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Ai margini dell'impero - Storia dei gruppi sociali subalterni nell'Africa Orientale Italiana

Date post: 30-Nov-2023
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1 Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche Corso di Laurea Magistrale in Governance e Sistema Globale - Classe LM-52 Ai margini dell’Impero Storia dei gruppi sociali subalterni nell’Africa Orientale Italiana At the borders of the Empire History of subaltern social groups in Italian East Africa Tesi di laurea di Relatore Piero Onida Prof. Alessandro Pes A.A. 2014/2015
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Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Governance e Sistema Globale - Classe LM-52

Ai margini dell’Impero

Storia dei gruppi sociali subalterni nell’Africa Orientale Italiana

At the borders of the Empire

History of subaltern social groups in Italian East Africa

Tesi di laurea di Relatore

Piero Onida Prof. Alessandro Pes

A.A. 2014/2015

2

3

Sommario

Introduzione.................................................................................................................. 5

Note metodologiche ...................................................................................................... 8

Il concetto di subalternità e la “storia integrale” ......................................................... 8

I Subaltern studies ................................................................................................... 11

Note bibliografiche ..................................................................................................... 16

Sintesi storica del colonialismo italiano in Africa orientale ......................................... 18

Il colonialismo liberale ............................................................................................ 18

Il colonialismo fascista ............................................................................................ 27

L’Impero d’Africa Orientale Italiana ........................................................................... 33

L’Impero in funzione: gerarchie, pianificazione, economia e opere in AOI .............. 33

I subalterni nell’Africa Orientale Italiana .................................................................... 38

Il Corno d’Africa prima degli italiani: società, demografia, economia ..................... 40

Come costruire un subalterno .................................................................................. 43

Economia coloniale e lavoro subalterno................................................................... 47

I subalterni che non possono parlare, il caso somalo e lo schiavismo nello Uebi

Scebeli .................................................................................................................... 51

Leggi razziali e segregazione, un punto di vista africano ......................................... 55

Il madamato e l’assenza di una prospettiva storica femminile e africana

nell’Oltremare italiano ............................................................................................ 59

L’utilizzo dei gas nelle testimonianze africane ......................................................... 60

Gli Aulò, una testimonianza scomparsa ................................................................... 65

Conclusioni ................................................................................................................. 67

Bibliografia ................................................................................................................. 70

Sitografia .................................................................................................................... 75

4

5

Carissimo Delio,

mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi

sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la

storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché

riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,

quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto

si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se

stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti

abbraccio.

Antonio1

Introduzione

La storia e la memoria hanno sempre un protagonista. Nel bene o nel male, nel torto o

nella ragione, la narrazione storica ha sempre una figura cardine: i popoli, le moltitudini

seguono; sono sfondi, dati statistici e demografici, contorno di chi ha il potere d’esser

facitore di storia. Nelle parole di Antonio Gramsci al figlio in apertura, si legge come il

pensatore, da anni prigioniero nelle carceri fasciste, voglia educare il suo giovanissimo e

lontano Delio ad una visione diversa della storia; vuole istruirlo ad una storia di tutti gli

uomini, ad una ricostruzione del passato più ampia, ad una narrazione delle gesta degli

uomini tutti e non delle biografie dei protagonisti.

Ad avermi spinto alla stesura di questo lavoro di tesi è stata, anzitutto, la necessità di

indagare sulla reale possibilità di narrare la storia dalla prospettiva di chi, solitamente, la

storia la subisce. Lo stesso titolo del saggio Ai margini dell’Impero è un riadattamento

del titolo del Quaderno 25 dei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci, chiamato Ai

margini della storia: un tentativo, da parte del pensatore sardo, di creare una narrazione

storica di quelli che egli definisce subalterni.

L’interessamento alla tematica da parte mia è figlio di molteplici fattori; lavoro da sei

anni nella Casa Museo di Antonio Gramsci, ove ho avuto la possibilità di approfondire la

conoscenza su quanto scritto dal pensatore comunista: conoscenza di seguito raffinata,

nell’ultimo anno, grazie al ciclo di seminari GramsciLab dell’Università degli Studi di

Cagliari. La volontà di svolgere la ricerca sull’area dell’Africa Orientale nel periodo

1 GRAMSCI Antonio, L’albero del riccio, ISKRA edizioni, Ghilarza, 2002, pag. 111

6

dell’occupazione italiana è, invece, nata dal corso di Storia del colonialismo e della

decolonizzazione, tenuto nell’anno accademico 2013/2014 dai professori Cecilia Novelli

e Alessandro Pes. Durante il corso mi sono raffrontato per la prima volta con la narrativa

post-coloniale e con le definizioni critiche di imperialismo e colonialismo,

approfondendo in particolare la mia consapevolezza sul fenomeno dell’invasione italiana

nell’Africa Orientale, studiandone le dinamiche, la narrazione e le conseguenze

psicologiche e culturali nella società italiana.

La ricerca di una verità storica da parte degli studiosi post-coloniali italiani, mi ha dato

l’input per approfondire la ricerca dalla prospettiva di chi ha subito la storia, di chi è stato

ai margini dell’avventura africana italiana; ovvero degli africani che hanno vissuto sotto

il regime coloniale italiano. Fare una ricostruzione della storia delle popolazioni

subalterne del Corno d’Africa non è semplice, si voglia per la scarsezza di fonti, si voglia

per la difficoltà di interpretare le voci subalterne costruendo una narrazione uniforme. Il

lavoro che segue non ha la presunzione di convertire le fonti disponibili in una storia

integrale esaustiva della vita delle popolazioni indigene dell’Africa Orientale Italiana;

semmai, la volontà è quella di ricucire, affiancare e giustapporre le voci autentiche

africane alla storiografia africana e post-coloniale, ricercando, al contempo, elementi di

continuità e di rottura.

Nelle pagine che seguono vi sarà un’introduzione metodologica al lavoro, necessaria per

comprendere le basi su cui si fonda questa ricerca: anzitutto esplicando il concetto di

subalterno, introdotto da Gramsci nei Quaderni ed evolutosi, nel corso del secolo scorso,

tramite il lavoro degli studiosi gramsciani e del collettivo dei Subaltern Studies

dell’Università di New Delhi.

Alle note sul metodo segue una ricostruzione storica delle campagne di conquista e

dominio dell’Italia fascista e liberale nel Corno d’Africa, svolto in gran parte grazie al

prezioso lavoro di ricerca portato avanti da Angelo Del Boca, Giorgio Rochat e Nicola

Labanca, capaci, nelle loro opere, di costruire una narrazione post-coloniale obiettiva e

veritiera della presenza italiana nell’Africa Orientale, abbattendo la versione mendace e

dogmatica imposta dalla narrazione egemone degli italiani civilizzatori ed invasori

gentili.

Dopo l’introduzione storica all’invasione del posto al sole, si passa al punto focale del

lavoro, ovvero la collocazione delle voci subalterne nel contesto storico; questo passaggio

sarebbe stato impossibile senza il lavoro di Irma Taddia, che nelle sue Autobiografie

7

Africane raccoglie le testimonianze di Etiopi ed Eritrei vissuti nel periodo del dominio

italiano. Alle interviste, riguardanti l’educazione, il lavoro, la conquista militare, le leggi

e la segregazione razziale, ho scelto di affiancare delle riflessioni, delle ipotesi di lettura.

Tali ipotesi non possono, e non devono, leggersi come definitive, ma semmai essere

spunto per l’interpretazione delle voci subalterne.

8

Note metodologiche

Il lavoro di rielaborazione storica che vi apprestate a leggere è stato svolto combinando il

concetto di storia integrale presente nei lavori di Antonio Gramsci e la metodologia

proposta nella corrente di studi ad oggi nota come Subaltern Studies. È bene chiarire sin

dal principio, quindi, cosa si intenda per subalternità e Subaltern studies.

Il concetto di subalternità e la “storia integrale”

La prima impostazione di storia dei gruppi sociali subalterni, o di storia integrale (così

come la definisce l’autore) appartiene ad Antonio Gramsci. La tematica della storiografia

comprensiva di tutti i gruppi sociali è un tema ricorrente nei Quaderni del Carcere2, così

come l’utilizzo del lemma subalterno. La programmazione della storia integrale

gramsciana va di pari passo con l’utilizzo sempre più specifico del termine subalterno.

Perché la scelta di questo termine? La scelta è pratica ed utile dal punto di vista culturale;

chiunque, in Italia, nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale era capace di

identificare cosa o chi fosse subalterno: colui che in guerra sottostava al comando di un

superiore. Era un termine “militare” ed al contempo apartitico e di sicuro impatto. Il

sillogismo che porta dal “subalterno militare” al “subalterno civile” od al “gruppo sociale

subalterno” è immediato per il lettore.

Lo studio di Gramsci prende forma nei Quaderni3: come critica alla storiografia e, in

seguito, come analisi della subalternità. Il pensatore sardo decide di dedicare alla tematica

il Quaderno 25, intitolandolo Ai margini della storia (storia dei gruppi sociali

subalterni). Non riuscirà a costruire una storia della subalternità, viste le pessime

condizioni di salute e lo status carcerario, per contro, riuscirà a dare l’idea di una storia

integrale, che prenda in esame tanto lo stato, e dunque le classi egemoni, quanto gli altri

gruppi della società civile, comprese le classi sottoposte, ovvero i subalterni.

2 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, 4 voll., Einaudi, Torino

1975 3 Il termine ricorre per la prima volta, in realtà, nel periodo precarcerario. Ne L'Ordine Nuovo, quindicinale

diretto dallo stesso Gramsci, in un articolo del 1° settembre 1924 intitolato La crisi italiana. Il pensatore

utilizza il lemma per spiegare la situazione del parlamento italiano sotto dominio fascista: “Il fascismo per

la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi

alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa

subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati.” In questo

caso il termine non è utile alla narrazione storica, ma viene utilizzato nel senso proprio militare, ragion per

cui non ha senso introdurre questo breve excursus nella spiegazione del concetto.

9

L’analisi di Gramsci si apre con una critica alla storiografia classica, presente nella nota

su Lazzaretti4:

“[…] questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un

avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava

il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo

le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale,

gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico.”5

In questo frammento di discorso, il pensatore propone una visione sull’analisi superficiale

svolta dalle classi culturali egemoni e dalla narrazione storica comune sulla

manifestazione di eventi collegata ai sottoposti: la profondità del disagio sociale

subalterno viene mascherata ed occultata come evento violento ed animalesco nella

concezione egemone 6 . L’unico lascito storico dell’accadimento risulta essere una

biografia patologica del protagonista (in questo caso il Lazzaretti, di cui si occupò perfino

Cesare Lombroso), senza dar conto di quanti abbiano partecipato all’avvenimento, quali

conseguenze questo abbia causato e soprattutto senza comprendere perché determinati

gruppi sociali abbiano deciso di far parte di un movimento. Il gruppo sociale subalterno

è, quindi, solo lo sfondo sfumato della narrazione; incapace di produrre storia e non degno

di farne parte: disorganizzato, disgregato, non continuativamente attivo.

Gramsci si pone il problema di come sia possibile produrre una storia dei subalterni. Tale

storia, è per stessa ammissione dell’autore episodica e disgregata, seppur tendente

all’unificazione; un’unificazione spesso interrotta dall’azione dei gruppi egemoni e dalle

classi dominanti. L’unità dei gruppi sociali subalterni può affermarsi solo in caso questi

si sostituiscano all’élite dominante, attraverso una rivoluzione vittoriosa 7 ; il gruppo

sottoposto potrà così passare alla storia. Qui il pensatore sottolinea l’importanza

dell’“iniziativa autonoma” da parte delle classi subalterne: comprende come le spinte

propulsive delle classi non egemoni siano fondamentali per una narrazione storica

4 Davide Lazzaretti (1834-1878) fu un predicatore e mistico religioso italiano, fondatore di un movimento

religioso, solidaristico ed ai confini del socialismo utopico e mistico. Ebbe un’ampia schiera di seguaci e

fu scomunicato dalla chiesa cattolica nel 1878, nel corso dello stesso anno fu assassinato, durante una

processione pacifica, dalla forza pubblica. 5 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2279 6 BUTTIGIEG Joseph A., subalterno, subalterni in LIGUORI Guido / VOZA Pasquale (a cura di),

Dizionario Gramsciano 1926-1937, Carocci Editore, Roma, 2009 pag. 830 7 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2283

10

completa o, per meglio dire, integrale, non a senso unico, ma composta da avvenimenti

sovrapposti e stratificati, spesso in relazione di scontro tra loro.

“L’unità storica delle classi dirigenti avviene nello Stato e la storia di esse è

essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Ma non bisogna credere che tale

unità sia puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la

sua importanza e non solamente formale: l’unità storica fondamentale, per la sua

concretezza, è il risultato dei rapporti organici tra Stato o società politica e società

civile.”8

La storia integrale è la storia dell’apice e del fondo della scala gerarchica della società,

dello stato così come della società civile: il sunto è un unicum narrativo che comprende

le sfaccettature e le interconnessioni, completo e capace di mostrare la società nella sua

interezza agli occhi del lettore. La narrazione subalterna sarà per cui intrecciata a quella

della società civile e connessa in maniera discontinua e disgregata alla storia delle classi

dominanti. Gramsci propone un metodo di studio che faccia riferimento a diversi

elementi, tali da comprendere lo status sociale e politico dei gruppi subalterni; la proposta

del pensatore sardo è quella di studiare lo strato sociale subalterno dal suo fondamento,

analizzando l’indottrinamento politico (sia questo attivo o passivo) e la condizione di

dominio a cui il gruppo è sottoposto da parte delle forze politiche9.

Gramsci scrisse il Quaderno 25 a partire dal 1934, non riuscendo a sviluppare in maniera

organica la storia delle classi subalterne. Tracciò, però, un solco importante per gli studi

a venire, rendendo palese la necessità di una storiografia integrale e consegnando ai suoi

lettori provenienti dai margini della narrazione storica occidentale uno strumento di

riappropriazione e riabilitazione storica. Il concetto di subalterno venne quindi

riformulato e rifondato, utilizzato a seconda della necessità degli autori per far

comprendere la situazione di sottoposizione, fosse questa data dalla classe sociale, da

fattori culturali o dal giogo coloniale.

Edward W. Said, nel suo celeberrimo saggio Orientalismo10 , propone un subalterno

orientalizzato, collegando le condizioni di sottoposizione descritte da Gramsci a quella

delle culture non europee, in un connubio senza dubbio riuscito. Il subalterno in Said è,

dunque, l’orientale ritenuto inferiore, nonché barbaro, dalla lettura culturale eurocentrica.

8 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2888 9 Idem 10 SAID Edward, Orientalismo, Feltrinelli, Milano,1999

11

Gramsci e Said risulteranno fondamentali nei Subaltern studies, ove il lavoro dei due

viene costantemente utilizzato, tanto per questioni di ricerca ed analisi metodologica,

quanto per l’affinità degli studi subalterni alle categorie concettuali elaborate dai due

autori. La concezione di subalterno già vista in Said, è un collegamento ideale molto forte

tra il concetto gramsciano e quello elaborato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa

americana di origine bengalese, studiosa di primissima importanza nel campo dei

Subaltern studies. Il subalterno della Spivak è il proletario del mondo, incapace perfino

di comunicare la sua situazione:

“[…] subalterno non è semplicemente un termine aulico per dire “oppresso”, per l’Altro,

per colui che non riceve la sua fetta di torta […] In termini post-coloniali, chiunque abbia

accesso parziale o non abbia accesso all’imperialismo culturale è subalterno. Ora, chi

direbbe che stiamo parlando degli oppressi? Il proletariato è oppresso. Non è subalterno

[…] In tanti vogliono appropriarsi della subalternità. Chi se ne appropria è dannoso e

poco interessante. Voglio dire, essere solo una minoranza discriminata in un campus

universitario; questa non è “subalternità” […] Costoro possono vedere quali siano i

meccanismi della discriminazione. Sono parte del discorso egemonico, anche se vogliono

un pezzo di torta e non possono averlo, hanno la possibilità di parlare, di utilizzare il

discorso egemonico. Non dovrebbero autoproclamarsi subalterni.”11

Gayatri Spivak, pur sfruttando il lemma gramsciano, ne critica l’utilizzo nella sua

accezione più strettamente vicina al lavoro di Antonio Gramsci: il subalterno della Spivak

è al gradino più basso della scala sociale mondiale; orientalizzato, sottoposto ed incapace

di lamentarsi, di organizzarsi e di reclamare la propria condizione. I Subaltern studies

tentano di costruire la storia di “questi” subalterni e non di coloro che reclamano la

subalternità, con tutte le difficoltà legate al dare voce e dignità storica a chi non l’ha mai

avuta.

I Subaltern studies

I Subaltern studies si pongono in relazione di scontro con la narrazione storiografica

occidentale tradizionale. L’input lanciato alla fine dello scorso paragrafo, secondo cui gli

studi subalterni abbiano la necessità di costruire la storia dei sottoposti, è vero solo in

parte; lo scopo dei Subaltern studies è ben più ambizioso: la volontà è quella di decostruire

11 DE KOCK Leon, Interview With Gayatri Chakravorty Spivak: New Nation Writers Conference in South

Africa, in ARIEL: A Review of International English Literature, 23:3, July 1992

12

tassello per tassello la narrazione storica per inserire in maniera precisa e contestualizzata

il resoconto documentato della storia dal basso. L’impostazione di ricerca dei Subaltern

studies si presenta come anti-essenzialista (finanche anti-storiografica) rigettando

l’identitarismo culturale e le convenzioni orientalistiche della storiografia eurocentrica12.

La nascita degli studi post-coloniali sulla subalternità è databile tra la fine degli anni ’70

e l’inizio degli anni ’80 in India, nell’Università di Nuova Delhi, attorno alla figura

dell’economista e storico Ranajit Guha 13 . Il primo collettivo dei Subaltern studies

sviluppatosi nel subcontinente indiano si occupò di una ricostruzione storica settoriale,

strettamente legata alla terra d’origine dei suoi partecipanti, con uno scopo affine a quello

sopra descritto: ovvero una rielaborazione complessiva della storia del sud asiatico, con

la ricollocazione delle classi subalterne come parte del complesso storico e non più come

masse informi e passive, così come erano descritte nella storiografia britannica coloniale

prima ed in quella delle élite nazionali poi. La critica mossa dal collettivo dei Subaltern

studies è quella di una duplice parzialità nella storiografia indiana delle classi egemoni:

parziale perché racconta solo parte del processo storico, dimenticandosi degli strati della

popolazione demograficamente più densi, ma senza potere decisionale; parziale poiché di

parte, propositiva solo dei punti di vista delle classi egemoni14.

Considerare i Subaltern studies solamente come una narrazione storiografica di rivalsa

delle classi sottoposte, sarebbe tuttavia incorretto: il lavoro sui subalterni non ha solo

vocazione storica, ma anche economica, sociale e politica in ottica presente. Numerose

opere facenti parte del lavoro del collettivo presentano infatti report e ricerche dedicate

alla situazione economica e sociale attuale delle classi subalterne: ne è chiaro esempio

l’influenza data dai Subaltern studies nella cooperazione allo sviluppo, in particolare sulla

cosiddetta Rap (ricerca azione partecipativa)15.

