediscorsi, Mursia, Milano , pp. - e pp. -; cfr. anche M. Heidegger, Illinguaggio e L’essenza del linguaggio, in CVL, pp. - e pp. -.

. M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, cit., pp. -, corsivi nostri.A nostra conoscenza questo testo del rappresenta la prima indicazione espli-

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Heidegger indica dunque nel mondo in quanto Geviert il«risultato» del pensiero dell’Ereignis, ciò che è «fatto avvenire»o «appropriato» dall’evento, la trasformazione che il pensierodell’Ereignis produce e il compito che così apre: il pensiero post-metafisico, che prende dimora nell’evento, è pensiero «cosmolo-gico» del dispiegarsi del mondo nel suo gioco e dell’abitare umano inesso. Con lo svanire dell’essere, anche i rapporti essere-uomoed essere-ente si dissolvono verso l’ambito della loro provenien-za: l’abitare dell’uomo in quanto mortale nel mondo, il quale asua volta si dà nel dispiegarsi della differenza tra mondo e cose.Il mondeggiare del mondo è l’ereignen, l’accadere dell’evento incui ogni cosa ha luogo venendo appropriata a se stessa nel men-tre viene espropriata verso tutte le altre e verso il mondo comeambito del loro comune accadere. Come Heidegger affermain una formula icastica, «l’evento della radura è il mondo (DasEreignis der Lichtung ist die Welt)»: il mondo non è una cosané la somma delle cose né una totalità statica, ma un evento,l’evento dell’apertura in cui possiamo incontrare le cose e farequalsiasi esperienza. La Quadratura non è un’ultima versioneper la questione dell’essere dopo le precedenti, così come l’es-sere non si dà o dispiega come Quadratura, ma piuttosto, aseconda della prospettiva, ha luogo in essa o vi svanisce. E forsebisognerà allora giungere a dire che la considerazione dellecose come enti da indagare nel loro essere sarebbe già il primoricoprimento, l’inizio della distruzione del mondo e delle cose.

Se da una parte Heidegger indica dunque nel mondo comeGeviert l’ambito aperto dall’Ereignis, dall’altra parte i suoi ulti-mi testi sembrano per lo più concentrarsi in una meditazione«preparatoria» dell’Ereignis «come tale»: la tautologia das Erei-gnis ereignet rischia allora di diventare la parola ultima, parola

cita di una delimitazione della questione dell’essere, del suo «svanire» nell’ambitodell’Ereignis, della connessione di questa trasformazione con il Geviert. All’internodi quel periodo quarantennale che è stato spesso indicato omogeneamente comeil «secondo Heidegger», bisognerebbe dunque introdurre un’ulteriore scansione,rappresentata proprio da questo nesso essere-Ereignis-Geviert.

. M. Heidegger, Aletheia, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. , trad. mod.

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che si cancella da sé nell’allusione a un’ineffabilità, nell’attesadi una svolta epocale e di un pensiero più adeguato all’eventostesso. Con un gesto di cui si possono ben comprendere leragioni teoriche, ma che non può infine non lasciare perplessi,Heidegger giunge a individuare nel pensiero tautologico «ilsenso originario della fenomenologia». Detto in altri termi-ni, nel corso degli anni l’Ereignis sembra irretirsi nella formadi un punto d’arrivo altro, finale, unico. Per quanto mostri diessere consapevole che l’evento non è un «oggetto inconoscibi-le», Heidegger sembra spesso descrivere l’Ereignis nei terminidi un’alterità radicalmente contrapposta all’ente, correndo ilrischio di «sostanzializzarlo» indirettamente e di cadere in unatteggiamento di pensiero che ricorda da vicino quello dellateologia negativa. Di fronte a questa alterità il pensiero sembragiunto alla sua stazione finale, non tanto nel senso che nonsi potrebbe più pensare, quanto perché l’Ereignis assume neltesto di Heidegger la forma più di un punto d’arrivo che di unabase per un nuovo sviluppo: Heidegger sembra «arrestarsi»nell’Ereignis. Malgrado le indicazioni sulla via «cosmologica»aperta dall’Ereignis/Geviert, resta difficile comprendere qualicompiti concreti per il pensiero si aprano dopo l’Ereignis e an-che quale importanza una simile questione abbia agli occhi diHeidegger: la questione «che cosa fa avvenire l’evento?» rischiadi rimanere subordinata al pensiero «negativo» della tautologia «dasEreignis ereignet», che lascerebbe il campo aperto per la svoltaa-venire.

I testi di Heidegger sembrano descrivere spesso la svoltanell’evento come qualcosa che resta ancora a-venire. Tutta l’e-laborazione dello stesso Heidegger a proposito dell’Ereignissarebbe formulata «solo in maniera provvisoria e per cenni an-ticipatori», perché «questo pensiero può essere soltanto unapreparazione al raccogliersi nell’evento», «può soltanto indicare,cioè dare indicazioni tali da permettere di indirizzare il raccoglier-

. SEM, p. .. TE, p. , corsivi nostri.

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si nella località dell’evento», nell’attesa che «l’Ereignis – certonessuno sa quando e come – [divenga] lo sguardo improvviso ilcui lampo illuminante porta a ciò che è». La svolta nell’eventoassume così una collocazione ambigua e paradossale: essa do-vrebbe essere «fuori» dal tempo (perché l’evento non è qualcosadi temporale), ma è anche rinviata all’avvenire. Può accaderequi e ora, nella fine del primo inizio della metafisica, ma restaanche da attendere in una trasformazione radicale, rispetto allaquale gli attuali tentativi sono insufficienti. Di fronte a questasvolta radicale a-venire il pensiero giunge ad un punto d’arrivo,perlomeno nel senso che ogni altro compito rischia di veniresubordinato o sospeso rispetto a questa «attesa».

In ultima analisi, non sempre i testi di Heidegger sembranocorrispondere alla consapevolezza dell’«immanenza» dell’even-to, per cui esso accade in ogni figura e in ogni dire, il qualecerto è per questo finito, ma non insufficiente o meramente «pre-paratorio» se compreso nel suo statuto. Bisognerebbe, in altritermini, seguire fino in fondo la via che lo stesso Heideggertraccia in altri passi, quando afferma che dell’evento non si dàuna teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’espe-rienza non è qualcosa di mistico [. . . ] ma è il raccogliersi cheporta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimentoche può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» ègià esso stesso esperienza dell’evento. Solo assumendo questaprospettiva diventerebbe peraltro possibile mettere a frutto lepotenzialità fenomenologiche dell’Ereignis e perseguire fino in

. TE, p. , corsivi nostri.. CVL, p. , primo corsivo nostro.. Il terreno su cui si muovono queste affermazioni è estremamente complesso:

sarebbe facile «confutare» le osservazioni svolte, richiamando molti passi in cui èevidente che Heidegger non considera l’Ereignis come un semplice evento futuro,che esso è «già qui» nell’età della tecnica la quale ne è la «prefigurazione», che lastoria è a più strati e l’Ereignis è «altro» solo nel senso che ne costituisce lo stratopiù profondo, che esso non viene sostanzializzato, ecc. Tutto questo è vero, ma sitratta di individuare la compresenza di strati e tendenze differenti nel testo di Heidegger,che coesistono senza fondersi e non sono puramente accidentali.

. TE, p. . Sul rapporto evento-esperienza cfr. anche TE, pp. -.

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fondo quel pensiero, evocato in precedenza, di un’evenemenzia-lità generale dei fenomeni: pensiero che richiede che l’Ereignisnon sia il termine unico, altro, finale e insieme a-venire diun’attesa epocale (rispetto al quale ogni altro «evento» diventasecondario), ma ciò che, essendo inscritto in tutta l’esperienza,conferisce a ogni fenomeno un carattere di evento.

Abbiamo voluto qui delineare i termini di questioni cherestano aperte e probabilmente indecidibili all’interno dell’o-rizzonte esclusivo dell’opera di Heidegger, chiamando a unlavoro di confronto tra l’eredità heideggeriana e il pensierosuccessivo. Abbiamo utilizzato il termine «indecidibili» nonsolo per questi motivi, ma anche per alludere al fatto che forseè proprio dove si presenta un indecidibile che si è chiamativeramente alla decisione. Il carattere problematico di diversitesti tardi di Heidegger è invece proprio la loro tendenza adarrestarsi nell’indecidibile come tale, rappresentato in modoemblematico dalla tautologia das Ereignis ereignet – ad arrestarsiquindi nell’indecisione tra la meditazione insistente ma paraliz-zata su questa tautologia e la sua messa in opera in un nuovopensiero.

Roberto [email protected]

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645596pag. 129–151 (ottobre 2013)

Deleuze

Il divenire come coincidenza degli opposti

F L

: . Un poeta stoico, – . Il gioco dei contrari, –. Senza sostanza, – . La pulsazione, – . La monade, – . La proposizione speculativa, – . L’uno come evento, .

. Un poeta stoico

Quello che farò in questa sede è tentare di introdurre alla letturadi Logica del senso, uno dei grandi libri di Gilles Deleuze. Dicotentare, perché si tratta di un testo complesso, Deleuze ha unlinguaggio molto personale, spesso ellittico, costruito comeper blocchi che sembrano richiedere di installarcisi d’emblée,in virtù di un’intuizione fondamentale, più che di introdurcisipasso dopo passo. Il nostro è un compito paradossale, da questopunto di vista.

L’altro tentativo è quello di tagliare, come Deleuze avrebbedetto, dentro a questo libro sfaccettato, ricchissimo, una certalinea di lettura, una certa linea di attualizzazione delle tantecose che vi si trovano e che vi si possono leggere. Vorrei cioèmettere a fuoco il tema dell’evento, usandolo come filo rossoe come chiave d’accesso a tutto il libro. Per far questo partireisenz’altro dal testo, in particolare da un passo che credo possariassumere molte delle questioni interne a Logica del senso, eche credo possa riassumerle in una forma particolarmentenitida e plastica. Il passo si trova nel capitolo “Sull’evento” esuona come segue: «Si esita talvolta a denominare stoica unamaniera concreta o poetica di vivere, come se il nome di una

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Federico Leoni

dottrina fosse troppo libresco, troppo astratto per designare ilrapporto più personale con la ferita. [. . . ] Bisogna chiamare JoëBousquet stoico. La ferita che egli porta profondamente nel suocorpo, egli l’afferra, nondimeno e a maggior ragione, nella suaverità eterna e come evento puro». Deleuze sta parlando di unevento preciso, di qualcosa che accade nella biografia di questopoeta molto amato dai surrealisti, soldato nella prima guerramondiale che un giorno viene colpito da una pallottola nellaschiena rimanendo paralizzato dalla vita in giù. Ecco l’evento.Un evento che in ogni senso spezza in due la sua vita, il suocorpo.

Un primo dato molto elementare è il seguente: nel momen-to in cui Deleuze vuole mettere a tema l’evento, nel momentoin cui dentro al progetto complessivo di Logica del senso decidedi costruire un capitolo chiave, nell’architettura dell’insieme,e di intitolarlo espressamente alla questione dell’evento, eccoche assume come immagine dell’evento, come figura emble-matica dell’evento quella della pallottola che colpisce il corpodi un soldato. La prende da una storia di vita vissuta, da un fattomolto concreto e materiale, ma l’essenziale è che immaginal’evento, come affermerà più tardi nel corso di questo capitoloe come afferma altre volte nel corso del suo libro, nella for-ma di un incontro traumatico, di una battaglia tra forze chesi contrappongono incontrandosi e scontrandosi. L’evento eil divenire, l’evento e il conflitto delle forze, l’evento comecomposizione di forze che confliggono, ecco una delle lineedi lettura che si annunciano sullo sfondo di questo emblemadeleuziano dell’evento, la ferita riportata in guerra da Bousquet.Allo stesso tempo bisogna tener conto, nel delineare questosfondo, che Deleuze è un pensatore della vita, del vivente, èun pensatore nietzschiano, tutt’altro che malinconico, tutt’altroche votato alle spinoziane passioni tristi. Quindi bisogna fareattenzione all’affermazione che abbiamo appena letto, di cui

. G. Deleuze, Logique du sens, Les Editions de Minuit, Paris ; trad. it. di M.De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano , p. .

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Deleuze

abbiamo appena individuato uno degli aspetti, una delle sfaccet-tature. Bisogna chiamare questo poeta “stoico”, dice Deleuze,perché la ferita che egli porta profondamente nel suo corpoegli la afferra, la fa sua. La fa sua nella sua verità eterna e nelsuo evento puro, aggiunge il filosofo. È lui a far sua la ferita, lapallottola. E nondimeno e a maggior ragione la afferra e la fasua nella sua – della pallottola – verità eterna. Dobbiamo eserci-tarci a vedere questo doppio aggancio, questo doppio incastroche Deleuze sta in qualche modo disegnando e suggerendoall’immaginazione del lettore. Da un lato c’è il poeta che ha lavita spezzata dall’incontro con la pallottola e che è stoico nelfar suo questo evento, nel tenersi all’altezza di questo evento,nell’esser degno di questo evento. Dall’altro lato e allo stessotempo è la pallottola che fa suo il corpo del poeta, il corpodi questo soldato. Lo fa suo «nella misura in cui gli eventi sieffettuano in noi, ci aspettano e ci aspirano, ci fanno segno»,aggiunge Deleuze.

Segue quindi una precisazione straordinaria. Deleuze cita aquest’altezza una frase di Bousquet: «la mia ferita esisteva primadi me, io sono nato per incarnarla». È una strana frase, unafrase singolare. Nella misura in cui gli eventi si effettuano innoi, nella misura in cui non siamo noi ad effettuare degli eventi,non siamo noi a compiere delle azioni, ma sono gli eventi chesi effettuano in noi, sono gli eventi che ci aspettano al varco,come se fossero già là da prima di noi, ecco che essi ci aspirano,ci attirano verso di loro molto di più di quanto noi li attiriamoverso di noi. Il soggetto, diciamo così, viene dopo. Primo èl’evento. In questo senso il poeta può dire: la mia ferita esistevaprima di me. Si tratta di una frase contraddittoria, da un puntodi vista logico. Contraddittoria se appunto la guardiamo dallato del “me”, dell’io che va incontro alla pallottola, volente onolente. Ma l’io che nasce nell’incontro con la pallottola nonc’è ancora, a quell’altezza. Diviene ciò che è solo incontrandola.

. Ibidem.. Ibidem.

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In questo senso il poeta può dire: io sono nato per incarnarla,io sono nato per stare all’altezza di quell’evento. La ferita non siaggiunge al suo corpo, ma crea quel corpo, quel corpo nuovo,inedito, che non era dato all’inizio della storia, ma che vediamofarsi in quell’istante. Il poeta che scrive queste parole, il soggettoche è divenuto attraverso quella ferita, anzi il soggetto che ve-diamo divenire nell’incontro con la ferita, è nato il giorno dellaferita stessa, nell’istante dell’evento, nell’impatto della pallottolain quanto immagine dell’istante. Tenersi all’altezza del’even-to, come dice Deleuze riassumendo in una frase l’etica stoica,vuol forse dire che lo stoico non “sopporta” semplicemente ildestino, ma lo diviene, diviene il proprio destino, facendolo,così, proprio.

. Il gioco dei contrari

Che idea di divenire è in gioco in un’idea di questo tipo? Che lo-gica dell’evento troviamo al fondo di questa frase di Bousquet,o almeno dell’uso che ne fa Deleuze? L’elemento decisivo con-siste nel fatto che Bousquet si dice nato il giorno della ferita.Non è nato vent’anni prima, per poi incontrare, a un certo pun-to, vent’anni dopo la sua nascita, questo proiettile che dovevaparalizzarlo. Il divenire non è il divenire di una sostanza A cheassume un certo accidente X, a partire da una condizione incui non aveva l’accidente X, a partire da una condizione carat-terizzabile come non-X. Non c’è una sostanza, che può essereindicata come il poeta in questione, come il suo corpo, comeuna qualsiasi A, il cui divenire va pensato come il passaggioda un contrario a un contrario, per richiamare la definizionearistotelica del divenire. Un corpo che da non ferito passa aferito, da bianco a nero, da non vecchio a vecchio: questo èil modo in cui Aristotele pensa il divenire, questo è il modoin cui tutti noi, nel nostro perenne aristotelismo, pensiamo ildivenire. C’è un soggetto o una sostanza, vale a dire qualcosache sta sotto, letteralmente, al quale si applicano, o il quale

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Deleuze

assume, degli accidenti, secondo un movimento – che è istanta-neo, perfettamente discontinuo, quindi non propriamente unmovimento – di sostituzione. E lo schema della situazione deveessere, non può non essere, a questo punto, altro che quelloche va da contrario a contrario.

Qual è l’obiezione di Deleuze, di fronte a una concezionedel divenire di questo genere, che informa di sé tutto il pensie-ro del processo nella metafisica classica occidentale, o almenoin una sua lettura più evidente, più vistosa, più acquisita? L’o-biezione deleuziana afferma che in una concezione siffatta deldivenire nulla diviene. La sostanza A è immobile, e si limitaad assumere degli accidenti, da non-X a X, rimanendo infondociò che è, inscalfibile, al di là del fatto che certi accidenti, certipredicati le si applichino o le si disapplichino, per dire così. Dipiù: neppure gli accidenti divengono, perché è chiaro che essi,a questo punto, sono quel che sono, indipendentemente datutto. Sono a loro volta identici a se stessi. E per quanto io mol-tiplichi le distinzioni, le specificazioni, le precisazioni, dicendomagari che il predicato “essere ferito” in verità è un “essereferito da una pallottola” anziché da un pugnale, e “ferito dauna pallottola tedesca” anziché francese, continuerò a trovaredelle forme vuote e immobili, delle “specie” appunto, delleidee identiche a sé, senza traccia di divenire. Capite che tutto ilmeccanismo, tutta questa grande costruzione aristotelica, cercadi ricostruire il divenire come un montaggio di cose che nondivengono affatto, come un montaggio di cose sempre presenel momento in cui sono già divenute. Il divenire decade auna finzione di divenire, il suo movimento non fa più nulla,analogamente a come Bergson osservava in riferimento al tem-po ridotto a spazio, ridotto all’istantaneità della applicazione odisapplicazione di un identico a un identico. Il tempo diventaun vuoto perfettamente sterile.

