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Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche
Corso di Laurea Magistrale in Governance e Sistema Globale - Classe LM-52
Ai margini dell’Impero
Storia dei gruppi sociali subalterni nell’Africa Orientale Italiana
At the borders of the Empire
History of subaltern social groups in Italian East Africa
Tesi di laurea di Relatore
Piero Onida Prof. Alessandro Pes
A.A. 2014/2015
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Sommario
Introduzione.................................................................................................................. 5
Note metodologiche ...................................................................................................... 8
Il concetto di subalternità e la “storia integrale” ......................................................... 8
I Subaltern studies ................................................................................................... 11
Note bibliografiche ..................................................................................................... 16
Sintesi storica del colonialismo italiano in Africa orientale ......................................... 18
Il colonialismo liberale ............................................................................................ 18
Il colonialismo fascista ............................................................................................ 27
L’Impero d’Africa Orientale Italiana ........................................................................... 33
L’Impero in funzione: gerarchie, pianificazione, economia e opere in AOI .............. 33
I subalterni nell’Africa Orientale Italiana .................................................................... 38
Il Corno d’Africa prima degli italiani: società, demografia, economia ..................... 40
Come costruire un subalterno .................................................................................. 43
Economia coloniale e lavoro subalterno................................................................... 47
I subalterni che non possono parlare, il caso somalo e lo schiavismo nello Uebi
Scebeli .................................................................................................................... 51
Leggi razziali e segregazione, un punto di vista africano ......................................... 55
Il madamato e l’assenza di una prospettiva storica femminile e africana
nell’Oltremare italiano ............................................................................................ 59
L’utilizzo dei gas nelle testimonianze africane ......................................................... 60
Gli Aulò, una testimonianza scomparsa ................................................................... 65
Conclusioni ................................................................................................................. 67
Bibliografia ................................................................................................................. 70
Sitografia .................................................................................................................... 75
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Carissimo Delio,
mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi
sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la
storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché
riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,
quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto
si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se
stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti
abbraccio.
Antonio1
Introduzione
La storia e la memoria hanno sempre un protagonista. Nel bene o nel male, nel torto o
nella ragione, la narrazione storica ha sempre una figura cardine: i popoli, le moltitudini
seguono; sono sfondi, dati statistici e demografici, contorno di chi ha il potere d’esser
facitore di storia. Nelle parole di Antonio Gramsci al figlio in apertura, si legge come il
pensatore, da anni prigioniero nelle carceri fasciste, voglia educare il suo giovanissimo e
lontano Delio ad una visione diversa della storia; vuole istruirlo ad una storia di tutti gli
uomini, ad una ricostruzione del passato più ampia, ad una narrazione delle gesta degli
uomini tutti e non delle biografie dei protagonisti.
Ad avermi spinto alla stesura di questo lavoro di tesi è stata, anzitutto, la necessità di
indagare sulla reale possibilità di narrare la storia dalla prospettiva di chi, solitamente, la
storia la subisce. Lo stesso titolo del saggio Ai margini dell’Impero è un riadattamento
del titolo del Quaderno 25 dei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci, chiamato Ai
margini della storia: un tentativo, da parte del pensatore sardo, di creare una narrazione
storica di quelli che egli definisce subalterni.
L’interessamento alla tematica da parte mia è figlio di molteplici fattori; lavoro da sei
anni nella Casa Museo di Antonio Gramsci, ove ho avuto la possibilità di approfondire la
conoscenza su quanto scritto dal pensatore comunista: conoscenza di seguito raffinata,
nell’ultimo anno, grazie al ciclo di seminari GramsciLab dell’Università degli Studi di
Cagliari. La volontà di svolgere la ricerca sull’area dell’Africa Orientale nel periodo
1 GRAMSCI Antonio, L’albero del riccio, ISKRA edizioni, Ghilarza, 2002, pag. 111
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dell’occupazione italiana è, invece, nata dal corso di Storia del colonialismo e della
decolonizzazione, tenuto nell’anno accademico 2013/2014 dai professori Cecilia Novelli
e Alessandro Pes. Durante il corso mi sono raffrontato per la prima volta con la narrativa
post-coloniale e con le definizioni critiche di imperialismo e colonialismo,
approfondendo in particolare la mia consapevolezza sul fenomeno dell’invasione italiana
nell’Africa Orientale, studiandone le dinamiche, la narrazione e le conseguenze
psicologiche e culturali nella società italiana.
La ricerca di una verità storica da parte degli studiosi post-coloniali italiani, mi ha dato
l’input per approfondire la ricerca dalla prospettiva di chi ha subito la storia, di chi è stato
ai margini dell’avventura africana italiana; ovvero degli africani che hanno vissuto sotto
il regime coloniale italiano. Fare una ricostruzione della storia delle popolazioni
subalterne del Corno d’Africa non è semplice, si voglia per la scarsezza di fonti, si voglia
per la difficoltà di interpretare le voci subalterne costruendo una narrazione uniforme. Il
lavoro che segue non ha la presunzione di convertire le fonti disponibili in una storia
integrale esaustiva della vita delle popolazioni indigene dell’Africa Orientale Italiana;
semmai, la volontà è quella di ricucire, affiancare e giustapporre le voci autentiche
africane alla storiografia africana e post-coloniale, ricercando, al contempo, elementi di
continuità e di rottura.
Nelle pagine che seguono vi sarà un’introduzione metodologica al lavoro, necessaria per
comprendere le basi su cui si fonda questa ricerca: anzitutto esplicando il concetto di
subalterno, introdotto da Gramsci nei Quaderni ed evolutosi, nel corso del secolo scorso,
tramite il lavoro degli studiosi gramsciani e del collettivo dei Subaltern Studies
dell’Università di New Delhi.
Alle note sul metodo segue una ricostruzione storica delle campagne di conquista e
dominio dell’Italia fascista e liberale nel Corno d’Africa, svolto in gran parte grazie al
prezioso lavoro di ricerca portato avanti da Angelo Del Boca, Giorgio Rochat e Nicola
Labanca, capaci, nelle loro opere, di costruire una narrazione post-coloniale obiettiva e
veritiera della presenza italiana nell’Africa Orientale, abbattendo la versione mendace e
dogmatica imposta dalla narrazione egemone degli italiani civilizzatori ed invasori
gentili.
Dopo l’introduzione storica all’invasione del posto al sole, si passa al punto focale del
lavoro, ovvero la collocazione delle voci subalterne nel contesto storico; questo passaggio
sarebbe stato impossibile senza il lavoro di Irma Taddia, che nelle sue Autobiografie
7
Africane raccoglie le testimonianze di Etiopi ed Eritrei vissuti nel periodo del dominio
italiano. Alle interviste, riguardanti l’educazione, il lavoro, la conquista militare, le leggi
e la segregazione razziale, ho scelto di affiancare delle riflessioni, delle ipotesi di lettura.
Tali ipotesi non possono, e non devono, leggersi come definitive, ma semmai essere
spunto per l’interpretazione delle voci subalterne.
8
Note metodologiche
Il lavoro di rielaborazione storica che vi apprestate a leggere è stato svolto combinando il
concetto di storia integrale presente nei lavori di Antonio Gramsci e la metodologia
proposta nella corrente di studi ad oggi nota come Subaltern Studies. È bene chiarire sin
dal principio, quindi, cosa si intenda per subalternità e Subaltern studies.
Il concetto di subalternità e la “storia integrale”
La prima impostazione di storia dei gruppi sociali subalterni, o di storia integrale (così
come la definisce l’autore) appartiene ad Antonio Gramsci. La tematica della storiografia
comprensiva di tutti i gruppi sociali è un tema ricorrente nei Quaderni del Carcere2, così
come l’utilizzo del lemma subalterno. La programmazione della storia integrale
gramsciana va di pari passo con l’utilizzo sempre più specifico del termine subalterno.
Perché la scelta di questo termine? La scelta è pratica ed utile dal punto di vista culturale;
chiunque, in Italia, nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale era capace di
identificare cosa o chi fosse subalterno: colui che in guerra sottostava al comando di un
superiore. Era un termine “militare” ed al contempo apartitico e di sicuro impatto. Il
sillogismo che porta dal “subalterno militare” al “subalterno civile” od al “gruppo sociale
subalterno” è immediato per il lettore.
Lo studio di Gramsci prende forma nei Quaderni3: come critica alla storiografia e, in
seguito, come analisi della subalternità. Il pensatore sardo decide di dedicare alla tematica
il Quaderno 25, intitolandolo Ai margini della storia (storia dei gruppi sociali
subalterni). Non riuscirà a costruire una storia della subalternità, viste le pessime
condizioni di salute e lo status carcerario, per contro, riuscirà a dare l’idea di una storia
integrale, che prenda in esame tanto lo stato, e dunque le classi egemoni, quanto gli altri
gruppi della società civile, comprese le classi sottoposte, ovvero i subalterni.
2 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, 4 voll., Einaudi, Torino
1975 3 Il termine ricorre per la prima volta, in realtà, nel periodo precarcerario. Ne L'Ordine Nuovo, quindicinale
diretto dallo stesso Gramsci, in un articolo del 1° settembre 1924 intitolato La crisi italiana. Il pensatore
utilizza il lemma per spiegare la situazione del parlamento italiano sotto dominio fascista: “Il fascismo per
la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi
alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa
subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati.” In questo
caso il termine non è utile alla narrazione storica, ma viene utilizzato nel senso proprio militare, ragion per
cui non ha senso introdurre questo breve excursus nella spiegazione del concetto.
9
L’analisi di Gramsci si apre con una critica alla storiografia classica, presente nella nota
su Lazzaretti4:
“[…] questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un
avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava
il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo
le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale,
gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico.”5
In questo frammento di discorso, il pensatore propone una visione sull’analisi superficiale
svolta dalle classi culturali egemoni e dalla narrazione storica comune sulla
manifestazione di eventi collegata ai sottoposti: la profondità del disagio sociale
subalterno viene mascherata ed occultata come evento violento ed animalesco nella
concezione egemone 6 . L’unico lascito storico dell’accadimento risulta essere una
biografia patologica del protagonista (in questo caso il Lazzaretti, di cui si occupò perfino
Cesare Lombroso), senza dar conto di quanti abbiano partecipato all’avvenimento, quali
conseguenze questo abbia causato e soprattutto senza comprendere perché determinati
gruppi sociali abbiano deciso di far parte di un movimento. Il gruppo sociale subalterno
è, quindi, solo lo sfondo sfumato della narrazione; incapace di produrre storia e non degno
di farne parte: disorganizzato, disgregato, non continuativamente attivo.
Gramsci si pone il problema di come sia possibile produrre una storia dei subalterni. Tale
storia, è per stessa ammissione dell’autore episodica e disgregata, seppur tendente
all’unificazione; un’unificazione spesso interrotta dall’azione dei gruppi egemoni e dalle
classi dominanti. L’unità dei gruppi sociali subalterni può affermarsi solo in caso questi
si sostituiscano all’élite dominante, attraverso una rivoluzione vittoriosa 7 ; il gruppo
sottoposto potrà così passare alla storia. Qui il pensatore sottolinea l’importanza
dell’“iniziativa autonoma” da parte delle classi subalterne: comprende come le spinte
propulsive delle classi non egemoni siano fondamentali per una narrazione storica
4 Davide Lazzaretti (1834-1878) fu un predicatore e mistico religioso italiano, fondatore di un movimento
religioso, solidaristico ed ai confini del socialismo utopico e mistico. Ebbe un’ampia schiera di seguaci e
fu scomunicato dalla chiesa cattolica nel 1878, nel corso dello stesso anno fu assassinato, durante una
processione pacifica, dalla forza pubblica. 5 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2279 6 BUTTIGIEG Joseph A., subalterno, subalterni in LIGUORI Guido / VOZA Pasquale (a cura di),
Dizionario Gramsciano 1926-1937, Carocci Editore, Roma, 2009 pag. 830 7 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2283
10
completa o, per meglio dire, integrale, non a senso unico, ma composta da avvenimenti
sovrapposti e stratificati, spesso in relazione di scontro tra loro.
“L’unità storica delle classi dirigenti avviene nello Stato e la storia di esse è
essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Ma non bisogna credere che tale
unità sia puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la
sua importanza e non solamente formale: l’unità storica fondamentale, per la sua
concretezza, è il risultato dei rapporti organici tra Stato o società politica e società
civile.”8
La storia integrale è la storia dell’apice e del fondo della scala gerarchica della società,
dello stato così come della società civile: il sunto è un unicum narrativo che comprende
le sfaccettature e le interconnessioni, completo e capace di mostrare la società nella sua
interezza agli occhi del lettore. La narrazione subalterna sarà per cui intrecciata a quella
della società civile e connessa in maniera discontinua e disgregata alla storia delle classi
dominanti. Gramsci propone un metodo di studio che faccia riferimento a diversi
elementi, tali da comprendere lo status sociale e politico dei gruppi subalterni; la proposta
del pensatore sardo è quella di studiare lo strato sociale subalterno dal suo fondamento,
analizzando l’indottrinamento politico (sia questo attivo o passivo) e la condizione di
dominio a cui il gruppo è sottoposto da parte delle forze politiche9.
Gramsci scrisse il Quaderno 25 a partire dal 1934, non riuscendo a sviluppare in maniera
organica la storia delle classi subalterne. Tracciò, però, un solco importante per gli studi
a venire, rendendo palese la necessità di una storiografia integrale e consegnando ai suoi
lettori provenienti dai margini della narrazione storica occidentale uno strumento di
riappropriazione e riabilitazione storica. Il concetto di subalterno venne quindi
riformulato e rifondato, utilizzato a seconda della necessità degli autori per far
comprendere la situazione di sottoposizione, fosse questa data dalla classe sociale, da
fattori culturali o dal giogo coloniale.
Edward W. Said, nel suo celeberrimo saggio Orientalismo10 , propone un subalterno
orientalizzato, collegando le condizioni di sottoposizione descritte da Gramsci a quella
delle culture non europee, in un connubio senza dubbio riuscito. Il subalterno in Said è,
dunque, l’orientale ritenuto inferiore, nonché barbaro, dalla lettura culturale eurocentrica.
8 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni… Op. Cit., Q25, I, pag. 2888 9 Idem 10 SAID Edward, Orientalismo, Feltrinelli, Milano,1999
11
Gramsci e Said risulteranno fondamentali nei Subaltern studies, ove il lavoro dei due
viene costantemente utilizzato, tanto per questioni di ricerca ed analisi metodologica,
quanto per l’affinità degli studi subalterni alle categorie concettuali elaborate dai due
autori. La concezione di subalterno già vista in Said, è un collegamento ideale molto forte
tra il concetto gramsciano e quello elaborato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa
americana di origine bengalese, studiosa di primissima importanza nel campo dei
Subaltern studies. Il subalterno della Spivak è il proletario del mondo, incapace perfino
di comunicare la sua situazione:
“[…] subalterno non è semplicemente un termine aulico per dire “oppresso”, per l’Altro,
per colui che non riceve la sua fetta di torta […] In termini post-coloniali, chiunque abbia
accesso parziale o non abbia accesso all’imperialismo culturale è subalterno. Ora, chi
direbbe che stiamo parlando degli oppressi? Il proletariato è oppresso. Non è subalterno
[…] In tanti vogliono appropriarsi della subalternità. Chi se ne appropria è dannoso e
poco interessante. Voglio dire, essere solo una minoranza discriminata in un campus
universitario; questa non è “subalternità” […] Costoro possono vedere quali siano i
meccanismi della discriminazione. Sono parte del discorso egemonico, anche se vogliono
un pezzo di torta e non possono averlo, hanno la possibilità di parlare, di utilizzare il
discorso egemonico. Non dovrebbero autoproclamarsi subalterni.”11
Gayatri Spivak, pur sfruttando il lemma gramsciano, ne critica l’utilizzo nella sua
accezione più strettamente vicina al lavoro di Antonio Gramsci: il subalterno della Spivak
è al gradino più basso della scala sociale mondiale; orientalizzato, sottoposto ed incapace
di lamentarsi, di organizzarsi e di reclamare la propria condizione. I Subaltern studies
tentano di costruire la storia di “questi” subalterni e non di coloro che reclamano la
subalternità, con tutte le difficoltà legate al dare voce e dignità storica a chi non l’ha mai
avuta.
I Subaltern studies
I Subaltern studies si pongono in relazione di scontro con la narrazione storiografica
occidentale tradizionale. L’input lanciato alla fine dello scorso paragrafo, secondo cui gli
studi subalterni abbiano la necessità di costruire la storia dei sottoposti, è vero solo in
parte; lo scopo dei Subaltern studies è ben più ambizioso: la volontà è quella di decostruire
11 DE KOCK Leon, Interview With Gayatri Chakravorty Spivak: New Nation Writers Conference in South
Africa, in ARIEL: A Review of International English Literature, 23:3, July 1992
12
tassello per tassello la narrazione storica per inserire in maniera precisa e contestualizzata
il resoconto documentato della storia dal basso. L’impostazione di ricerca dei Subaltern
studies si presenta come anti-essenzialista (finanche anti-storiografica) rigettando
l’identitarismo culturale e le convenzioni orientalistiche della storiografia eurocentrica12.
La nascita degli studi post-coloniali sulla subalternità è databile tra la fine degli anni ’70
e l’inizio degli anni ’80 in India, nell’Università di Nuova Delhi, attorno alla figura
dell’economista e storico Ranajit Guha 13 . Il primo collettivo dei Subaltern studies
sviluppatosi nel subcontinente indiano si occupò di una ricostruzione storica settoriale,
strettamente legata alla terra d’origine dei suoi partecipanti, con uno scopo affine a quello
sopra descritto: ovvero una rielaborazione complessiva della storia del sud asiatico, con
la ricollocazione delle classi subalterne come parte del complesso storico e non più come
masse informi e passive, così come erano descritte nella storiografia britannica coloniale
prima ed in quella delle élite nazionali poi. La critica mossa dal collettivo dei Subaltern
studies è quella di una duplice parzialità nella storiografia indiana delle classi egemoni:
parziale perché racconta solo parte del processo storico, dimenticandosi degli strati della
popolazione demograficamente più densi, ma senza potere decisionale; parziale poiché di
parte, propositiva solo dei punti di vista delle classi egemoni14.
Considerare i Subaltern studies solamente come una narrazione storiografica di rivalsa
delle classi sottoposte, sarebbe tuttavia incorretto: il lavoro sui subalterni non ha solo
vocazione storica, ma anche economica, sociale e politica in ottica presente. Numerose
opere facenti parte del lavoro del collettivo presentano infatti report e ricerche dedicate
alla situazione economica e sociale attuale delle classi subalterne: ne è chiaro esempio
l’influenza data dai Subaltern studies nella cooperazione allo sviluppo, in particolare sulla
cosiddetta Rap (ricerca azione partecipativa)15.
