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ECHI DANTESCHI IN CANTI DEL CAOS DI
ANTONIO MORESCO
a cura di LEONARDO CANOVA
Introduzione
Della difficoltà di collocare in una precisa corrente artistico-letteraria un’opera come Canti del
Caos1 dello scrittore mantovano Antonio Moresco ha già dato prova Raffaele Donnarumma il quale,
nella conclusione del suo saggio La guerra del racconto: Canti del Caos di Antonio Moresco2, ha
cercato di individuare il canone entro il quale l’autore pone le sue radici. E in effetti la difficoltà,
l’impossibilità talvolta, di ridurre una determinata opera o uno stesso autore ad una sterile etichetta
costituisce da secoli una sorta di “marchio di qualità”.
Parlare di Dante come di uno stilnovista, di Leopardi come un romantico o di Montale come di un
ermetico è infatti possibile soltanto al costo di ardite forzature che lasciano al di fuori dell’etichetta
l’essenza stessa dell’autore.
Tuttavia da sempre la critica letteraria sente la necessità di semplificare, di ridurre ogni cosa a
comode categorie sotto le quali inserire oggetti che non riesce a comprendere in pieno. Moresco è
un postmoderno? Un moderno? Lo stesso autore si ribella a definizioni così semplicistiche in
un’intervista rilasciata ad Andrea Tarabbia3 poco prima della pubblicazione dell’ultima parte di
Canti del Caos.
Ma dunque chi è Antonio Moresco? La risposta non può che essere tautologica: come Dante è
Dante, Leopardi è Leopardi e Montale è Montale anche Moresco non potrà che essere Moresco.
Qualsiasi definizione o etichetta, infatti, non potrebbe far altro che semplificare e banalizzare: in
barba a chi ha sostenuto e tuttora sostiene che in epoca moderna le voci più potenti si levano sempre
all’interno di un coro, appare sempre più evidente che i cosiddetti “grandi” sono grandi proprio
perché dal coro si sono tenuti ben distanti, forse troppo “stonati” per poterne far parte.
Per analizzare un’opera tanto complessa e rivoluzionaria come Canti del Caos bisogna dunque
spogliarci delle categorie di cui tradizionalmente la critica si serve ed adottarne di nuove (o non
adottarne alcuna), cercando di porci da un punto di vista più vicino a quello dell’autore, “qui
dentro”, potremmo dire. Ed è proprio “qui dentro” (CC, pp. 1058-1060) infatti che Antonio
Moresco, nelle vesti del Matto, ci pone di fronte al suo canone, a quello che potremmo dire il suo
background culturale e letterario: Omero, Dante, ma anche Murasaki Shikibu, Cervantes, Melville,
Emily Dickinson e Dostoievskij.
In questa sede cercheremo di concentrarci sul rapporto tra Dante, in particolar modo il Dante della
Divina Commedia, e Canti del Caos sia a livello contenutistico sia a livello di struttura narrativa e
sistemica, cercando di penetrare la superficie ed indagare i legami meno apparenti.
1 A. MORESCO, Canti del caos , romanzo in 3 parti, Mondadori 2009 , d’ora in poi semplicemente “CC”.
2 R. DONNARUMMA, "La guerra del racconto: Canti del caos", in The italianist, 30 (2010)
3 "Le orbite", Conversazione con ANDREA TARABBIA, in "Il primo amore" n. 1, pp. 99-113
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Infatti, come vedremo, quello della Divina Commedia non può essere considerato un vero e proprio
modello ma, come da titolo, come un’eco che tuttavia percorre, in modo sotterraneo, tutta l’opera.
A guidarci su questa strada sono diverse spie, prima di tutto strutturali, che difficilmente possono
essere considerate casuali. Anzitutto Canti del Caos, proprio come la Commedia dantesca, presenta
una struttura tripartita: tre parti che, come affermano Donnarumma e lo stesso autore, non sono da
considerarsi tre opere separate, ma tre momenti di un medesimo progetto, di un medesimo sistema,
avente una coerenza strutturale e narrativa.
Se poi si pensa che questi tre momenti, allo stesso modo della Commedia, sono suddivisi in canti,
allora non ci sembrerà del tutto infondato parlare dei tre libri dell’opera moreschiana come di tre
“cantiche”. Qui ritroviamo anche l’espediente retorico di far terminare ogni libro con le stesse
parole: “stelle” nel caso di Dante, “Il tuo tempo è finito! È cominciato il mio!” (seppur con una
piccola, ma fondamentale, variazione nell’ultimo libro) nel caso di Moresco.
Ma questi, del resto, sono solo indizi; segnali che tuttavia ci spingono a tentare un’analisi più
profonda sui rapporti tra le due opere.
Le analogie, infatti, non si fermano a questioni terminologiche e di nomenclatura: forse non è un
caso che il capitolo “Invocazione alla Musa” sia collocato da Moresco in apertura del secondo libro,
esattamente come Dante, appena lasciatasi alle spalle la caligine infernale, invoca le sue Muse nei
primi versi della seconda cantica:
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Caliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono. (Pg I, 7-12)
“Dammi, o Musa, le forze cieche, indistinte, per andare avanti in questa poltiglia increata, spalanca di fronte
a me i tuoi specchi, accoglimi nel tuo sbrego oceanico cieco, nella tua polpa molle piena di bagliori”.
