Oana Boșca-Mălin
Gli abitanti di Parioli: nel cuore della città, in cima alla società,
ai margini del sè
I. Il quartiere Parioli – breve presentazione
Il quartiere residenziale Parioli si trova nel nord di Roma e include un colle: il Pincio,
diverso dai sette tradizionali su cui è stata fondata la città. Il Muro Torto, che pervade una parte
della zona, rappresenta un pezzo del muro repubblicano di difesa, in seguito inserito nelle mura
aureliane, il che sta a significare che almeno una parte del quarteire era inserita nell’Urbe.
Tuttavia, il fatto che, nella Roma papale, ai piedi di questo muro venissero sepolti i suicidi, i
ladri e le prostitute, attesta il suo statuto di periferia storica. La zona venne risistemata agli inizi
del Novecento e legittimata negli anni del regime di Mussolini, quando venne scelto dai fascisti,
negli anni ’30, per la costruzione di residenze destinate ai gerarchi del partito. Tutt’oggi rimante,
dal punto di vista architettonico, come un quartiere della seconda zona, una periferia se
vogliamo, ma una chic, esclusivista, dimora dell’alta borghesia e della nobiltà e, in minor misura,
dell’intellettualità accademica in quanto , dopo la costruzione dell’università “La Sapienza” alla
fine degli anni ’20, vi hanno traslocato molti cattedratici di questo ateneo. E’ il più verde dei
quartieri della capitale italiana, con il privilegio di godere di alcuni dei più interessanti e grandi
parchi che circondano e ornano antiche e pregiate ville, ex residenze estive delle famiglie
aristocratiche, come Villa Borghese, Villa Ada, Villa Glori, mentre nelle vicinanze si trova la
Villa dei marchesi di Torlonia, che fu anche residenza di Benito Mussolini. Dopo la guerra,
l’élite politica, finanziaria e artistica sceglie questo quartiere come residenza, avviando una vera
e propria pepiniera di ville circondate dal verde e di caseggiati di appartamenti di lusso.
Tutt’oggi, i reperti spazio-culturali del quartiere sono: la Via Vittorio Veneto, viale-
simbolo del glamour degli anni ‘60 e della dolce vita felliniana, ma non soltanto; il Muro Torto,
imponente reliquia antica ai cui piedi trovano riparo anche alcuni dei personaggi di popolani di
Pasolini e Moravia; i parchi con le loro ville-museo che attirano o che continuano a intrigare
anche scrittori contemporanei; l’Auditorium Parco della Musica, importante edificio dedicato
agli spettacoli, progettato dall’architetto Renzo Piano; la via Flaminia che, attraverso una delle
tradizionali porte di accesso all’Urbe, Porta Pinciana, collega al centro della città il Foro Italico,
il Ponte Milvio e il quartiere olimpico sorto nel 1960; Valle Giulia, con le sedi delle accademie
nazionali, le ambasciate e le residenze degli ambasciatori.
II. Due periodi nella storia del quartiere di Parioli, immortalati nelle creazioni
artistiche
Nel dopoguerra, due sono le epoche di gloria di Roma e dell’alta borghesia che trovano
ampio spazio nelle creazioni letterarie e cinematografiche: da una parte gli anni della dolce vita,
coincidenti, anzi, in parte generati dal boom economico, e dall’altra parte gli anni ’80 e ‘90,
segnati da una nuova fase di salto economico, tradotto nell’inalzamento del tenore di vita dei
cittadini.
Gli anni ’60 trovano ampio spazio soprattutto nelle produzioni cinematografiche, se
pensiamo a titoli come I ragazzi di Parioli (Sergio Corbucci, 1959); Il sorpasso (Dino Risi,
1962), La dolce vita (Federico Fellini, 1960), Giuglietta degli spiriti (Federico Fellini, 1965).