Riprendendo il discorso relativo agli studi storici, che risulta essere ad oggi la branca più

estesa ed approfondita dei Subaltern studies, è necessario porsi la questione riguardante

l’impostazione metodologica data alla ricerca delle fonti storiche per la costruzione di

una storia della subalternità. La difficoltà nella ricostruzione storica sta nel trovare voci

12 ATABAKI Touraj, BEYOND ESSENTIALISM Who Writes Whose Past in the Middle East and Central

Asia?, Lecture for the University of Amsterdam, Amsterdam, 2003 13 DI MAIO Alessandra, Subaltern studies,

http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/subaltern_studies_b.html 14 Idem 15 CHIUSANO Germana, MIGLIARDI Agnese, Gli approcci partecipativi applicati nella cooperazione

allo sviluppo in BIGNANTE Elisa, DANSERO Egidio, SCARPOCCHI Cristina, Geografia e cooperazione

allo sviluppo, temi e prospettive per un approccio territoriale, FrancoAngeli s.r.l., Milano 2008, pag. 111

13

subalterne autentiche, testimonianze non adulterate od edulcorate. La necessità primaria

è legata alla riscoperta di fonti alternative o trascurate o, ancora, oscure agli ambienti

degli studi accademici poiché facenti parte esclusivamente degli ambienti subalterni,

distanti dalla critica e dal lavoro delle università. I membri del collettivo di Nuova Delhi

propongono la riscoperta di fonti desuete (o improprie secondo parte della storiografia

classica) quali i racconti orali, la memoria popolare o documenti scritti trascurati e

frammentari. Posto ciò, la difficoltà sta nel trovare gli strumenti adatti all’interpretazione

storica di testimonianze non propriamente accettabili come fonti storiche, si voglia a

causa della loro frammentarietà, della loro non tracciabilità, della loro scarsa

referenzialità ad altre fonti od autoreferenzialità. Oltre all’impostazione di dubbio sul

rigore delle nuove fonti, gli studiosi della subalternità si pongono in atteggiamento critico

anche per quanto riguarda le fonti ufficiali della narrazione storica egemone: se lo scopo

del lavoro è quello di ricostruire la storia riconoscendo l’importanza di ogni strato sociale,

è necessario rielaborare il discorso storico generalmente accettato, disconoscendo e

rielaborando i punti di vista rappresentati, spesso celebrazione delle classi dominanti in

salsa neocoloniale16. L’approccio storico dei Subaltern studies è assimilabile a quello

della New Cultural History in particolare nella sua accezione di storia dal basso e di

microstoria17, nonché all’analisi di tipo marxista della labour history, data dal ruolo

giocato dalle tradizioni culturali e dal concetto di moralità delle classi popolari 18 .

L’utilizzo di tale approccio marxista o post-marxista è dato dalla vicinanza della gran

parte degli studiosi della subalternità alla critica marxista19 ed ai suoi teorici, come il già

nominato Antonio Gramsci, utilizzato spesso per via delle sue categorie concettuali.

Il discorso sugli studi subalterni si sviluppò e si diffuse nel corso di tutti gli anni ’80,

grazie ad una serie di monografie presentanti raccolte di saggi sulla subalternità curate da

Ranajit Guha ed edite dalla Oxford University Press India, aventi cadenza quasi

annuale20. Il lavoro del collettivo di Nuova Delhi balzò agli occhi degli accademici di

tutto il mondo nella seconda metà degli anni ’80, con la pubblicazione di un saggio di

Rosalind O’Hanlon riguardante i Subaltern studies nella rivista Modern Asian Studies

16 DI MAIO Alessandra, Op. cit. 17 FAZIO Ida, Nuova storia culturale in COMETA Michele, COGLITORE Roberta, MAZZARA Federica

(a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, pag. 329 18 Ibidem, pag. 330 19 WILLIAMS R. John, "Doing History": Nuruddin Farah's "Sweet and Sour Milk", Subaltern Studies, and

the Post-colonial Trajectory of Silence, in Research in African literatures, vol. 37, n.4 (Winter 2006),

Indiana University press, Bloomington IN 2006, pag. 162 20 GUHA Ranajit, a cura di, Subaltern Studies I. Writings on South Asian History and Society, Oxford UP

India, New Delhi, 1982. (e successivi)

14

della Cambridge University Press21. Da qui, la diffusione divenne capillare nel mondo

accademico, ed alcuni volumi, già scritti in inglese per ampliare le possibilità di diffusione

e consultazione, furono tradotti in diverse lingue. Tra i lavori che maggiormente hanno

contribuito alla diffusione degli studi subalterni è utile ricordare la selezione Selected

Subaltern Studies, curata da Ranajit Guha e Gayatri Spivak, con prefazione di Edward

Said22, ed il celebre saggio della Spivak Can the subaltern speak?23.

L’internazionalizzazione dei Subaltern Studies passa dalla diffusione del materiale del

collettivo di Nuova Delhi in occidente attraverso le università di Oxford e Cambridge,

nonché dalla partecipazione di uno degli studiosi di maggiore fama internazionale, quale

Edward Said, agli studi. L’attrattiva e gli orizzonti della narrazione subalterna risultano

dunque ampliati in maniera consistente, portando, nel 1993, alla nascita di un nuovo

collettivo di studi subalterni nell’America Latina24. Il nuovo collettivo, fondato da cinque

accademici (John Beverley, Robert Carr, Jose Rabasa, Ileana Rodriguez e Javier

Sanjines), si occupò in principio di un connubio tra studi storici e politica, sviluppando il

discorso relativo al legame tra subalternità e post-colonialismo, tentando di instaurare un

rapporto di solidarietà tra accademia e sottoposti25. Il collettivo latino-americano non è

stato per ora prolifico come quello del subcontinente indiano, alle difficoltà iniziali si

sono aggiunte la carenza di interesse nelle università e l’assenza di fondi tesi allo sviluppo

di uno studio della subalternità nel continente americano, tant’è che il collettivo ad oggi

si trova in una situazione di stallo e dismembramento26.

Il processo di crescita degli studi subalterni, tuttavia, non è da dirsi arrestato per le sole

difficoltà degli studi latino-americani: negli ultimi vent’anni, l’interesse è andato

crescendo grazie a diverse pubblicazioni di diffusione internazionale, come la

pubblicazione nel 1994 di un numero monografico della American Historical Review

dedicata ai subaltern studies27, la creazione dell’antologia sugli studi subalterni svolta da

21 O’HANLON Rosalind, "Recovering the Subject: Subaltern Studies and Histories of Resistance in

Colonial South Asia", in Modern Asian Studies 22, 1, 1988, pagg. 189-224 22 SAID Edward, Foreword, in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorti (a cura di), Selected

Subaltern Studies, Oxford UP, New York 1988 23 SPIVAK Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?”, in C. Nelson, L. Grossberg (a cura

di), Marxism and The Interpretation of Culture, Macmillan, London 1988, pagg. 271-313 24 LUDDEN David, Reading Subaltern Studies: Critical History, Contested Meaning, and the

Globalisation of South Asia, Permanent Black, India 2003 25 AUTORE SCONOSCIUTO, The Latin American Subaltern Studies Group, 2006,

http://digitalunion.osu.edu/r2/summer06/herbert/testimoniosubaltern/latinamericasuba.html 26 Idem 27 AA. VV., American Historical Review, n. 99, American Historical Association, Oxford University Press,

1994

15

Ranajit Guha nel 199728, o il volume del 2001 di David Ludden della Penn University:

Reading Subaltern studies29. La diffusione di materiale di qualità ha portato ad un ritorno

al passato degli studi, articoli passati in secondo piano vennero riletti, tradotti e

ristampati.

28 GUHA Ranajit, A Subaltern Studies Reader. 1986-1995, University of Minnesota Press, Minneapolis,

1997 29 LUDDEN David, Op. cit.

16

Note bibliografiche

Il lavoro di decostruzione e rielaborazione storica presente nelle pagine a venire prenderà

in esame il periodo storico dell’Impero italiano in Africa Orientale, dalla nascita

dell’Impero del 1936, fino alla sua caduta nel 1943, tenendo conto delle conseguenze

correlate all’occupazione italiana nel successivo periodo post-coloniale. L’analisi si

baserà sulla produzione post-coloniale svolta da numerosi storici italiani dagli anni ’70 in

poi, sulle testimonianze dirette delle popolazioni del Corno d’Africa nel periodo

successivo alla caduta dell’Impero e sui lavori degli studiosi storici e sociali africani che

si sono occupati dell’invasione e del dominio italiano nell’Africa orientale; in modo di

ricavare il massimo di informazioni per la costruzione della storia dei gruppi sociali

subalterni nel suddetto periodo storico.

Gli studi post-coloniali in Italia hanno destato ben poco interesse per decenni: dato per

assodato il fatto storico, si preferì concentrarsi su altre tematiche 30 , relegando

l’avvenimento a quanto scritto nei venticinque volumi de L’Italia in Africa, opera a cura

del Ministero degli Affari Esteri, editi tra il 1958 e il 1969 ed aventi come scopo una

trattazione complessiva della tematica coloniale. La monumentale mole di monografie è

divisa in serie: una serie storica, edita nel 1958 e comprendente sette volumi, una serie

storico-militare (1960, cinque vol.), una serie scientifico-militare (1960, cinque vol.), una

serie giuridico-amministrativa (1963, tre vol.), una serie civile (1965, due vol.) e, infine,

una serie economica-agraria (1969, tre vol.).

Angelo Del Boca, nel suo saggio del 2003 Myths, Suppression, Denial and Default of

Italian Colonialism descrive L’Italia in Africa come: “un colossale, costoso e quasi

incredibile sforzo di mistificazione promosso dal Ministero degli Affari Esteri. 31 ”.

L’intera opera si basa sulla volontà dei governi dell’epoca di mistificare il fatto coloniale

e di far apparire il dominio italiano in Africa come positivo, con toni che tendono a lodare

l’impresa italiana come portatrice di civiltà e progresso32.

Per le perplessità riguardo all’attendibilità delle fonti del governo italiano mosse da Del

Boca e da numerosi altri studiosi della materia, la seppur vasta produzione del Ministero

30 DEL BOCA Angelo, The Myths, Suppressions, Denials and Defaults of Italian Colonialism, in (a cura

di) PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Africa in italian colonial culture from post-unification to the

present, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 2003 pagg. 17-18. 31 Idem 32 LABANCA Nicola, Studies and Research on Fascist Colonialism, 1992-1935, Reflections on the State

of the Art, in (a cura di) PALUMBO Patrizia, A place in the sun Op. Cit. pag. 38

17

degli Affari Esteri italiano verrà utilizzata in maniera parziale ed assolutamente critica

all’interno di questo lavoro. L’Italia in Africa rappresenta, in modo piuttosto netto, la

narrazione storica dei gruppi sociali egemoni di cui parlava Antonio Gramsci: ragion per

cui, potremo servircene solo in un’ottica di giustapposizione rispetto a ciò che le altre

fonti, indipendenti da una ricerca tesa a giustificare il colonialismo italiano in Africa,

asseriscono.

18

Sintesi storica del colonialismo italiano in Africa orientale

Per meglio comprendere le strutture di potere venutesi a creare nell’Africa orientale

italiana, è necessario studiare come l’Italia sia entrata in Africa e come si siano radicate

le gerarchie del giovane paese europeo nelle società differenti e multiformi del corno

d’Africa. Le prossime pagine saranno dedicate ad una sintetica ricostruzione dell’intero

periodo coloniale antecedente l’Impero, dall’epoca liberale, sino al colonialismo fascista.

La sintesi che segue, pur non essendo tipica dei lavori subaltern, è, a mio avviso,

necessaria, per meglio incastrare nel complesso scacchiere dell’invasione e del dominio

italiani, l’episodicità e la frammentarietà delle fonti subalterne.

Il colonialismo liberale

“Gloria a Dio

Essendo il giorno di lunedì undecimo del mese di sciaban dell’anno 1286 secondo il

computo degli islamiti e il giorno 15 del mese di novembre dell’anno 1869 secondo l’era

degli europei, Hassan ben Ahmad, Ibrahim ben Ahmad, fratelli, ed il signor Giuseppe

Sapeto, reisisi a bordo del Naser Megid, barca di Said-Auadh, e fatto atto di presenza,

stipularono quanto segue al cospetto dei testimoni:

1. I fratelli sopraddetti Hassan ben Ahmad ed Ibrahim ben Ahmad, sultani di Assab,

hanno venduto e vendono al signor Giuseppe Sapeto anzidetto il territorio

compreso tra il monte Ganga, il capo Lumah e i due suoi lati; perloché il dominio

del detto territorio apparterrà al signor Giuseppe Sapeto, tostoché questi ne avrà

sborsato il prezzo avendoglielo essi spontaneamente venduto, volontariamente e

con retta intenzione.

2. I fratelli suddetti giurano, sul Corano della Distinzione, che né essi né la gente

loro faranno perfidie agli europei che verranno ad abitare il paese proprietà del

signor Sapeto.

3. Il signor Giuseppe Sapeto compra il detto luogo per seimila talleri, lasciando

perciò duecentocinquanta talleri di caparra ai venditori, obbligandosi a pagare

i rimanenti cinquemila settecento cinquanta talleri fra cento giorni decorrenti

dal primo di ramadan fino ai dieci del mese di heggiah. Ché se il signor Giuseppe

non tornasse più, né altri venisse in sua vece nel tempo fissato, la caparra

andrebbe perduta. I fratelli poi soprannominati non potranno vendere ad altri il

19

detto luogo, avendolo già venduto al signor Giuseppe Sapeto, ed accordatogli

cento giorni al pagamento del prezzo suo.

Questo è il contratto passato tra il signor Giuseppe Sapeto, e i fratelli Hasan ben Ahmad

ed Ibrahim ben Ahmad, alla presenza dei testimoni Mahamad Abdi, Ahmad Al, Said

Auadh, scivano, Abd Allah ben Duran.

Accettato e sottoscritto dai contraenti.”33

Con questo breve contratto, stipulato il 15 novembre del 1869 dal professor Giuseppe

Sapeto, in rappresentanza della società genovese Rubattino, e dai fratelli ben Ahmad,

sultani di Assab, si apre la penetrazione italiana in Africa Orientale. L’acquisto fu di

seguito perfezionato nel corso dell’anno successivo, estendendo il territorio e

permettendo agli armatori della Rubattino di issare la propria bandiera nazionale,

concedendogli una sorta di dominio assoluto sul territorio africano34. L’ingresso italiano

nel continente si concretizza non con un’occupazione militare voluta dallo Stato, bensì

con l’acquisto di un territorio da parte di una compagnia privata. Le pulsioni verso

l’Africa erano, però, già vive nella società italiana; in seno al neonato paese europeo si

accavallarono le voci che richiedevano possedimenti d’oltremare, sostenute da tesi

relative all’espansione economica, alla scoperta dell’altro, o supportate da un forte

nazionalismo35. Il sentire comune s’allineò sulla necessità di avere dei possedimenti

esterni per porsi allo stesso piano delle altre nazioni europee. Il sogno italiano tardò a

realizzarsi. Non vi fu, in questo primo momento, un vero e proprio insediamento

Rubattino nell’arida baia di Assab: i pochi segni lasciati dalla compagnia genovese

vennero ben presto cancellati dall’Egitto, con il sostegno della Gran Bretagna che mal

tollerò la presenza italiana in un territorio sulle coste Mar Rosso36.

Solo dieci anni dopo, con l’ingerenza egiziana ridotta al minimo, e con la piena

accondiscendenza della Corona Britannica, la Rubattino approfittò della crisi dello stato

egiziano per rimettere piede nella baia di Assab, riprendendo il possesso dei territori

acquisiti anni prima ed estendendo il dominio con nuovi acquisti. Quello che poté

sembrare come un rinnovato interesse della compagnia genovese nei confronti di un

33 PERTICONE Guglielmo, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni

parlamentari, Grafica editrice romana, Roma, 1971, pag. 177 34 PERTICONE Guglielmo, Op. Cit., pag. 179 35 LABANCA Nicola, Oltremare, Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002,

pagg. 16-18 36 ROCHAT Giorgio, Il colonialismo italiano, Loescher Editore, Torino, 1973, pagg. 20-21

20

investimento dato per fallito troppo presto, fu in realtà una brillante operazione

commerciale. La Rubattino carpì l’interesse del Governo Depretis nell’acquisizione di

“un posto al sole” e la sfruttò a suo vantaggio nel 1882, cedendo all’esoso costo di

416.000 lire i possedimenti sul mar Rosso allo Stato Italiano37. La convenzione del 10

marzo 1882 (approvata poi dal Parlamento Regio il 5 luglio dello stesso anno) stipulata

dai ministri Mancini, Berti e Magliani e dal cavaliere Hofer in rappresentanza della

Rubattino, donò all’Italia la sua prima, minuscola colonia; un territorio arido,

semidesertico e quasi totalmente inabitato (si parla di mille abitanti indigeni), ma pur

sempre un segno di presenza, un primo, timido passo italiano nel continente africano38.

Nel 1885, le mire espansionistiche dell’Italia presero nuova forma. Il 27 gennaio del 1885,

il ministro degli esteri Mancini annunciò l’imminente spedizione di soldati italiani nel

corno d’Africa. La discussione tenne banco in ben due sedute parlamentari, nei giorni 27

e 28 gennaio, con numerose interpellanze ed interventi dei deputati Canzi, De Renzis e

Parenzo, dubbiosi sulla natura della spedizione militare e sulle ragioni della creazione di

un contingente e di una colonia nel distante, remoto e poco fruttuoso mar Rosso,

rivendicando, invece, la necessità della sovranità italiana all’interno del Mare Nostrum.

Agli interventi degli onorevoli succitati risposero in maniera accorata e ferventemente

nazionalista il ministro della guerra Ricotti, e soprattutto il ministro degli esteri Mancini,

che presentò la spedizione africana come una notevole opportunità per l’Italia, non

nascondendo le mire ad un’occupazione più vasta del territorio del corno d’Africa,

accompagnando il discorso con una retorica patriottica legata alla supposta connotazione

genetica italiana per l’esplorazione, il viaggio, l’ignoto; godendo così dei favori e

dell’approvazione del Parlamento Regio39.

La penetrazione delle forze militari italiane nel territorio di Assab fu facilissima. I soldati

del contingente italiano non trovarono resistenze, ed estesero il dominio fino alla città di

Massaua in tempi brevi e senza perdite o scontri degni di nota40. Per due anni l’esercito

italiano stazionò nei possedimenti senza subire minacce o attacchi dalle popolazioni

autoctone. Nel gennaio 1887 la passeggiata coloniale italiana ebbe un brusco stop: le

truppe dell’altopiano eritreo, guidate da ras Alula attaccarono con un vasto contingente il

fortino italiano di Saati, sconfiggendo in seguito la colonna di cinquecento soldati italiani

37 ROCHAT Giorgio, Il colonialismo italiano, Loescher Editore, Torino, 1973, pagg. 20-21 38 PERTICONE Guglielmo, Op. Cit., pagg. 183-185 39 AA. VV. Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 27 gennaio 1885 e 28 gennaio 1885, Tipografia

della Camera dei Deputati, Roma, 1885, pagg. 11059-11078bis e pagg. 11113 – 11129 40 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 70-71

21

al servizio del tenente colonello De Cristoforis, nei pressi della località di Dogali41. Le

reazioni alla sconfitta italiana ed alla perdita delle tante vite in terra africana generarono

un’ondata emotiva di enormi proporzioni nella madrepatria; sia dal punto di vista della

retorica nazionalista, sia da parte del poco nutrito fronte anticoloniale nel parlamento

italiano42. Sebbene il parlamento italiano si fosse convinto in ampia parte della vacuità e

dei problemi correlati all’impegno coloniale, le frange più fortemente anticolonialiste

restarono isolate (si ricordi a tal proposito l’intervento del deputato socialista Andrea

Costa il 3 febbraio del 1887, che coniò lo slogan anticolonialista “né un uomo, né un

soldo43”), e l’impresa coloniale proseguì persino con più veemenza. Il capo di gabinetto

Depretis organizzò una spedizione militare più folta rispetto alle precedenti, comprensiva

di circa ventimila soldati, guidata dal generale Alessandro Asinari44.