Riprendendo il discorso relativo agli studi storici, che risulta essere ad oggi la branca più
estesa ed approfondita dei Subaltern studies, è necessario porsi la questione riguardante
l’impostazione metodologica data alla ricerca delle fonti storiche per la costruzione di
una storia della subalternità. La difficoltà nella ricostruzione storica sta nel trovare voci
12 ATABAKI Touraj, BEYOND ESSENTIALISM Who Writes Whose Past in the Middle East and Central
Asia?, Lecture for the University of Amsterdam, Amsterdam, 2003 13 DI MAIO Alessandra, Subaltern studies,
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/subaltern_studies_b.html 14 Idem 15 CHIUSANO Germana, MIGLIARDI Agnese, Gli approcci partecipativi applicati nella cooperazione
allo sviluppo in BIGNANTE Elisa, DANSERO Egidio, SCARPOCCHI Cristina, Geografia e cooperazione
allo sviluppo, temi e prospettive per un approccio territoriale, FrancoAngeli s.r.l., Milano 2008, pag. 111
13
subalterne autentiche, testimonianze non adulterate od edulcorate. La necessità primaria
è legata alla riscoperta di fonti alternative o trascurate o, ancora, oscure agli ambienti
degli studi accademici poiché facenti parte esclusivamente degli ambienti subalterni,
distanti dalla critica e dal lavoro delle università. I membri del collettivo di Nuova Delhi
propongono la riscoperta di fonti desuete (o improprie secondo parte della storiografia
classica) quali i racconti orali, la memoria popolare o documenti scritti trascurati e
frammentari. Posto ciò, la difficoltà sta nel trovare gli strumenti adatti all’interpretazione
storica di testimonianze non propriamente accettabili come fonti storiche, si voglia a
causa della loro frammentarietà, della loro non tracciabilità, della loro scarsa
referenzialità ad altre fonti od autoreferenzialità. Oltre all’impostazione di dubbio sul
rigore delle nuove fonti, gli studiosi della subalternità si pongono in atteggiamento critico
anche per quanto riguarda le fonti ufficiali della narrazione storica egemone: se lo scopo
del lavoro è quello di ricostruire la storia riconoscendo l’importanza di ogni strato sociale,
è necessario rielaborare il discorso storico generalmente accettato, disconoscendo e
rielaborando i punti di vista rappresentati, spesso celebrazione delle classi dominanti in
salsa neocoloniale16. L’approccio storico dei Subaltern studies è assimilabile a quello
della New Cultural History in particolare nella sua accezione di storia dal basso e di
microstoria17, nonché all’analisi di tipo marxista della labour history, data dal ruolo
giocato dalle tradizioni culturali e dal concetto di moralità delle classi popolari 18 .
L’utilizzo di tale approccio marxista o post-marxista è dato dalla vicinanza della gran
parte degli studiosi della subalternità alla critica marxista19 ed ai suoi teorici, come il già
nominato Antonio Gramsci, utilizzato spesso per via delle sue categorie concettuali.
Il discorso sugli studi subalterni si sviluppò e si diffuse nel corso di tutti gli anni ’80,
grazie ad una serie di monografie presentanti raccolte di saggi sulla subalternità curate da
Ranajit Guha ed edite dalla Oxford University Press India, aventi cadenza quasi
annuale20. Il lavoro del collettivo di Nuova Delhi balzò agli occhi degli accademici di
tutto il mondo nella seconda metà degli anni ’80, con la pubblicazione di un saggio di
Rosalind O’Hanlon riguardante i Subaltern studies nella rivista Modern Asian Studies
16 DI MAIO Alessandra, Op. cit. 17 FAZIO Ida, Nuova storia culturale in COMETA Michele, COGLITORE Roberta, MAZZARA Federica
(a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, pag. 329 18 Ibidem, pag. 330 19 WILLIAMS R. John, "Doing History": Nuruddin Farah's "Sweet and Sour Milk", Subaltern Studies, and
the Post-colonial Trajectory of Silence, in Research in African literatures, vol. 37, n.4 (Winter 2006),
Indiana University press, Bloomington IN 2006, pag. 162 20 GUHA Ranajit, a cura di, Subaltern Studies I. Writings on South Asian History and Society, Oxford UP
India, New Delhi, 1982. (e successivi)
14
della Cambridge University Press21. Da qui, la diffusione divenne capillare nel mondo
accademico, ed alcuni volumi, già scritti in inglese per ampliare le possibilità di diffusione
e consultazione, furono tradotti in diverse lingue. Tra i lavori che maggiormente hanno
contribuito alla diffusione degli studi subalterni è utile ricordare la selezione Selected
Subaltern Studies, curata da Ranajit Guha e Gayatri Spivak, con prefazione di Edward
Said22, ed il celebre saggio della Spivak Can the subaltern speak?23.
L’internazionalizzazione dei Subaltern Studies passa dalla diffusione del materiale del
collettivo di Nuova Delhi in occidente attraverso le università di Oxford e Cambridge,
nonché dalla partecipazione di uno degli studiosi di maggiore fama internazionale, quale
Edward Said, agli studi. L’attrattiva e gli orizzonti della narrazione subalterna risultano
dunque ampliati in maniera consistente, portando, nel 1993, alla nascita di un nuovo
collettivo di studi subalterni nell’America Latina24. Il nuovo collettivo, fondato da cinque
accademici (John Beverley, Robert Carr, Jose Rabasa, Ileana Rodriguez e Javier
Sanjines), si occupò in principio di un connubio tra studi storici e politica, sviluppando il
discorso relativo al legame tra subalternità e post-colonialismo, tentando di instaurare un
rapporto di solidarietà tra accademia e sottoposti25. Il collettivo latino-americano non è
stato per ora prolifico come quello del subcontinente indiano, alle difficoltà iniziali si
sono aggiunte la carenza di interesse nelle università e l’assenza di fondi tesi allo sviluppo
di uno studio della subalternità nel continente americano, tant’è che il collettivo ad oggi
si trova in una situazione di stallo e dismembramento26.
Il processo di crescita degli studi subalterni, tuttavia, non è da dirsi arrestato per le sole
difficoltà degli studi latino-americani: negli ultimi vent’anni, l’interesse è andato
crescendo grazie a diverse pubblicazioni di diffusione internazionale, come la
pubblicazione nel 1994 di un numero monografico della American Historical Review
dedicata ai subaltern studies27, la creazione dell’antologia sugli studi subalterni svolta da
21 O’HANLON Rosalind, "Recovering the Subject: Subaltern Studies and Histories of Resistance in
Colonial South Asia", in Modern Asian Studies 22, 1, 1988, pagg. 189-224 22 SAID Edward, Foreword, in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorti (a cura di), Selected
Subaltern Studies, Oxford UP, New York 1988 23 SPIVAK Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?”, in C. Nelson, L. Grossberg (a cura
di), Marxism and The Interpretation of Culture, Macmillan, London 1988, pagg. 271-313 24 LUDDEN David, Reading Subaltern Studies: Critical History, Contested Meaning, and the
Globalisation of South Asia, Permanent Black, India 2003 25 AUTORE SCONOSCIUTO, The Latin American Subaltern Studies Group, 2006,
http://digitalunion.osu.edu/r2/summer06/herbert/testimoniosubaltern/latinamericasuba.html 26 Idem 27 AA. VV., American Historical Review, n. 99, American Historical Association, Oxford University Press,
1994
15
Ranajit Guha nel 199728, o il volume del 2001 di David Ludden della Penn University:
Reading Subaltern studies29. La diffusione di materiale di qualità ha portato ad un ritorno
al passato degli studi, articoli passati in secondo piano vennero riletti, tradotti e
ristampati.
28 GUHA Ranajit, A Subaltern Studies Reader. 1986-1995, University of Minnesota Press, Minneapolis,
1997 29 LUDDEN David, Op. cit.
16
Note bibliografiche
Il lavoro di decostruzione e rielaborazione storica presente nelle pagine a venire prenderà
in esame il periodo storico dell’Impero italiano in Africa Orientale, dalla nascita
dell’Impero del 1936, fino alla sua caduta nel 1943, tenendo conto delle conseguenze
correlate all’occupazione italiana nel successivo periodo post-coloniale. L’analisi si
baserà sulla produzione post-coloniale svolta da numerosi storici italiani dagli anni ’70 in
poi, sulle testimonianze dirette delle popolazioni del Corno d’Africa nel periodo
successivo alla caduta dell’Impero e sui lavori degli studiosi storici e sociali africani che
si sono occupati dell’invasione e del dominio italiano nell’Africa orientale; in modo di
ricavare il massimo di informazioni per la costruzione della storia dei gruppi sociali
subalterni nel suddetto periodo storico.
Gli studi post-coloniali in Italia hanno destato ben poco interesse per decenni: dato per
assodato il fatto storico, si preferì concentrarsi su altre tematiche 30 , relegando
l’avvenimento a quanto scritto nei venticinque volumi de L’Italia in Africa, opera a cura
del Ministero degli Affari Esteri, editi tra il 1958 e il 1969 ed aventi come scopo una
trattazione complessiva della tematica coloniale. La monumentale mole di monografie è
divisa in serie: una serie storica, edita nel 1958 e comprendente sette volumi, una serie
storico-militare (1960, cinque vol.), una serie scientifico-militare (1960, cinque vol.), una
serie giuridico-amministrativa (1963, tre vol.), una serie civile (1965, due vol.) e, infine,
una serie economica-agraria (1969, tre vol.).
Angelo Del Boca, nel suo saggio del 2003 Myths, Suppression, Denial and Default of
Italian Colonialism descrive L’Italia in Africa come: “un colossale, costoso e quasi
incredibile sforzo di mistificazione promosso dal Ministero degli Affari Esteri. 31 ”.
L’intera opera si basa sulla volontà dei governi dell’epoca di mistificare il fatto coloniale
e di far apparire il dominio italiano in Africa come positivo, con toni che tendono a lodare
l’impresa italiana come portatrice di civiltà e progresso32.
Per le perplessità riguardo all’attendibilità delle fonti del governo italiano mosse da Del
Boca e da numerosi altri studiosi della materia, la seppur vasta produzione del Ministero
30 DEL BOCA Angelo, The Myths, Suppressions, Denials and Defaults of Italian Colonialism, in (a cura
di) PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Africa in italian colonial culture from post-unification to the
present, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 2003 pagg. 17-18. 31 Idem 32 LABANCA Nicola, Studies and Research on Fascist Colonialism, 1992-1935, Reflections on the State
of the Art, in (a cura di) PALUMBO Patrizia, A place in the sun Op. Cit. pag. 38
17
degli Affari Esteri italiano verrà utilizzata in maniera parziale ed assolutamente critica
all’interno di questo lavoro. L’Italia in Africa rappresenta, in modo piuttosto netto, la
narrazione storica dei gruppi sociali egemoni di cui parlava Antonio Gramsci: ragion per
cui, potremo servircene solo in un’ottica di giustapposizione rispetto a ciò che le altre
fonti, indipendenti da una ricerca tesa a giustificare il colonialismo italiano in Africa,
asseriscono.
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Sintesi storica del colonialismo italiano in Africa orientale
Per meglio comprendere le strutture di potere venutesi a creare nell’Africa orientale
italiana, è necessario studiare come l’Italia sia entrata in Africa e come si siano radicate
le gerarchie del giovane paese europeo nelle società differenti e multiformi del corno
d’Africa. Le prossime pagine saranno dedicate ad una sintetica ricostruzione dell’intero
periodo coloniale antecedente l’Impero, dall’epoca liberale, sino al colonialismo fascista.
La sintesi che segue, pur non essendo tipica dei lavori subaltern, è, a mio avviso,
necessaria, per meglio incastrare nel complesso scacchiere dell’invasione e del dominio
italiani, l’episodicità e la frammentarietà delle fonti subalterne.
Il colonialismo liberale
“Gloria a Dio
Essendo il giorno di lunedì undecimo del mese di sciaban dell’anno 1286 secondo il
computo degli islamiti e il giorno 15 del mese di novembre dell’anno 1869 secondo l’era
degli europei, Hassan ben Ahmad, Ibrahim ben Ahmad, fratelli, ed il signor Giuseppe
Sapeto, reisisi a bordo del Naser Megid, barca di Said-Auadh, e fatto atto di presenza,
stipularono quanto segue al cospetto dei testimoni:
1. I fratelli sopraddetti Hassan ben Ahmad ed Ibrahim ben Ahmad, sultani di Assab,
hanno venduto e vendono al signor Giuseppe Sapeto anzidetto il territorio
compreso tra il monte Ganga, il capo Lumah e i due suoi lati; perloché il dominio
del detto territorio apparterrà al signor Giuseppe Sapeto, tostoché questi ne avrà
sborsato il prezzo avendoglielo essi spontaneamente venduto, volontariamente e
con retta intenzione.
2. I fratelli suddetti giurano, sul Corano della Distinzione, che né essi né la gente
loro faranno perfidie agli europei che verranno ad abitare il paese proprietà del
signor Sapeto.
3. Il signor Giuseppe Sapeto compra il detto luogo per seimila talleri, lasciando
perciò duecentocinquanta talleri di caparra ai venditori, obbligandosi a pagare
i rimanenti cinquemila settecento cinquanta talleri fra cento giorni decorrenti
dal primo di ramadan fino ai dieci del mese di heggiah. Ché se il signor Giuseppe
non tornasse più, né altri venisse in sua vece nel tempo fissato, la caparra
andrebbe perduta. I fratelli poi soprannominati non potranno vendere ad altri il
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detto luogo, avendolo già venduto al signor Giuseppe Sapeto, ed accordatogli
cento giorni al pagamento del prezzo suo.
Questo è il contratto passato tra il signor Giuseppe Sapeto, e i fratelli Hasan ben Ahmad
ed Ibrahim ben Ahmad, alla presenza dei testimoni Mahamad Abdi, Ahmad Al, Said
Auadh, scivano, Abd Allah ben Duran.
Accettato e sottoscritto dai contraenti.”33
Con questo breve contratto, stipulato il 15 novembre del 1869 dal professor Giuseppe
Sapeto, in rappresentanza della società genovese Rubattino, e dai fratelli ben Ahmad,
sultani di Assab, si apre la penetrazione italiana in Africa Orientale. L’acquisto fu di
seguito perfezionato nel corso dell’anno successivo, estendendo il territorio e
permettendo agli armatori della Rubattino di issare la propria bandiera nazionale,
concedendogli una sorta di dominio assoluto sul territorio africano34. L’ingresso italiano
nel continente si concretizza non con un’occupazione militare voluta dallo Stato, bensì
con l’acquisto di un territorio da parte di una compagnia privata. Le pulsioni verso
l’Africa erano, però, già vive nella società italiana; in seno al neonato paese europeo si
accavallarono le voci che richiedevano possedimenti d’oltremare, sostenute da tesi
relative all’espansione economica, alla scoperta dell’altro, o supportate da un forte
nazionalismo35. Il sentire comune s’allineò sulla necessità di avere dei possedimenti
esterni per porsi allo stesso piano delle altre nazioni europee. Il sogno italiano tardò a
realizzarsi. Non vi fu, in questo primo momento, un vero e proprio insediamento
Rubattino nell’arida baia di Assab: i pochi segni lasciati dalla compagnia genovese
vennero ben presto cancellati dall’Egitto, con il sostegno della Gran Bretagna che mal
tollerò la presenza italiana in un territorio sulle coste Mar Rosso36.
Solo dieci anni dopo, con l’ingerenza egiziana ridotta al minimo, e con la piena
accondiscendenza della Corona Britannica, la Rubattino approfittò della crisi dello stato
egiziano per rimettere piede nella baia di Assab, riprendendo il possesso dei territori
acquisiti anni prima ed estendendo il dominio con nuovi acquisti. Quello che poté
sembrare come un rinnovato interesse della compagnia genovese nei confronti di un
33 PERTICONE Guglielmo, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni
parlamentari, Grafica editrice romana, Roma, 1971, pag. 177 34 PERTICONE Guglielmo, Op. Cit., pag. 179 35 LABANCA Nicola, Oltremare, Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002,
pagg. 16-18 36 ROCHAT Giorgio, Il colonialismo italiano, Loescher Editore, Torino, 1973, pagg. 20-21
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investimento dato per fallito troppo presto, fu in realtà una brillante operazione
commerciale. La Rubattino carpì l’interesse del Governo Depretis nell’acquisizione di
“un posto al sole” e la sfruttò a suo vantaggio nel 1882, cedendo all’esoso costo di
416.000 lire i possedimenti sul mar Rosso allo Stato Italiano37. La convenzione del 10
marzo 1882 (approvata poi dal Parlamento Regio il 5 luglio dello stesso anno) stipulata
dai ministri Mancini, Berti e Magliani e dal cavaliere Hofer in rappresentanza della
Rubattino, donò all’Italia la sua prima, minuscola colonia; un territorio arido,
semidesertico e quasi totalmente inabitato (si parla di mille abitanti indigeni), ma pur
sempre un segno di presenza, un primo, timido passo italiano nel continente africano38.
Nel 1885, le mire espansionistiche dell’Italia presero nuova forma. Il 27 gennaio del 1885,
il ministro degli esteri Mancini annunciò l’imminente spedizione di soldati italiani nel
corno d’Africa. La discussione tenne banco in ben due sedute parlamentari, nei giorni 27
e 28 gennaio, con numerose interpellanze ed interventi dei deputati Canzi, De Renzis e
Parenzo, dubbiosi sulla natura della spedizione militare e sulle ragioni della creazione di
un contingente e di una colonia nel distante, remoto e poco fruttuoso mar Rosso,
rivendicando, invece, la necessità della sovranità italiana all’interno del Mare Nostrum.
Agli interventi degli onorevoli succitati risposero in maniera accorata e ferventemente
nazionalista il ministro della guerra Ricotti, e soprattutto il ministro degli esteri Mancini,
che presentò la spedizione africana come una notevole opportunità per l’Italia, non
nascondendo le mire ad un’occupazione più vasta del territorio del corno d’Africa,
accompagnando il discorso con una retorica patriottica legata alla supposta connotazione
genetica italiana per l’esplorazione, il viaggio, l’ignoto; godendo così dei favori e
dell’approvazione del Parlamento Regio39.
La penetrazione delle forze militari italiane nel territorio di Assab fu facilissima. I soldati
del contingente italiano non trovarono resistenze, ed estesero il dominio fino alla città di
Massaua in tempi brevi e senza perdite o scontri degni di nota40. Per due anni l’esercito
italiano stazionò nei possedimenti senza subire minacce o attacchi dalle popolazioni
autoctone. Nel gennaio 1887 la passeggiata coloniale italiana ebbe un brusco stop: le
truppe dell’altopiano eritreo, guidate da ras Alula attaccarono con un vasto contingente il
fortino italiano di Saati, sconfiggendo in seguito la colonna di cinquecento soldati italiani
37 ROCHAT Giorgio, Il colonialismo italiano, Loescher Editore, Torino, 1973, pagg. 20-21 38 PERTICONE Guglielmo, Op. Cit., pagg. 183-185 39 AA. VV. Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 27 gennaio 1885 e 28 gennaio 1885, Tipografia
della Camera dei Deputati, Roma, 1885, pagg. 11059-11078bis e pagg. 11113 – 11129 40 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 70-71
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al servizio del tenente colonello De Cristoforis, nei pressi della località di Dogali41. Le
reazioni alla sconfitta italiana ed alla perdita delle tante vite in terra africana generarono
un’ondata emotiva di enormi proporzioni nella madrepatria; sia dal punto di vista della
retorica nazionalista, sia da parte del poco nutrito fronte anticoloniale nel parlamento
italiano42. Sebbene il parlamento italiano si fosse convinto in ampia parte della vacuità e
dei problemi correlati all’impegno coloniale, le frange più fortemente anticolonialiste
restarono isolate (si ricordi a tal proposito l’intervento del deputato socialista Andrea
Costa il 3 febbraio del 1887, che coniò lo slogan anticolonialista “né un uomo, né un
soldo43”), e l’impresa coloniale proseguì persino con più veemenza. Il capo di gabinetto
Depretis organizzò una spedizione militare più folta rispetto alle precedenti, comprensiva
di circa ventimila soldati, guidata dal generale Alessandro Asinari44.
La morte di Depretis nel 1887 portò a capo del governo il garibaldino Crispi, sotto nomina
del re Umberto I 45 . Il programma del politico siciliano poneva al centro lo sforzo
coloniale, come simbolo fondamentale della redenzione del Paese e come clausola
necessaria per l’ingresso dell’Italia tra i grandi d’Europa. Egli presentò i possedimenti
africani come un’opportunità di migrazione ed insediamento popolare: Crispi immaginò
di risolvere il problema della povertà dei gruppi sociali legati all’agricoltura attraverso la
conquista dell’altopiano abissino e la sua conseguente mutazione in colonia di
popolamento 46 . Sotto Crispi l’esperienza coloniale italiana si normalizzò e divenne
duplice seguendo due diverse linee d’azione, una militare chiamata “linea tigrina” ed
un’altra diplomatica, chiamata “linea scioana”47: mentre l’esercito, guidato dal generale
Baldisserra, era presente tramite avanzate che dal bassopiano eritreo miravano
all’altopiano etiope, era al contempo in corso un’intensa attività diplomatica tra Italia ed
Etiopia, guidata in prima linea dall’esploratore Pietro Antonelli48.