Altrettanto interessante è il filone cinematografico americano che, sebbene meno nutrito,
dimostra l’irresistibile attrazione per il fascino tra l’aristocratico-decadente e popolano-vitalistico
di questa città. E basta pensare qui a celebri pellicole come The Roman Spring of Mrs. Stone
(Jose Quintero, 1962, tratto dall’omonima novella di Tenesse Williams e riproposto al pubblico
nel 2003 da Robert Allan Ackerman) e il più recente The talented Mr. Ripley (1999, Anthony
Minghella, una riduzione cinematografica del romanzo di Patricia Highsmith, del 1955).
Il modello di questa creazione, se un modello c’è, è da riscontrare nella critica di una
società superficiale e vana, per cui il divertimento rappresenta un modo di vivere, con giovani
privi di ideali, incapaci di sentimenti veri. Le trame vengono tessute nella zona geografica di
Roma Nord, con i bei palazzi corredati di appartamenti di lusso, e del centro della città,
tradizionalmente ricco, nobile e decadente. Di solito, il personaggio principale è quello che
avverte la vanità e spregiudicatezza dell’ambiente: o perché è diverso, più puro e profondo
dell’ambiente in cui vive, oppure perché ha una rivelazione che opera una modifica nella sua
visione . Tuttavia, sebbene consapevole della cancrena, questo ha una forte inerzia e non riesce o
riesce a stento di staccarsi e di fuoriuscire da questo suo millieu che gli offre un conforto
materiale e l’apparenza di un conforto affettivo. Il rigetto si traduce in varie forme. Si può
trattare di una rinuncia alla vita – come il suicidio di Steiner in La dolce vita – , di una morte
casuale, però non meno suggestiva – il personaggio Roberto Mariani de Il sorpasso – o di un
altro tipo di abbandono della propria persona: una forma di inettitudine, di inerte accettazione di
una realtà che il personaggio smaschera e scompone, ma poi non ha la capacità di abbandonare
fisicamente; è il caso del giornalista Marcello nel film felliniano sopracitato, della protagonista di
un altro capolavoro di Fellini, Giulietta degli spiriti, oppure della giovane donna nella pellicola
Ragazzi di Parioli.
In quanto al filone americano, il protagonista straniero è ammaliato, aspirato, fagocitato e
diventa la vittima di un mondo italiano dove la sensualità mediterranea, il lusso e la falsità si
combinano fatalmente con una crudeltà proveniente dalla povertà, da una vitalità arrogante e
amorale e dal disprezzo per l’alterità.
La Roma degli anni ’80 e ‘90, d’altra parte, è presente soprattutto nella letteratura
posteriore, di cui uno dei portavoci è l’ormai celebre scrittore Niccolò Ammaniti. Il primo titolo
della lista è la novella Seratina, scritta a quattro mani insieme a Luisa Brancaccio e pubblicata
nell’antologia Gioventù cannibale (1996), che racconta la notte in cui un gruppetto di giovani del
quartiere Parioli, ricchi e scriteriati, porta l’irragionevole divertimento alle sue conseguenze
ultime. Sulla stessa linea va anche il racconto più lungo dello stesso Ammaniti intitolato L’ultimo
capodanno dell’umanità, apparso nel volume Fango (1996), in cui l’azione si svolge in un
complesso residenziale di Via Appia che è una moderna Babele, crogiuolo dell’umana tipologia
e degli umani peccati che alla fine verranno puniti da una enorme esplosione. Nella serie si
aggiunge nel 2009 il poderoso romanzo Che la festa cominci, nel quale viene costruita in un
ritmo incalzante un’allucinante festa organizzata da un eccentrico miliardario mafioso nel parco
di Villa Ada e dove, di nuovo, i personaggi raddunati (dai nouveau riches alle personalità del
mondo culturale e politico, da una setta satanica a un gruppo di mostri con i geni alterati dal
consumo di junk food) subiscono una pena scatologica da cui soltanto alcuni avranno la
redenzione. Finalmente, Niccolò Ammaniti smorza i ritmi in un romanzo meno appariscente e
pirotecnico ma più drammatico a livello psicologico, cioè Io e te (2010), che racconta la storia di
due fratelli di estrazione socio-economica alta, di due destini infranti dall’ambiente coercitivo
dove crescono.