La morte di Depretis nel 1887 portò a capo del governo il garibaldino Crispi, sotto nomina

del re Umberto I 45 . Il programma del politico siciliano poneva al centro lo sforzo

coloniale, come simbolo fondamentale della redenzione del Paese e come clausola

necessaria per l’ingresso dell’Italia tra i grandi d’Europa. Egli presentò i possedimenti

africani come un’opportunità di migrazione ed insediamento popolare: Crispi immaginò

di risolvere il problema della povertà dei gruppi sociali legati all’agricoltura attraverso la

conquista dell’altopiano abissino e la sua conseguente mutazione in colonia di

popolamento 46 . Sotto Crispi l’esperienza coloniale italiana si normalizzò e divenne

duplice seguendo due diverse linee d’azione, una militare chiamata “linea tigrina” ed

un’altra diplomatica, chiamata “linea scioana”47: mentre l’esercito, guidato dal generale

Baldisserra, era presente tramite avanzate che dal bassopiano eritreo miravano

all’altopiano etiope, era al contempo in corso un’intensa attività diplomatica tra Italia ed

Etiopia, guidata in prima linea dall’esploratore Pietro Antonelli48.

Proprio il conte Pietro Antonelli stipulò con il Re etiope designato, Menelik II, il trattato

di Uccialli. L’accordo, steso in lingua amarica ed italiana e datato 2 maggio 188949, pur

41 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 23 42 Ibidem pagg. 39-42 43 AA. VV. Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 3 febbraio 1887¸ Op. Cit., pagg. 2001-2034 44 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 70 45 DUGGAN Christopher, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pagg.

593-595 46 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit. pag. 72 47 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità alla Marcia su Roma, Mondadori,

Milano, 1992, pag. 365 48 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit. pag. 72 49 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 45

22

avendo la forma di un trattato di pace tra i due stati, ebbe in realtà una varietà di scopi,

alcuni palesi ed altri, come vedremo in seguito, facilmente fraintendibili.

All’articolo 3 del trattato, vi è la nascita, de facto, della colonia italiana d’Eritrea con i

suoi confini, riconosciuta da entrambi i contraenti:

“A rimuovere ogni equivoco circa i limiti dei territori sopra i quali le due parti contraenti

esercitano i diritti di sovranità, una commissione speciale composta di due delegati

italiani e due etiopici traccerà sul terreno con appositi segnali permanenti una linea di

confine i cui capisaldi siano stabiliti come appresso:

La linea dell’altipiano segnerà il confine etiopico-italiano;

Partendo dalla regione di Arafali: Halai, Saganeiti ed Asmara saranno villaggi

nel confine italiano;

Adi Nefas e Adi Joannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano;

Da Adi Joannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-

etiopico.”50

Negli articoli seguenti, vi sono questioni dedicate allo scambio di armi ed al trattamento

dei prigionieri; ma a rendere celebre il trattato di Uccialli, fu senza dubbio l’articolo 17,

punto cruciale dell’accordo. L’articolo appena citato fu scritto, con palese volontà

d’inganno, in maniera differente nelle due lingue del trattato. In italiano, lasciava

intendere un protettorato italiano sull’Etiopia: “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia

consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di

affari che avesse con altre potenze o governi.”51 Mentre in lingua amarica l’articolo

poneva in evidenza la semplice possibilità del Re etiope di servirsi dell’aiuto del Re e del

governo italiano per la trattazione di affari esteri: “Per qualsiasi necessità abbia bisogno

presso i sovrani d’Europa, all’Imperatore d’Etiopia sarà possibile corrispondere con

l’aiuto del governo italiano”52. Il termine amarico qui tradotto come “gli sarà possibile”

è icciollaccioàl ed indica possibilità, non obbligo53; questa sottile differenza di traduzione

nascose ben più d’una semplice disattenzione da parte italiana, la volontà di Antonelli (o

forse di Crispi), fu quella di affermare il potere italiano in Etiopia tramite una grottesca

scorciatoia.

50 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 45 51 Ibidem, pag. 46 52 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità..., Op. Cit., pag. 385 53 Idem

23

Il primo gennaio del 1890, il decreto legge n. 6592 del Parlamento Regio stabilì il

battesimo dei possedimenti italiani nel mar Rosso con il nome di Colonia Eritrea, come

previsto dal già citato articolo terzo del trattato di Uccialli. Il decreto legge diede una

nuova forma amministrativa al possedimento d’oltremare, retta da un governatore civile

e militare coadiuvato da tre consiglieri.

I passi avanti della “linea scioana” di Antonelli, furono presto seguiti da azioni militari in

forza alle truppe militari italiane. Il generale Baldissera, noto soprattutto per aver dato

forma ad una riorganizzazione dell’esercito tramite l’ingresso nelle forze degli ascari

indigeni54, venne sostituito nel 1890 da un nuovo governatore, il generale Baldassarre

Orero55. Il nuovo amministratore della colonia Eritrea dimostrò immediatamente le sue

mire espansionistiche: nel terzo anniversario della disfatta di Dogali, il 26 gennaio del

1890, mise subito a rischio la pace con l’Etiopia del ras Menelik, occupando, senza il

consenso governativo, la città di Adua per tre giorni: il governatorato eritreo, da questo

punto in poi, passò prima nelle mani del generale Gandolfi, ed in seguito delle mani

dell’ambizioso colonnello Baratieri56.

Il nuovo governatore della colonia eritrea presentò tutti i caratteri di un’Italia

spregiudicata ed illusa di portare avanti con facilità una politica espansionista. Le sortite

e le mire espansionistiche di Baratieri furono mal sopportate dai governi Di Rudinì e

Giolitti, molto cauti sull’esperienza coloniale italiana e sulle spese ad essa collegate, per

esser poi esaltate da Crispi, ritornato al governo nel 189357.

Baratieri, supportato nella spavalderia da Crispi, suo compagno tra le mille camicie rosse

garibaldine, farà dell’Eritrea quasi uno stato a sé; divenendone sovrano assoluto,

riorganizzandone l’aspetto militare (creò un esercito di circa 10.000 militi, in gran parte

indigeni) ed abbandonando in maniera decisa la suddetta linea scioana, inasprendo sin da

subito i rapporti con Menelik58.

54 I battaglioni degli ascari eritrei nacquero sotto il colonnello Tancredi Saletta, per venire poi inquadrati

dal generale Baldisserra, come volontari in ferma breve (annuale) rinnovabile. Il ruolo degli ascari fu

indispensabile nell’avanzata coloniale italiana e nel mantenimento dei possedimenti. I soldati eritrei al

soldo del governo coloniale italiano dimostrarono inflessibile fedeltà ed abilità. Vennero utilizzati non

solo per le conquiste in Africa Orientale, ma anche per la campagna libica, in ROCHAT Giorgio, Op.

Cit., pag. 24 55 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 75 56 Ibidem, pag. 75-76 57 Idem 58 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 536-539

24

Il nuovo “Re d’Eritrea”, desideroso d’aumentare la sua area di influenza geografica nel

corno d’Africa, fronteggiò più volte l’esercito di Menelik con alterne fortune, rendendosi

conto ben presto che il suo esercito, benché riorganizzato e numericamente significativo,

non potesse sostenere una guerra continuativa contro le truppe regolari e le milizie

irregolari del Regno d’Etiopia. Per questo motivo insistette a lungo con Crispi e con il

Ministro della Guerra Mocenni per ricevere rinforzi militari, chiedendoli spesso in

maniera confusa e generica, e ricevendo dal governo italiano risposte ancor più

pressapochiste. Crispi dovette, d’altro canto, fronteggiare un parlamento riluttante a

proseguire con le spese africane e mal disposto a tollerare una scelta espansionistica in

Etiopia59.

Il governo, però, aveva delle opinioni di gran lunga differenti rispetto a quelle del

Parlamento Regio. Ne è palese dimostrazione il desideratum, estremamente ottimista,

steso dal ministro degli esteri Blanc ed inviato a Baratieri nel gennaio del 1896. Lo

schema di Blanc auspica una totale resa del negus ed un assorbimento dell’intera Etiopia

sotto l’egida italiana, tramite la forma del governo indiretto60, già parecchio in voga

presso le colonie inglesi.

L’auspicio di Blanc, del governo ed anche di Baratieri si rivelò, ad ogni modo, alquanto

effimero. La spregiudicatezza e la superficialità dell’iniziativa espansionista italiana

vennero a galla con prepotenza il primo marzo del 1896, con il tentativo di penetrazione

presso il territorio montuoso nei pressi di Adua ed Abba Garima. I quattro battaglioni

italiani, composti da 17.400 uomini61, tra ascari e italiani, si mossero a colonne separate

durante la notte, con l’intenzione di colpire di sorpresa l’esercito Etiope. La pianificazione

dell’attacco, fu, però, quanto mai grossolana: la mappa del campo di guerra venne

disegnata in maniera erronea e dilettantistica, provocando non solo ovvi problemi

logistici, ma portando le colonne italiane allo sbando ed alla dispersione; per giunta, non

fu elaborato da Baratieri un piano di ritirata, né fu ben calcolato l’elemento sorpresa,

svanito ben presto nel corso della lunga e confusa marcia che portò le truppe italiane nei

pressi di Adua62. Le truppe di Menelik si fecero trovare più che pronte allo scontro con

l’esercito del Baratieri, ben armate, perfettamente consapevoli della conformazione del

terreno del campo da guerra, ed ampiamente superiori numericamente rispetto alle truppe

italiane (il numero esatto dei componenti dell’esercito abissino non è chiaro: secondo le

59 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pagg. 50-52 60 Ibidem, pagg. 52-54 61 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pag. 714 62 Ibidem, pagg. 713-714

25

stime disponibili va da 65 mila a 200mila unità63). Le colonne italiane vennero assaltate

una ad una e costrette ad una disperata ritirata, 5.000 soldati italiani e 1.000 ascari persero

la vita, 1700 furono fatti prigionieri64. La débâcle fu brutale e fece da pietra tombale al

progetto espansionista in Etiopia del governo italiano. A farne le spese fu Crispi in prima

persona, costretto alle dimissioni, presentate in una concitata e brevissima seduta della

Camera dei Deputati, appena quattro giorni dopo la disfatta di Adua65.

La tremenda sconfitta in terra etiope decretò la morte politica di Francesco Crispi e mise

a tacere qualsiasi vocazione espansionista dell’Italia africana per gli anni a venire. Con il

Trattato di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 l’Italia riconobbe la sovranità etiope e

l’Etiopia accettò la presenza italiana in Eritrea66. Baratieri venne sostituito da Ferdinando

Martini, civile, politico, che applicò una politica di distensione nei confronti dell’Etiopia

di Menelik sin dal 189767.

Negli stessi anni, l’Italia metteva un altro piede nel Corno d’Africa, questa volta più a

sud, nelle coste somale: il territorio appariva scarsamente abitato, poco produttivo e non

presentava reali opportunità di essere sfruttato per investimenti o come colonia di

popolamento. Come nel caso dell’Eritrea, a muovere i primi passi in Somalia fu un

privato, Vincenzo Filonardi; egli, accompagnato da navi militari italiane, firmò alcune

concessioni e protettorati alla fine degli anni ’80 del XIX secolo, prima con il sultano di

Obbia e poi con quello dei Migiurtini68.

Il possedimento si estese man mano con nuovi acquisti, ma la colonia somala rimase

infruttuosa per il capitale privato, venendo quindi rilevata dallo Stato ed amministrata

direttamente con il nome di Somalia italiana (legge del 5 aprile 1908)69. La Somalia

italiana venne posta immediatamente sotto amministrazione civile 70 ; le mire

espansionistiche dei tempi di Crispi parsero esser scomparse e i confini vennero delineati

con precisione. D’altro canto, la disfatta di Adua è, in questo periodo, ancora fresca nella

memoria politica e nell’opinione pubblica del Paese, ed i possedimenti in terra africana

63 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit, pag. 73-74 64 ROCHAT Giorgio, Op. Cit. pag. 27 65 AA. VV., Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 5 marzo 1896, Tipografia della Camera dei

Deputati, Roma, 1896, pag. 3427 66 CALCHI NOVATI Gian Paolo, L’Africa d’Italia, Carocci Editore, Roma, 2011, pag. 93 67 Ibidem, pag. 94 68 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 88 69 Ibidem, Op. Cit., pag. 92 70 AA. VV.,Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N 102, giovedì 30 aprile 1908, Roma, 1908

26

non rendono quanto sperato: una linea di condotta cauta fu l’unica scelta politica

praticabile per il governo italiano.

La quiete favorì il consolidamento dei piccoli possedimenti africani: l’Eritrea, consegnata

al civile Martini, capace di gestire la colonia dal 1897 al 1907 con scarso budget, e di

“mettere in sonno” il possedimento, così come gli era stato chiesto71. A Martini seguì

Salvago Raggi, che in maniera più aggressiva (e dispendiosa) decise di sviluppare la

colonia eritrea, con le prime linee ferroviarie e con un atteggiamento di sfida verso

l’Etiopia orfana di Menelik72. La Somalia venne affidata nel 1910 a De Martino, che nei

suoi sei anni di governo instaurò un dominio di tipo personalistico, sopravvalutando le

potenzialità economiche della colonia, credendo di poter sfruttare il terreno somalo per

l’agricoltura intensiva73.

Durante il primo conflitto mondiale la situazione nei due posti al sole italiani non cambiò

di tanto. L’Eritrea continuò ad esser sfruttata in maniera intensiva, rendendo ben poco e

costando parecchio all’erario, mentre in Somalia, colonia retta in maniera disordinata e

mai realmente pacificata, le forze armate portarono alla fine dei disordini solo tramite una

violenta repressione74. Gli sforzi nel lontano corno d’Africa si ridussero e l’attenzione del

Paese si focalizzò, sin dal 1905, sulla sponda a sud del Mare Nostrum, con la pesante e

prolungata guerra in Libia75.

Lo stato liberale italiano volge al tramonto, indebolito dalla Grande Guerra e dai suoi esiti

catastrofici. All’orizzonte vi è la dittatura fascista, che non si discosterà poi tanto dalla

liberaldemocrazia nei mezzi e nelle pratiche coloniali76. Lo stato fascista sarà più risoluto

e più efficiente, nonché favorevolmente indirizzato nella sua interezza alla costruzione

dell’Impero; già agli albori del PNF, Benito Mussolini definì l’imperialismo come “legge

eterna e immutabile della vita77”, ponendo l’idea di una più grande Italia come caposaldo

del pensiero fascista.

71 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 101-103 72 Idem 73 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 904-907 74 Ibidem, pagg. 927-942 75 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 16 76 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 964-965 77 Ibidem, Op. Cit., pag. 958, da MUSSOLINI Benito, Il Popolo d’Italia, 1° gennaio 1919

27

Il colonialismo fascista

L’impianto retorico del regime fascista e del suo leader si basarono fortemente sull’idea

di una più grande Italia, sull’eredità di grandezza lasciata dall’Antica Roma e sulla

volontà, od in alcuni casi la necessità, di riappropriarsi della grandezza geografica e del

prestigio internazionale di cui Roma aveva goduto in tempi remoti.

I miti dell’Africa già romana e dell’Impero furono pervasivi nella propaganda del regime

e nella stessa cultura fascista78. L’idea di grandezza era appetibile per le masse, nonché

un buon coagulante per il sentimento nazionale: l’idea di un Impero di tutti, secondo l’idea

di Stato corporativo, risultava assolutamente favorevole per il popolo italiano, che vide

nell’Africa opportunità di redenzione e, soprattutto, di arricchimento 79 . L’impianto

culturale fascista diede alla missione colonialista nuovo fiato; ciò che durante il periodo

liberale appariva come dispendioso e velleitario, venne coperto da un alone di novità,

quello di una società rinata sotto il segno di Mussolini80.

Retorica a parte, il cambiamento propagandato dal regime fascista tardò ad arrivare; fino

al 1925 il colonialismo fascista fu una blanda ripetizione di quanto accaduto negli anni

precedenti, con piccole nuove acquisizioni ricavate da percorsi diplomatici iniziati già in

epoca liberale81. I domini nel corno d’Africa risultavano essere ancora ridotti e soprattutto

poco fruttuosi: l’Eritrea si estendeva per 120 mila Km2, con appena 300 mila abitanti

indigeni all’interno, la Somalia, più estesa, contava circa un milione di abitanti. Le due

colonie non diedero possibilità di impiego e resero ben poco all’erario, con entrate non

certo consistenti (se paragonate a quanto investito nelle campagne militari dai governi

liberali), e date in gran parte dalle tasse portuali82.

Nel frattempo, l’Etiopia, rimasta nelle mire italiane sin dalla disfatta di Adua, entrava nel

1923 a pieno titolo nella Società delle Nazioni 83 , ricevendo un timido tentativo di

opposizione da parte della neonata Italia fascista, che chiese (ed ottenne) di porre come

condizione all’ingresso dell’Etiopia nell’organizzazione internazionale l’abolizione della

78 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 154-156 79 Ibidem, pag. 157 80 MANCOSU Gianmarco, La cultura coloniale della “rivoluzione fascista”, in PES Alessandro (a cura

di), Mare Nostrum, il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, 2012, Aipsa Edizioni,

pag. 45 81 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag.146 82 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in (a cura di) PALUMBO Patrizia, A place in the

sun, Op. Cit., pag 40. 83 575/3 L’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni,

http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1455

28

schiavitù ed una regolamentazione pari a quella stabilita internazionalmente per il

commercio delle armi e delle munizioni84.

Nonostante la situazione stagnante e complicata, il governo fascista, a differenza di quello

liberale, ebbe più ampi margini di manovra: l’assetto cesarista del regime, senza la

necessità di continue giustificazioni parlamentari in materia di politica estera e spesa

pubblica, permise la crescita delle spese coloniali, aumentate costantemente fino alla

nascita dell’Impero85.

L’elemento relativo all’aumento della spesa fu un primo ed importante punto di rottura

con il colonialismo liberale; il secondo, e principale, punto di svolta fu il progetto di

“imperialismo demografico”. Fino agli anni ’30 la popolazione italiana residente nei

territori occupati era esigua, ancor più se dal calcolo si escludono le forze armate presenti

in Africa per operazioni di conquista e mantenimento degli spazi occupati. I coloni in

Libia risultavano esser più numerosi, mentre in Eritrea la popolazione occupante era

nell’ordine delle migliaia, ed in Somalia erano presenti solo alcune centinaia di

italiani8687. La ragione di questo progetto di rivoluzione demografica delle colonie era

dovuto al fatto che l’Italia, a differenza degli altri Paesi europei, avesse più manodopera

che capitali da esportare88.

Nella nuova fase coloniale vi fu anche la riscoperta del passato: la politica

dell’aggressione e dell’espansione verso l’Etiopia, cara a Baratieri e Crispi, ritornò in

auge dopo più di venticinque anni. Emilio De Bono, ministro delle colonie del governo

fascista dal settembre 1929 al gennaio 1935, già dal principio degli anni ’30 stilò un

programma d’attacco al Paese del negus89; l’idea del ministro rimase nel cassetto e fu

etichettata come troppo avventata e superficiale, ma non certo erronea dal punto di vista

ideologico: l’onta di Adua doveva essere lavata via e l’Etiopia restò la terra da conquistare

per tutto lo stato maggiore fascista90.

84 575/3 L’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni,

http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1455 85 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Op. Cit.,

pag. 46 86 I dati numerici riguardanti la popolazione italiana nei possedimenti africani risultano essere discordanti

ed imprecisi nella bibliografia dell’argomento. Per questo è preferibile farvi riferimento in maniera

approssimativa. 87 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Op. Cit.,

pag. 49 88 Idem 89 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 152 90 Idem

29

Nonostante la sedimentata idea di aggressione ad Addis Abeba (che si verificherà poi nel

1935), Mussolini mosse i primi passi verso l’Etiopia attraverso la diplomazia: nel 1928,

Ras Tafari ed il Duce elaborarono un trattato ventennale d’amicizia italio-etiope, con

ingenti tributi in armi dati da Roma al Paese africano, programmando, in parallelo, la

creazione di una strada camionabile tra Assab e Dessiè91.

Il trattato di amicizia era tutt’altro che sincero da parte italiana; lo stesso Mussolini

confessò che sarebbe servito solo a “cloroformizzare” o “morfinizzare” l’Etiopia92 .

