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Corpo ferito, memoria aperta, in Per violate forme. Rappresentazioni e linguaggi della violenza...

Date post: 30-Jan-2023
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Per violate forme RAPPRESENTAZIONI E LINGUAGGI DELLA VIOLENZA NELLA LETTERATURA ITALIANA a cura di Fabrizio Bondi e Nicola Catelli maria pacini fazzi editore
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Per violate forme

raPPresentazioni e linguaggi della violenza nella letteratura italiana

a cura diFabrizio Bondi e Nicola Catelli

maria pacini fazzi editore

© Copyright 2009: maria pacini fazzi editoreVia dell’Angelo Custode, 33 − 55100 [email protected]

Printed in ItalyProprietà letteraria riservata

isbn 978-88-7246

Comitato di redazioneAlessandro Bianchi, Fabrizio Bondi, Nicola Catelli, Nicola Magnani,

Giovanni Ronchini, Andrea Torre.

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ANDREA TORRE

CORPO FERITO, MEMORIA APERTA

E tu’l feristi e no⋅lli par a sema.G. Orlandi

Nella seconda dissertazione polemica della Genealogia della morale Nietzsche avvia l’analisi genetica dei concetti dialettici di responsabilità, colpa e pena, riconoscendo nella volontà morale e nella capacità tecnica dell’uomo di fabbricarsi una memoria la più spaventosa e sinistra illusione di felicità, nonché la più inconsciamente masochisti-ca pratica di violenza, fondata sul nesso (fisio)logico tra profondità del dolore e durata del ricordo:

“Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria” – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra. […] Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue, martìri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (in cui si ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni sono, nel loro ultimo fondo, sistemi di crudeltà) – tutto ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemonica. In un certo senso rientra in tutto questo l’intero ascetismo: un paio d’idee devono essere rese inestinguibi-li, onnipresenti, inobliabili, “fisse”, ai fini della ipnotizzazione dell’intero sistema nervoso e intellettuale mediante queste “idee fisse” – e le procedure e forme di vita ascetiche sono mezzi per svincolare codeste idee dalla concorrenza con tutte le altre, per renderle “indimenticabili”1.

L’obiettivo principale di questa feroce quanto precisa disamina sono tutti quei tea-tri delle passioni edificati dalla cultura del cristianesimo a beneficio del disciplinamen-to spirituale del religioso e come ausilio all’indottrinamento dei fedeli; teatri nei quali la mnemotecnica si offre come supporto metodologico per il lavoro mentale richiesto al credente, come strumento di ridefinizione psichico-identitaria della vita attraverso la

1. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1984, p. 49.

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commozione degli affetti, e infine come repertorio già codificato di immagini delineate in forma di sintesi emblematica della Passio Christi; immagini che ogni credente deve interiorizzare nella memoria, tradurre nella vis immaginativa e offrire, come mappa o portolano, alla labile volontà umana quali veicoli di preghiera. Secondo Nietzsche queste vere e proprie officine della coscienza – assai produttive nell’opera di proseliti-smo patristica, nelle pratiche monastiche e, con particolare decisione, nell’esperienza militante gesuitica – plasmano con cura la facoltà memoriale al fine di renderla un di-spositivo pienamente funzionale a sostenere il meccanismo psicologico di causalità tra promessa e debito su cui si fonda la strategica religio tra debitore (divino) e creditore (umano); meccanismo traducibile storicamente nel perenne conflitto tra progenitori e contemporanei2, e socialmente attivabile nella dialettica colpa-pena quale ragionevole strumento di controllo:

In virtù di siffatte immagini e procedimenti si finisce per conservare nella memoria cinque o sei “non voglio”, in rapporto ai quali si è espressa la propria promessa allo scopo di vivere coi vantaggi della società – e veramente, grazie a questa specie di memoria, si giunse infine “alla ragione”3!

Immagini e procedimenti di straordinario impatto dunque, ma che acquistano sen-so solo grazie a quel «paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umani-tà ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso»4, ossia che si attivano in seguito alla rievocazione di un’unica memoria individuale che assurge a univoca memoria collettiva; in seguito all’assimilazione e riattualizzazione rituale di un univoco modello; in seguito alla lettura e alla riscrittura di un unico testo, il corpo ferito del Cristo. Sempre sulla scorta di Nietzsche, si può pertanto affermare che, a partire da quel momento, la violenza perde la connotazione univoca di componente antropologica naturale e originaria, per dividersi tra un esplicito piano valoriale di condanna morale e un implicito piano funzionale d’utilizzo che talora ne fa una decerteausiana pratica del

2. Ivi, pp. 78-79: «Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazie ai sacrifici e alle opere degli antenati – e che questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza».3. Ivi, p. 50. Si veda a questo proposito M. Gymnich-J. Hauthal, Memoria e body art, in AA. VV., Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, a c. di E. Agazzi e V. Fortunati, Roma, Meltemi, 2007, pp. 341-358, in part. pp. 346-347: «Se una società stabilisce per i suoi membri certi tipi di modificazioni corporali, i segni lasciati sul corpo collocano l’individuo che si sottopone a tale procedura all’interno della cultura e gli stessi segni che ne derivano diventano un marchio d’identità nell’ambito della cultura in questione. Simili tracce impresse sul corpo, inoltre, situano l’individuo entro una specifica cultura della memoria: chi porta su di sé segni visibili culturalmente pre-scritti perpetua le tradizioni culturali e attualizza la memoria collettiva».4. F. Nietzsche, op. cit., p. 82. Si veda a questo proposito un passaggio de I miracoli del dolore, discorso sacro di Emanuele Tesauro: «Hor questo fu il gran Miracolo dell’ingegnoso Dolore, in un caso tanto estremo […]. Questa fu la maraviglia da principio del Mondo insino a questo lagrimevolissimo Giorno mai più avvenuta, che una Idea della Fortezza divenisse Idea del Cordoglio» (in E. Tesauro, Panegirici et Ragionamenti, Venezia, G.F. Valvasense, 1671, vol. III, pp. 262-297, a p. 270).

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quotidiano. La piaga – informe, dolorosa, che apre all’interiorità – può allora essere con-cepita come l’espressione più efficace e significativa dell’estetica e della retorica cristiana; e di essa dobbiamo sottolineare soprattutto il carattere performativo, predominante su quello rappresentativo, il valore di denotazione indiziaria, di sintomo, di traccia per una ricerca in atto, per un ricordo in via di iscrizione o in corso di recupero:

Poiché imitare il Cristo non è dipingere o adottare un aspetto, ma ripetere un processo: allo stesso tempo ungere Cristo […] ed essere scorticato, laceratus, cro-cifisso con lui. L’apparire cristiano […] corrisponde molto meno alla ricerca di una similitudine figurativa che alla ricerca della virtù stessa fatta immagine, vale a dire la ricerca del contatto, dell’indiziarietà, della testimonianza carnale, dunque del martirio […]. Ma la ricerca di quello che si potrebbe chiamare un colore-mar-tirio – un colore della testimonianza carnale – urta contro il problema cristologico del tempo e del limite. Come perpetuare la verità, l’acutezza del momento in cui culmina il sacrificio di Cristo, ovvero la piaga? Che cos’è un’arte della memoria nella quale la memoria sarebbe unzione, vale a dire contatto5?

Nello specifico, la violenza fisica e morale che ha accompagnato il massimo me-moriale umano (la crocifissione di Cristo come apice di umanizzazione del divino e di divinizzazione dell’umano) trova proprio nella traccia segnica delle stigmate la sua più realistica rappresentazione e la sua massima strategia di esaltazione. La violenza sem-bra dunque configurarsi in questo caso come un elemento necessariamente intrinseco all’atto di creazione artistica, concepito come processo narrativo dell’immaginazione in cui le dinamiche memoriali di memorizzazione e anamnesi giocano un ruolo fonda-mentale6. Al fine di verificare le modalità attraverso cui si è realizzata tale costruzione culturale, può dunque avere un senso affrontare il concetto di ferita come traccia se-mantica e mnestica, indagandone la presenza e il significato nel quadro della lettera-tura religiosa cinque-secentesca in prosa e in poesia, laddove la pagina mentale che si offre prima alla contemplazione (meditativa) e poi alla scrittura (imitativa) è il corpo piagato di Cristo, lo stilo la lancia di ogni peccatore, e i caratteri le ferite che indelebil-mente fissano il ricordo del Sacrificio.