Il modello di questi scritti d’autore risulta evidente: i protagonisti sono dannati in
partenza, non gli si offre possibilità di riscatto. Il loro tragitto rappresenta così l’anatomia di un
disastro, in cui l’ambiente in cui attivano – ricco, formalista, rigido e intollerante con la
personalità dell’individuo – e per cui è vale come esempio quello pariolino, rappresenta un
fattore vincolante.
III. I Parioli dei 2000 nella visione di Alessandro Piperno
Il romanzo Con le peggiori intenzioni (2005) segue il percorso di tre generazioni di ebrei
dei Parioli, che costituiscono una dinastia difettosa: il nonno Bepy, il figlio Luca e il nipote
Daniel Sonnino. La prima generazione è quella che costruisce il lusso, ne gode e lo sperpera. La
seconda lo conosce, lotta per rifarlo e per conservarlo e crede che il futuro appartiene alle
persone intelligenti. La terza, per cui il lusso sembra essere un dato di fatto ma è invece
un’infarinatura che impedisce alla famiglia di raggiungere il livello dell’entourage, cresce priva
di ideali e di progetti.
I conflitti sono relativamente classici: tra gli ebrei e i cattolici, un odio covato sotto le
apparenze dell’amicizia di una vita; tra le generazioni, all’interno del clan; tra i partner, nelle
coppie, ecc. Praticamente, scattando da una forte molla autobiografica, il testo propone
un’anamnesi dell’adolescenza attraverso la voce e la prospettiva che l’autore presta al
personaggio di Daniel - il nipote, nell’intento di scoprire e di smascherare tutti gli elementi, le
persone, le situazioni, le scelte che hanno portato allo scacco dell’individuo – il quale appare, al
momento del presente della narrazione, come giovane adulto, un universitario di grado inferiore,
frustrato e solo. Il protagonista parte nella sua “quest” sperando di ottenere la redenzione dalla
tremenda colpa di non essere stato un tipo nell’adolescenza, di essere stato invisibile1, e con
l’intento di cambiare il suo destino. Esiste anche una ragazza, Gaia, l’elemento castrante che
rappresenta la quintessenza di quel mondo2 e dalla quale Daniel si aspetta di essere nobilitato
socialmente, di essere preso in considerazione, apprezzato e legittimato come uomo “della sua
specie”3. La sua introduzione si fa a tappe: nella prima metà del romanzo, l’anamnesi del
1 Al. Piperno, Con le peggiori intenzioni, Mondadori, Milano 2005, p. 200.
2 In lei si legge “la coscienza del proprio privilegio” (op.cit., p. 217); in poche parole, “Gaia è la mia epoca” (ivi,p
228). 3 Ibidem, pp 231-2.
