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Demolizioni punitive: guasti in città, in La costruzione della città comunale italiana. Secoli...

Date post: 09-Jan-2023
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293 Domenica 13 maggio, pomeriggio Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi Presidente Prof. GABRIELLA PICCINNI ROBERTA MUCCIARELLI DEMOLIZIONI PUNITIVE: GUASTI IN CITTà * Senza, non è dato concepire la città medievale — «urbs ipsa moenia sunt» — secondo la nota definizione di Isidoro — e nem- meno percepirla: senza mura la città non è, la città non c’è. Le mura sposano valori simbolici e fatti funzionali: sono il banco di prova della tecnologia difensiva, sono un introito fiscale, sono l’onda che avanza e rifluisce sotto l’urto della spinta demografica. Le mura sono il segno di una frontiera ambigua ed ambivalente che include ed esclude, che separa e distingue ma al contempo mette in contatto. Le mura sono il disegno che modella, dà figura, cinge lo spazio infinito e inafferrabile e lo trasforma in ‘luogo’, dunque, in sostanza, in realtà 1 . Dall’inconsistenza del nulla le mura traggono e consegnano la cit- tà alla percezione, alla raffigurazione, le danno vita e significato. Per rappresentare in forma sommaria, realisticamente o simbolicamente una città, nei sigilli, nei medaglioni, nei dipinti, nelle miniature, nella coeva cartografia se ne rappresentano le mura; nelle mura i cronisti condensano ed individuano l’idea di città 2 . Insomma sine moeniis, * Dedicato a E. 1 J. BASCHET, I mondi del medioevo: i luoghi dell’aldilà, in Arte e Storia nel Medioevo, a cura di E. CASTELNUOVO - G. SERGI, Torino 2002, pp. 317-368. 2 Così ad esempio, per l’anonimo autore di una cronaca senese — che scri- ve a proposito del tradimento di certi cittadini: «ma la Vergine Maria aiutò e difese
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Domenica 13 maggio, pomeriggioPistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei VescoviPresidente Prof. Gabriella Piccinni

Roberta Mucciarelli

DeMolizioni Punitive: Guasti in città

*

senza, non è dato concepire la città medievale — «urbs ipsa moenia sunt» — secondo la nota definizione di isidoro — e nem-meno percepirla: senza mura la città non è, la città non c’è. le mura sposano valori simbolici e fatti funzionali: sono il banco di prova della tecnologia difensiva, sono un introito fiscale, sono l’onda che avanza e rifluisce sotto l’urto della spinta demografica. le mura sono il segno di una frontiera ambigua ed ambivalente che include ed esclude, che separa e distingue ma al contempo mette in contatto. le mura sono il disegno che modella, dà figura, cinge lo spazio infinito e inafferrabile e lo trasforma in ‘luogo’, dunque, in sostanza, in realtà

1. Dall’inconsistenza del nulla le mura traggono e consegnano la cit-tà alla percezione, alla raffigurazione, le danno vita e significato. Per rappresentare in forma sommaria, realisticamente o simbolicamente una città, nei sigilli, nei medaglioni, nei dipinti, nelle miniature, nella coeva cartografia se ne rappresentano le mura; nelle mura i cronisti condensano ed individuano l’idea di città

2. insomma sine moeniis,

* Dedicato a e.1 J. Baschet, I mondi del medioevo: i luoghi dell’aldilà, in Arte e Storia nel

Medioevo, a cura di e. castelnuovo - G. sergi, torino 2002, pp. 317-368.2 così ad esempio, per l’anonimo autore di una cronaca senese — che scri-

ve a proposito del tradimento di certi cittadini: «ma la vergine Maria aiutò e difese

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nulla civitas, parafrasando quanto aveva detto isidoro.Malcerte, fragili, inesistenti sono il segno della città in perico-

lo, minacciata, nuda: di fronte all’attacco di carlo d’angiò, nel 1282, Messina deve riattare in tutta fretta le proprie, schiuse e rotte in più parti: e sono le sue donne che, capelli al vento e figli al seguito, «por-tando pietre e calcina» in tre giorni di lavoro ricostituiscono le difese salvando la città

3.Distrutte, esse sono la cifra sintetica della città distrutta: cerchi

di massi disfatti, pezzi di porte crollate: il 28 giugno del 450 la siste-matica distruzione di Firenze ad opera del pessimo totila, «flagellum Dei», è rappresentata dall’illustratore della Cronica di Giovanni villani attraverso il battistero di san Giovanni, sopravvissuto al gua-sto, circondato da un cerchio di massi disfatti, di pezzi di porte ed edifici crollati

4. la conquista da parte dei fiorentini e la successiva

questa città de le mani de traditori e de’ nemici di queste mura», Cronica senese di autore anonimo della metà del secolo XIV, in Cronache senesi, a cura di a. lisini - F. iacometti, Bologna 1931-1939 (Rerum italicarum scriptores. Raccolta degli stori-ci italiani dal cinquecento al Millecinquecento ordinata da l.a. Muratori — da ora Ris2 —, Xv/ vi), pp. 39-172: 62.

3 così nel resoconto di villani è narrato l’attacco e la subitanea difesa della città: «tegnendo lo re consiglio di quello ch’avesse a ffare, i più de’ conti e baroni consigliaro ch’lla si combattesse aspramente da più parti, e spezialmente dall’una parte che lla tera nonn avea muro ma eravi barrata di botti e altro legname; e assai era possibile di poterla vincere per battaglia […]. stette lo re con sua oste intorno a Messina da due mesi, e dando la sua gente alcuna battaglia dalla parte ove nonn era murata, i Missinesi colle loro donne, le migliori e maggiori della terra, e con loro figliuoli piccioli e grandi, subitamente in tre dì feciono il detto muro, e ripararono francamente agli asalti de’ Franceschi. e allora si fece una canzonetta che disse: Deh, com’egli è gran pietade / Delle donne di Messina / Veggendole scapigliate / Portando pietre e calcina. / Iddio gli dea briga e travaglia / A chi Messina vuole guastare etc.»: giovanni villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1991, la cita-zione è tratta da 1, viii, lXviii, pp. 519-520 (Come Messina fu combattuta dalla gente del re Carlo, e come si difesono). vedi immagine in fine del contributo. simile concetto espresso ivi, 2, iX, lXXi, p. 137: «vegnendo l’altra gente, entraro nel bor-go di san Gallo sanza nulla contasto, che allora non erano a la città le cerchie delle mura nuove, né fossi, e le vecchie mura erano schiuse e rotte in più parti» (Come i Bianchi e’ Ghibellini vennero a le porte di Firenze, e andarne in sconfitta).

4 con i suoi 253 disegni, l’unico manoscritto illustrato della Nuova Cronica di Giovanni villani, conservato presso la Biblioteca apostolica vaticana, rappresen-ta una vero giacimento di immagini del Medioevo italiano: sull’apparato illustrativo del codice vedi il recente Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 im-magini del ms. Chigiano L. VIII. 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di c. Frugoni, città del vaticano - Firenze 2005. l’illustrazione della distruzione a p. 101 (f. 36r) — riprodotta alla fine del contributo — ma vedi anche a p. 104 (f. 43r) dove cam-

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distruzione di Fiesole, nel 1010, di Prato, nel 1107, la sottomissio-ne, con gli alleati lucchesi, di Pistoia, nel 1305-1306, è raccontata dal disegnatore attraverso la rovina a terra di quelli che prima erano pos-senti e saldi scudi di pietra: al loro posto una bava semicircolare di grasse macerie ad ingombrare il terreno

5.anche nel racconto del cronista, lunghe e defatiganti operazio-

ni di assedio, conquiste, devastazioni di castelli e città nemiche sono tutte risolte ed abbreviate in quel potente iconogramma narrativo del «disfare le mura»

6. Racconta la cronaca detta di Fredegario, sotto il

peggia un paesaggio di mura rovinate a terra (Come la città di Firenze istette guasta e disfatta CCCL anni). «e veggendo che per assedio no·lla potea avere, imperciò ch’era fortissima di torri, e di mura, e di molta buona gente, per inganno, e lusin-ghe, e tradimento s’ingegnò d’averla […] Molti e più de’ cittadini ne furono morti, e tagliati, e presi, e la città fue tutta spogliata d’ogni sustanzia e ricchezza per gli detti Gotti, vandali, e ungari. e poi che totile l’ebbe così consumata di genti e del-l’avere, comandò che fosse distrutta e arsa e guasta, e non vi rimanesse pietra sopra pietra; e così fu fatto […] e così fu distrutta la nobile città di Firenze dal pessimo totile a dì XXviii di giugno negli anni di cristo ccccl, e anni vcXX da la sua edificazione; e nella detta città fu morto il beato Maurizio vescovo di Firenze a gran tormento per la gente di totile, e il suo corpo giace in santa Reparata»: G. villani, Nuova Cronica, cit., la citazione è tratta da 1, iii, i, pp. 96-98. vedi immagini in fine del contributo.

5 vedi le illustrazioni in Il Villani illustrato, cit., pp. 109 (f. 49v); 115 (f. 56v); 214 (f. 188r).

6 Qualche esempio desunto da g. villani, Nuova Cronica cit: (anno 1258): «v’andarono i fiorentini subitamente, e entrati nel castello, presono la terra per di-sfare le mura e fortezze» (Come i fiorentini disfecero la prima volta il castello di Poggibonizzi, 1, vii, lXiii, p. 358); (anno 1259) «essendo podestà d’arezzo messe-re stoldo Giacoppi de’ Rossi di Firenze, per suo senno e valentia menò gli aretini e di notte con iscale entraro in cortona, la quale era molto fortissima, ma per la mala guardia la perdero i cortonesi; e gli aretini disfeciono le mura e le fortezze e fecio-gli loro suggetti» (Come gli Aretini presono e disfeciono Cortona, 1, viii, lXvi, p. 361); altre volte si parla più genericamente di disfare e abbattere: (anno 1270) «i Fiorentini cavalcarono Poggibonizzi, e feciono abattere e disfare tutto il castello» (Come i Fiorentini presono il castello di Piano di Mezzo in Valdarno, e come disfecio-no Poggibonizzi, 1, viii, XXXvi, p. 467); (1260): «i Fiorentini andarono ad oste a uno castello del vescovo d’arezzo, ch’avea nome Gressa, molto forte con due cinte di mura, in casentino, e quello per forza e per assedio ebbono, e poi il feciono di-sfare» (Come i Fiorentini presono e disfeciono il castello di Gressa, 1, vii, lXvii), p. 362. nelle Croniche di sercambi vari esempi: Le croniche di Giovanni Sercambi luc-chese, pubblicate sui manoscritti originali, a cura di s. Bongi, lucca 1892, 1, lXXiv («come si disferon le mura di Pistoia»), p. 35; 1, cvii: «l’anno di Mccciii, lucha e Firenze feceno hoste a Pistoia […] e guastònno in fine alle mura» p. 51; 1, cviii, p. 51: «e im quell’anno, lucha disfecie le mura di verucola»; 1, cX, pp. 53-54: «l’anno di Mcccvi […] luccha e Firenza ebbeno Pistoia per fame, con certi pac-

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cui nome si comprendono più autori del vii e viii secolo, che ne-gli anni intorno al 640 Rotari conquista le città di Genova, varigotti, albenga, savona, odengo e luna: devasta, distrugge, dà alle fiam-me, fa razzie, riduce la popolazione in prigionia poi, rase al suolo fino alle fondamenta le mura di queste città, ordina che da quel momento in poi esse vengano chiamate villaggi («murus civitatebus supscriptis usque ad fondamento distruens, vicus has civitates nomenare prae-cepit»)

7. Più che azione tecnica di ostilità, l’abbattimento delle mura appare nello specchio iconografico e narrativo gesto dotato di alta carica simbolica: è l’offesa malvagia e la memorabile umiliazione in-flitta dalla mano nemica che con quel gesto spoglia la città della sua protezione e della sua dignità, mortificandola, declassandola. È l’atto di umiltà e sottomissione che i cives avviliti costretti alla resa offro-no al vincitore

8.scrive Yves Renouard: la città medievale comincia con la co-

struzione della prima cinta di mura e finisce con la distruzione dell’ultima

9.nel 1158 Milano viene assediata dalle truppe dell’imperatore

Federico: non è la prima volta: alle spalle della città comunale, tut-ta una lunga preistoria di saccheggi e distruzioni e la città, racconta

ti, essendovi stato l’assedio mesi Xi; et era capitano dell’oste lo marcheze Morovello, et disfeceno le mura»; 1, cXiv, pp. 57-58: «l’anno di McccXi, lo dicto messer arrigo fu incoronato in Milano della corona di ferro […] Fu in Milano romore e messer Guidecto usciò fuori di Milano con tucti suoi seguaci e fu ribello de’ re. allora elli co’ guelfi di cremona ribellò cremona, et l’altre terre tornòro a mercè de re. e poi lo re chavalcò a cremona e ’l populo di cremona aperseno le porti e diede-no la terra liberamente; et per paura messer Guidecto et li altri guelfi se n’uscirono fuori. e il dicto re fe’ disfare le mura a cremona, e contra li guelfi che ribellònno la terra fecie grandi processi […]. e nel dicto anno lo re ebbe Brescia per fame e die-de loro sentenza adosso che fusse loro disfacte le mura».