L’immagine della ferita costituisce una valida rappresentazione metaforica dell’idea di traccia mnemonica; o meglio, nei vari stadi che temporalmente la caratterizzano si offre come espressione dell’intera dinamica memoriale. Qualsiasi segno che portiamo sul corpo può esser letto come la registrazione – su di un supporto, al pari della me-moria, deperibile – di tracce del nostro vissuto (si pensi, per la sua drammatica esem-plarità, alla cifra tatuata dei prigionieri nei campi di concentramento). Ogni forma di

5. G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, trad. it. di M. Grazioli, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 110.6. Si vedano a proposito: L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002, in part. pp. 217-226 e M. Carruthers, Machina memorialis. Meditazione, reto-rica e costruzione delle immagini (400-1200), trad. it. di L. Iseppi, Pisa, Edizioni della Normale, 2006, in part. pp. 159-160 e 225-236.

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incisione del corpo – subìta o inflitta – può divenire mediatrice del ricordo (si pensi, per il suo valore narrativo modellizante, all’omerica cicatrice di Ulisse); e, soprattutto, comunicare la necessaria dimensione passionale del ricordo in quanto emozione che ha impresso violentemente l’animo. Il ferire (e i suoi strumenti) traduce appieno sub specie metaphorae la prassi delle annotazioni memoriali, di una dimensione mentale dell’atto di scrittura, poiché porta con sé l’idea della permanenza (di fronte al flusso temporale), della resistenza (alle perturbanti passioni psico-fisiche) e della profondità (a cui le immagini conducono violentemente il dato memoriale). All’interno del discor-so sacro è, ad esempio, l’immagine delle stigmate che, presentandosi nella forma di un concetto sintetico, per valore e finalità stratifica in sé più variazioni figurali dell’idea di segno (di memoria), e si offre quale espressione privilegiata del registro metaforico della memoria come scrittura, e del concetto teorico di testualità del corpo. La memoria aperta di queste piaghe, con tutta la loro esibita e protratta violenza, si organizza dun-que in discorso; necessita di un interlocutore attivo;7 e viene a costituire un paradossale vertice d’eloquenza:

Con quai lingue di sangueParlano le tue piaghe,O Crocefisso essangue,A me care e dolcissime parole,Perché pietà di lor mi punga, e impiaghe.Ah, chi non v’ode, e cole,E non v’apre le orecchie, a crudo erroreFolle ben apre indegnamente il core8.

Pare opportuno ricordare, a questo punto, che l’accezione del concetto di memoria che qui si adotta è quello che la delinea come insieme complesso, costituito tanto dagli atti e dagli esiti di un processo di memorizzazione, quanto dalle dinamiche e dalle modalità di un’azione di reminiscenza; una memoria quindi che, come hanno dimo-strato i più recenti contributi critici sull’esperienza culturale dell’ars memoriae, tende

7. Tale creativa istanza ermeneutica emerge con maggior evidenza nelle testimonianze figurative; cfr. a proposito D. Arasse, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, trad. it. di A. Pino, Milano, il Saggiatore, 2007, pp. 79-80: «Tra credente e religione è operante, così, un originale rapporto, in cui il mistero della fede non è attinto in modo astratto, ma mediante un’esperienza affettiva. Il quadro devoto è un catalizzatore essenziale di questa esperienza. Fondato su una concezione “aperta” dell’immagine, il suo sistema narrativo è spesso incompleto, e la sua unità, più che all’interazione delle figure, è affidata alla partecipazione dell’osservatore, che accosta il quadro attraverso la contemplazione ravvicinata dei suoi elementi. Nello scambio devoto, i dettagli della rappresentazione rivestono particolare importanza, riferibile, almeno, a due ordini di ragioni: […] lo scarto delle abitudini visive permette di memorizzare più facilmente la nozione associata a questo o a quel dettaglio dell’immagine. [… Le ferite] costituiscono un punto di sostegno privilegiato per instaurare il patetico dell’immagine. Le ferite di Cristo, in quanto venerate come oggetto di culto, sono sfruttate maggiormente, in particolare la ferita del fianco. […] e la loro importanza deriva dai dettagli del corpo ostentati. Il trattamento dei dettagli può far sì che la ferita si de-tagli dall’immagine, offrendosi isolata alla contemplazione. […] si coglie una pratica dello sguardo concentrata a tal punto sul dettaglio da annullare l’unità della figura».8. A. Grillo, Pietosi affetti, Venezia, G.B. Ciotti, 1613, p. 149; il madrigale riporta l’esplicito titolo-didascalia L’eloquenza delle piaghe di Christo esser grande, massime in persuadere la propria salute.

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ad articolarsi secondo una complessità che la rende sempre più simile (e sovrapponi-bile) al concetto di attività cognitiva, inteso come un atto di costruzione del pensiero disciplinato da regole, procedure e rituali. Quali forme culturali che, influenzando l’im-maginazione e la consapevolezza creativa, si offrono come attendibili tracce di attività cognitive, le metafore sono valide realizzazioni di tale accezione di senso della memo-ria; ed è quindi interessante ricorrere ad esse per articolare un’indagine che si fonda sul concetto di rappresentazione della storia, ossia sulla convinzione che non il passato in quanto tale bensì le forme con cui lo ricordiamo sono ciò che ci preoccupa e che orien-ta il nostro agire9. Da un tale punto di vista infatti l’obiettivo dell’atto di conoscenza non è solo (o tanto) di appurare come siano andate realmente le cose, ma anche (e soprattutto) di indagare attraverso quali modalità (anche linguistiche e retoriche) esse vengono ricordate «e collocate nell’autorappresentazione storica o, più precisamente, nella semantica storica di una determinata società»10. Una siffatta storia della memoria si configura a tutti gli effetti come una storia culturale, come una ricerca sulla vita delle varie forme di testualità assunte dalla mentalità umana.

Ragionando sempre sul piano della diacronia si deve inoltre rilevare che la violenza (linguistica, iconica, fisica) rappresenta una funzione primaria nelle pratiche di memo-rizzazione e reminiscenza dalle loro prime codificazioni nella retorica classica fino alle più complesse elaborazioni moderne11. Proprio un atto violento è riconosciuto quale sca-turigine della pratica memorativa oratoriale nel famoso aneddoto che vede protagonista il lirico presocratico greco Simonide di Ceo (556-468 a. C. circa) – vero mito fondativo dell’ars memoriae, racconto che ne determina un’identità, nonché incipit canonico nella successiva codificata trattatistica mnemotecnica. Così narra la vicenda Cicerone nella sezione del De oratore (II, 86-88, 350-361) esplicitamente dedicata all’arte mnemonica: invitato al banchetto del ricco Scopa per celebrarne poeticamente un vittorioso incon-tro di pugilato, Simonide dedica gran parte del proprio carme ai Dioscuri, suscitando contemporaneamente l’ira dell’ospite e la benevolenza delle due divinità; chiamato sul-la porta di casa per la presenza di due giovani che chiedevano di lui, Simonide vede crollarsi alle spalle il soffitto della sala del banchetto: Castore e Polluce si erano a loro modo sdebitati delle lodi poetiche ricevute poc’anzi. Se la prima parte del racconto celebra l’ammirazione “divina” per la poesia di Simonide melico, la seconda ne esalta

9. Cfr. J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, trad. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 2007. 10. Ivi, pp. 53-55, dove peraltro Assmann continua in questi termini: «Per questo motivo distinguo accuratamen-te fra “tracce”, “messaggi”, e “ricordi”. Le tracce sono le testimonianze archeologiche; i messaggi sono le immagini e i testi dell’epoca che vogliono trasmettere qualcosa ai contemporanei e ai posteri; i ricordi, infine, sono gli sguardi che epoche successive rivolgono retrospettivamente al passato. […] L’analisi dei ricordi è l’oggetto della storia della memoria». Si veda anche J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. di F. de Angelis, Torino, Einaudi, 1997. Per un analogo approccio storico al tema culturale della violenza si veda R. Muchembled, Une histoire de la violence, Paris, Seuil, 2008.11. Si veda, ad esempio, G.B. Della Porta, Ars reminiscendi, a c. di R. Sirri, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, cap. XI, p. 79: «Le cose orribili e spaventevoli ci danno ancora causa di ricordo, perché l’orribilità del fatto ci tiene per qualche tempo l’animo percosso e sospeso».