protagonista riporta soltanto due-tre allusioni alla ragazza; nella seconda fase questa appare come
argomento di conversazione tra i personaggi, poi entra effettivamente in scena come personaggio
tridimensionale,“una Britney Spears ante litteram”1 e da quel punto in poi se ne osservano anche
gli effetti. Per un analogia ironica e volutamente bombastica, la scena del primo incontro tra
Daniel e Gaia allude al motivo del saluto, tanto caro alla lirica cortese alla quale Piperno fa un
ammiccamento intertestuale, come momento in cui scatta l’innamoramento. E continua poi nella
stessa nota ironica con cui il personaggio-narrante, mettendo in risalto la sua propria inferiorità
nei confronti della ragazza-oggetto del desiderio, si avvicina alla psicologia dell’assasino seriale:
“... Fu allora che sentii che la faccenda era conclusa: fu allora che percepii il mio
futuro in una strana retrospettiva alla fine della quale non c’era altro che Gaia: fu allora che
compresi (con una nitidezza che forse oggi tendo a trasfigurare) non solo che non mi sarei più
liberato, ma che quella forma sorpassata di libertà non mi avrebbe più interessato. Che esisteva
una stretta correlazione semantica tra la libertà e la morte. Fu allora che presentii in modo
inquietante che l’esistenza di quella ragazza mi disonorava e che il solo modo di uscire dalla mia
condizione di annichilente inferiorità fosse di ammazzarla con le mie mani”2
Daniel, il protagonista e la voce narrante, soffre della psicosi del fallito. E’ per questo che
rifa il film di un’adolescenza che porta il fallimento in nuce: negli sbagli che fa e nell’infelicità
che lo accompagna costantemente. L’adolescente prova, in effetti, la paura o piuttosto l’orrore
della propria inadeguatezza allo stile di relazionarsi e alla scioltezza degli altri; lui vive
l’ossessione del permanente paragone con il livello sociale ed economico degli altri, l’ossessione
dello status, donde deriva la tendenza a dire bugie e a barare. Lo stesso raporto con i genitori è
tarato dal rancore e dal desiderio di vendetta per la propria imperfezione, che non è altro che un
tentativo di deviare la colpa su di loro. La simulazione, capacità che sembra proprio essere
inserita nel codice genetico dei figli di papà, si coniuga nel suo caso con la dissimulazione delle
proprie imperfezioni: poiché lì, in quel microcosmo, le imperfezioni sono già diffetti, sono già
condanne. L’inadeguatezza, il suo hybris, consta nell’aver voluto entrare in competizione con chi
non poteva, nell’aver creduto che “gli uomini sono tutti uguali”3. L’inferiorità economica lo
avvilisce e si trasforma in sentimento di colpa e in autoemarginazione che acquista dimensioni
1 Ivi, pag. 229.
2 Ibidem, pp. 215-16.
3 Ivi, pag. 302.
iperboliche; è questa che porta al crollo drammatico dell’amor proprio del personaggio, con gravi
conseguenze a lungo termine: la frustrazione, il fallimento come adulto, l’atteggiamento di
perpetuo candidato. Guardando a ritroso, dall’altezza dell’esperienza da trentenne, Daniel
riconosce e smaschera il vizio di prospettiva dell’adolescente che era stato: ovvero l’errore di
aver dato troppa importanza all’apparenza, a scapito dell’essenza e di essersi concentrato sul
modo in cui era visto, esponendo sè stesso invece di essere stato lui a valutare l’ambiente, gli
amici, la ragazza amata. Si tratta, quindi, di un vizio di forma dello specchio che, invece di essere
concavo, è convesso. A questa si aggiunge l’autoaccusa di anacronismo e di pudore del nostro.
Come conseguenza, al personaggio vengono applicate due sanzioni fondamentali,
pienamente assunte. La prima la definisce lui solo, in un gesto di autoflagellazione: „solo ora
capisco che non c’è niente d’interessante in me ma, semmai, solo nella fuorviante conformazione
della mia mitomania”1; la seconda risiede nell’incapacità di esser stato utile alla propria persona
nei momenti fondamentali dell’esistenza, incapacità che lo trasforma, a lungo andare, in un
inetto. Un elemento, quest’ultimo, particolarmente interessante, in quanto ci confrontiamo con
un caso piuttosto raro nella lunga schiera degli inetti della letteratura italiana, di un perosnaggio
che non lo è per natura, ma lo diventa.
La grande lezione che Daniel impara riguarda la diversità degli esseri umani: la felicità di
alcuni si fonda e si giustifica sull’infelicità degli altri. L’altrettanto cinico corrolario di questo
teorema è cercare e trovare sollievo nel male degli altri.