Deleuze intende invece pensare il divenire senza ridurlo allasommatoria di tante immobilità. E per farlo deve mettere inquestione due cose. Deve mettere in questione l’ontologia diAristotele e la grammatica di Aristotele. Deve tenere in sospeso

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l’ontologia che pensa l’essere come risultato di sostanza-più-accidenti, di materia-più-forme, e deve mettere tra parentesila grammatica che accosta un soggetto a un predicato, che co-struisce le sue proposizioni fissando anzitutto un sostantivo,per poi attribuirgli un aggettivo in fondo del tutto inessenziale,transitorio, vacuo. Per questo Logica del senso è da un lato unalogica, da un lato un’ontologia. O, meglio, è da un lato unanon-logica: una distruzione della logica corrente, motivo percui è così difficile leggerla. È in fondo lo stesso motivo per ilquale è così difficile leggere Hegel, la Scienza della logica o laFenomenologia dello Spirito; le frasi sono costruite in un modoche è solo all’apparenza quello del senso comune, dell’intellet-tualismo inconsapevole del senso comune, vale a dire secondola modalità, la formula soggetto-predicato. E dall’altro è unanon-ontologia, un’ontologia in cui non c’è un essere che di-viene, non c’è un essere che poi si ritrova a divenire, ma c’èun essere del divenire, c’è un essere la cui unica essenza per-fettamente inessenziale è il divenire stesso. Qui la non-logicae la non-ontologia si toccano, dando vita a un’unica intuizio-ne in forza della quale non si intende più il divenire come undivenire da contrario a contrario, ma come un divenire in cuii contrari coincidono, un divenire che è un divenire i contrarisimultaneamente, un divenire simultaneamente bianco e nero,ferito e non-ferito, grande e piccolo, e così di seguito. Pensareil divenire secondo quest’altra ontologia o non-ontologia, pen-sare il divenire secondo quest’altra logica non del significatoma del senso, dice Deleuze, vuol dire pensare il divenire comediveniente coincidenza degli opposti anziché come istantaneasostituzione degli opposti. È il senso del titolo di questa mia“introduzione” al libro di Deleuze.

. Senza sostanza

La prima mossa necessaria, nella direzione prospettata, è direa chiare lettere e con molta forza, come fa Deleuze, che non

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c’è affatto la sostanza, che non esiste affatto il signor Bousquet,che nasce, cresce, va in guerra, e che è sempre lui nel suo na-scere, crescere e andare in guerra, così come nell’essere colpitodalla pallottola che lo paralizza definitivamente. “Io sono natoil giorno della ferita”, dice Bousquet, o dice Deleuze. Non c’èuna pallottola che si aggiunge alla sostanza come un accidente.La sostanza qui è l’accidente. È l’accidente che è sostanziale,l’accidente è qui il vero essere, per dire così. È l’accidente cheè “sempre lui”, come dicevamo, e che in questo senso è eter-no, in questo senso mi attendeva al varco, mi aspirava versodi lui. La sostanza, ora, sta dal lato dell’accidente. Il soggetto,qui, è il predicato. E quello che noi chiamiamo solitamentesoggetto è il predicato del predicato, l’accidente dell’accidente.L’hypokeimenon, direbbe Whitehead, che Deleuze conoscevabene, non è un “sub-getto”, secondo la sua etimologia, ma è, alcontrario, un “supergetto”, è qualcosa che viene dopo, comeeffetto, come risultato. Il predicato è invece l’“oggetto eterno”,come ancora lo chiamava Whitehead, per gli stessi motivi percui Bousquet diceva che la pallottola lo aspettava al varco, dasempre e per sempre. Il predicato è un evento, non una cosa chesi aggiunge a un’altra cosa. E, in quanto evento, è lui a goderedelle qualità che noi, aristotelicamente, tendiamo a metteredal lato della sostanza, volenti o nolenti. E a goderne in unaforma diversa, a godere di un’eternità che non è l’immutabilitàdella sostanza, ma la mutevolezza assoluta del divenire. Sonoforme di eternità, e forse di felicità, molto diverse, a essere quiin gioco.

Bisognerà allora capire – ed è la seconda mossa a questopunto altrettanto necessaria – in che senso l’evento è l’eterno,in che senso l’evento è eternamente già là, intemporale o fuoridal tempo lineare, cioè fuori dal tempo come sostituzione dipredicati identici a sé nello spazio identico a sé della sostanza.Per compiere questo secondo passo ci serviremo di un altrobrano di Logica del senso, in cui Deleuze ritorna sull’idea dellacoincidenza degli opposti, del divenire non come sostituzioneda contrario a contrario, ma come coincidenza dei contrari, co-

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me divenire simultaneo di quegli opposti che noi divideremmol’uno dall’altro e disporremmo in uno spazio che li disarticoliaccuratamente l’uno dall’altro. È un passo per certi versi diver-tente, in cui Deleuze cita Lewis Carroll, anzi il suo personaggio,Alice. Lo sfondo del discorso è questo, come se Deleuze dices-se: se dobbiamo pensare il divenire nel suo divenire, e non ildivenire in quanto divenire ormai divenuto, ormai sedimentato,ormai consegnato ai suoi effetti, ai suoi effetti contrastanti eormai delineati nel loro contrasto immobilizzato, allora dob-biamo pensare la coincidenza degli opposti, dobbiamo pensareche divenire significhi divenire due cose opposte contempora-neamente, che divenire vecchio significhi divenire giovane, chedivenire ferito significhi divenire non ferito.

Il passaggio in questione si trova in un altro dei capitolichiave di Logica del senso, che s’intitola “Sul puro divenire”.Di nuovo un capitolo decisivo rispetto all’intera architetturadel libro. Il tema, qui, è quindi come pensare il divenire “pu-ro”, anziché il divenire impuro, il divenire pensato attraversoil divenuto e come montaggio di pezzi di divenuto. Il tema ècome pensare il divenire puro, e non il divenire da contrarioa contrario, che evidentemente è un divenire relativo, un di-venire di relativi, un divenire una certa X in relazione all’esserstato, prima, non-X. Quindi un divenire a scartamento ridotto,un divenire ridotto alla misura dei divenuti che noi, il nostrosguardo, il nostro sapere, assumiamo tardivamente, a cose fatte,come segno e come chiave d’accesso al divenire. Il tema alloraè come pensare il divenire, il divenire non relativo, ma final-mente assoluto. Dunque, scrive Deleuze citando Lewis Carroll,che lo accompagna per tutto il suo lavoro in questo volume:«in Alice e in Attraverso lo specchio viene trattata una categoriadi cose specialissime: gli eventi, gli eventi puri. Quando dico“Alice cresce”, voglio dire che diventa più grande di quanto nonfosse. Ma voglio anche dire che diventa più piccola di quantosia ora. Senza dubbio, non è nello stesso tempo che Alice siapiù grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo di-venta. [. . . ] Ma è nello stesso tempo, in una sola volta, che si

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Deleuze

diventa più grandi di quanto non si fosse prima e che ci si fa piùpiccoli di quanto non si diventi. [. . . ] Il divenire non sopporta laseparazione né la distinzione del prima e del dopo, del passatoe del futuro».

Potremmo allargare questa frase ed estenderla a tutte le ca-tegorie dell’eterno dualismo del pensiero metafisico: il divenirenon sopporta la separazione, né la distinzione del prima e deldopo, del passato e del futuro, della sostanza e degli accidenti,della materia e della forma, del corpo e dell’anima, dell’inte-riore e dell’esteriore. Tutti i dualismi tradizionali convengononel pensare che ci sia un prima e un dopo, che il divenire siaqualcosa che accade al prima facendolo transitare nel dopo,che sia l’assunzione di qualche forma che prima non c’era, chesia l’assunzione di qualche accidente che prima non c’era se-condo la legge della contrarietà già ricordata. Il divenire nonsopporta la separazione nella distinzione del prima e del dopo,tra sostanza e accidente, tra soggetto e predicato, tra materia eforma. Sono tutte espressioni equivalenti, se le riconduciamoalla loro struttura più profonda, e soprattutto se rigettiamoquesta struttura più profonda. Il divenire, sta dicendo Deleuze,non sopporta la distinzione del prima e del dopo perché è uncontinuo, e solo il divenire in quanto divenuto e saputo, assuntoin una posa e fotografato in una sua verità, solo questo divenireè discontinuo. Questa è l’intuizione di fondo da cui discendetutta la sua “logica del senso”. Il divenire è un continuum, stadicendo Deleuze bergsonianamente. Il prima e il dopo, la se-parazione e la trascrizione del continuo secondo un sistemadi discontinuità, queste sono operazioni del sapere e risultatidelle operazioni del sapere, derivano dal guardare il divenireda fuori, e dall’isolare nel divenire, anche legittimamente, ciòche lo sguardo del sapere vi trova di interessante. Solo in unsecondo momento, quindi, ciò che è stato isolato dal continuumdel divenire viene assunto come la verità in sé del processoin corso, che guarda caso si ridurrà a un anticipare o a uno

. Ivi, p. .

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svolgere quella verità, a un prefigurarla rozzamente o a unostravolgerla più o meno profondamente.

. La pulsazione

Questo è il nocciolo del progetto teoretico di Deleuze: pensareil divenire nel suo divenire, non nel suo essere divenuto; pen-sare il divenire come continuum, e quindi pensare il divenirecome un divenire “più vecchio” che dà a vedere il suo primae il suo “più giovane”, dove è il divenire più vecchio a dare avedere dietro di sé il “più giovane” come sua provenienza ecome sua sostanza, come suo soggetto e come suo fondamento.La sostanza è l’effetto del divenire, non la causa o il presuppo-sto. Il soggetto è il predicato del predicato, come dicevamo asuo tempo. Divenendo vecchio, mi dò a vedere, alle mie spalle,come colui che è stato più giovane. Più giovane di cosa? Piùgiovane di quel “più vecchio” che ora sto divenendo. Quelloche bisogna vedere è il gioco di questi comparativi, intanto.Tendiamo a pensare in termini di “vecchio” e “giovane”, “fe-rito” e “non ferito”, mentre quello che c’è è una tensione, uninvecchiamento in corso, un ringiovanimento in corso e cosìvia. Ciò su cui occorre fissare l’attenzione è quindi il rimbal-zo, la pulsazione, il movimento che intanto che va avanti vaindietro, che intanto che disegna qualcosa in avanti disegna losfondo e il dietro di quel davanti.

Immaginate uno schermo che si spegne lentamente. È per-ché lo schermo diventa via via più scuro, che mi si dà a vederecome quello schermo che era stato, fino a poco fa, più chiaro.Questo movimento puro, questo divenire puro, questo rimbal-zo puro, che non è né avanti né indietro, in quanto traccia ladistinzione tra ciò che è davanti e ciò che è dietro, crea appuntolo spazio e il tempo in cui si disporranno quelle sostanze con-trapposte ma in fondo del tutto affini, che sono la sostanza e gliaccidenti, il soggetto e i predicati che gli si applicano o disappli-cano, il prima che varrà come supporto del divenire e il poi che

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varrà come la vicenda attraversata da quel supporto. Questomovimento puro è il tempo fuori dal tempo di cui dicevamo, èl’intemporale che tuttavia “fa” il tempo. È l’eterno di Bousqueto l’eterno di Whitehead, non nel senso dell’immobile, dell’unavolta per tutte, ma nel senso di ciò che taglia, articola, dispone,distingue. E che lo fa continuamente, in ogni istante, essendoanzi sempre e soltanto, l’istante, una pura e continua disconti-nuità in cui si annoda il tempo come articolazione dei distinti,del passato e del futuro, della sostanza e del predicato e così via.Al fondo del continuum c’è questa discontinuità più profonda,o meglio questo tracciarsi di una discontinuità. Discontinuità,si potrebbe dire, in cui e via da cui si dispone tutto il tempo etutto lo spazio nelle sue diverse “regioni”.

L’altro autore chiave che sta sullo sfondo di Logica del senso,che compare esplicitamente solo a un certo punto del testo, eche solo tanti anni dopo, in un altro libro, Deleuze lavoreràdavvero a fondo, è Leibniz. Anche in Logica del senso, nondi-meno, ha un ruolo importante, che potremmo esprimere inquesti termini: per Deleuze si tratta, già in queste pagine, giànell’esempio della pallottola, di pensare il divenire in terminimonadologici. L’accadere, l’evento, il divenire, la metamorfosi,sono sempre degli incontri monadologici. Si potrebbe pensarecosì, monadologicamente, la pallottola che colpisce il corpodel poeta. La pallottola è la monade in cui viene ricapitolato ilcorpo del poeta, è l’evento nel quale il corpo del poeta vieneinscritto e aspirato, direbbe Deleuze. È la pura discontinuità incui e via da cui viene inscritto il corpo di Bousquet. Il corpo delpoeta viene iscritto e aspirato in una nuova dimensione, che èmolto concretamente una nuova forma di vita a cui quest’uo-mo dovrà adeguarsi. Come dicevamo, il punto non è che c’eragià un corpo, che a un certo punto incontra questo accidente,che lo varia poco o tanto, in questo caso tantissimo, stravol-gendolo per sempre. Il punto è che c’è un evento, la pallottola,che inscrive in sé, interamente, senza residuo, ogni fibra delcorpo del poeta. Nulla, di lui, sarà più come prima, per dire lacosa in modo banale. In questo senso Bousquet dovrà scrivere:

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«io sono nato il giorno della mia ferita». Quell’io che io sonodivenuto, nasce lì. Prima non c’era nulla. Tutto il prima è unafigura di questo dopo, in realtà. Tutta la preistoria, la vita danon ferito, è in realtà un contraccolpo della ferita, è qualcosache posso pensare oggi a partire dall’esser ferito. Un pensierocome: “ah! quando mi muovevo liberamente, con la grazia ola forza di un corpo intatto”, lo si può formulare solo dopo,solo a partire dalla differenza accaduta e divenuta, solo a par-tire dalla ferita ormai incisa nel corpo. Non c’è alcun corpointatto, alcuna sostanza originaria, che venga poi incrinata dallaferita. C’è invece una ferita, e c’è l’essere intatto del corpo co-me contraccolpo di quella ferita, come risultato di quell’essereincrinato. L’hypokeimenon è un effetto di retroflessione del synbe-bekos. Il soggetto, direbbe Hegel, all’interno della proposizionespeculativa, vale a dire all’interno del linguaggio della filosofiae non del senso comune, è il contraccolpo del predicato, nonciò a cui il predicato si aggiunge. Il che non significa che nonprenda a esserci, in questo istante della ferita, in esso e “via daesso”, ciò che inizierà a valere come “il corpo del poeta”, lasostanza su cui si inscrive l’evento, la materia che assume lanuova forma e così via. Tutto questo c’è, ma come effetto. C’ècome un’alterità tutta interna, che si esteriorizza, che divieneesteriore, che si deposita in forma di esteriorità.

. La monade

La pallottola, allora, è la monade che ricapitola in sé il corpodel poeta, il corpo di Joë Bousquet, e ogni evento è la monadeche ricapitola in sé ogni altra monade. Dico “ricapitola” nelsenso molto preciso che si trova in Leibniz. Si potrebbe di-re: “ricapitola”, “riprende”, “cattura”, “ripete nella sua figura”.Leibniz direbbe: “esprime”. Proprio nel senso in cui nel § della Monadologia Leibniz descrive il rapporto tra il cosmo ele monadi, tra il cosmo-città, secondo una sua immagine mol-to famosa, e le monadi, che sono i “punti di vista” che i tanti

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Deleuze

abitanti hanno sulla città che guardano, abitano, vivono, attra-versano, usano. Scrive Leibniz: «e come una stessa città guardatada diversi lati appare sempre diversa, ed è come moltiplicataprospetticamente, così, per il numero infinito delle sostanzesemplici, vi sono come tanti vari universi». Immaginiamo allo-ra questo cosmo, che è la città, e immaginiamo il punto di vistache accade, uno di questi abitanti della città che apre gli occhi.Che cosa succede? L’intera città, direbbe Deleuze, verrebbeaspirata in quello sguardo e ricapitolata in quella prospettiva.Come la pallottola, così il punto di vista. Come la pallottola cheinclude totalmente il corpo di quel poeta, lo traduce nella pro-pria forma assoluta, nella propria accidentalità perfettamenteessenziale o sostanziale.

In che rapporto stanno, quindi, la città e i punti di vista? Lacittà e l’evento dello sguardo? Stanno in un rapporto che nonpossiamo più descrivere così: “c’è la città, e poi il suo incontrocon l’evento”. Il rapporto dobbiamo piuttosto descriverlo comesegue: “accade l’evento dello sguardo, che incontra la città inquanto la inscrive in sé e la esprime nella propria prospettiva enella propria carne”. Tutta la città è inscritta nel punto di vista diGiovanni, che apre gli occhi e la vede e al contempo tutta la cittàè inscritta negli occhi di Giuseppe che apre gli occhi accantoa Giovanni e la vede in una piccola differenza prospettica. Sipotrebbe obiettare: ma prima ci deve essere città, altrimenticosa guarderebbero i vari abitanti, i diversi sguardi? Prima c’èla sostanza, poi l’accidente, questa è l’obiezione aristotelica,ma è anche l’obiezione del senso comune. Ed è l’obiezioneche si fa Leibniz stesso, se rileggiamo in modo più ampioil § della Monadologia: «e come una stessa città guardatada diversi lati appare sempre diversa, ed è come moltiplicataprospetticamente, così, per il numero infinito delle sostanzesemplici, vi sono come tanti vari universi, che peraltro nonsono se non le prospettive d’un solo universo, considerato dai

. G.W. Leibniz, La monadologia, in Id., Saggi filosofici e lettere, a cura di V.Mathieu, Laterza, Bari , pp. -, p. .