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la formidabile memoria visiva che gli consentì di restituire ai parenti le spoglie orribil-mente mutilate dei commensali, riconoscendoli in base alla posizione che occupavano all’interno della sala. Per quanto l’aneddoto ci consegni prima di tutto un caso di straor-dinaria memoria visiva naturale, in esso si è voluto vedere una sorta di mitica origine dei procedimenti artificiali di memorizzazione, poiché risultano qui ben riconoscibili i due fondamentali principi attivi di ogni mnemotecnica: l’ordine spaziale, che presiede alla composizione di ben proporzionati e misurati luoghi mentali (la disposizione degli invitati nella sala del banchetto); e il potenziale emotivo, che ogni immagine di me-moria deve saper associare al contenuto del ricordo (l’impressionante distesa di corpi straziati dalle macerie). La dimensione “inventiva” dell’esperienza di Simonide risiede perciò nella sua capacità di riprodurre in ogni minimo dettaglio gli eventi del passato, confidando unicamente sulle potenzialità di visualizzazione della mente. Per la nostra ricerca l’elemento di maggior interesse risiede in questo tentativo di rimembrare i corpi smembrati dal violento crollo dell’edificio12, ma non dobbiamo trascurare anche il primo aspetto, quello dell’ordine, dal momento che esso ci offre la rappresentazione all’appa-renza più legittima di ciò che consideriamo memoria: se è dunque vero che la violenza favorisce la memorizzazione impressionando fortemente i sensi, è altrettanto vero che proprio la violenza rappresenta anche la massima negazione della memoria in quanto forma di estremo disordine irriducibile a qualsiasi sequenza logica. Si potrebbe dunque distinguere tra un aspetto memorialmente positivo della violenza quale principio psico-fisico adiuvante la memorizzazione, e un aspetto negativo quale elemento perturbante il razionale recupero alla coscienza dei dati memorizzati. Il nesso memoria-violenza non può dunque essere affrontato che in una dimensione di complessità per certi aspetti affine a quella che ospita le relazioni memoria-verità e verità-violenza. Nell’universo orale del mito greco la memoria è una divinità, Mnemosyne: essa ispira attraverso le sue figlie l’oracolare bellezza della poesia, si fa garante del concetto di verità (a-letheia, eti-mologicamente ‘assenza di oblio’) e soprattutto, in un mondo non ancora segnato dalla scrittura, assicura la sopravvivenza della comunità umana tramandandone i valori e le conoscenze, ossia perpetuandone l’identità. Tutto ciò viene progressivamente meno con l’avvento della parola scritta che desacralizza la memoria e relativizza l’indispensabi-lità del ricordare, d’ora in poi esigenza imprescindibile solo in alcuni ben determinati ambiti: nel foro dove praticano gli oratori, o nei banchetti dove lirici come Simonide si esibiscono in ben remunerate performances poetiche. Si entra così nella dimensione del-l’artificioso, e anche la memoria abbandona l’assolutezza sacra per divenire strumento creatore di discorsi, di una verità tra le altre. Lo stesso Cicerone in un altro passo del De oratore (III, 216), rappresentando il corpo umano come un’arpa le cui corde sono chiamate fidiculae, termine utilizzato anche per indicare i nerbi utilizzati nelle fusti-gazioni, colloca l’atto violento della tortura nella dimensione retorica dell’inventio in

12. J. Enders, The Medieval Theater of Cruelty. Rhetoric, Memory, Violence, Ithaca-London, Cornell University Press, 1999, p. 75: «In that sense, the Simonides legend founds an exemplary epistemological space according to which mnemotechnics makes things present by requiring that they first be absent and revives things by requiring that they first be dead».

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quanto momento di reperimento/produzione di un contenuto narrativo conveniente alla situazione (i torturati non raccontano mai la verità ma sempre una verità, una storia opportuna per la loro salvezza). Se la verità estratta con la tortura è del tutto opinabile perché prodotta dal dolore e dalla paura, l’atto di reminiscenza che tenta di dare un or-dine leggibile ai ricordi confusamente smembrati negli spazi della memoria non può che detenere lo stesso nucleo di innaturalezza, di inautenticità, di artificio; la ricostruzione mnestica funzionale alla formulazione di un discorso non può dunque che configurarsi come un’elaborazione narrativa vera e propria che – dotata di una più o meno estesa, più o meno esplicita, più o meno consapevole finzionalità – violenta la realtà fattuale.

Nelle pagine degli Esercizi spirituali, ad esempio, Ignazio di Loyola suggerisce più volte di accompagnare la meditazione degli insegnamenti cristiani con una ricreazione, attraverso i sensi, degli episodi sacri, o meglio con l’applicazione dei sensi esterni alle realtà spirituali sopra cui è stata condotta la meditazione; e tutto ciò al fine di traspor-re l’unità e il dialogo tra sensi e intelletto dal piano comune della realtà fenomenica – potenzialmente sempre traviante – a quello intimo dell’interiorità spirituale: in questa dimensione i sensi non necessitano infatti di un elemento esterno per funzionare ma si rapportano esclusivamente alla materia meditata, e solo in relazione ad essa trovano una ragion d’essere. Quest’opera di trasposizione dell’oggettività nella soggettività (opera di traduzione e di dislocazione: composizione forzata di un nuovo luogo memorabile) non è solo uno dei fondamentali insegnamenti degli Esercizi ma anche, e soprattutto, la prin-cipale predisposizione che ne consente un corretto ed efficace uso; essa è forse, inoltre, la principale motivazione che ha spinto i Gesuiti a dotare il loro libro-guida di uno strate-gico apparato iconografico. Nel 1649 viene pubblicata a Roma, presso la tipografia degli eredi di Manelfo Manelfi, un’edizione del manuale meditazionale ignaziano corredata da 27 calcografie (molte delle quali circolanti, come stampe indipendenti, almeno dal 1609) che narrano visivamente o traducono emblematicamente ed allegoricamente non solo il contenuto ma anche le dinamiche di funzionamento degli esercizi. Un testo da agire come gli Esercizi spirituali viene dunque ad essere illustrato attraverso immagini da agi-re. Si consideri, ad esempio, l’illustrazione emblematica e mnemonica che apre l’Esercizio dell’Esame Generale Quotidiano della Coscienza (fig. 1), esame che vuole giungere alla piena conoscenza delle «radici interiori de’ nostri vizj», alla lucida comprensione delle «occasioni esteriori delle nostre cadute», e a un radicale atto di contrizione, «un istromen-to, con cui in questo giardino delle sue delizie ogni giorno si sterpano l’erbe cattive, e si piantano, e coltivano, e vanno perfezionando le buone». L’immagine d’antiporta – sulla scorta del salmo 118 («Anima mea in manibus meis semper») e attraverso il motivo del palmo di una mano – visualizza (e rende attivo) lo spazio di memoria entro cui si svilup-pa l’intero percorso di ringraziamento, invocazione, esame, contrizione e proponimento seguìto dall’anima dell’esercitante. Sussidio fisico e modello concettuale delle pratiche mnemoniche (da Quintiliano a Giordano Bruno)13, lo schema della mano rappresenta in-

13. Cfr. a proposito F. Rodriguez de la Flor, Emblemas. Lecturas de la imagen simbólica, Madrid, Alianza edi-torial, 1995, pp. 255-275, e AA. VV., Writing on Hands. Memory and Knowledge in Early Modern Europe, a c. di C. Richter Sherman, Washington, University of Washington Press, 2000.

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Figura 1 Figura 2

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fatti una guida visuale immediata e intima, che può accompagnare l’esercitante nell’atto di analisi della propria anima (segnando le tappe fondamentali della sua indagine: quid, quare, quantum, quomodo, quamdiu) e nel conseguente cammino di purificazione; una guida sempre presente ai sensi (e quindi in ogni momento traducibile in un’immagine interiore) e concretamente implicata con la peculiare identità dell’individuo orante. Tale primario, naturale, schema mnemonico è anche quello di fatto attivabile nell’esperienza delle stigmate.