Dall’Eritrea e dalla Somalia si iniziò a far pressione e ad accerchiare il paese, con la chiara

intenzione, all’alba degli anni ’30, di tornare all’uso delle armi, mentre il resto delle

potenze colonialiste si occupava di consolidare i propri domini93.

Il casus belli che portò all’invasione italiana dell’Etiopia si verificò nel tardo 1934 nella

località di Ual Ual, nell’Ogaden. Ual Ual, piccola fortificazione italiana situata in una

zona inospitale nel remoto deserto dell’Etiopia somala, aveva una forte importanza

strategica, per via dei 359 pozzi d’acqua scavati nei pressi del fortino; unica risorsa

d’acqua potabile disponibile nella zona 94 . Dopo quindici giorni di tensione (brevi

schermaglie tra etiopi ed italo-somali ebbero inizio il 22 novembre), nel pomeriggio del 5

Dicembre 1934 si arrivò ad uno scontro tra gli etiopi e gli occupanti italo-somali. La

battaglia fu molto violenta, per quanto breve: l’aeronautica italiana bombardò il

battaglione etiope, causando ingenti perdite e costringendo le truppe del negus alla

ritirarata95.

L’incidente di Ual Ual ebbe importanti ripercussioni a livello diplomatico. La questione,

infatti, venne posta da Haile Selassie96 all’attenzione della Società delle Nazioni che

incaricò una commissione d’arbitrato con lo scopo di stabilire le responsabilità del caso;

commissione che, però, non giungerà a conclusione alcuna97.

Mussolini trasse dai fatti di Ual Ual la giustificazione per forzare la mano sulla questione

etiope: già il 30 dicembre, venticinque giorni dopo l’incidente, estese alle più alte cariche

dello stato un memorandum in cui si palesava la sua volontà di occupare l’Etiopia, o, per

91 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Biblioteca

Universale Laterza, Roma-Bari, 1986, pagg. 132-140 92 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag.177 93 Ibidem, Op. Cit., pagg. 177-178 94 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Op. Cit., pag. 245 95 Ibidem, pagg. 245-250 96 Si tratta del già nominato Ras Tafari Makonnen, incoronato negus neghesti nel 1930 con il nome

dinastico di Haile Selassie I 97 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 406

30

dirlo con le sue stesse parole: “[…] l’obiettivo non può essere che la distruzione delle

forze armate abissine e la conquista totale dell’Etiopia. L’Impero non si fa altrimenti.”98

Principiò, dunque, la corsa agli armamenti e all’ingrossamento dei contingenti militari in

Eritrea e Somalia: i due fronti da cui sarebbe partita la morsa per dare a Mussolini il suo

Impero. A comando dell’organizzazione dell’attacco sulla sponda nord-orientale

dell’Etiopia troviamo Emilio De Bono, già anziano e da tempo non impegnato

militarmente. Il quadrumviro, al momento di sferrare l’attacco, ebbe a disposizione un

esercito estremamente più grande rispetto a quello con cui il Baratieri fu umiliato ad

Adua: 5.721 ufficiali, 6.292 sottufficiali, 99.243 soldati italiani e 53.226 ascari. Gli

armamenti non furono da meno, all’ingente potenza di fuoco messa a disposizione per

l’attacco si unirono le micidiali (e illegali sin dal 1925 99 ) armi chimiche e

batteriologiche.100 Sulla sponda meridionale il compito fu assegnato a Rodolfo Graziani,

con un esercito ridotto rispetto a quello di De Bono, ma comunque considerevole: 1.651

ufficiali, 1.546 sottoufficiali, 21.144 soldati nazionali e 29.511 soldati somali. Le armi

chimiche e i gas non mancheranno a Graziani, che ne farà un uso massiccio

nell’aggressione all’Etiopia101.

Mussolini, una volta pronte le truppe in Eritrea e in Somalia, decise di annunciare in

maniera roboante, dal balcone di palazzo Venezia a Roma, e alla radio in tutta Italia,

l’annuncio dell’inizio della guerra all’Etiopia:

“Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo,

oltre i mondi e oltre i mari! Ascoltate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della

patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai

si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini:

un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. La loro manifestazione deve

dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta,

assoluta, inalterabile. Possono credere il contrario soltanto i cervelli avvolti nella più

crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia 1935, anno XIII dell’era

fascista. Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma

determinazione, si muove verso la mèta: in queste ore il suo ritmo è più veloce e

inarrestabile ormai! Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un

98 MUSSOLINI Benito, Direttive per l’aggressione all’Etiopia, in ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 157 99 DEL BOCA Angelo, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1996, pag. 17 100 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Op. Cit., pagg.

292-303 101 Ibidem, Op. Cit., pagg. 303-308

31

popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare

la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po’di posto al sole. Quando nel 1915

l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante

esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla

quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti,

quattrocentomila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della esosa pace non

toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui. Abbiamo

pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che

soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!

Alla Lega delle nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni. […] Io

mi rifiuto del pari di credere che l’autentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai

dissidi con l’Italia, sia disposto al rischio di gettare l’Europa sulla via della catastrofe

per difendere un paese africano, universalmente bollato come un paese senza ombra di

civiltà. […]102”

Nel discorso del dittatore italiano, oltre alla solita retorica di stampo fascista, si trova una

ben chiara descrizione di alcune delle ragioni (propagandistiche e non solo) che hanno

portato il suo governo a dichiarare guerra contro il negus Selassie. Il richiamo relativo al

posto al sole e alla sua negazione, è indicativo di una condizione di inferiorità dell’Italia

fascista rispetto ai grandi d’Europa: situazione sofferta da Mussolini, che con

l’anacronistico attacco all’Etiopia sogna un Impero capace di fronteggiare in magnitudine

le potenze imperialiste già consolidate. Ritorna il tema della vittoria mutilata, nonché

l’idea di lavare via l’onta della disfatta di Adua. Appare, inoltre, il tema della superiorità

culturale e razziale, con il colonialismo inteso come opera civilizzatrice. Nessuna delle

armi retoriche utilizzate dal dittatore fu casuale: con i suoi discorsi ed i suoi scritti fu

capace di permeare ampiamente nel senso comune italiano, convinse il popolo di meritare

un Impero, tramite l’elaborazione dei miti della Grande Proletaria, della Potenza

dell’Italia fascista ed il richiamo costante all’eredità dell’Impero Romano103. A questi

elementi si sovrappose prepotentemente un mito più forte, ovvero quello della persona di

Mussolini: unico condottiero capace di portare avanti la ventura coloniale italiana e

personificazione dell’Impero nell’immaginario collettivo104.

102 MUSSOLINI Benito, Discorso dal balcone centrale di palazzo Venezia del 2 ottobre 1935, in

ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 163 103 PES Alessandro, La costruzione dell’impero fascista¸ Aracne Editrice, Roma, 2010, pagg. 104-107 104 Idem

32

All’attività propagandistica – che proseguì martellante anche dopo la fondazione

dell’Impero - seguì l’azione diretta nel Corno d’Africa. La mattina seguente al discorso

sopracitato, il 3 ottobre del 1935, le truppe di De Bono passarono il confine etiope

attraversando il fiume Mareb105.

L’armata partita dall’Eritrea prese la simbolica località di Adua in appena tre giorni, il 6

di ottobre; i migliori auspici del regime fascista di una conquista rapida ed implacabile si

spensero, però, in maniera rapida106. De Bono non riuscì a coordinare in maniera organica

e veloce il grande esercito a sua disposizione, e nemmeno con l’utilizzo dei gas riuscì ad

imprimere l’accelerata che il Duce e l’opinione pubblica italiana richiedevano. L’anziano

quadrumviro rinunciò alla prosecuzione della guerra e venne prontamente sostituito dal

generale Badoglio 107 ; costui aprì una nuova fase dell’occupazione, ove, grazie ad

un’attenta e maniacale programmazione, riuscì a sveltire il processo di conquista ed a

vincere numerose battaglie campali che decimarono e stremarono l’esercito etiope.

Badoglio entrerà ad Addis Abeba il 5 maggio del 1936, proclamando la fine dell’Etiopia

come entità statale e la distruzione dell’esercito etiope. Appena tre giorni dopo, l’8

maggio, Rodolfo Graziani concluse la sua guerra entrando ad Harrar. L’Etiopia era

sconfitta, il negus neghesti Haile Selassie era fuggito in esilio a Londra108, Mussolini,

sulla carta, ebbe il suo Impero.

105 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 163 106 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 107 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 190 108 Ibidem, pagg. 190-192

33

L’Impero d’Africa Orientale Italiana

La presa di Addis Abeba fu salutata da Mussolini con entusiasmo e partecipazione,

annunciando in pompa magna la nascita dell’Impero il 9 maggio 1936 dalla finestra di

Palazzo Venezia a Roma109. Gli stessi toni trionfalistici furono utilizzati dal dittatore nella

prefazione del libro scritto da Pietro Badoglio per celebrare la marcia tra Dessié ed Addis

Abeba; il capo fascista si concentrò principalmente nel sottolineare la rapidità, l’impresa

di popolo e l’economicità (sic!) dell’impresa italiana nel Corno d’Africa, esaltando le

capacità operative del Maresciallo Badoglio110. Il territorio appena conquistato era circa

cinque volte più grande dell’Italia stessa, ma risultava scarsamente abitato, con una

popolazione indigena di circa dodici milioni di persone111. Le condizioni parvero ottimali

per la costruzione di una società fascista ex novo: nelle prossime pagine verranno

analizzate in contrappunto le linee guida amministrative e lo sviluppo dell’Impero

fascista, con lo scopo di comprendere il ruolo riservato alle popolazioni locali secondo il

disegno italiano.

L’Impero in funzione: gerarchie, pianificazione, economia e opere in AOI

La Legge 1019 del 1°giugno del 1936112, varata per il governo della neonata Africa

Orientale Italiana, stabilì l’ordinamento amministrativo della colonia. Il territorio venne

suddiviso in sei governatorati: Eritrea, Somalia, Haràr, Amhara, Galla e Sidama, ed il

governatorato autonomo della municipalità di Addis Abeba. L’Italia impose il governo

diretto in ogni regione, più un governatore centrale, il viceré, con sede ad Addis Abeba.

Il viceré, pur avendo il ruolo di “capo supremo dell’Amministrazione” coloniale, si

trovava subordinato al Ministro delle Colonie.

La dicotomia contraddittoria “capo supremo-sottoposto al ministero” creò diversi

problemi quando il ruolo di viceré fu ricoperto da una personalità ambiziosa come quella

del già nominato Maresciallo Graziani. Il ruolo di governatore generale per Graziani

109 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 110 MUSSOLINI Benito, Prefazione, in BADOGLIO Pietro, La Guerra d’Etiopia, Mondadori, 1936

Milano, pagg. IX-XI 111 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 112 Legge pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 136, del 13 giugno 1936 - Anno XIV (vi si farà riferimento

più volte nel corso della stesura del paragrafo)

34

significò controllo assoluto della colonia, ragion per cui si trovò in continua relazione di

scontro con il Ministro delle Colonie Lessona113.

I problemi al vertice della gerarchia risultarono esigui, se comparati a ciò che avvenne

alla base; come promulgato dall’articolo 19 della Legge Organica 1091, i governatorati

vennero suddivisi in commissariati, ed i commissariati stessi vennero suddivisi in

residenze e vice residenze. Tale frammentazione richiese un alto numero di funzionari

alla dipendenza della colonia. Si contarono all’incirca ventimila impiegati pubblici nel

settore dell’amministrazione: la gran parte di questi erano militari smobilitati che chiesero

di poter permanere nella struttura imperiale. Gli amministratori ai livelli più bassi della

scala gerarchica risultarono essere impreparati per il ruolo che andarono a ricoprire, avidi,

disposti al malaffare e ai soprusi114.

La pianificazione italiana per lo sfruttamento e lo sviluppo dell’Africa Orientale Italiana

apparì incerta ed inspiegabilmente ottimista. Riprendendo la politica demografica, il

regime pubblicizzò immense opportunità di migrazione e ricchezza sulla stampa115. La

volontà di Mussolini fu di condurre in Etiopia, Eritrea e Somalia “milioni di italiani”116,

esortando Amedeo di Savoia duca d’Aosta (divenuto viceré nel ’37, in sostituzione di

Graziani117) a facilitare il processo. Certo è che l’impresa demografica di un Corno

d’Africa ricco, prospero, bianco e italiano, restò solo nell’immaginario fascista; l’unica

stima realmente attendibile, del 1939, testimonia una popolazione di 165.267 italiani

nell’Impero, una cifra esigua se paragonata alla stima di 12 milioni di indigeni nello stesso

territorio 118 . Ciononostante non si può dire che la propaganda non funzionasse: le

richieste di migrazione furono numerose, ma dovettero essere frenate dallo stesso regime.

La colonia non era pronta ad accogliere un afflusso tanto consistente: nella sola Asmara,

la popolazione italiana si decuplicò nel corso di appena cinque anni119, creando notevoli

disagi dal punto di vista della locazione. La migrazione si tenne costante negli anni

113 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Biblioteca Universale

Laterza, Roma-Bari, 1986, pagg. 144-145 114 In DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, 3. La caduta dell’Impero (Op. Cit.), si fa riferimento,

da pag. 145 a pag. 153, ai vari casi di frode e malaffare, riportati dalle stesse gerarchie fasciste presenti

nell’Impero: sono numerose le segnalazioni del generale Nasi, che riporta casi di estorsione, peculato, falso

in bilancio, fino ad arrivare alle richieste di ius primae noctis da parte di un vice-residente. 115 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg.154-

155 116 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199 117 ZEWDE Bahdu, A History of Modern Ethiopia 1855-1974, Addis Ababa University Press, Addis

Abeba, 1991 pag. 162 118 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199 119 Ibidem, pag. 199-202

35

dell’Impero, principalmente nella colonia primigenia ed in Etiopia, esclusivamente nelle

aree urbane, a causa delle mai realmente sedate lotte di ribellione120.

È interessante indagare su quale fosse il progetto del regime fascista; i moltissimi italiani

arrivati per prendersi il loro posto al sole, che tipo di lavori avrebbero dovuto svolgere in

Africa?

Come abbiamo visto in precedenza una buona fetta degli emigrati italiani furono

impiegati nella pubblica amministrazione, settore storicamente problematico per l’Italia.

Ancor più problematica fu la gestione dello stato in Africa Orientale Italiana, poiché,

secondo le stime del viceré, il 60% della pubblica amministrazione s’occupò solo

d’amministrare sé stessa121.

Un altro settore, sempre pubblico, ad offrire collocamento agli italiani d’Africa, fu quello

della creazione delle infrastrutture. Con il richiamo della romanità imperiale sempre forte

e presente, Mussolini volle immaginare una ramificata e prospera rete stradale

nell’Impero: 18.000 km di strade furono progettate122 per collegare ogni lato dell’enorme

colonia africana, con l’idea di facilitare i trasporti delle copiose risorse che sarebbero

dovute esser lì presenti e facilmente fruibili secondo l’idea del regime123.

L’ambizioso progetto fascista iniziò e seguì spedito, ma con spese e impiego di forze

superiori alle reali possibilità italiane. Nel 1937, ben 65.530 italiani lavorarono alla

costruzione delle carreggiate nel Corno, con un dispendio unitario di cinque volte

superiore rispetto alle maestranze locali124. Nel ’38, ad appena due anni dall’inizio del

progetto, ben 3.284 km di strade erano state costruite, ma le spese per l’importazione dei

materiali in Africa e le già citate spese per la manodopera furono eccessive per il regime,

che decise così di rimpatriare decine di migliaia di operai, ponendo per una gran parte

degli emigranti italiani la parola fine al sogno dell’espansione demografica e della piena

occupazione grazie alle nuove conquiste125.

120 ZEWDE Bahdu, Op. Cit., pag. 165 121 Idem 122 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 159 123 Lessona, Ministro delle Colonie nel ’37, auspicò, in un discorso pubblico alla Camera dei Deputati, il

ricavo di grandi ricchezze dall’Etiopia ancora misconosciuta: “Puntiamo decisamente per ora sui seguenti

obiettivi: metalli preziosi, carne, latte, lana, pelli, cotone, caffè, semi oleosi, cereali” (in A. Lessona,

L’Africa italiana nel primo anno dell’Impero, Ist. Coloniale Fascista, Roma 1937, pag. 18) 124 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 162 125 Ibidem, pagg. 162-163

36

Gli italiani si mossero nell’Impero anche al di fuori del settore pubblico; alcune decine di

migliaia di italiani, tra cui, citando il MAI, “uomini d’affari, cioè imprenditori, tecnici,

professionisti, capitalisti ecc.”, cercarono fortuna in Africa. Furono conteggiate circa

10.000 imprese, tra commerciali ed industriali: i settori di maggiore rilievo apparvero

essere il commercio (con 4.785 imprese nel ’39), degli autotrasporti (con 1.262 aziende)

e delle costruzioni (con 823 imprese)126.

Si noti come, secondo le stime appena nominate, i primi due settori d’interesse siano

direttamente collegati con lo sfruttamento della colonia in senso economico, con lo

scambio e trasporto delle merci verso il mercato europeo. Il terzo settore testimonia l’idea

di popolamento della colonia: le imprese di costruzione trovarono terreno fertile e grandi

opportunità grazie ai migranti italiani che, una volta giunti nel Corno d’Africa, avrebbero

avuto necessità di nuove abitazioni con standard italiani.

Già sul finire del ’36 vi fu gran fervore edilizio. Emblematico fu il caso di Dessiè, ove si

stabilirono rapidamente diecimila italiani, e dove vennero costruiti, di conseguenza, più

di cento edifici in pochi mesi127. Anche nelle città principali dell’Impero - Asmara,

Gondar e Addis Abeba – la corsa alla cementificazione ed alla crescita urbanistica fu

frenetica e, per questo, disordinata. Per frenare la costruzione selvaggia e dare

un’impronta di ordine alle città, il regime fascista varò a Roma, tra il 1937 ed il 1940 dei

piani regolatori per l’espansione, la modifica o la ricostruzione delle città dell’Italia

d’Africa128. La gran parte dei piani urbanistici, tendenti ad una rigidissima suddivisione

delle città tra metropoli e zona indigena129, non vedranno mai un’attuazione pratica,

lasciando così le città – ed in particolare la capitale Addis Abeba – in una situazione

precaria tra la nuova pianificazione e le vecchie costruzioni130.

L’arrivo della guerra e la conseguente caduta dell’Impero lasciarono il piano di

italianizzazione e fascistizzazione del Corno d’Africa in una fase intermedia del processo;

non solo non furono terminate le opere urbanistiche e la rete stradale, ma vi furono

126 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 201 127 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 166 128 Ibidem, pagg. 168-171 129 Contardo Bonicelli, specificò (in AA.VV., Opere per l’organizzazione civile in AOI, Servizio

Tipografico Generale, 1939 Roma, pagg. 252-253) che “le arterie di collegamento fra l’una e l’altra città

[fra la parte di città italiana e quella indigena, nda] devono essere nel numero strettamente necessario e

disposte in modo che ne sia facile la sorveglianza ed il controllo ed, eventualmente, lo sbarramento: e ciò

sia per misure igieniche sia per eventuali misure militari. Si dovrà giungere a non permettere agli indigeni

l’accesso alla città nazionale se non previo un passaggio attraverso una stazione di bonifica umana: la

distruzione dei parassiti e la disinfezione del vestiario dovranno esercitarsi in misura totalitaria.” 130 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg. 171-

172

37

numerosi progetti rimasti solo sulla carta o in fase embrionale: è il caso dell’ampliamento

della rete ferroviaria, rimasto solo ipotetico, o dello sviluppo dell’agricoltura, con la sola

produzione di caffè ampiamente sviluppata, sull’ipotetico sfruttamento massiccio delle

nuove terre per la produzione cerealicola o del cotone131.

Tralasciando, in questo primo momento, il bilancio sociale e l’analisi sulla moralità di

quanto fatto dal regime nel periodo dell’Impero, possiamo dedicare alcune righe ad un

bilancio economico dell’Italia fascista in questo breve periodo di dominio sul Corno

d’Africa.