Proprio il conte Pietro Antonelli stipulò con il Re etiope designato, Menelik II, il trattato
di Uccialli. L’accordo, steso in lingua amarica ed italiana e datato 2 maggio 188949, pur
41 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 23 42 Ibidem pagg. 39-42 43 AA. VV. Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 3 febbraio 1887¸ Op. Cit., pagg. 2001-2034 44 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 70 45 DUGGAN Christopher, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pagg.
593-595 46 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit. pag. 72 47 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità alla Marcia su Roma, Mondadori,
Milano, 1992, pag. 365 48 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit. pag. 72 49 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 45
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avendo la forma di un trattato di pace tra i due stati, ebbe in realtà una varietà di scopi,
alcuni palesi ed altri, come vedremo in seguito, facilmente fraintendibili.
All’articolo 3 del trattato, vi è la nascita, de facto, della colonia italiana d’Eritrea con i
suoi confini, riconosciuta da entrambi i contraenti:
“A rimuovere ogni equivoco circa i limiti dei territori sopra i quali le due parti contraenti
esercitano i diritti di sovranità, una commissione speciale composta di due delegati
italiani e due etiopici traccerà sul terreno con appositi segnali permanenti una linea di
confine i cui capisaldi siano stabiliti come appresso:
La linea dell’altipiano segnerà il confine etiopico-italiano;
Partendo dalla regione di Arafali: Halai, Saganeiti ed Asmara saranno villaggi
nel confine italiano;
Adi Nefas e Adi Joannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano;
Da Adi Joannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-
etiopico.”50
Negli articoli seguenti, vi sono questioni dedicate allo scambio di armi ed al trattamento
dei prigionieri; ma a rendere celebre il trattato di Uccialli, fu senza dubbio l’articolo 17,
punto cruciale dell’accordo. L’articolo appena citato fu scritto, con palese volontà
d’inganno, in maniera differente nelle due lingue del trattato. In italiano, lasciava
intendere un protettorato italiano sull’Etiopia: “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia
consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di
affari che avesse con altre potenze o governi.”51 Mentre in lingua amarica l’articolo
poneva in evidenza la semplice possibilità del Re etiope di servirsi dell’aiuto del Re e del
governo italiano per la trattazione di affari esteri: “Per qualsiasi necessità abbia bisogno
presso i sovrani d’Europa, all’Imperatore d’Etiopia sarà possibile corrispondere con
l’aiuto del governo italiano”52. Il termine amarico qui tradotto come “gli sarà possibile”
è icciollaccioàl ed indica possibilità, non obbligo53; questa sottile differenza di traduzione
nascose ben più d’una semplice disattenzione da parte italiana, la volontà di Antonelli (o
forse di Crispi), fu quella di affermare il potere italiano in Etiopia tramite una grottesca
scorciatoia.
50 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 45 51 Ibidem, pag. 46 52 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità..., Op. Cit., pag. 385 53 Idem
23
Il primo gennaio del 1890, il decreto legge n. 6592 del Parlamento Regio stabilì il
battesimo dei possedimenti italiani nel mar Rosso con il nome di Colonia Eritrea, come
previsto dal già citato articolo terzo del trattato di Uccialli. Il decreto legge diede una
nuova forma amministrativa al possedimento d’oltremare, retta da un governatore civile
e militare coadiuvato da tre consiglieri.
I passi avanti della “linea scioana” di Antonelli, furono presto seguiti da azioni militari in
forza alle truppe militari italiane. Il generale Baldissera, noto soprattutto per aver dato
forma ad una riorganizzazione dell’esercito tramite l’ingresso nelle forze degli ascari
indigeni54, venne sostituito nel 1890 da un nuovo governatore, il generale Baldassarre
Orero55. Il nuovo amministratore della colonia Eritrea dimostrò immediatamente le sue
mire espansionistiche: nel terzo anniversario della disfatta di Dogali, il 26 gennaio del
1890, mise subito a rischio la pace con l’Etiopia del ras Menelik, occupando, senza il
consenso governativo, la città di Adua per tre giorni: il governatorato eritreo, da questo
punto in poi, passò prima nelle mani del generale Gandolfi, ed in seguito delle mani
dell’ambizioso colonnello Baratieri56.
Il nuovo governatore della colonia eritrea presentò tutti i caratteri di un’Italia
spregiudicata ed illusa di portare avanti con facilità una politica espansionista. Le sortite
e le mire espansionistiche di Baratieri furono mal sopportate dai governi Di Rudinì e
Giolitti, molto cauti sull’esperienza coloniale italiana e sulle spese ad essa collegate, per
esser poi esaltate da Crispi, ritornato al governo nel 189357.
Baratieri, supportato nella spavalderia da Crispi, suo compagno tra le mille camicie rosse
garibaldine, farà dell’Eritrea quasi uno stato a sé; divenendone sovrano assoluto,
riorganizzandone l’aspetto militare (creò un esercito di circa 10.000 militi, in gran parte
indigeni) ed abbandonando in maniera decisa la suddetta linea scioana, inasprendo sin da
subito i rapporti con Menelik58.
54 I battaglioni degli ascari eritrei nacquero sotto il colonnello Tancredi Saletta, per venire poi inquadrati
dal generale Baldisserra, come volontari in ferma breve (annuale) rinnovabile. Il ruolo degli ascari fu
indispensabile nell’avanzata coloniale italiana e nel mantenimento dei possedimenti. I soldati eritrei al
soldo del governo coloniale italiano dimostrarono inflessibile fedeltà ed abilità. Vennero utilizzati non
solo per le conquiste in Africa Orientale, ma anche per la campagna libica, in ROCHAT Giorgio, Op.
Cit., pag. 24 55 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 75 56 Ibidem, pag. 75-76 57 Idem 58 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 536-539
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Il nuovo “Re d’Eritrea”, desideroso d’aumentare la sua area di influenza geografica nel
corno d’Africa, fronteggiò più volte l’esercito di Menelik con alterne fortune, rendendosi
conto ben presto che il suo esercito, benché riorganizzato e numericamente significativo,
non potesse sostenere una guerra continuativa contro le truppe regolari e le milizie
irregolari del Regno d’Etiopia. Per questo motivo insistette a lungo con Crispi e con il
Ministro della Guerra Mocenni per ricevere rinforzi militari, chiedendoli spesso in
maniera confusa e generica, e ricevendo dal governo italiano risposte ancor più
pressapochiste. Crispi dovette, d’altro canto, fronteggiare un parlamento riluttante a
proseguire con le spese africane e mal disposto a tollerare una scelta espansionistica in
Etiopia59.
Il governo, però, aveva delle opinioni di gran lunga differenti rispetto a quelle del
Parlamento Regio. Ne è palese dimostrazione il desideratum, estremamente ottimista,
steso dal ministro degli esteri Blanc ed inviato a Baratieri nel gennaio del 1896. Lo
schema di Blanc auspica una totale resa del negus ed un assorbimento dell’intera Etiopia
sotto l’egida italiana, tramite la forma del governo indiretto60, già parecchio in voga
presso le colonie inglesi.
L’auspicio di Blanc, del governo ed anche di Baratieri si rivelò, ad ogni modo, alquanto
effimero. La spregiudicatezza e la superficialità dell’iniziativa espansionista italiana
vennero a galla con prepotenza il primo marzo del 1896, con il tentativo di penetrazione
presso il territorio montuoso nei pressi di Adua ed Abba Garima. I quattro battaglioni
italiani, composti da 17.400 uomini61, tra ascari e italiani, si mossero a colonne separate
durante la notte, con l’intenzione di colpire di sorpresa l’esercito Etiope. La pianificazione
dell’attacco, fu, però, quanto mai grossolana: la mappa del campo di guerra venne
disegnata in maniera erronea e dilettantistica, provocando non solo ovvi problemi
logistici, ma portando le colonne italiane allo sbando ed alla dispersione; per giunta, non
fu elaborato da Baratieri un piano di ritirata, né fu ben calcolato l’elemento sorpresa,
svanito ben presto nel corso della lunga e confusa marcia che portò le truppe italiane nei
pressi di Adua62. Le truppe di Menelik si fecero trovare più che pronte allo scontro con
l’esercito del Baratieri, ben armate, perfettamente consapevoli della conformazione del
terreno del campo da guerra, ed ampiamente superiori numericamente rispetto alle truppe
italiane (il numero esatto dei componenti dell’esercito abissino non è chiaro: secondo le
59 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pagg. 50-52 60 Ibidem, pagg. 52-54 61 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pag. 714 62 Ibidem, pagg. 713-714
25
stime disponibili va da 65 mila a 200mila unità63). Le colonne italiane vennero assaltate
una ad una e costrette ad una disperata ritirata, 5.000 soldati italiani e 1.000 ascari persero
la vita, 1700 furono fatti prigionieri64. La débâcle fu brutale e fece da pietra tombale al
progetto espansionista in Etiopia del governo italiano. A farne le spese fu Crispi in prima
persona, costretto alle dimissioni, presentate in una concitata e brevissima seduta della
Camera dei Deputati, appena quattro giorni dopo la disfatta di Adua65.
La tremenda sconfitta in terra etiope decretò la morte politica di Francesco Crispi e mise
a tacere qualsiasi vocazione espansionista dell’Italia africana per gli anni a venire. Con il
Trattato di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 l’Italia riconobbe la sovranità etiope e
l’Etiopia accettò la presenza italiana in Eritrea66. Baratieri venne sostituito da Ferdinando
Martini, civile, politico, che applicò una politica di distensione nei confronti dell’Etiopia
di Menelik sin dal 189767.
Negli stessi anni, l’Italia metteva un altro piede nel Corno d’Africa, questa volta più a
sud, nelle coste somale: il territorio appariva scarsamente abitato, poco produttivo e non
presentava reali opportunità di essere sfruttato per investimenti o come colonia di
popolamento. Come nel caso dell’Eritrea, a muovere i primi passi in Somalia fu un
privato, Vincenzo Filonardi; egli, accompagnato da navi militari italiane, firmò alcune
concessioni e protettorati alla fine degli anni ’80 del XIX secolo, prima con il sultano di
Obbia e poi con quello dei Migiurtini68.
Il possedimento si estese man mano con nuovi acquisti, ma la colonia somala rimase
infruttuosa per il capitale privato, venendo quindi rilevata dallo Stato ed amministrata
direttamente con il nome di Somalia italiana (legge del 5 aprile 1908)69. La Somalia
italiana venne posta immediatamente sotto amministrazione civile 70 ; le mire
espansionistiche dei tempi di Crispi parsero esser scomparse e i confini vennero delineati
con precisione. D’altro canto, la disfatta di Adua è, in questo periodo, ancora fresca nella
memoria politica e nell’opinione pubblica del Paese, ed i possedimenti in terra africana
63 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit, pag. 73-74 64 ROCHAT Giorgio, Op. Cit. pag. 27 65 AA. VV., Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 5 marzo 1896, Tipografia della Camera dei
Deputati, Roma, 1896, pag. 3427 66 CALCHI NOVATI Gian Paolo, L’Africa d’Italia, Carocci Editore, Roma, 2011, pag. 93 67 Ibidem, pag. 94 68 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 88 69 Ibidem, Op. Cit., pag. 92 70 AA. VV.,Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N 102, giovedì 30 aprile 1908, Roma, 1908
26
non rendono quanto sperato: una linea di condotta cauta fu l’unica scelta politica
praticabile per il governo italiano.
La quiete favorì il consolidamento dei piccoli possedimenti africani: l’Eritrea, consegnata
al civile Martini, capace di gestire la colonia dal 1897 al 1907 con scarso budget, e di
“mettere in sonno” il possedimento, così come gli era stato chiesto71. A Martini seguì
Salvago Raggi, che in maniera più aggressiva (e dispendiosa) decise di sviluppare la
colonia eritrea, con le prime linee ferroviarie e con un atteggiamento di sfida verso
l’Etiopia orfana di Menelik72. La Somalia venne affidata nel 1910 a De Martino, che nei
suoi sei anni di governo instaurò un dominio di tipo personalistico, sopravvalutando le
potenzialità economiche della colonia, credendo di poter sfruttare il terreno somalo per
l’agricoltura intensiva73.
Durante il primo conflitto mondiale la situazione nei due posti al sole italiani non cambiò
di tanto. L’Eritrea continuò ad esser sfruttata in maniera intensiva, rendendo ben poco e
costando parecchio all’erario, mentre in Somalia, colonia retta in maniera disordinata e
mai realmente pacificata, le forze armate portarono alla fine dei disordini solo tramite una
violenta repressione74. Gli sforzi nel lontano corno d’Africa si ridussero e l’attenzione del
Paese si focalizzò, sin dal 1905, sulla sponda a sud del Mare Nostrum, con la pesante e
prolungata guerra in Libia75.
Lo stato liberale italiano volge al tramonto, indebolito dalla Grande Guerra e dai suoi esiti
catastrofici. All’orizzonte vi è la dittatura fascista, che non si discosterà poi tanto dalla
liberaldemocrazia nei mezzi e nelle pratiche coloniali76. Lo stato fascista sarà più risoluto
e più efficiente, nonché favorevolmente indirizzato nella sua interezza alla costruzione
dell’Impero; già agli albori del PNF, Benito Mussolini definì l’imperialismo come “legge
eterna e immutabile della vita77”, ponendo l’idea di una più grande Italia come caposaldo
del pensiero fascista.
71 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 101-103 72 Idem 73 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 904-907 74 Ibidem, pagg. 927-942 75 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 16 76 DEL BOCA Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale – 1. Dall’Unità…, Op. Cit., pagg. 964-965 77 Ibidem, Op. Cit., pag. 958, da MUSSOLINI Benito, Il Popolo d’Italia, 1° gennaio 1919
27
Il colonialismo fascista
L’impianto retorico del regime fascista e del suo leader si basarono fortemente sull’idea
di una più grande Italia, sull’eredità di grandezza lasciata dall’Antica Roma e sulla
volontà, od in alcuni casi la necessità, di riappropriarsi della grandezza geografica e del
prestigio internazionale di cui Roma aveva goduto in tempi remoti.
I miti dell’Africa già romana e dell’Impero furono pervasivi nella propaganda del regime
e nella stessa cultura fascista78. L’idea di grandezza era appetibile per le masse, nonché
un buon coagulante per il sentimento nazionale: l’idea di un Impero di tutti, secondo l’idea
di Stato corporativo, risultava assolutamente favorevole per il popolo italiano, che vide
nell’Africa opportunità di redenzione e, soprattutto, di arricchimento 79 . L’impianto
culturale fascista diede alla missione colonialista nuovo fiato; ciò che durante il periodo
liberale appariva come dispendioso e velleitario, venne coperto da un alone di novità,
quello di una società rinata sotto il segno di Mussolini80.
Retorica a parte, il cambiamento propagandato dal regime fascista tardò ad arrivare; fino
al 1925 il colonialismo fascista fu una blanda ripetizione di quanto accaduto negli anni
precedenti, con piccole nuove acquisizioni ricavate da percorsi diplomatici iniziati già in
epoca liberale81. I domini nel corno d’Africa risultavano essere ancora ridotti e soprattutto
poco fruttuosi: l’Eritrea si estendeva per 120 mila Km2, con appena 300 mila abitanti
indigeni all’interno, la Somalia, più estesa, contava circa un milione di abitanti. Le due
colonie non diedero possibilità di impiego e resero ben poco all’erario, con entrate non
certo consistenti (se paragonate a quanto investito nelle campagne militari dai governi
liberali), e date in gran parte dalle tasse portuali82.
Nel frattempo, l’Etiopia, rimasta nelle mire italiane sin dalla disfatta di Adua, entrava nel
1923 a pieno titolo nella Società delle Nazioni 83 , ricevendo un timido tentativo di
opposizione da parte della neonata Italia fascista, che chiese (ed ottenne) di porre come
condizione all’ingresso dell’Etiopia nell’organizzazione internazionale l’abolizione della
78 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pagg. 154-156 79 Ibidem, pag. 157 80 MANCOSU Gianmarco, La cultura coloniale della “rivoluzione fascista”, in PES Alessandro (a cura
di), Mare Nostrum, il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, 2012, Aipsa Edizioni,
pag. 45 81 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag.146 82 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in (a cura di) PALUMBO Patrizia, A place in the
sun, Op. Cit., pag 40. 83 575/3 L’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni,
http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1455
28
schiavitù ed una regolamentazione pari a quella stabilita internazionalmente per il
commercio delle armi e delle munizioni84.
Nonostante la situazione stagnante e complicata, il governo fascista, a differenza di quello
liberale, ebbe più ampi margini di manovra: l’assetto cesarista del regime, senza la
necessità di continue giustificazioni parlamentari in materia di politica estera e spesa
pubblica, permise la crescita delle spese coloniali, aumentate costantemente fino alla
nascita dell’Impero85.
L’elemento relativo all’aumento della spesa fu un primo ed importante punto di rottura
con il colonialismo liberale; il secondo, e principale, punto di svolta fu il progetto di
“imperialismo demografico”. Fino agli anni ’30 la popolazione italiana residente nei
territori occupati era esigua, ancor più se dal calcolo si escludono le forze armate presenti
in Africa per operazioni di conquista e mantenimento degli spazi occupati. I coloni in
Libia risultavano esser più numerosi, mentre in Eritrea la popolazione occupante era
nell’ordine delle migliaia, ed in Somalia erano presenti solo alcune centinaia di
italiani8687. La ragione di questo progetto di rivoluzione demografica delle colonie era
dovuto al fatto che l’Italia, a differenza degli altri Paesi europei, avesse più manodopera
che capitali da esportare88.
Nella nuova fase coloniale vi fu anche la riscoperta del passato: la politica
dell’aggressione e dell’espansione verso l’Etiopia, cara a Baratieri e Crispi, ritornò in
auge dopo più di venticinque anni. Emilio De Bono, ministro delle colonie del governo
fascista dal settembre 1929 al gennaio 1935, già dal principio degli anni ’30 stilò un
programma d’attacco al Paese del negus89; l’idea del ministro rimase nel cassetto e fu
etichettata come troppo avventata e superficiale, ma non certo erronea dal punto di vista
ideologico: l’onta di Adua doveva essere lavata via e l’Etiopia restò la terra da conquistare
per tutto lo stato maggiore fascista90.
84 575/3 L’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni,
http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1455 85 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Op. Cit.,
pag. 46 86 I dati numerici riguardanti la popolazione italiana nei possedimenti africani risultano essere discordanti
ed imprecisi nella bibliografia dell’argomento. Per questo è preferibile farvi riferimento in maniera
approssimativa. 87 LABANCA Nicola, Studies on fascist colonialism, in PALUMBO Patrizia, A place in the sun, Op. Cit.,
pag. 49 88 Idem 89 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 152 90 Idem
29
Nonostante la sedimentata idea di aggressione ad Addis Abeba (che si verificherà poi nel
1935), Mussolini mosse i primi passi verso l’Etiopia attraverso la diplomazia: nel 1928,
Ras Tafari ed il Duce elaborarono un trattato ventennale d’amicizia italio-etiope, con
ingenti tributi in armi dati da Roma al Paese africano, programmando, in parallelo, la
creazione di una strada camionabile tra Assab e Dessiè91.
Il trattato di amicizia era tutt’altro che sincero da parte italiana; lo stesso Mussolini
confessò che sarebbe servito solo a “cloroformizzare” o “morfinizzare” l’Etiopia92 .
Dall’Eritrea e dalla Somalia si iniziò a far pressione e ad accerchiare il paese, con la chiara
intenzione, all’alba degli anni ’30, di tornare all’uso delle armi, mentre il resto delle
potenze colonialiste si occupava di consolidare i propri domini93.