7 Fredegarii et aliorum, Chronica, a cura di B. Krusch, Hannover 1888 (Monumenta Germaniae Historica — da ora MGH —, scriptores Rerum Merovingicarum, tomo ii), pp. 1-193 (citazione pp. 156-57).

8 È questo il caso dei milanesi che — secondo il resoconto del notaio impe-riale Burcardo che descrive con minuzia di particolari la caduta di Milano — il 21 febbraio 1162 offrirono all’imperatore la loro resa con una serie di condizioni, fra cui si menziona esplicitamente la promessa «totum fossatum planare; muros et om-nes turres destruere»: il documento è pubblicato in F. Guterbock, Le lettere del notaio imperiale Burcardo intorno alla politica del Barbarossa nello scisma ed alla di-struzione di Milano, «Bullettino dell’istituto storico italiano per il Medio evo e archivio Muratoriano», 61 (1949), pp. 1-65, citazione alle pp. 60-61.

9 Y. Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo, Milano 1975 (ed. or. Paris,

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landolfo seniore, ha sviluppato capacità tecniche, saperi scientifici, organizzazione militare

10: nel 1037, di fronte all’attacco di corrado ii, apparecchia difese murarie eccezionali: porte, serraglie, antipor-te; trecentodieci torri murali fanno da sentinella alla città

11. Milano, tuttavia, non regge alla furia del Barbarossa. nel 1162, costretta alla fame, si arrende

12; il 20 marzo cominciano le demolizioni. «Precepit laudensibus, ut portam orientalem, que vulgo arienza dicitur, totam destruerent; cremonensibus vero portam Romanam demoliendam comisit, Papiensibus portam ticinensem, novariensibus portam cumacinam, illis vero de seprio ac de Martexana portam novam»: l’area di porta orientale è attaccata dai lodigiani, porta Romana dai cremonesi, porta vercellina dai novaresi, porta comacina dai coma-schi, porta ticinese dai pavesi, Porta nuova da quelli di seprio e Martesana

13; i nemici di Milano e gli alleati lombardi dell’impera-

1969), p. 11.10 Già il Versum de Mediolano civitate celebrava, secondo un modulo che

troverà piena fioritura in età comunale, la solidità edilizia di una città «firmiter edi-ficata», dotata di mura larghe dodici piedi su cui si aprono nove porte; circa settanta anni dopo, il Versus de Verona, composto durante il regno di Pipino, tra 796 e 805, probabilmente da un ecclesiastico veronese, descriveva la solidità edilizia della città «murificata firmiter», difesa da forti mura in cui risplendono quarantotto torri. Da quelle mura, alte e robuste, i milanesi «credono di essere protetti», osservava due secoli dopo, nel 930, il re di svevia Burcardo, nella memoria composta del vesco-vo di cremona liutprando (liutprandi, Liber Antapodoseos): documenti pubblicati da G. Fasoli - F. Bocchi, La città medievale italiana, Firenze 1973, pp. 100-104 e 104-109.

11 il passo tratto dalla cronaca milanese di landolfo seniore è edito da R. Bordone, La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV), torino 1984, p. 102.

12 ci si riferisce a Das Geschichtswerk des Otto Morena und seiner Fortsetzer Über die Taten Friederichs I in der Lombardei. Ottonis Morenae et continuatorum hi-storia Frederici I (da ora indicato Ottonis Morenae et continuatorum), a cura di F. Guterbock, Berlin 1930 (MGH, scriptores Rerum Germanicarum, nova series, t. vii). vedi G.M. cantarella, I ritratti di Acerbo Morena, in Milano e il suo ter-ritorio in età comunale, atti dell’Xi congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo (Milano 26-30 ottobre 1987), spoleto 1989, pp. 989-1010, vd. soprattut-to pp. 997-98.

13 la descrizione tratta dalla Historia di ottone e acerbo Morena (si deve ad acerbo): «et, ut vere opinior, quinquagesima pars Mediolani non remansit ad destruendum. Remansit tamen fere totus murus civitatem circumdans»: Ottonis Morenae et continuatorum, cit., ad a. 1162, p. 157. vedi anche F. cardini, Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Milano1985, p. 234. sulla reazione dei cittadini: «nel momento cruciale dello scontro i monaci di s. ambrogio si schierarono con l’impero. Quando il Barbarossa fece radere al suolo Milano la

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tore eseguono la demolizione. che il 1 aprile è terminata

14. uguale destino avevano subìto crema — testa di ponte della politica terri-toriale milanese di fronte a cremona —, tortona, spoleto, Brescia e Piacenza: tuttavia l’assedio e la distruzione di Milano era destinata a rimanere un unicum.

l’immagine dei cittadini costretti ad assistere allo spettacolo polveroso della ruina, il «crosciar de le trecento torri de la cerchia, una ad una, le case spezzate, smozzicate, sgretolate», che riverbera dalla Canzone di Legnano, è forse l’ultimo anello nella catena del-le desolate visioni legate all’episodio

15: il primo fotogramma ce lo offre probabilmente Burcardo, notarius imperatoris, che nella lette-ra indirizzata proprio in quei giorni dell’assedio all’abate nicola di siegburg descrive come «deinde muri civitatis et fossata et turres paulatim destructe sunt; et sic tota civitas de die in diem magis ac magis in ruinam et desolationem detracta est»

16. nel resoconto di un fervente partigiano del Barbarossa qual era il cronista lodigiano acerbo Morena l’attacco alla città travalica da subito l’ordinario, per assumere connotati apocalittici; si parlò di un guasto straordinario: i quarantanove cinquantesimi di Milano erano andati distrutti affer-mava acerbo: computo da fervente partigiano, diciamo noi: ciò non toglie che per gli altri comuni dovette trattarsi di un duro monito: Bologna — è ancora acerbo a raccontare — si affrettò ad offrire la sua obbedienza, non volendo i bolognesi fare la fine di Milano («ne sicut Mediolanum, si rebelles imperatori existerent, funditus subver-terentur, maxime timebant»)

17.

basilica di s. ambrogio venne risparmiata così che a demolizione avvenuta la si vide stagliarsi intatta in mezzo alle rovine delle case e mura circostanti. e l’odio dei mi-lanesi per l’evento fu tale che per cinque anni in s. ambrogio non fu più possibile celebrare messa»: P. Brezzi, Gli alleati italiani di Federico Barbarossa, in Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e Germania, a cura di R. Manselli - J. Riedmann, Bologna 1982, pp. 157-197, vedi p. 173sgg. (annali dell’istituto storico italo-gemanico, Quaderno 10).

14 sulla condizione dei milanesi, costretti a trasferirsi nei borghi non distanti dalla città: G.P. Bognetti, La condizione giuridica dei cittadini milanesi dopo la di-struzione di Milano (1162-1167), «Rivista di storia del diritto italiano», i (1928), pp. 311-335; vd. p. 317sgg.

15 «Da i quattro corpi santi ad una ad una / crosciar vedemmo le trecento tor-ri / de la cerchia; ed al fin per la ruina / polverosa ci apparvero le case / spezzate, smozzicate, sgretolate / parean file di scheltri in cimitero»: G. carducci, Canzone di Legnano, Xi, vv. 105-109.

16 Guterbock, Le lettere, cit., p. 64.17 citato da R. Manselli, Milano e la Lega lombarda, in I problemi della civiltà

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l’arrivo del Barbarossa in italia innescò una generale riflessione sulla natura della iurisdictio e, in tale contesto, una ridefinizione del reato politico. Giuliano Milani ha individuato proprio a questa altez-za cronologica una mutazione del significato del bannum: subire il bannum imperiale, significava meritare la qualifica di nemici dell’im-pero, comportante la confisca dei beni, spesso la loro distruzione, e l’allontanamento dalla città: fu in tale accezione che il bando fu usato da Federico contro i disobbedienti, fossero essi individui o città, ne-gli anni della distruzione di Milano

18. sollecitati dagli avvenimenti, a partire da questi stessi anni, anche i comuni impegnati nella for-mazione della lega lombarda cominciarono ad allestire una nuova immagine del reato politico. nel trattato firmato il 24 ottobre 1169 i comuni della lega dichiaravano solennemente che chi avesse aderito alla pars imperii sarebbe stato cacciato dalla città «et res eius degua-standas»: così, conformemente, quando nel 1170 entrò nell’alleanza Pavia, i suoi consoli dovettero giurare di espellere dalla città e far di-struggere i beni di coloro «qui sunt processi ad imperatorem».

nella documentazione strutturalmente frammentaria di età con-solare, alcuni indizi, lungi dall’offrire un quadro coerente, consentono di cogliere il carattere di novità innescato dallo scontro con l’impe-ro. l’analisi dei brevi consolari più antichi mostra che la distruzione dei beni, già associata all’esilio, andava a colpire i comportamenti le-sivi della pace, garantita dal comune: a Pistoia (1140-1180) il console si impegnava ad allontanare («espellere») dalla città e a distruggere «turrim vel partem turris, meliorem casam» di chiunque uccidesse intenzionalmente un suo concittadino, a meno che il reo non facesse pace con colui con il quale è in lite

19. Genova (1143), a differenza di

comunale, atti del congresso storico internazionale per l’viii° centenario della pri-ma lega lombarda (Bergamo 4-8 settembre 1967), a cura di c.D. Fonseca, Milano 1971, pp. 9-22: 14. Per gli avvenimenti di questi anni, vedi anche la cronaca mila-nese Gesta Federici I imperatoris in Lombardia autore cive Mediolanensi (=Annales Mediolanenses madiores), a cura di o. Holder-egger, Hannover 1892 (MGH, scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum), pp. 38sgg. Per acerbo Morena, Ottonis Morenae et continuatorum, cit.

18 ad esempio nel 1159 contro cremesi, milanesi e bresciani; e all’indoma-ni della distruzione di Milano, per i potenziali nemici dei pisani e degli astigiani, alleati del Barbarossa: G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politi-ci a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003 (istituto storico italiano per il Medioevo, nuovi studi storici, 63), p. 39.