Il dato di fatto principale è che l’Italia spese più di quanto riuscì a ricavare nel corso della

sua amministrazione in Africa Orientale Italiana: il commercio non riuscì mai a decollare

(secondo le stime di Lessona del ’37 il volume di affari era più grosso sotto il governo di

Haile Selassie che sotto l’Impero italiano), frenato anche dalla continua guerriglia e dalla

mancata pacificazione del territorio etiope 132 . Ciò che è altresì probabile è che gli

investimenti strutturali posti in essere dal governo Mussolini e dal viceré il Duca d’Aosta

non abbiano avuto il tempo necessario per fruttare. Gli investimenti, per giunta, indirizzati

quasi totalmente allo sviluppo infrastrutturale, gravarono su tutti gli altri settori

dell’economia coloniale 133 . Come abbiamo già visto, l’attuazione della politica

demografica per ridurre la disoccupazione in patria fallì: all’esodo di più di 102.000

italiani verso l’Africa Orientale nel 1936134, gran parte dei quali provenienti dal Nord

Italia135, seguirono solo corposi rimpatri.

Quanto ampiamente propagandato dal regime, dunque non si avverò: quel posto al sole

ottenuto tardi, in maniera violenta ed anacronistica, non giovò al popolo italiano. Le spese

militari e per la costruzione delle infrastrutture furono altissime e gravarono sull’erario,

togliendo la possibilità di investimenti necessari in patria. L’imperialismo fascista,

differente economicamente e militarmente da quello straccione liberale, portò con sé tanti

aspetti comuni alla storia del regime precedente: l’aspetto continuativo più rilevante a

livello di bilancio fu, senza dubbio, la mancanza di indipendenza economica dei

possedimenti dell’oltremare, destinati ad essere sempre più un costo che un’opportunità.

131 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit.,, pagg. 165-

178 132 Ibidem, pag. 179 133 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 276 134 PODESTÀ Gianluca, Il mito dell’Impero, Economia, politica e lavoro nelle colonie dell’Africa

orientale, 1898-1941, G. Giappichelli Editore, Torino, 2004, pag. 337 135 Ibidem pag. 338

38

I subalterni nell’Africa Orientale Italiana

Nelle pagine che seguono, cuore del lavoro, sarà svolta un’opera di decostruzione storica,

ove, a fianco delle fonti subalterne (rare ed episodiche), verranno posti elementi di

storiografia classica; cosicché la cronaca della subalternità nell’Africa Orientale Italiana

non appaia in questo lavoro come cruda rappresentazione delle testimonianze subalterne

raccolte, ma sia interpretata, ricostruita e commentata attraverso i dati disponibili. La

scelta di non utilizzare solo fonti subalterne è data da una ulteriore necessità di

contestualizzazione, che, a differenza di quanto svolto nelle pagine precedenti, sarà a

fronte delle testimonianze dei sottoposti.

Con questo modus operandi spero di poter rispondere a delle importanti questioni a

proposito delle popolazioni subalterne, relative alla cultura ed allo stile di vita precedente

all’occupazione italiana, all’impatto sociale del colonialismo, agli strumenti utilizzati

dall’Italia per ottenere la sottoposizione delle popolazioni locali – siano, questi strumenti,

militari, economici o culturali – e, soprattutto, a cambiare la prospettiva della narrazione

storica.

Le fonti utilizzate per la narrazione che segue vengono dalla storiografia africana e dalla

tradizione orale del Corno d’Africa. Il punto di vista africanista è ricavabile

principalmente dalle narrazioni degli studiosi Bahru Zewde per ciò che concerne l’Etiopia

e da Tekeste Negash per quanto riguarda l’Eritrea. Le cronache riportate dai due studiosi

africani saranno accompagnate e commentate con l’ausilio dei dati demografici ed

economici disponibili e contestualizzate con l’aiuto dei lavori sul colonialismo italiano

già utilizzati in precedenza. La narrazione subaltern verrà affidata alle poche fonti

disponibili da cui sia ricavabile il punto di vista dei sottoposti: Irma Taddia, nel suo

preziosissimo lavoro Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali136, è

riuscita a collezionare testimonianze di Etiopi, Eritrei e Somali vissuti durante

l’occupazione coloniale italiana. Il materiale raccolto dalla studiosa è frutto di un lavoro

svolto nei tardi anni ’80 ed al principio degli anni 90137, ragion per cui le testimonianze

si riferiscono in larga parte all’epoca fascista e dell’Impero.

La peculiarità delle fonti orali è data nella soggettività della narrazione del singolo: la

testimonianza sopperisce alla mancanza di documentazione scritta prodotta localmente.

136 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Francoangeli, Milano,

1996 137 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit, pag. 9

39

È una storia dal basso, senza impostazioni strutturali di coscienza di classe, ma

rappresentante la coscienza che l’individuo ha di sé stesso, della sua storia e del suo

vissuto. Luisa Passerini, nel suo Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria138, da

atto alla testimonianza orale che si fa storia; proponendo l’oralità come storia alternativa

a quella ufficiale, basata su dati ed eventi. Per l’autrice la fonte orale rende possibile una

storiografia indipendente dalle strutture di potere politiche ed economiche. La

testimonianza singola diviene storia combinata ad altre singole testimonianze; quando in

queste è possibile riscontrare punti d’incontro, similitudini, narrazioni parallele, elidendo

(ma comunque considerando) le contraddizioni e i lati di dubbia storicità delle fonti

singole, allora è possibile sfruttare l’oralità ed avvicinarci ad una narrazione di storia

integrale.

In questo contesto sarebbe stato interessante analizzare l’arte e della poesia tigrina e

abissina nel XX secolo. La sola esegesi dell’arte, però, non darebbe risultati palpabili e

scientificamente accettabili dal punto di vista della narrazione storica, questa risulterebbe

essere plasmabile e corruttibile in maniera semplice a seconda della volontà di chi scrive.

In chiusura, verrà proposta, come esempio, una breve descrizione di una interessante

forma d’arte tigrina: l’aulò, un canto poetico tipico dell’altipiano eritreo.

La proposta centrale è la ricostruzione del punto di vista dei gruppi sociali sottoposti

dell’Africa Orientale; starà al lettore dire se il lavoro che segue dia la possibilità al

subalterno di parlare e di identificarsi come soggetto storico, o se l’egemonia culturale –

e storiografica - dell’invasione italiana abbia cancellato il punto di vista delle masse e

degli individui subalterni, rendendo questo lavoro una velleità soggettivizzante e fine a sé

stessa139.

La stessa problematica viene posta anche da Irma Taddia nell’incipit della sua raccolta di

autobiografie, denunciando la possibilità di un appiattimento delle testimonianze causato

dal contesto culturale colonialista140; l’autrice però presenta anche l’eventualità che la

138 PASSERINI Luisa, Storia e soggettività. Le fonti orali la memoria, La Nuova Italia, Firenze, 1988 139 La citazione proviene da SPIVAK Gayatri Chakravorty, Subaltern Studies: Deconstructing

Historiography (in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorty (a cura di), Selected Subaltern Studies,

Oxford University Press, 1988 Oxford, New York, pagg. 5 – 17) in cui la studiosa pone il problema della

veridicità degli studi subalterni: si chiede se una storia con tali difficoltà di reperimento e interpretazione

delle fonti possa divenire autorevole storiografia, cioè se le classi egemoni non abbiano avuto successo nel

cancellare la storia e la cultura del subalterno. Se ciò fosse accaduto, la rivendicazione della storia

subalterna, anche nel caso di questo lavoro, non sarebbe possibile, e ci troveremmo davanti ad un mero

esercizio di scrittura. 140 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit., pag. 35

40

narrazione subalterna non differisca dalla narrazione scritta, o per meglio dire, che non

debba forzatamente discostarsene, radicalizzando la storia141.

Il Corno d’Africa prima degli italiani: società, demografia, economia

Il Corno d’Africa ha subito forti cambiamenti nel corso dell’ultimo secolo, ma solo alcuni

sono imputabili al colonialismo italiano, che comunque è stato attore comprimario nella

mutazione della zona e testimone del suo passaggio dall’800 al ‘900. Conoscere la

situazione precedente all’arrivo degli invasori può essere utile a comprendere in quale

misura la presenza italiana abbia modificato la storia dell’Africa Orientale.

Le radici della presenza antropica nel Corno d’Africa affondano nella preistoria. La

peculiarità dell’Africa Orientale, all’interno dell’area subsahariana, è quella di essere uno

Stato generatore di storia documentabile - e documentata - sin da epoche remote

(quantomeno per la storiografia africana): la narrazione parte sin dalla nascita del regno

cristiano di Axum142, che governò la regione estesa (le attuali Eritrea, Etiopia, Somalia

Occidentale e parti dell’Egitto, del Sudan e della penisola arabica) sin dal 330.

L’Africa Orientale del 1800 fu, però, molto differente da quella gloriosa del regno di

Axum: l’area vergeva verso una lenta riunificazione, dopo un lungo periodo di

spezzettamento, frontiere mai stabili e guerre intestine, conosciuto come Zamana

Masafent, ovvero età dei principi143. L’età delle divisioni fu interrotta dalle lotte condotte

da Kasa Haylu, un bandito (shefta), che attraverso alleanze con alcuni ras e diverse

campagne militari, riuscì a salire al potere, controllando vaste aree dell’altopiano etiope,

autoproclamandosi Imperatore, nel 1855, con il nome di Tewodros II144.

L’Impero del nuovo negus neghesti, per quanto vasto, risultava non continuo o unitario e

scarsamente abitato, con una popolazione che si aggirava attorno ai nove milioni di

individui145 (L’area del Corno d’Africa ad oggi ospita, secondo le stime della World

Bank, 112.586.745 persone146, di cui 10.517.569 in Somalia, 5.110.444 in Eritrea e ben

96.958.732 in Etiopia). Le politiche della nuova Etiopia guidata da Tewodros furono atte

a mantenere il controllo della zona conquistata e, possibilmente, ad espandere il dominio

141 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit., pag. 35 142 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag.8 143 Ibidem, pagg. 11-26 144 Ibidem, pag. 27-31 145 CLARENCE SMITH William Gervase, The Economics of the Indian Ocean slave trade in the

nineteenth century, Totowa, Londra 1989, pag. 100 146 WORLD BANK DATABASE

http://data.worldbank.org/indicator/SP.POP.TOTL/countries/1W?display=default

41

su un territorio più vasto. L’Imperatore puntò ad una centralizzazione generalizzata;

amministrativa e feudale, ed ad una riforma delle istituzioni militari e sociali, cercando –

sempre per mantenere il controllo all’interno del Paese – l’appoggio esterno della Regina

Vittoria d’Inghilterra147. La revisione amministrativa operata dall’Imperatore si basò su

una stretta e contorta collaborazione con le élite preesistenti, alternate tra fedeltà

indiscriminate e tradimenti inaspettati da parte dei ras; con tassazioni determinate più

dalla volontà dei singoli governatori di dimostrare asservimento al potere del negus, che

da una reale e studiata politica centralizzata di imposizioni fiscali148. Le politiche di

Tewodros furono più decise in campo militare: il neo Capo di Stato capì l’importanza di

una milizia ben organizzata per mantenere il controllo del territorio. L’esercito fu

regolarizzato in un unico reggimento, indipendentemente dalla provenienza dei militi, e

furono create delle gerarchie ex novo. La modernizzazione non si fermò alla

riorganizzazione dell’organico, ma venne portata avanti anche tramite l’acquisto di

efficaci armi moderne: mortai, cannoni, armi da fuoco leggere, pistole e baionette149.

I tentativi di stabilizzare il dominio da parte del negus non furono fortunati a lungo

termine: compromise i rapporti con l’Impero Britannico mettendo in stato di fermo

diplomatici e missionari inglesi. Questo gesto, dettato dalla frustrazione di non riuscire

ad avere un controllo netto e stabile all’interno del neonato Impero d’Etiopia, decretò la

fine del negus, che, attaccato da un enorme battaglione dell’esercito inglese (supportato

da Kasa Mercha, ras del Tigré, futuro Imperatore), preferì il suicidio alla cattura150.

Il potere andò all’appena nominato Kasa Mercha, con il nome di Yohanne IV. Il nuovo

negus fronteggiò dei problemi molto simili a quelli del suo predecessore: un notevole

frazionamento interno, importanti dispute riguardanti la sovranità tra i ras e nuove sfide

in politica estera, con le potenze europee concentrate nel trovare un posto al sole nel

continente africano. Yohannes riuscì meglio di Tawodros nei suoi intenti: pur non

riuscendo ad unificare del tutto il Corno d’Africa, inanellò un’importante serie di vittorie

militari contro i poteri periferici, grazie ad un esercito sempre più grande – le truppe

regolari contavano 60.000 soldati – e sempre più armato151. Il nuovo negus si sforzò di

avere rapporti diplomatici e commerciali con l’Egitto e l’Europa (in particolare con la

147 TESEMA Ta’a, The Political Economy of an African Society in Transformation: The Case of Macca

Oromo (Ethiopia), Harassowitz ed., Wiesbaden, 2006, pagg. 70-71 148 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag. 32 149 Ibidem, pagg. 34-35 150 ADEJUMOBI Saheed A., The History of Ethiopia, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara,

USA, 2007, pagg. 26-27 151 Ibidem, pagg. 27-28

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Gran Bretagna, potenza coloniale egemone nella zona) riuscendo, in questo modo, a far

escludere temporaneamente l’Etiopia dallo scramble for Africa152.

Yohannes IV fu il primo sovrano del Corno a doversi confrontare con gli italiani; benché

questi fossero presenti fin dal 1869, con l’acquisto della Baia di Assab da parte della

società Rubattino, proprio durante gli anni di dominio del successore di Tawodros si

fecero avanti con le prime spinte espansionistiche verso l’interno, a cui Yohannes ed i ras

a lui fedeli si opposero strenuamente153. La lotta anticoloniale di Yohannes, però, non

poté essere portata avanti a lungo, poiché questi morì nel 1889, in seguito ad uno scontro

a fuoco154.

All’Imperatore Yohannes seguì il dominio di Menelik II, che, come abbiamo già visto,

non si oppose fermamente alla presenza italiana, ma la tollerò (inizialmente) in cambio

di supporto militare, economico e strategico. Menelik ebbe la possibilità di strutturare,

grazie alla potenza militare raggiunta e ad una intricata serie di accordi, ciò che i suoi

predecessori non riuscirono mai a creare, ovvero uno Stato unitario155. La situazione del

1889 vide un nuovo negus abile nel compromesso, cosciente di rinunciare alla parte nord-

orientale del Paese ed allo sbocco sul Mar Rosso, pur di ottenere il supporto necessario

da parte italiana per il controllo dell’Etiopia.

L’analisi storica del periodo antecedente all’occupazione italiana ci mette di fronte ad un

Corno d’Africa frammentato e senza strutture sociali ed amministrative radicate. Lo

sforzo dei negus di fornire all’area una struttura statale centralizzata, funzionale e

resistente rispetto alle potenziali invasioni intra africane o europee si dimostrò

insufficiente; non solo mancarono le basi sociali per garantire una convivenza pacifica tra

i popoli dell’Africa Orientale, ma anche il tessuto economico dell’area risultava poco

consistente per la creazione di uno stato così come lo immaginarono Tawodros e

Yohannes. L’economia, basata fortemente sull’agricoltura di sussistenza156, garantiva

scarsi surplus ai tenutari. L’unica spinta economica fortemente unitaria era data

dall’attività di commercio a lunga tratta, persistente nei secoli nell’area. Il mercato, basato

sullo smercio di sale, pelli, avorio, oro e finanche schiavi, diretto verso sud e verso il Mar

152 ADEJUMOBI Saheed A., The History of Ethiopia, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara,

USA, 2007, pagg. 27-28 153 Cfr. pagg. 16-17 154 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag. 56 155 Ibidem, pagg. 60-67 156 NEGASH Tekeste, No medicine for the bite of the white snake: notes on nationalism and resistance in

Eritrea, 1890-1940, Reprocentralen, HSC Uppsala, Svezia, 1986, pag. 22

43

Rosso157, non fu in grado di dare la spinta necessaria alla regolamentazione statale degli

scambi. Abbiamo elencato, senza farci troppo caso, diverse classi sociali e gruppi

d’interesse; non è troppo complesso comprendere come la disgiunzione tra questi – e la

conflittualità intestina nelle élite - fosse ostile alla creazione di uno stato con la propria

polity: i proprietari terrieri e l’aristocrazia dei ras, in continua lotta, non permisero agli

imperatori un controllo di egemone sull’area, l’ostilità ad un dominio centralizzato ed i

continui accordi alla ricerca di protezione esterna, furono deleteri per l’indipendenza

dell’Africa Orientale, spalancando la porta all’Occidente, particolarmente a quella

giovane Italia bramosa di un posto al sole.

Come costruire un subalterno

La disgiunzione sociale del Corno d’Africa fu un’arma in più dalla parte dei colonialisti;

l’ordine di cose malleabile e frammentato diede all’Italia l’idea di decostruire quanto

preesistente, per tentare di imporre ai sudditi africani una società rinnovata, utile agli

scopi del dominio colonialista.

L’educazione dei colonizzati ebbe un’enorme importanza per la creazione di una società

sottoposta al dominio italiano. Il disegno non fu ben definito e lucido sin dal principio,

ma si concretizzò in maniera efficace: inizialmente, difatti, sotto il governo della colonia

primigenia da parte di Martini, non esistettero scuole per gli indigeni. Il governatore vide

nell’educazione dell’eritreo una seria minaccia alla sopravvivenza della colonia, nonché

una spesa insostenibile per il governo coloniale158. Fu sotto la guida di Salvago-Raggi che

l’Italia comprese le possibilità derivanti da un’educazione “interessata” dei nativi. Nel

1916, lo Stato coloniale estese un documento che asserì l’importanza della missione

civilizzatrice italiana; le scuole private furono spinte a dare un’offerta formativa che

comprendesse le prime tre classi elementari per gli indigeni, con dei programmi differenti

da quelli proposti per i bianchi159: appare ovvia, sin da questo punto, la volontà del

governo coloniale di porre un’impronta nell’educazione del giovane colonizzato, in modo

che questo non si formi autonomamente, (o tradizionalmente) e così riconosca a livello

mentale, già dalla tenera età, l’autorità italiana. Al contempo, il limite di un’offerta

formativa di sole tre classi elementari, pone la questione di un’educazione volutamente

limitata: le preoccupazioni espresse anni prima da Martini erano ancora attuali; un

157 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pagg. 21-22 158 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941 – Policies, Praxis and Impact, Acta

Universitatis Upsaliensis, Uppsala, Svezia, 1987, pagg. 68-69 159 Ibidem, pag. 69-70

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indigeno istruito, e non semplicemente addomesticato agli usi ed all’autorità italiana,

sarebbe stato pericoloso per la sopravvivenza del dominio degli invasori.

Mentre nella colonia si discuteva da tempo dell’istruzione indigena, in Italia tutto restò

fermo fino al 1921, quando venne steso, con il D.G. n. 3808 del 12 settembre, il primo

documento legislativo italiano dedicato alla regolamentazione scolastica sul territorio

coloniale. Questo decreto attuò la suddivisione dell’istruzione indigena in scuola

elementare ed in scuola superiore di durata biennale, organizzandola in corsi di arti e

mestieri160.

Il vero punto di svolta arrivò però nel 1934, quando il sopraintendente delle scuole del

regime, Andrea Festa, pose come cardine del progetto scolastico l’idea che il ragazzo

educato divenisse un fiero propagandista dell’occupazione italiana, fiero di essere

sottoposto alla bandiera italiana 161 . Con Festa, l’idea (inizialmente subliminale) di

sfruttare i giovani africani come mezzo per consolidare il potere coloniale divenne palese;

i ragazzi vennero identificati come “i futuri soldati d’Italia”162 e ciò che poteva stimolare

negli studenti un sentimento nazionalista o d’autodeterminazione venne cancellato dai

programmi scolastici, come, ad esempio, lo studio del Risorgimento italiano163.