Un altro interessante esempio ci è fornito dall’esercizio riservato alla riflessione sui peccati veniali. Possiamo qui assistere alla convergenza di testo e illustrazione sulla dimensione fisica, corporale, violenta del peccato – strettamente correlata all’originaria pregiudiziale peccaminosa nei confronti del corpo – che minaccia l’individuo come una malattia o come un’arma. Proprio sull’orlo dell’abisso (pvtevs abyssi, da Apoc. 9, 2) si trova infatti il peccatore dell’illustrazione, fatto bersaglio delle spade dei sette peccati capitali e posto, novello Damocle, sotto un gladium ultionis che con la sua verticalità segna il destino di caduta dell’individuo in quel peccato mortale che lo condannerà alla punizione eterna («in puncto ad inferna descendunt» ci ricorda la didascalia presa da Job 21, 13 – fig. 2). Emblema di una condizione da fuggire, anche questa illustrazione è costruita per farsi ricordare, e per aiutare l’esercitante a ricordare il dettato testuale ignaziano che prefigura. Quasi per estensione della precedente immagine della mano, mappa mnemonica del penitente sarà qui l’intero corpo umano; tappe obbligate del percorso emotivo e psicofisico, che egli deve seguire come sfondo cognitivo per le sue meditazioni (di seguito l’esercizio ignaziano predicherà infatti di «concepire un dolore vehemente et intenso, e di piangere amaramente i [...] peccati»), saranno i differenti punti del corpo che le spade vanno a colpire, ognuna in stretta associazione semantica con i peccati che va rappresentando (la superbia ferirà allora il petto, la lussuria e la gola il ventre còlto nelle sue due accezioni, l’accidia le ginocchia, l’invidia e l’avarizia le spalle, l’ira il fegato); tracce memoriali saranno infine le ferite dei peccati riaperte dall’esame di coscienza e messe a confronto con le beate piaghe del salvifico sacrificio di Cristo: «In ultimo risguarderò la corrutione di tutto me stesso, la malitia dell’anima, e la schifezza del corpo: e mi stimerò come una piaga o postema dalla quale tanta mar-cia di peccati e tanta peste di vitij è scaturita» (corsivo mio). La mente del peccatore dovrà dunque internarsi totalmente nella ferita cristica, e la sua memoria dovrà di fatto sovrapporsi spazialmente a questo locus di dolore; in tale processo potrà giovargli l’esempio di Maria, primo lettore (nonché scrittore) del cristiano liber vitae14.

Un’articolata riflessione gesuitica sulle stigmate quale prodotto delle «pratiche usate, et insegnate da’ Santi per fabricarsi la Stanza in Christo Crocifisso in vita, et

14. Cfr. A. Grillo, op. cit., p. 167 (titolo del madrigale: Così era rimasta in Maria l’imagine del Crocifisso figlio, che benché fusse tolto di croce, non gli fu tolto dalla mente così pendente in Croce, com’era avanti, né men la doglia che per ciò ne sentiva): «Ben che da questo dispietato legno / Pietosa man ti toglia, / Non toglie a me la doglia; / Anzi a questi occhi miei, / Mai sempre in Croce sei; / Mai sempre in questo core, / Spettacol di dolore; / Né, perché ti riponga in sepoltura, / Sepolto sei ne la mia piaga dura: / Ch’ogn’hor vivo l’avvivi, ogn’hor miei lumi / Verseran sangue in lagrimosi fiumi».

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in morte» ci è offerta da Tommaso Auriemma (1614-1671) con il trattato Stanza dell’anima nelle piaghe di Giesù (pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1651 per Roberto Mollo e poi più volte ristampato anche nel XVIII secolo). Esplicita fin dal titolo è qui la configurazione memoriale della piaga cristica come thesaurus memoriae da attivare attraverso la meditazione per edificare l’immaginario del cristiano in modo conforme al magistero delle Scritture. L’opera di Auriemma è costituita da due parti (con frontespizi autonomi seppur identici) ma di fatto si articola in tre sezioni dedicate rispettivamente a un’esposizione teorica del mistero delle stigmate, a una serie di eser-cizi spirituali condotti tramite la meditazione delle piaghe, e infine a un ricco repertorio di aneddoti edificanti relativi ai benefici effetti apportati, a santi e religiosi antichi e contemporanei, dalla contemplazione delle ferite passionali. L’introduttiva parte teori-ca è canonicamente costruita come un arazzo di citazioni patristiche e scritturali com-mentate: sulla scorta di Girolamo, ad esempio, Auriemma identifica in Dio il sublime artifex che attraverso la mano umana ha scolpito la statua deforme e sublime del Cristo passionale per dar compimento alla sua venuta, per realizzare il Verbo attraverso la sua incarnazione, ossia la sua umanizzazione violenta («ché l’artefice, o l’architetto fu l’Eterno Padre, che per nostro bene fè lavorare quella gran pietra di Christo; né avreb-be avuto tanta forza d’incavarla, se l’amore non gli dava la tempra»15); sulla scorta di Agostino ricorda poi come l’essenza di locus ospitale della piaga sia insita nell’uso, da parte dell’evangelista Giovanni, del verbo “aprire” piuttosto che di “ferire” o “percuo-tere” per rievocare la trafittura del corpo; sulla scorta infine di Pietro Damiano, spiega come il numero delle piaghe dipenda dalla loro funzionale ricaduta salvifica sui cinque sensi del corpo umano, e così facendo ne evidenzia il valore come organi della percezio-ne e strumenti di conoscenza per l’uomo, vie predilette alla comunione, sensuale prima ancora che spirituale, con Cristo:

Dalle mani passerai al Sacratissimo Costato, et ivi ecciterai ardenti desiderii di presto abbracciare, il tuo diletto impiagato; oh anima mia troppo felice e ben aventurata, se Giesù ti volesse far partecipe di segnalato favore, che concesse alla sua diletta sposa S. Geltruda: “Essendomi (dice ella) una festa comunicata, men-tre mi stava con la mente assorta in Dio et in me stessa, sentii che l’anima mia liquefatta come la cera al fuoco dell’amor di Dio, fu segnata col suggello del Co-stato di Christo, e riempita insieme d’immensi tesori”; così Dio benedetto suole trattare l’anime che degnamente se gli accostano nel Sacramento, et entrano nelle sue sacre ferite16.

La sensazione fisica è dunque strettamente connessa ad un lavoro sull’immagi-nazione che trova origine e mèta negli spazi attivi della memoria; e risulta tanto più efficace quanto con più intensa violenza viene articolandosi («La memoria delle piaghe

15. T. Auriemma, Stanza dell’anima nelle piaghe di Giesù, Venezia, N. Pezzana, 1680, p. 14.16. Ivi, p. 43.

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sacratissime piace assai a Giesù Christo, ma molto più la gradisce, quando con essa vi è congiunta qualche afflittione corporale»17).

Prima di entrare nel vivo della trattazione, alle pp. 11-12, Auriemma elenca alcuni dei vari epiteti con cui i santi padri hanno definito le piaghe cristiche, sot-tolineandone di volta in volta la specificità di luogo di rifugio (asilo, erario, bagno, letto, nidi, porto, rifugio, stanza), di strumento di sapienza (bocche, chiavi, canali, esattrici, fonti, fornaci, instrumenti meritori, liber vitae, lingue, lucerne, mammel-le, medicina, nutrimento, porte, rimedio, scampo, segni, segnacoli, specchio, sigilli, tesoro, testimoni), di oggetto di meraviglia (effetti, fiori sanguigni, incendio eterno, trionfo, vittoria); epiteti spesso ripresi (e sviluppati nonché amplificati) dalla poesia e dall’oratoria cinque-secentesca18; epiteti fortemente compromessi in senso memo-riale. Il campo metaforico più frequentemente attivato è quello che configura la piaga come un luogo che contiene, conserva e protegge; luogo edificato (costruito, disegna-to, intagliato) dallo stesso Cristo per la salvezza degli uomini, ossia atto di beneficio cui non corrisponde però la grata memoria dei beneficiati19. Formulato in ambiente stoico da Cicerone e da Seneca, poi compiutamente virato in una prospettiva cri-stiana dalla patristica, il concetto di memoria beneficiorum viene spesso recuperato con amplificazione esemplaristica dalla retorica sacra cinque-secentesca. Il vescovo teatino Paolo Aresi (1574-1644), spiegando le ragioni dell’attribuzione dell’impresa