Il casus belli che portò all’invasione italiana dell’Etiopia si verificò nel tardo 1934 nella
località di Ual Ual, nell’Ogaden. Ual Ual, piccola fortificazione italiana situata in una
zona inospitale nel remoto deserto dell’Etiopia somala, aveva una forte importanza
strategica, per via dei 359 pozzi d’acqua scavati nei pressi del fortino; unica risorsa
d’acqua potabile disponibile nella zona 94 . Dopo quindici giorni di tensione (brevi
schermaglie tra etiopi ed italo-somali ebbero inizio il 22 novembre), nel pomeriggio del 5
Dicembre 1934 si arrivò ad uno scontro tra gli etiopi e gli occupanti italo-somali. La
battaglia fu molto violenta, per quanto breve: l’aeronautica italiana bombardò il
battaglione etiope, causando ingenti perdite e costringendo le truppe del negus alla
ritirarata95.
L’incidente di Ual Ual ebbe importanti ripercussioni a livello diplomatico. La questione,
infatti, venne posta da Haile Selassie96 all’attenzione della Società delle Nazioni che
incaricò una commissione d’arbitrato con lo scopo di stabilire le responsabilità del caso;
commissione che, però, non giungerà a conclusione alcuna97.
Mussolini trasse dai fatti di Ual Ual la giustificazione per forzare la mano sulla questione
etiope: già il 30 dicembre, venticinque giorni dopo l’incidente, estese alle più alte cariche
dello stato un memorandum in cui si palesava la sua volontà di occupare l’Etiopia, o, per
91 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Biblioteca
Universale Laterza, Roma-Bari, 1986, pagg. 132-140 92 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag.177 93 Ibidem, Op. Cit., pagg. 177-178 94 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Op. Cit., pag. 245 95 Ibidem, pagg. 245-250 96 Si tratta del già nominato Ras Tafari Makonnen, incoronato negus neghesti nel 1930 con il nome
dinastico di Haile Selassie I 97 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 406
30
dirlo con le sue stesse parole: “[…] l’obiettivo non può essere che la distruzione delle
forze armate abissine e la conquista totale dell’Etiopia. L’Impero non si fa altrimenti.”98
Principiò, dunque, la corsa agli armamenti e all’ingrossamento dei contingenti militari in
Eritrea e Somalia: i due fronti da cui sarebbe partita la morsa per dare a Mussolini il suo
Impero. A comando dell’organizzazione dell’attacco sulla sponda nord-orientale
dell’Etiopia troviamo Emilio De Bono, già anziano e da tempo non impegnato
militarmente. Il quadrumviro, al momento di sferrare l’attacco, ebbe a disposizione un
esercito estremamente più grande rispetto a quello con cui il Baratieri fu umiliato ad
Adua: 5.721 ufficiali, 6.292 sottufficiali, 99.243 soldati italiani e 53.226 ascari. Gli
armamenti non furono da meno, all’ingente potenza di fuoco messa a disposizione per
l’attacco si unirono le micidiali (e illegali sin dal 1925 99 ) armi chimiche e
batteriologiche.100 Sulla sponda meridionale il compito fu assegnato a Rodolfo Graziani,
con un esercito ridotto rispetto a quello di De Bono, ma comunque considerevole: 1.651
ufficiali, 1.546 sottoufficiali, 21.144 soldati nazionali e 29.511 soldati somali. Le armi
chimiche e i gas non mancheranno a Graziani, che ne farà un uso massiccio
nell’aggressione all’Etiopia101.
Mussolini, una volta pronte le truppe in Eritrea e in Somalia, decise di annunciare in
maniera roboante, dal balcone di palazzo Venezia a Roma, e alla radio in tutta Italia,
l’annuncio dell’inizio della guerra all’Etiopia:
“Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo,
oltre i mondi e oltre i mari! Ascoltate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della
patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai
si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini:
un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. La loro manifestazione deve
dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta,
assoluta, inalterabile. Possono credere il contrario soltanto i cervelli avvolti nella più
crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia 1935, anno XIII dell’era
fascista. Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma
determinazione, si muove verso la mèta: in queste ore il suo ritmo è più veloce e
inarrestabile ormai! Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un
98 MUSSOLINI Benito, Direttive per l’aggressione all’Etiopia, in ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 157 99 DEL BOCA Angelo, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1996, pag. 17 100 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 2. La conquista dell’Impero, Op. Cit., pagg.
292-303 101 Ibidem, Op. Cit., pagg. 303-308
31
popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare
la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po’di posto al sole. Quando nel 1915
l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante
esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla
quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti,
quattrocentomila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della esosa pace non
toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui. Abbiamo
pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che
soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!
Alla Lega delle nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni. […] Io
mi rifiuto del pari di credere che l’autentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai
dissidi con l’Italia, sia disposto al rischio di gettare l’Europa sulla via della catastrofe
per difendere un paese africano, universalmente bollato come un paese senza ombra di
civiltà. […]102”
Nel discorso del dittatore italiano, oltre alla solita retorica di stampo fascista, si trova una
ben chiara descrizione di alcune delle ragioni (propagandistiche e non solo) che hanno
portato il suo governo a dichiarare guerra contro il negus Selassie. Il richiamo relativo al
posto al sole e alla sua negazione, è indicativo di una condizione di inferiorità dell’Italia
fascista rispetto ai grandi d’Europa: situazione sofferta da Mussolini, che con
l’anacronistico attacco all’Etiopia sogna un Impero capace di fronteggiare in magnitudine
le potenze imperialiste già consolidate. Ritorna il tema della vittoria mutilata, nonché
l’idea di lavare via l’onta della disfatta di Adua. Appare, inoltre, il tema della superiorità
culturale e razziale, con il colonialismo inteso come opera civilizzatrice. Nessuna delle
armi retoriche utilizzate dal dittatore fu casuale: con i suoi discorsi ed i suoi scritti fu
capace di permeare ampiamente nel senso comune italiano, convinse il popolo di meritare
un Impero, tramite l’elaborazione dei miti della Grande Proletaria, della Potenza
dell’Italia fascista ed il richiamo costante all’eredità dell’Impero Romano103. A questi
elementi si sovrappose prepotentemente un mito più forte, ovvero quello della persona di
Mussolini: unico condottiero capace di portare avanti la ventura coloniale italiana e
personificazione dell’Impero nell’immaginario collettivo104.
102 MUSSOLINI Benito, Discorso dal balcone centrale di palazzo Venezia del 2 ottobre 1935, in
ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 163 103 PES Alessandro, La costruzione dell’impero fascista¸ Aracne Editrice, Roma, 2010, pagg. 104-107 104 Idem
32
All’attività propagandistica – che proseguì martellante anche dopo la fondazione
dell’Impero - seguì l’azione diretta nel Corno d’Africa. La mattina seguente al discorso
sopracitato, il 3 ottobre del 1935, le truppe di De Bono passarono il confine etiope
attraversando il fiume Mareb105.
L’armata partita dall’Eritrea prese la simbolica località di Adua in appena tre giorni, il 6
di ottobre; i migliori auspici del regime fascista di una conquista rapida ed implacabile si
spensero, però, in maniera rapida106. De Bono non riuscì a coordinare in maniera organica
e veloce il grande esercito a sua disposizione, e nemmeno con l’utilizzo dei gas riuscì ad
imprimere l’accelerata che il Duce e l’opinione pubblica italiana richiedevano. L’anziano
quadrumviro rinunciò alla prosecuzione della guerra e venne prontamente sostituito dal
generale Badoglio 107 ; costui aprì una nuova fase dell’occupazione, ove, grazie ad
un’attenta e maniacale programmazione, riuscì a sveltire il processo di conquista ed a
vincere numerose battaglie campali che decimarono e stremarono l’esercito etiope.
Badoglio entrerà ad Addis Abeba il 5 maggio del 1936, proclamando la fine dell’Etiopia
come entità statale e la distruzione dell’esercito etiope. Appena tre giorni dopo, l’8
maggio, Rodolfo Graziani concluse la sua guerra entrando ad Harrar. L’Etiopia era
sconfitta, il negus neghesti Haile Selassie era fuggito in esilio a Londra108, Mussolini,
sulla carta, ebbe il suo Impero.
105 ROCHAT Giorgio, Op. Cit., pag. 163 106 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 107 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 190 108 Ibidem, pagg. 190-192
33
L’Impero d’Africa Orientale Italiana
La presa di Addis Abeba fu salutata da Mussolini con entusiasmo e partecipazione,
annunciando in pompa magna la nascita dell’Impero il 9 maggio 1936 dalla finestra di
Palazzo Venezia a Roma109. Gli stessi toni trionfalistici furono utilizzati dal dittatore nella
prefazione del libro scritto da Pietro Badoglio per celebrare la marcia tra Dessié ed Addis
Abeba; il capo fascista si concentrò principalmente nel sottolineare la rapidità, l’impresa
di popolo e l’economicità (sic!) dell’impresa italiana nel Corno d’Africa, esaltando le
capacità operative del Maresciallo Badoglio110. Il territorio appena conquistato era circa
cinque volte più grande dell’Italia stessa, ma risultava scarsamente abitato, con una
popolazione indigena di circa dodici milioni di persone111. Le condizioni parvero ottimali
per la costruzione di una società fascista ex novo: nelle prossime pagine verranno
analizzate in contrappunto le linee guida amministrative e lo sviluppo dell’Impero
fascista, con lo scopo di comprendere il ruolo riservato alle popolazioni locali secondo il
disegno italiano.
L’Impero in funzione: gerarchie, pianificazione, economia e opere in AOI
La Legge 1019 del 1°giugno del 1936112, varata per il governo della neonata Africa
Orientale Italiana, stabilì l’ordinamento amministrativo della colonia. Il territorio venne
suddiviso in sei governatorati: Eritrea, Somalia, Haràr, Amhara, Galla e Sidama, ed il
governatorato autonomo della municipalità di Addis Abeba. L’Italia impose il governo
diretto in ogni regione, più un governatore centrale, il viceré, con sede ad Addis Abeba.
Il viceré, pur avendo il ruolo di “capo supremo dell’Amministrazione” coloniale, si
trovava subordinato al Ministro delle Colonie.
La dicotomia contraddittoria “capo supremo-sottoposto al ministero” creò diversi
problemi quando il ruolo di viceré fu ricoperto da una personalità ambiziosa come quella
del già nominato Maresciallo Graziani. Il ruolo di governatore generale per Graziani
109 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 110 MUSSOLINI Benito, Prefazione, in BADOGLIO Pietro, La Guerra d’Etiopia, Mondadori, 1936
Milano, pagg. IX-XI 111 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 104 112 Legge pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 136, del 13 giugno 1936 - Anno XIV (vi si farà riferimento
più volte nel corso della stesura del paragrafo)
34
significò controllo assoluto della colonia, ragion per cui si trovò in continua relazione di
scontro con il Ministro delle Colonie Lessona113.
I problemi al vertice della gerarchia risultarono esigui, se comparati a ciò che avvenne
alla base; come promulgato dall’articolo 19 della Legge Organica 1091, i governatorati
vennero suddivisi in commissariati, ed i commissariati stessi vennero suddivisi in
residenze e vice residenze. Tale frammentazione richiese un alto numero di funzionari
alla dipendenza della colonia. Si contarono all’incirca ventimila impiegati pubblici nel
settore dell’amministrazione: la gran parte di questi erano militari smobilitati che chiesero
di poter permanere nella struttura imperiale. Gli amministratori ai livelli più bassi della
scala gerarchica risultarono essere impreparati per il ruolo che andarono a ricoprire, avidi,
disposti al malaffare e ai soprusi114.
La pianificazione italiana per lo sfruttamento e lo sviluppo dell’Africa Orientale Italiana
apparì incerta ed inspiegabilmente ottimista. Riprendendo la politica demografica, il
regime pubblicizzò immense opportunità di migrazione e ricchezza sulla stampa115. La
volontà di Mussolini fu di condurre in Etiopia, Eritrea e Somalia “milioni di italiani”116,
esortando Amedeo di Savoia duca d’Aosta (divenuto viceré nel ’37, in sostituzione di
Graziani117) a facilitare il processo. Certo è che l’impresa demografica di un Corno
d’Africa ricco, prospero, bianco e italiano, restò solo nell’immaginario fascista; l’unica
stima realmente attendibile, del 1939, testimonia una popolazione di 165.267 italiani
nell’Impero, una cifra esigua se paragonata alla stima di 12 milioni di indigeni nello stesso
territorio 118 . Ciononostante non si può dire che la propaganda non funzionasse: le
richieste di migrazione furono numerose, ma dovettero essere frenate dallo stesso regime.
La colonia non era pronta ad accogliere un afflusso tanto consistente: nella sola Asmara,
la popolazione italiana si decuplicò nel corso di appena cinque anni119, creando notevoli
disagi dal punto di vista della locazione. La migrazione si tenne costante negli anni
113 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Biblioteca Universale
Laterza, Roma-Bari, 1986, pagg. 144-145 114 In DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, 3. La caduta dell’Impero (Op. Cit.), si fa riferimento,
da pag. 145 a pag. 153, ai vari casi di frode e malaffare, riportati dalle stesse gerarchie fasciste presenti
nell’Impero: sono numerose le segnalazioni del generale Nasi, che riporta casi di estorsione, peculato, falso
in bilancio, fino ad arrivare alle richieste di ius primae noctis da parte di un vice-residente. 115 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg.154-
155 116 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199 117 ZEWDE Bahdu, A History of Modern Ethiopia 1855-1974, Addis Ababa University Press, Addis
Abeba, 1991 pag. 162 118 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199 119 Ibidem, pag. 199-202
35
dell’Impero, principalmente nella colonia primigenia ed in Etiopia, esclusivamente nelle
aree urbane, a causa delle mai realmente sedate lotte di ribellione120.
È interessante indagare su quale fosse il progetto del regime fascista; i moltissimi italiani
arrivati per prendersi il loro posto al sole, che tipo di lavori avrebbero dovuto svolgere in
Africa?
Come abbiamo visto in precedenza una buona fetta degli emigrati italiani furono
impiegati nella pubblica amministrazione, settore storicamente problematico per l’Italia.
Ancor più problematica fu la gestione dello stato in Africa Orientale Italiana, poiché,
secondo le stime del viceré, il 60% della pubblica amministrazione s’occupò solo
d’amministrare sé stessa121.
Un altro settore, sempre pubblico, ad offrire collocamento agli italiani d’Africa, fu quello
della creazione delle infrastrutture. Con il richiamo della romanità imperiale sempre forte
e presente, Mussolini volle immaginare una ramificata e prospera rete stradale
nell’Impero: 18.000 km di strade furono progettate122 per collegare ogni lato dell’enorme
colonia africana, con l’idea di facilitare i trasporti delle copiose risorse che sarebbero
dovute esser lì presenti e facilmente fruibili secondo l’idea del regime123.
L’ambizioso progetto fascista iniziò e seguì spedito, ma con spese e impiego di forze
superiori alle reali possibilità italiane. Nel 1937, ben 65.530 italiani lavorarono alla
costruzione delle carreggiate nel Corno, con un dispendio unitario di cinque volte
superiore rispetto alle maestranze locali124. Nel ’38, ad appena due anni dall’inizio del
progetto, ben 3.284 km di strade erano state costruite, ma le spese per l’importazione dei
materiali in Africa e le già citate spese per la manodopera furono eccessive per il regime,
che decise così di rimpatriare decine di migliaia di operai, ponendo per una gran parte
degli emigranti italiani la parola fine al sogno dell’espansione demografica e della piena
occupazione grazie alle nuove conquiste125.
120 ZEWDE Bahdu, Op. Cit., pag. 165 121 Idem 122 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 159 123 Lessona, Ministro delle Colonie nel ’37, auspicò, in un discorso pubblico alla Camera dei Deputati, il
ricavo di grandi ricchezze dall’Etiopia ancora misconosciuta: “Puntiamo decisamente per ora sui seguenti
obiettivi: metalli preziosi, carne, latte, lana, pelli, cotone, caffè, semi oleosi, cereali” (in A. Lessona,
L’Africa italiana nel primo anno dell’Impero, Ist. Coloniale Fascista, Roma 1937, pag. 18) 124 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 162 125 Ibidem, pagg. 162-163
36
Gli italiani si mossero nell’Impero anche al di fuori del settore pubblico; alcune decine di
migliaia di italiani, tra cui, citando il MAI, “uomini d’affari, cioè imprenditori, tecnici,
professionisti, capitalisti ecc.”, cercarono fortuna in Africa. Furono conteggiate circa
10.000 imprese, tra commerciali ed industriali: i settori di maggiore rilievo apparvero
essere il commercio (con 4.785 imprese nel ’39), degli autotrasporti (con 1.262 aziende)
e delle costruzioni (con 823 imprese)126.
Si noti come, secondo le stime appena nominate, i primi due settori d’interesse siano
direttamente collegati con lo sfruttamento della colonia in senso economico, con lo
scambio e trasporto delle merci verso il mercato europeo. Il terzo settore testimonia l’idea
di popolamento della colonia: le imprese di costruzione trovarono terreno fertile e grandi
opportunità grazie ai migranti italiani che, una volta giunti nel Corno d’Africa, avrebbero
avuto necessità di nuove abitazioni con standard italiani.
Già sul finire del ’36 vi fu gran fervore edilizio. Emblematico fu il caso di Dessiè, ove si
stabilirono rapidamente diecimila italiani, e dove vennero costruiti, di conseguenza, più
di cento edifici in pochi mesi127. Anche nelle città principali dell’Impero - Asmara,
Gondar e Addis Abeba – la corsa alla cementificazione ed alla crescita urbanistica fu
frenetica e, per questo, disordinata. Per frenare la costruzione selvaggia e dare
un’impronta di ordine alle città, il regime fascista varò a Roma, tra il 1937 ed il 1940 dei
piani regolatori per l’espansione, la modifica o la ricostruzione delle città dell’Italia
d’Africa128. La gran parte dei piani urbanistici, tendenti ad una rigidissima suddivisione
delle città tra metropoli e zona indigena129, non vedranno mai un’attuazione pratica,
lasciando così le città – ed in particolare la capitale Addis Abeba – in una situazione
precaria tra la nuova pianificazione e le vecchie costruzioni130.
L’arrivo della guerra e la conseguente caduta dell’Impero lasciarono il piano di
italianizzazione e fascistizzazione del Corno d’Africa in una fase intermedia del processo;
non solo non furono terminate le opere urbanistiche e la rete stradale, ma vi furono
126 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 201 127 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 166 128 Ibidem, pagg. 168-171 129 Contardo Bonicelli, specificò (in AA.VV., Opere per l’organizzazione civile in AOI, Servizio
Tipografico Generale, 1939 Roma, pagg. 252-253) che “le arterie di collegamento fra l’una e l’altra città
[fra la parte di città italiana e quella indigena, nda] devono essere nel numero strettamente necessario e
disposte in modo che ne sia facile la sorveglianza ed il controllo ed, eventualmente, lo sbarramento: e ciò
sia per misure igieniche sia per eventuali misure militari. Si dovrà giungere a non permettere agli indigeni
l’accesso alla città nazionale se non previo un passaggio attraverso una stazione di bonifica umana: la
distruzione dei parassiti e la disinfezione del vestiario dovranno esercitarsi in misura totalitaria.” 130 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg. 171-
172
37
numerosi progetti rimasti solo sulla carta o in fase embrionale: è il caso dell’ampliamento
della rete ferroviaria, rimasto solo ipotetico, o dello sviluppo dell’agricoltura, con la sola
produzione di caffè ampiamente sviluppata, sull’ipotetico sfruttamento massiccio delle
nuove terre per la produzione cerealicola o del cotone131.
Tralasciando, in questo primo momento, il bilancio sociale e l’analisi sulla moralità di
quanto fatto dal regime nel periodo dell’Impero, possiamo dedicare alcune righe ad un
bilancio economico dell’Italia fascista in questo breve periodo di dominio sul Corno
d’Africa.