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diversi punti di vista di ciascuna monade». Cioè, dice Leibniz,quasi correggendosi: c’è la città e poi ci sono tante prospettivesulla città, ma sono solo prospettive sulla città, prospettive su ununico oggetto. Obiezione che potremmo fare a Leibniz, allora,giocando la sua scoperta contro lui stesso: ma che la città fosselì da prima dello sguardo, questo non è forse possibile saperlounicamente, di nuovo, dall’interno di un certo sguardo, diun certo sapere sulla città, insomma dall’interno di una certamonade e non in un contatto immediato con la città? La città insé è il punto di vista di un’altra monade. Non esiste una città insé che poi viene presa da questa monade o quell’altra monade;non esiste una sostanza che poi viene presa da questo attributo,da questo predicato. Esistono i predicati che catturano la cittànella loro figura e poi esiste un punto di vista la cui natura è didire l’“in sé” e il “fuori figura”. Ci sono le monadi che guardanola città, e c’è anche la città senza monadi che la guardano, ma èun’altra monade a dirlo.

Questo è ciò che Leibniz non può dire, e che invece Deleuzepuò e vuole dire. In questo senso Leibniz pensa ancora aristo-telicamente o cristianamente. Deve dire che c’è una monadespecchio di tutte le altre, che c’è una monade in cui tutte lemonadi si coordinano. È come se Deleuze gli obiettasse: co-me puoi affermare che sono prospettive di un unico universo?Questo unico universo non è forse anch’esso un altro sguardo?In base a che puoi dire che è uno sguardo privilegiato? Non èun altro sguardo ancora, a dire che è privilegiato? E in verità,non è più sensato dire che c’è uno sguardo privilegiato, cheè semplicemente lo sguardo in atto, lo sguardo che di fattosta riassumendo l’intero universo, nella consapevolezza chel’intero universo non si riassume mai e non si potrà in alcunmodo riassumere? Per dire l’unità del divenire, la sua semplicità,occorre allora affermare due cose. Da un lato la pallottola è lamonade che ricapitola in sé il corpo del poeta e ogni evento èla monade che ricapitola in sé tutti gli altri eventi, tutti gli altri

. Ibidem.

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“divenire” che sono in corso nell’universo, in modo via via piùoscuro, ma in modo ogni volta totalizzante. Dall’altro ancheBousquet è una monade, anche Bousquet è un evento vivente.Tant’è vero che può andare in guerra e, per stare in guerra, faretutto quello che deve fare, fino a subire il colpo della pallottolache lo condannerà. Bousquet non è il corpo inerte sul quale siimpianta la pallottola. Anche Bousquet è un evento, anche lui èun divenire, e proprio perciò può incontrare quell’evento che èla pallottola, e che è destinata in questo senso e da questo puntodi vista a diventare la materia di quella forma in atto che è lavita di Bousquet. Se raccontassimo la storia dal lato della pal-lottola, dovremmo dire che un bel giorno incontra il corpo diBousquet, la sua colonna vertebrale, la trapassa, verosimilmen-te deformandosi e stravolgendosi e così via. Tutta la vicendaandrebbe raccontata anche da quest’altro lato, e coinciderebbeesattamente con l’altra vicenda, ma al modo in cui il diritto e ilrovescio di un guanto si corrispondono – o, direbbe Leibniz, siesprimono –, vale a dire coincidendo. Senza che questa coinci-denza sia confusione o indistinzione, ma espressione totale inquanto totalmente prospettica di ciò che, guardando da fuori,diciamo essere l’altro termine dell’incontro.

L’evento, più profondamente, è sempre l’incontro di duemonadi. Il punto di vista e la città sono due monadi che siincontrano e lo sguardo è il loro punto di incontro, o, dettoaltrimenti, è la vera monade, è la soglia in atto, è il luogo in-sostanziale in cui comunicano le sostanze, che divengono ciòche sono divergendo in quel luogo e attraversando quel luogocome un raggio attraversa un prisma: la città vista per il puntodi vista che la vede, e il punto di vista per la città che è guardata.L’incontro è sempre la vera e sola soglia monadologica, la solae vera discontinuità istitutiva, nei termini che usavamo pocofa. L’incontro quindi è sempre un incontro bilaterale. Non nelsenso di due lati che si incontrano. Al contrario. L’incontroè un’unità che diviene, e che proprio perché è una, semplice,continua, indivisa, insofferente di separazioni, spinge in duedirezioni, si apre e si divarica in due direzioni divergenti e con-

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traddittorie: verso il divenire corpo e verso il divenire pallottola,verso il divenire grande e verso il divenire piccolo, verso il dive-nire bianco e verso il divenire nero. Dobbiamo quindi ripensarein questi termini una cosa detta poco fa in prima approssima-zione, quando suggerivamo che la vera sostanza è l’accidente.La vera sostanza non è neanche l’accidente, ma è l’incontrodi ciò che diventerà la sostanza di quell’accidente con ciò chediventerà l’accidente di quella sostanza.

. La proposizione speculativa

Se questa non-ontologia deve trovare un analogo sul piano dellagrammatica, bisogna dire che la sintesi, cioè l’unione del sog-getto e del predicato, non avviene nel senso di una unione di unaccidente e di un soggetto già dato, ma nel senso di un’acciden-talizzazione della sostanza, nel senso di una inscrizione che ilpredicato opera in se stesso della sostanza. È un primo modo didire la cosa, cui dovrà seguirne un secondo. Iniziamo comun-que da qui. Il predicato non è più un modo della sostanza, unamodalizzazione della sostanza, come se stessimo dicendo che“l’albero è verde”, ma che può essere anche in altro modo, puòessere spoglio e grigio, eccetera. Al contrario, si deve pensareche l’albero sia un modo dell’evento, dell’incontro in atto, deldivenire in corso. “Ora verdeggia”, bisognerebbe dire. E checosa verdeggia? L’albero, si dovrebbe rispondere in seconda bat-tuta, aggiungendo l’albero al verdeggiare, come conseguenzadel verdeggiare. Il soggetto della proposizione sarebbe allorauna piega interna del predicato, per esprimerci con le paroledi Leibniz. È con Leibniz infatti che inizia un’altra storia dellalogica, vale a dire la storia di una logica diversa dalla logica deisignificati già costituiti: l’albero, il verde, il fatto che l’alberoassume il verde così come ad un certo punto lo dismette pertornare a essere spoglio – dove, evidentemente, stiamo pensan-do l’albero come un che di identico a se stesso, il verde comeun che di identico a se stesso, e stiamo immaginando che ci

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sia un tempo vuoto in cui magicamente qualcosa di immobilee qualcosa di immobile si toccano, chissà dove e chissà come,producendo un’alterazione che non è nulla se non la somma didue identità.

Ora, come è sensatamente possibile immaginare il prodursidi una differenza dalla giustapposizione di identità? Non è pos-sibile. Bisogna piuttosto pensare che la differenza sia originaria,bisogna piuttosto pensare all’origine – il che non significa in illotempore, ma in isto tempore, in ogni ora attuale, all’origine che èsempre in atto qui e ora – il differire della differenza, la differen-za non tra identità, ma come l’unica cosa identica che c’è, comel’unica cosa, l’unica unità, l’uno. Inizia qui, con Leibniz, la sto-ria di un’altra logica, che arriva a Hegel passando attraversola vicenda complessa del leibnizianismo, che attraverso Wolffarriva ad esempio a Kant. Per Kant il problema della sintesi apriori, così come emerge nella Critica della ragione pura, è ineffetti il luogo in cui si pone questo problema, è il luogo in cuisi denuncia, come Kant dice, tutto ciò che di insoddisfacentec’è nel modo in cui la logica tradizionale ha pensato la sintesi,il legame tra soggetto e oggetto. E il proponimento di Kantsarebbe, tra mille difficoltà, proprio quello di ripensare il tuttoa partire da una nuova idea di tempo, da una nuova funzio-ne della facoltà dell’immaginazione trascendentale, e così via.Tutto questo, che non a caso Hegel giudica come la grande,fondamentale scoperta di Kant, arriva a Fichte, a Schelling equindi a Hegel, che è il grande pensatore di una logica altradalla logica dei significati, come la chiamavamo, o dalla logicadell’intelletto, come Hegel stesso la chiama. Vale a dire una lo-gica, direbbe Deleuze, del senso. Hegel invece dice: una logicaspeculativa. Se siano esattamente la stessa cosa, come penso, ose vogliano essere la stessa cosa, come potremmo dire meglio,con risultati e difficoltà comunque diversi e peculiari, è unaquestione rilevantissima, che non possiamo però affrontare inquesta sede.

Che cosa dice Hegel nel tentativo di descrivere come devefunzionare una proposizione di nuovo genere, una proposi-

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zione speculativa? Come si scrive filosofia, come si scrive unaproposizione filosofica nel momento in cui si abbandona Ari-stotele, cioè la separazione tra il soggetto e il predicato, tra lasostanza e l’accidente? La frase programmatica di Deleuze era“il divenire non sopporta separazioni”, il divenire è un conti-nuum che spinge contemporaneamente in direzioni opposte ecioè che è ad un tempo in due luoghi contraddittori, nel primae nel poi, nel bianco e nel non bianco. Hegel dice così: ciòche nella proposizione ha la forma del predicato è la sostanzastessa. Ciò che nella proposizione filosofica, speculativa, ha laforma del predicato, ha la posizione dell’aggettivo, ha l’appa-renza di ciò che sopraggiunge a una sostanza che era già là, inrealtà è la sostanza stessa. Se così è, la proposizione non poneuna specie di di primum, cui accade poi qualcosa: “l’albero è ver-de”, nel senso che è diventato verde perché è primavera. No, laproposizione ha il suo punto culminante in fondo, là dove cadel’aggettivo, e là dove il movimento della frase ritorna su se stes-so, disegnando una specie di piega, di ripiegamento. L’albero èverde e il verde è la sostanza di cui “albero” è il predicato, salvoche ritornati all’albero ora lo prendiamo come soggetto o comesostanza, di cui il “verde” diventa predicato e così via. Ciò cheaccade nella scrittura di Hegel è che la frase, la proposizionespeculativa, viene posta in una specie di oscillazione immobile,di ondulazione o di sommovimento. C’è una frase di Hegel, adesempio, lungamente commentata da Ludwig Binswanger, chesuona grosso modo così: l’individuo è ciò che il suo mondoè, in quanto suo. L’individuo non è altro che il mondo in cuiè, l’individuo è tutto dal lato del mondo, non è fatto d’altroche di mondo; ma il suo mondo in quanto quel mondo è suo,è di quell’individuo, è ricapitolato e rilanciato in quel puntosingolare. La monade non è fatta d’altro che del cosmo, perchédi cosa mai può essere fatta la monade, di cosa è mai fatto ilnostro corpo se non della materia di tutte le cose? La mona-

. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La NuovaItalia, Firenze (), p. .

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Deleuze

de è fatta del cosmo, ma non del cosmo in generale, non delcosmo in sé, dato che non c’è nulla in sé, quanto piuttosto delcosmo in quanto suo, del cosmo in quanto ripiegato in quellasua occasione monadologica.

Questa frase di Hegel, nella sua stessa forma, disegna unaspecie di rimbalzo, di contraccolpo. È una frase che sul pianodella logica dei significati, della logica aristotelica non è sosteni-bile, perché è circolare, ricorsiva. Si tratta di un’obiezione moltosemplice, in fondo incomprensiva delle ragioni speculative chestanno al fondo della questione, a cui Hegel risponde grossomodo in questi termini: il senso comune legge la filosofia aspet-tandosi certe cose, aspettandosi che il soggetto davvero fungada soggetto e il predicato davvero funga da accidente di quelsoggetto, mentre noi pensatori del divenire – perché Hegel sipresenta così, come un pensatore del concetto, il quale concettonon è che l’autodispiegarsi del concetto, l’autodispiegarsi dellospirito; l’idea non è l’idea, l’idea è l’autodispiegarsi dell’idea –scriviamo per tutt’altri motivi. Il senso comune suppone di po-ter dividere l’idea che sta prima da quella che poi si dispiega, ilche significa che tale idea avrebbe potuto anche non dispiegarsimai. Il senso comune ha un procedere da anatomista, utilissimoma mortificante, per dirla in una battuta un po’ nietzschiana. Isuoi paradossi sono i paradossi della teologia classica, cioè dellametafisica aristotelica e delle sue infinite filiazioni, anch’essein fondo mortificanti. C’è Dio, che poteva anche “starsene lìtranquillo”, invece crea il mondo, con tutte le domande an-gosciose dei teologi: come mai ha creato il mondo? Perchél’essere e non il nulla? Perché quest’avventura catastrofica dellacreazione e del male, della libertà che porta alla devastazione?E con tutte le domande ironiche alla Wislawa Szymborska:“forse che non si bastava? Ma non era appunto l’assoluto?” Èchiaro che tutti questi paradossi nascono dal fatto che si pensaal principio di tutti i principi come a una cosa anziché comea un movimento, come a qualcosa di divenuto anziché come

. Cfr. ivi, pp. -.

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a un divenire. Ma allora, se le cose stanno così, vediamo be-ne che su Dio dovremmo tracciare una heideggeriana croce,e farlo coincidere totalmente con la sua incessante creatività,dunque con l’infinità della sua creazione. Nietzsche direbbe: aquel punto in nome di che cosa potremo mai mortificare glianimi, cioè governarli? Ogni morale, ogni colpa, ogni leva perl’amministrazione dell’animale umano verrebbe meno. . . Lacoincidenza degli opposti è infatti un pensiero ultra-morale,non solo ultra-grammaticale.

. L’uno come evento

Credo che si potrebbe leggere tutto questo esperimento – per-ché davvero il libro di Deleuze è una specie di laboratorio incui la sua ipotesi è messa alla prova nelle più svariate direzionie sempre a partire da una stessa intuizione, che è quella deldivenire puro, del divenire come assoluto, del divenire comecoincidente divergenza di contrari – come un tentativo di ro-vesciamento del platonismo, secondo la proposta che Deleuzestesso avanza in un saggio che compare in appendice a Logicadel senso. Rovesciare il platonismo per Deleuze significa grosso-modo rovesciare la metafisica dell’uno, rovesciare quel mododi pensare che pone all’origine l’uno, l’identico, la sostanzaidentica a sé, rispetto a cui il divenire è una vicenda secondae in fondo inessenziale, accidentale. Per tanti versi, il progettodeleuziano del rovesciamento del platonismo coincide con unaontologia dei molti, del molteplice, della molteplicità, proprionel senso di Leibniz, del Leibniz che abbiamo letto poco fa, ta-gliando a metà la proposizione del § della Monadologia. C’è lacittà, ma è nei tanti punti di vista, ognuno dei quali la ricapitolatotalmente, ma nella sua prospettiva, sicché in un certo sensopotremmo immaginare che ci siano tante città quanti sono ipunti di vista. Eppure Leibniz aggiungeva qualcosa che ad uncerto punto avevamo ripreso e subito rigettato in nome di De-leuze, ma che dovremmo ora riprendere in mano, e proprio

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in nome delle esigenze dello stesso Deleuze, per comprenderediversamente, forse più profondamente. Alludo a quella chiusacon cui Leibniz precisava che c’è però una monade di tutte lemonadi, una monade divina che tutte le governa e armonizza.

Riassumiamo. Una parte importante del progetto deleuzia-no consiste nel dire: non c’è la sostanza, ci sono i suoi infinitieventi: l’evento nei miei occhi della città di Milano, l’eventonei tuoi occhi della città di Milano e così via. Questo è il modoprevalente in cui è stato letto Deleuze e in cui Deleuze stessosi è letto, come un filosofo non dell’uno ma dei molti. Allostesso tempo credo che si possa e si debba dire che per Deleuzel’evento è sempre e soltanto uno. L’evento attuale – Whiteheaddirebbe la actual occasion, l’occasione che ora è in atto – è sem-pre e soltanto uno, quello dell’ora che ora, in ogni ora, è inatto. L’evento è sempre uno soltanto, e ogni evento in quantoè in ogni tempo l’unico evento di tutti i tempi, ricapitola tuttigli altri, nessuno escluso, nella sua prospettiva. In questo sensosono io quella monade che dice che le monadi sono molteplici,per dirla un po’ rozzamente. Le monadi sono molteplici, masono molteplici nello spazio di quella monade che ora speri-menta la loro molteplicità, la enuncia. Ogni evento prende in sétutti gli altri, li prende proprio nel senso whiteheadiano dellaapprehension, dell’apprensione, della cattura fisica e metafisica.Ogni evento, in questo senso, è l’eterno alla maniera di unsenza tempo in cui e via da cui si fa il tempo. L’eterno nonnel senso dell’eternamente identico a sé, che è una cattiva ideadi eternità, che è semplicemente un cattivo infinito in cui uncerto istante è replicato indefinitamente all’indietro e in avanti,senza che niente di nuovo accada. Ma nel senso di una azionericapitolativa che, accadendo qui, si dà il suo passato e il suofuturo, che sono appunto “suoi”, come nella frase hegelianacommentata poco fa. Questa monade privilegiata, per il fatto diessere l’unica in atto, è quella che Leibniz chiama Dio, e cheDeleuze, spinozianamente, potrebbe a questo punto ricono-scere e accogliere, a patto di fare una precisazione. Ogni vita,ogni granello di polvere è questo evento assoluto. Ogni più

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minuto e insignificante punto dell’universo è questo dio dellaricapitolazione e del rilancio, dell’espressione e della creazione.