17. Ivi, p. 57.18. Se ne veda, ad esempio, un saggio di valore enciclopedico in G. Lubrano, Prediche quaresimali postume, Napoli, Raillard, 1702, p. 644: «Con voi vo finire le fatiche, o Piaghe beate del Redentore: porpore da fasciare la nudezza d’Adamo, fuochi di festa da rallegrare l’innocenza, lampane accese da rabbellire la Chiesa. Non più spiragli di odio, ma intagli d’amore. Non più fucine di spasimi, ma scuole di estasi. Ogni qual volta vi miro, o belle Piaghe, incontro ruscelli di balsamo, balconetti di misericordie, salvarobbe di benefici, Cittadelle di refugio a’ delinquenti, nidi di gioia alle colombe de’ Vergini, terme di bagni infocati a’ paralitici, banchi di ricchezze a’ falliti. Voi con inchiostro di rubini soscriveste l’universale perdono; bocche mutole con eloquenza di fatti ricordate al vostro Padre le sue promesse; stipendi del nostro medico, preziosi stabili trapportati dal Mondo al Cielo; spelonche ove si celano tutti i latrocinii della Grazia, in cui chi non sa rubare è perduto; Porte Sante nella viva basilica del Verbo, che aperte da martelli, non più vi chiudete per fare perpetui Giubilei alle colpe dell’huomo. Io miro le Piaghe de’ piedi, e dico: “In queste piante germoglia la vita; chi scava queste miniere non è mai povero; chi si seppellisce in queste urne non può morire”. Miro nelle mani forate le chiavi d’oro per disserrarci l’Empireo, le stadere per bilanciare la Gloria. Miro la Piaga del costato, e vi trovo l’ultima stampa dell’amore infinito, la Rosa nella quale si accordano le fila della redenzione, la pupilla degl’Angeli, la mammella di Dio. Carissime Piaghe, scritture di morte nel libro della vita. Parchi riserbati alla caccia delle anime. Passi franchi della nostra salute, per dove chi non cammina fur est et latro, costellazione degli eletti, corone de’ beati, glorie del ferito, e medicine de’ feritori».19. T. Auriemma, op. cit., p. 14: «Per questo, o mio Giesù, la lancia vi aperse il fianco, acciò noi senza disturbo potessimo abitarvi; e Voi, che mentre viveste in terra, non aveste casa da adagiare il vostro capo, e da molte ne foste cacciato voleste poi che se ne fabbricassero cinque ben grandi nel vostro benedetto corpo, pagando con tanto gran beneficio la nostra ingratitudine: e benché vi cacciamo ogni giorno dalla stanza delle anime nostre, con tutto ciò ci chiamate ad abitar nella vostra, quasi che pago non fusse il vostro cuore amoroso, volendo noi per hospiti». Non diversamente si esprime più avanti Auriemma in uno degli esercizi spirituali sulle piaghe: «Considererò che Giesù tenne le piaghe per mostrar la memoria che tiene di noi: non si scorderà mai di quelli per i quali è stato sì crudelmente piagato; le piaghe gli ricordano e gli riducono alla memoria il genere humano: “Non mi scordo di te, ecco che ti ho scritto nelle mie mani”; e questo mi dimostra l’amor grande che mi porta, volendo tener memoria perpetua di me, et io mi vergognerò della poca memoria che tengo di lui; e pure per quel che ha fatto per me vuole che ne tenghi una tenera ricordanza» (p. 416).

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delle macchie solari a «San Francesco dal Nostro Redentore Impiagato», ricorda che «così ha voluto Dio che in questi ultimi tempi comparisse San Francesco con le sue piaghe, accioché rinovasse ne gli uomini la memoria della Passione del Signore, e del beneficio della Redenzione, la quale pareva che si avessero gettata dietro le spalle»20. Il gesuita Luigi Giuglaris (1607-1653) affronta invece la topica in una predica com-posta per il venerdì di Passione, distesa come un impressionante resoconto visivo de-gli eventi evangelici, come un dettagliato canovaccio che ogni fedele può interpretare adattandolo al proprio percorso di pentimento, e anche come una violenta invettiva rivolta al connaturato oblio dell’uomo:

Potrete voi dunque infierire contro di un tal’huomo nella cui fronte la maestà e la bellezza si dividono l’impero. Terra vergine è questa carne non soggetta a maledit-tione, e però da non oltraggiarsi co’ vostri solchi. […] tutto sangue, tutto piaghe, tutto aperture […]. Così presto si è in voi estinta la memoria de’ benefici? […]; e qui avvertite, che gran voglia ebbe l’appassionato mio Dio, di stampare da per tutto vive memorie della penosa sua morte, che già che imprimere non la poteva ne gli animi, la dipinse in più lini […]. Si alza la Croce: alla guerra, o fedeli, che non per niente l’istesso Capitano nostro s’inalbera per istendardo. […] Horsù, il figlio di Dio è spirato. Il figlio di Dio? Quello dunque che ci fu dato per Capitano tra tante guerre, per nocchiero tra tante tempeste, per medico tra tante malattie, curatore di noi pupilli, guida a noi ciechi, sicurtà per noi debitori? Quello sì, quello è morto, et io l’ho ucciso. […] Vi romperete dunque macigni, e starò io insensibi-le? Ah, cuori di diamante! Vi ho martellati io tutta questa quaresima, ma non ho fatto niente; né promesse, né minacce vi hanno domati; hor però che vi spruzzo col sangue dell’Agnello svenato come non vi rompete21?

Dobbiamo poi ricordare che anche le pratiche consapevoli di afflizione violenta del corpo, che accompagnano e talora costituiscono integralmente gli esercizi spirituali, contribuiscono a rinsaldare e ravvivare il ricordo del dolore supremo di Cristo; Au-riemma consiglia l’adozione di tali pratiche, proponendone anche esempi e modalità di realizzazione:

Ma lasciate da parte tante, e sì gravi penitenze fatte da’ servi di Dio per honorare la sacratissima passione, ne dirò solamente di due, che sono la Croce, e la Disci-plina, perché queste in particolare furono fatte da essi per riverenza delle dolorose ferite del lor Signore; […] et il nostro Padre Simon Rodriguez Rho de Relig. per lo medesimo effetto se ne scolpì una [scilicet, croce] nel petto pur di un palmo a forza di replicati colpi di un ferro, il quale come stampò nel suo cuore la memoria del Crocifisso, così impresse nella carne molte piaghe che gli durarono tutta la vita. […] Potrai dunque portare nel petto, pendente dal collo una Croce con cinque

20. P. Aresi, Imprese sacre, libro IV, impresa CII, Tortona, P.G. Calenzano ed E. Viola, 1630, vol. II, pp. 1278-1293, cit. a pp. 1284-1285.21. L. Giuglaris, Quaresimale, Milano, L. Monza, 1665, pp. 372-378 (corsivi miei).

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punte non molto alte, né molto acute, in riverenza delle cinque piaghe, e la matti-na nel ponertela, baciarla riverentemente, facendo qualche atto divoto […]. E la sera quando te la levi, baciala parimenti, e la terrai vicin’al letto, per non mai star privo di tale armatura. Eccoti Christiano un bellissimo orologio che battendoti il cuore con quelle punte ti ricorderà l’hore dolorose del Redentore22.

L’immagine dell’orologio implica ovviamente la presenza costante dell’exemplum Christi, la sua fungibilità in ogni momento della nostra vita, ma va anche a visualiz-zare la componente temporale che configura l’esercizio di meditazione sul corpo pia-gato come un atto di osservazione di spazi che si sviluppa temporalmente; da questo punto di vista si può richiamare anche l’immagine tesauriana del corpo piagato come mappa,23 rappresentazione di uno spazio mentale e, nel quadro di una cultura della memoria, logica articolazione di loci memoriae; il modello di riferimento non può che essere quello del corpo umano come raccolta di spazi memoriali:

Fu consiglio di San Bernardino da Siena che pigliamo quel gran libro scritto con penna della lancia, e de’ chiodi, dico il Crocifisso, e leggendolo attentamente, pro-curiamo di conformarvi il libro della coscienza; […] esaminerò a’ suoi piedi quali siano stati i miei andamenti da che mi sono svegliato; alle sue mani i miei pensieri, parole et opere; nel costato le mie passioni disordinate, i miei affetti soverchi verso me stesso, e le creature; inoltre se sono entrato nelle sue piaghe, se me ne sono ricordato spesso24.

Il fedele può così contemplare le piaghe cristiche utilizzandole come strumento e spazio di meditazione attivabili in ogni momento della vita quotidiana (non a caso la partizione eptameronica è quella prescelta per organizzare gli esercizi). Una delle tante modalità di far pratica delle piaghe cristiche, anch’essa di complessa valenza metaforica e simbolica (anche per quanto pertiene la memoria), è ad esempio costituita dall’utilizzare il corpo passionale come vivanda e desco, fonte di nutrimento:

[…] la pratica nel mangiare d’entrare nelle piaghe del Signore. Quando mange-remo, prima intingeremo ogni cibo, anzi ogni boccone nel Costato di Christo, e beveremo nella tazza, come nel medesimo dolcissimo fonte, così non ci lamente-remo de’ cibi malamente conci, e mentre il corpo si ristora, ritroverà l’anima in vulneribus Christi nutrimentum, quo convalescat, come parla San Gregorio25.