19 «si cognovero aliquem civem alterum concivem studiose interfecisse, nisi

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Pistoia, se ne servì come pena deterrente: passibile della punizione dell’esilio e della distruzione di «omnia bona» era chiunque si fosse macchiato di un omicidio volontario

20.adesso, nell’urgenza dello scontro con il Barbarossa, e in con-

seguenza di quello, i comuni ampliano e modificano la nozione e l’immagine del crimine politico, qualificando come nemico non più solo chi si sottraeva ai percorsi pacificatori, non più solo, chi si rendeva protagonista di azioni e comportamenti che turbavano la concordia cittadina, ma anche chi minacciava il sostegno al governo comunale, non condividendone schieramenti di campo, scelte poli-tiche e militari.

nel corso dei secoli oggetto della nostra attenzione l’idea del nemico si articolò in diverse immagini. le peculiarità locali della con-figurazione sociale, della posizione politico-diplomatica dei comuni ebbero un grande peso nel determinare variabili in questo proces-so di delimitazione concettuale; ma la direzione appare largamente condivisa e procede nel senso, già individuato, di una progressiva di-latazione dell’idea di delitto politico, speculare ad una progressiva capacità di definizione degli avversari da parte dei poteri comunali in via di consolidamento e ad un progressivo vigore nella predisposizio-ne dei dispositivi di condanna per punire i disordini interni.

la configurazione degli scontri interni come scontri fra la <par-te della chiesa> e <parte dell’impero> — affermatasi dagli anni trenta del Duecento — ebbe un rilievo enorme nel marcare la fisio-nomia degli avversari del comune. come già il confronto e l’affronto con Federico i, aveva messo in circolazione materiali giuridici, rifles-sioni, termini, consegnando ai governi comunali possibilità nuove per la ritorsione e la punizione dei nemici, allo stesso modo nell’epo-

pro difendendo fecerit, si habuerit turrim vel partem turris meliorem casam ei fa-ciam destrui et de civitate illum expellam et per quinquennium in civitate Pistoria eum habitare non permittam nec in suis burgis nec infra tria miliaria prope civita-tem, me sciente, nisi pacificatus fuerit cum eo cum quo litem habuerit»: la norma, tratta dagli statuti pistoiesi del secolo Xii, è citata in Milani, L’esclusione, cit., p 30.

20 «si aliquis homo vel femina specialiter et meditative in homine nostre compagne homicidium fecerit, vel in illis qui non fuerint vocati, vel quos cognove-rimus non esse utiles entrare in nostram compagnam, vel in clerico sive in minore qui habitant in nostra compagna, homicidam illum exiliabimus bona fide, et omnia bona illius que invenire poterimus diripiemus, et devastabimus». Codice diplomati-co della Repubblica di Genova dal DCCCCLVIII al MCLXIII, a cura di c. imperiale

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ca di Federico ii, i due schieramenti politici manifestano l’attitudine a suggerire comportamenti che tendono a durare nel tempo. allora, e per molti decenni, i comuni, subendo direttamente l’influenza del-la cancelleria imperiale e per altro verso della propaganda pontificia — che avevano sacralizzato la lotta, contribuendo a radicare nelle città l’assimilazione tra crimine politico ed eresia e l’equiparazione tra rei e favoreggiatori — cominciarono ad invocare, come dimo-strano le rubriche statutarie di molti comuni, anche per gli eretici, sospetti d’eresia, e loro favoreggiatori, e dunque per un numero sem-pre più grande di individui, il ricorso all’esilio e alla distruzione dei beni, a quello correlato

21.su questa contiguità occorre fermarsi. Dalle prime attestazioni

delle fonti cronistiche — Gerardo Maurisio che narra i guasti di «do-mos et turres» seguenti l’espulsione del 1194 della «pars vivarensium» da vicenza

22, gli Annales Brixiensis, che nel descrivere l’esclusione

Di s’antangelo, i, Roma 1936, p. 155.21 nel caleidoscopio del cortocircuito tra momento generale e momento par-

ticolare della lotta politica, alcuni episodi offrono un chiaro esempio della capacità di influenza esercitata dall’azione di papato e impero sui quadri comunali e cittadi-ni: a verona, nel 1228, una norma contro i nemici del comune, coloro che facevano parte delle fazioni e minavano la pace interna, prevedeva l’exilium, la confisca e la distruzione dei beni per chi si fosse impossessato di alcuni castelli del contado, e stessa pena, distruzione della casa e allontanamento definitivo, era stabilita per chi avesse attaccato il palazzo comunale e per gli eretici. nel 1237 furono banditi da Bergamo, i signori rurali che avevano consegnato a Milano, i castelli di cortenuova e Mura; nello statuto si stabilì che nessuno dovesse più sentirsi stretto a legami feu-dali con i conti, e che nessun cittadino potesse recarsi nei luoghi da loro controllati, pena il bannum perpetuo, la distruzione dei beni immobili e il sequestro: i due esem-pi tratti da Milani, L’esclusione, cit., pp. 124-25. Per l’influenza della Constitutio sulla giustizia politica, pp. 115sgg. l’inserimento della federiciana Constitutio contra infedeles imperii, emanata nel 1239, nello statuto bergamasco rivela da quale auto-rità fosse ispirato il testo normativo. inserito negli statuti delle città alleate, l’editto federiciano costituì fondamento per tutta la successiva normativa politica dei comu-ni. a distanza di molti anni, a siena, il costituto guelfo del 1309-1310, straordinario monumento del ceto guelfo al governo, si apriva richiamando il programma antie-reticale di Federico e di papa chimento, giurato dal podestà in carica: agli eretici, questi «lupi rapaci dimostranti di fuore mansuetudine di pecore, angeli pessimi, serpenti ingannatori de le colombe», era fatto divieto di abitare nella città; per i ri-cettatori, favoreggiatori, e per i sospetti di soçura eretica, si spalancavano le porte dell’esilio in perpetuo, la confisca dei beni e la demolizione della casa «infino al fon-do» («et quella casa, sença sperança di rehedificare, infino al fondo sia disfatta»: Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, a cura di M. salem el sheikh, 4 voll., siena 2002, i, dist. i, cap. 3/24, p. 9.

22 l’esclusione dei da vivaro da vicenza nel 1194: «et sic inter ipso sorta

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della «pars populi» di Brescia, registrano come in quell’occasione «omnes tures eorum et eorum difici dirupta sunt»

23 — fino ai gran-di processi di espulsione delle parti perdenti di metà Duecento, la centralità dell’associazione fra la pratica della demolizione e l’uscita dalla città suggerisce che non è possibile comprendere fino in fondo la valenza del guasto se non si guarda al tema della cittadinanza.

il bannum esprime in negativo, con grande efficacia nella sua radicalità, il senso insieme dell’estraneità e dell’appartenenza: il ban-nitus è un non-cittadino trasformato improvvisamente in nemico, strappato all’appartenenza alla comunità. la distruzione della domus, esprime, con la stessa radicalità, il senso insieme dell’appartenenza e dell’estraneità: la domus lega il soggetto alla comunità, lo trasforma in civis; la sua demolizione rende non solo visibile, e dunque pub-blica, l’espulsione e la sua raffigurazione, ma anche più drammatica: perché essa è il risultato di una traumatica rottura, di un materiale venir meno del nesso che lega la città ad un suo membro.

la cittadinanza, l’ha definita Pietro costa, è il legame di ap-partenenza di un individuo alla comunità politica, ma le forme di realizzazione di questa sono molteplici

24. eppure, nella varietà delle soluzioni che caratterizza nell’italia comunale l’effettivo regime giu-ridico della cittadinanza, nel viluppo di diritti e pratiche giuridiche che di volta in volta scaturiscono da quel legame specifico fra indivi-duo e civitas, la domus appare filtro privilegiato. È attraverso la domus che la civitas vede l’uomo. esplicitamente, alcuni statuti decretano che chi non è proprietario, non può essere cittadino a tutti gli effetti («cum honoribus et oneribus»); gli esempi sono molteplici; nelle car-te di cittadinanza frequentissima è la promessa di acquistare possessi nel territorio comunale o case nella città

25. la domus — scriveva agli

discordia partes insimul pugnaverunt et tunc pro magna parte civitate combusta, tandem pars vivarensium cum ispo domino ecelino expulsa est de civitate, cum qua pars exivit tunc bone memorie Pistor episcopus vicentinus […]. tunc domos et turres quamplures amicorum domini ecelini, ipsi fugatis, destruxerunt»: gerardi maurisii, Cronica dominorum Ecelini et Alberici fratrum de Romano (aa. 1183-1237), a cura di G. soranzo, città di castello 1914 (Ris2, viii/14), pp. 6, 12.

23 «et circa festum sancti Faustini expulsi sunt de civitate iacobus confano-nerius cum filiis Bocacci et cum societate eorum et thomas potestas, et acceperunt vielminum de lendera pro protestate et omnes tures eorum et eorum dificia dirup-ta sunt» (dagli Annales Brixienses, citato da Milani, L’esclusione, cit., p. 65, nota).

24 P. costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Roma-Bari 1999 p. 13.

25 Da una sentenza dei consoli di Milano del 1184 risulta infatti essere con-

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inizi del novecento Dina Bizzarri — rappresenta «la materializzazio-ne della presenza del consociato nel comune, la realizzazione della sua volontà di fissare nella città la propria dimora stabile, il simbo-lo della famiglia entrata a far parte della comunità». Per questo chi si unisce al comune, chi si aggrega alla città deve acquistare una casa, per questo all’espulsione, all’allontanamento, segue la confisca o la distruzione di quella, pubblica attestazione che egli è cancellato dal novero della societas comunale

26. Ma la cancellazione dal corpo della civitas, dalla comunità politica come tale, non è possibile per l’in-dividuo, se non ad un prezzo insostenibile. «si non est civis, non est homo»: nel discorso politico-filosofico, nelle argomentazioni che la cultura comunale elabora sulla cittadinanza, l’individuo — come attesta Remigio de’ Girolami — non è pensabile al di fuori della rela-zione costitutiva con la città. Di cui la domus è medium.

non insisterò sul ruolo pregnante della domus: sistema di rap-porti interpersonali, centro di fondamentali funzioni economiche, luogo unitario di vita e attività produttiva, la domus è un microcosmo regolato, sorretto da strutture memoriali e potestative. la storiogra-fia ne ha illuminato bene il polivalente significato. Residenza comune e indivisa di un gruppo parentale, la domus consortile inscrive nel quadro del paesaggio urbano il vigore del ceppo originario e quel-lo delle sue diramazioni più recenti; centro delle reti di clientele e di amicizie, in essa affondano i sentimenti più profondi che deter-

dizione indispensabile per diventare cittadino milanese aver posseduto «ex longis retro temporibus» una casa in città; possesso urbano e partecipazione agli oneri collettivi di difesa indicano il carattere selettivo che assume la concessione di cittadi-nanza, lo stesso carattere selettivo che ha assunto nel primo periodo l’immigrazione dalla campagna alla città: solo chi è in grado di acquistare casa e di usare le armi, semplificando, si sposta dal contado per entrare a far parte delle cittadinanza, come civis a pieno diritto: Bordone, La società urbana, cit., pp. 34 e 56-57. a siena, nel 1262, un decreto comunale stabilisce che un centinaio di uomini devono essere fatti venire dal contado a vivere a siena: essi devono essere fra i migliori, i più ricchi e in età giovanile, e ciascuno sarà obbligato entro l’anno a costruire una casa in città: «e ciascuno di loro sarà obbligato a costruirsi casa in città, in modo che tutti costruisca-no le loro case entro l’anno in cui si sono trasferiti»: Il costituto del comune di Siena dell’anno 1262, a cura di l. zdekauer, Milano 1897, dist. iiii, rubriche l-li, pp. 417-20). spesso il comune interviene per stabilire il valore dell’immobile e il luogo dove l’edificio doveva sorgere: ad esempio, a Brescia, nel 1313, lo statuto richiede la costruzione delle case «in locis vastis sive in locis vacuis»; lo stesso a siena, nel 1337 («in loco ordinando per dominos novem»): citati in D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale, torino 1916, pp. 14-15 e nota.