Nello stesso tempo questo dio della ricapitolazione e delrilancio, questa monade assolutamente privilegiata e comunis-sima, è anche presa da tutte le altre e in tutte le altre. Io vivedo insieme in questa stanza e vi inscrivo nel mio sguardo, manello stesso tempo ciascuno di voi cattura e inscrive me nelsuo sguardo. Bisogna davvero pensare una coincidenza degliopposti e una implicazione di tutto in tutto, un contemporaneoesser presi voi in me ed io in ciascuno di voi. Se pensiamo finoin fondo questo strano annodamento, allora abbiamo un pen-siero dell’uno in cui stanno tutti i molti e, allo stesso tempo, unpensiero dell’uno che è preso da ciascuno di quei molti, i qualisono a loro volta l’unico uno di volta in volta in atto. Abbiamoun pensiero cusaniano o bruniano, in cui ovunque è il centroe ovunque è la periferia. Un pensiero in cui – se riusciamo adistoglierci dalla topografia di questo centro e di questa peri-feria, per intuire anche brevemente il movimento che disegnail centro per la periferia e che in ogni punto della periferia di-segna un centro di cui la periferia sono tutti gli altri centri – lasola cosa che si tratta di cogliere è il rimbalzo, come lo chia-mavamo a suo tempo, la pulsazione, il movimento immobileo l’immobilità ritmata, scandita, come di un’architettura cheva facendosi. L’idea di armonia, in Leibniz, non è dopotuttoquella sciocchezza che credeva Voltaire, e soprattutto non èun’idea conciliante. Al contrario, è esattamente quel conflitto equella lacerazione di cui dicevamo all’inizio.

Se teniamo presente questa visione d’insieme, questo sensodi fondo che sta alla base di Logica del senso, allora è abbastanzachiaro che Deleuze può apparire come un pensatore assoluta-mente moderno, un pensatore contemporaneo, un pensatoredel molteplice, della differenza, ma anche come un pensato-re assolutamente premoderno, come un pensatore dell’uno,come un pensatore antico. Per un verso Deleuze sembra porta-re all’estremo l’esperimento della modernità, l’esperimento diCartesio, di Kant, di Hegel, cioè il tentativo di pensare portando

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Deleuze

al centro del pensiero la relazione, di pensare partendo dall’ideache ogni cosa in realtà è una relazione, che ogni oggetto che miappare è appunto un oggetto che appare a me, che si offre comeuna rappresentazione agli occhi dell’ego cogito, come un fe-nomeno alle categorie dell’io trascendentale. Tutto il pensieromoderno va infatti nella direzione di una dissoluzione dell’uno,della roccia, della cosa stessa, nella molteplicità infinita della suerelazioni e delle sue apparizioni. Allo stesso tempo Deleuze faun’altra mossa, io credo più profonda dal punto di vista teoreti-co, cioè fa la mossa contraria a quella dei moderni: certo, ognicosa è in realtà una relazione, l’uno è continuamente preso neimolti e disseminato nei molti. Ma l’accadere della relazione nonè affatto relativo, è assoluto; l’assoluto è l’evento della relazione;non è niente di più, ma neanche niente di meno di questo.

Federico [email protected]

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645597pag. 153–187 (ottobre 2013)

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Derrida e l’«esteriorità»

G B

Un titolo spericolato, non c’è dubbio. Ma che sia spericolatoperché mescola disinvoltamente la lingua più antica della filoso-fia e quella più giovane – addirittura, a sentire Heidegger, unalingua filosofica e una non filosofica – oppure perché trascinacon sé una vertiginosa serie di rimandi storici e concettualila cui pertinenza è tutt’altro che assicurata (basti pensare chea vario titolo vi sono evocati l’astronomia platonica e Simpli-cio, lo studio di Duhem, l’Ereignis di Heidegger e l’événementdi Deleuze, la risposta di Bontadini a Severino, una serie te-levisiva americana, . . . ), esso non va in ogni caso scambiatoper una (cattiva) imitazione delle invenzioni linguistiche diJacques Derrida: non ne ha, ad evidentiam, né l’eleganza né laprofondità di pensiero. È piuttosto una formula – definiamolaprovvisoriamente così – della quale servirsi per indicare allostesso tempo il problema, la preoccupazione e il pathos che, daun certo momento in poi, hanno marcato sempre più a fondoil discorso di Derrida. Mi sembra infatti che queste tre cose– il problema, la preoccupazione e il pathos – non si possanoseparare tanto facilmente, e che forse sia proprio questo cheautorizza a dire «da un certo momento in poi», pur sapendoche l’interesse per il tema dell’evento è presente in Derrida findagli esordi e che già alla fine degli anni Sessanta occupa unruolo di primo piano all’interno della sua riflessione. Del resto,in un’intervista al quotidiano L’Humanité del , è Derridastesso a darne sostanzialmente conferma: «quello che lei dice a

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proposito di un’attenzione privilegiata all’evento è giusto. Essasi è fatta sempre più insistente».

Pretendere di fissare quest’insistenza nella precisione diuna data non ha, com’è intuibile, molto senso, ma si puòugualmente convenire con la maggior parte degli interpretinel rilevare che il tema dell’evento inizia a pervadere i testiderridiani di pari passo con l’accentuazione, in essi, di temietici e politici, all’incirca dalla metà degli anni Ottanta. Piùdifficile stabilire se ciò avvenga per esigenze della teoria (peresempio l’esaurimento del motivo della différance, come so-stengono alcuni) o comunque interne al campo filosofico(come la crescente vicinanza con Lévinas, sottolineata da mol-ti commentatori), oppure sotto la pressione di circostanzeculturali (la querelle sul post-moderno, l’accusa di sterilità poli-tica rivolta alla decostruzione e così via) e/o di eventi politiciesterni (il crollo dei regimi comunisti, l’egemonia americana,il trionfo del neoliberismo, il fenomeno della mondializzazio-ne, i nuovi movimenti altro-mondialisti eccetera): ciò che èsicuro è che il testo derridiano ricusa la pertinenza di questadisgiunzione, e da un certo momento in poi con più insisten-za. Così come rifiuta ogni lettura che pretende di semplifi-care il rapporto del pensiero filosofico con il presente: «Unfilosofo può occuparsi del presente, di ciò che si presenta pre-sentemente, di ciò che accade attualmente, senza chiedersi,sino all’abisso, che cosa questo valore di presenza significhi,presupponga o nasconda. Sarà un filosofo del presente? Sì –eppure no. Un altro può fare il contrario: immergersi nellameditazione quanto alla presenza o alla presentazione delpresente senza accordare la minima attenzione a quel cheaccade presentemente nel mondo o attorno a lui. Sarà unfilosofo del presente? No – eppure sì. Tuttavia, sono sicuro

. Entretien avec Jacques Derrida, penseur de l’événement, par Jérôme-AlexandreNielsberg, L’Humanité, gennaio .

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che nessun filosofo-degno-di-questo-nome accetterebbe talealternativa».

Non si sbaglia, dunque, se si dice che l’interrogazione derri-diana sull’evento risponde a un’urgenza del presente; si sbagliaquando si pretende di dedurla da tale urgenza. Adattando unsuggerimento avanzato dallo stesso Derrida molti anni prima ein un altro contesto, bisognerebbe piuttosto pensare a questainterrogazione come a ciò che tenta di raccogliere in fascio lediverse urgenze – in particolare etiche e politiche – del presente,al modo in cui l’interrogazione sulla différance della fine deglianni Sessanta aveva tentato di raccogliere in fascio le urgenzedel «proprio» presente. Ma senza supporre che l’una soppiantil’altra. C’è, infatti, (del)la différance nell’evento, così come c’è(del)l’evento nella différance. Anche per questo motivo – chenon è l’unico e non è necessariamente conclusivo – le perio-dizzazioni del suo pensiero, e in particolare la distinzione, cosìfrequente nella letteratura critica, tra un primo e un secondoDerrida, oppure tra una prima, una seconda e una terza fasedella decostruzione, finiscono per avere un’utilità limitata e,in ultima analisi, appaiono sempre poco affidabili. Tanto piùquando vogliono individuare «svolte» etiche o politiche: «Ricor-do questo di sfuggita, in un batter d’occhio, in modo algebricoe telegrafico, al solo fine che non c’è mai stato, negli anni Ot-tanta e Novanta, come talvolta si sostiene, un political turn oun ethical turn della decostruzione, almeno così come io ne hoesperienza».

. J. Derrida, Artefactualités, in «Passages», n. , ; trad. it. di G. Piana,Artefattualità, in J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, Raffaello Cortina,Milano , p. .

. Qui e di seguito, il termine «decostruzione» vale come nome riepilogativoper l’insieme del pensiero di Derrida, a meno che il contesto suggerisca diversamentecome in certi usi aggettivali. È il caso di avvertire che si tratta di un uso idiosincratico,distinto sia dall’uso più preciso che ne ha fatto Derrida sia da quelli, spesso piùconfusi, che si trovano nella letteratura.

. J. Derrida, Voyous, Galilée, Paris ; trad. it. di L. Odello, Stati canaglia,Cortina, Milano , p. . In una conversazione con Maurizio Ferraris del gennaio, Derrida osserva anche che «non c’è alcun testo che non sia annunciato preci-

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Σῴζειν the event, questa formula improbabile, disaggiusta-ta in rapporto a ciascuna delle lingue che utilizza, vorrebbe dire,avrebbe l’ambizione di dire, nella massima economia di parole,niente meno che la posta in gioco del pensiero di Derrida, qualea me pare si sia venuta chiarendo nel corso di una «infaticabileed appassionata interrogazione sull’eventualità dell’evento».Ma in primo luogo essa intende ricordare che questa posta ingioco non si può dire in una lingua soltanto, anche – e soprat-tutto – se si tratta della lingua per eccellenza della filosofia, ilgreco (è la lezione di Lévinas); e però non si può nemmeno diresenza quella lingua (è, se si vuole, la contro-lezione di Derrida):«Interpellanza del Greco, da parte del non Greco, dal fondodi un silenzio, di una affezione ultralogica della parola, di unainterrogazione che non può dirsi se non obliandosi nella linguadei Greci; che non può dirsi, obliandosi, se non nella lingua deiGreci». E se con il mio titolo mi sono spinto oltre – oltre que-sto «strano dialogo tra l’Ebreo e il Greco» –, è per non perderedi vista un altro dialogo che, a modo suo, Derrida ha volutointrecciare e che, per esempio, gli ha fatto dire, nello stuporegenerale: «l’America, ma è la decostruzione».

sissimamente, letteralmente, esplicitamente, dieci o vent’anni prima» ( J. Derridae M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari , p. ). È interessantenotare che una certa diffidenza per le periodizzazioni e, forse, più in generale perle interpretazioni «evolutive» è all’opera in Derrida stesso, per esempio nelle sueletture di Heidegger, e che essa non preclude affatto l’attenzione per gli spostamentianche minimi che si producono all’interno di un pensiero, di un concetto o di unaparola.

. Prendo a prestito l’espressione da S. Petrosino, Pensiero dell’evento ed eserciziodella decostruzione, in Su Jacques Derrida. Scrittura filosofica e pratica di decostruzione, acura di P. D’Alessandro, A. Potestio, Led, Milano , p. .

. J. Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel Lévinas, inId., L’écriture et la différence, Seuil, Paris ; trad. it. di G. Pozzi, Violenza e metafisica.Saggio sul pensiero di Emmanuel Lévinas, in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi,Torino , p. . Sul suo rapporto con i Greci, Derrida è tornato una ventinad’anni più tardi in Nous autres Grecs, contributo al volume curato da B. Cassin, NousGrecs et leurs modernes, Seuil, Paris .

. J. Derrida, Mémoires pour Paul de Man, Galilée, Paris ; trad. it. di G.Borradori e E. Costa, Memorie per Paul de Man, Jaca Book, Milano , p. .

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Dialogo, nel titolo, tra la lingua del verbo e quella del sostan-tivo o, come anche si potrebbe dire, forzando appena un po’ ildato linguistico, «strano dialogo» tra il Greco e l’America. Inas-similabile al precedente, esso richiederebbe uno studio specifi-co il cui filo conduttore potrebbe non a caso essere quest’unicadomanda: che significa «l’America» nei testi di Derrida?

In luogo di tale studio, che non rientra nelle intenzioni delpresente contributo, dobbiamo accontentarci di indicare, mol-to sommariamente, alcune ragioni per non ignorare quest’altrostrano dialogo. In particolare tre:

a) Perché è innegabile che la decostruzione derridiana sia«la pratica di un certo rapporto con la memoria europea,con la tradizione e il canone della filosofia»: e tutta-via essa è (diventata) – altrettanto innegabilmente, misembra – anche la pratica di un certo rapporto con l’A-

. Dico «l’America» perché il secondo interlocutore di quest’altro dialogo nonè l’Americano, e meno che mai l’Americano nella figura di un filosofo o di unafilosofia. Anzi, si potrebbe osservare che proprio la filosofia americana in ciò che hadi più caratteristico spicca per la sua assenza.

. Oltre alle indicazioni disseminate nei testi di Derrida, un primo passo nelladirezione di uno studio del genere si trova in P. Kamuf, Event of Resistance, saggiointroduttivo a J. Derrida, Without Alibi, ed. P. Kamuf, Stanford University Press,Stanford . La sua tesi è che «the ‘United States’ is the effective or practical namefor the teologico-political myth we call ‘sovereignty’». Importante, e a mio giudiziopiù persuasiva, l’ipotesi avanzata, in un’intervista, da J-L. Nancy: «oltre al fatto chel’America appare, a torto o ragione, come un mondo in continua destrutturazione eristrutturazione, può anche rappresentare una decomposizione, una decostruzionedell’Occidente europeo che vi si disassembla perché non si appoggia più sul suozoccolo mediterraneo, greco-latino, egiziano, arabo e berbero. È orfano del suo‘medio-evo’ e del suo ‘rinascimento’. All’improvviso si verifica una disarticolazioneche mette a nudo qualcosa di simile a un altro inizio. [. . . ] Forse Derrida volevaindicare quanto sia necessario abbandonare l’Europa per eludere il ripiegarsi della‘chiusura’ onto-teologica – e per comprendere come questa chiusura, nella stessaEuropa, in accordo con la nostra tradizione, non abbia smesso di separarsi da sestessa» (La filosofia come chance, intervista a cura di L. Labbri, in «Alternative», , ;ora in Id., Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, Ombre corte, Verona , pp.-).

. C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, FrancoAngeli, Milano , p. .

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merica. Ora, per quanto imprecisato nel suo referente, ilnome o, più prudentemente, il segno «America» articolacome minimo una certa differenza con l’Europa, la suamemoria, la sua tradizione. Un’altra «chiusura», forseun altro «inizio».

b) Perché la decostruzione, la sua storia e la storia della suafortuna portano anche il segno dell’accoglienza che haricevuto negli Stati Uniti, e in particolare delle reazio-ni vivaci e spesso estreme che ha suscitato. E una certasovra-politicizzazione – un po’ ingenua o un po’ malevo-la, a seconda dei casi – è anche ciò che ne ha fatto, negliStati Uniti più che altrove, un evento – an event, appunto– dentro e fuori l’Università. Ora, c’è motivo di pensa-re che il testo derridiano – il testo, non solo l’autore –non sia rimasto indifferente a tutto ciò e che, anzi, siaattraversato da un movimento più o meno visibile di«ingaggio» con questo contesto americano.

c) Perché, infine, «Jacques Derrida» non è soltanto il nomeproprio di un uomo nato a El Biar, nei pressi di Algeri,nel e morto a Parigi nel , di un «meticcio eu-ropeo sovracculturato e sovracolonizzato», come unavolta si è definito. È anche – per usare una nozione diCarlo Sini – un nome pubblico, cioè un oggetto del sape-re, della conoscenza, dell’informazione. E il «corpo» diquesto nome pubblico non coincide evidentemente con

. Cfr. supra, n. .. Cfr. su questo punto P. Kamuf, Event of Resistance, cit., p. : «What I want to

try to discern, however, is a movement of response whereby this thinking engageswith a U.S. context. That it has been so engaged, for more than thirty-five years, isnot a question or in question; it is a fact, and a massive one. But this fact does notinterest us as such. What would be of interest, rather, is the event of this engagementand response: the engagement by and with Derrida’s work, the response to thatwork but also by that work. It is this work of engagement and response that willhave been the event, perhaps, in which the last thirty-five years have unfolded for asignificant portion of the U.S. university – and beyond».

. Cfr. J. Derrida, L’autre cap, Èditions de Minuit, Paris ; trad. it. di M.Ferraris, L’altro capo, in Id., Oggi l’Europa, Garzanti, Milano , p. .

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il corpo dell’individuo Jacques Derrida: a differenza diquest’ultimo è fatto anche dei suoi libri, delle sue lettere,delle registrazioni delle sue numerose interviste, dellesue apparizioni cinematografiche, delle sue fotografie,e di molto altro. Ora, una parte non trascurabile diquesto corpo pubblico è oggi americana, a cominciaredai manoscritti e dattiloscritti che Derrida ha lasciatoall’archivio dell’Università di Irvine, in California.

Senza dimenticare questo «strano dialogo» – e tutti gli altri,aperti o da aprire – traduciamo ora nella nostra lingua. Salvarel’evento: è di questo, stiamo dicendo, che si tratta. Ma a condi-zione di sospendere o di differire il richiamo di tutti i «salvarei fenomeni» della storia della filosofia – è ancora presto perconvocarli – e intendere questa espressione nel suo significatopiù piano: salvare l’evento come si salvano gli amici, salvarel’evento come ci si salva dai nemici. È questo, in fondo, cheDerrida ha di mira, questa cosa semplicissima e nello stessotempo immensamente difficile: salvaguardare l’accadere o lavenuta dell’evento, proteggere la sua chance delicata o la suairruzione traumatica (ma sono la stessa cosa), fare in modo chenon siano ostacolate, imbavagliate, soffocate, bloccate, steriliz-zate: «la venuta dell’evento è ciò che non si può né si deve maiimpedire, un altro nome dell’avvenire stesso».