Nell’ambiente che frequenta, il protagonista è un intruso non dal punto di vista sociale o
culturale, ma come psicologia, in quanto ha delle paure, delle insicurezze, è un impostore senza
vocazione per l’impostura. E tale resterà: un outsider nel mondo in cui nasce e si forma; d’altra
parte, risulta chiaro, dal rancore, dal disprezzo e dalla vendetta del suo gesto rivelatorio, che tale
suo statuto gli incute sofferenza. Il problema è che lui, l’intellettuale del gruppo, viene rigettato
dalle stesse persone da cui spera di ottenere il riconoscimento, non è lui quello che decide di
abbandonare il gruppo.
Il finale porta il protagonista al totale e irrimediabile decadimento, al livello umano:
Daniel riesce a conquistarsi non soltanto l’antipatia e il disprezzo del lettore, ma anche l’antipatia
e il disprezzo propri, il che significa necessariamente un distacco, una rottura da sè stesso.
Piperno non gli concede nessuna opportunità di riscattare i suoi errori, di purificarsi dal comune
1 Ibidem, p. 330.
ludibrio, di sperare ad una bricciola di simpatia da parte del lettore. In realtà, la frana
dell’adolescente è uno slittamento e la caduta nel pantano non è altro che uno sguazzo nel fango,
un divertimento al sommo livello del masochismo. Il piacere eccede l’ombra della vergogna:
quella del personaggio – di autotorturarsi; quella dell’autore – di tormentare il personaggio e,
insieme a lui, un suo alter-ego e figlio intellettuale.
Nella schiera dei pariolini a cui si accennava inizialmente, il personaggio di Daniel
Sonnino è uno atipico: non entra nella lunga serie degli inetti della letteratura italiana del
Novecento, non è quello che si chiamerebbe un anti-eroe1, e tanto meno un ribelle. La sua
posizione è insolita, ma non per questo sorprendente: la critica accanita alla quale lui sottopone
la microsocietà pariolina è una valanga scatenata da lui, ma in cui il nostro viene
consapevolmente coinvolto e trascinato, ancora peggio degli altri. Quello che fa è una lunga
confessione distaccata e cinica, uno scorticamento senza la minima veleità da martire cristiano: il
suo personaggio non è uno spirito superiore, non ha delle rivelazioni e non spera, d’altra parte,
che l’autoflagellazione apporterà la redenzione ma, semmai, una ripulita alla buona,
sproporzionata in confronto allo sforzo, alla caparbietà e alla sofferenza della confessione. Il
supplizio al quale l’autore lo sottopone è atipico, è un caso letterario e rappresenta il vero
elemento di interesse narratologico del romanzo. Infatti, l’atteggiamento dell’autore nei confronti
del protagonista al quale presta la voce narrante è sorprendente: sacrifica il suo personaggio, il
suo alter-ego, lo lascia sprofondare senza possibilità di salvezza nella melma che scandaglia e
che rappresenta il microclimato di Daniel. Quest’ultimo non è, tuttavia, un personaggio negativo
in senso tradizionale, netto. Per il suo tramite, Piperno attacca e annienta la sua intera categoria
socio-culturale. Lo sacrifica senza rimorsi e, insieme a lui, sacrifica quella parte di sè stesso che
viene ricreata in Daniel, come si accennava sopra. E pare che non lo faccia per una sorta di
igiene morale o intellettuale, ma sempre come un gioco in cui è lecito sospettare un certo
preziosismo e presuntuosità, un capricio da dandy o da superuomo rivisitato, che è attinente alla
pesonalità dello scrittore e che lo incute ad avere un atteggiamento provocatorio ironicamente
superiore, dannunziano. Daniel Sonnino è eccessivo perché Alessandro Piperno è eccessivo,
emfatico, ricercato, esibizionista. D’altronde, poi, questa esagerata mortificazione dell’io
narrante rappresenta, per antifrasi, una critica rivolta ai falsi valori della società.
1 Vi sono, invece, tanti esempi di questo carattere negli scritti di un altro scrittore contemporaneo, Niccolò
Ammaniti, ai quali si accennava nella seconda parte del presente studio e che analizzano la stessa materia umana e
lo stesso spazio.