26 Ivi, p. 15.

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minano l’appartenenza ad un gruppo: ed è questo che esprime, in molte città, a Firenze, a Pisa, a siena, la comune denominazione (do-mus, casa), usata per indicare sia la dimora che il lignaggio. il palazzo costruito dagli antenati, all’interno del dispositivo che stabilisce l’an-tichità e la condizione del gruppo di consanguinei, assume la stessa funzione simbolica dello stemma e del nome. È lo scoglio a cui può appigliarsi in modo durevole la memoria dei membri del lignaggio: e il lignaggio ha bisogno di memoria, si nutre di memoria, perché la memoria crea gruppo, plasma solidarietà

27.si comprende perché la domus magnatizia fu l’obiettivo delle

politiche punitive dei comuni popolari. alla metà del Xiii secolo, i gruppi che si fronteggiano in città presentano ormai, ovunque, una forma simile. sorretto dall’idea guida che sono la concordia, la pace, il bene comune, le finalità dell’uomo e della politica, pensata come arte del buon governo — una cristallizzazione in questi termini può dir-si compiuta nel Xiv secolo ma l’auspicio alla concordia cittadina e il timore che essa sia minata dalle partes, appare già, in età podestarile, nelle prime codificazioni statutarie — il comune popolare contra-sta, con un ventaglio ampio di azioni punitive chiunque ostacoli la realizzazione di quel progetto. nell’ampio ventaglio della normativa antimagnatizia prodotta dai comuni a partire dalla seconda metà del Xiii secolo, Gina Fasoli notava nel 1939

28, «la straordinaria frequen-za» con cui il comune popolare ricorreva alla distruzione dei beni dei grandi, «tanto per punire in nome della giustizia […] quanto per indebolire la potenza economica della casata»

29. Bologna, Firenze, Parma, Modena, Reggio, ascoli Piceno, asti, verona, chieri, città di castello, siena. Gli esempi sono molteplici.

cinquanta anni prima, di fronte alle faide e ai conflitti che op-ponevano i milites cittadini, la giustizia comunale aveva cominciato a prendere provvedimenti significativi: traccia documentaria più evi-dente di questa dialettica tra milites litigiosi e interventi podestarili

27 la bibliografia è vastissima: ne richiamo solo alcuni elementi: Art, Memory and Family in Renaissance Florence, a cura di G. ciappelli - P.l. Rubin, cambridge 2000; ch. Klapisch, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari 1988; Famiglia e parentela nell’Italia medievale, a cura di G. Duby - J. le Goff, Bologna 1981.

28 G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatiza nei comuni dell’alta e media Italia, «Rivista di storia del Diritto italiano», 12 (1939), pp. 86-133.

29 Ivi, p. 257.

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erano state le azioni condotte sulle torri: per esempio a Bologna, nel 1195, il podestà aveva fatto abbassare quella dei sabbatini

30; a volterra, nel 1220, per ordine di ildebrandino di Romeo, i Belforti si erano visti distruggere le proprie

31. Ma, rispetto alla capillarità del programma popolare, all’estensione degli interventi di secondo Duecento, si era trattato di operazioni chirurgiche. e quegli episo-di di guerriglia nobiliare, giocata dall’alto delle torri, che avevano turbato le città in tempi anteriori, acquistavano ora, un rilievo tanto maggiore, quanto più risultavano intollerabili.

la distruzione è una esecuzione pubblica: che rende visibile la colpa attraverso la visibilità della pena. un gioco di specchi. È un atto di giustizia esemplare, gesto pubblico, violento, esplicito, tutt’al-tro che ambiguo nelle sue intenzioni di affermare un diritto (diritto di punire) attraverso un gesto esemplarmente punitivo, ammonitivo. essa ha i suoi ritmi, i suoi elementi scenografici, di spettacolarizza-zione. È un rituale scandito dai colpi degli scalpelli, dei picconi; dal cadere delle pietre, dei mattoni, che rotolano sulle strade, si deposita-no, piccoli mucchi via via più grandi; dal crepitare del fuoco, grande attore drammatico sul palcoscenico della distruzione

32. e poi picco-ni, mannaie, seghe. nell’arena urbana il cantiere della demolizione è una macchina potente. le fatiche e gli oneri per far funzionare questa macchina non sono di poco conto: il comune deve reperire e pagare la manodopera, fabbri, maestri di pietra e di legname; mae-stranze specializzate che fa arrivare da fuori, come in questo caso, dai centri minerari dello stato, sono i picconatori di Montieri, travale, Gerfalco — detti «guerchi», utilizzati in tutte le operazioni belliche, quando le mura di una città o di un castello resistono a tutti i mezzi

30 Milani, L’esclusione, cit., p. 88.31 e. Fiumi, Topografia volterrana e sviluppo urbanistico al sorgere del comune,

in id., Volterra e San Gimignano nel medioevo, a cura di G. Pinto, san Gimignano 1983, p. 99-100.

32 Per esempio a siena, il comune acquista certe quantità «panettolarum de sepo pro faciendo ignem in domo Belmontorum»: archivio di stato di siena (da ora in poi ass), Biccherna 80, c. 172r. sulla spettacolarizzazione dei rituali di giustizia, vd. a. zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte a Firenze nel tardo Medioevo tra repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo e realtà della vita urbana nel tardo Medioevo, atti del v convegno storico italo-canadese (viterbo 11-15 maggio 1988), a cura di M. Miglio - G. lombardi, Roma [1993?], pp. 153-253; sul linguag-gio scenografico della derisione politica: i. taddei, Il linguaggio dell’insulto. Palii e altri rituali di derisione (secoli XIII-XIV), «annali aretini» Xiii, 2005, pp. 65-77.

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di attacco

33 —; e poi operai comuni, gente dei vari ‘popoli’ cittadini; il comune fornisce castaldi, fanti, e nunzi che con compiti di vigi-lanza, assistenza, coadiuvano le maestranze; il comune incarica un notaio di registrare le spese; il comune compra gli attrezzi, «piccho-nibus novis, et sappis et aliis ferramentis», insomma tutto ciò che è necessario al compimento dell’opera, panetti «de sepo» (sego) «pro faciendo ignem», coppi di laterizi per spegnere gli incendi, e poi ac-qua, vino, cibo per il cantiere; il comune provvede insomma a tutte le spese, generali e «ad minutum»; poi a lavoro ultimato, c’è da far sgombrare le strade delle pietre e «de mactonibus et calcinaccis» che si sono depositati in attesa di raccolta, cernita, trasporto, riu-tilizzazione: una squadra di 12 uomini lavora per un giorno, sotto i «casamenta» distrutti.

il costo di questo cantiere, che è possibile ricostruire grazie alle registrazioni di pagamento effettuate dal comune di siena nel ii semestre del 1281, all’indomani di una rivolta ghibellina, subi-to sedata

34, è presto fissato: 340 lire circa, per una squadra di 170 maestri, 40 picconatori, 15 operai, un piccolo stuolo di funziona-ri comunali

35. obbedendo ad una normativa comunale che obbliga

33 anche Firenze fece ricorso negli assedi ai cavatori delle minieri argentifere volterrane di Montieri: R. Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voll., Firenze 1956-1968 [ed. or. Berlin 1896-1927], iv, p. i, p. 443.

34 Cronaca senese conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri, in Cronache senesi, cit., pp. 179-252 e 689-835: la ribellione alle pp. 225-6. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., ii, p. ii: pp. 272-73: «la domenica del 13 luglio del 1281 scoppiò per le vie di siena un tumulto […]. nicola di Bonifazio Buonsignori […] credette di potere con una congiura rovesciare il podestà e il governo del ceto me-dio, organo del quale erano i Quindici, e che faceva causa comune con i magnati […]. attraverso una porta apertagli a tradimento da uno dei congiurati, egli pene-trò in città con cento cavalieri, di cui facevano parte suo suocero, il conte palatino aldobrandino, Gherardo di Prata ed altri feudatari della Maremma. Ma del popo-lo non si sollevò che una piccola parte […]. essi poterono avanzare fino alla piazza del campo, e furono accolti in alcuni torri e palazzi. sembra che lo scontro più vio-lento avvenisse intorno al palazzo dei Belmonti, ma il podestà romano, che dovette essere spronato a farlo con la promessa di una ricompensa in denaro, occupò il pa-lazzo; e subito i cavalieri, con quelli che si erano uniti a loro, Grandi e popolani, furono cacciati dalla città […] come di solito i palazzi fortificati e le torri dei congiu-rati venivano rase al suolo». la documentazione sulla demolizione in ass, Consiglio Generale, 25, foglietto incollato al fo. 41 (25 agosto); fo. 37 (19 settembre); fogliet-to incollato dopo il fo. 37 (dicembre 1281); ass, Biccherna, 80 (ii sem. 1281), cc. 169r-211.

35 ass, Biccherna, 80, cc. 170v-177r.

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alla distruzione delle case, delle torri, dei palazzi, focolai di ribellio-ne urbana

36, come era stata quella scoppiata il 12 luglio per le vie cittadine, il comune procede: mancano informazioni dettagliate sul-l’entità dell’intervento, si parla genericamente al plurale di «palatia», di «bona rebellium»; probabile che il cantiere fosse dislocato in più zone della città.

le giornate lavorative pagate, furono complessivamente 1211 a fronte delle 458 operae prestate: il sistema retributivo dunque ap-pare fondato sia sulla remunerazione ‘a giornata’ sia su quella ‘a cottimo’ (in seguito definita a rischio) che è la formula di ingaggio assolutamente prevalente fra i maestri: ben 141 su 170. nel periodo in questione, nei cantieri urbani della città, il ricorso a forme di re-tribuzione assimilabili al rischio, è assolutamente minoritario: risulta adottato nel caso di alcuni artigiani, fabbri (retribuiti in base alla quantità di lavori di affilatura eseguiti), per la realizzazione di ma-nufatti di particolare raffinatezza e complessità, concepiti per scopi decorativi, artistici o con funzioni di arredo, e per rispondere a ne-cessità urgenti e impreviste. il lavoro ‘a opera’ che prosegue quasi ininterrottamente, come si evince dagli acquisti di candele per illu-minare le fatiche notturne, forse meno conveniente per il comune committente che è tenuto alla fornitura di attrezzi da lavoro, appare del tutto adeguato alle esigenze specifiche dell’esecuzione: il cantie-re della demolizione pretende una rapidità, sconosciuta al cantiere tradizionale.

se i calcoli non sono errati, la demolizione delle case e delle tor-ri dei ribelli, comprese le operazioni di sgombro delle vie, dovette svolgersi in 12 giorni. È proprio l’esigenza di rapidità

37 ad imporre la messa in moto di una macchina potente quanto efficiente.

le competenze tecniche che essa attiva sono eccezionali: l’uso del fuoco controllato, tecnica speditiva, meccanica, per provocare il crollo rapido di una struttura, richiede larga esperienza e forte go-verno di un meccanismo potenzialmente pericolosissimo.

la caduta senza danni agli edifici limitrofi, della torre Guardamorto, alta 70 metri, principale baluardo del complesso im-mobiliare degli adimari, era stata resa possibile proprio da questo

36 Il Costituto del comune di Siena, cit., v, 9 (p. 236-7).37 anche le descrizioni dei cronisti insistono sul carattere rapido delle ope-

razioni: «e per lo comandamento imediate fu disfatto»: Cronica senese di autore anonimo, cit., p. 117.