Di questo leitmotiv del suo pensiero più avanti sarà necessa-rio seguire da vicino l’articolazione rigorosa, come pure tenerconto della sua modulazione in una pluralità di configurazionifilosofiche, etiche, politiche che lo rilanciano ogni volta da capo;ma c’è una considerazione che è opportuno fare fin da ora eche aiuta a chiarire il suo significato. Si tratta del fatto che sebisogna salvare l’evento, come qui si afferma, vuole dire

. Per un’adeguata comprensione di queste nozioni di «nome pubblico» e di«corpo pubblico», e per quella a esse correlata di «archivio», il rinvio è obbligatoria-mente a C. Sini, Spinoza o l’archivio del sapere, in Id., Opere, vol. IV, tomo I, Jaca Book,Milano .

. J. Derrida, Artefattualità, cit., p. .

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— che c’è qualcosa che lo minaccia, che un qualche pericoloincombe su di lui;

— che l’evento non è in grado per proprio conto di far fron-te a questo pericolo, di mettersi al riparo dalla minaccia.

Se così non fosse, non si capirebbe che cosa potrebbe maisignificare la locuzione «salvare l’evento» né perché sarebbe ne-cessario fare una cosa simile. È una specie di legge del discorsofilosofico: ovunque c’è un σῴζειν – si tratti di fenomeni, appa-renze, eventi – c’è all’orizzonte una minaccia (anche, qualchevolta, nella forma dell’orizzonte stesso): salvare, in filosofia, èsempre σῴζειν ἐκ, sempre salvare da. Nel caso in questione,obbedire a questa legge significa sottomettersi alla sua sintassie chiedersi: (ma) da chi – o da che cosa – è necessario salvarel’evento? Chi – o che cosa – lo minaccia? Chi sono i nemici – oil nemico – dell’evento?

Questione che ne porta con sé un’altra: che cosa, nell’evento,lo espone al pericolo, lo rende minacciabile? Che cosa è e comeè fatto un evento se questa sua esposizione appare inscritta inesso come una sua condizione costitutiva?

La traiettoria di queste domande porta, nei testi derridiani,molto lontano: impone di ridefinire lo statuto dell’evento e lesue condizioni di possibilità; richiede di rompere con ogni ar-chitettonica e ogni teleologia; mette in questione la possibilitàdell’esemplificazione e tutti i suoi corollari; costringe a con-frontarsi criticamente con l’Ereignis heideggeriano sia nella suadeterminazione concettuale sia nella sua valenza di tentativodi oltrepassamento dell’orizzonte dell’ontologia. Prima di se-guirla in alcuni suoi tratti, vorrei provare a mettere a fuoco ilproblema per mezzo di un’analogia – con tutti i limiti e i rischidi un simile procedere e in ogni caso guardando più alla strut-tura del ragionamento che ai contenuti e alle tesi filosoficheche vi si trovano coinvolti.

È nota la forza con la quale Husserl pone al centro dell’im-presa fenomenologica l’esigenza di andare alle cose stesse, zur

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Sache selbst: il «vero positivista» è il fenomenologo, in quantolascia che i fenomeni si manifestino da se stessi e nei limitiin cui si manifestano; ed è nota anche la critica di Derrida:questo ammirevole progetto è per così dire minato dalla suastessa esigenza, poiché non solo andare alle cose stesse è im-possibile («ovunque e sempre ci sono solo differenze e traccedi tracce»), ma è esattamente la volontà di incontrare le cosestesse nella purezza della loro datità originaria e nella pienezzadella loro presenza che costituisce l’ambizione metafisica pereccellenza: «la fenomenologia rimane – nel suo ‘principio ditutti i principi’ – la più radicale e critica restaurazione dellametafisica della presenza».

Proprio la consuetudine con questi temi, però, tende a met-tere in ombra il presupposto della massima husserliana: il fatto,cioè, che se è necessario andare alle cose stesse, evidentemen-te è perché le cose stesse non si danno in maniera autenticanella nostra esperienza di tutti i giorni – si danno delle cose,potremmo dire, ma non le cose stesse; se bisogna lasciare chei fenomeni si manifestino da se stessi, è perché essi anzituttoe perlopiù, come direbbe Heidegger, non si manifestano da sestessi.

Che ciò non sia una semplice ovvietà ma, appunto, un pre-supposto nel quale occorre vedere chiaro è testimoniato dallacircostanza che precisamente intorno a questo nodo, al pro-

. Il riferimento è ovviamente al § di E. Husserl, Idee I: «tutto ciò che si dàoriginalmente nell’“intuizione” [Intuition] (per così dire in carne e ossa) è da assumerecome esso si dà [es sich gibt], ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (E. Husserl,Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Husserliana Bd. III/ e III/, hrsg.von K. Schuhmann, Martinus Nijhoff, Den Haag ; trad. it. di V. Costa, Ideeper una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzionegenerale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino , pp. -).

. Cfr. J. Derrida, Positions, Minuit, Paris ; trad. it. di M. Chiappini e G.Sertoli, Posizioni, Bertani, Verona , p. .

. J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris ; trad. it. di R. Balzarotti,F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della Grammatologia, Jaca Book,Milano , p. .

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blema di capire che cosa impedisca il darsi delle cose stesse –e, ripetiamo, senza questo impedimento la massima fenome-nologica non avrebbe la rilevanza filosofica che reclama, masarebbe solo un generico invito all’onestà scientifica – la viaseguita da Husserl e quella di Heidegger si dividono. Se l’eserci-zio fenomenologico è, come vuole Husserl, una continua lottacontro il fraintendimento (naturalistico, obiettivante, eccetera),se le cose si danno sempre velate, occultate, ricoperte (dallenostre teorie, dalle nostre interpretazioni e così via), sicché dinorma noi non facciamo esperienza delle cose nella loro datitàoriginaria, ma delle cose già prese nelle nostre interpretazioni,come si devono pensare l’occultamento, il velamento, il rico-primento? Sono un nostro vizio, dal quale il paziente lavorodel fenomenologo ci può insegnare a liberarci, oppure sonoun tratto costitutivo del darsi delle cose, una sua condizioneineliminabile? Semplificando più del lecito, come qui siamoobbligati a fare, possiamo dire che la prima sarebbe la posizionedi Husserl, la seconda quella di Heidegger.

Ora, la questione derridiana dell’evento si presenta moltosimile sotto il profilo strutturale. Nella misura in cui, per Derrida,si tratta di favorire la venuta dell’evento – che, nei termini dell’a-nalogia, corrisponderebbe alla massima di andare alle cose stesse,oppure di lasciare che i fenomeni si manifestino da se stessi –,la prima difficoltà con cui inevitabilmente si scontra il pensieroè comprendere che cosa possa impedire la venuta dell’evento,così come per Husserl e per Heidegger il primo punto critico,rispetto al quale si decide gran parte delle successive mosse, eracomprendere che cosa potesse impedire l’automanifestarsi del-l’ente, del fenomeno; e sempre dando a questi «impedimenti»tutta la forza etico-politico-filosofica che spetta loro.

Che, d’altra parte, la pertinenza di tale analogia non sia unmero caso è legittimo presumerlo se si considera che è nellalinea di questa riflessione, e a questa profondità, che Derri-da eredita il problema e lo rimette in gioco nella sua interro-gazione sull’evento – al di là della fenomenologia e al di làdell’ontologia.

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Ma esiste realmente, nel pensiero di Derrida, una simileinterrogazione sull’evento?

Strana domanda, questa – e strano momento per porla. Tut-to ciò che fin qui ho detto non è forse fondato, dalla primaall’ultima riga e in maniera molto ovvia, sull’assunto che unatale interrogazione esista? Non la dà insomma per scontata? E sepure la sua esistenza non fosse così evidente, se pure ci fosserodelle incertezze al riguardo, non si doveva affrontarle subitoinvece di attendere tanto a lungo?

Certamente. Ma se adesso proviamo a precisare meglio ladomanda, come Derrida ci ha insegnato a fare, ci accorgere-mo che essa è meno fuori posto di quanto possa apparire eche il suo scopo non è sollevare dei dubbi artificiosi sul per-corso precedente bensì interrompere quello che chiamerei uneccesso di familiarità con il tema dell’evento, come se il fattodi condividere le preoccupazioni che in esso si esprimono –di condividerne la bontà, per così dire – ci avesse convinti diaverne già esaminato tutte le premesse.

«Esiste realmente una tale interrogazione sull’evento», cioèdue domande in una:

a) Esiste in Derrida l’interrogazione sull’evento? C’è, è pre-sente, documentata, esibita nei testi che portano la suafirma?

b) Esiste in Derrida l’interrogazione sull’evento? L’oggettodi questa interrogazione è davvero l’evento?

È chiaro che queste domande non si trovano sullo stessopiano né in rapporto ai problemi che pongono né riguardo allaportata delle loro implicazioni, ed è, se si vuole, una ragionein più per non confonderle; tuttavia sono entrambe necessarie,come vedremo, alla messa a fuoco della questione posta neltitolo.

La risposta – affermativa – alla prima domanda sembrafacile: ha dalla sua il riscontro puntuale negli scritti di Derrida

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e il conforto supplementare degli interpreti; si tratta solo dilasciar parlare i testi ed eventualmente di citare a confermagli studi, sempre più numerosi, dedicati al tema dell’evento inDerrida: evidenze solide che sarebbe imprudente contestare.

Senza commettere quest’imprudenza, credo sia opportunoprestare attenzione anche ad alcuni indizi o segnali minori, pe-raltro molto eterogenei, i quali non giungono a costituire unaprova (e di che cosa, poi?) o a mettere seriamente in discussio-ne la risposta né singolarmente né presi nel loro insieme, maforse concorrono a renderla un po’ meno meccanica, un po’meno sicura di sé. In effetti, si tratterebbe di ammettere chemalgrado le evidenze indiscutibili alle quali ho appena accen-nato, malgrado il fatto che «sono almeno trentacinque anni cheDerrida va ponendo domande sull’eventualità dell’evento»,questa risposta deve comunque prendere la forma del «sì, ma. . . », dove il «ma» non avrebbe valore avversativo, bensì ser-virebbe a qualificare meglio il «sì», a fissargli alcuni limiti, adaccompagnarlo con qualche cautela e qualche riserva.

Esiste in Derrida l’interrogazione sull’evento? Sì, ma

— Derrida non ha scritto alcun trattato sull’evento, e soprat-tutto non ha scritto L’essere e l’evento, che, com’è noto, èil titolo di un importante libro di Badiou;

— nella conversazione con L’Humanité già ricordata, all’in-tervistatore che afferma: «Il tempo è in fin dei conti alcentro del suo pensiero, benché lei non proponga affattouna filosofia del tempo. Si avrebbe piuttosto l’impres-sione di aver a che fare con una filosofia dell’evento»,Derrida risponde: «Lei ha ragione, non c’è alcuna filo-sofia del tempo in ciò che ho scritto. Ma neanche unafilosofia dell’evento o della morte»;

— in Il me faudra errer tout seul, il breve testo scritto in mortedi Deleuze , si legge: «Deleuze, il pensatore, è prima di

. Così P. Kamuf in Events of Resistance, cit., p. .. Entretien avec Jacques Derrida, cit.

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tutto il pensatore dell’evento, e sempre di questo evento[cet événement-ci]. Lo è rimasto dall’inizio alla fine». Epiù oltre Derrida precisa: «Sì, tutti abbiamo amato lafilosofia, chi può negarlo? Ma è vero, l’ha detto lui stesso,Deleuze è colui che l’ha fatto più ‘gioiosamente’, piùinnocentemente. Non avrebbe amato la parola che housato poco prima, ‘pensatore’. Avrebbe preferito ‘filoso-fo’. A questo proposito diceva di essere “il più innocentee il meno colpevole per il fatto di ‘fare filosofia’”».

Si dirà: osservazioni di poco conto, precisazioni marginaliche non appartengono nemmeno all’ordine della teoria o di ciòche tradizionalmente viene inteso con questo nome. Può darsi,e del resto è proprio l’ordine della teoria che qui è in questione:ma talvolta i dettagli più trascurabili illuminano meglio delleevidenze più appariscenti.

Che cosa, però, illuminano, di che cosa sono indizi? In primaapprossimazione credo si debba rispondere così: sono indizidi una presa di distanza – discreta e senza polemiche – da ognitentativo, e da ogni tentazione, di trasformare l’interrogazionesull’evento in una teoria dell’evento: resistenza al trattato, alla«grande macchina filosofica»; resistenza al sistema come «com-posizione di proposizioni ontologiche»; rapporto problematicocon la filosofia (qui l’osservazione a proposito di Deleuze edella sua «innocenza» è particolarmente istruttiva perché, comeè stato ricordato, Deleuze «diceva volentieri che con la meta-

. In J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Galilée, Paris ; trad.it. di M. Zannini, Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book, Milano , pp.-, trad. mod. La centralità della nozione di evento nel pensiero di Deleuze èsottolineata anche, già dal titolo, nella monografia di F. Zourabichvili, Deleuze. Unephilosophie de l’événement, PUF, Paris .

. Aggiungiamo un altro di questi dettagli: la circostanza curiosa che la parola«evento» non compare come voce specifica né in Derridabase di Bennington (inG. Bennington e J. Derrida, Jacques Derrida, Seuil, Paris ) né nel più recenteDerridario di S. Facioni, S. Regazzoni e F. Vitale (il Nuovo Melangolo, Genova ).

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fisica non aveva alcun problema»); resistenza al concetto innome e per conto di un’«estasi del concetto»; rifiuto della «pa-rola unica», si chiamasse anche, questa parola, «evento». Sono,questi, motivi costanti del pensiero di Derrida che non devonosorprendere; il loro specifico interesse risiede, se mai, nellacurvatura che prendono quando sono rigiocati in rapporto allaquestione dell’evento. E se li guardiamo in questa prospettiva,due tratti meritano, tra altri, di essere posti in rilievo.

Anzitutto, una sottile trasformazione del quadro di riferi-mento teorico nei confronti del quale tali motivi si definivano.Supponendo che, per un istante, si possa distinguere, nella de-costruzione, tra il pensiero della différance e l’interrogazionesull’evento – e niente, come ho già ricordato, è meno artificiosodi questa distinzione –, ci si accorge che se il primo si definivaprincipalmente, benché non esclusivamente, in rapporto allafenomenologia trascendentale di Husserl in quanto forma «piùmoderna, più critica ed attenta» della storia della metafisicae in rapporto alla «inaggirabile meditazione heideggeriana»,sfruttandone tutte le risorse filosofiche, la seconda continua adefinirsi in relazione a questi orizzonti – a questa «linea tedesca»come la chiama Nancy – ma lo fa in maniera meno puntuale eanalitica, secondo una necessità più morbida che qualche voltasembra trascolorare nella casualità o nell’abitudine: in ognicaso lasciando, al posto di quell’impegnativo confronto teoreti-co, una specie di spazio vuoto che nessuna filosofia dell’eventosembra chiamata ad occupare portando in dote tutte le proprierisorse concettuali.

Bisogna tuttavia intendersi su questa trasformazione. Laposta della decostruzione è sempre stata più ampia: il tentativodi marcare e, nello stesso tempo, schiudere il limite del testometafisico o il limite di ciò che, con Heidegger, veniva chia-mato onto-teologia. Ma era una posta che Derrida conseguiva,

. Cfr. A. Badiou, Petit panthéon portatif, La Fabrique, Paris ; trad. it. di L.Bosi, Piccolo pantheon portatile, il melangolo, Genova , p. .

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nella misura in cui ciò era possibile, in primo luogo attraversoun’analisi teoreticamente serratissima della nozione di «presen-te vivente» in Husserl – per mostrare che al fondo di questopresente vivente resta «una non-presenza irriducibile, e conessa una non-vita o una non-presenza o non-appartenenza a sédel presente vivente» – oppure della «differenza ontologica»di Heidegger – per mostrare come anch’essa «rimanga anco-ra, in qualche strano modo, all’interno della metafisica». E ilpensiero della différance si nutriva della straordinaria potenzadi queste analisi (e di molte altre, naturalmente, che qui nonè possibile richiamare), superiore anche alle loro mancanzefilologiche o alla loro parzialità ermeneutica (effettive o pre-sunte che siano). In altre parole e in un senso che certamenteandrebbe calibrato meglio, la riuscita dell’impresa decostruzio-nista era funzione tanto del rigore con cui aveva selezionato ipropri bersagli quanto della precisione con cui ne aveva miratoal cuore, sia pure portando l’attacco a partire dai margini o, piùsottilmente, individuando nei margini il cuore. Era necessarioesaurire le risorse del concetto metafisico «prima ed al fine diraggiungerlo, per decostruzione, nel suo ultimo fondo», comesi legge in De la grammatologie.

Ora, l’interrogazione sull’evento non rinuncia al tentativodi marcare uno scarto dalla metafisica o da ciò che adessosi precisa come onto-teo-archeo-teleologia, né cessa in generaledi attingere gran parte delle sue risorse dalla storia della me-tafisica. Ma a fronte di quella che si potrebbe chiamare unamoltiplicazione delle micro-analisi, sottilissime e sempre ori-ginali, diventa più difficile trovare una discussione altrettantoserrata e puntuale del concetto di evento: del concetto di even-to, intendo, come la storia della metafisica nelle sue forme piùmoderne, più critiche e attente l’ha pensato (il che, sia detto

. J. Derrida, La voix et le phénomène, PUF, Paris ; trad. it. di G. Dalmasso,La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano , p. .