22. T. Auriemma, op. cit., pp. 57-58.23. Mi sia qui permesso rinviare ad A. Torre, «Vermiglie et aperte serbò». Memoria ed etimologia, metafora e sim-bolo in un panegirico del Tesauro, in «Lettere italiane», LIX (2007), 3, pp. 352-380, in part. pp. 372-375.24. T. Auriemma, op. cit., pp. 68-69.25. Ivi, p. 73. Sul tema culturale del corpus Christi si vedano: M. Rubin, Corpus Christi. The Eucharist in Late Medieval Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, e S. Beckwith, Christ’s Body. Identity, Culture and Society in Late Medieval Writings, London-New York, Routledge, 1993.

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Le liturgie memoriali delle stigmate e dell’eucarestia qui si compenetrano pie-namente. L’insistita violenza e l’ostentata matericità che connotano questa proposta gesuitica di ricezione (assimilazione e riuso immaginativi) dell’esperienza passio-nale, nonché la dimensione del corpo di Cristo impiagato come primario locus ove il fedele deve trovar rifugio, potrebbero trovare un’efficace reificazione nel Cristo morto ligneo di Gaspar Becerra; scolpita nel XVI secolo e conservata presso la chiesa di Las Descalzas Reales di Madrid, l’opera costituisce un vero e proprio thesaurus doloroso, sileno sacro, nel cui fianco destro in corrispondenza della sede esatta della piaga centrale è predisposto un tabernacolo che contiene un ostensorio eucaristico: la ferita del costato diventa pertanto un grande oblò circolare dove si può (specialmente durante la processione del venerdì santo) affondare la mano (con un atto di pene-trazione violenta che è anche consapevole moto di riappropriazione anamnestica), ritirare l’ostia e consumarla sul posto, direttamente dalla piaga alla bocca (violenta esperienza di ruminatio)26.

La declinazione memoriale delle stigmate quale dimora protetta dell’anima del cre-dente appartiene comunque un po’ a tutta la letteratura sacra cinque-secentesca, e in specie alla lirica spirituale. Insistendo sui deittici e su un figurante spaziale d’impiego amoroso profano, Vittoria Colonna plasma, ad esempio, la stigmate come un autonomo spazio interiore, il «securo porto / della piaga ch’in croce aperse amore. / Ivi [l’anima] s’appaga e vive; ivi s’onora / per umil fede; ivi tutta si strugge / per rinnovarsi all’altra miglior vita. / Tanto ella queste fosche e mondane ugge / schifa, e del vero sol gode l’aurora, / quanto più dentro a lei si sta romita»27. Tommaso Stigliani inverte invece l’immagine e mostra san Francesco stigmatizzato quale esempio sublime di credente che ha a tal punto rivissuto il corpo passionato da riuscire a riprodurlo perfettamen-te nel proprio, trasformandolo in uno scrigno memoriale capace di contenere Cristo: «Tanto amante di Dio (dice ella) io fui, / che quello al petto entrommi e meco misto / s’umanò quasi un’altra volta in nui. / Perché dal senso uman ciò non sia visto, / ma queste cinque piaghe indizio altrui / chiaro esser pon come qui dentro è Cristo»28. Angelo Grillo elabora il concetto nella sua dimensione di performatività, preferendo alla designazione di un luogo statico la rappresentazione del movimento eseguito dalla mente umana per internarsi in esso; sulla scorta del Tasso lirico sacro, cantore di san

26. Se ne può osservare una parziale riproduzione in G. Didi-Huberman, op. cit., p. 23. Con un occhio a questa scultura lignea si leggano: 1) un madrigale di Angelo Grillo che definisce metaforicamente la piaga del costato di Cristo come la porta de’ Sacramenti, co’l mezo de’ quali ci viene aperto il Cielo: «In questa carne morta, / Apri pur nova porta, / Lancia; lancia non più cruda et ardita, / Ma chiave della vita, / Che da un sol fonte in duo fiumi deriva, / D’acqua, e di sangue mondo, / Che lava, e nutre, e dà salute al mondo» (A. Grillo, op. cit., p. 86); 2) un passo della diceria sacra La Pittura in cui Marino ricorre al medesimo tópos silenico del cuore visibile entro il petto e allo stesso campo semantico dell’ostensione salvifica: «E se Socrate bramava il petto di cristallo perché di fuora trasparesse il cuore, in questo cuore a beneficio nostro si è adempiuto quel desiderio, poiché, riposto dentro un ta-bernacolo cristallino, a ciascuno è lecito di mirarlo: pittura mirabile, anzi memoriale di tutte l’altre sue meraviglie» (G.B. Marino, Dicerie sacre e la Strage de gl’innocenti, a c. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1960, Diceria I, p. 89).27. In AA. VV., Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Milano, Longanesi, 1984, p. 455.28. T. Stigliani, Il canzoniero, Venezia, Manelfi, 1625, p. 593.

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Francesco (Francesco, mentre ne’ celesti giri), ecco dunque l’immagine doppia (ossi-morica e produttrice di meraviglia) della ferita come piccola spirale (entro cui si perde la vista umana) e come estensione infinita (gli agostiniani «campi et lata praetoria memoriae, ubi sunt thesauri innumerabilium imaginum de cuiuscemodi rebus sensis invectarum», di Confessiones X, 8):

Signor, mentr’io ti miroRistringo lo mio sguardo in picciol giro,Ma ben ritrova il coreUn largo campo d’infinito amore,Ove il pensier si perde, al grand’effettoDi tanto immenso affetto29.

Un altro intervento d’area gesuitica dedicato al mistero delle stigmate si ha con le Meditazioni composte dal padre Bartolomeo Amico (1562-1649), un corposo volume dove chiaramente non mancano passaggi riservati a una riflessione sul valore memoria-le delle ferite di Cristo dipendente dall’eccezionale nucleo di violenza che le ha prodot-te; così come l’atto violento favorisce una veloce e duratura memorizzazione, l’estremo atto di violenza contro Cristo ha sancito la sua sempiterna memoria fra gli uomini30. Le stigmate vengono peraltro esplicitamente definite «memoriale dell’huomo» in una meditazione raccolta nel terzo libro e canonicamente articolata in punti:

Primo punto. Considera quel che va dicendo il Redentore per Isaia: In manibus meis descripsi te. Volendo io aver continua memoria di te, o anima comprata con tante mie pene, ti volsi scrivere nelle mie mani, e volsi che penna fosse il chiodo.

29. A. Grillo, op. cit., p. 27 (corsivi miei). Occorrenze analoghe del concettismo si rinvengono anche in altri ma-drigali: «Mentre, Amor mio, rimiro, / D’ogni tua piaga il sanguigno giro, / Fra me stesso dich’io / Ogni sua piaga è di pietade un cielo» (a p. 21); «In sanguinoso giro / Miro nella tua fronte, / Mio Gesù, la tua morte e’l mio martiro; / Onde in ruota d’affanno / M’aggiro nel tuo sangue, et nel mio danno; / Ch’è la corona tua cerchio dolente, / Ove s’avvolge ogn’hor l’alma languente» (a p. 481, intitolato: Segue lamentandosi l’afflittissima Vergine di aggirarsi quasi in ruota d’affanno nel cerchio delle piaghe di Christo). A p. 317 il sintagma ricorre invece per connotare la ferita prodotta in Cristo bambino dalla circoncisione, evento così presentato quale anticipazione figurale della Passione sul crocifisso: «Misterioso giro / Di piaga redentrice, Mentre il tuo cerchio i’ miro, / Dico: “O cerchio felice, / Ben la figura tua mostrami aperto / De l’alta piaga l’infinito merto. / Et l’orbe tuo rotondo / Ch’abbracci, et salvi co’l tuo sangue il mondo”» (a p. 317 con titolo: Pietosa contemplatione, perché la piaga della circoncisione sia di forma circolare). In un altro madrigale la circolarità rimane bidimensionale e si sdoppia suggestivamente nelle immagini complementari dell’occhio e dello specchio: «Se turba occhio turbato / L’occhio, ond’è rimirato; / Quali occhi più turbati, ohimè, rimiro / Di tante piaghe tue nel tuo martiro? / Ah, fie mai, che non più quasi occhi miei, / Ma quasi specchi de’ tormenti tuoi / Da lor mirato, le rimiri poi?».30. B. Amico, Meditationi delle sagre piaghe di Giesù e di Maria, Napoli, G.D. Montanaro, 1635, p. 375: «Il cielo non si può possedere senza gran violenza, Regnum celorum vim patitur, e questa violenza niuno poteva farla me-glio di Christo, quale come Padrone, et herede legittimo del Regno per propria potestà, potè ordinare a gli angioli tutti Aperite mihi portas Iustitiae, et ingressus in eas confitebor Domino (Ps. 117). Quella mano che privò nel Calvario il sole di lume e sparse la terra nelle tenebre, quella hoggi supera le porte del Cielo, con la chiave della santa Croce. O santissima mano del mio vittorioso Giesù quanto ti devo, poiché aprendoti il ferro con tanta mia empietà, tu m’apri le porte del Cielo con tanto amore».