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meccanismo: essa fu scalzata e fatta posare solo su appoggi di legno ai quali fu appiccato il fuoco per provocare una caduta controllata (nell’intento le pietre dovevano riversarsi su san Giovanni); quando i ghibellini fiorentini nel 1248, scrive Giovanni villani, «vennero a di-sfare le torri dei guelfi, intra l’altre una molto grande e bella ch’era in sulla piazza di san Giovanni […] chiamata la torre del Guardamorto, i ghibellini feciono tagliare dal piè la detta torre, sì lla feciono pun-tellare per modo che, quando si mettesse il fuoco a’puntelli, cadesse in su la chiesa di santo Giovanni, e così fu fatto. Ma come piacque a Dio, per miracolo del beato Giovanni, la torre ch’era alta cXX brac-cia, parve manifestamente, quando venne a cadere, ch’ella schifasse la santa chiesa, e rivolsesi, e cadde per lo diritto della piazza […] onde tutti i fiorentini si maravigliaro»

38.il sistema di scalzare le mura alla base, sostituendo la parte mu-

raria con delle travi che consumate dal fuoco cedono, causando il crollo dell’edificio, è tecnica adottata largamente nelle operazioni belliche: già nel racconto villaniano della prima distruzione di troia — ad opera del possente ercole — l’immagine che correda il testo ci mostra una città in fiamme, minata alle fondamenta

39. nelle opera-zioni di assedio a città e castelli, scavatori e genieri erano deputati a scavare cunicoli sotto la città e il castello assediato e poi, quando lo scavo avesse raggiunto le fondazioni delle mura, ad appiccare il fuo-co alle travature che puntellavano la galleria per provocare il crollo delle difese sovrastanti

40. nei guasti degli edifici e dei palazzi urbani, quella che vediamo in azione è la stessa tecnica di ‘mina’ usata negli assedi alle città

41 quando il vessillo della devastazione sventolava mi-naccioso sopra ai corpi speciali dell’esercito assegnati alle azioni di

38 villani, Nuova Cronica, cit., 1, vii, XXXiii, p. 319.39 la raffigurazione, riprodotta in fine del presente contributo, è ne Il Villani

illustrato, cit., p. 84; il passo in villani, Nuova cronica, cit., 1, i, 12 (p. 18).40 Il Villani illustrato, cit., pp. 39-41; per le operazioni di assedio, vd. Guerra

e guerrieri nella Toscana medievale, a cura di F. cardini - M. tangheroni, Firenze 1990.

41 Per alcuni esempi dell’uso della tecnica di mina tratti dalla cronistica: (anno 1285) «i saracini col soldano d’egitto vennono ad oste a la terra di Margatto in soria, la quale era della magione dello spedale di santo Giovanni, e era molto fortissimo, e quello con cave misono grande parte in puntelli, e sicurarono i capi-tani d’entro che venissono a vedere com’era puntellato; per la qual cosa i cristiani che v’erano dentro, veggendo che non si poteano tenere, s’arrenderono» (villani, Nuova cronica, cit., 1, viii, ci, pp. 563-64: Come i Saracini presono e distrussono Margatto in Soria); (anno 1289): «il soldano di Babbillonia d’egitto con grandissi-

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assedio, offesa, guasto sistematico, in un agitarsi di picconi, mannaie, seghe, badili…

42 la squadra dei ribaldi, riunita sotto uno stendardo «bianco co’ ribaldi dipinti in gualdana e giucando»

43, era parte inte-grante degli eserciti comunali: i «barattieri», così chiamati nelle fonti toscane, partecipavano alle operazioni militari come guastatores, con il compito di saccheggiare, devastare, bruciare le terre nemiche, ma in tempo di pace, fuori dalle operazioni belliche, erano chiamati ad assolvere funzioni di guasto urbano: distruzione di edifici e traspor-to del materiale (legname e pietre) che spesso i ribaldi riuscivano a rubare per vendita di contrabbando

44.l’alta ingegneria utilizzata nell’opera di demolizione della tor-

re di Guardamorto era tale che i fiorentini ebbero consapevolezza di assistere a qualcosa di «maraviglioso» e infatti gridarono al miraco-lo: cinquant’anni più tardi, circa, Firenze vanta un corpo speciale di guastatori urbani, formato da due squadre, l’una di 150 maestri di pietra e di legname, l’altra, composta da 50 esperti a lavorar di pic-cone, dotate di una loro insegna, e significativamente chiamate — è il tempo degli ordinamenti — dei «maestri» e dei «picconatori del-la giustizia»

45.alle competenze esterne, anche extraurbane, cui spesso i comu-

ni devono far ricorso

46, soprattutto in una prima fase, si sostituisce,

mo esercito di saracini a cavallo e a piè venne in soria, e puosesi ad oste alla città di tripoli […] e quella per dificii e cave ebbe per forza […]. e ciò fatto la feciono abat-tere e disfare insino alle fondamenta» (ibidem, 1, viii, cXXiX, pp. 595-96, Come i Saracini presono Tripoli di Soria).

42 Guerra e guerrieri nella Toscana medievale, cit., p. 204.43 villani, Nuova cronica, cit., 1, vii, Xl (Delle insegne per guerra ch’usava il

Comune di Firenze), p. 330.44 Per una analisi, anche semantica, si veda i. taddei, I ribaldi-barattieri nella

Toscana tardo-medievale: ruoli e rituali urbani, «Ricerche storiche», XXvi (1996), pp. 26-58, soprattutto pp. 38-40. Ringrazio ilaria taddei per la segnalazione.

45 davidsohn, Storia di Firenze, cit., ii, parte ii, p. 652.46 così nella distruzione del castello di lucca, il consiglio di quella città de-

liberò l’intervento di maestri di pietra fiorentini: «veggendo li antiani di lucchi e loro consiglo che la voluntà de’ lucesi era che il dicto castello, colle sue fortez-ze si mandasse per terra, fu deliberato mandare a Firenza per maestri, & a quelli di lucca feron comandamento che si taglasse tucto. et così si seguìo, chè il comune di Firenza mandò a luccha alquanti maestri di pietra & di mura, li quali cominciònno a taglare dalla porta di san iohanni infine alla porta della posterla di san Martino, e li altri maestri in nelli altri luoghi: & in concluisone i predicti maestri fiorentini e lu-cesi taglino et missero per terra le mura, torri & ogni fortezza del dicto castello […]. et perché il comune di Firenze avea mandato tali maestri, fu deliberato che a tali

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almeno nei comuni maggiori, un corpo scelto: nessuna prospettiva evoluzionista: la cronologia e la diffusione del fenomeno dei guasti disegnano, nell’italia comunale, una mappa disomogenea, un tessuto a maglie larghe, irregolare, dove accanto a vuoti frequenti si riscon-trano infittirsi di tramature: mentre a Firenze, agli inizi del trecento, la scissione guelfa fra ‘bianchi’ e ‘neri’, riproduceva con rinnovata violenza le consuete divisioni fra consorterie magnatizie, alimentan-do il gioco delle vendette e la catena delle ritorsioni governative, a venezia, sfuggita per lunghi anni alle lotte intestine e alle violenze di-struttrici della folla, quando nel 1310 «que’ da ca’ Quercini e loro seguaci guelfi furono vinti e cacciati dalla terra, e guasti i loro palaz-zi» il cronista notò che si trattava de «la prima disfazione di casa mai fatta in vinegia»

47.in quell’evoluzione di organi e competenze, va còlto semmai

il senso di un passaggio generale tra il carattere — vorrei dire — ‘straordinario’ che ebbe la pratica della demolizione fra Xii e primo Xiii secolo, quando i nemici del comune appaiono ancora eccezio-ni all’ordine pacificato, e il suo consolidarsi in strumento ordinario della giustizia comunale, via via che l’intreccio dei conflitti sociali e politici complicava e stabilizzava la presenza di forze antagoniste nel-la civitas.

a partire dalla seconda metà del Duecento, al consolidamento della pratica, si associò un suo potenziamento in senso ideologico. a questa altezza cronologica, si tratta di operazioni sistematiche, rego-lamentate, accuratamente programmate.

nella demolizione dei palazzi magnatizi, i cui tempi di esecu-zione, rapidissimi erano stringentemente fissati dagli statuti — a Firenze, torino, asti, chieri, è espressamente richiesto che si debba procedere alla distruzione dei beni del colpevole addirittura il gior-no stesso in cui viene presentata l’accusa

48; ad ascoli Piceno «entro cinque giorni dalla denuncia»

49 — l’aspetto rituale e spettacolare era

maestri si donase uno pailio d’oro con alquanti fiorini; sì che rimaserno contenti»: Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, pubblicate su manoscritti originali, a cura di s. Bongi, lucca 1892, p. 189 («ccXvi. chome lo castello di luccha si disfecie e donòsi uno palio a’ maestri fiorentini»): vedi immagine in fine.

47 villani, Nuova Cronica, cit., iX, 2 (anno 1310); sulla vicenda vedi anche e. crouzet-Pavan, Sopra le acque salse. Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Age, 2 voll., Roma 1992, vol ii, pp. 921sgg.

48 Fasoli, Ricerche, cit., p. 258 (Firenze, Reggio, chieri, asti, torino).49 Ivi, p. 301.

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esaltato da una gestualità e da tutto un apparato di segni e pratiche riconducibili alla sfera della propaganda politica: ad ascoli Piceno, nel 1340, il popolo inalberava il gonfalone sul cantiere del guasto; a chieri, il guasto — una vera e propria azione di guerra: si parla di uno spiegamento di cento uomini guidati dai rettori della socie-tà di san Giorgio che guidano falegnami e muratori a spianare la casa — doveva essere accompagnato da «cerimonie, che rendesse-ro più terribile e ammonitore lo spettacolo della distruzione»

50; ad asti, mentre si procedeva al guasto completo dei beni, il popolare ucciso dal magnate era esposto sulla piazza del mercato

51; a Modena, i consanguinei del popolare offeso, si facevano autori essi stessi del guasto insieme ai soldati del comune

52. insomma, il guasto, almeno nella cristallizzazione statutaria, non è un gioco chiuso in sé stesso, di fronte ad una popolazione passiva. in quel gioco, proprio perché aperto su tutta la cittadinanza, la cittadinanza, quando non il furor di popolo, entrava mescolandosi all’iniziativa comunale: per ragioni di privata vendetta, per motivi personali o familiari.

esempio vivace di questa attiva partecipazione ce la offre la Cronica illustrata di Giovanni sercambi nel racconto relativo alla partenza da lucca del vicario imperiale, Guido di Boulogne, il 26 marzo 1370, data che rappresenta un punto culminante nella storia della città poiché, da quel momento, dopo lunghi decenni di domi-nio straniero i cives lucchesi ritrovavano la loro libertas. subito dopo la partenza del cardinale — fotografato nell’atto di uscire dalla cit-tà a cavallo con un piccolissimo seguito, e alle sue spalle già in atto la distruzione

53 — tutta la popolazione si riversa sulle fortificazioni imperiali e come in preda ad una febbre distruttiva — nonostante il bando che «a pena della testa» vietava di «disfare» e «smurare mato-ne» del castello — comincia a picconare l’augusta: simbolo imperiale ghibellino, segno di rappresentanza del potere sovrano la cui costru-zione (ed il cui mantenimento) andava a pesare sulle casse dello stato e dunque sulle spalle dei cittadini, il castello imperiale materializza-va le ragioni delle vessazioni e dell’iniqua soggezione che lucca e i lucchesi avevano dovuto subire per più di 48 anni e dunque andava