. J. Derrida, Posizioni, cit., p. .. Ivi, p. , corsivo nostro.

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per inciso, avrebbe forse comportato la necessità di allargarequegli orizzonti di riferimento). Persino il discorso sulle con-dizioni di possibilità/impossibilità dell’evento, che costituiscesenza dubbio uno degli elementi più originali e importanti diquesta interrogazione, ne è a suo modo una prova: esso si dàa leggere in maniera inequivocabile sullo sfondo dei grandiprogetti trascendentali, di cui costituisce allo stesso tempo lapiù radicale esecuzione e la beffa più crudele – le condizioni dipossibilità che si spingono tanto lontano da doversi rovesciare,per coerenza, in condizioni di impossibilità; ed è chiaro che habisogno del rapporto con questo sfondo per marcare il limite ditali progetti e liberare ciò che li eccede; tuttavia, proprio questorapporto si declina a un livello di generalità tale da renderearduo, se non impossibile, accertare con precisione di qualeconcetto di condizioni di possibilità si stiano «esaurendo le pos-sibilità». La risposta che qualche volta Derrida pare suggerire eche molti interpreti hanno fatto propria – «di tutti!» – è, infatti,meno evidente di quanto si pensi: presuppone, solo per fareun esempio, un lavoro sul concetto kantiano di condizioni dipossibilità dell’esperienza che ne esaurisca le risorse anche sulterreno della conoscenza empirica, lavoro che sarebbe affrettatodare per già svolto.

Soltanto alla luce di considerazioni come queste far notareche Derrida non ha scritto L’Essere e l’evento può non apparireuna boutade o un’osservazione lapalissiana (Derrida non ha maiscritto trattati: nemmeno De la grammatologie, comunementeconsiderato il luogo in cui egli avrebbe esposto in maniera piùesplicita le proprie «tesi», è in verità un trattato), bensì rappre-sentare un modo, più o meno efficace, di attirare l’attenzionesul fatto che una resa dei conti teoretica – ma l’espressione ècerto inadeguata – con il concetto metafisico di evento rimane

. L’eccezione più rilevante è il confronto con la problematica heideggerianadell’es gibt e dell’Ereignis. Su ciò vedi C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire daJacques Derrida, Guerini, Milano .

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per così dire tra le righe del testo derridiano, più accennata, for-se, che realizzata. Di nuovo, tuttavia, va ribadito che a mancarenon sarebbe la teoria filosofica di Derrida sull’evento, che nonè mai stato nelle sue intenzioni costruire e che anzi sarebbecontraria al suo progetto, quanto riferimenti teorici sufficien-temente definiti da poter fornire, loro malgrado, la spondanecessaria al lavoro della decostruzione.

Ammesso, naturalmente, che ciò sia una mancanza, perchéc’è da chiedersi se, per salvare l’evento, una tale resa di contirisulti ancora indispensabile. È possibile, infatti, che la penom-bra in cui l’interrogazione sull’evento lascia i propri bersaglifilosofici – non sempre e non con le stesse conseguenze – noncostituisca tanto un suo limite, come le osservazioni che hofatto sembrerebbero lasciar intendere, quanto una sua necessità.Che la questione, se si vuole, si giochi ora su un piano diverso– chiamiamolo provvisoriamente, come l’hanno chiamato inmolti, etico-politico. La teoria non vi sarebbe esclusa, ma forsenon vi farebbe più da padrona.

L’altro tratto che è opportuno evidenziare in merito allapresa di distanza derridiana dalla tendenza a fare dell’interro-gazione sull’evento una teoria dell’evento si appunta su unadifficoltà di diverso genere, la cui enunciazione è relativamen-te semplice (a differenza della cosa da pensare). Si tratta delfatto che una filosofia dell’evento risulterebbe insufficiente ocomunque non all’altezza di ciò che la decostruzione vuolepensare, non in quanto sarebbe ancora una filosofia, cioè an-cora concetto, sistema, eccetera – tutte le difficoltà insommache abbiamo esaminato nei paragrafi precedenti – ma perchésarebbe una filosofia dell’evento. In questo caso è il genitivo chefarebbe problema, poiché la parola «evento» dice prima di tuttosingolarità irripetibile e questo, che è il suo merito, è anche ilsuo inconveniente, la ragione per la quale non può bastare, allalettera la sua unilateralità: è necessario, infatti, pensare anche illato opposto della cosa, l’iterazione, la ripetibilità, il calcolo –

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in una parola, la macchina. Derrida lo dice molto chiaramentein un testo che è circolato in traduzione inglese prima che infrancese (di nuovo, il corpo americano di Derrida . . . ):

Will we one day be able, and in a single gesture, to join the thinkingof the event to the thinking of the machine? Will we be able tothink, what is called thinking, at one and the same time, both what ishappening (we call that an event) and the calculable programmingof an automatic repetition (we call that a machine)?

For that, it would be necessary in the future (but there will beno future except on this condition) to think both the event and themachine as two compatible or even indissociable concepts. Todaythey appear to us to be antinomic.

In questa prospettiva, in cui Derrida rimette in gioco temiche hanno avuto un ruolo fondamentale nel lavoro di decostru-zione della nozione di presenza, una filosofia dell’evento che nonli sapesse prendere in carico rischierebbe di essere una filosofiasoltanto dell’evento, capace di pensare uno solo dei nomoi quandoinvece si tratterebbe di pensarli insieme, di pensare insieme –al di là di qualsiasi sintesi o conciliazione dialettica, di qualsiasiraccoglimento in un’unità superiore – la singolarità irripetibile,ogni volta unica, e la macchina; di pensare l’incalcolabile insiemecon il calcolo.

In un altro senso ancora, e senza contraddizione, una filo-sofia dell’evento che non avesse occhi che per l’evento farebbetorto a quest’ultimo, non avvedendosi che «macchina» non dicesoltanto il contrario di singolarità irriducibile – questa sarebbela sua significazione più immediata – ma dice anche (qualcosacome) condizione di (im)possibilità per poter pensare l’evento:il calcolo, la calcolabilità, come condizione per poter pensarel’incalcolabile.

. J. Derrida , Typewriter Ribbon: Limited Ink (), in Id. Without Alibi, cit., p. ;originariamente apparso in B. Cohen (ed.), Material Events: Paul de Man and theAfterlife of Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis .

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La segnalazione di questi problemi, destinati a ripresentarsima anche a rimanere problemi, dovrebbe aver reso il sensodella complessità di una domanda così semplice come chiedersise nei testi derridiani vi sia una interrogazione sull’evento. Èopportuno, ora, affrontare la seconda domanda, che chiedese l’interrogazione derridiana sull’evento verta effettivamentesull’evento.

Anche questa può sembrare una domanda piuttosto strana,poiché non si capisce su che cos’altro dovrebbe o potrebbe verte-re. È sufficiente, però, ricordarsi della discussione di Derrida congli antropologi sul tema del dono per comprendere la natura diquesta stranezza e, con essa, il significato della domanda. Il donodi cui si occupa l’antropologia, diceva Derrida, non è in verità ildono, anzi «si potrebbe giungere sino a dire che un libro cosìmonumentale come il Saggio sul dono, di Marcel Mauss, parla ditutto tranne che del dono». È dunque possibile – e più avantidovremo tornare sulla «logica » di questa possibilità – che vi siaun’antropologia del dono, ma che essa non verta sul dono.

Se, come a me pare, questo richiamo telegrafico a un temacui Derrida ha dedicato analisi minuziose conferisce maggioreplausibilità alla domanda, può essere interessante tentare unarisposta che segua uno schema in qualche modo simile, senon altro come sua ipotesi di lavoro. In questo caso, però, sitratta innanzitutto di rovesciare l’approccio corrente e anzichédare per scontato che in Derrida vi sia un pensiero dell’evento,provare a muovere dalla posizione di chi gli ha obiettato cheproprio l’evento è ciò che il suo pensiero manca. Partendo,nello specifico, da una «polemica» che è forse meno vecchia diquanto dichiari il suo certificato anagrafico.

È appena il caso di avvertire che ne risulterà un percorsomeno lineare di quanto sarebbe desiderabile, attento soprattut-to ai problemi e ai rischi che il pensiero di Derrida incontra sulproprio cammino al pari di ogni altro pensiero.

. J. Derrida, Donner le temps, Galilée, Paris ; trad. it. di G. Berto, Donare iltempo. La moneta falsa, Cortina, Milano , p. .

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Nel Michel Foucault risponde alle obiezioni che noveanni prima Derrida aveva avanzato all’impresa tentata da Histoi-re de la folie. Come si sa, quelle obiezioni, orchestrate intornoalla tesi che le tre pagine dedicate a Descartes contenessero nel-la loro problematica la «totalità» del libro di Foucault, avevanoprovocato l’irritazione di quest’ultimo e incrinato l’amicizia trai due filosofi.

Della risposta di Foucault esistono due versioni: una pub-blicata in appendice alla riedizione dell’Histoire de la folie conil titolo Mon corps, ce papier, ce feu; l’altra apparsa sulla rivistagiapponese «Paideia» e dal titolo più diretto: Réponse à Derri-da. Questa seconda versione, non ignota ma meno frequentatadell’altra, è, per noi, la più interessante.

Come Foucault precisa nelle prime righe, non si tratta inrealtà di una risposta ma di alcune osservazioni supplementari«che a molti appariranno, fuor di dubbio, del tutto esterne, eche probabilmente lo sono, ma questo per la semplice ragioneche la Storia della follia, così come i testi che sono venuti dopo,si collocano effettivamente al di fuori rispetto alla filosofia, operlomeno al modo in cui essa viene praticata ed insegnata inFrancia». La precisazione finale anticipa il senso dell’interareplica: Derrida e la sua lettura della Storia della follia sonoin tutto e per tutto solidali alla filosofia quale viene praticata einsegnata in Francia. Il terreno su cui poggia la critica di Derridaè infatti, agli occhi di Foucault, quello più tradizionale, che siriassume in tre postulati: la filosofia come critica universale diogni sapere, dispensata dall’analisi reale del contenuto e delleforme di tale sapere; come ingiunzione morale a destarsi soloalla sua propria luce, incurante della «singolare positività dellecose»; come perpetua reduplicazione di se stessa nel commentoinfinito dei suoi testi, senza rapporto al alcuna esteriorità. «Tratutti coloro che oggi, in Francia, fanno filosofia all’ombra di

. M. Foucault, Risposta a Derrida, trad. it. di G. Bertani, in Id., Il discorso, lastoria, la verità. Interventi -, Einaudi, Torino , p. .

. Cfr. ivi, p. .

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questi tre postulati, senza dubbio Derrida è il più profondo edil più radicale. Ma, forse, sono proprio questi tre postulati chedovrebbero essere rimessi in discussione».

Ora, secondo Foucault l’adesione acritica di Derrida a questitre postulati è ciò che gli impedisce di leggere, «sui bordi esternidella filosofia cartesiana», l’«evento-limite» dell’esclusione dellafollia:

Non si può cogliere, dall’interno del sistema, l’esclusione della follia,la quale non potrà apparire che all’interno di un’analisi del discorsofilosofico non tanto come una permanenza architettonica, quanto co-me una serie di eventi. Ma una filosofia della traccia, vale a dire unafilosofia che prolunga e prosegue la tradizione e la conservazionedella tradizione, come potrebbe essere attenta a un’analisi dell’even-to? [. . . ] Come una filosofia che si pone sotto il segno dell’origine edella ripetizione, potrebbe pensare la singolarità dell’evento?

Ben oltre il caso specifico della follia e della sua esclusione,che ne sarebbe solo l’esempio privilegiato, la filosofia di Derridasarebbe dunque incapace, per costituzione prima ancora cheper difetto, di pensare l’evento: questa la conclusione e la contro-accusa di Foucault.

Non la ricordo per sottoscriverla: ingenerosa già in rapportoal percorso teorico compiuto da Derrida fino a quel momento,è per molti aspetti il documento di una polemica in cui talvoltail risentimento prevale sulla serenità del giudizio. Ma rimpro-verare a Foucault di non aver tenuto conto delle cautele concui Derrida avanza nella sua analisi di Storia della follia oppure

. Ibidem.. Ivi, p. .. Nella versione pubblicata in appendice a Storia della follia, Foucault rincara la

dose: «Non dirò che questa è una metafisica, la metafisica ovvero la sua chiusura chesi nasconde in questa ‘testualizzazione’ delle pratiche discorsive. Andrò molto piùlontano: dirò che si tratta di una piccola pedagogia ben determinata che si manifestain modo assai visibile» (Storia della follia, trad. it. di F. Ferrucci, E. Renzi, V. Vezzoli,Rizzoli, Milano , p. ).

. Per esempio là dove precisa che «l’analisi di Foucault è troppo ricca, si muovein troppe direzioni per permettere a un metodo o anche ad una filosofia, nel senso

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accusarlo di aver travisato il pensiero della traccia sarebbe fintroppo facile e probabilmente altrettanto ingeneroso. Più inte-ressante, invece, provare a raccoglierne la provocazione teoricanella sola forma che qui può importare: e se in qualche modol’evento fosse proprio ciò che la decostruzione non riesce apensare?

Come dire: e se dall’interrogazione sull’evento fosse assenteproprio l’evento?

È chiaro che nemmeno Foucault si è spinto fino a questopunto, se non altro perché non poteva avere sotto gli occhi ilpercorso successivo di Derrida. È tuttavia possibile – e bisogne-rà vedere se è anche assennato – dare alla sua provocazioneun valore prolettico, formulando l’ipotesi che essa conservi lapropria presa anche al di fuori e oltre il contesto determinatoche l’ha motivata: in altre parole, che ci si possa servire di unadiscussione datata per gettare luce su posizioni teoricheche si sono formate in seguito, in un altro contesto, forse in unaltro mondo.

Ho già lasciato intendere che la strada più breve indicatada Foucault, quella che collega l’incapacità di pensare l’evento(effetto) direttamente al pensiero della traccia (causa), è contutta evidenza poco promettente. Ciò non implica, tuttavia,che si debbano trascurare del tutto le osservazioni contenutenella sua risposta, come se la loro tendenziosità le mettessedefinitivamente fuori gioco. Conviene, al contrario, fare an-cora qualche passo in loro compagnia, poiché alcune di essemeritano una considerazione maggiore di quella che hannoricevuto, in particolare là dove illustrano il funzionamento deitre postulati sotto la cui guida procederebbero le critiche diDerrida.

tradizionale di questa parola, di precederla» (Cogito et histoire de la folie, in Id., L’écritureet la différence, cit.; trad. it. di. G. Pozzi, Cogito e storia della follia, in Id, La scrittura e ladifferenza, cit., p. ).

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Riferendosi a tali postulati, ai quali attribuisce il compito dilegittimare la singolare operazione di Derrida – rinvenire il pro-getto dell’intera Storia della follia nelle tre sole pagine dedicate aDescartes –, Foucault è attento a mostrarne la consequenzialità,rilevando

a) che nella prospettiva di Derrida, «se è possibile denuncia-re un difetto o un errore nel rapporto fondatore con lafilosofia, diventa del tutto inutile discutere le seicentocin-quanta pagine di un libro, come risulta inutile analizzareil materiale storico che lì viene utilizzato, oppure critica-re la stessa scelta del tipo di materiale, o la distribuzionee l’interpretazione dello stesso»;

b) che «rispetto alla filosofia che egli ritiene detenga in modoeminente la legge di ogni discorso, Derrida suppone chevengano commesse delle colpe [. . . ] che costituisconoquasi un misto tra peccato nell’accezione cristiana e lapsusnel senso di Freud»: «basta che ve ne sia una, però mortale,perché non vi sia più possibilità di salvezza alcuna»;

c) che per Derrida la filosofia è «al di qua o al di là di ognievento», perché «l’eccesso dell’origine, che nessun’altraforma di discorso o di pratica, se non la filosofia, puòripetere al di là di ogni oblio, toglie ogni pertinenzaall’evento».

È fuor di dubbio che, nella prospettiva della risposta, questitre rilievi costituiscano altrettanti capi d’accusa (o di contro-accusa) a carico di Cogito e storia della follia: Foucault se ne serveper mostrare che ciò che dà fondamento alle obiezioni di Der-rida, la base su cui esse poggiano, è ciò che toglie loro ognivalore; che la loro legittimazione è ipso facto la loro delegittima-zione. Ed è già nota anche la conclusione: cecità particolare di

. M. Foucault, Risposta a Derrida, cit., pp. -.. Ivi, p. .. Ivi, p. .

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Derrida nei confronti di quell’evento determinato che è l’esclu-sione della follia e cecità generalizzata nei confronti dell’eventoin quanto tale – in un certo senso, la prima come conseguenzadella seconda. Ma ci si può chiedere se questo sia il solo mo-do di interpretarli oppure se essi non autorizzino anche altreletture – se non le richiedano persino.

Le più produttive sarebbero con ogni probabilità quelle ingrado di riconoscere ai rilievi Foucaultiani una certa pertinenzasenza tuttavia farne il pretesto per screditare a priori le obiezionidi Derrida al progetto di Storia della follia e soprattutto senzaricavarne la liquidazione sommaria dell’intera prospettiva de-costruzionista. L’ostacolo principale con cui letture di questogenere si scontrano, e che forse ne spiega anche la rarità, è ladifficoltà di dare a tali rilievi il giusto peso. Da questo puntodi vista, la tesi, spesso ripetuta, secondo cui la discussione fraDerrida e Foucault si svolge su piani del discorso del tutto etero-genei, appare accettabile solo con molte riserve, perché disarmaanticipatamente le obiezioni tanto dell’uno quanto dell’altro e,nel suo esito, richiama alla mente il titolo di un vecchio (e nonmemorabile) film: Non guardarmi: non ti sento.