Il dato di fatto principale è che l’Italia spese più di quanto riuscì a ricavare nel corso della
sua amministrazione in Africa Orientale Italiana: il commercio non riuscì mai a decollare
(secondo le stime di Lessona del ’37 il volume di affari era più grosso sotto il governo di
Haile Selassie che sotto l’Impero italiano), frenato anche dalla continua guerriglia e dalla
mancata pacificazione del territorio etiope 132 . Ciò che è altresì probabile è che gli
investimenti strutturali posti in essere dal governo Mussolini e dal viceré il Duca d’Aosta
non abbiano avuto il tempo necessario per fruttare. Gli investimenti, per giunta, indirizzati
quasi totalmente allo sviluppo infrastrutturale, gravarono su tutti gli altri settori
dell’economia coloniale 133 . Come abbiamo già visto, l’attuazione della politica
demografica per ridurre la disoccupazione in patria fallì: all’esodo di più di 102.000
italiani verso l’Africa Orientale nel 1936134, gran parte dei quali provenienti dal Nord
Italia135, seguirono solo corposi rimpatri.
Quanto ampiamente propagandato dal regime, dunque non si avverò: quel posto al sole
ottenuto tardi, in maniera violenta ed anacronistica, non giovò al popolo italiano. Le spese
militari e per la costruzione delle infrastrutture furono altissime e gravarono sull’erario,
togliendo la possibilità di investimenti necessari in patria. L’imperialismo fascista,
differente economicamente e militarmente da quello straccione liberale, portò con sé tanti
aspetti comuni alla storia del regime precedente: l’aspetto continuativo più rilevante a
livello di bilancio fu, senza dubbio, la mancanza di indipendenza economica dei
possedimenti dell’oltremare, destinati ad essere sempre più un costo che un’opportunità.
131 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit.,, pagg. 165-
178 132 Ibidem, pag. 179 133 LABANCA Nicola, Oltremare, Op. Cit., pag. 276 134 PODESTÀ Gianluca, Il mito dell’Impero, Economia, politica e lavoro nelle colonie dell’Africa
orientale, 1898-1941, G. Giappichelli Editore, Torino, 2004, pag. 337 135 Ibidem pag. 338
38
I subalterni nell’Africa Orientale Italiana
Nelle pagine che seguono, cuore del lavoro, sarà svolta un’opera di decostruzione storica,
ove, a fianco delle fonti subalterne (rare ed episodiche), verranno posti elementi di
storiografia classica; cosicché la cronaca della subalternità nell’Africa Orientale Italiana
non appaia in questo lavoro come cruda rappresentazione delle testimonianze subalterne
raccolte, ma sia interpretata, ricostruita e commentata attraverso i dati disponibili. La
scelta di non utilizzare solo fonti subalterne è data da una ulteriore necessità di
contestualizzazione, che, a differenza di quanto svolto nelle pagine precedenti, sarà a
fronte delle testimonianze dei sottoposti.
Con questo modus operandi spero di poter rispondere a delle importanti questioni a
proposito delle popolazioni subalterne, relative alla cultura ed allo stile di vita precedente
all’occupazione italiana, all’impatto sociale del colonialismo, agli strumenti utilizzati
dall’Italia per ottenere la sottoposizione delle popolazioni locali – siano, questi strumenti,
militari, economici o culturali – e, soprattutto, a cambiare la prospettiva della narrazione
storica.
Le fonti utilizzate per la narrazione che segue vengono dalla storiografia africana e dalla
tradizione orale del Corno d’Africa. Il punto di vista africanista è ricavabile
principalmente dalle narrazioni degli studiosi Bahru Zewde per ciò che concerne l’Etiopia
e da Tekeste Negash per quanto riguarda l’Eritrea. Le cronache riportate dai due studiosi
africani saranno accompagnate e commentate con l’ausilio dei dati demografici ed
economici disponibili e contestualizzate con l’aiuto dei lavori sul colonialismo italiano
già utilizzati in precedenza. La narrazione subaltern verrà affidata alle poche fonti
disponibili da cui sia ricavabile il punto di vista dei sottoposti: Irma Taddia, nel suo
preziosissimo lavoro Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali136, è
riuscita a collezionare testimonianze di Etiopi, Eritrei e Somali vissuti durante
l’occupazione coloniale italiana. Il materiale raccolto dalla studiosa è frutto di un lavoro
svolto nei tardi anni ’80 ed al principio degli anni 90137, ragion per cui le testimonianze
si riferiscono in larga parte all’epoca fascista e dell’Impero.
La peculiarità delle fonti orali è data nella soggettività della narrazione del singolo: la
testimonianza sopperisce alla mancanza di documentazione scritta prodotta localmente.
136 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Francoangeli, Milano,
1996 137 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit, pag. 9
39
È una storia dal basso, senza impostazioni strutturali di coscienza di classe, ma
rappresentante la coscienza che l’individuo ha di sé stesso, della sua storia e del suo
vissuto. Luisa Passerini, nel suo Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria138, da
atto alla testimonianza orale che si fa storia; proponendo l’oralità come storia alternativa
a quella ufficiale, basata su dati ed eventi. Per l’autrice la fonte orale rende possibile una
storiografia indipendente dalle strutture di potere politiche ed economiche. La
testimonianza singola diviene storia combinata ad altre singole testimonianze; quando in
queste è possibile riscontrare punti d’incontro, similitudini, narrazioni parallele, elidendo
(ma comunque considerando) le contraddizioni e i lati di dubbia storicità delle fonti
singole, allora è possibile sfruttare l’oralità ed avvicinarci ad una narrazione di storia
integrale.
In questo contesto sarebbe stato interessante analizzare l’arte e della poesia tigrina e
abissina nel XX secolo. La sola esegesi dell’arte, però, non darebbe risultati palpabili e
scientificamente accettabili dal punto di vista della narrazione storica, questa risulterebbe
essere plasmabile e corruttibile in maniera semplice a seconda della volontà di chi scrive.
In chiusura, verrà proposta, come esempio, una breve descrizione di una interessante
forma d’arte tigrina: l’aulò, un canto poetico tipico dell’altipiano eritreo.
La proposta centrale è la ricostruzione del punto di vista dei gruppi sociali sottoposti
dell’Africa Orientale; starà al lettore dire se il lavoro che segue dia la possibilità al
subalterno di parlare e di identificarsi come soggetto storico, o se l’egemonia culturale –
e storiografica - dell’invasione italiana abbia cancellato il punto di vista delle masse e
degli individui subalterni, rendendo questo lavoro una velleità soggettivizzante e fine a sé
stessa139.
La stessa problematica viene posta anche da Irma Taddia nell’incipit della sua raccolta di
autobiografie, denunciando la possibilità di un appiattimento delle testimonianze causato
dal contesto culturale colonialista140; l’autrice però presenta anche l’eventualità che la
138 PASSERINI Luisa, Storia e soggettività. Le fonti orali la memoria, La Nuova Italia, Firenze, 1988 139 La citazione proviene da SPIVAK Gayatri Chakravorty, Subaltern Studies: Deconstructing
Historiography (in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorty (a cura di), Selected Subaltern Studies,
Oxford University Press, 1988 Oxford, New York, pagg. 5 – 17) in cui la studiosa pone il problema della
veridicità degli studi subalterni: si chiede se una storia con tali difficoltà di reperimento e interpretazione
delle fonti possa divenire autorevole storiografia, cioè se le classi egemoni non abbiano avuto successo nel
cancellare la storia e la cultura del subalterno. Se ciò fosse accaduto, la rivendicazione della storia
subalterna, anche nel caso di questo lavoro, non sarebbe possibile, e ci troveremmo davanti ad un mero
esercizio di scrittura. 140 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit., pag. 35
40
narrazione subalterna non differisca dalla narrazione scritta, o per meglio dire, che non
debba forzatamente discostarsene, radicalizzando la storia141.
Il Corno d’Africa prima degli italiani: società, demografia, economia
Il Corno d’Africa ha subito forti cambiamenti nel corso dell’ultimo secolo, ma solo alcuni
sono imputabili al colonialismo italiano, che comunque è stato attore comprimario nella
mutazione della zona e testimone del suo passaggio dall’800 al ‘900. Conoscere la
situazione precedente all’arrivo degli invasori può essere utile a comprendere in quale
misura la presenza italiana abbia modificato la storia dell’Africa Orientale.
Le radici della presenza antropica nel Corno d’Africa affondano nella preistoria. La
peculiarità dell’Africa Orientale, all’interno dell’area subsahariana, è quella di essere uno
Stato generatore di storia documentabile - e documentata - sin da epoche remote
(quantomeno per la storiografia africana): la narrazione parte sin dalla nascita del regno
cristiano di Axum142, che governò la regione estesa (le attuali Eritrea, Etiopia, Somalia
Occidentale e parti dell’Egitto, del Sudan e della penisola arabica) sin dal 330.
L’Africa Orientale del 1800 fu, però, molto differente da quella gloriosa del regno di
Axum: l’area vergeva verso una lenta riunificazione, dopo un lungo periodo di
spezzettamento, frontiere mai stabili e guerre intestine, conosciuto come Zamana
Masafent, ovvero età dei principi143. L’età delle divisioni fu interrotta dalle lotte condotte
da Kasa Haylu, un bandito (shefta), che attraverso alleanze con alcuni ras e diverse
campagne militari, riuscì a salire al potere, controllando vaste aree dell’altopiano etiope,
autoproclamandosi Imperatore, nel 1855, con il nome di Tewodros II144.
L’Impero del nuovo negus neghesti, per quanto vasto, risultava non continuo o unitario e
scarsamente abitato, con una popolazione che si aggirava attorno ai nove milioni di
individui145 (L’area del Corno d’Africa ad oggi ospita, secondo le stime della World
Bank, 112.586.745 persone146, di cui 10.517.569 in Somalia, 5.110.444 in Eritrea e ben
96.958.732 in Etiopia). Le politiche della nuova Etiopia guidata da Tewodros furono atte
a mantenere il controllo della zona conquistata e, possibilmente, ad espandere il dominio
141 TADDIA Irma, Autobiografie Africane – il colonialismo nelle memorie orali, Op. cit., pag. 35 142 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag.8 143 Ibidem, pagg. 11-26 144 Ibidem, pag. 27-31 145 CLARENCE SMITH William Gervase, The Economics of the Indian Ocean slave trade in the
nineteenth century, Totowa, Londra 1989, pag. 100 146 WORLD BANK DATABASE
http://data.worldbank.org/indicator/SP.POP.TOTL/countries/1W?display=default
41
su un territorio più vasto. L’Imperatore puntò ad una centralizzazione generalizzata;
amministrativa e feudale, ed ad una riforma delle istituzioni militari e sociali, cercando –
sempre per mantenere il controllo all’interno del Paese – l’appoggio esterno della Regina
Vittoria d’Inghilterra147. La revisione amministrativa operata dall’Imperatore si basò su
una stretta e contorta collaborazione con le élite preesistenti, alternate tra fedeltà
indiscriminate e tradimenti inaspettati da parte dei ras; con tassazioni determinate più
dalla volontà dei singoli governatori di dimostrare asservimento al potere del negus, che
da una reale e studiata politica centralizzata di imposizioni fiscali148. Le politiche di
Tewodros furono più decise in campo militare: il neo Capo di Stato capì l’importanza di
una milizia ben organizzata per mantenere il controllo del territorio. L’esercito fu
regolarizzato in un unico reggimento, indipendentemente dalla provenienza dei militi, e
furono create delle gerarchie ex novo. La modernizzazione non si fermò alla
riorganizzazione dell’organico, ma venne portata avanti anche tramite l’acquisto di
efficaci armi moderne: mortai, cannoni, armi da fuoco leggere, pistole e baionette149.
I tentativi di stabilizzare il dominio da parte del negus non furono fortunati a lungo
termine: compromise i rapporti con l’Impero Britannico mettendo in stato di fermo
diplomatici e missionari inglesi. Questo gesto, dettato dalla frustrazione di non riuscire
ad avere un controllo netto e stabile all’interno del neonato Impero d’Etiopia, decretò la
fine del negus, che, attaccato da un enorme battaglione dell’esercito inglese (supportato
da Kasa Mercha, ras del Tigré, futuro Imperatore), preferì il suicidio alla cattura150.
Il potere andò all’appena nominato Kasa Mercha, con il nome di Yohanne IV. Il nuovo
negus fronteggiò dei problemi molto simili a quelli del suo predecessore: un notevole
frazionamento interno, importanti dispute riguardanti la sovranità tra i ras e nuove sfide
in politica estera, con le potenze europee concentrate nel trovare un posto al sole nel
continente africano. Yohannes riuscì meglio di Tawodros nei suoi intenti: pur non
riuscendo ad unificare del tutto il Corno d’Africa, inanellò un’importante serie di vittorie
militari contro i poteri periferici, grazie ad un esercito sempre più grande – le truppe
regolari contavano 60.000 soldati – e sempre più armato151. Il nuovo negus si sforzò di
avere rapporti diplomatici e commerciali con l’Egitto e l’Europa (in particolare con la
147 TESEMA Ta’a, The Political Economy of an African Society in Transformation: The Case of Macca
Oromo (Ethiopia), Harassowitz ed., Wiesbaden, 2006, pagg. 70-71 148 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag. 32 149 Ibidem, pagg. 34-35 150 ADEJUMOBI Saheed A., The History of Ethiopia, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara,
USA, 2007, pagg. 26-27 151 Ibidem, pagg. 27-28
42
Gran Bretagna, potenza coloniale egemone nella zona) riuscendo, in questo modo, a far
escludere temporaneamente l’Etiopia dallo scramble for Africa152.
Yohannes IV fu il primo sovrano del Corno a doversi confrontare con gli italiani; benché
questi fossero presenti fin dal 1869, con l’acquisto della Baia di Assab da parte della
società Rubattino, proprio durante gli anni di dominio del successore di Tawodros si
fecero avanti con le prime spinte espansionistiche verso l’interno, a cui Yohannes ed i ras
a lui fedeli si opposero strenuamente153. La lotta anticoloniale di Yohannes, però, non
poté essere portata avanti a lungo, poiché questi morì nel 1889, in seguito ad uno scontro
a fuoco154.
All’Imperatore Yohannes seguì il dominio di Menelik II, che, come abbiamo già visto,
non si oppose fermamente alla presenza italiana, ma la tollerò (inizialmente) in cambio
di supporto militare, economico e strategico. Menelik ebbe la possibilità di strutturare,
grazie alla potenza militare raggiunta e ad una intricata serie di accordi, ciò che i suoi
predecessori non riuscirono mai a creare, ovvero uno Stato unitario155. La situazione del
1889 vide un nuovo negus abile nel compromesso, cosciente di rinunciare alla parte nord-
orientale del Paese ed allo sbocco sul Mar Rosso, pur di ottenere il supporto necessario
da parte italiana per il controllo dell’Etiopia.
L’analisi storica del periodo antecedente all’occupazione italiana ci mette di fronte ad un
Corno d’Africa frammentato e senza strutture sociali ed amministrative radicate. Lo
sforzo dei negus di fornire all’area una struttura statale centralizzata, funzionale e
resistente rispetto alle potenziali invasioni intra africane o europee si dimostrò
insufficiente; non solo mancarono le basi sociali per garantire una convivenza pacifica tra
i popoli dell’Africa Orientale, ma anche il tessuto economico dell’area risultava poco
consistente per la creazione di uno stato così come lo immaginarono Tawodros e
Yohannes. L’economia, basata fortemente sull’agricoltura di sussistenza156, garantiva
scarsi surplus ai tenutari. L’unica spinta economica fortemente unitaria era data
dall’attività di commercio a lunga tratta, persistente nei secoli nell’area. Il mercato, basato
sullo smercio di sale, pelli, avorio, oro e finanche schiavi, diretto verso sud e verso il Mar
152 ADEJUMOBI Saheed A., The History of Ethiopia, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara,
USA, 2007, pagg. 27-28 153 Cfr. pagg. 16-17 154 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pag. 56 155 Ibidem, pagg. 60-67 156 NEGASH Tekeste, No medicine for the bite of the white snake: notes on nationalism and resistance in
Eritrea, 1890-1940, Reprocentralen, HSC Uppsala, Svezia, 1986, pag. 22
43
Rosso157, non fu in grado di dare la spinta necessaria alla regolamentazione statale degli
scambi. Abbiamo elencato, senza farci troppo caso, diverse classi sociali e gruppi
d’interesse; non è troppo complesso comprendere come la disgiunzione tra questi – e la
conflittualità intestina nelle élite - fosse ostile alla creazione di uno stato con la propria
polity: i proprietari terrieri e l’aristocrazia dei ras, in continua lotta, non permisero agli
imperatori un controllo di egemone sull’area, l’ostilità ad un dominio centralizzato ed i
continui accordi alla ricerca di protezione esterna, furono deleteri per l’indipendenza
dell’Africa Orientale, spalancando la porta all’Occidente, particolarmente a quella
giovane Italia bramosa di un posto al sole.
Come costruire un subalterno
La disgiunzione sociale del Corno d’Africa fu un’arma in più dalla parte dei colonialisti;
l’ordine di cose malleabile e frammentato diede all’Italia l’idea di decostruire quanto
preesistente, per tentare di imporre ai sudditi africani una società rinnovata, utile agli
scopi del dominio colonialista.
L’educazione dei colonizzati ebbe un’enorme importanza per la creazione di una società
sottoposta al dominio italiano. Il disegno non fu ben definito e lucido sin dal principio,
ma si concretizzò in maniera efficace: inizialmente, difatti, sotto il governo della colonia
primigenia da parte di Martini, non esistettero scuole per gli indigeni. Il governatore vide
nell’educazione dell’eritreo una seria minaccia alla sopravvivenza della colonia, nonché
una spesa insostenibile per il governo coloniale158. Fu sotto la guida di Salvago-Raggi che
l’Italia comprese le possibilità derivanti da un’educazione “interessata” dei nativi. Nel
1916, lo Stato coloniale estese un documento che asserì l’importanza della missione
civilizzatrice italiana; le scuole private furono spinte a dare un’offerta formativa che
comprendesse le prime tre classi elementari per gli indigeni, con dei programmi differenti
da quelli proposti per i bianchi159: appare ovvia, sin da questo punto, la volontà del
governo coloniale di porre un’impronta nell’educazione del giovane colonizzato, in modo
che questo non si formi autonomamente, (o tradizionalmente) e così riconosca a livello
mentale, già dalla tenera età, l’autorità italiana. Al contempo, il limite di un’offerta
formativa di sole tre classi elementari, pone la questione di un’educazione volutamente
limitata: le preoccupazioni espresse anni prima da Martini erano ancora attuali; un
157 ZEWDE Bahru, Op. Cit., pagg. 21-22 158 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941 – Policies, Praxis and Impact, Acta
Universitatis Upsaliensis, Uppsala, Svezia, 1987, pagg. 68-69 159 Ibidem, pag. 69-70
44
indigeno istruito, e non semplicemente addomesticato agli usi ed all’autorità italiana,
sarebbe stato pericoloso per la sopravvivenza del dominio degli invasori.
Mentre nella colonia si discuteva da tempo dell’istruzione indigena, in Italia tutto restò
fermo fino al 1921, quando venne steso, con il D.G. n. 3808 del 12 settembre, il primo
documento legislativo italiano dedicato alla regolamentazione scolastica sul territorio
coloniale. Questo decreto attuò la suddivisione dell’istruzione indigena in scuola
elementare ed in scuola superiore di durata biennale, organizzandola in corsi di arti e
mestieri160.
Il vero punto di svolta arrivò però nel 1934, quando il sopraintendente delle scuole del
regime, Andrea Festa, pose come cardine del progetto scolastico l’idea che il ragazzo
educato divenisse un fiero propagandista dell’occupazione italiana, fiero di essere
sottoposto alla bandiera italiana 161 . Con Festa, l’idea (inizialmente subliminale) di
sfruttare i giovani africani come mezzo per consolidare il potere coloniale divenne palese;
i ragazzi vennero identificati come “i futuri soldati d’Italia”162 e ciò che poteva stimolare
negli studenti un sentimento nazionalista o d’autodeterminazione venne cancellato dai
programmi scolastici, come, ad esempio, lo studio del Risorgimento italiano163.