50 Ibidem, p. 280; per chieri l. cibrario, Storia di Chieri, 2 voll., torino 1827, ii, p. 237.

51 Fasoli, Ricerche, cit., p. 281.52 Ivi p. 285.53 vedi immagine in fine del contributo.

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«mandato a terra». così tutti a disfare: uomini, donne, bambini, laici ed ecclesiastici: con quel che c’era a disposizione: mani, picconi, se-ghe: «sentendo ciò quelli che socto giugho di servitù erano vissuti, si ridussero a sa Romano, et di quine […] subito si mossero, non aven-do pensieri di tal bando; perché si vedea tucta la comunità, overo la magior parte di luccha, star contenti al disfacimento di tal castel-lo; andarono alla dicta porta et quine le porti gictaron per terra, et il muro smurando, in tal modo che, inanti che fusse ora di vespro, non rimase homo né femina, grande né picciolo, che non montasse in su le dicte mura, chi con marsecuri, chi con sicuri, chi con altri ferra-menti, chi colle mani, a disfare i merli di tale muro. et non ci fu prete né frate che alcuna cosa non disfacesse. e con tanto inpito d’allegrez-za, che molti d’allegrezza lacrimavano et molti parevano macti e fuori di loro. e di vero l’alegrezza fu tale che lingua d’omo dire nol potre’; et così tucto quel giorno s’andò ongnuno su per quel muro piglando piacere et tanto quanto si puose a disfare. e chi non avea altro, colle mani smurava tal matoni, tal pietre, tal calcina, biasimando che tan-to per quello erano stati sottoposti. et perché là, do’ non si può vero discrivere, non si dicie tucto ciò che altri facea, chi dansava, chi sta-va a sedere, chi cantava, chi dimostrava combactere, chi chiamava le guardie, altri facea comandamento in modo di signore, chi ricordava i signori stati lì dentro, chi piangeva i danni che per quello era stato seguito, chi si dolea della morte del padre e de’ parenti, chi dell’ave-re ch’era stato tolto loro, chi delle violense, altri del dizonoramento delle donne, chi della fortuna che tanto tempo l’avea conservato, chi si piglava piacere avendo vissuto tanto che quello potea calcare et di-sfare, intanto che li parea essere in nel secondo paradizo…»

54

l’azione di guasto assume nell’interpretazione del cronista i toni e l’atmosfera di una «allegrezza» collettiva in cui l’entusiastica distruzione ai simboli del potere sovrano, mescolandosi ai «balli» e ai «canti» e ai più diversi sentimenti, alle più disparate memorie, di-venta celebrazione di una ritrovata e bramata libertas. straordinarie scene di gioiosa distruzione: è il dicembre 1989 quando bambini, uomini e donne di ogni età vengono immortalati nell’atto festoso di strappare con le mani, con i picconi, con i martelli, brandelli dell’or-mai cadente muro di Berlino.

54 Le croniche di Giovanni Sercambi, cit., vol. i, ccXv («chome si cominciò a disfare parte delle fortezze e del castello di luccha»), pp. 188-89.

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le parole chiave della distruzione (guastare, destruere, dissipare, levare, disolare, emergi, cadi) presentano a prima vista un alto livel-lo di uniformità che rende difficile distinguerne sfumature e valenze. Guastare, disfare: terre, castelli, città, mura, edifici. operazioni bel-liche, interventi di giustizia comunale, vendette e ritorsioni. eppure grazie al cronista contemporaneo che vede coi suoi occhi, e vedendo distingue ciò che vede, vediamo anche noi la differenza che intercor-re tra il «ghuasto di fondamento», tra quel «levare di fondamento, disolargli per infino alle fondamenta», e gli interventi limitati: alcu-ne braccia delle torri, alcune sezioni del palazzo corrispondenti alle quote di proprietà del reo

55, il tetto, i palchi («solamente a palchi e’l tetto»), il guasto fatto in modo che «rimanesseno solamente le mura di fuore»

56. alle due tipologie di intervento individuate, il totale e il parziale, occorrerebbe aggiungerne una terza: guasto totale con divieto di riedificazione. Perché se è vero che devastazioni estem-poranee o distruzioni bene organizzate pongono da subito, per il danneggiato, necessità e urgenza di ricostruzione, spingono i privati al doversi rimettere in piedi senza indugi — negli archivi dell’aristo-crazia toscana non è raro incontrare contabilità dei guasti subìti dai palazzi di famiglia e delle successive riedificazioni — i divieti di co-struire o ricostruire intervennero spesso a frenare quella spinta.

il vuoto fu una strategia, una strategia deliberata, mantenuta, rafforzata, perseguita dai divieti statutari di costruire «ullo modo» sui guasti

57 e da severi controlli praticati da uffici addetti

58: testimo-

55 la proprietà indivisa dell’immobile fra i diversi consorti spinge talvolta a dettagliare e specificare la quota o le quote da distruggere: il casamento viene ideal-mente diviso, si danno indicazioni precise, le parole del provvedimento tracciano la geometria di un disegno distruttivo, con la stessa perizia, la stessa minuzia del progettista, perché tutto sia fatto nel migliore dei modi: così una provvisione del consiglio generale a siena: ass, Consiglio Generale, 10, c. 95r (1261-1262): «domus vel casamentum comunem filiorum Renaldini et Renaldini quondam domini Ranerii […] versus s. viggilium usque stratam in partiendo eum et in dissipando parte fi-liorum dicti Renaldini debeat dividi per longitudinem et non per traversum ut pars eorum melius dissipetur».

56 Cronaca senese di autore anonimo, cit., pp. 111 e 117.57 J. Heers, L’esilio, la vita politica e la società nel Medioevo, napoli 1997 [ed.

orig. 1995], p. 99.58 Per sorvegliare le rovine dei beni immobiliari dei lambertazzi distrutti

dopo la loro espulsione, il comune e la parte guelfa su iniziativa del podestà, misero in piedi nel 1286 un Officium Fangorum incaricato di recensire i guasti e descriver-ne lo stato. l’ufficio si adoperava per tenerli vuoti: ivi, p. 100.

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ne silenzioso di una disfatta, capace di provocare un grande impatto emotivo e psicologico sulla popolazione, il vuoto è la tabula rasa che reca impressa la volontà politica di annientamento, di cancellazio-ne, di oblìo del nemico, non molto distante — nelle aspettative o nell’eco simbolica — da quella damnatio memoriae con cui, esem-plarmente, il mondo antico eliminava il ricordo dei suoi hostes. capitò naturalmente che nello scarto fra legge e prassi, fra volon-tà e capacità di controllo, il divieto di ricostruzione rimanesse lettera morta: l’esempio più celebre ci viene ancora da Milano che fra 1171 e 1172 cominciò a ricostruire la nuova cinta muraria nonostante il divieto formale dell’imperatore, e lo fece, ci dicono gli storici dell’ar-chitettura, con inaudita creatività

59.altre volte il vuoto si offrì al comune come opportunità di

riassetto urbanistico: nelle città demograficamente compresse, nel tutto-costruito urbano, improvvisamente il vuoto poteva rappresen-tare un bene prezioso: che fu riempito con un di più di senso, il senso del pubblico: gli esempi più noti: Firenze l’attuale piazza del-la signoria, che si connette alla costruzione del palazzo del comune, creata sul suolo liberato dalle demolizioni delle case degli uberti

60; a Bologna, la piazza Maggiore, che sfruttò l’area dove sorgevano i casamenti delle famiglie nemiche dei Geremei

61. come è noto, gra-zie agli studi condotti da Milani, proprio a Bologna, in seguito alla cacciata dei lambertazzi nel 1274, il comune acquisì — confiscan-dolo — un patrimonio immobile ricco e articolato. Poiché quello immobiliare era un mercato notevolmente fiorente nella Bologna di fine Duecento, attraverso i sequestri, al comune si apriva teorica-mente la possibilità di entrare in quel mercato su solide basi. le case sequestrate ai ghibellini, costituivano beni di grandissimo valore, so-prattutto dal punto di vista dell’ubicazione, dato che molti erano gli edifici nel centro. il comune diveniva potenzialmente in grado di avviare una politica di riassetto urbanistico: la distruzione di in-teri isolati avrebbe potuto consentire di ricavare terreni prestigiosi.

59 e. arslan, La scultura romanica, in Storia di Milano, iii, Milano 1954 p. 521: «è un dato di fatto che la cinta muraria condotta a termine in quegli anni dai milanesi e le porte che in essa si aprono, solenni e agili come archi di trionfo, il ni-tido impianto, la stesura parietale bicroma, esatta ed essenziale, sono una cosa mai vista, niente di simile a ciò che si era costruito fino a quel momento a Milano e si an-dava costruendo».

60 davidsohn, Storia di Firenze, cit., ii, p. i, p. 858.61 Heers, L’esilio, cit., p. 98.

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e invece le scelte non furono orientate ad una massimizzazione del profitto. Preferì il comune farsi protagonista di una potente opera-zione giuridica ed ideologica, da sfruttare in termini di immagine e di propaganda politica.

Procedette in modo massiccio alla vendita sottocosto delle case confiscate «ad destruendum»: per poi affittarne il terreno. le abi-tazioni messe in vendita assumevano il doppio valore di riserve di legname e mattoni e di terreni destinati all’affitto, senza che fosse intaccato il diritto di proprietà del comune sul suolo. un banditore invitava coloro che fossero interessati, a presentarsi nel consiglio del popolo, dove le case venivano poste all’incanto. sappiamo che una casa integra era valutata 25 lire; 10 nel caso in cui fosse stata alienata ad destruendum. Fortemente sottostimate rispetto ai valori di merca-to (media 40-70 lire; case-torri 400), le case dei lambertazzi, furono svendute affinché venissero distrutte, in tempi brevissimi e sotto mi-naccia di altissime pene in caso contrario, e al compratore restasse l’usufrutto dei materiali da costruzione

62.il materiale da costruzione, mattoni, tegole, pietre, legna-

me, calcina, rappresenta un bene prezioso: il costo elevato fa sì che ci si ingegni a riutilizzare tutto ciò che è recuperabile dagli edifi-ci fatti abbattere, che è di proprietà del comune

63. il riuso è tecnica diffusa e generalizzata: «si innalzi in un muro ciò che non può gio-vare se resta disperso al suolo»: già in età gota, a stare a cassiodoro, teoderico invitava i catanesi ad usare a vantaggio comune, per il bene della loro città, «i sassi […] a terra, caduti»

64. si legge negli Annales Mediolanenses che all’indomani dell’attacco del Barbarossa i milanesi furono costretti, sotto la scorta degli ufficiali imperiali, a togliere dalle rovine «lapides et sabulum» per i palatia di Monza, di vicentino, di nosedo, per il castello di Mandriano, per le case dei pavesi

65; castruccio castracani, nel 1310, fece costruire a lucca un

62 Milani, L’esclusione, cit., pp. 342-344.63 D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento:assetto urbano e strutture

edilizie, Firenze 1977, pp. 74-5: nel 1270 «erano state guaste le case de’ salvani di siena […] e de le pietre se ne fe’ la porta a camollia di fuore e mensi drento el pra-to a camollia e anco parte d’essa pietra se ne fe’ el palazo talomei».

64 le lettere di cassiodoro sono tratte da Fasoli - Bocchi, La città medieva-le, cit., pp. 97-98.