(CC, p. 408)
Perciò, poggiando su questi segnali più o meno espliciti, cercheremo di procedere nella nostra
indagine con la certezza di non rimanere delusi.
SCENARI INFERNALI
Prendiamo quindi le mosse dagli elementi più evidenti: le descrizioni. Moresco ha più volte ribadito
la sua perplessità nei confronti di chi ha voluto porlo sotto la categoria di realismo, affermando che
la realtà di cui si sono occupati gli scrittori realisti altro non sia che una semplificazione ed una
banalizzazione di ciò di cui effettivamente partecipiamo.
Nella mente dell’autore c’è infatti l’idea di voler rappresentare ciò che sta al di là della visione
semplificata e comoda che abbiamo della realtà, sfondando il diaframma della convenzione. Solo in
quel momento potrà rivelarsi il caos sottostante l’ordine che ci costruiamo arbitrariamente; allora un
oggetto, un personaggio, non saranno più visti come elementi finiti ma come parti di un tutto che va
dai macroscopici movimenti dell’universo alle battaglie per la sopravvivenza delle cellule che ci
compongono e delle molecole che compongono le cellule stesse.
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Se la categoria di realismo, intesa in modo tradizionale, sembra stare molto stretta ad un’opera
come Canti del Caos è pur vero che il mondo materiale e corporeo è presente in tutta la sua
concretezza: uno stile comico, se vogliamo, ma comico in senso medievale, dantesco. In questo
modo l’opera si apre alla totalità dell’universo, fino ai particolari più infimi e scabrosi, accogliendo
in essa una gran varietà di espressioni del linguaggio comune che si spinge fino a quello anatomico
e pornografico.
In questo modo all’interno della narrazione sorgono spesso quadri di una concretezza sconcertante
e, in qualche modo, infernale. Sono molte le situazioni in cui Moresco sembra trascinarci all’interno
di una bolgia dantesca: sesso, feci, deformità, amputazioni, fluidi corporei, sangue, pornografia si
mescolano in immondi affreschi illustrati soltanto con la forza evocativa delle parole. Esemplare la
descrizione del set pornografico al termine del primo libro:
“Scorgeva appena, nella luce accecante dei riflettori, grandi forme divaricate e già insanguinate, altre teste
che andavano col grugno tutto lordato. […] Oltre la ressa delle teste e dei corpi che si erano girati tutti dalla
sua parte, impietriti, scorse il lontano luccicare della donna avvolta nella carta stagnola, tirata su da un
paranco, nell’aria, con la testa gettata all’indietro, snodata”. (CC, p. 395)
Sono descrizioni, queste, che ricordano molto da vicino quelle con cui Dante tratteggia alcune
situazioni delle male bolge:
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia. (If XXVIII, 23-27)
Eppure in questi quadri si nota qualcosa di diverso. Nella Commedia dantesca anche nei luoghi più
bassi e turpi, come le bolge dei fraudolenti, si percepisce comunque un principio ordinante, una
forza discendente direttamente dalla volontà divina che mette ordine al caos e che riflette categorie
di pensiero tipicamente medievali. In un epoca decadente come quella in cui scrive Moresco, la
nostra, una tale forza non può essere presente; anzi, compito dell’autore è proprio mettere a nudo il
caos in tutte le sue forme, il caos cosmico di fronte al quale la volontà razionalizzante dell’uomo è
sempre rimasta cieca: qui non c’è ordine se non casuale, non c’è volontà che possa controllare la
massa pullulante dell’universo. Dio stesso non è che uno dei tanti elementi che gravitano “qui
dentro”.
Altre somiglianze si possono rinvenire nelle descrizioni di alcuni personaggi moreschiani che
spesso assumono connotati demoniaci. Si tratta, in genere, di personaggi secondari spesso legati al
mondo della pornografia estrema, come le esplose:
“Siamo così aperte che non siamo neanche più aperte, siamo esplose. Quando apriamo le bocche scoppiate, e
tiriamo fuori le nostre lingue squarciate, sbudellate (come se le stessimo srotolando per scherno dopo avere
dato due o tre morsi a un hamburger. Quando apriamo la fica siliconata e scoppiata […]” (CC, pp. 209-210)
oppure le evacuatrici, col ventre talmente dilatato dalla materia fecale in esso contenuta da essere
sul punto di esplodere; o ancora le svere, donne senza naso e con gli occhi vicinissimi alla bocca;
ma anche i divoratori, le ragazze scartavetrate, i messaggeri dalle labbra dipinte. Tutti questi
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personaggi, più che ricordare i demoni dell’inferno dantesco, ricordano il modo in cui Dante li
costruisce. Tutti i demoni danteschi, infatti, sono stravolgimenti di figure umane e, allo stesso
modo, sono stravolte le figure dei dannati che spesso assumono pose innaturali e deformate (come il
caso di Maometto nell’esempio precedente). Esemplare il caso di Cerbero, che non ha musi ma vere
e proprie facce:
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. (If VI, 28-33)
I motivi di questi stravolgimenti sono tuttavia diametralmente opposti nelle due opere: per Dante
dare un immagine stravolta di quelle che un tempo erano state persone costituisce un modo per
privarli della propria umanità, per dimostrare che una volta superato il punto che conduce alla morte
dell’anima e alla dannazione gli uomini sono in tutto simili alle bestie; Moresco, invece, cerca
questo stravolgimento per forzare ogni suo personaggio oltre gli angusti confini della propria
umanità e dimostrare come, in realtà, ogni essere faccia parte di un universo di forze e relazioni che
trascendono la natura stessa dell’individuo.