Gli scopi educativi, e non istruttivi, dell’istituzione scolastica nelle colonie divennero

manifesti, arrivando ad essere enunciati persino nei manuali d’istruzione per l’Africa:

“Nelle scuole elementari si suol dare ai fanciulli l’istruzione e l’educazione morale.

Quale differenza passa tra l’una e l’altra?

[…] L’istruzione mira a fare degli uomini colti, istruiti; l’educazione a formare uomini

onesti e virtuosi. E siccome torna più utile alla società l’uomo onesto, che l’uomo colto,

così l’educazione val più della semplice istruzione la quale se non è confortata dal buon

esempio del maestro, può esser causa di rovina.164”

160 PALMA Silvana, Educare alla Subalternità, in CARCANGIU Maria Bianca, NEGASH Tekeste (a

cura di), L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, Carocci Editore, Roma, 2007,

pag. 212 161 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 71 162 FESTA Andrea, Le istituzioni educative in Eritrea, in AA. VV., Atti del secondo congresso di studi

coloniali, 1934, Firenze, 1935, pag. 294 163 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 71 164 Il brano viene ripreso in PALMA Silvana, Op. Cit., alla pagina 227, e proviene originariamente da

MISSIONE CATTOLICA (a cura di), La colonia eritrea. Manuale d’istruzione italiano-tigrai ad uso

delle scuole indigene, vol. IV, Tipografia Francescana, Asmara, 1917, pag. 176

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Gli studenti indigeni, educati ma non istruiti, venivano programmati per essere utili al

dominio coloniale, per incastrarsi con le istituzioni create dal governo italiano, per essere

uomini onesti e seri, subalterni al potere degli invasori e fedeli alla bandiera italiana. I

ruoli studiati per gli alunni delle scuole coloniali, furono indirizzati in maggior misura ai

lavori di tipo manuale, con la speranza che questi diventassero sellai, agricoltori,

falegnami, tipografi, fabbri165 o, come sperato dal soprintendente Festa, soldati.

In alcuni casi, come previsto dalla già enunciata legge 3808 del 1921, gli studenti più

meritevoli avevano la possibilità di frequentare un biennio di specializzazione, chiamato

scuola superiore; chi aveva la possibilità di frequentare questi ulteriori due anni di scuola,

non avrebbe dovuto, nella gran parte dei casi, svolgere un lavoro manuale, ma sarebbe

stato impiegato come archivista, insegnante nelle scuole per indigeni, dattilografo o

interprete166. La scuola superiore venne soppressa sin dal 1932 e per tutta la durata

dell’Impero d’Africa Orientale, lasciando agli indigeni la possibilità di intraprendere solo

i tre anni di istruzione elementare167.

L’indottrinamento nelle scuole coloniali e la scarsa durata e qualità educativa del percorso

d’istruzione, furono fautrici di subalternità. Il piano italiano di costruire un impero con

una popolazione indigena di educati non istruiti e fedeli al tricolore riuscì in gran misura,

come ha dimostrato il mancato consolidamento di una élite intellettuale, soprattutto in

Eritrea, al momento della decolonizzazione168.

A proposito dell’istruzione è interessante sottolineare alcuni tratti di una delle

testimonianze raccolte da Irma Taddia, nel già nominato Autobiografie Africane: a parlare

è A.W., nato in Eritrea nel 1914169. L’eritreo A.W., poté raggiungere, grazie alle sue

capacità, il massimo grado d’istruzione consentito agli studenti africani nel dominio

coloniale italiano. Da giovane sperò di poter proseguire gli studi in Italia, ma, come

spiega, le sue speranze svanirono:

“Alla fine della terza ginnasio ho avuto il secondo premio e allora avevo sedici anni e

noi speravamo di andare subito a Roma dove c’era il collegio etiopico, ma l’opinione dei

nostri direttori era diversa. Dicevano, se mandiamo questi a Roma a sedici anni

scappano e diventano dei vagabondi e lasciano i loro studi, perché la vita in Italia è

165 PALMA Silvana, Op. Cit., pag. 228 166 Ibidem, pag. 229 167 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 72 168 Ibidem, pag. 84 169 A.W. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 60-63

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diversa dalla nostra. Loro si preoccupavano di questo e invece noi avevamo solo quel

pensiero.170”

Questo breve estratto della testimonianza palesa la volontà italiana di educare e non

istruire da parte dell’amministrazione coloniale; A.W. era già uno strumento utilizzabile

per il funzionamento della colonia, un ulteriore sforzo educativo sarebbe stato inutile se

non deleterio, in quanto, secondo il punto di vista dei suoi direttori, il ragazzo, come tutti

gli altri africani, sarebbe stato incapace di relazionarsi con la vita occidentale.

A.W. svolse, dunque, i lavori predisposti dall’amministrazione coloniale per un indigeno

con la sua istruzione: scrivano, interprete, maestro ed impiegato per l’amministrazione

coloniale, prima in Italia e poi nuovamente in Africa Orientale, lavorando per l’autorità

imperiale fino al 1941. L’eritreo, pur avendo un ricordo generalmente positivo della

presenza italiana, fa un ragionamento in chiusura di testimonianza in gran parte

assimilabile a quello dello studioso Tekeste Negash riguardo i rapporti causa-effetto del

sistema scolastico italiano sul Corno d’Africa decolonizzato:

“Molte cose hanno fatto gli italiani nell’impero. Ma se c’è una cosa che gli italiani non

hanno sentito è l’educazione, in Etiopia e in Eritrea. Nessuna istruzione ci è stata data

durante gli italiani, e questa è una colpa molto grande, davvero. E l’importanza

dell’educazione si è vista successivamente, quando siamo rimasti soli a governare. Gli

italiani hanno sbagliato grandemente in questo senso: non ci hanno istruito, in più hanno

distrutto la nostra classe dirigente durante l’impero. Non era una politica da farsi, questo

no.171”

Un altro lavoro interessante svolto dai pedagogisti che presero in carico la stesura

programmatica della realtà scolastica coloniale, fu lo sforzo di assimilazione culturale

dello studente africano. Il giovane educando del Corno d’Africa si doveva sentire fiero di

essere sottoposto alla gloriosa nazione italiana, ragion per cui i testi utilizzati per le

scolaresche, senza grandi differenze tra periodo liberale e periodo fascista, ebbero una

veste ed una verve fortemente patriottica172. Il richiamo terminologico alla grandezza

italiana e la volontà di farne sentir parte – sebbene in veste subalterna – il colonizzato si

palesarono nei manuali di studio attraverso espressioni figlie di un nazionalismo

170 A.W. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 63 171 Idem 172 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 72-73

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spicciolo; fu costante la ricorrenza di locuzioni come: “[Italia]giardino del mondo”,

“Madre-Patria” o “cara Patria”173.

Il lavoro di assimilazione non fu subordinato alla semplice retorica nazionalista; nel breve

corso di studio previsto per i giovani africani erano presenti costanti richiami alla

grandezza ed all’ingegno tipici dell’Italia: in un volume scolastico intitolato Uomini

illustri del lavoro, della scienza e della carità174 , si parla di sessanta tra ingegneri,

architetti, scienziati, artisti, industriali, uomini d’affari, letterati, esploratori, militari,

ecclesiastici, politici, filantropi e missionari, tutti, senza eccezione alcuna, italiani. La

volontà palese è quella di far apparire all’alunno l’Italia come la più grandiosa nazione

del mondo175, l’unica fautrice di arte, cultura, scienza e storia.

L’Africa, ovviamente, non aveva alcuna dignità storica. Non sorprende che nell’ottica

colonizzatrice lo sguardo non andasse oltre l’Hic sunt leones di latina memoria. Ciò che

è necessario sottolineare, ma che risulta facilmente intuibile ed in linea con il

ragionamento fin qui svolto, è il modo in cui la letteratura scolastica affrontò la questione

coloniale: l’Italia fu ovviamente portatrice di civiltà, morale e sapere economico, capace

non solo di dare un netto e costante miglioramento al tenore di vita degli est-africani, ma

anche di consegnargli un’appartenenza nazionale176. Quest’ultimo aspetto è cruciale per

quanto concerne l’assimilazione culturale. Comunica il cambiamento tra passato e

presente; è un’imposizione mentale che forza la mano e narra che prima dell’Italia, nel

Corno d’Africa vi era il nulla: barbarie, divisioni, nessun ordine morale, nessuna storia.

Sotto il tricolore, anche gli africani divennero parte della storia, come sudditi della più

grande nazione nella storia del mondo.

Economia coloniale e lavoro subalterno

Come abbiamo visto in precedenza, l’idea di colonialismo demografico e di piena

occupazione lavorativa tramite la conquista dell’Impero fu un fallimento177, il costo della

manodopera italiana troppo caro per governo e appaltatori italiani, che scelsero di

ripiegare sul lavoro indigeno, sostenibile dal punto di vista economico e senza

condizionamenti legati alla sicurezza lavorativa o alla mole ed alla durezza dei compiti

173 PALMA Silvana, Op. Cit., pag. 231 174 MISSIONE CATTOLICA (a cura di), Uomini Illustri del lavoro, della scienza e della carità, libro di

lettura Italiano-Tigrai ad uso delle scuole indigene, Vol. V, Tipografia Francescana, Asmara, 1917 175 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 74 176 Ibidem pagg. 75-78 177 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199

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da svolgersi178. Il sistema educativo coloniale era costruito per plasmare dei lavoratori

fedeli ed orgogliosi di essere sottoposti, sfruttabili dallo stato e dagli imprenditori italiani.

L’esercito fu sicuramente il settore ove i colonizzati dell’Africa orientale – ed in

particolare gli eritrei – vennero maggiormente sfruttati: secondo alcune stime, nel 1935,

e quindi all’alba dell’invasione ai danni dell’Impero di Haile Selassie, gli eritrei impiegati

nelle forze armate furono 60.200, oltre il 40% della popolazione maschile adulta ed attiva

della colonia primigenia179. L’idea di Andrea Festa, che vide gli studenti tigrini nel ’34

come i futuri soldati d’Italia180, era già fortemente supportata dall’evoluzione che la

colonia ebbe dalla sua fondazione sino a quel momento: gli eritrei parteciparono

attivamente a tutte le campagne militari italiane in Africa, dalle lotte alla resistenza

somala alla campagna di Libia, dagli stazionamenti sulle frontiere fino alla conquista

dell’Etiopia181. Proprio l’appena nominata campagna d’Etiopia portò ad una mutazione

radicale nel ruolo dell’ascaro: scomparve l’esercito di volontari attratti dalla buona paga,

e dal 1935, fino alla caduta dell’Impero, la coscrizione dei giovani eritrei nell’esercito

italiano divenne obbligatoria182.

Oltre ai 60.000 Eritrei impiegati nel ’35, vi furono ben 20.000 Somali183 facenti parte

dell’esercito coloniale italiano: un numero enorme, atrofico, considerata la demografia

della zona costiera del corno d’Africa, ma necessario, secondo De Bono e Badoglio, per

conquistare la terra del negus184. L’utilizzo di così tanti uomini nell’esercito provocò un

grave collasso nell’economia agricola di sussistenza, che vide, nel 1939, il crollo dei due

terzi della sua produzione alimentare185.

Mentre gli Eritrei venivano sfruttati dal regime per occupare l’Etiopia, gli Abissini furono

impiegati dal governo coloniale per sostituire la manodopera italiana, troppo costosa,

nella costruzione delle infrastrutture. Le paghe corrisposte agli Etiopi furono di gran lunga

più alte rispetto a quelle che gli stessi ottenevano sotto il negus; i ben 750 mila che alla

vigilia della costituzione dell’impero lavoravano alle dipendenze italiane ottennero salari

da 7 a 15 lire quotidiane: paghe spesso considerate troppo esose dagli ufficiali coloniali,

178 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 162 179 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 51 180 Cfr. pag. 40 181 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 48-49 182 VOLTERRA Alessandro, Sudditi Coloniali, Ascari eritrei 1935-1941, FrancoAngeli Editore, Milano,

2005 183 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 48-49 184 VOLTERRA Alessandro, Op. Cit., pagg. 72-79 185 Ibidem, pag. 51

49

ma maggiormente sostenibili rispetto a quelle degli omologhi italiani, la cui presenza si

ridusse dalle 146.681 unità del 1936 alle 23.801 del 1939186.

Ben più dura fu la situazione per i colonizzati della sponda sud dei possedimenti italiani.

La carenza di manodopera dell’area portò i Somali a trovarsi in una situazione di

subalternità ben più gravosa, rispetto agli Eritrei ed agli Etiopi. Nel 1929 fu reintrodotto,

nella colonia della Somalia italiana, l’obbligo di lavoro coatto per gli indigeni nelle tenute

agricole degli italiani187, una situazione vicina alla schiavitù di cui parleremo in un

paragrafo a parte.

La concezione dell’aspetto lavorativo raccolta nelle testimonianze del volume di Irma

Taddia è ondivaga. Nelle autobiografie non si riscontra certo una coscienza di classe né,

tantomeno, una coscienza individuale di colonizzato: gli intervistati non si sentono

sfruttati, ma manifestano una sorta di riconoscimento verso il governo italiano che pagò

loro i salari.

Nel caso dell’ascaro M.G., eritreo del 1913188, è palese l’ammirazione nei confronti

dell’amministrazione italiana, l’accettazione dello sfruttamento, l’assimilazione culturale

riuscita. M.G., nato durante l’occupazione italiana dell’Eritrea, ricorda nostalgicamente

il dominio italiano e le sue condizioni di vita durante il suo periodo da ascaro:

“Io ai tempi degli italiani stavo bene, avevo la paga di graduato, avevo tre strisce rosse,

ero scium basci, che era come sergente o caporale maggiore. La paga era buona, io

prendevo 1200/1400 lire italiane. A quel tempo la vita era buona, non come oggi. In quel

periodo stavamo veramente bene. Adesso io sono invalido di guerra, sono stato ferito ad

Amba Alagi con le schegge dei cannoni, e ho avuto un certificato di invalidità dal dottore

italiano. Ogni tre mesi vado ad Asmara a prendere la pensione; prima era scarsa, adesso

l’hanno aumentata fino ad arrivare a 120/130 birr ogni mese; quindi adesso sto meglio

di prima189.”

M.G. muove poche critiche all’Italia. A turbarlo non è tanto la sua condizione di guerriero

nelle campagne di conquista contro gli altri popoli africani, ma la situazione di

186 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg. 186-

187 187 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pagg. 186-188 188 M.G. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pagg. 54-56 189 Idem

50

segregazione venutasi a creare in seguito alle leggi razziali ed il fatto che sia mancato, nel

periodo successivo alla colonizzazione, un supporto italiano all’Eritrea indipendente.

La gran parte delle fonti orali raccolte da Irma Taddia sono in pieno accordo con la

testimonianza di M.G.190: parlano di una situazione generalmente buona ed accettabile,

di impieghi e salari giusti, di una condizione sociale divenuta insopportabile solo con

l’avvento delle leggi razziali nel 1937. Tale concezione della società da parte del

colonizzato dell’Africa Orientale Italiana è ben esplicabile attraverso il primo lavoro di

Frantz Fanon, Peau Noire, Masques Blanc191. Lo studioso francese sottolinea come nelle

realtà coloniali si venga a creare una situazione di sudditanza psicologica del colonizzato

nei confronti del colonizzatore: è lo stesso dominatore a creare l’inferiore 192 .

Psicologicamente, inconsciamente, il colonizzato accetta questa situazione come

naturale, concependo la naturalezza anche della condizione stessa di subalternità. Al

contempo, è utile ricordare come le popolazioni del Corno d’Africa non abbiano goduto

di tranquillità e sviluppo nel secondo dopoguerra: continue difficoltà, carestie, dittature,

guerre di secessione e colpi di stato si sono susseguiti in tutta la seconda metà del XX°

secolo. Le continue difficoltà dopo la fine del colonialismo italiano possono aver attivato,

nel ricordo del vissuto degli est-africani, un meccanismo che porta ad associare

l’occupazione straniera ad una fase di relativa tranquillità e stabilità.

Le testimonianze raccolte, però, raccontano storie differenti, di esperienze di vita diverse

e di conseguenti elaborazioni più o meno positive, raffinate o subordinate alla situazione

psicologica del colonizzato descritta sopra. Una testimonianza opposta al punto di vista

di M.G. è quella di F.A., nato in Eritrea nel 1909:

“Noi eravamo costretti a lavorare per l’Italia, eravamo senza scelta, per mantenere noi

e le nostre famiglie numerose nelle nuove condizioni di vita del colonialismo. Non era

sempre un compito facile, il nostro. Per questa ragione noi abbiamo cercato di migliorare

la nostra educazione, abbiamo avuto sempre un certo atteggiamento benevolo con

l’amministrazione coloniale. Nel complesso i governi che si sono succeduti in Italia

hanno creato una situazione di difficoltà nella vita quotidiana e nei rapporti

africani/bianchi. Ma dobbiamo constatare che come popolo, abbiamo avuto degli amici

190 Si vedano, nello stesso volume, le deposizioni di: Y.K., nato nel 1916 in Eritrea, pagg. 63-65, M.I.

nato in Eritrea nel 1911, pagg. 65-68, A.A. nato in Eritrea nel 1916, pagg. 68-70, S.M. nato in Eritrea nel

1928, pagg. 73-75 191 FANON Frantz, Peau Noire, Masques Blanc, Editions du Seuil, Parigi, Francia, 1952 192 Ibidem, pagg. 61-65

51

fra gli italiani, e che ci sono state fra loro delle brave persone, questo non lo si può

negare. Privatamente una persona può essere cattiva, un’altra persona buona, da un

punto di vista personale ci sono sempre in ogni nazione dei cattivi e dei buoni.

Ma se ripensassimo alla nostra vita qui in colonia, dobbiamo confessare che nel

complesso noi nativi siamo stati frustrati, sia nel campo sociale sia nel campo educativo.

Non abbiamo avuto molto dal governo coloniale e ce ne siamo resi conto in un secondo

momento. 193”

In questa testimonianza non è difficile notare il pressante sentimento di subalternità

provato da F.A.: parla di costrizione al lavoro, di nuove condizioni di vita, di un governo

coloniale che non è stato capace di dare, ma solo di sfruttare.

La testimonianza di F.A. è valida esattamente come quella di M.G., ed entrambe vanno

interpretate a seconda del punto di vista e del vissuto di chi parla. L’interpretazione delle

conseguenze psicologiche portate dal colonialismo discussa in precedenza non vuole

screditare le voci subalterne che si schierano a favore della presenza italiana, bensì è da

intendersi come ulteriore strumento di lettura della testimonianza.

L’analisi delle fonti subalterne ed i dati storici raccolti sul tema del lavoro, ci raccontano

di una sicura condizione di sottoposizione delle popolazioni indigene durante il dominio

italiano. Ciò che appare ovvio, è che in nessuno dei casi registrati da Irma Taddia si possa

notare l’emancipazione o l’ascesa sociale di un africano ai tempi del colonialismo: il

razzismo istituzionalizzato, l’educazione alla subalternità, la mancanza di forme di

indirect rule, hanno creato una popolazione fortemente sottoposta, ed in alcuni casi

contenta di esserlo.

I subalterni che non possono parlare, il caso somalo e lo schiavismo nello

Uebi Scebeli

Nel volume curato da Irma Taddia, unica fonte di testimonianze subalterne del

colonialismo italiano nell’Africa orientale, non si trova traccia di testimonianze somale.

L’autrice giustifica questa mancanza con la situazione di guerra civile venutasi a creare

in Somalia al principio degli anni ’90, che le ha reso impossibile lo svolgimento di un

193 F.A. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 80

52

lavoro simile a quello svolto in Eritrea e in Etiopia194. La voce dei subalterni somali è,

probabilmente, andata persa per sempre.