Gli scopi educativi, e non istruttivi, dell’istituzione scolastica nelle colonie divennero
manifesti, arrivando ad essere enunciati persino nei manuali d’istruzione per l’Africa:
“Nelle scuole elementari si suol dare ai fanciulli l’istruzione e l’educazione morale.
Quale differenza passa tra l’una e l’altra?
[…] L’istruzione mira a fare degli uomini colti, istruiti; l’educazione a formare uomini
onesti e virtuosi. E siccome torna più utile alla società l’uomo onesto, che l’uomo colto,
così l’educazione val più della semplice istruzione la quale se non è confortata dal buon
esempio del maestro, può esser causa di rovina.164”
160 PALMA Silvana, Educare alla Subalternità, in CARCANGIU Maria Bianca, NEGASH Tekeste (a
cura di), L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, Carocci Editore, Roma, 2007,
pag. 212 161 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 71 162 FESTA Andrea, Le istituzioni educative in Eritrea, in AA. VV., Atti del secondo congresso di studi
coloniali, 1934, Firenze, 1935, pag. 294 163 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 71 164 Il brano viene ripreso in PALMA Silvana, Op. Cit., alla pagina 227, e proviene originariamente da
MISSIONE CATTOLICA (a cura di), La colonia eritrea. Manuale d’istruzione italiano-tigrai ad uso
delle scuole indigene, vol. IV, Tipografia Francescana, Asmara, 1917, pag. 176
45
Gli studenti indigeni, educati ma non istruiti, venivano programmati per essere utili al
dominio coloniale, per incastrarsi con le istituzioni create dal governo italiano, per essere
uomini onesti e seri, subalterni al potere degli invasori e fedeli alla bandiera italiana. I
ruoli studiati per gli alunni delle scuole coloniali, furono indirizzati in maggior misura ai
lavori di tipo manuale, con la speranza che questi diventassero sellai, agricoltori,
falegnami, tipografi, fabbri165 o, come sperato dal soprintendente Festa, soldati.
In alcuni casi, come previsto dalla già enunciata legge 3808 del 1921, gli studenti più
meritevoli avevano la possibilità di frequentare un biennio di specializzazione, chiamato
scuola superiore; chi aveva la possibilità di frequentare questi ulteriori due anni di scuola,
non avrebbe dovuto, nella gran parte dei casi, svolgere un lavoro manuale, ma sarebbe
stato impiegato come archivista, insegnante nelle scuole per indigeni, dattilografo o
interprete166. La scuola superiore venne soppressa sin dal 1932 e per tutta la durata
dell’Impero d’Africa Orientale, lasciando agli indigeni la possibilità di intraprendere solo
i tre anni di istruzione elementare167.
L’indottrinamento nelle scuole coloniali e la scarsa durata e qualità educativa del percorso
d’istruzione, furono fautrici di subalternità. Il piano italiano di costruire un impero con
una popolazione indigena di educati non istruiti e fedeli al tricolore riuscì in gran misura,
come ha dimostrato il mancato consolidamento di una élite intellettuale, soprattutto in
Eritrea, al momento della decolonizzazione168.
A proposito dell’istruzione è interessante sottolineare alcuni tratti di una delle
testimonianze raccolte da Irma Taddia, nel già nominato Autobiografie Africane: a parlare
è A.W., nato in Eritrea nel 1914169. L’eritreo A.W., poté raggiungere, grazie alle sue
capacità, il massimo grado d’istruzione consentito agli studenti africani nel dominio
coloniale italiano. Da giovane sperò di poter proseguire gli studi in Italia, ma, come
spiega, le sue speranze svanirono:
“Alla fine della terza ginnasio ho avuto il secondo premio e allora avevo sedici anni e
noi speravamo di andare subito a Roma dove c’era il collegio etiopico, ma l’opinione dei
nostri direttori era diversa. Dicevano, se mandiamo questi a Roma a sedici anni
scappano e diventano dei vagabondi e lasciano i loro studi, perché la vita in Italia è
165 PALMA Silvana, Op. Cit., pag. 228 166 Ibidem, pag. 229 167 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 72 168 Ibidem, pag. 84 169 A.W. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 60-63
46
diversa dalla nostra. Loro si preoccupavano di questo e invece noi avevamo solo quel
pensiero.170”
Questo breve estratto della testimonianza palesa la volontà italiana di educare e non
istruire da parte dell’amministrazione coloniale; A.W. era già uno strumento utilizzabile
per il funzionamento della colonia, un ulteriore sforzo educativo sarebbe stato inutile se
non deleterio, in quanto, secondo il punto di vista dei suoi direttori, il ragazzo, come tutti
gli altri africani, sarebbe stato incapace di relazionarsi con la vita occidentale.
A.W. svolse, dunque, i lavori predisposti dall’amministrazione coloniale per un indigeno
con la sua istruzione: scrivano, interprete, maestro ed impiegato per l’amministrazione
coloniale, prima in Italia e poi nuovamente in Africa Orientale, lavorando per l’autorità
imperiale fino al 1941. L’eritreo, pur avendo un ricordo generalmente positivo della
presenza italiana, fa un ragionamento in chiusura di testimonianza in gran parte
assimilabile a quello dello studioso Tekeste Negash riguardo i rapporti causa-effetto del
sistema scolastico italiano sul Corno d’Africa decolonizzato:
“Molte cose hanno fatto gli italiani nell’impero. Ma se c’è una cosa che gli italiani non
hanno sentito è l’educazione, in Etiopia e in Eritrea. Nessuna istruzione ci è stata data
durante gli italiani, e questa è una colpa molto grande, davvero. E l’importanza
dell’educazione si è vista successivamente, quando siamo rimasti soli a governare. Gli
italiani hanno sbagliato grandemente in questo senso: non ci hanno istruito, in più hanno
distrutto la nostra classe dirigente durante l’impero. Non era una politica da farsi, questo
no.171”
Un altro lavoro interessante svolto dai pedagogisti che presero in carico la stesura
programmatica della realtà scolastica coloniale, fu lo sforzo di assimilazione culturale
dello studente africano. Il giovane educando del Corno d’Africa si doveva sentire fiero di
essere sottoposto alla gloriosa nazione italiana, ragion per cui i testi utilizzati per le
scolaresche, senza grandi differenze tra periodo liberale e periodo fascista, ebbero una
veste ed una verve fortemente patriottica172. Il richiamo terminologico alla grandezza
italiana e la volontà di farne sentir parte – sebbene in veste subalterna – il colonizzato si
palesarono nei manuali di studio attraverso espressioni figlie di un nazionalismo
170 A.W. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 63 171 Idem 172 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 72-73
47
spicciolo; fu costante la ricorrenza di locuzioni come: “[Italia]giardino del mondo”,
“Madre-Patria” o “cara Patria”173.
Il lavoro di assimilazione non fu subordinato alla semplice retorica nazionalista; nel breve
corso di studio previsto per i giovani africani erano presenti costanti richiami alla
grandezza ed all’ingegno tipici dell’Italia: in un volume scolastico intitolato Uomini
illustri del lavoro, della scienza e della carità174 , si parla di sessanta tra ingegneri,
architetti, scienziati, artisti, industriali, uomini d’affari, letterati, esploratori, militari,
ecclesiastici, politici, filantropi e missionari, tutti, senza eccezione alcuna, italiani. La
volontà palese è quella di far apparire all’alunno l’Italia come la più grandiosa nazione
del mondo175, l’unica fautrice di arte, cultura, scienza e storia.
L’Africa, ovviamente, non aveva alcuna dignità storica. Non sorprende che nell’ottica
colonizzatrice lo sguardo non andasse oltre l’Hic sunt leones di latina memoria. Ciò che
è necessario sottolineare, ma che risulta facilmente intuibile ed in linea con il
ragionamento fin qui svolto, è il modo in cui la letteratura scolastica affrontò la questione
coloniale: l’Italia fu ovviamente portatrice di civiltà, morale e sapere economico, capace
non solo di dare un netto e costante miglioramento al tenore di vita degli est-africani, ma
anche di consegnargli un’appartenenza nazionale176. Quest’ultimo aspetto è cruciale per
quanto concerne l’assimilazione culturale. Comunica il cambiamento tra passato e
presente; è un’imposizione mentale che forza la mano e narra che prima dell’Italia, nel
Corno d’Africa vi era il nulla: barbarie, divisioni, nessun ordine morale, nessuna storia.
Sotto il tricolore, anche gli africani divennero parte della storia, come sudditi della più
grande nazione nella storia del mondo.
Economia coloniale e lavoro subalterno
Come abbiamo visto in precedenza, l’idea di colonialismo demografico e di piena
occupazione lavorativa tramite la conquista dell’Impero fu un fallimento177, il costo della
manodopera italiana troppo caro per governo e appaltatori italiani, che scelsero di
ripiegare sul lavoro indigeno, sostenibile dal punto di vista economico e senza
condizionamenti legati alla sicurezza lavorativa o alla mole ed alla durezza dei compiti
173 PALMA Silvana, Op. Cit., pag. 231 174 MISSIONE CATTOLICA (a cura di), Uomini Illustri del lavoro, della scienza e della carità, libro di
lettura Italiano-Tigrai ad uso delle scuole indigene, Vol. V, Tipografia Francescana, Asmara, 1917 175 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 74 176 Ibidem pagg. 75-78 177 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pag. 199
48
da svolgersi178. Il sistema educativo coloniale era costruito per plasmare dei lavoratori
fedeli ed orgogliosi di essere sottoposti, sfruttabili dallo stato e dagli imprenditori italiani.
L’esercito fu sicuramente il settore ove i colonizzati dell’Africa orientale – ed in
particolare gli eritrei – vennero maggiormente sfruttati: secondo alcune stime, nel 1935,
e quindi all’alba dell’invasione ai danni dell’Impero di Haile Selassie, gli eritrei impiegati
nelle forze armate furono 60.200, oltre il 40% della popolazione maschile adulta ed attiva
della colonia primigenia179. L’idea di Andrea Festa, che vide gli studenti tigrini nel ’34
come i futuri soldati d’Italia180, era già fortemente supportata dall’evoluzione che la
colonia ebbe dalla sua fondazione sino a quel momento: gli eritrei parteciparono
attivamente a tutte le campagne militari italiane in Africa, dalle lotte alla resistenza
somala alla campagna di Libia, dagli stazionamenti sulle frontiere fino alla conquista
dell’Etiopia181. Proprio l’appena nominata campagna d’Etiopia portò ad una mutazione
radicale nel ruolo dell’ascaro: scomparve l’esercito di volontari attratti dalla buona paga,
e dal 1935, fino alla caduta dell’Impero, la coscrizione dei giovani eritrei nell’esercito
italiano divenne obbligatoria182.
Oltre ai 60.000 Eritrei impiegati nel ’35, vi furono ben 20.000 Somali183 facenti parte
dell’esercito coloniale italiano: un numero enorme, atrofico, considerata la demografia
della zona costiera del corno d’Africa, ma necessario, secondo De Bono e Badoglio, per
conquistare la terra del negus184. L’utilizzo di così tanti uomini nell’esercito provocò un
grave collasso nell’economia agricola di sussistenza, che vide, nel 1939, il crollo dei due
terzi della sua produzione alimentare185.
Mentre gli Eritrei venivano sfruttati dal regime per occupare l’Etiopia, gli Abissini furono
impiegati dal governo coloniale per sostituire la manodopera italiana, troppo costosa,
nella costruzione delle infrastrutture. Le paghe corrisposte agli Etiopi furono di gran lunga
più alte rispetto a quelle che gli stessi ottenevano sotto il negus; i ben 750 mila che alla
vigilia della costituzione dell’impero lavoravano alle dipendenze italiane ottennero salari
da 7 a 15 lire quotidiane: paghe spesso considerate troppo esose dagli ufficiali coloniali,
178 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pag. 162 179 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pag. 51 180 Cfr. pag. 40 181 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 48-49 182 VOLTERRA Alessandro, Sudditi Coloniali, Ascari eritrei 1935-1941, FrancoAngeli Editore, Milano,
2005 183 NEGASH Tekeste, Italian Colonialism in Eritrea 1882-1941, Op. Cit., pagg. 48-49 184 VOLTERRA Alessandro, Op. Cit., pagg. 72-79 185 Ibidem, pag. 51
49
ma maggiormente sostenibili rispetto a quelle degli omologhi italiani, la cui presenza si
ridusse dalle 146.681 unità del 1936 alle 23.801 del 1939186.
Ben più dura fu la situazione per i colonizzati della sponda sud dei possedimenti italiani.
La carenza di manodopera dell’area portò i Somali a trovarsi in una situazione di
subalternità ben più gravosa, rispetto agli Eritrei ed agli Etiopi. Nel 1929 fu reintrodotto,
nella colonia della Somalia italiana, l’obbligo di lavoro coatto per gli indigeni nelle tenute
agricole degli italiani187, una situazione vicina alla schiavitù di cui parleremo in un
paragrafo a parte.
La concezione dell’aspetto lavorativo raccolta nelle testimonianze del volume di Irma
Taddia è ondivaga. Nelle autobiografie non si riscontra certo una coscienza di classe né,
tantomeno, una coscienza individuale di colonizzato: gli intervistati non si sentono
sfruttati, ma manifestano una sorta di riconoscimento verso il governo italiano che pagò
loro i salari.
Nel caso dell’ascaro M.G., eritreo del 1913188, è palese l’ammirazione nei confronti
dell’amministrazione italiana, l’accettazione dello sfruttamento, l’assimilazione culturale
riuscita. M.G., nato durante l’occupazione italiana dell’Eritrea, ricorda nostalgicamente
il dominio italiano e le sue condizioni di vita durante il suo periodo da ascaro:
“Io ai tempi degli italiani stavo bene, avevo la paga di graduato, avevo tre strisce rosse,
ero scium basci, che era come sergente o caporale maggiore. La paga era buona, io
prendevo 1200/1400 lire italiane. A quel tempo la vita era buona, non come oggi. In quel
periodo stavamo veramente bene. Adesso io sono invalido di guerra, sono stato ferito ad
Amba Alagi con le schegge dei cannoni, e ho avuto un certificato di invalidità dal dottore
italiano. Ogni tre mesi vado ad Asmara a prendere la pensione; prima era scarsa, adesso
l’hanno aumentata fino ad arrivare a 120/130 birr ogni mese; quindi adesso sto meglio
di prima189.”
M.G. muove poche critiche all’Italia. A turbarlo non è tanto la sua condizione di guerriero
nelle campagne di conquista contro gli altri popoli africani, ma la situazione di
186 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Op. Cit., pagg. 186-
187 187 CALCHI NOVATI Gian Paolo, Op. Cit., pagg. 186-188 188 M.G. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pagg. 54-56 189 Idem
50
segregazione venutasi a creare in seguito alle leggi razziali ed il fatto che sia mancato, nel
periodo successivo alla colonizzazione, un supporto italiano all’Eritrea indipendente.
La gran parte delle fonti orali raccolte da Irma Taddia sono in pieno accordo con la
testimonianza di M.G.190: parlano di una situazione generalmente buona ed accettabile,
di impieghi e salari giusti, di una condizione sociale divenuta insopportabile solo con
l’avvento delle leggi razziali nel 1937. Tale concezione della società da parte del
colonizzato dell’Africa Orientale Italiana è ben esplicabile attraverso il primo lavoro di
Frantz Fanon, Peau Noire, Masques Blanc191. Lo studioso francese sottolinea come nelle
realtà coloniali si venga a creare una situazione di sudditanza psicologica del colonizzato
nei confronti del colonizzatore: è lo stesso dominatore a creare l’inferiore 192 .
Psicologicamente, inconsciamente, il colonizzato accetta questa situazione come
naturale, concependo la naturalezza anche della condizione stessa di subalternità. Al
contempo, è utile ricordare come le popolazioni del Corno d’Africa non abbiano goduto
di tranquillità e sviluppo nel secondo dopoguerra: continue difficoltà, carestie, dittature,
guerre di secessione e colpi di stato si sono susseguiti in tutta la seconda metà del XX°
secolo. Le continue difficoltà dopo la fine del colonialismo italiano possono aver attivato,
nel ricordo del vissuto degli est-africani, un meccanismo che porta ad associare
l’occupazione straniera ad una fase di relativa tranquillità e stabilità.
Le testimonianze raccolte, però, raccontano storie differenti, di esperienze di vita diverse
e di conseguenti elaborazioni più o meno positive, raffinate o subordinate alla situazione
psicologica del colonizzato descritta sopra. Una testimonianza opposta al punto di vista
di M.G. è quella di F.A., nato in Eritrea nel 1909:
“Noi eravamo costretti a lavorare per l’Italia, eravamo senza scelta, per mantenere noi
e le nostre famiglie numerose nelle nuove condizioni di vita del colonialismo. Non era
sempre un compito facile, il nostro. Per questa ragione noi abbiamo cercato di migliorare
la nostra educazione, abbiamo avuto sempre un certo atteggiamento benevolo con
l’amministrazione coloniale. Nel complesso i governi che si sono succeduti in Italia
hanno creato una situazione di difficoltà nella vita quotidiana e nei rapporti
africani/bianchi. Ma dobbiamo constatare che come popolo, abbiamo avuto degli amici
190 Si vedano, nello stesso volume, le deposizioni di: Y.K., nato nel 1916 in Eritrea, pagg. 63-65, M.I.
nato in Eritrea nel 1911, pagg. 65-68, A.A. nato in Eritrea nel 1916, pagg. 68-70, S.M. nato in Eritrea nel
1928, pagg. 73-75 191 FANON Frantz, Peau Noire, Masques Blanc, Editions du Seuil, Parigi, Francia, 1952 192 Ibidem, pagg. 61-65
51
fra gli italiani, e che ci sono state fra loro delle brave persone, questo non lo si può
negare. Privatamente una persona può essere cattiva, un’altra persona buona, da un
punto di vista personale ci sono sempre in ogni nazione dei cattivi e dei buoni.
Ma se ripensassimo alla nostra vita qui in colonia, dobbiamo confessare che nel
complesso noi nativi siamo stati frustrati, sia nel campo sociale sia nel campo educativo.
Non abbiamo avuto molto dal governo coloniale e ce ne siamo resi conto in un secondo
momento. 193”
In questa testimonianza non è difficile notare il pressante sentimento di subalternità
provato da F.A.: parla di costrizione al lavoro, di nuove condizioni di vita, di un governo
coloniale che non è stato capace di dare, ma solo di sfruttare.
La testimonianza di F.A. è valida esattamente come quella di M.G., ed entrambe vanno
interpretate a seconda del punto di vista e del vissuto di chi parla. L’interpretazione delle
conseguenze psicologiche portate dal colonialismo discussa in precedenza non vuole
screditare le voci subalterne che si schierano a favore della presenza italiana, bensì è da
intendersi come ulteriore strumento di lettura della testimonianza.
L’analisi delle fonti subalterne ed i dati storici raccolti sul tema del lavoro, ci raccontano
di una sicura condizione di sottoposizione delle popolazioni indigene durante il dominio
italiano. Ciò che appare ovvio, è che in nessuno dei casi registrati da Irma Taddia si possa
notare l’emancipazione o l’ascesa sociale di un africano ai tempi del colonialismo: il
razzismo istituzionalizzato, l’educazione alla subalternità, la mancanza di forme di
indirect rule, hanno creato una popolazione fortemente sottoposta, ed in alcuni casi
contenta di esserlo.
I subalterni che non possono parlare, il caso somalo e lo schiavismo nello
Uebi Scebeli
Nel volume curato da Irma Taddia, unica fonte di testimonianze subalterne del
colonialismo italiano nell’Africa orientale, non si trova traccia di testimonianze somale.
L’autrice giustifica questa mancanza con la situazione di guerra civile venutasi a creare
in Somalia al principio degli anni ’90, che le ha reso impossibile lo svolgimento di un
193 F.A. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 80
52
lavoro simile a quello svolto in Eritrea e in Etiopia194. La voce dei subalterni somali è,
probabilmente, andata persa per sempre.