65 Bognetti, La condizione giuridica, cit., pp. 321, 323 (la citazione dagli Annales Mediolanenses, p. 375).

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castello per il quale racconta il cronista, «disfece molte case e torri di rebelle per avere le pietre e mattoni»

66; nella tradizione sospesa fra la storia e la leggenda che avvolge la vita e la morte di semifonte, le pietre delle disfatte mura del castello, fondato dai conti alberti nel 1178 e distrutto violentemente dai fiorentini nel 1203, sarebbero sta-te riutilizzate per la cinta muraria della vicina Barberino che insieme al lascito materiale raccolse anche l’anima della scomparsa città: ap-propriandosi, con le pietre, della legittimità di vantare la successione semifontese

67.il recupero dei materiali non procede in modo sempre rapido:

il loro cammino lungo la strada dell’utilità economica deve sottosta-re, in alcuni casi, ad inevitabili tempi di attesa e di stoccaggio: in fasi particolarmente acute della lotta politica, il valzer delle demolizioni procede a ritmo tanto serrato che il meccanismo anti-spreco si incep-pa. Poderosi interventi distruttivi, cicli di demolizioni ripetuti a poca distanza, hanno effetti di lunga durata sulla morfologia della città

68.Quando all’indomani della battaglia di Benevento, i guelfi esi-

liati rientrarono nelle loro città, a Firenze si compilò una stima dei

66 villani, Nuova Cronica, cit., iX, 2 (anno 1310): castruccio castracani per meglio tenere in suo potere la città di lucca fece costruire un meraviglioso castello «che quasi la quinta parte della città di verso Pisa prese […] disfece molti case e tor-ri di rebelle per avere le pietre e mattoni»: e ancora «negli anni di cristo Mcclviii […] quegli della casa degli uberti co loro sèguito de’ Ghibellini, per sodducimen-to di Manfredi, ordinarono di rompere il popolo di Firenze […]. iscoperto il detto trattato per lo popolo, fatti richiedere e citare da la signoria, non vollono comparire né venire dinanzi […], per la qual cosa il popolo corse ad arme, e a furore corso-no alle case degli uberti […]; e gli altri della casa degli uberti con più altre case de’ Ghibellini uscirono di Firenze. i nomi delle case di rinnomo ghibelline ch’usciro da Firenze furo queste: gli uberti, i Fifanti, i Guidi […], più altre case e schiatte di po-polari e grandi scaduti, che tutti non si possono nominare, e altre case de’ nobili di contado; e andarne a siena la quale si reggea a parte ghibellina e erano nimici de’ Fiorentini: e furono disfatti i loro palagi e torri, che n’aveano assai, e di quelle pietre si murarono le mura di san Giorgio oltrarno, che’l popolo di Firenze fece in quelli tempi cominciare per la guerra de’ sanesi»: ivi, 1, vii, lXv, pp. 359-60.

67 P. Pirillo, Semifonte: nascita e morte di un centro fondato, in Semifonte in Val d’Elsa e i centri di nuova fondazione dell’Italia medievale, atti del convegno nazionale organizzato dal comune di Barberino val d’elsa (Barberino val d’elsa, 12-13 ottobre 2002), a cura di P. Pirillo, Firenze 2004, pp. 235-271: p. 268.

68 le demolizioni ordinate dai guelfi fiorentini nel 1267 delle case, i palazzi, le torri ghibelline ebbero effetti di lunga durata sulla morfologia della città: i terreni così ricavati rimasero per anni, in alcuni casi un quarto di secolo, «ammassi di rovi-ne inutilizzati»: Davidsohn, Storia di Firenze, cit., ii, parte i, p. 858.

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danni subìti sotto il governo ghibellino: il Liber Extimationum ci dice che durante il periodo settembre 1260 — novembre 1266, furono distrutti in città 47 palazzi, 198 case, 39 torri oltre a 9 botteghe, 1 fondaco, 1 tiratoio, per un valore stimato di 115.884 librae

69. in 211 capifamiglia si presentarono a chiedere l’indennizzo. Poiché a quel-la data, alcune zone della città ancora soffrivano delle precedenti distruzioni contro i ghibellini, e poiché, di nuovo, si procedette, a nuove ritorsioni sui palazzi e le case di quelli, a Firenze il paesaggio urbano sul finire degli anni sessanta doveva mostrare tracce eviden-tissime delle lotte fra partes e delle alterne vicende di queste.

la distruzione è sempre destinata a marcare la città di pietra, alterandone la morfologia, deviando funzioni, modificandone la toponomastica

70: e la città ne tiene testardamente memoria, nella to-ponomastica — a Milano, nei primi anni del trecento, il luogo dove sorgevano le case distrutte dei torriani comincia ad essere indicato come «Guasti torriani» o «alle case rotte»

71 (i cronisti milanesi par-lano di «turriana vasta») — ma anche attraverso i suoi discorsi: nella descrizione trecentesca della città verticale di opicino de canistris, dietro il velo celebrativo, Pavia soffre ancora nel segno delle antiche amputazioni alle sue torri

72.

69 Liber Extimationum, a cura di o. Bratto, Goteborg 1956: le stime par-ziali alle pp. 26 (16.700 lib.), 54 (7.7885 lib.), p. 64 (8.746 lib.), 74 (17.900 lib.), 81 (6.778 lib.).

70 nel 1270 a siena la distruzione delle case dei salvani ha riversato sulla piaz-za limitrofa macerie tali da investire e rovinare la chiesa di san cristoforo che da allora non potrà più essere adibita a sede di riunione del consiglio Generale. il gua-sto ha prodotto anche un cambiamento sostanziale della morfologia urbana: in quel tratto, negli anni, si è accumulato un monte di detriti e terra, che la gente del luo-go ha nominato El monte di Salvani. Questo monte che si è sostituito, coprendola, alla silex antiqua della via quando piove riversa sulla strada tanta terra che provoca problemi di viabilità, intralciando il transito di cose e persone: così, trascorsi quasi settanta anni dall’attacco al palazzo e alle case di Provenzano e della sua famiglia, si esprimono i cittadini indirizzando la loro petizione al consiglio generale chiedendo di riparare con la costruzione di un muro, ai disagi provocati dal quell’antico guasto. ass, Consiglio Generale, 124 c. 12 (5 febbraio 1339). Ringrazio Gabriella Piccinni per la segnalazione documentaria.

71 dino compagni, Cronica, a cura di G. luzzatto, torino 1968, libro iii, XXvii, v. 16: «presono l’arme e abbarroronsi nel Guasto di quelli della torre».

72 «Meravigliosamente grande è il numero delle torri eccelse che sorgono sopra le case, molte delle quali caddero per l’antichità quanto per l’odio dei citta-dini che combattevano fra loro»: opicini de canistris, Liber de laudibus civitatis Ticinensis, a cura di R. Maiocchi - F. Quintavalle, città di castello, 1903 (Ris2,

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si è sempre nel tempo in cui siamo feriti: il tempo della distru-zione non scorre, bensì dura, si fissa.

Per concludere. Da cartagine, città maledetta cosparsa di sale, alla cisgiordania, dove i bulldozer israeliani radono al suolo le case dei palestinesi, la distruzione può apparire allo sguardo gettato a ri-troso una procedura standard dell’annientamento del nemico.

È una tentazione irresistibile: rappresentarsi la distruzione sempre identica, corollario necessario di ogni guerra dichiarata, mec-canismo ripetitivo, regolare, a grandi linee prevedibile.

sembra che anche il notaio imperiale Burcardo, intimo di Federico i, non abbia saputo sottrarsi a questo laccio incantatore, quando nel rievocare la vittoria di Federico e l’assedio di Milano del 1162, sentì di doverlo inanellare in una lunga, esemplare sequenza di conquiste e sottomissioni — Milano, troia, cartagine, aquileia, Ravenna, eccetera

73 — se non fosse che quel passo costringe in real-tà piuttosto a interrogarsi sul peso dei modelli, su quanto il modello interferisca con la messa a memoria, su quanto la memoria interferi-sca con la pratica.

secondo un modulo non inconsueto di interpretazione dei fatti, riutilizzando e riconvertendo un cospicuo materiale di derivazione

Xi, 1), pp. 17-19.73 nella seconda lettera di Burcardo all’abate nicola, De victoria Friderici

imperatoris et excidio Mediolanensis epistola, sulla distruzione di Milano nel mar-zo 1162, si legge: «troia siquidem decem annis obsessa equi fraudibus et traditione mulieris est capta. Romanis etiam non solum multis annis sed et multis aetatibus carthagine laborantibus, cum carthaginenses sub duce cannibale exercitum in europam per Hispaniam moverent, scipio Romanus, qui post africanus, prope siciliam clam mare traiecit cum exercitu carthaginemque civibus ac defensoribus vacuam inveniens cepit et subvertit. aquileienses, qui nunc veneti, novem annis obsessi, tandem relictis moenibus, salvis tamen rebus et personis, nihilominus rebel-les extiterunt nec de se sed de lapidibus attile victoriam reliquerunt. Ravennates a theodorico rege Gothorum septem annis obsessi, tandem illum dominum compo-sitionem media sustinuerunt, ipsi nec rebus nec loco cedentes. sed quid in pluribus huiusmodi queramus exempla! Fridericus imperator specialiter prae cunctis vi-dit diem magnum, quando iudicio divino in nova lauda cum gladiis in cervicibus cum crucibus in manibus ad pedes misericordiae eius sine omni conditione pros-tratum et redditum est totum Mediolanum; contra quod tamen nec fraude nec dolo sed tantum viribus et con stantia atque veritate constat esse laboratum. ne igitur pro variis rumoribus a tramite veritatis aberretis, de singulis certitudinem audietis»: Guterbock, Le lettere, cit., pp. 1-65: 60.

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antica, Giovanni villani nel raccontare i guasti e i saccheggi di mol-te città italiane per mano del goto totila, ricorre a scene desunte dalla tradizione, richiama versi biblici: le profetiche parole di Gesù sulla distruzione del tempio — «e verranno giorni in cui di tutto quello che ammirate non resterà pietra su pietra che non venga di-strutta»74 — trapassano come lontana eco nel racconto del guasto ordinato ai danni di Firenze «comandò che fosse distrutta […] e non vi rimanesse pietra sopra pietra»

75; nella stessa Cronica la distruzione di arezzo si sovrappone all’immagine, sospesa fra mito e tradizio-ne antica, della distruzione di cartagine: «e prese e distrusse la città d’arezzo, e quella fece arare e seminare di sale»

76. la città maledet-ta cosparsa di sale: efficace iconografia di ogni Distruzione ostinata ed intransigente.

la distruzione della città, non solo nel racconto del cronista, ma anche nelle illustrazioni, nei disegni, nelle miniature, negli af-freschi, rivela di avere alcune tipologie fisse: essa rivive attraverso pochi ripetuti simboli: mura rovinate, spesso a terra, talvolta fiam-me che la divorano alle fondamenta, operai con seghe e picconi sono gli elementi ineludibili del paesaggio della distruzione. il manoscrit-to chigiano della Nuova Cronica di Giovanni villani, nel raffigurare la distruzione di troia, quella di Fiesole, Prato, dei castelli di Monte di croce, Monternano e Poggibonsi, ci fa vedere come le mura fos-sero state estesamente scalzate alla base, tagliate «dal piè»

77 — dice villani — e puntellate provvisoriamente con travi che una volta con-sumate dal fuoco avrebbero ceduto, provocando il crollo

78. Gli

74 luca, 21, 6.75 villani, Nuova Cronica, cit., 1, iii, i, p. 98. Ma ripetuta in molti passi:

vd. ad esempio, ivi, 2, iX, lXXXvi, pp. 171-2 (come i Fiorentini assediaro e eb-bono il forte castello di Monte accenico e disfeciollo, e feciono fare la scarperia) a proposito dell’assedio e della distruzione del castello di Montacciànico da parte dei fiorentini (anno 1306): «i Fiorentini andarono ad oste sopra’l castello di Monte accenico in Mugello e puosonvi l’assedio; il quale castello […] era fortissimo di sito e di doppie mura […] e al detto castello stette l’oste […] gittandovi difici e faccen-dovi cave […]. e ‘l castello fue tutto abattuto e disfatto per gli Fiorentini, che non vi rimase casa né pietra su pietra».