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Ammira la grandezza dell’amor divino verso di noi, poiché parendogli quasi poco l’aver tanti incentivi dell’amor suo verso di noi, […] s’ha voluto pinger noi nelle sue mani, acciò ci tenesse continuamente avanti gli occhi. […] Sicché quelle pia-ghe santissime sono come una tela, nella quale siamo delineati, acciò egli vedendo le sue mani impiagate venghi a raffigurarmi31.

Si dispiegano qui le principali varianti metaforiche della stigmate come traccia di memoria che si organizza in segno, in scrittura: attraverso il martirio Gesù ha trat-teggiato nella propria carne un ritratto dell’umanità peccatrice affinché il ricordo di questo dovere di salvezza gli sia sempre presente, e sia sempiterno memorandum di misericordia per il Dio padre («O eterno Padre, non ti piaccia condennar quelli per gli quali sudai tanto e fossero così acerbi tormenti nel mondo; mira come l’ho scritti uno per uno in queste mie piaghe»32). Assistiamo inoltre in questi passaggi a una sorta di commistione tra i figuranti tradizionalmente attribuiti alle piaghe e quelli relativi alla Sindone: nelle ferite inferte dagli uomini Cristo rivede continuamente (ossia ricorda) l’umanità (la propria di Dio incarnato, e quella terrena che è venuto a salvare), così come tra le macchie del sacro telo gli uomini scorgono continuamente (ossia ricordano) la divinità (quella di Cristo che è sceso fra loro, e quella a cui tendere nella nuova vita). Con più elegante arguzia dispiega il concetto Lubrano:

Intanto adoro da lungi la Sagra Sindone pennellata a sangue dal Crocifisso. […] Veggonsi nel volume di tela sì graziosa stampate le memorie della Passione a spesa delle cicatrici Divine. Sono oscure le linee de’ caratteri, per palesarsi impresse nelle officine d’un tumulo. Bel regalo del nostro Sole che tramontando seppe arricchirsi fino coll’ombre sue; e colorando a guazzo di sangue i benefici della redenzione33.

La metaforica della memoria come atto/prodotto grafico, articolato o meno in di-scorso verbale, rappresenta anche il campo prediletto dall’Aresi, nella già citata predica a impresa sulle macchie solari, per cogliere i figuranti delle stigmate che contribuiscono a delineare l’autoritratto di Dio imprimibile nella memoria umana (quasi una Sindone portatile)34; e per elaborare un’immagine della stigmate nella forma di un concetto sin-tetico che, per valore e finalità, stratifica in sé più variazioni figurali dell’idea di segno, più tracce dell’incidenza metaforico-conoscitiva del corpo leggibile:

31. Ivi, pp. 368-369, corsivi miei.32. Ivi, p. 370, corsivo mio.33. G. Lubrano, op. cit. (predica intitolata La Fede della Resurrezione. Assaggio del Paradiso), p. 622.34. P. Aresi, op. cit., p. 1283: «Può dirsi dunque in certa maniera che gareggino queste piaghe di Francesco con quelle del nostro Salvatore, perché quantunque infinitamente le cedano per rispetto del soggetto, le sopra-vanzano però assai per conto dell’efficiente; la tela in cui furono dipinte, et il marmo in cui scolpite, fu assai men nobile, ma il dipintore, e lo scultore che le fece fu assai più eccellente; e se per ragion di quelle dir puote il Salvatore In manibus meis descripsi te, per ragione di queste può egli dire a S. Francesco In manibus tuis descripsi me».

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Conchiudiamo dunque che la cagione efficiente di queste sacre piaghe altra non fu che Christo Signor Nostro il quale, accioché il Mondo sapesse quanto gli era simile Francesco nell’interno, volle eziandio lo somigliasse nell’esterno, e come a carissimo soldato gli diede l’armi sue proprie, come ad alfiero la sua insegna, come a segretario il suo sigillo, come ad ambasciatore la sua cifra, e lettera di credenza, e scorgendo che la memoria della sua sagratissima passione era molto trascurata da gli huomini far ne volle in Francesco una immagine vivente, per cui fossero gli huomini sollecitati a ricordarsene sovente, e tenerne quel conto che si conviene35.

Armando Maggi riconosce nell’uso letterario della figura del santo di Assisi la perfetta applicazione delle principali tipologie metaforiche attive nella scrittura barocca e atten-tamente indagate da Emanuele Tesauro; innanzitutto la metafora d’opposizione, che con la sua argutezza risveglia l’intelletto e violenta la comprensione: un estremo principio ossimorico agisce infatti nell’esperienza delle stigmate francescane, rendendo possibile la presenza di segni di meraviglia in un corpo esibito per la sua povertà, di memoriali di salvezza in un corpo dedito alla prostrazione, di tracce visibili di magniloquenza in un corpo votato al silenzio; altrettanto spesso impiegata in tale circostanza è la metafora di rispecchiamento36, in relazione alla quale è anche importante sottolineare che il rapporto che si crea tra Cristo e Francesco tramite le stigmate riproduce in ambito sacro il motivo lirico del duello erotico, secondo una pratica di riuso di tópoi analoga a quella attiva, ad esempio, nell’osmosi tra emblematica amorosa ed emblematica sacra:

O Caro Amante, nel tuo Amor converso,E del tuo feritor, ferita Imago,Che di mirar se stesso in te sol vago,S’espresse in te di vivo sangue asperso. Piaghe bramasti, e’n mar di zelo immersoPiaghe baciavi: onde’l tuo dolce VagoT’impiagò con le piaghe, onde fu pagoIl Padre eterno e’l nostro error sommerso. Quasi in fonte d’amor, con sì bell’arteNe la pura alma tua si vide espresso,Che nel tuo casto corpo al fin s’è pinto. Tal Pittor, ch’ami di ritrar se stesso

35. Ibidem, corsivi miei.36. A. Maggi, Francesco d’Assisi e le stimmate alla luce del barocco, in «Studi secenteschi», XLIX (2008), pp. 79-130, in part. p. 83: «Scrivere dell’esperienza delle stimmate secondo una sensibilità barocca non potrà non significare comporre un atto di doppia riflessione, sia il meraviglioso specchiarsi tra il serafino e il santo il cui corpo porterà i segni di tale rispecchiamento, sia tra tale scena di riflessione ed il lettore (spettatore) di tale riflessione» (dello stesso studioso cfr. anche The Word’s Self-Portrait in Blood: The Shroud of Turin as Ecstatic Mirror in Emanuele Tesauro’s Baroque Sacred Panegyrics, in «The Journal of Religion», LXXXV (2005), pp. 582-608). Si veda, a questo proposito, H. Belting, La vraie image. Croire aux images?, trad. fr. di J. Torrent, Paris, Gallimard, 2007, pp. 119-164, in part. p. 134: «Les spectateurs projetaient leurs propres souffrances sur un corps avec lequel ils s’identifiaient dans la Passion. Ce qui s’accomplissait également dans leur regard, c’était le désir de triompher de leurs propres misères physiques par la médiation de leur représentant dans l’image».

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Si mira in specchio pria, poi spiega in carteLe riflesse sembianze, e’l lume finto37.

Se il corpo piagato di Francesco si è offerto all’artifex divino come supporto ove ri-copiare (dantescamente, e tecnicamente, dall’«essemplo» all’«assemplato»), duplicare il racconto della Passione, la superficie tessile della Sindone accoglie, a tutti gli effetti, le stigmate come mirabile autoritratto di Cristo. Soprattutto su tale campo metaforico insiste la ricca produzione di testi poetici e prosastici dedicati al sacro velo torinese38. Tra le numerose testimonianze ve n’è una, peraltro non specificamente dedicata alla reliquia sabauda, che ne evidenzia con particolare ingegno e adeguata complessità la felice specificità di doppio del corpo passionato. In una predica (La Pace è corona di chi combatte) Giacomo Lubrano articola una profonda riflessione sulla «deformità che innamora» (per usare una definizione di Paolo Segneri), ossia sulla paradossale (strate-gica, direbbe Nietzsche) scelta divina di rivelarsi agli uomini come estremo dolore anzi che come sublime gloria:

Che misteriosa foggia si è questa della Pace imporporata da cicatrici, rabbellita da strazi, con un fianco squarciato a punte di lancia, con le mani e piedi sfon-dati a trafiggiture di chiodi? O io mi credeva, che la Pace fosse da comparire a gli Apostoli già fuggitivi per paura, nascosti per mestizia, in paludamento fiorito a sopraricci d’oro, con un intrecciatojo di stelle vive sul capo, con in pugno lo scettro ingemmato a pupille di soli, ed intorno paggierie di Angioli sinfoniaci, e ballate d’estasi, e melodie di soavissimi canti. Se la Pace riflette in terra archi e baleni di Paradiso, perché svampa in fulmini di orridezza? Se unisce tutti i cuori in un cuore, tutte l’anime in uno spirito, perché publicarsi piena di laceramenti nel corpo39?