Da una prospettiva narratologica, abbiamo a che fare con una trasgressione del patto
narrativo che riguarda l’ipostasi dell’io narrante come personaggio. La rottura è voluta: Piperno
non si prende sul serio, la sua non è un’ironia postmodernista, ma neanche l’ignoranza delle
tecniche della narrativa contemporanea, anzi: il personaggio offre delle informazioni a cui la sua
prospettiva limitata di attante non avrebbe dovuto concedergli l’accesso; Daniel Sonnino conosce
dei dettagli sulla vita e sui pensieri dei personaggi. Sebbene non fosse dichiarata e
programmatica, la trasgressione della regola non è un errore, ma una scelta sovversiva, una
sottile provocazione fatta da un letterato di professione.
La società pariolina, sia quella dei giovani che quella degli adulti, viene costantemente
presentata con una sferzante ironia. Piazzato in cima all’asse finanziaria della città e della
piramide trofica, il quartiere è, inoltre, la sede del mondo del glamour, dove convogliano
naturalmente “i ragazzi migliori che tu possa trovare a Roma nell’estate dell’89”1. Dovendo
sintetizzare la loro società, la si potrebbe definire come piccola cricca esclusivista composta dai
figli di papà, ossesionata dal primato economico e da quello estetico. Ma in realtà sono gli
adolescenti degli anni ’80, nati con la camicia e cresciuti in libertà totale e in mancanza di
responsabilità, di interessi e di autentico entusiasmo. Nel loro mondo superficiale „il Denaro è il
vero Dio”2 e tutti i ragazzi sembrano avere un’unico culto: per le apparenze, per il giudizio degli
altri. Ecco perché tra loro e la generazione dei nonni che hanno conosciuto e fatto la guerra, vi è
una voragine incolmabile di incomprensibilità: gli ultimi considerano che chi ha conosciuto la
guera non può suicidarsi, non ha tempo per le cose futili, mentre i primi sono privi di valori forti
e spendono il proprio carico di serietà su cose in sè irrilevanti.
Anche le feste di questi giovani per celebrare la maggiore età sono molto suggestive: è il
loro momento di gloria, di perfezione prima del decadimento, contro cui si scatena la crudele
invettiva dell’io narrante sotto la cui veste si palesa stavolta l’autore:
“In posa, ragazzi! Coraggio! Per l’ultima foto di famiglia prima che inizi la discesa. Ora
che avete ancora la pelle dorata, il ventre piatto e l’alito fresco, ora che potete correre per cento
chilometri senza stancarvi, ora che avete il sudore più profumato dell’universo, meraviglioso
1 Op.cit., p. 293.
2 Ibidem, p 249.
balsamo da imbottigliare, questa resina di freschezza giovanile. In posa ragazzi! Coraggio! Per
l’ultima foto di famiglia.”1
Come Daniel, il suo intero microuniverso risente il terrore del fallimento e professa il culto della
superficialità. La scuola è un vivaio di lider di opinione per il futuro, di falsi modelli, di
consumisti ricchi e amorali; un tatami per i conflitti tra le fortune, le famiglie, i gadget; una
passerella su cui sfilano mode e modelli. Ed è sempre qui che si manifesta anche
l’individualismo, seppure esistano pochissimi individui nel vero senso della parola, autentici e
non devoti alle mode che rappresentano, d’altronde, gli esemplari dominanti, gli stessi che poi
creano le mode. Non è un caso, d’altronde, che la dinamica sociale di questo ambiente richieda
un lessico piuttosto zoologico: Piperno stesso ne fa uso, nell’argomentare la teoria che la società
liceale pariolina sia divisa in exemplari contemplativi e riproduttivi. Ancor di più, nel mondo di
Roma Nord le bionde, per esempio, sono un marchio, una specie rappresentativa: ragazze
stampate che il quartiere produce e riproduce ormai da decine d’anni, come una piccola comunità
ariana: elementi di una pseudo-razza superiore, uniformizzati nel benessere. Usando uno pseudo-
metodo marxista, Piperno espone la sua teoria sociologica del buon vivere, applicata ai suoi
soggetti:
“... la sfrontata avvenenza di questi ragazzi [...], così come il loro buon gusto così
misteriosamente compromesso co un’inclinazione alla pacchianeria, dipenda soprattutto da un
paio di secoli di buona alimentazione, di ottima istruzione, d’investimento sui propri geni, e da
tanti altri inqualificabili e storici privilegi”2
Per questi ragazzi, la massima pena a cui l’autore-narratore possa pensare è che, nel loro
percorso futuro, impareranno che nessuno è insostituibile.