Non sarà inutile riflettere brevemente su questa tesi. Nelquadro di un discorso più ampio sullo stile di intervento diDerrida, Jean-Luc Nancy ne ha offerto una formulazione parti-colarmente perspicua:

Il dibattito con Foucault, ad esempio, non si è sviluppato tra dueopzioni teoriche ma tra un determinato trattamento storico della«follia» in quanto categoria costruita dal razionalismo moderno euna considerazione filosofica della «follia» in quanto limite dellaragione, considerazione che il testo di Cartesio ci obbliga a fare eche, all’improvviso, impedisce di attenersi a un découpage di caratterestorico-sociologico. Questi non ne esce invalidato, ma il registro ècompletamente mutato, questo è tutto. Derrida ha interrogato lepresupposizioni filosofiche del discorso storico-critico di Foucault,non ha «polemizzato» contro quel discorso né sul suo territorio.

. J-L. Nancy, La filosofia come chance, cit., p. .

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Per molti aspetti, la considerazione è inoppugnabile e cor-risponde all’impressione che qualsiasi lettore attento di Cogitoe storia della follia ha avuto: i due discorsi corrono su binaridifferenti, e non c’è una polemica di Derrida contro il discorsodi Foucault ma un potente lavoro di scavo delle sue radici filo-sofiche. Su questo piano si potrebbe solo osservare che le cosesi complicano un po’ quando entra in gioco l’esegesi del testocartesiano: qui per un momento sembra che i due registri siintersechino o, più esattamente, che cedano entrambi il pas-so a un’affilata contesa ermeneutica, nella quale, come è statoefficacemente osservato, «una pagina della prima Meditazioneviene guardata al microscopio, frugata fin negli avverbi e nellecongiunzioni». Ma il punto che in questa sede va rilevato èun altro. Se, infatti, Nancy ha senz’altro ragione nel ricordareche «Derrida ha interrogato le presupposizioni filosofiche deldiscorso storico-critico di Foucault», ne ha forse meno quandodice che «questo è tutto». Poiché «questo», in verità, è l’inizio enon la fine del problema.

Da questo punto di vista, non è un caso che, nella sua ri-sposta a Derrida, e specialmente nel primo dei rilievi che pocofa abbiamo ricordato, Foucault intenda mettere in discussioneil senso dell’operazione critica di Derrida proprio nei termi-ni in cui Nancy la presenta. Interrogare le presupposizionifilosofiche di un discorso è, per Foucault, un’operazione altret-tanto carica di presupposizioni, in particolare di tutte quelle cheassegnerebbero in via affatto privilegiata alla filosofia questaprerogativa, questo «rapporto fondamentale» che necessaria-mente ogni discorso razionale avrebbe con lei. Il «découpagestorico-sociologico» di cui parla Nancy può certamente ap-parire, allora, dal punto di vista della filosofia, un’ingenuità:ma solo sullo sfondo di un’ingenuità più grande che consiste-rebbe nel non domandarsi mai quali sono le presupposizioni«storico-sociologiche», per esempio, del proprio discorso sulle

. Cfr. P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani,Milano , p. .

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presupposizioni degli altri discorsi. Sicché la tesi che dice: Der-rida si colloca su un altro piano, non polemizza con Foucaultma interroga le presupposizioni filosofiche del suo discorso,questa tesi all’apparenza tanto convincente mette al riparo l’in-tervento di Derrida dalle repliche senza dubbio un po’ stizzitedi Foucault al prezzo di ciò che somiglia molto a una petitioprincipi. Sostenere una radicale eterogeneità dei registri di di-scorso nel senso di Nancy rischia di evadere il problema nellamisura in cui ha già deciso che le presupposizioni filosofichesono sempre le presupposizioni ultime di ogni discorso, il che èesattamente ciò che la risposta di Foucault mette in discussione.

Se questa considerazione ridà forza ai rilievi critici di Fou-cault in relazione al dibattito sulla follia (senza peraltro togliernea quelli di Derrida, che continuano a restare decisivi), è possibi-le fare un passo ulteriore. La risposta di Foucault fa perno, comes’è visto, sull’evento in quanto presunto punto cieco del pen-siero di Derrida, sviluppando la proprio contro-accusa lungodue direzioni: una di carattere generale, in cui viene imputatoalla «cattiva» filosofia di Derrida – il suo pensiero della traccia– un’incapacità strutturale di pensare l’evento in quanto tale; euna più circoscritta in cui l’evento che Derrida terrebbe fuo-ri del proprio campo visivo prende delle forme più concrete:sono le seicentocinquanta pagine di Storia della follia, è il ma-teriale storico utilizzato dal libro, sono i regolamenti di poliziadel XVII secolo, è la riforma di Pinel, sono l’internamento dimigliaia e migliaia di persone, eccetera. Ora, contrariamente aciò che si potrebbe supporre, questa seconda direzione, benchésia chiaramente la più legata all’orizzonte storico del dibattito,e in apparenza dunque anche la più datata, è, nella prospettivadell’ipotesi che stiamo seguendo, quella di maggiore interesse.

A questi eventi «materiali» Foucault dà, nella risposta, il no-me di «positività» – la «singolare positività delle cose» – e qual-che altra volta quello di «esteriorità»: essi sono, in un sensomolto preciso, ciò che è esteriore, estraneo alla filosofia, alla

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«grande interiorità della filosofia». Quella di Cartesio, prima ditutto; ma anche, è chiaro, quella di Derrida: «una filosofia cosìpreoccupata di rimanere nell’interiorità della filosofia», comepotrebbe riconoscerli?

Teniamo in sospeso per qualche istante le obiezioni che sipotrebbero fare a questo malizioso interrogativo, e prima ditutto quella che riguarda la distinzione tra interiorità ed este-riorità, e osserviamo molto più banalmente che l’evento di cuiparla Foucault e l’evento di cui Derrida fa uno dei temi (se nonil tema) del suo pensiero non solo non sono la stessa cosa manemmeno sono comparabili, e che confonderli sarebbe un im-perdonabile equivoco. La questione teorica che qui ci interessanon può dunque essere il confronto tra due concezioni dell’e-vento tra loro distantissime, né a maggior ragione la scelta dicampo a favore dell’una o dell’altra. Si tratta di porre un altroproblema, e cioè di domandarsi, con tutta la prudenza possi-bile, se l’interrogazione derridiana sull’evento debba e possafarsi carico – a modo suo, e cioè in un altro modo, in tutt’altromodo, forse nel modo dell’altro – anche di ciò che Foucaultchiama in maniera tanto problematica «esteriorità». Che ne èdelle «esteriorità» in Derrida – questa sarebbe, nella sua formapiù sintetica, la questione che ricaviamo da Foucault. A condi-zione, però, di intendere bene: non che ne è dell’esteriorità inquanto concetto filosofico, che sarebbe una facile preda dellacritica decostruzionista, ma che ne è di esteriorità determinatequali erano quelle di cui parlava Foucault.

Sulla scorta di questa domanda è forse possibile conside-rare sotto un’altra luce anche l’accusa di tradizionalismo cheFoucault rivolge a Derrida. Essa sembra manifestamente in-giusta sia nel non tenere conto in alcun modo del fatto che ilpensiero di Derrida «provoca la lacerazione vera e propria dellametafisica» e non la sua conservazione o il suo prolungamen-

. L’espressione è di H.G. Gadamer: cfr. Id, Verità e metodo , trad. it. di R.Dottori, Bompiani, Milano , p. .

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to, sia nel minimizzare se non oscurare la portata politica delladifférance, la quale non vuole restaurare il regno della metafisicasostituendovisi ma «fomenta la sovversione di ogni regno». Aun altro livello, tuttavia, si può pensare che quest’accusa indi-chi un pericolo reale, se ciò che intende mettere in evidenzaè che il pensiero della traccia e della différance è la lacerazione,appunto, della metafisica: un’operazione, cioè, che ne rompel’omogeneità, che «abusa, frattura o viola la legge del proprio,la chiusura dell’economia ristretta e circolante», che «maltrattale linee e i margini», ma che proprio per questo sembra risol-versi in uno straordinario lavoro sui bordi del testo metafisico,fondamentalmente impermeabile a qualsiasi esteriorità praticao materiale. Il tradizionalismo di Derrida – ma la parola restacomunque molto infelice – starebbe in un’effrazione della me-tafisica che si ferma in ultima analisi ancora e sempre al pianodella metafisica stessa. Persino quando la sua attenzione sirivolge – cosa che ha fatto molto presto e più di quanto Fou-cault non fosse disposto a riconoscere – a istituzioni, strutture,apparati storicamente determinati. In tutti questi casi il rischiosarebbe rappresentato meno dalla presunta cecità nei loro con-fronti che da ciò che, con maggiore precisione diagnostica eusando ancora una parola di Foucault, si può definire la loro«testualizzazione».

. J. Derrida, La différance, cit., p. .. J. Derrida, Posizioni, cit., p. .. Non è possibile qui affrontare la questione della scrittura come possibile

candidato al ruolo di esteriorità materiale. Valga, se non altro come indice delproblema, il fatto che Gadamer parli, a questo proposito, di un «concetto ontologicodi écriture» (cfr. Verità e metodo , cit., p. ).

. Questo rilievo si complica ma non perde la propria pertinenza nemmenoquando si tiene presente che «sarebbe il peggior fraintendimento del gesto derridia-no esaurirne l’intenzione in una pratica decostruttiva della terminologia filosofica,che la consegna semplicemente a una deriva e a una interpretazione infinite» (G.Agamben, Pardes. La scrittura della potenza, in Id., La potenza del pensiero, Neri Pozza,Vicenza , p. . Cfr. anche ivi, p. ).

. L’espressione si trova nella versione della replica a Derrida che appare inappendice a Histoire de la folie: cfr. supra, n. .

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Supponiamo che quelle appena indicate non siano delleobiezioni fatali alla decostruzione, come tutto induce a pensareche fossero per Foucault, ma delle provocazioni o dei pungoli,come ho suggerito fin dall’inizio, e che dunque la risposta alladomanda: esiste in Derrida l’interrogazione sull’evento? non sia,pace Foucault, un secco no ma, di nuovo, un «sì, ma . . . ». Laquestione, allora, è capire come si articolino fra loro questo(i)«sì» e questo(i) «ma» nell’interrogazione sull’evento. Anchein questo caso, procederò per via indiretta, partendo da unproblema apparentemente secondario.

È consuetudine diffusa tra i commentatori e gli interpre-ti di Derrida presentare le analisi che ha dedicato al dono, alperdono o all’amicizia come esempi «classici» del pensierodell’evento, sulla scorta, del resto, di quanto talvolta ha fattoDerrida stesso. Raramente, tuttavia, si è riflettuto sul carattereparadossale di questi esempi: essi sono, propriamente, esempidi ciò che non è, e non può essere, esemplificabile. Le formulericorrenti – il dono, se ce n’è; il perdono, se ce n’è; l’amicizia,se ce n’è – non sono formule dubitative nel senso di un qualchescetticismo filosofico, né a fortiori sono formule assertive chenegano l’esistenza dei rispettivi fenomeni: ma tutte rendonoimpossibile – non difficile: impossibile – fornire delle esempli-ficazioni di ciò di cui sono le formule. Non c’è esempio per ildono, come non c’è esempio per il perdono o l’amicizia. Gliesempi dell’evento sono senza esempio.

Il caso più vistoso è rappresentato da Politique de l’amitié: leoltre trecento pagine del libro non contengono un solo esempiodi amicizia – rectius: non contengono un solo esempio di amici-zia «nel senso di Derrida». Il che è tanto più notevole in quantoè noto che i grandi discorsi canonici sull’amicizia con i qualisi misura sono costruiti precisamente attraverso l’esempio: afronte di quella tradizione e delle sue coppie esemplari di amici,cui il libro dedica analisi sottilissime, il deserto dell’amicizia

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derridiana. Ciò ha senz’altro da fare con il rovesciamento digran parte dei predicati dell’amicizia propri di questi discorsi –la lontananza al posto della propinquitas, la separazione al postodella vita comunitaria, la sproporzione al posto della proporzio-ne, un rapporto che slega al posto di uno che lega, ecc. – ma,forse, meno di quanto si ritenga (senza contare che non si trattaaffatto di un rovesciamento o di una semplice sostituzione): visono delle ragioni strutturali profonde che sono ancora piùimportanti.

La prima è che l’amicizia è, per Derrida, un evento e nonun concetto (lo stesso può dirsi del perdono e del dono). Si puòinfatti essere tentati di considerare Politique de l’amitié come il li-bro in cui Derrida mette a punto il proprio concetto di amicizia,ma strettamente parlando si tratta di un grave errore catego-riale: non c’è alcun concetto derridiano dell’amicizia nel libroperché l’amicizia non è un concetto. Non essendo un concetto,non ha esempi che valgano come casi particolari da sussumeresotto la propria generalità: ogni «esempio» d’amicizia sarebbeunicamente un esempio di se stesso, non varrebbe che per sestesso e dunque vanificherebbe la nozione stessa di esempio.Dire che qualcosa è un evento è dire che non può avere esempi.

La seconda è che, come l’amicizia non è un concetto, cosìnon è preceduta da alcun concetto di cui sarebbe l’esemplifica-zione, l’applicazione o la realizzazione particolare. Né da alcunacondizione di possibilità: non solo perché «un’analisi di ciò cherende possibile un evento, per quanto resti indispensabile [. . . ],non ci dirà mai nulla dell’evento», ma perché «può darsi al-lora che l’ordine sia un altro, può darsi, e che solo la venuta

. La parola «deserto» non è scelta a caso e non è un’esagerazione retorica:essa allude alla caratterizzazione di ciò che altrove Derrida chiama un «certo spaziomessianico» definendolo «desolante», «desertico» (cfr. Artefattualità, cit., p. ). Chel’amicizia «derridiana» si collochi in questo spazio è attestato dai riferimenti a tale«struttura messianica» in Politique de l’amitié (Galilée, Paris ; trad. it. di G. Chiu-razzi, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano ): cfr. in part. p. e pp. -. Iltema del «messianismo deserto (senza contenuto e senza messia identificabili)» èal centro di Spectres de Marx (Galilée, Paris ; trad. it. di G. Chiurazzi, Cortina,Milano ) dove riceve la sua formulazione più potente.

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dell’evento permetta, dopo, forse, di pensare quel che l’ha resapossibile». Come per certe analisi dell’evento della rivelazione:esso «non rivelerebbe soltanto questo o quello, Dio per esem-pio, rivelerebbe la rivelabilità. Impedendoci con ciò stesso [Nousinterdisant du même coup] di dire “Dio per esempio”».

La terza è che un evento inscritto nelle sue condizioni di pos-sibilità, di cui costituirebbe l’esplicitazione, oppure preordinatoalle astuzie della ragione teleologica, di cui non rappresente-rebbe altro che il compimento, non sarebbe più un evento:condizione irrinunciabile perché qualcosa sia un evento è la suaincalcolabilità e inanticipabilità, il fatto che ecceda ogni previsio-ne e fori qualsiasi orizzonte d’attesa, e di cui non si possa nem-meno dire: «questa è una quercia in cui riconosciamo (Hegel) losviluppo di una ghianda». L’amicizia qua evento non potrebbeessere «un possibile che fosse solo possibile (non impossibile)[. . . ] Sarebbe un programma o una causalità, uno sviluppo, unosvolgimento senza evento»: dev’essere l’accadere dell’impossi-bile. Le sue condizioni di possibilità tracciano necessariamentee simultaneamente le sue condizioni di impossibilità.

L’aporetica del dono mostra tutto ciò in maniera ancorapiù chiara. Sospeso tra due istanze impossibili da soddisfareinsieme, preso in un double bind, il dono, se ce n’è, è l’accaderedi questa impossibilità: «non impossibile, ma l’impossibile».Bisogna voler donare, altrimenti il dono non è un dono; e allostesso tempo non bisogna voler donare, se no si è già presi nelmeccanismo dell’autogratificazione. Bisogna ricevere il dono inquanto dono, altrimenti non lo si può nemmeno chiamare così;e allo stesso tempo bisogna non sapere che esso è un dono, seno si entra nel circolo del debito e della restituzione:

. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. -.. J. Derrida, Posizioni, cit., p. .. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. -, corsivo nostro.. J. Derrida, Donare il tempo, cit., p. .

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di qui la difficoltà enigmatica che abita in questa evenemenzialitàdonatrice [en cette événementialité donatrice]. Ci vuole del caso, dell’oc-casionalità, dell’involontario, cioè dell’incoscienza o del disordine, eci vuole della libertà intenzionale, e un accordo – miracolo, gratuito– di queste due condizioni, l’una con l’altra.

Ma come nel discorso sull’amicizia, e per le stesse ragioni,di questa evenemenzialità donatrice non si può dare esempio.La stessa analisi del dono non può fare affidamento su nessunevento materiale dato, su nessuna pratica del dono storicamentecostituitasi. Non solo lo studio di Mauss ma i documenti diqualsiasi ricerca antropologica o etnologica sono destinati anon avere rilevanza alcuna, dal momento che, nella prospettivadi Derrida , si occupano d’altro – dello scambio, del contratto,dell’economia, ma non del dono. Come non ha un concettoche lo governa dall’alto, così il dono non ha alcuna pratica chelo sorregge dal basso (se non, forse, quella che è chiamato ainterrompere). Al punto che diventa un po’ misteriosa anche lacostituzione del significato della parola «dono» (una questioneche Derrida pone a Mauss ma, mi sembra, dimentica di porre ase stesso): a quali usi linguistici fa riferimento Derrida? E se nonfa riferimento ad alcun uso, da dove ha preso la significazione«dono»?

In ogni caso l’esteriorità, o perlomeno questo tipo di esterio-rità, è analiticamente esclusa dall’indagine derridiana, interdettaal suo campo visivo. A voler essere un po’ cattivi, si potrebberoricordare le battute conclusive della risposta di Foucault e imma-ginare, in luogo dell’autore di Storia della follia, l’antropologo oil sociologo: «un tizio ingenuo, con le sue stupide obiezioni [isuoi dati, i suoi documenti], che picchia alla porta del discor-so filosofico e si fa buttare fuori senza neppure esser potutoentrare».