Nelle Autobiografie, troviamo brevi riferimenti che ci introducono ad un modo di
amministrare la colonia e di trattare il suddito in maniera differente rispetto al resto del
Corno d’Africa. Il già citato F.A., eritreo, racconta di aver osservato, durante la sua
esperienza lavorativa in Somalia, una sottoposizione più marcata per i sudditi somali
rispetto agli eritrei:
“Lì veramente, in Somalia, si poteva vedere apertamente la frustrazione tra il suddito
coloniale e il nazionale italiano. La differenza maggiore consisteva nel fatto che il suddito
coloniale aveva una posizione nettamente inferiore, sia come paga, sia come abitazione
e modo di vita. In Eritrea allora non si poteva ancora vedere questa divisione, che verrà
solamente in un periodo successivo195”
La visione di F.A., per quanto parziale, coincide con la realtà. Nel corso del fiume Uebi
Scebeli, maestoso corso d’acqua che dall’altopiano etiope sfocia nelle coste somale
bagnate dall’Oceano indiano, il colonialismo italiano diede sfogo alla sua vena più
autenticamente razzista e frustrante verso i sudditi africani. Lungo le rive somale dello
Uebi Scebeli sorgeva un enorme comprensorio, creato tramite una diga fissa che permise
la diramazione in 54 chilometri di canali, rendendo fertili 18.000 ettari di terra, suddivisi
in 83 concessioni molto ampie196. La manodopera agricola era totalmente indigena, ben
7.000 somali si occuparono della coltura delle piantagioni di cotone, ricino, mais, canna
da zucchero, banane, incenso e kapok197.
Lo sfruttamento dei lavoratori somali venne giustificato dal governo fascista come ovvia
risposta alla carenza di manodopera della colonia somala: il passo tra coercizione a
schiavismo, fu, come vedremo, alquanto breve. In principio, i sudditi coloniali, ebbero
dei turni obbligatori (salariati) bimensili o semestrali nelle concessioni italiane; ciò non
fu sufficiente a garantire l’autosufficienza economica ed alimentare della colonia, ragion
194 TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 12 195 F.A. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 79 196 DEL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, pag. 162 197 Idem
53
per cui, dal lavoro a tempo si passò al lavoro coatto, con l’obbligo per il suddito di
permanenza a tempo pieno nel comprensorio, al servizio del concessionario italiano198
A parlarci delle condizioni di sottoposizione dei somali nelle aziende agricole italiane
senza indorare la pillola, è una fonte quantomeno desueta per l’argomento in questione,
ovvero il governatore fascista della colonia Marcello Serrazanetti, che nel suo
Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia199 , denuncia l’insostenibile
situazione di schiavismo perpetrata nei possedimenti agricoli italiani. Ciò che sorprende,
nello scritto del Serrazanetti, non è solo la chiarezza con cui muove accuse ai
concessionari terrieri, ai governatori locali, al ministero delle colonie ed al capo dello
Stato, ma anche la sua critica al colonialismo ed alla sua sedicente missione civilizzatrice,
pur mantenendo intatta una forte componente razzista, egemone culturalmente nella
mentalità imperialista200.
Il governatore fascista, nella sua relazione non scevra di particolari, ci permette di
conoscere in maniera abbastanza approfondita la situazione dei somali sfruttati nelle rive
dello Uebi Scebeli. Serrazanetti, scrive di schiavitù, o meglio, di una situazione da lui
ritenuta addirittura peggiore:
“Il lavoro forzato che s’impone da alcuni anni ai nativi della Somalia, invano cinicamente
mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro, è assai peggiore della vera schiavitù,
poiché laggiù è stata tolta al lavoratore indigeno quella valida tutela dello schiavo che
era costituita dal suo valore venale, tutela che gli assicurava almeno quel minimo di cure
che l’ultimo carrettiere ha per il suo asino, nella preoccupazione di doverne comprare
un altro se quello muore. Mentre in Somalia quando l’indigeno assegnato ad una
concessione muore o diviene inabile al lavoro, se ne chiede senz’altro la sostituzione al
competente Ufficio Governativo che vi provvede gratis. I lavoratori assegnati alle
concessioni, vengono prelevati dalle Cabile ritenute le più devote e le più docili, quelle
cioè che, si pensa, daranno meno noie. Ad ogni Cabila prescelta, viene richiesto un dato
contingente di famiglie, lasciando ai capi l’incarico di sceglierle o comporle, sotto un
molto relativo e nominale controllo dei Residenti.201”
198 PODESTÀ Gianluca, L’Equilibrio Artificiale, in MOCARELLI Luca (a cura di), Quando manca il
pane, Origini e cause della scarsità delle risorse alimentari in età moderna e contemporanea, Società
Editrice il Mulino, Bologna, 2013, pag. 198 199 SERRAZANETTI Marcello, Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia, Tipografia La
Rapida, Bologna, 1933 200 Ibidem, pag. 5-14 201 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 10-11
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Si noti l’accento posto dal federale sull’aspetto della coercizione, e su come la scelta
ricadesse sulle comunità già pacificate, arrendevoli e disposte a sacrificare i propri
lavoratori più validi. L’immagine accurata che Serrazanetti dipinge delle carovane di
Somali trasferite dai villaggi di residenza fino alle concessioni dello Uebi Scebeli, è
quanto di più vicino a ciò che l’immaginario comune riconosce come schiavitù:
“Le colonne dei lavoratori maschi e femmine, vengono poi avviate a destinazione,
qualche volta ad oltre cento chilometri di distanza, a piedi e sotto la vigilanza di una
scorta armata. Quando vi sia qualche ricalcitrante o si abbia tema di qualche tentativo
di fuga, i componenti la colonna, tutti o in parte, vengono legati gli uni agli altri con delle
funi, assicurando così una più facile sorveglianza.202”
Oltre alla “tratta”, nel memoriale del governatore fascista vengono esaminate le modalità
d’impiego degli schiavi somali: il contratto veniva enunciato alle reclute, di seguito
forzate a porci sopra un’impronta (un rifiuto del contratto lavorativo da parte
dell’indigeno, come già si può intendere, non era possibile), per essere poi
immediatamente poste al lavoro agricolo203.
All’interno del comprensorio, i Somali lavoravano sino alle dodici ore giornaliere, con
razioni di cibo scarse che venivano addirittura dimezzate o sospese nel caso in cui il
rendimento fosse inferiore a quello sperato dal concessionario 204 . Ogni tentativo di
ribellione venne sedato con la violenza o l’imprigionamento; tutt’altro che rari furono i
casi di fuga o di suicidio (ritenuto da Serrazanetti fatto rarissimo tra i somali)205.
Serrazanetti offre un breve quadro anche delle condizioni abitative a cui gli schiavi e le
schiave africane dovettero sottostare, ponendo l’accento su come questo favorisse la
promiscuità:
“[…] dopo il lavoro, dormono ammassati promiscuamente in poche capanne o
addirittura all’addiaccio. Vi rimangono per un paio di mesi, ritornando poi ai loro
villaggi, mai nello stesso numero, molti ammalati e in quanto alle femmine, in buona
parte deflorate, fatto questo che per la morale indigena può avere un valore relativo ma
che rappresenta sempre per la famiglia una ragione di cruccio e di risentimento, non
202 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 10-11 203 DEL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Op. Cit., pag.165 204 Idem 205 Ibidem pagg. 166-167
55
foss’altro per la diminuita possibilità di collocamento e per il diminuito valore della
ragazza quando si presenta l’occasione di venderla ad un marito.206”
La lamentela del federale venne sottaciuta dal governo fascista, che si impegnò a
sostituirlo ed a distruggerne l’immagine207. Il regime, nella persona di Emilio De Bono,
tacciò Serrazanetti di insinuare menzogne prive di fondamento; egli, dopo aver osservato
la situazione somala, affermò in una lettera a Mussolini che “la manodopera indigena
[…] è ora sufficientemente e giustamente pagata”208. Lo schiavismo bianco, in realtà,
andò avanti fino alla caduta dell’Impero nel 1941209.
I subalterni somali non possono parlare; la loro testimonianza è stata erosa dal tempo e
dalla sorte (sempre che di sorte si possa parlare) non benevola del Paese. Il documento di
Serrazanetti, per quanto velato da un costante razzismo, è l’unica fonte dettagliata di ciò
che avvenne negli anni del dominio fascista sulle rive dello Uebi Scebeli: è un tassello
della storia integrale del Corno d’Africa, importante soprattutto perché ci mostra le
particolari condizioni di sottoposizione subite dalle popolazioni somale, ammutolite dalla
storia e subalterne tra i subalterni.
Leggi razziali e segregazione, un punto di vista africano
Nelle Autobiografie le critiche mosse al colonialismo italiano da parte degli intervistati
riguardano soprattutto la segregazione razziale nel periodo fascista. La situazione mutò
nel 1937, con la fondazione dell’Impero e, ancor di più, nel 1938, con l’adozione delle
leggi razziali. Sebbene le leggi razziali fasciste siano passate alla storia maggiormente per
la persecuzione degli ebrei italiani, la prima di queste, il regio decreto legge n. 880 del
1937 – di cui parleremo in seguito – riguardò in maniera diretta la vita di colonia
nell’Africa Orientale italiana.
Nel mestamente famoso Manifesto della razza 210 , l’Africa viene nominata solo
all’articolo 8, ove si sostiene che sia “necessario fare una netta distinzione fra i
Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra.
Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di
alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le
206 SERRAZANETTI Marcello, Op. Cit., pagg. 18-19 207 EL BOCA Angelo, Italiani, brava gente?, Op. Cit., pagg. 167-168 208 Idem 209 Idem 210 AA.VV., Manifesto della razza, in La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, pag. 2
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popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche
assolutamente inammissibili.211”
La scarsa problematizzazione della realtà africana nel Manifesto, non deve far credere che
nel dominio del Corno d’Africa non vi fosse una forte connotazione razzista. Il tema della
superiorità bianca – presente in Africa da ben prima della salita al potere di Mussolini –
ebbe nuovo vigore con l’istituzionalizzazione del razzismo del ’38, traducendosi in azioni
pratiche.
I già citati212 piani urbanistici per le città italiane d’Africa stilati tra il ’37 ed il ‘40, per
quanto rimasti in gran parte su carta e mai applicati, erano fortemente intrisi del rinnovato
orgoglio nazionalista e razzista. Nella pianificazione delle città portata avanti dagli
ingegneri ed architetti di regime era prevista una suddivisione in due zone abitative: una
interna, rinnovata ed “europea” per i coloni, ed una esterna per gli indigeni213 . La
separazione venne presentata in diverse forme dagli addetti ai lavori, ad Addis Abeba,
Marco Pomilio propose “una grande fascia verde di 500 metri di larghezza, formata in
prevalenza da eucalipti, [che] separerà la città indigena dal complesso dei nuclei
metropolitani. Separazione non brusca e scostante, dunque, ma garbata e fragrante:
anche in questo la fiera intransigenza del nostro razzismo si accoppia armonicamente
alla natura gentilezza del nostro animo latino214”, mentre Contardo Bonicelli propose,
una soluzione ben più rigida: “le arterie di collegamento fra l’una e l’altra città devono
essere nel numero strettamente necessario e disposte in modo che ne sia facile la
sorveglianza ed il controllo ed, eventualmente, lo sbarramento: e ciò sia per misure
igieniche sia per eventuali misure militari. Si dovrà giungere a non permettere agli
indigeni l’accesso alla città nazionale se non previo un passaggio attraverso una stazione
di bonifica umana: la distruzione dei parassiti e la disinfezione del vestiario dovranno
esercitarsi in misura totalitaria.215”
Indipendentemente dall’idea di segregazione, gentile o totalitaria, lo scopo del regime
fascista fu di garantire una netta divisione tra la città italiana ed il sobborgo indigeno.
Come abbiamo già accennato, il piano urbanistico restò intentato, bloccato dall’arrivo del
secondo conflitto mondiale e dalla dissoluzione dell’Impero, ma nella società coloniale
211 AA.VV., Manifesto della razza, in La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, pag. 2 212 Cfr. pag. 32 213 DEL BOCA Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, 3. La caduta dell’impero, Op. Cit., pagg. 169-
173 214 Idem 215 Ibidem pag. 172
57
penetrò (o forse s’amplificò) la pratica razzista della separazione e della segregazione
degli spazi pubblici.
Per quanto possa apparire strano, per gli intervistati nelle Autobiografie della Taddia, il
maggiore elemento di disturbo – nonché il maggiore catalizzatore del sentimento
anticoloniale ed anti-italiano – fu proprio il razzismo palesato tramite la separazione degli
spazi pubblici. Vediamo, di seguito, alcuni esempi significativi di testimonianza a
riguardo, sebbene l’elemento anti-segregazionista appaia ricorrente in quasi tutte le
interviste raccolte. Gli eritrei M.G. e Y.K. parlano di uno stacco netto nei rapporti con la
comunità italiana tra il periodo precedente alla conquista dell’Etiopia e la creazione
dell’Impero (da questi erroneamente indicata come fascismo):
“Gli italiani erano buoni, sì, ma c’erano numerose discriminazioni, ad esempio nei bar,
nei ristoranti, nei negozi. Ci davano da mangiare separatamente, non potevamo unirci
agli italiani, e in questo ci hanno fatto del male. Ma questo era un ordine di Mussolini,
non era così nel periodo di prima. I fascisti hanno fatto queste cose, prima i tempi erano
migliori. Gli italiani e noi vivevamo insieme, senza problemi, bevevamo insieme,
mangiavamo e bevevamo, e loro spesso ci offrivano perché avevano una buona paga.216”
“Dopo la venuta del fascismo, ci fu però una discriminazione di razza che aveva portato
molto malcontento fra la popolazione, ma prima del fascismo c’era una gran stima degli
italiani. Durante il fascismo si poteva vedere un grande razzismo, noi non potevamo
frequentare i bar né gli altri luoghi pubblici, ma prima questo non c’era. Noi non
potevamo reagire, abbiamo dovuto piegarci a queste leggi, obbedire, quindi tutto è
cambiato.217”
Può sorprendere che gli intervistati, testimoni della sopraffazione territoriale,
dell’impossibilità di reclamare un sentimento nazionale, delle infinite battaglie e degli
stermini perpetrati dall’Italia in Africa, portino alla luce come principale elemento
negativo del dominio coloniale il turbamento della quotidianità dovuto alla segregazione
razziale. Senza dover forzare la mano fornendo elucubrazioni psicologiche di queste
testimonianze, può essere interessante analizzarne alcuni elementi sociali e storici che
potenzialmente hanno influenzato la narrazione degli intervistati: la totalità delle voci
subalterne raccolte in Autobiografie che lamenta la segregazione come il peggior male
del dominio italiano, viene da eritrei nati e cresciuti sotto la dominazione italiana e,
216 M.G., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 56 217 Y.K., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit., pag. 64
58
quindi, quantomeno abituati alla condizione di subalternità data dall’occupazione
coloniale e da tutto ciò che ne consegue. Nel corso della vita degli intervistati, dunque, la
più grande mutazione in negativo del colonialismo italiano è stata lo sconvolgimento del
modus vivendi causato dalla segregazione razziale; oltre a ciò, si può aggiungere che le
interviste siano state registrate tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando
la denuncia dell’apartheid nella Repubblica Sudafricana – avente importanti elementi in
comune con la segregazione nell’Africa Orientale Italiana – divenne un tema dibattuto
globalmente.
La segregazione è ben presente non solo nelle memorie africane, ma anche in quelle degli
italiani che sono stati in Africa durante il periodo coloniale: alcune di queste si trovano
nel volume parallelo ad Autobiografie Africane, intitolato La memoria dell’Impero218;
sempre edito da Irma Taddia, realizzato tramite interviste fatte agli italiani d’Africa. Uno
di questi, S.G., mirandolese di stanza in Somalia, ricorda:
“A Mogadiscio non c’era razzismo, fra noi italiani. Solo i fascisti dichiarati erano un
po’prepotenti, non volevano vedere un italiano vicino ad una nera, assolutamente. Uno
poteva essere rimpatriato e punito. In generale gli italiani non frequentavano i locali per
indigeni, come anche viceversa, e quest’ultimo obbligo era molto più stretto. Non si
poteva, e la maggior part di noi poi non lo voleva affatto. Io non sono mai entrato in un
loro bar, e credo tutti facessero lo stesso. C’era separazione, ma i trasporti ad esempio
erano misti. Negli autobus i neri avevano però una loro zona, giù in fondo, e non potevano
sedere vicino ai bianchi, per evitare il pericolo di contagio e malattie.
In realtà, nella vita di ogni giorno, le cose andavano diversamente. La maggior parte
degli italiani, lì a Mogadiscio, era senza moglie, e aveva la cosiddetta «madama», una
donna locale, di servizio ma anche come convivente. Io l’ho avuta per tutto il tempo che
sono stato lì senza avere mai noie, perché la facevo passare come donna di servizio, e
nessuno era in grado di controllare. Ho avuto anche un figlio, da una donna somala. Fra
neri e bianchi comunque non ci si poteva sposare. Ognuno aveva delle scappatoie
[…]219”
La testimonianza di S.G. conferma la segregazione registrata nelle testimonianze degli
indigeni, ma a differenza degli africani, si nota bene come per lui, e probabilmente per gli
altri italiani, questa non costituisse un problema. L’intervista ci permette di osservare
218 TADDIA Irma, La memoria dell’impero, autobiografie d’Africa Orientale, Piero Lacaita Editore,
Manduria, 1988 219 S.G. in TADDIA Irma, La memoria dell’impero, Op. Cit. pag. 90
59
quanto fosse semplice per i coloni aggirare le direttive razziste e, soprattutto, ci permette
di introdurre una tematica di massima importanza: il madamato.
Il madamato e l’assenza di una prospettiva storica femminile e africana
nell’Oltremare italiano
L’oggettificazione del genere femminile fu prassi molto diffusa nel colonialismo italiano
in Africa Orientale 220 . Le donne del Corno d’Africa furono spesso forzate alla
prostituzione o divenivano madame dei benestanti italiani che migravano verso
l’oltremare221. La pratica del madamato consisteva nella relazione temporanea, ma non
occasionale, tra un colone italiano ed una donna africana222.
Il concubinaggio e la prostituzione furono forme di sfruttamento estremamente ricorrenti
sin dalla nascita della colonia eritrea223; giustificati dall’assenza di donne italiane in
territorio africano, i coloni furono incoraggiati a sfogare le proprie voglie con le donne
indigene soprattutto dalla cultura popolare razzista, che vedeva nelle donne africane una
sessualità esotica e selvaggia224.
Non fu tanto la prostituzione a preoccupare il regime fascista, quanto il madamato. La
pratica divenne enormemente diffusa, tanto da attivare Rodolfo Graziani, che, nel 1932,
estese una circolare relativa alla pericolosità di tale unione225. Il cruccio del federale fu
relativo alla possibilità che le unioni sentimentali con donne africane creassero precedenti
per un “esempio contagioso nel confronto con gli inferiori226”, richiedendo l’apertura di
un più alto numero di case di tolleranza227.
Il concubinaggio divenne, quindi, un reato. Il regio decreto legge n. 880 dell’aprile 1937,
la prima legge razziale, vietò il madamato, punito con l’incarcerazione da uno a cinque
anni228. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente dalla testimonianza di S.G., le
relazioni prolungate con le indigene in Africa vennero facilmente mascherate facendole
220 VOLPATO Chiara, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di
analisi, in AA.VV., DEP Deportate, esuli, profughe – Rivista telematica di studi sulla memoria
femminile, n°10, http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=19900 Venezia, 2009, pag. 123 221 Ibidem pag. 112 222 Idem 223 BARRERA Giulia, Dangerous Liasons, Colonial concubinage in Eritrea 1890-1941, Program of
African Studies, Evanston, Illinois, U.S.A., 1996, pagg. 23-26 224 BARRERA Giulia, Op. Cit. pagg. 8-10 225 GOGLIA Luigi, GRASSI Fabio, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma-Bari, Laterza,
1993, pag. 354 226 Idem 227 Idem 228 AA. VV., Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N 145, 24 giugno 1937, Roma, 1937
60
passare per collaborazioni domestiche ed il fenomeno durò per tutto il tempo della
dominazione italiana.