37. A. Grillo, op. cit., p. 118 (Al glorioso santo Francesco in materia delle cinque piaghe da Christo nelle mem-bra di lui impresse). Ma si veda anche G.B. Marino, Rime, Venezia, G.B. Ciotti, 1602, p. 155: «Amasti, amato amante, / e qual vero amatore, / ti trasformasti ne l’amato Amore. / Et amante et amato / Amore innamorato / de le sue piaghe sante / l’amoroso sembiante / ne le tue membra impresso / in te sol per amor stampò se stesso». La funzionalità erotica è intrinseca all’immagine del corpo piagato: «La plaie du côté est l’objet d’une vénéra-tion particulière, car, derrière le réalisme de l’image, la lance perçant le flanc du Christ a une valeur symbolique. Après la tête, la poitrine constitue l’autre partie noble du corps, celle qui passe pour receler les sources vitales. Mais cette plaie là est pleine d’ambiguïté; ses bords, ses lèvres qui laissent voir l’intérieur du corps, figurent un sexe menstrué ou une bouche suintante de sange. Une bouche que tous les mystiques dans leurs embrassements du crucifix aspirent à baiser: pour réaliser une transfusion, une étroite communion avec le Sauveur. N’est-ce pas d’ailleurs le Christ lui-même qui, sur certaines représentations, semble inciter le croyant à ce transport? Ne voit-on pas sur certaines images le Christ exhiber sa plaie, en la pointant de l’index?» (J. Gélis, Le corps, l’Église et le sacré, in AA. VV., Histoire du Corps. 1. De la Renaissance aux Lumierès, a c. di G. Vigarello, Paris, Seuil, 2005, p. 27). 38. Per un’articolata rassegna si veda M.L. Doglio, “Grandezze e meraviglie” della Sindone nella letteratura del Seicento, in AA. VV., Il potere e la devozione: la Sindone e la Biblioteca Reale di Torino, a c. di V. Comolli e G. Giacobello Bernard, Milano, Electa, 2000, pp. 17-28. Fra i contributi poetici possiamo ricordare almeno la silloge di Lucillo Martinenghi, Canzoni, sonetti e sestine in lode della Sacra Sindone, pubblicata nel 1590 e dedicata a Carlo Emanuele Gran Duca di Savoia.39. G. Lubrano, op. cit., p. 639.

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L’interrogazione retorica persegue il fine celebrativo di declinare l’evento come un assoluto di meraviglia, e viene in seguito ulteriormente intensificata dal passaggio della narrazione a discorso diretto, a voce monologante del Cristo che si rammarica di non esser stato compreso dagli uomini nella sua inscindibile unità di dolore e salvezza («O se mai mi vedessero senza cicatrici, quanti verrebbono a militare sotto l’insegne de’ miei spirituali contenti!», p. 642).

A rispondere torna la parola del predicatore che fonda il proprio ragionamento parenetico sul nucleo concettuale prettamente barocco della discordia concors – ossia proprio su un’esaltazione parossistica del dato paradossale –, intrecciando i due piani della figurazione principale (corpo e tela) in nome della loro comune essenza di spazi pluridimensionali, dotati di un interno e di un esterno, di un sopra e un sotto, di un vi-sibile e di un non-visibile; di microcosmi in cui il reale rivive funzionalmente attraverso la propria complessità, pluralità; di forme della memoria fabbricate con perizia tecnica attraverso intense, metodiche trafitture dei sensi, e ricami crudeli della coscienza:

Ditemi, tutta la macchina di questo Mondo visibile non si elementa ella di cose discordiosamente concordi, di pieno e di vacuo, di luce e di ombra? […] Vi sia scuola il nostro corpo umano di quanto dico. Egli racchiude più parti, più or-gani, bisognevoli di varie qualità nelle funzioni vitali, ossa dure, carni polpose, ramicelli di vene, sfilacciature di cartilaggini, legamenti di nervi, il cuore un bol-licame di fuoco, il cerebro una massa di ghiaccio, il pulmone un mantice di aria, il fegato uno stagno di sangue; e tanti umori eterogenei, biliosi, flemmatici, e per tutti si regolano da un’anima; né si potrebbe vivere senza contrari. […] Fatevi a considerar un panno di arazzo, un parato di rapporti di contratagli istoriato dal capriccio de’ Ricamatori. Vi spuntan Primavere infiorate a strascichi ambiziosi di seta. Vi ondeggian Mari senz’acqua a brilli d’argento, schiere d’Eserciti arrolati dalla punta d’un ago, vi sorgono facciate di reggie, prospettive di Paesi fabricati dall’architettura di un telaio. Dove la mano più punge, più rabbellisce. Ogni colpo figlia stupori, ogni ferita ravviva vezzi di coralli, di gioie, versando per sangue rivoli d’oro filato. Tutte le figure de’ ricami ricevon il prezioso dalle piaghe; e per risaltare più cangianti nel colorito, più gaie nel disegno, si lasciano più svenar nel-la tela. Se però voltate il rovescio de’ drappi, vi troverete un imbarazzo di cuciture, uno scombiglio di filaticci, un rappezzamento di cenci. Così la Pace lasciata da Cristo. […] Cristo non seppe donarci la Pace, senza far mostra delle sue Piaghe, peroché quella non fiorisce senza di queste40.

40. G. Lubrano, op. cit., pp. 642-644, corsivi miei. Vediamo anche E. Tesauro, op. cit., pp. 282-284: «O che paradossi, che assurdi, che incompatibili contrarietà furono queste. Qual humano intendimento potrà capire […]. Meravigliose Antitesi, et incompatibili contrarietà certamente son queste, Generosissimi Heroi; ma l’ingegnoso Dolore, perché gli Angeli ancora in questo turbolentissimo giorno col patiente Giesù, e con la compatiente sua Madre si condolessero, miracolosamente oprò, che le ripugnanze non ripugnassero, le discordanze concordassero, lo sconcerto fosse concerto».

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INDICE

5 Presentazione

ESTREMI

Romana Brovia11 «Diluvium redit antiquum». Il tema della natura violenta nelle opere di Francesco

Petrarca

Andrea Masetti33 «Vorrei tu mi armassi la mano»: Antonio Delfini poeta della fine dell’uomo

I VOLTI DI POLEMOS: MIMESI DÉPLACEMENT NASCONDIMENTO

Rosa Necchi47 Marte nel Bosco Parrasio. La rappresentazione della guerra nelle Rime degli Arcadi

Alessandro Benassi61 «L’arco proprio adoprò d’archetto». Lettere armi e amori in G.B. Marino

Giovanna Rizzarelli79 «Cominciar quivi una crudel battaglia». Duelli in ottave nell’Orlando Furioso

Anna Maria Salvadè101 L’«alto delitto atroce». La morte di Luigi XVI nell’immaginario poetico italiano

LA VIOLENZA COME STRUMENTO DI CONTROLLO: STRATEGIE RETORICHE

Tobia Zanon117 «Di vïolenza amico?». Misogallismi tra fine Sette e primo Ottocento

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Ambra Meda135 Grattacieli e gangsters. Rappresentazione della violenza nelle cronache ameri-

cane del Ventennio

Martyna Urbaniak157 «Timete Deum». Parole e immagini di violenza nella predicazione di Bernardino

da Siena

Andrea Torre183 Corpo ferito, memoria aperta

NEL CORPO VIOLATO DELLA LINGUA

Matteo Leonardi205 «La lengua m’è mozzata». La violenza d’Amore nel linguaggio mistico tra XII e

XIII secolo

Fabrizio Bondi225 Tauromachie non latenti. A proposito del più grande poeta “sonoro” italiano

249 Notizia

253 Indice dei nomi


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