Nelle Autobiografie, troviamo brevi riferimenti che ci introducono ad un modo di

amministrare la colonia e di trattare il suddito in maniera differente rispetto al resto del

Corno d’Africa. Il già citato F.A., eritreo, racconta di aver osservato, durante la sua

esperienza lavorativa in Somalia, una sottoposizione più marcata per i sudditi somali

rispetto agli eritrei:

“Lì veramente, in Somalia, si poteva vedere apertamente la frustrazione tra il suddito

coloniale e il nazionale italiano. La differenza maggiore consisteva nel fatto che il suddito

coloniale aveva una posizione nettamente inferiore, sia come paga, sia come abitazione

e modo di vita. In Eritrea allora non si poteva ancora vedere questa divisione, che verrà

solamente in un periodo successivo195”

La visione di F.A., per quanto parziale, coincide con la realtà. Nel corso del fiume Uebi

Scebeli, maestoso corso d’acqua che dall’altopiano etiope sfocia nelle coste somale

bagnate dall’Oceano indiano, il colonialismo italiano diede sfogo alla sua vena più

autenticamente razzista e frustrante verso i sudditi africani. Lungo le rive somale dello

Uebi Scebeli sorgeva un enorme comprensorio, creato tramite una diga fissa che permise

la diramazione in 54 chilometri di canali, rendendo fertili 18.000 ettari di terra, suddivisi

in 83 concessioni molto ampie196. La manodopera agricola era totalmente indigena, ben

7.000 somali si occuparono della coltura delle piantagioni di cotone, ricino, mais, canna

da zucchero, banane, incenso e kapok197.

Lo sfruttamento dei lavoratori somali venne giustificato dal governo fascista come ovvia

risposta alla carenza di manodopera della colonia somala: il passo tra coercizione a

schiavismo, fu, come vedremo, alquanto breve. In principio, i sudditi coloniali, ebbero

dei turni obbligatori (salariati) bimensili o semestrali nelle concessioni italiane; ciò non

fu sufficiente a garantire l’autosufficienza economica ed alimentare della colonia, ragion

194 TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 12 195 F.A. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 79 196 DEL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, pag. 162 197 Idem

53

per cui, dal lavoro a tempo si passò al lavoro coatto, con l’obbligo per il suddito di

permanenza a tempo pieno nel comprensorio, al servizio del concessionario italiano198

A parlarci delle condizioni di sottoposizione dei somali nelle aziende agricole italiane

senza indorare la pillola, è una fonte quantomeno desueta per l’argomento in questione,

ovvero il governatore fascista della colonia Marcello Serrazanetti, che nel suo

Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia199 , denuncia l’insostenibile

situazione di schiavismo perpetrata nei possedimenti agricoli italiani. Ciò che sorprende,

nello scritto del Serrazanetti, non è solo la chiarezza con cui muove accuse ai

concessionari terrieri, ai governatori locali, al ministero delle colonie ed al capo dello

Stato, ma anche la sua critica al colonialismo ed alla sua sedicente missione civilizzatrice,

pur mantenendo intatta una forte componente razzista, egemone culturalmente nella

mentalità imperialista200.

Il governatore fascista, nella sua relazione non scevra di particolari, ci permette di

conoscere in maniera abbastanza approfondita la situazione dei somali sfruttati nelle rive

dello Uebi Scebeli. Serrazanetti, scrive di schiavitù, o meglio, di una situazione da lui

ritenuta addirittura peggiore:

“Il lavoro forzato che s’impone da alcuni anni ai nativi della Somalia, invano cinicamente

mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro, è assai peggiore della vera schiavitù,

poiché laggiù è stata tolta al lavoratore indigeno quella valida tutela dello schiavo che

era costituita dal suo valore venale, tutela che gli assicurava almeno quel minimo di cure

che l’ultimo carrettiere ha per il suo asino, nella preoccupazione di doverne comprare

un altro se quello muore. Mentre in Somalia quando l’indigeno assegnato ad una

concessione muore o diviene inabile al lavoro, se ne chiede senz’altro la sostituzione al

competente Ufficio Governativo che vi provvede gratis. I lavoratori assegnati alle

concessioni, vengono prelevati dalle Cabile ritenute le più devote e le più docili, quelle

cioè che, si pensa, daranno meno noie. Ad ogni Cabila prescelta, viene richiesto un dato

contingente di famiglie, lasciando ai capi l’incarico di sceglierle o comporle, sotto un

molto relativo e nominale controllo dei Residenti.201”

198 PODESTÀ Gianluca, L’Equilibrio Artificiale, in MOCARELLI Luca (a cura di), Quando manca il

pane, Origini e cause della scarsità delle risorse alimentari in età moderna e contemporanea, Società

Editrice il Mulino, Bologna, 2013, pag. 198 199 SERRAZANETTI Marcello, Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia, Tipografia La

Rapida, Bologna, 1933 200 Ibidem, pag. 5-14 201 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 10-11

54

Si noti l’accento posto dal federale sull’aspetto della coercizione, e su come la scelta

ricadesse sulle comunità già pacificate, arrendevoli e disposte a sacrificare i propri

lavoratori più validi. L’immagine accurata che Serrazanetti dipinge delle carovane di

Somali trasferite dai villaggi di residenza fino alle concessioni dello Uebi Scebeli, è

quanto di più vicino a ciò che l’immaginario comune riconosce come schiavitù:

“Le colonne dei lavoratori maschi e femmine, vengono poi avviate a destinazione,

qualche volta ad oltre cento chilometri di distanza, a piedi e sotto la vigilanza di una

scorta armata. Quando vi sia qualche ricalcitrante o si abbia tema di qualche tentativo

di fuga, i componenti la colonna, tutti o in parte, vengono legati gli uni agli altri con delle

funi, assicurando così una più facile sorveglianza.202”

Oltre alla “tratta”, nel memoriale del governatore fascista vengono esaminate le modalità

d’impiego degli schiavi somali: il contratto veniva enunciato alle reclute, di seguito

forzate a porci sopra un’impronta (un rifiuto del contratto lavorativo da parte

dell’indigeno, come già si può intendere, non era possibile), per essere poi

immediatamente poste al lavoro agricolo203.

All’interno del comprensorio, i Somali lavoravano sino alle dodici ore giornaliere, con

razioni di cibo scarse che venivano addirittura dimezzate o sospese nel caso in cui il

rendimento fosse inferiore a quello sperato dal concessionario 204 . Ogni tentativo di

ribellione venne sedato con la violenza o l’imprigionamento; tutt’altro che rari furono i

casi di fuga o di suicidio (ritenuto da Serrazanetti fatto rarissimo tra i somali)205.

Serrazanetti offre un breve quadro anche delle condizioni abitative a cui gli schiavi e le

schiave africane dovettero sottostare, ponendo l’accento su come questo favorisse la

promiscuità:

“[…] dopo il lavoro, dormono ammassati promiscuamente in poche capanne o

addirittura all’addiaccio. Vi rimangono per un paio di mesi, ritornando poi ai loro

villaggi, mai nello stesso numero, molti ammalati e in quanto alle femmine, in buona

parte deflorate, fatto questo che per la morale indigena può avere un valore relativo ma

che rappresenta sempre per la famiglia una ragione di cruccio e di risentimento, non

202 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 10-11 203 DEL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Op. Cit., pag.165 204 Idem 205 Ibidem pagg. 166-167

55

foss’altro per la diminuita possibilità di collocamento e per il diminuito valore della

ragazza quando si presenta l’occasione di venderla ad un marito.206”

La lamentela del federale venne sottaciuta dal governo fascista, che si impegnò a

sostituirlo ed a distruggerne l’immagine207. Il regime, nella persona di Emilio De Bono,

tacciò Serrazanetti di insinuare menzogne prive di fondamento; egli, dopo aver osservato

la situazione somala, affermò in una lettera a Mussolini che “la manodopera indigena

[…] è ora sufficientemente e giustamente pagata”208. Lo schiavismo bianco, in realtà,

andò avanti fino alla caduta dell’Impero nel 1941209.

I subalterni somali non possono parlare; la loro testimonianza è stata erosa dal tempo e

dalla sorte (sempre che di sorte si possa parlare) non benevola del Paese. Il documento di

Serrazanetti, per quanto velato da un costante razzismo, è l’unica fonte dettagliata di ciò

che avvenne negli anni del dominio fascista sulle rive dello Uebi Scebeli: è un tassello

della storia integrale del Corno d’Africa, importante soprattutto perché ci mostra le

particolari condizioni di sottoposizione subite dalle popolazioni somale, ammutolite dalla

storia e subalterne tra i subalterni.

Leggi razziali e segregazione, un punto di vista africano

Nelle Autobiografie le critiche mosse al colonialismo italiano da parte degli intervistati

riguardano soprattutto la segregazione razziale nel periodo fascista. La situazione mutò

nel 1937, con la fondazione dell’Impero e, ancor di più, nel 1938, con l’adozione delle

leggi razziali. Sebbene le leggi razziali fasciste siano passate alla storia maggiormente per

la persecuzione degli ebrei italiani, la prima di queste, il regio decreto legge n. 880 del

1937 – di cui parleremo in seguito – riguardò in maniera diretta la vita di colonia

nell’Africa Orientale italiana.

Nel mestamente famoso Manifesto della razza 210 , l’Africa viene nominata solo

all’articolo 8, ove si sostiene che sia “necessario fare una netta distinzione fra i

Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra.

Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di

alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le

206 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 18-19 207 EL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Op. Cit., pagg. 167-168 208 Idem 209 Idem 210 AA.VV., Manifesto della razza, in La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, pag. 2

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popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche

assolutamente inammissibili.211”

La scarsa problematizzazione della realtà africana nel Manifesto, non deve far credere che

nel dominio del Corno d’Africa non vi fosse una forte connotazione razzista. Il tema della

superiorità bianca – presente in Africa da ben prima della salita al potere di Mussolini –

ebbe nuovo vigore con l’istituzionalizzazione del razzismo del ’38, traducendosi in azioni

pratiche.

I già citati212 piani urbanistici per le città italiane d’Africa stilati tra il ’37 ed il ‘40, per

quanto rimasti in gran parte su carta e mai applicati, erano fortemente intrisi del rinnovato

orgoglio nazionalista e razzista. Nella pianificazione delle città portata avanti dagli

ingegneri ed architetti di regime era prevista una suddivisione in due zone abitative: una

interna, rinnovata ed “europea” per i coloni, ed una esterna per gli indigeni213 . La

separazione venne presentata in diverse forme dagli addetti ai lavori, ad Addis Abeba,

Marco Pomilio propose “una grande fascia verde di 500 metri di larghezza, formata in

prevalenza da eucalipti, [che] separerà la città indigena dal complesso dei nuclei

metropolitani. Separazione non brusca e scostante, dunque, ma garbata e fragrante:

anche in questo la fiera intransigenza del nostro razzismo si accoppia armonicamente

alla natura gentilezza del nostro animo latino214”, mentre Contardo Bonicelli propose,

una soluzione ben più rigida: “le arterie di collegamento fra l’una e l’altra città devono

essere nel numero strettamente necessario e disposte in modo che ne sia facile la

sorveglianza ed il controllo ed, eventualmente, lo sbarramento: e ciò sia per misure

igieniche sia per eventuali misure militari. Si dovrà giungere a non permettere agli

indigeni l’accesso alla città nazionale se non previo un passaggio attraverso una stazione

di bonifica umana: la distruzione dei parassiti e la disinfezione del vestiario dovranno

esercitarsi in misura totalitaria.215”

Indipendentemente dall’idea di segregazione, gentile o totalitaria, lo scopo del regime

fascista fu di garantire una netta divisione tra la città italiana ed il sobborgo indigeno.

Come abbiamo già accennato, il piano urbanistico restò intentato, bloccato dall’arrivo del

secondo conflitto mondiale e dalla dissoluzione dell’Impero, ma nella società coloniale

211 AA.VV., Manifesto della razza, in La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, pag. 2 212 Cfr. pag. 32 213 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, 3. La caduta dell’impero, Op. Cit., pagg. 169-

173 214 Idem 215 Ibidem pag. 172

57

penetrò (o forse s’amplificò) la pratica razzista della separazione e della segregazione

degli spazi pubblici.

Per quanto possa apparire strano, per gli intervistati nelle Autobiografie della Taddia, il

maggiore elemento di disturbo – nonché il maggiore catalizzatore del sentimento

anticoloniale ed anti-italiano – fu proprio il razzismo palesato tramite la separazione degli

spazi pubblici. Vediamo, di seguito, alcuni esempi significativi di testimonianza a

riguardo, sebbene l’elemento anti-segregazionista appaia ricorrente in quasi tutte le

interviste raccolte. Gli eritrei M.G. e Y.K. parlano di uno stacco netto nei rapporti con la

comunità italiana tra il periodo precedente alla conquista dell’Etiopia e la creazione

dell’Impero (da questi erroneamente indicata come fascismo):

“Gli italiani erano buoni, sì, ma c’erano numerose discriminazioni, ad esempio nei bar,

nei ristoranti, nei negozi. Ci davano da mangiare separatamente, non potevamo unirci

agli italiani, e in questo ci hanno fatto del male. Ma questo era un ordine di Mussolini,

non era così nel periodo di prima. I fascisti hanno fatto queste cose, prima i tempi erano

migliori. Gli italiani e noi vivevamo insieme, senza problemi, bevevamo insieme,

mangiavamo e bevevamo, e loro spesso ci offrivano perché avevano una buona paga.216”

“Dopo la venuta del fascismo, ci fu però una discriminazione di razza che aveva portato

molto malcontento fra la popolazione, ma prima del fascismo c’era una gran stima degli

italiani. Durante il fascismo si poteva vedere un grande razzismo, noi non potevamo

frequentare i bar né gli altri luoghi pubblici, ma prima questo non c’era. Noi non

potevamo reagire, abbiamo dovuto piegarci a queste leggi, obbedire, quindi tutto è

cambiato.217”

Può sorprendere che gli intervistati, testimoni della sopraffazione territoriale,

dell’impossibilità di reclamare un sentimento nazionale, delle infinite battaglie e degli

stermini perpetrati dall’Italia in Africa, portino alla luce come principale elemento

negativo del dominio coloniale il turbamento della quotidianità dovuto alla segregazione

razziale. Senza dover forzare la mano fornendo elucubrazioni psicologiche di queste

testimonianze, può essere interessante analizzarne alcuni elementi sociali e storici che

potenzialmente hanno influenzato la narrazione degli intervistati: la totalità delle voci

subalterne raccolte in Autobiografie che lamenta la segregazione come il peggior male

del dominio italiano, viene da eritrei nati e cresciuti sotto la dominazione italiana e,

216 M.G., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 56 217 Y.K., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 64

58

quindi, quantomeno abituati alla condizione di subalternità data dall’occupazione

coloniale e da tutto ciò che ne consegue. Nel corso della vita degli intervistati, dunque, la

più grande mutazione in negativo del colonialismo italiano è stata lo sconvolgimento del

modus vivendi causato dalla segregazione razziale; oltre a ciò, si può aggiungere che le

interviste siano state registrate tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando

la denuncia dell’apartheid nella Repubblica Sudafricana – avente importanti elementi in

comune con la segregazione nell’Africa Orientale Italiana – divenne un tema dibattuto

globalmente.

La segregazione è ben presente non solo nelle memorie africane, ma anche in quelle degli

italiani che sono stati in Africa durante il periodo coloniale: alcune di queste si trovano

nel volume parallelo ad Autobiografie Africane, intitolato La memoria dell’Impero218;

sempre edito da Irma Taddia, realizzato tramite interviste fatte agli italiani d’Africa. Uno

di questi, S.G., mirandolese di stanza in Somalia, ricorda:

“A Mogadiscio non c’era razzismo, fra noi italiani. Solo i fascisti dichiarati erano un

po’prepotenti, non volevano vedere un italiano vicino ad una nera, assolutamente. Uno

poteva essere rimpatriato e punito. In generale gli italiani non frequentavano i locali per

indigeni, come anche viceversa, e quest’ultimo obbligo era molto più stretto. Non si

poteva, e la maggior part di noi poi non lo voleva affatto. Io non sono mai entrato in un

loro bar, e credo tutti facessero lo stesso. C’era separazione, ma i trasporti ad esempio

erano misti. Negli autobus i neri avevano però una loro zona, giù in fondo, e non potevano

sedere vicino ai bianchi, per evitare il pericolo di contagio e malattie.

In realtà, nella vita di ogni giorno, le cose andavano diversamente. La maggior parte

degli italiani, lì a Mogadiscio, era senza moglie, e aveva la cosiddetta «madama», una

donna locale, di servizio ma anche come convivente. Io l’ho avuta per tutto il tempo che

sono stato lì senza avere mai noie, perché la facevo passare come donna di servizio, e

nessuno era in grado di controllare. Ho avuto anche un figlio, da una donna somala. Fra

neri e bianchi comunque non ci si poteva sposare. Ognuno aveva delle scappatoie

[…]219”

La testimonianza di S.G. conferma la segregazione registrata nelle testimonianze degli

indigeni, ma a differenza degli africani, si nota bene come per lui, e probabilmente per gli

altri italiani, questa non costituisse un problema. L’intervista ci permette di osservare

218 TADDIA Irma, La memoria dell’impero, autobiografie d’Africa Orientale, Piero Lacaita Editore,

Manduria, 1988 219 S.G. in TADDIA Irma, La memoria dell’impero, Op. Cit. pag. 90

59

quanto fosse semplice per i coloni aggirare le direttive razziste e, soprattutto, ci permette

di introdurre una tematica di massima importanza: il madamato.

Il madamato e l’assenza di una prospettiva storica femminile e africana

nell’Oltremare italiano

L’oggettificazione del genere femminile fu prassi molto diffusa nel colonialismo italiano

in Africa Orientale 220 . Le donne del Corno d’Africa furono spesso forzate alla

prostituzione o divenivano madame dei benestanti italiani che migravano verso

l’oltremare221. La pratica del madamato consisteva nella relazione temporanea, ma non

occasionale, tra un colone italiano ed una donna africana222.

Il concubinaggio e la prostituzione furono forme di sfruttamento estremamente ricorrenti

sin dalla nascita della colonia eritrea223; giustificati dall’assenza di donne italiane in

territorio africano, i coloni furono incoraggiati a sfogare le proprie voglie con le donne

indigene soprattutto dalla cultura popolare razzista, che vedeva nelle donne africane una

sessualità esotica e selvaggia224.

Non fu tanto la prostituzione a preoccupare il regime fascista, quanto il madamato. La

pratica divenne enormemente diffusa, tanto da attivare Rodolfo Graziani, che, nel 1932,

estese una circolare relativa alla pericolosità di tale unione225. Il cruccio del federale fu

relativo alla possibilità che le unioni sentimentali con donne africane creassero precedenti

per un “esempio contagioso nel confronto con gli inferiori226”, richiedendo l’apertura di

un più alto numero di case di tolleranza227.

Il concubinaggio divenne, quindi, un reato. Il regio decreto legge n. 880 dell’aprile 1937,

la prima legge razziale, vietò il madamato, punito con l’incarcerazione da uno a cinque

anni228. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente dalla testimonianza di S.G., le

relazioni prolungate con le indigene in Africa vennero facilmente mascherate facendole

220 VOLPATO Chiara, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di

analisi, in AA.VV., DEP Deportate, esuli, profughe – Rivista telematica di studi sulla memoria

femminile, n°10, http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=19900 Venezia, 2009, pag. 123 221 Ibidem pag. 112 222 Idem 223 BARRERA Giulia, Dangerous Liasons, Colonial concubinage in Eritrea 1890-1941, Program of

African Studies, Evanston, Illinois, U.S.A., 1996, pagg. 23-26 224 BARRERA Giulia, Op. Cit. pagg. 8-10 225 GOGLIA Luigi, GRASSI Fabio, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma-Bari, Laterza,

1993, pag. 354 226 Idem 227 Idem 228 AA. VV., Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N 145, 24 giugno 1937, Roma, 1937

60

passare per collaborazioni domestiche ed il fenomeno durò per tutto il tempo della

dominazione italiana.