Purtroppo, sappiamo poco o nulla delle condizioni di vita delle donne tigrine, abissine e
somale forzate al concubinaggio od alla prostituzione. Il loro è un passaggio senza tracce
nella storia; sappiamo solo che durante tutto il periodo coloniale sono state sfruttate:
numeri – si parla di 1.500 prostitute africane nel 1937229 - e corpi da spartire come trofei
di caccia230. Nelle Autobiografie di Irma Taddia non viene intervistata nemmeno una
donna, e nessuno degli intervistati fa cenno al madamato o alla prostituzione; oltre alla
sottoposizione ed al basso sfruttamento sessuale, le donne del Corno d’Africa sono
condannate a non avere dignità storica, ad essere subalterne non in grado di parlare, a una
perenne ed oramai irreversibile damnatio memoriae.
L’utilizzo dei gas nelle testimonianze africane
Una delle tematiche maggiormente dibattute nell’ambito della storiografia post-coloniale
italiana è stata per anni legata all’utilizzo dei gas tossici contro la resistenza nel Corno
d’Africa. L’utilizzo degli agenti chimici e batteriologici costituì, sin dal 1925, con il
trattato di Ginevra, un crimine di guerra231. Il trattato venne violato dall’Italia firmataria
in numerosissimi casi, ma nelle cronache coloniali e post-coloniali, come nei cinque
volumi a tema storico-militare dell’Africa d’Italia, non si trova alcuna traccia dell’utilizzo
dei gas letali.
La prima denuncia dell’utilizzo dei gas si levò nel momento immediatamente successivo
a quello in cui l’utilizzo degli agenti chimici si fece più intenso e forte che mai:
l’Imperatore Haile Selassie, fuggito dall’Etiopia, nell’estate del 1936 intervenne a Londra
alla Società delle Nazioni, sperando che i componenti dell’organizzazione internazionale
intervenissero per fermare l’invasione di uno stato membro. Nell’accorato discorso il
negus esplicò con dovizia di particolari l’utilizzo dei gas da parte degli italiani,
analizzandone tempistiche e sottolineando la violenza e gli ingenti danni che gli etiopi
subirono a causa delle irrorazioni:
229 STEFANI Giulietta, Colonia per maschi, Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre
Corte, Verona, 2007, pag. 134 230 Ibidem, pagg. 136-137 231 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità in DEL BOCA Angelo, I gas di Mussolini,
Editori Riuniti, Roma, 1996
61
“[…] Mai, sinora, vi era stato l'esempio di un governo che procedesse allo sterminio di
un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli
della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici.
[…] L’aviazione italiana ricorse allora ad altri gas. Recipienti di liquido furono gettati
su gruppi armati, ma anche questo mezzo fu inefficace: il liquido colpiva pochi soldati e
i recipienti, abbandonati al suolo, mettevano in guardia contro il pericolo i soldati e la
popolazione. Fu al tempo stesso in cui si svolgevano le operazioni per accerchiare
Macallè, che il Comando italiano, temendo una sconfitta, ricorse ai mezzi che io ho il
dovere di denunciare al mondo. Sugli aeroplani vennero istallati degli irroratori, che
potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici,
diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un
lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini,
armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di
sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di
avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più
volte. Questo fu il principale metodo di guerra. Ma la vera raffinatezza nella barbarie
consistette nel portare la devastazione e il terrore nella parti più densamente popolate
del territorio, nei punti più lontani dalle località di combattimento. Il fine era quello di
scatenare il terrore e la morte su una gran parte del territorio abissino.
Questa terribile tattica ebbe successo. Uomini e animali soccombettero. La pioggia
mortale che veniva dagli aerei faceva morire tutti quelli che toccava con grida di dolore.
Anche coloro che bevettero le acque avvelenate o mangiarono i cibi infetti morirono con
orribili sofferenze. Le vittime dei gas italiani caddero a decine di migliaia […]232”
L’appello di Selassie non fu degno di nota per i giornalisti, gli storici ed in generale per
la coscienza nazionale italiana. Il ricordo venne cancellato e per anni la memoria di quanto
accaduto venne falsificata da tutti coloro i quali scrivevano di colonialismo italiano, fatta
eccezione per Angelo del Boca e Giorgio Rochat. Il primo tra i due intraprese una vera e
propria battaglia per la verità in tutti i suoi scritti, parlandone in tutte le opere citate fino
a questo punto; ad andargli contro – in maniera a volte molto aggressiva – furono
soprattutto la stampa fascista e gli studiosi nostalgici delle colonie233.
232 HAILE Selassie, Appello alla società delle nazioni del 30 giugno 1936, in HAILE Selassie, Discorsi
scelti di sua maestà imperiale Haile Selassie I, tradotti in italiano a cura di F.A.R.I. - Federazione
Assemblee Rastafari in Italia, http://www.ras-tafari.com/download/italiano/Discorsi-di-Sua-Maesta-
Imperiale-Haile-Selassie-I.pdf, pagg. 26-28 233 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità, Op. Cit., pagg. 21-24
62
Il dibattito si chiuse, nel 1996, con l’ammissione dell’utilizzo delle armi chimiche da parte
del governo italiano, con uno scarno e fumoso comunicato dell’allora Ministro della
Difesa Domenico Corcione 234 . L’opinione pubblica si svegliò dal lungo torpore, la
lunghissima lista degli eccidi tramite l’utilizzo dei gas programmati da Mussolini,
Badoglio e Graziani, divenne nota e fu accettata anche da chi, come Indro Montanelli,
presente ed attivo nella guerra all’Etiopia, ebbe cura di negarli strenuamente235.
L’utilizzo delle armi chimiche fu intensivo in tutto il periodo coloniale fascista: un
sistema rapido e sporco per sedare ogni resistenza, capace di incutere terrore anche ai
ribelli più agguerriti. Per dare un’idea della magnitudine dell’utilizzo degli agenti gassosi,
possiamo affidarci semplicemente al conteggio delle bombe chimiche lanciate durante la
guerra d’Etiopia nell’arco di cinque mesi, tra il dicembre del 1935 e l’aprile del 1936;
l’arsenale scaricato sulle teste delle popolazioni d’Etiopia fu pari a 1678 bombe d’iprite
e fosgene (1097 nel fronte nord e 581 nel fronte sud236).
Le testimonianze a riguardo, da parte di chi ha assistito alle stragi chimiche perpetrate dal
regime fascista in Africa, sono molteplici: tutte delineano con chiarezza l’orrore degli
effetti a breve ed a lungo termine dell’utilizzo dei gas. In un saggio di Angelo del Boca,
contenente testimonianze etiopi e straniere sulla guerra chimica, abbiamo la fortuna di
poter trovare l’intervista a ras Immirù Haile Sellase, generale dell’esercito del negus
presente – e sopravvissuto – al primo bombardamento d’iprite:
“Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina
del 23 dicembre, e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo
alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo
abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti
che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno
un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo,
alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano
per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche.
Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore.
Fra i colpiti c’erano anche dei contadini, che avevano portato le mandrie al fiume, e
gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano
234 DEL BOCA Angelo, Una lunga battaglia per la verità, Op. Cit., pagg. 39-41 235 Ibidem, pagg. 43-44 236 GENTILLI Roberto, La storiografia aeronautica e il problema dei gas in DEL BOCA Angelo, I gas
di Mussolini, Op. Cit. pagg. 139-141
63
consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come
combattere questa pioggia che bruciava e uccideva.237”
Il ras mostra con una descrizione nitida e cruda gli effetti dell’iprite: le lunghe agonie e
le urla strazianti sono ricorrenti nella gran parte dei racconti sui bombardamenti chimici
italiani. A venir colpiti non furono solo i militari, ma anche, come appena riportato, civili
dei villaggi vicini e contadini. L’orrore delineato dal generale si ritrova anche nelle
autobiografie etiopi del volume di Irma Taddia; di seguito, ne prenderemo in esame
alcune tra le più significative. N. L. T. T., etiope e facente parte dell’esercito che si oppose
all’avanzata italiana, dedica gran parte della sua intervista alla guerra ed ai metodi
utilizzati dall’esercito italiano per sconfiggere le armate del negus. Vittima egli stesso dei
bombardamenti, racconta:
“Fra quelli che hanno subìto i veleni e i gas italiani, uno dei primi sono stato io. Questi
gas asfissianti emanavano come un odore tremendo e si presentavano con gli effetti
disastrosi come quelli delle bombe, ma noi agli inizi non avevamo capito. Di fatto alle
prime esperienze avevamo pensato che un aereo nemico fosse stato abbattuto da noi e
che stesse cadendo e andavamo avanti per combattere lo stesso. Ma proprio
nell’avanzare, in quel momento tutti quanti di accorgemmo di avere disturbi agli occhi.
Vedevamo ogni cosa annebbiata, non riuscivamo a vedere distintamente a distanza da
una persona ad un’altra e alcuni istintivamente si lavavano il viso e altri non sapevano
che cosa fare. E per questo motivo tanti si sono persi non ritrovando la direzione del
combattimento e fra questi uno ero io.
Nei miei compagni ho visto tante cose tragiche. Alcuni corpi bruciavano davanti ai miei
occhi, altri feriti a morte, si contorcevano senza morire, tra atroci dolori. Adesso a
raccontarlo perde tutto il suo valore; bisognava averlo visto dal vivo, a raccontarlo non
è la stessa cosa. E io sono testimone di tutto ciò.238”
Le testimonianze non arrivano però solo dai campi di guerra, gli abissini ricordano come
i bombardamenti e i gas colpissero in maniera indiscriminata tutti: i civili, i lavoratori, le
donne ed i bambini vennero irrorati dalla pioggia di iprite e fosgene. L’utilizzo degli
agenti chimici intimidì i ribelli e mise in ginocchio l’economia etiope. Il racconto di
237 DEL BOCA Angelo, Le fonti etiopiche e straniere sull’impiego dei gas in DEL BOCA Angelo, I gas
di Mussolini, Op. Cit. pag. 118 238 N.L.T.T., in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit. pag. 138
64
D.W.G.G., giovanissimo all’epoca dei bombardamenti, ci aiuta a comprendere l’impatto
di questa guerra sporca tra i civili etiopi ed il prezzo che questi dovettero pagare:
“Io ero piccolo allora ma non ho dimenticato gli episodi della guerra agli italiani. Mi
ricordo che un giorno, di domenica, quando mio padre era ancora in prigione a Maqalle,
vennero improvvisamente dal cielo cinquanta aeroplani ed iniziarono a volare sopra di
noi. Quando la gente vide questo, tutti presero a fuggire dalle loro case per andare a
rifugiarsi sotto un grande sicomoro. Nel preciso momento in cui la gente fuggiva e gli
aeroplani volavano attorno al sicomoro, una mia sorella, la più grande e un’altra
ragazza erano andate al fiume per prendere acqua. Allora una bomba cadde proprio
davanti a mia sorella, una grande polvere la avvolse, era spaventata. Io non sapevo di
questo perché ero bambino, ma i miei fratelli più grandi di me erano andati giù al fiume
e piangevano, dicevano che la loro sorella era morta. La riportarono a casa ed era tutta
ricoperta di polvere, noi non la riconoscemmo.
Gli aeroplani erano cinquanta o sessanta e bombardavano dappertutto a breve distanza;
tanti furono i morti nei campi e nelle case, e anche molti capi di bestiame avevano subìto
gravi danni.239”
Da queste interviste si comprende come la volontà del regime fascista fosse quella di
ottenere il dominio su un paese stremato, decimato nelle forze, distrutto da armi
impossibili da sconfiggere. Mai come in questo caso la voce dei subalterni si fa forte ed
unitaria per narrare ciò che è stato un terribile dramma umanitario ed un crimine di guerra
da subito denunciato a livello internazionale, non solo dal negus, ma anche da voci esterne
allo stato etiope, come il giornalista del Times George L. Steer, inviato in Etiopia, che già
nel 1936 denunciò l’uso dei gas240. La voce subalterna riesce, in questo caso, a farsi storia,
a dare una visione plenaria e ad essere inserita nella narrazione storica ufficiale. Ciò che
sorprende, in questo caso, è come l’Italia sia riuscita a nascondere e cancellare dai libri di
storia questi avvenimenti per più di cinquanta anni dalla caduta dell’Impero. Lo sforzo di
mistificazione fu eccezionale, dalla narrazione storiografica del colonialismo vennero
cancellate tonnellate di gas, migliaia di bombe, un numero imprecisato – ma sicuramente
elevato – di morti e di feriti.
L’opera di contraffazione de L’Africa d’Italia, del giornalismo fascista e delle memorie
dei gerarchi è il chiaro esempio, forse fin troppo tangibile, di una storiografia egemone
239 D.W.G.G. in TADDIA Irma, Autobiografie Africane, Op. Cit. pag. 149 240 DEL BOCA Angelo, Le fonti etiopiche e straniere…, Op. cit., pag 118
65
che tenta di cancellare la visione subalterna, nonché di un Paese che si rifiuta di fare i
conti con il proprio pesante passato.
Gli Aulò, una testimonianza scomparsa
Il lavoro fin qui proposto sarebbe stato impossibile senza le interviste contenute in
Autobiografie Africane. Il pregio del lavoro svolto da Irma Taddia nell’aver messo per
iscritto queste fonti orali è di averle così incise nella storia, di averle elevate, da
autobiografie singole a storia dei popoli. Purtroppo non sono tante, al di fuori di questo
lavoro, le voci autentiche del Corno d’Africa colonizzato ad essersi salvate.
Un’altra testimonianza orale dell’area di cui abbiamo notizia, ma non riportata o registrata
in alcun modo per ciò che riguarda il colonialismo italiano, sono gli aulò: brevi poesie
dell’altopiano eritreo di ispirazione popolare, più forma artistica che storiografia, ma arte
che porta con sé una testimonianza.
A parlare degli aulò (o massè) è Ribka Sibhatu, nel suo Aulò, canto-poesia dell’Eritrea241,
volume dedicato ai più giovani, in cui ci spiega come questi siano dei canti poetici, spesso
improvvisati e recitati al pubblico, con accompagnamento musicale tradizionale. La
peculiarità che non ha permesso al canto poetico dell’Eritrea di essere conservato e
rimandato è data dal fatto che i componimenti non venissero ripetuti, né tantomeno scritti,
ma solo affidati alla memoria dei presenti. La forma di poesia popolare e pubblica eritrea
è solitamente dedicata a delle figure di spicco, a eroi di guerra o a nemici. Ribka Sibhatu,
nel suo volume, ci propone un aulò che proviene dalla memoria della sua famiglia,
dedicato a Mussolini, dopo la proclamazione delle leggi razziali; ovviamente da questo
non si può ricavare una qualsivoglia narrazione storica, ma è interessante riproporlo, sia
come esempio di arte popolare dell’area, sia per mostrare come la dominazione italiana
fosse argomento dibattuto e criticato negli ambienti sociali africani:
“Aulò…aulò…aulò!
Voglio dire un aulò potente quanto il tuono!
Poiché Mussolini dice tante cose assurde,
Voglio dire un aulò potente quanto il tuono!
O Vergine Maria!
241 SIBHATU Ribka, Aulò canto-poesia dall’Eritrea, Sinnos Editrice, Roma, 2009
66
Se sarai con me, sono sicuro che
Verrai in mio aiuto, poiché hai il potere
Di disfare il progetto umano
O palazzi asmarini! O palazzi asmarini”
Speriamo che sarete occupati da noi abissini!242”
242SIBHATU Ribka, Op. Cit., pag. 62
67
Conclusioni
Le voci subalterne citate si combinano con la storia. Hanno il potere di confermarla,
smentirla o, più spesso, arricchirla di particolari. Portare al centro della narrazione storica
chi ne è solitamente ai margini non è opera facile; tantomeno se il tempo ha seppellito i
testimoni. Il fatto che alcune delle vite dei sudditi dell’Impero siano state registrate senza
filtri, aiuta a comprendere il vivere subalterno in colonia, ma non soddisfa la richiesta di
una ricostruzione della vita quotidiana, delle interconnessioni sociali e familiari: il
sottoposto racconta, attraverso la biografia personale, la storia che subisce.
L’autobiografia, anche affiancata alla storiografia classica e post-coloniale, spiega la
gerarchizzazione razziale, il ruolo dell’indigeno nella colonia, ma non dona un quadro
esaustivo ed unitario di gruppo sociale subalterno o di figura identitaria del colonizzato.
Detto questo, viene naturale porsi la domanda introdotta da Gayatri Spivak, che
contraddistingue il lavoro sulla storia della subalternità: i subalterni possono parlare? Un
no retorico, come quello proposto dalla studiosa indiana nel suo saggio “Can the
Subaltern speak?”, non è, in questo caso, una risposta soddisfacente, così come non lo è
una semplice asserzione. Come scritto sopra, le voci dei colonizzati tendono a narrare la
storia subita, uniformandosi, in alcuni casi, alla visione egemone; al contempo, però,
riescono ad arricchire la narrazione con la concezione personale ed unica del dominio
esterno. Questo elemento, ben più profondo della mera dicotomia tra concezione positiva
o negativa del dominio coloniale, dona dignità storica alla voce subalterna. Il giudizio
dato dal colonizzato sul potere egemone è ben più importante del particolare storico nella
sua ricostruzione; a differenza della narrazione dell’evento singolo, il responso del
subalterno sulla storia subita, inverte i ruoli e dona al lettore una prospettiva che, se presa
in considerazione, è interpretazione subalterna del fatto storico.
I sudditi dell’Impero est-africano di Mussolini parlano quando riescono a dare un giudizio
sul colonialismo; per quanto ondivago, contraddittorio e discontinuo questo giudizio sia.
La frammentarietà e le contraddizioni insite nei responsi degli africani del Corno sono da
valutarsi a priori quando si svolge una ricerca su fonti di questo tipo: ciò non ne lede la
validità, casomai arricchisce la narrazione e spinge ad un maggiore approfondimento su
come il grado di istruzione, la condizione sociale ed il vissuto dell’intervistato influenzino
il modo di riportare gli avvenimenti passati.
68
Nella ricerca svolta, però, ci sono subalterni che non possono parlare, da cui non possiamo
ricavare alcuna storia o biografia, curiosità o giudizio. Nelle fonti a disposizione per
ricostruire una storia integrale dell’Africa Orientale Italiana mancano totalmente le voci
femminili e somale. La mancanza di queste testimonianze ci obbliga ad una ricostruzione
parziale e, dunque, parzialmente valida.
L’assenza di testimonianze femminili e somale rappresenta una grande occasione
mancata nella storiografia post-coloniale italiana. Le donne oggetto sessuale da una parte,
ed i Somali dall’altra, hanno subito il colonialismo italiano in una maniera diversa –
certamente più cruda – rispetto agli altri colonizzati. La mercificazione del loro corpo e
della loro libertà è, a oggi, narrata criticamente quasi esclusivamente attraverso le fonti
lasciate da chi è stato parte attiva o accondiscendente nel loro sfruttamento. Le analisi
post-coloniali di genere o sulla Somalia soffrono la carenza di fonti originali dei diretti
interessati; su madamato, prostituzione e schiavitù l’analisi storica non può avere pretese
di completezza senza la viva voce di chi è stato madama, prostituta o schiavo.
Il dover forzatamente prescindere dalle voci di alcuni subalterni denota l’impossibilità
della creazione di una storia subalterna pregnante e non episodica: mirare ad una
storiografia completa da contrapporre a quella ufficiale è pressoché impossibile, e non è
certo lo scopo per cui è stato steso il presente lavoro.
Questo esercizio di scrittura vuole, semmai, dimostrare come l’oralità subalterna,
combinata alla storiografia classica, possa dare importanti elementi per meglio
interpretare la narrazione del passato, come le biografie patologiche spesso nascondano
importanti movimenti di popolo, come lo sfondo apparentemente inanimato alle spalle
del protagonista della storia, sia in realtà vivo ed esso stesso meritevole di dignità storica.
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