76 Ibidem, 1, iii, 3, p. 100.77 Ibidem, vol. i, libro vii, cap. 33, p 319.78 un’altra testimonianza figurata di questa tecnica di demolizione ci vie-

ne dalle Croniche di sercambi: Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, cit., 1, ccccvi, p. 351 («chome lo comune di lucha riebbe Dallo e disfece la fortezza e come s’arse sillano e parte di Dallo e soragio»).

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effetti di questa pratica di «disfare insino a’ fondamenti»

79 sono evi-denziati in varie illustrazioni: dalle quattro torri del Porto Pisano, delle quali, dopo l’azione di guasto combinata di genovesi, fiorenti-ni e lucchesi, rimanevano solo le tracce delle due basi quadrate

80, al terreno ingombro di grosse rovine di Pistoia

81, Brescia — disfatta da enrico vii —

82, della ghibellina assisi, conquistata dopo lungo as-sedio dai perugini

83; a Fiesole, dove in una collina già ingombra di macerie il geniere con in mano la torcia ha appena appiccato il fuo-co alle travature che si intravedono attraverso le fiamme e che ancora per poco sorreggeranno le mura del ridotto

84.la pratica della distruzione ha molte facce, parla molti linguag-

gi. Ha una faccia rivolta al centro — verso il potere — e una alla periferia — che guarda alla città, agli uomini. Dunque va seguita lungo l’asse della verticalità: guardando alla sua disposizione nella gerarchia dei dispositivi penali, al suo spazio nelle politiche giudizia-rie del comune, al suo porsi come strumento di un potere, sostenuto dal diritto e dal discorso politico-giuridico. Quando ci si muova in-vece sulla linea orizzontale viene al pettine il problema del rapporto con la città, con le modificazioni urbanistiche e morfologiche; il pro-blema dei costi, finanziari e sociali; della realizzabilità tecnica; quello della ricezione, del consenso sociale, quello della memoria: ogni di-struzione partorisce una memoria che molto spesso diventa mito, altre volte si sdoppia e dà luogo a memorie antagoniste (quella dei vinti e quella dei vincitori). viene al pettine il problema delle iner-zie e delle resistenze, perché è possibile tracciare anche una storia in negativo della distruzione: ovvero quando non avvenne. tra le molte rappresentazioni ne vorrei indicare un segno riassuntivo, di potente icasticità, nella figura di Farinata degli uberti, ingessato dalla cor-nice autoritativa di Dante nell’atto di difendere da solo e a «viso

79 villani, Nuova Cronica, cit., i, viii, 150, p. 625.80 Il Villani illustrato, cit., p. 183 (f. 149r) (Come fu preso e guasto Porto Pisano

per gli Fiorentini e Genovesi e Lucchesi).81 Ivi, f. 188r, p. 214 (I fiorentini e i Lucchesi fanno abbattere le mura della vin-

ta Pistoia).82 Ibidem, f. 200v, p. 223 (Come lo ‘mperadore Arrigo ebbe la città di Brescia

per assedio).83 Ibidem, f. 226r, p. 248 (I perugini conquistano Assisi).84 Ibidem, f. 27r, p. 91 (I romani distruggono Fiesole); vedi r. luisi, Le armi, i

luoghi e i monumenti nella immagini del codice Chigiano, in Il Villani illustrato, cit., pp. 23-52: 41.

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Demolizioni punitive: guasti in città

aperto» la sua città dalla distruzione voluta da Manfredi

85.nulla nasce dal nulla: il diritto barbarico, le consuetudini la-

sciano in eredità alla nascente città comunale una pratica che dopo il picco duecentesco, perde progressivamente vigore: inserita in una normativa antimagnatizia, formalmente operante fino al cinquecento, pur continuando ad essere attestata lungo tutto il Xiv secolo

86 per i traditori, gli omicida, gli eretici, è un fatto che seguendo lo sgonfiarsi dei conflitti e lo sfaldamento degli antichi schieramenti, smarrisce via via anch’essa forza e contenuto: mentre salgono le preoccupazioni dei governi cittadini per l’aspetto decoroso della città: i guasti sem-pre peggio si conciliano con l’ honorem civitatis

87. la sentenza della sua morte ce la offre Milano quando, come narra Galvano Fiamma, la prassi fu abolita da luchino e Giovanni visconti

88: ma la sop-

85 «Ma fu’ io solo, là dove sofferto / per ciascun di tòrre via Fiorenza / colui che la difesi a viso aperto»: dante alighieri, Divina Commedia, Inferno, X, 91-93. villani, Nuova Cronica, cit., vii, lXXXi (Come i ghibellini di Toscana ordinaro di disfare la città di Firenze, e come messer Farinata degli Uberti la difese), pp. 384-87: «a la qual proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli uberti, e nella sua diceria propuose gli antichi due grossi proverbi che dicono: <com’asino sape, così minuzza rape> e <vassi capra zoppa, se’l lupo no lla ‘ntop-pa>; e questi due proverbi rinestò in uno, dicendo: <com’asino sape, sì va capra zoppa; così minuzza rape, se’l lupo no lla ‘ntoppa> recando poi con savie paro-le assempro e comparazioni sopra il grosso proverbio, com’era follia di ciò parlare, e come gran pericolo e danno ne potea avenire; e s’altri ch’egli non fosse, mentre ch’egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe […]. sicchè per uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distrug-gimento, ruina».

86 a siena ancora nel 1371 la pratica della distruzione è attestata: alle fami-glie condannate nel 1371 «fero disfare le loro case in fino a le fondamenta. e fero guastare ancora quella di Magio […] e quella di Pietro Maniscalco e di più altri»: Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri in Cronache senesi, cit., pp. 565-865: 642.

87 il comune scrive Pini si impegnò nel proibire la demolizione delle case. col passare del tempo e il moltiplicarsi dei guasti il comune si rese conto che le demo-lizioni giudiziarie erano più un danno che un utile: molto meglio requisire le case e affittarle, devolvendo gli introiti alle casse comunali. la legislazione mutò radi-calmente. si vietò a chiunque di demolire anche la propria casa a meno che non si intendesse ricostruirla (Parma 1255). la ricostruzione doveva essere fatta in tempi molto brevi (6 mesi, Reggio). Faceva capolino un fondamentale concetto urbanisti-co sociale: gli edifici privati devono essere considerati ad honorem civitatis, a.i. pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986 pp. 39-40.

88 «Quod domus exbannitorum seu proditorum non destruantur ymo pro co-munis utilitate observantur»: Galvaneus De la Flamma, Opusculum de rebus gestis ab Azone et Iohanne Vicecomitibus, in Ris2, Xii, parte iv.

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Roberta Mucciarelli

pressione formale di una norma dai codici di legge, suggerisce che qualcosa nella società, nella cultura, nella sensibilità di un popolo va mutando, è mutato; indica, nel passo lento della legge, l’avvenuta derubricazione di un comportamento dai codici culturali, dalla sen-sibilità, dalla mentalità di un’epoca.

«Fu ucciso Baroccino, è vero […] e poniamo che nella perso-na di lui venisse offesa la publica maestà, e che perciò convenisse severamente e gravemente procedere contro gli uccisori, che colpa hanno nell’homicidio le torri, che parte hanno nell’eccesso i palaz-zi»?

89: così nello specchio della tradizione erudita senese di primo seicento appariva riflessa la reazione ad un episodio duecentesco di giustizia comunale che aveva punito, con l’abbattimento dei palazzi dei magnati colpevoli, l’omicidio di un membro della signoria popo-lare. Giugurta tommasi, l’autore, raccoglieva, interpretando certo dalla sua posizione aristocratica, il senso tuttavia di un trapasso. la natura non fa salti, ma la cultura sì: e quel salto si era compiuto: per la sua epoca quei guasti erano diventati inaccettabili; decodificabili solo attraverso la lente dell’invidia dei giudici popolari nei confronti di chi aveva edificato quegli antichi palazzi distrutti.

e proviamo a risalire la corrente e fermiamoci di fronte al cele-berrimo Buongoverno dipinto da ambrogio lorenzetti nel 1338 nelle pareti del palazzo pubblico di siena, e guardiamo quel paesaggio perlustrato e restituito con una fedeltà che non ha riscontro altrove in questo periodo, secondo erwin Panofsky: due maestri sono al la-voro con i loro scalpelli, colpo dopo colpo demoliscono un edificio, che appare già parzialmente scarnificato, se ne intravede lo schele-tro. in pieno trecento, lorenzetti suggerisce già uno slittamento: i due operai al lavoro non sono la mano della Giustizia ordinatrice che veglia sulla città lieta e opulenta; maschere tetre di una città de-solata e senza speranza, essi sono i tristi figli del governo immorale e mostruoso.

«a mio credere, i buoni prìncipi fabbricano città, e i cattivi le distruggono»

90: proprio lo stesso pensiero, proprio lo stesso giudi-zio esprimeva antonio ludovico Muratori ripercorrendo nei suoi Annali la storia d’italia.

89 G. tommasi, Dell’historie di Siena, venetia 1625-1626, 2 voll., (rist. fo-tomeccanica, Bologna 1973), libro vi, p. 26.

90 l.a. Muratori, Annali d’Italia, in Opere di Ludovico Antonio Muratori, a cura di G. Falco - F. Forti, Milano - napoli 1964, 2 voll., vol. i, p. 233.

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Demolizioni punitive: guasti in città

le immagini sono tratte da:

Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 imma-gini del ms. Chigiano L. VIII. 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di c. Frugoni, città del vaticano - Firenze, Biblioteca apostolica vaticana - casa editrice le lettere, 2005.

1) «la prima distruzione di troia», p. 84.2) «totila fa distruggere la città di Firenze», p. 101.3) «i Fiorentini conquistano e distruggono Fiesole», p. 109.4) «i Fiorentini distruggono Poggibonsi», p. 157.5) «i messinesi si difendono da carlo i d’angiò, particolare: le

donne ricostruiscono le mura», p. 169.6) «i Fiorentini assediano e distruggono Montacciànico», p.

214.

Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese pubblicate sui mano-scritti originali a cura di Salvatore Bongi, lucca, tip. Giusti, 1892, 3 voll. (Fonti pe la storia d’italia, 19-21).

7) «“chome si cominciò a disfare parte delle fortezze e del ca-stello di luccha”», 1, ccXiv, p. 187.

8) «“come li frati di sa Romano disfeceno la porta del chastel-lo, che era contra alla chieza di sa Romano”», 1, ccXv, p. 188.

9) «“chome lo castello di luccha si disfecie e donòsi uno palio a’ maestri fiorentini”», 1, ccXvi, p. 189.

1) «la prima distruzione di troia».

2) «totila fa distruggere la città di Firenze».

3) «i Fiorentini conquistano e distruggono Fiesole».

4) «i Fiorentini distruggono Poggibonsi».

5) «i messinesi si difendono da carlo i d’angiò, particolare: le donne rico-struiscono le mura».

6) «i Fiorentini assediano e distruggono Montacciànico».

7) «“chome si cominciò a disfare parte delle fortezze e del castello di luccha”».

8) «“come li frati di sa Romano disfeceno la porta del chastello, che era contra alla chieza di sa Romano”»

9) «“chome lo castello di luccha si disfecie e donòsi uno palio a’ maestri fiorentini”»


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