Purtroppo, sappiamo poco o nulla delle condizioni di vita delle donne tigrine, abissine e

somale forzate al concubinaggio od alla prostituzione. Il loro è un passaggio senza tracce

nella storia; sappiamo solo che durante tutto il periodo coloniale sono state sfruttate:

numeri – si parla di 1.500 prostitute africane nel 1937229 - e corpi da spartire come trofei

di caccia230. Nelle Autobiografie di Irma Taddia non viene intervistata nemmeno una

donna, e nessuno degli intervistati fa cenno al madamato o alla prostituzione; oltre alla

sottoposizione ed al basso sfruttamento sessuale, le donne del Corno d’Africa sono

condannate a non avere dignità storica, ad essere subalterne non in grado di parlare, a una

perenne ed oramai irreversibile damnatio memoriae.

L’utilizzo dei gas nelle testimonianze africane

Una delle tematiche maggiormente dibattute nell’ambito della storiografia post-coloniale

italiana è stata per anni legata all’utilizzo dei gas tossici contro la resistenza nel Corno

d’Africa. L’utilizzo degli agenti chimici e batteriologici costituì, sin dal 1925, con il

trattato di Ginevra, un crimine di guerra231. Il trattato venne violato dall’Italia firmataria

in numerosissimi casi, ma nelle cronache coloniali e post-coloniali, come nei cinque

volumi a tema storico-militare dell’Africa d’Italia, non si trova alcuna traccia dell’utilizzo

dei gas letali.

La prima denuncia dell’utilizzo dei gas si levò nel momento immediatamente successivo

a quello in cui l’utilizzo degli agenti chimici si fece più intenso e forte che mai:

l’Imperatore Haile Selassie, fuggito dall’Etiopia, nell’estate del 1936 intervenne a Londra

alla Società delle Nazioni, sperando che i componenti dell’organizzazione internazionale

intervenissero per fermare l’invasione di uno stato membro. Nell’accorato discorso il

negus esplicò con dovizia di particolari l’utilizzo dei gas da parte degli italiani,

analizzandone tempistiche e sottolineando la violenza e gli ingenti danni che gli etiopi

subirono a causa delle irrorazioni:

229 STEFANI Giulietta, Colonia per maschi, Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre

Corte, Verona, 2007, pag. 134 230 Ibidem, pagg. 136-137 231 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità in DEL BOCA Angelo, I gas di Mussolini,

Editori Riuniti, Roma, 1996

61

“[…] Mai, sinora, vi era stato l'esempio di un governo che procedesse allo sterminio di

un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli

della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici.

[…] L’aviazione italiana ricorse allora ad altri gas. Recipienti di liquido furono gettati

su gruppi armati, ma anche questo mezzo fu inefficace: il liquido colpiva pochi soldati e

i recipienti, abbandonati al suolo, mettevano in guardia contro il pericolo i soldati e la

popolazione. Fu al tempo stesso in cui si svolgevano le operazioni per accerchiare

Macallè, che il Comando italiano, temendo una sconfitta, ricorse ai mezzi che io ho il

dovere di denunciare al mondo. Sugli aeroplani vennero istallati degli irroratori, che

potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici,

diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un

lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini,

armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di

sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di

avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più

volte. Questo fu il principale metodo di guerra. Ma la vera raffinatezza nella barbarie

consistette nel portare la devastazione e il terrore nella parti più densamente popolate

del territorio, nei punti più lontani dalle località di combattimento. Il fine era quello di

scatenare il terrore e la morte su una gran parte del territorio abissino.

Questa terribile tattica ebbe successo. Uomini e animali soccombettero. La pioggia

mortale che veniva dagli aerei faceva morire tutti quelli che toccava con grida di dolore.

Anche coloro che bevettero le acque avvelenate o mangiarono i cibi infetti morirono con

orribili sofferenze. Le vittime dei gas italiani caddero a decine di migliaia […]232”

L’appello di Selassie non fu degno di nota per i giornalisti, gli storici ed in generale per

la coscienza nazionale italiana. Il ricordo venne cancellato e per anni la memoria di quanto

accaduto venne falsificata da tutti coloro i quali scrivevano di colonialismo italiano, fatta

eccezione per Angelo del Boca e Giorgio Rochat. Il primo tra i due intraprese una vera e

propria battaglia per la verità in tutti i suoi scritti, parlandone in tutte le opere citate fino

a questo punto; ad andargli contro – in maniera a volte molto aggressiva – furono

soprattutto la stampa fascista e gli studiosi nostalgici delle colonie233.

232 HAILE Selassie, Appello alla società delle nazioni del 30 giugno 1936, in HAILE Selassie, Discorsi

scelti di sua maestà imperiale Haile Selassie I, tradotti in italiano a cura di F.A.R.I. - Federazione

Assemblee Rastafari in Italia, http://www.ras-tafari.com/download/italiano/Discorsi-di-Sua-Maesta-

Imperiale-Haile-Selassie-I.pdf, pagg. 26-28 233 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità, Op. Cit., pagg. 21-24

62

Il dibattito si chiuse, nel 1996, con l’ammissione dell’utilizzo delle armi chimiche da parte

del governo italiano, con uno scarno e fumoso comunicato dell’allora Ministro della

Difesa Domenico Corcione 234 . L’opinione pubblica si svegliò dal lungo torpore, la

lunghissima lista degli eccidi tramite l’utilizzo dei gas programmati da Mussolini,

Badoglio e Graziani, divenne nota e fu accettata anche da chi, come Indro Montanelli,

presente ed attivo nella guerra all’Etiopia, ebbe cura di negarli strenuamente235.

L’utilizzo delle armi chimiche fu intensivo in tutto il periodo coloniale fascista: un

sistema rapido e sporco per sedare ogni resistenza, capace di incutere terrore anche ai

ribelli più agguerriti. Per dare un’idea della magnitudine dell’utilizzo degli agenti gassosi,

possiamo affidarci semplicemente al conteggio delle bombe chimiche lanciate durante la

guerra d’Etiopia nell’arco di cinque mesi, tra il dicembre del 1935 e l’aprile del 1936;

l’arsenale scaricato sulle teste delle popolazioni d’Etiopia fu pari a 1678 bombe d’iprite

e fosgene (1097 nel fronte nord e 581 nel fronte sud236).

Le testimonianze a riguardo, da parte di chi ha assistito alle stragi chimiche perpetrate dal

regime fascista in Africa, sono molteplici: tutte delineano con chiarezza l’orrore degli

effetti a breve ed a lungo termine dell’utilizzo dei gas. In un saggio di Angelo del Boca,

contenente testimonianze etiopi e straniere sulla guerra chimica, abbiamo la fortuna di

poter trovare l’intervista a ras Immirù Haile Sellase, generale dell’esercito del negus

presente – e sopravvissuto – al primo bombardamento d’iprite:

“Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina

del 23 dicembre, e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo

alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo

abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti

che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno

un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo,

alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano

per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche.

Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore.

Fra i colpiti c’erano anche dei contadini, che avevano portato le mandrie al fiume, e

gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano

234 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità, Op. Cit., pagg. 39-41 235 Ibidem, pagg. 43-44 236 GENTILLI Roberto, La storiografia aeronautica e il problema dei gas in DEL BOCA Angelo, I gas

di Mussolini, Op. Cit. pagg. 139-141

63

consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come

combattere questa pioggia che bruciava e uccideva.237”

Il ras mostra con una descrizione nitida e cruda gli effetti dell’iprite: le lunghe agonie e

le urla strazianti sono ricorrenti nella gran parte dei racconti sui bombardamenti chimici

italiani. A venir colpiti non furono solo i militari, ma anche, come appena riportato, civili

dei villaggi vicini e contadini. L’orrore delineato dal generale si ritrova anche nelle

autobiografie etiopi del volume di Irma Taddia; di seguito, ne prenderemo in esame

alcune tra le più significative. N. L. T. T., etiope e facente parte dell’esercito che si oppose

all’avanzata italiana, dedica gran parte della sua intervista alla guerra ed ai metodi

utilizzati dall’esercito italiano per sconfiggere le armate del negus. Vittima egli stesso dei

bombardamenti, racconta:

“Fra quelli che hanno subìto i veleni e i gas italiani, uno dei primi sono stato io. Questi

gas asfissianti emanavano come un odore tremendo e si presentavano con gli effetti

disastrosi come quelli delle bombe, ma noi agli inizi non avevamo capito. Di fatto alle

prime esperienze avevamo pensato che un aereo nemico fosse stato abbattuto da noi e

che stesse cadendo e andavamo avanti per combattere lo stesso. Ma proprio

nell’avanzare, in quel momento tutti quanti di accorgemmo di avere disturbi agli occhi.

Vedevamo ogni cosa annebbiata, non riuscivamo a vedere distintamente a distanza da

una persona ad un’altra e alcuni istintivamente si lavavano il viso e altri non sapevano

che cosa fare. E per questo motivo tanti si sono persi non ritrovando la direzione del

combattimento e fra questi uno ero io.

Nei miei compagni ho visto tante cose tragiche. Alcuni corpi bruciavano davanti ai miei

occhi, altri feriti a morte, si contorcevano senza morire, tra atroci dolori. Adesso a

raccontarlo perde tutto il suo valore; bisognava averlo visto dal vivo, a raccontarlo non

è la stessa cosa. E io sono testimone di tutto ciò.238”

Le testimonianze non arrivano però solo dai campi di guerra, gli abissini ricordano come

i bombardamenti e i gas colpissero in maniera indiscriminata tutti: i civili, i lavoratori, le

donne ed i bambini vennero irrorati dalla pioggia di iprite e fosgene. L’utilizzo degli

agenti chimici intimidì i ribelli e mise in ginocchio l’economia etiope. Il racconto di

237 DEL BOCA Angelo, Le fonti etiopiche e straniere sull’impiego dei gas in DEL BOCA Angelo, I gas

di Mussolini, Op. Cit. pag. 118 238 N.L.T.T., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit. pag. 138

64

D.W.G.G., giovanissimo all’epoca dei bombardamenti, ci aiuta a comprendere l’impatto

di questa guerra sporca tra i civili etiopi ed il prezzo che questi dovettero pagare:

“Io ero piccolo allora ma non ho dimenticato gli episodi della guerra agli italiani. Mi

ricordo che un giorno, di domenica, quando mio padre era ancora in prigione a Maqalle,

vennero improvvisamente dal cielo cinquanta aeroplani ed iniziarono a volare sopra di

noi. Quando la gente vide questo, tutti presero a fuggire dalle loro case per andare a

rifugiarsi sotto un grande sicomoro. Nel preciso momento in cui la gente fuggiva e gli

aeroplani volavano attorno al sicomoro, una mia sorella, la più grande e un’altra

ragazza erano andate al fiume per prendere acqua. Allora una bomba cadde proprio

davanti a mia sorella, una grande polvere la avvolse, era spaventata. Io non sapevo di

questo perché ero bambino, ma i miei fratelli più grandi di me erano andati giù al fiume

e piangevano, dicevano che la loro sorella era morta. La riportarono a casa ed era tutta

ricoperta di polvere, noi non la riconoscemmo.

Gli aeroplani erano cinquanta o sessanta e bombardavano dappertutto a breve distanza;

tanti furono i morti nei campi e nelle case, e anche molti capi di bestiame avevano subìto

gravi danni.239”

Da queste interviste si comprende come la volontà del regime fascista fosse quella di

ottenere il dominio su un paese stremato, decimato nelle forze, distrutto da armi

impossibili da sconfiggere. Mai come in questo caso la voce dei subalterni si fa forte ed

unitaria per narrare ciò che è stato un terribile dramma umanitario ed un crimine di guerra

da subito denunciato a livello internazionale, non solo dal negus, ma anche da voci esterne

allo stato etiope, come il giornalista del Times George L. Steer, inviato in Etiopia, che già

nel 1936 denunciò l’uso dei gas240. La voce subalterna riesce, in questo caso, a farsi storia,

a dare una visione plenaria e ad essere inserita nella narrazione storica ufficiale. Ciò che

sorprende, in questo caso, è come l’Italia sia riuscita a nascondere e cancellare dai libri di

storia questi avvenimenti per più di cinquanta anni dalla caduta dell’Impero. Lo sforzo di

mistificazione fu eccezionale, dalla narrazione storiografica del colonialismo vennero

cancellate tonnellate di gas, migliaia di bombe, un numero imprecisato – ma sicuramente

elevato – di morti e di feriti.

L’opera di contraffazione de L’Africa d’Italia, del giornalismo fascista e delle memorie

dei gerarchi è il chiaro esempio, forse fin troppo tangibile, di una storiografia egemone

239 D.W.G.G. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit. pag. 149 240 DEL BOCA Angelo, Le fonti etiopiche e straniere…, Op. cit., pag 118

65

che tenta di cancellare la visione subalterna, nonché di un Paese che si rifiuta di fare i

conti con il proprio pesante passato.

Gli Aulò, una testimonianza scomparsa

Il lavoro fin qui proposto sarebbe stato impossibile senza le interviste contenute in

Autobiografie Africane. Il pregio del lavoro svolto da Irma Taddia nell’aver messo per

iscritto queste fonti orali è di averle così incise nella storia, di averle elevate, da

autobiografie singole a storia dei popoli. Purtroppo non sono tante, al di fuori di questo

lavoro, le voci autentiche del Corno d’Africa colonizzato ad essersi salvate.

Un’altra testimonianza orale dell’area di cui abbiamo notizia, ma non riportata o registrata

in alcun modo per ciò che riguarda il colonialismo italiano, sono gli aulò: brevi poesie

dell’altopiano eritreo di ispirazione popolare, più forma artistica che storiografia, ma arte

che porta con sé una testimonianza.

A parlare degli aulò (o massè) è Ribka Sibhatu, nel suo Aulò, canto-poesia dell’Eritrea241,

volume dedicato ai più giovani, in cui ci spiega come questi siano dei canti poetici, spesso

improvvisati e recitati al pubblico, con accompagnamento musicale tradizionale. La

peculiarità che non ha permesso al canto poetico dell’Eritrea di essere conservato e

rimandato è data dal fatto che i componimenti non venissero ripetuti, né tantomeno scritti,

ma solo affidati alla memoria dei presenti. La forma di poesia popolare e pubblica eritrea

è solitamente dedicata a delle figure di spicco, a eroi di guerra o a nemici. Ribka Sibhatu,

nel suo volume, ci propone un aulò che proviene dalla memoria della sua famiglia,

dedicato a Mussolini, dopo la proclamazione delle leggi razziali; ovviamente da questo

non si può ricavare una qualsivoglia narrazione storica, ma è interessante riproporlo, sia

come esempio di arte popolare dell’area, sia per mostrare come la dominazione italiana

fosse argomento dibattuto e criticato negli ambienti sociali africani:

“Aulò…aulò…aulò!

Voglio dire un aulò potente quanto il tuono!

Poiché Mussolini dice tante cose assurde,

Voglio dire un aulò potente quanto il tuono!

O Vergine Maria!

241 SIBHATU Ribka, Aulò canto-poesia dall’Eritrea, Sinnos Editrice, Roma, 2009

66

Se sarai con me, sono sicuro che

Verrai in mio aiuto, poiché hai il potere

Di disfare il progetto umano

O palazzi asmarini! O palazzi asmarini”

Speriamo che sarete occupati da noi abissini!242”

242SIBHATU Ribka, Op. Cit., pag. 62

67

Conclusioni

Le voci subalterne citate si combinano con la storia. Hanno il potere di confermarla,

smentirla o, più spesso, arricchirla di particolari. Portare al centro della narrazione storica

chi ne è solitamente ai margini non è opera facile; tantomeno se il tempo ha seppellito i

testimoni. Il fatto che alcune delle vite dei sudditi dell’Impero siano state registrate senza

filtri, aiuta a comprendere il vivere subalterno in colonia, ma non soddisfa la richiesta di

una ricostruzione della vita quotidiana, delle interconnessioni sociali e familiari: il

sottoposto racconta, attraverso la biografia personale, la storia che subisce.

L’autobiografia, anche affiancata alla storiografia classica e post-coloniale, spiega la

gerarchizzazione razziale, il ruolo dell’indigeno nella colonia, ma non dona un quadro

esaustivo ed unitario di gruppo sociale subalterno o di figura identitaria del colonizzato.

Detto questo, viene naturale porsi la domanda introdotta da Gayatri Spivak, che

contraddistingue il lavoro sulla storia della subalternità: i subalterni possono parlare? Un

no retorico, come quello proposto dalla studiosa indiana nel suo saggio “Can the

Subaltern speak?”, non è, in questo caso, una risposta soddisfacente, così come non lo è

una semplice asserzione. Come scritto sopra, le voci dei colonizzati tendono a narrare la

storia subita, uniformandosi, in alcuni casi, alla visione egemone; al contempo, però,

riescono ad arricchire la narrazione con la concezione personale ed unica del dominio

esterno. Questo elemento, ben più profondo della mera dicotomia tra concezione positiva

o negativa del dominio coloniale, dona dignità storica alla voce subalterna. Il giudizio

dato dal colonizzato sul potere egemone è ben più importante del particolare storico nella

sua ricostruzione; a differenza della narrazione dell’evento singolo, il responso del

subalterno sulla storia subita, inverte i ruoli e dona al lettore una prospettiva che, se presa

in considerazione, è interpretazione subalterna del fatto storico.

I sudditi dell’Impero est-africano di Mussolini parlano quando riescono a dare un giudizio

sul colonialismo; per quanto ondivago, contraddittorio e discontinuo questo giudizio sia.

La frammentarietà e le contraddizioni insite nei responsi degli africani del Corno sono da

valutarsi a priori quando si svolge una ricerca su fonti di questo tipo: ciò non ne lede la

validità, casomai arricchisce la narrazione e spinge ad un maggiore approfondimento su

come il grado di istruzione, la condizione sociale ed il vissuto dell’intervistato influenzino

il modo di riportare gli avvenimenti passati.

68

Nella ricerca svolta, però, ci sono subalterni che non possono parlare, da cui non possiamo

ricavare alcuna storia o biografia, curiosità o giudizio. Nelle fonti a disposizione per

ricostruire una storia integrale dell’Africa Orientale Italiana mancano totalmente le voci

femminili e somale. La mancanza di queste testimonianze ci obbliga ad una ricostruzione

parziale e, dunque, parzialmente valida.

L’assenza di testimonianze femminili e somale rappresenta una grande occasione

mancata nella storiografia post-coloniale italiana. Le donne oggetto sessuale da una parte,

ed i Somali dall’altra, hanno subito il colonialismo italiano in una maniera diversa –

certamente più cruda – rispetto agli altri colonizzati. La mercificazione del loro corpo e

della loro libertà è, a oggi, narrata criticamente quasi esclusivamente attraverso le fonti

lasciate da chi è stato parte attiva o accondiscendente nel loro sfruttamento. Le analisi

post-coloniali di genere o sulla Somalia soffrono la carenza di fonti originali dei diretti

interessati; su madamato, prostituzione e schiavitù l’analisi storica non può avere pretese

di completezza senza la viva voce di chi è stato madama, prostituta o schiavo.

Il dover forzatamente prescindere dalle voci di alcuni subalterni denota l’impossibilità

della creazione di una storia subalterna pregnante e non episodica: mirare ad una

storiografia completa da contrapporre a quella ufficiale è pressoché impossibile, e non è

certo lo scopo per cui è stato steso il presente lavoro.

Questo esercizio di scrittura vuole, semmai, dimostrare come l’oralità subalterna,

combinata alla storiografia classica, possa dare importanti elementi per meglio

interpretare la narrazione del passato, come le biografie patologiche spesso nascondano

importanti movimenti di popolo, come lo sfondo apparentemente inanimato alle spalle

del protagonista della storia, sia in realtà vivo ed esso stesso meritevole di dignità storica.

69

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