L’intransigenza e l’esclusivismo da casta (da quartiere) dei giovani agiati viene sorpresa
nella figura di Arabo, che appare come barista e cameriere presso un punto di ritrovo molto
frequentato, un posto-simbolo per il microcosmo giovane del quartiere in discussione: il bar
Parnaso, luogo degli eletti, delle muse e di Apollo, con tutta la carica culturale che tale nome
comporta. Il cameriere, un immigrato perfettamente ambientato, si reputa non soltanto
legittimato, ma addirittura in dovere di difendere, con un discorso in cui si sente qualche ridicola
1 Ibidem, p. 294
2 Ivi, p. 259.
eco razzista, la casta dei giovani “pariolini doc”, ovvero di origine pura e autentica, contro
l’immistione di ragazzi ricchi che la assalterebbero da fuori. Arabo è una chiave di lettura
nell’interpretazione della società data: sebbene non corrisponda nè come estrazione socio-
economia e nè come origine al gruppo che difende, lui possiede le caratteristiche fondadmentali
della casta dei pariolini: è snob, è irriducibile e categorico in tutte le sue convinzioni, è un esteta
che non accetta che nessuno offenda il suo senso estetico e arriva con questa sua insofferenza
fino ad avere delle idiosincrasie: “non sopporta la parte oscura dell’umana bellezza”: odia i
bambini down o paraplegici1. Nella sua ossessione di “cercare una goccia di epos in un decennio
che aveva abolito violentemente qualsiasi mitologia”2 e nella passione che fa per il tolstojano
Guerra e pace, il cameriere applica la struttura oligarchica e violentemente gerarchizata del
romanzo a quella del Parioli degli anni ’80 e, in un certo senso, è lui il vero trovatore e poeta di
questo mondo.
Il grande Parnaso romano che è il quartiere Parioli, con la sua casta di giovani, sta sempre
all’avanguardia, detta le mode che diventano modelli anche se nascono come antimode e come
antimodelli. Lo dice apertamente anche Piperno, anticipando nell’atteggiamento provocatorio di
un ragazzo pariolino atipico, solitario e ribelle, le manifestazioni della generazione successiva a
quella degli anni ‘80 che, nel suo essere provocatoria, nello sbandieramento di ideologie
ripescate e appropriate, farà una virulente critica del consumismo, del formalismo dei genitori,
eppure sarà altrettanto formalistica e acritica.
Significativo appare poi il fatto che l’atteggiamento dei pariolini venga associato con il
provincialismo romano – da non confondere con l’arrivismo – comprovato dalla ritualità delle
feste rigorosamente riprodotte a stampatello, in cui nessuno osa apprtare un tocco di originalità;
oppure dalla fondamentale semplicità delle persone di qualsiasi età, quando non sanno di dover
mettersi in mostra; o dall’horror vacui che gli fa riempire tempo e spazio con cose irrilevanti; o
dalla disponibilità di riprendere in modo non critico gli influssi popolari esterni e di inalzarli al
titolo di fashion, come avviene con la moda cowboy americana. L’osservazione è giusta e,
d’altronde, Roma è sempre stata comunemente considerata una capitale a identità multipla,
conservando tutt’oggi un’aria imperiale che coesiste con una provinciale.