. Ivi, p. .. M. Foucault, Risposta a Derrida, cit., p. .

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Se l’esteriorità appare, in questa forma, un limite controcui urta l’interrogazione sull’evento, almeno nei casi o nellefigure che qui stiamo considerando, questo limite è forse ilprezzo che tale interrogazione deve pagare a un’altra esteriorità.Le analisi del dono, del perdono, dell’amicizia – e in generaletutte quelle che Derrida ha posto sotto il titolo di questioni diresponsabilità – non sono infatti in alcun modo il compiaciutoripiegarsi al proprio interno del discorso filosofico, né la ostinatavolontà di chiudere la porta a ciò che gli appare estraneo, ma iltentativo di aprire un varco in quel discorso, di far passare altro.

Questo altro, tuttavia, ed è questo il punto, non sta dallaparte delle presupposizioni storiche, economiche, eccetera odei condizionamenti esterni; e nemmeno, come si è appenaricordato, dalla parte delle pratiche di comunità umane date,analizzabili nelle loro strutture e nel loro funzionamento: stapiuttosto dalla parte di ciò che Derrida chiama evento, «éve-nement, le mot», come ricorda Hélene Cixous, «qu’il aime, lepréférant toujours à Ereignis à cause de la référence sémantique à lavenue». L’evento non è il fatto che qualcosa accada dentro unaqualche configurazione storico-materiale prevedibile, ma è unarrivo imprevedibile e singolare: la venuta di (quel) che arriva,la venuta dell’arrivante. Esso «deve essere assolutamente altro,un altro che mi attendo di non attendere, che non attendo, lacui attesa è fatta di una non attesa». E che «può sempre nonarrivare, come Elia». Per questo il discorso che lo riguardanon può più essere il discorso della teoria:

Occorre pensare l’evento a partire dal «vieni» e non l’opposto. «Vie-ni» si dice all’altro, a degli altri che non sono ancora stati deter-minati come persone, come soggetti, come uguali (per lo menonel senso dell’uguaglianza calcolabile). Solo con questo «vieni» vi è

. I seminari parigini sulla pena di morte, di cui è stato pubblicato il primovolume (Séminaire La peine de mort, Galilée, Paris ) richiederebbero uno studiospecifico.

. Cfr. H. Cixous, Le Bouc lié, in Salut à Jacques Derrida, «Rue Descartes» n. ,, p. .

. J. Derrida, Artefattualità, cit., pp. -.

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Giorgio Bertolotti

esperienza del venire, dell’evento, di quanto accade [arrive], e con-seguentemente di quanto non è anticipabile poiché giunge [arrive]dall’altro.

Se c’è un’esteriorità della quale l’interrogazione sull’eventosi fa carico, a cui sottoscrive volentieri, è questa: un’esterioritàancora più fragile della precedente, perché sempre a rischiocattura da parte della filosofia. Per questo tanta insistenza sul-l’imprevedibilità e sull’inanticipabilità dell’evento: è solo finchéesso rimane imprevedibile e inanticipabile che può dirsi este-riore alla filosofia, la quale non ha altro privilegio, forse, chequello di costituire la minaccia più grande per l’evento. E nonha compito più importante che quello di salvarlo, di salvarel’evento – prima di tutto da se stessa.

Alain Badiou ha offerto un’efficace ricapitolazione delnucleo attorno a cui si è organizzata la decostruzione:

Con tutti gli strutturalisti degli anni Sessanta, con Foucault ad esem-pio, Derrida ammetteva che l’esperienza del mondo era sempreun’esperienza di imposizione discorsiva. Essere in un mondo è sem-pre essere marchiati dai discorsi, marchiati fin nella propria carne,nel proprio corpo, nel proprio sesso, ecc. La tesi di Derrida, la con-statazione di Derrida, la forma del desiderio di Derrida, è che, qualeche sia la forma d’imposizione discorsiva, esiste un punto che sfuggea questa imposizione, che si può chiamare punto di fuga.

La formula da cui siamo partiti, σῴζειν the event, vuol diresemplicemente questo: non salvare i fenomeni nell’accezioneclassica di questa formula (con tutto il suo bagaglio di distinzio-ni metafisiche, compresa quella che abbiamo usato in questepagine tra esteriorità e interiorità, che, come la scala del Trac-tatus, sarà bene gettare dopo esservi saliti), ma salvare, neldiscorso su di essi, questo delicato punto di fuga, questa apertu-

. Ivi, pp. -.. A. Badiou, Piccolo Pantheon, cit., p. .

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Σῴζειν the event

ra all’alterità radicale dell’altro, inappropriabile, senza la qualenon ci può essere un avvenire.

Le difficoltà di questa impresa non sono poche, perché l’e-vento – ed è ciò che ho cercato di sottolineare – ha più facce diquelle che Derrida ama considerare. Ma certo ne ha di più an-che grazie a quelle che ha considerato. Pensarle insieme è, forse,uno dei compito della filosofia dopo Derrida. Il quale è statodunque un pensatore dell’evento? Sì, lo è stato, assolutamente,ma. . .

Giorgio [email protected]

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La questione dell’eventonella filosofia contemporaneaISBN 978-88-548-6455-9DOI 10.4399/97888548645598pag. 189–191 (ottobre 2013)

Profili autori

Rocco Ronchi è professore ordinario di Filosofia teoreticapresso l’Università degli Studi di L’Aquila. Ha insegnato dal al Filosofia della comunicazione presso L’Università“L.Bocconi” di Milano e nel Metaphysics presso l’Universi-tà Hosei di Tokyo. Formatosi in ambito fenomenologico, si èlungamente occupato del pensiero francese contemporaneo, inparticolare della filosofia di Henri Bergson. Al tema della “co-municazione”, intesa speculativamente come partecipazionealla verità e come fondamento della scienza, ha dedicato nume-rosi studi. Attualmente sta lavorando ad una ridefinizione diun “materialismo speculativo”, anche alla luce della concezionelacaniana del “reale” Tra le sue ultime opere: Teoria critica dellacomunicazione (Bruno Mondadori, ); Filosofia della comuni-cazione (Bollati Boringhieri, ); la cura del volume Filosofiateoretica (Utet, ), Bergson. Una sintesi (Christian MarinottiEdizioni, ); Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli,). Di prossima pubblicazione presso Et. Al. di Milano, Bre-cht. Introduzione alla filosofia. Numerosi i suoi contributi ad unaridefinizione del pensiero sartriano, tra i quali si segnala la curae la traduzione de La trascendenza de l’Ego (Christian Marinotti,). Per le edizioni Orthotes di Napoli ha recentemente cura-to la nuova traduzione della Introduzione alla metafisica di HenriBergson (). Collabora alle pagine culturali del quotidiano“Il Manifesto”. Dirige la collana di “filosofia al presente” dellaTextus edizioni di L’Aquila.

Luca Vanzago, nato a Pavia il aprile , si laurea nel con una tesi sulla temporalità in Whitehead. Nel

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Profili autori

consegue il diploma di perfezionamento in filosofia contempo-ranea presso l’Istituto S. Orsola Benincasa di Napoli; nel ilMaster of Arts presso la Katholieke Universiteit Leuven, e nel il PhD in philosophy presso la stessa università. Ha inoltrefrequentato vari corsi di perfezionamento in filosofia pressol’Istituto Italiano Studi Filosofici di Napoli. È stato redattoredella rivista Oltrecorrente e attualmente è redattore di Paradig-mi e membro dello advisory board di Philosophical Inquiries.Collabora con Aut-Aut e Chiasmi International. Fa parte delloEuropean Centre for Process Philosophy, del Merleau-PontyCircle e della Società italiana di studi su Merleau-Ponty. Faparte del consiglio direttivo della Società Italiana di FilosofiaTeoretica. Tra le pubblicazioni più importanti: Modi del tempo(Mimesis ), L’evento del tempo (Mimesis, ), Coscienza ealterità (Mimesis, ), Breve storia dell’anima (Il Mulino, ),Merleau-Ponty (Carocci, ). Di prossima pubblicazione: Leg-gere “Il visibile e l’invisibile di M. Merleau-Ponty” (Ibis, ) eThe Voice of No One. Time and Nature in Merleau-Ponty’s Ontology(Springer, coll. Phaenomenologica, ).

Roberto Terzi, nato nel , collabora con la cattedra diGnoseologia all’Università degli Studi di Milano, dove si è lau-reato in Filosofia Teoretica nel . Ha conseguito il DEA in“Histoire de la philosophie” all’Université Paris Sorbonne eil dottorato di ricerca all’Università di Torino. Dopo il dotto-rato ha svolto periodi di ricerca presso gli Archivi Husserl diParigi e l’Università di Sassari. È autore del volume Il tempo delmondo. Husserl, Heidegger, Patocka (Catanzaro ) e di diver-si saggi sulla fenomenologia e il pensiero contemporaneo, inparticolare su Heidegger, Patocka e Derrida.

Federico Leoni svolge attività di ricerca presso l’Universi-tà degli Studi di Milano. Ha studiato a Milano con Carlo Sinie Ginevra con Jean Starobinski. Si è laureato in filosofia teo-retica e ha svolto un dottorato in filosofia sull’antropologiadi Kant. Si occupa di fenomenologia francese e tedesca. Col-

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Profili autori

labora stabilmente con numerose riviste italiane e straniere(Acme, Comprendre, Chiasmi, Le Cercle Herméneutique, At-que, Annales bergsoniennes, La società degli individui, Il Ponte,Anterem, L’ippogrifo). Ha tenuto seminari e conferenze pressonumerose università e istituti italiani e stranieri, tra cui l’U-niversità di Ginevra, il French Institute di Londra, l’IstitutoItaliano di Cultura a Parigi, L’Ecole Normale Supérieure diParigi. Collabora da molti anni con la casa editrice Einaudi econ la casa editrice Feltrinelli, per le quali ha curato numerosivolumi. Fa parte di Palea (Seminario permanente di psicoanalisie scienze sociali, Milano) e insegna presso l’IRPA (Istituto diRicerca per la Psicoanalisi applicata, Milano). Collabora conL’Ecole Française de Daseinsanalyse (Paris I - Sorbonne), con ilRéseau International pour l’étude de la philosophie françaisecontemporaine (Milan-Paris-Warwick), con la Fondazione Ita-lianieuropei (Roma). È autore, tra gli altri testi, di: Follia comescrittura di mondo. Saggi su Minkowski, Straus, Kuhn ( Jaca Book,Milano ); L’inappropriabile. Figure del limite in Kant (Mimesis); Senso e crisi. Del corpo, del ritmo, del mondo (ETS );Habeas corpus. Sei genealogie del corpo occidentale (Mondadori, Mi-lano ); Descartes. Una teologia della tecnologia (Et al, Milano).

Giorgio Bertolotti è professore associato di Filosofia teore-tica all’Università di Milano Bicocca. Tra le sue pubblicazioni:Le stagioni dell’assoluto (); Ermeneutica (, con S. Natoli, C.Sini, G. Vattimo, V. Vitiello); Come far risalire i fiumi alla sorgente.Heidegger e la scienza ().

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Indice analitico

Agamben G., Antonioni M., Aristotele, , , , –, ,

, , , , , , ,

Badiou A., , , Badocco C., Balzarotti R., Banfi A., Barthes R., , Bazin A., –, Benjamin W., , Bennington G., Benoist J., Bergomi, Bergson H., , –, , ,

, , , , , –, ,, , , ,

Bertani G., , , Berto G., Bertolotti G., , , , , ,

Biemel W., , , Bignami G., Binswanger L., Bonicalzi F., Bonola M., Bontadini G., Boole G., Borca D., Borradori G., ,

Bosco N., Bosi L., Bousquet J., –, , ,

, Bramès M.V., Braudel F.,

Cafaro F., Canullo C., Caputo J.D., Caracciolo A., , Carroll L., Cassin B., , Cavell S., Chiappini M., , Chiodi P., Chiurazzi G., Cimino A., Cixous H., Cohen B., Contri G., Costa E., Costa F., Costa V., , Couturat L.,

D’Alessandro P., Dalmasso G., , , David P., De Negri A., , De Stefanis M., ,

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Indice analitico

Deleuze G., , –, , ,–, , , , , , ,, , , , , , –, , , , , –, , , ,

Delfino S., Derrida J., , , –, –,

, –, –, Desargues G., Descartes R., , , , ,

, , Di Martino C., , , , Diano C., Didi-Huberman G., Dilthey W., Dottori R., Duhem P.,

Eco U., Edipo, –Einstein A., Eschilo, Euripide,

Fabris A., Facioni S., Febvre L., Fergnani F., Ferraris M., , , Ferrucci F., Fichte J.G., Filippini E., , , Foucault M., –, , Franck D., Freud S.,

Gadamer H.G., ,

Galilei G., Gorgone S., , Grassmann H.G., Gurisatti G.,

Hölderlin F., Habermas J., Hegel G.W.F., , , , ,

, –, , Heidegger M., , , –, ,

–, , , , , , –, –, –, , ,, , , , , ,

Hume D., Husserl E., , , , , , ,

, , , , , , ,–, , , ,

Iadicicco A.,

Kamuf P., , , Kant I., , , , , , ,

, , Kirchmayr R.,

Lévinas E., , , Labbri L., Laplace P.S., , Le Moli A., Leibniz G.W., , , , ,

, –, –Leoni, F., , , , , Loaldi A.C., Lobacevskij N.I., Locke J.,

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Indice analitico

Magris A., Manganaro J-P., , Marassi M., , Marion J-L., , Marrou H-I., , Masi G., Mathieu V., Mauss M., , Maxwell J.C., , Mazzarella E., Meillassoux Q., Merleau-Ponty M., , , ,

Meyer M., , Moretto G.,

Nancy J-L., , , –Neon T., Newton I., Nietzsche F., , , , , ,

, Nora P., –

Odello L.,

Parmenide, Pasolini P.P., , , Pavanello C., Pessina A., , Petrosino S., , Piana G., Platone, , Politzer G., Potestio A., Pozzi G., , Prigogine I., ,

Quine W.V.O., ,

Redaelli E., , , Regazzoni S., Renzi E., Resta C., Rettori M., Romano C., , , Ronchi R., , , , Rovatti P.A., , , , Ruggerini M., Russell B., ,

Sandri M., Sartre J-P., , , , , , ,

Scanlon M.J., Schelling F., , Schmidt D., , Schuhmann K., , Sepp H.R., Sertoli G., , Severino E., Simplicio, Sini C., , , , , , Sofocle, , , Spinoza B., Szymborska W.,

Terzi R., , , Trabattoni F, Truffaut F.,

Ugazio U., ,

Vanzago L., , , Vattimo G., ,

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Indice analitico

Vergani M., , Vernant J-P., –Vertov D., Vezzoli V., Vidal-Naquet P., , Violante C., Vitale F., Volpi F., , , , , Voltaire F.M.A.,

Weber M., Whitehead A.N., , , , ,

–, , , , –, ,, ,

Wolff C.,

Zannini M., Zarader M., , , , , Zenone, Zourabichvili F.,

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TRÓPOS ORIZZONTI

OPERE COLLETTANEE

. Francesco C, Stefano M (a cura di)Da quando siamo un colloquio. Percorsi ermeneutici nell’ereditànietzschiana. Studi in onore di Carlo GentiliContributi di Francisco Arenas–Dolz, Francesco Cattaneo, Annamaria Contini, Giu-liano Campioni, Gianluca Garelli, Sergio Givone, Stefano Marino, Raffaele Milani,Giampiero Moretti, Andrea Spreafico, Federico Vercellone ---- format, pagine, euro

. Giuseppe C, Claudio CAldo T, Federico V (a cura di)Ontologia dell’immagineContributi di Maria Tilde Bettetini, Gianluca Cuozzo, Anna Donise, Félix Duque,Adriano Fabris, Elio Franzini, Marco Ivaldo, Graziano Lingua, Giampiero Moretti,Aldo Trione, Federico Vercellone, Angelo Vianello, Giovanni Bruno Vicario, Lam-bert Wiesing ----, formato × cm, pagine, euro

. Giulia B (a cura di)Tempo e praxis. Saggi su GadamerContributi di Giulia Ballocca, Gaetano Chiurazzi, Óscar Cubo Ugarte, Vittorio DeCesare, Donatella Di Cesare, Riccardo Dottori, Uriel Fogué, Saša Hrnjez, Ángel Ga-bilondo, Amanda Núñez García, Teresa Oñate, Maurizio Pagano, Jacinto Rivera deRosales, Carmen Segura, Luis Uribe Miranda, Vincenzo Vitiello ----, formato × cm, pagine, euro

. Claudio C, Maurizio P (a cura di)Tempo e praxis. Saggi su GadamerContributi di Giulia Ballocca, Gaetano Chiurazzi, Óscar Cubo Ugarte, Vittorio DeCesare, Donatella Di Cesare, Riccardo Dottori, Uriel Fogué, Saša Hrnjez, Ángel Ga-bilondo, Amanda Núñez García, Teresa Oñate, Maurizio Pagano, Jacinto Rivera deRosales, Carmen Segura, Luis Uribe Miranda, Vincenzo Vitiello ----, formato × cm, pagine, euro

. Michele D M (a cura di)La questione dell’evento nella filosofia contemporanea. Atti del ci-clo di seminari di “associazionealetheia”Contributi di Giorgio Bertolotti, Federico Leoni, Rocco Ronchi, Roberto Terzi, Lu-ca Vanzago ----, formato × cm, pagine, euro

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Compilato il gennaio , ore :con il sistema tipografico LATEX 2ε

Finito di stampare nel mese di ottobre del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»

Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma


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