1 Ibid., p. 260.
2 Ibid., p. 259.
Per quanto riguarda esplicitamente lo spazio, nel romanzo i luoghi sono deputati al
significato del racconto: la diegesi si fa in strutture topologiche, il che significa che il rapporto
tra lo spazio e i personaggi è speculare e utilizzato come caratterizzazione indiretta e non come
mero scenario, sia che si tratti, come abbiamo visto, di bar elitisti, oppure di terrazze, ville,
appartamenti lussuosi o residenze estive in cui si svolgono le scene raccontate.
Come negli esempi ricordati all’inizio di questo studio, anche qui le strutture spaziali
considerate paradigmatiche hanno un valore cognitivo, concorrendo alla creazione di modelli
culturali. La lingua dei rapporti spaziali rappresenta il mezzo attraverso il quale si traduce e si
comprende la realtà1: concetti come alto / basso, interno / esterno, chiuso / aperto, vicino /
lontano acquistano il significato di prezioso / ordinario, proprio / straniero, indispensabile /
dispensabile, noi / loro, cosmo / caos, cultura / incultura, ricco / povero, raffinato / nonraffinato.
Più ancora, qui l’opposizione interno (chiuso) / esterno (aperto) si traduce per intimità + comfort
+ selezione / caos + disagio + volgo: Parioli versus il Resto del mondo. Non vi sono allusioni a
un qualche attacco straniero, a assediamenti o invasioni, ma piuttosto un disprezzo di quelli
dell’interno per quelli che stanno fuori e un desiderio di autoreclusione. Anche qui, come negli
esempi tratti dalla letteratura o dalla cinematografia, riportati all’inizio di questo studio, la realtà
è sorpresa correttamente: la periferia è diventata sia centro, che apice. Nel caso particolare di
Piperno, dispetto la prospettiva dall’interno verso l’esterno – o proprio a causa di questa –
l’opposizione viene trattata in modo ironico e critico. Le stesse valenze metaforiche del
linguaggio spaziale sono messe tra le virgolette, smascherando la trasformazione delle apparenze
in essenze e il rovescio del sistema valorico. Guardato dall’interno, l’esterno è plebeo e
detestabile, ma a un livello superiore, i segni cambiano e l’interno è quello che diventa rude e
detestabile.
Facendo un passo indietro e osservando lo spazio ad un livello più ampio, il romanzo è
un canto dedicato alla città di Roma. Piperno sembra lasciarla deliberatamente illesa da quel
misto di disincanto e sarcasmo che avvolge puntualmente il quartiere di Parioli e il suo piccolo
mondo. La “magnifica soleggiata città dove tutto ebbe inizio”2, il centro della moda, dell’arte e
della politica è, sì, lo sfondo di secondo grado delle vicende narrate, ma anche molto di più: è
un’entità che assiste magnifica, appunto, e maestuosamente eterna, al susseguirsi di destini che si
1 Cfr. Iuri Lotman, The Structure of the Artistic Text, University of Michigan Press, 1977.
2 Piperno, op.cit., p. 201.
articolano nella compagine di una delle sue zone. Roma non viene mai messa in discussione, non
resta neanche scalfita dalle critiche caustiche dell’autore, come se Parioli fosse una parte estranea
e non una organica della città. Ed è proprio questa nuova prova di immutabilità apportata dallo
scrittore romano, che va inserita nella serie di altre testimonianze di romanità, e che diventa
garanzia di stabilità, a rappresentare il granello di serenità di questo romanzo.
BIBLIOGRAFIA
Raffaele La Capria, La bellezza di Roma, Mondadori, Milano 2014.
Iuri Lotman, The Structure of the Artistic Text, University of Michigan Press, 1977
Alessandro Piperno, Con le peggiori intenzioni, Mondadori, Milano 2005.
Una veduta del parco di Villa Borghese Una veduta del pardo di Villa Ada
Parco di Villa Torlonia Villa Torlonia - Casina delle Civette
Via Veneto... e il regista Federico Fellini