Infine anche il concetto di tempo e spazio immobilizzati del terzo libro potrebbe in qualche modo
ricordare la paralisi del dinamismo presente nei ghiacci eterni del Cocito, nei luoghi più profondi
della voragine infernale. Anche qui per i dannati spazio e tempo sono immobilizzati: il primo
perché sono conficcati nel ghiaccio, il secondo perché sono partecipi di un’eternità senza speranza.
Come abbiamo visto, quindi, e come del resto Moresco sembra trattare tutti i suoi “modelli”, Dante
è complicato, attraversato e travolto in vista di un’opera che poggia su un sistema tutto nuovo e
contemporaneo. Sembra ragionevole pensare la struttura di Canti del Caos come una complicazione
di quella della Commedia dantesca.
CERCHI E SFERE
Analizziamo per prima la Commedia immaginando per un
attimo di assumere il punto di vista di Dio. In qualsiasi
momento dell’opera vedremmo una serie di cerchi
concentrici di cui noi saremmo il centro; cerchi che vanno
restringendosi a partire dal più ampio, il limbo, fino al più
ristretto, l’empireo. Il protagonista Dante, accompagnato
progressivamente da Virgilio, Beatrice o San Bernardo, lo
vedremmo di volta in volta all’interno di uno di questi
cerchi, compiendo un movimento che, ai nostri occhi,
parrebbe sempre ascensionale: un progressivo
avvicinamento verso di noi, verso la grazia che c’è in Dio.
Dante si muove all’interno di una struttura, i tre regni
ultraterreni, eterna, imperitura: gli abitanti dei due regni
estremi (Inferno e Paradiso) sono sospesi eternamente nella
stessa situazione di dannazione o di beatitudine mentre
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quelli del Purgatorio, gli unici per i quali il tempo abbia ancora un valore, attendono solo di essere
ammessi al regno celeste.
Ai personaggi cui è concessa libertà di movimento è associato un movimento verticale: dal basso
verso l’alto per Dante e Virgilio e dall’alto verso il basso per Beatrice che scende nell’inferno per
salvare il protagonista dalla dannazione; ai personaggi, invece, a cui è tolta ogni forma di libertà
l’unico movimento concesso è quello orizzontale, ciclico, all’interno del girone al quale sono
eternamente e senza speranza confinati. Ogni cosa è soggetta esclusivamente ad una forza
centripeta, che spinge verso il centro di tutto che è Dio, vissuta dai dannati come privazione, dai
penitenti come attesa e dai beati come appagamento estatico.
La struttura di Canti del Caos di Antonio Moresco potrebbe essere interpretata come una
complicazione della struttura della Commedia dantesca. In questo caso il punto di vista da assumere
non è quello di Dio che, come abbiamo visto, non è che uno dei molti elementi che gravita “qui
dentro”. Per analizzare l’universo moreschiano dobbiamo provare a collocarci “là fuori”,
assumendo, per quanto possibile, un punto di vista esterno.
Potremmo allora immaginare di vedere una sfera che aumenta sempre più le sue dimensioni, in un
continuo moto espansivo che ricorda le teorie dell’universo aperto. L’espansione di tale sfera, e
quindi dell’opera stessa, non è automatica - l’autore non vuole dare l’idea di un romanzo che si
faccia da solo - ma avviene tramite la creazione di altre sfere, interne e concentriche alla prima, che
vengono create attivamente dai personaggi. Un
esempio varrà per chiarire le idee.
Durante i primi movimenti dell’opera l’ispettore
Lanza, giunto in editoria per indagare sulla
scomparsa della Meringa, scopre il suo talento di
scrittore e racconta all’editore, il Gatto, la storia
della ragazza con l’assorbente. Tra le pagine 118
e 149 Lanza crea un mondo, con i suoi personaggi
(l’art, l’account, il copy e la stessa ragazza con
l’assorbente), le sue regole ed il suo sistema di
relazioni interne. Non appena creata questa sfera
contenente il mondo della ragazza con
l’assorbente si lacera, o meglio, esplode come se
fosse una bolla (il termine “bolla” ricorre spesso nell’opera) e il mondo che contiene si riversa nel
“qui dentro” più grande, nella sfera più esterna che, in questo modo, aumenta di dimensioni per
contenerlo. Infatti poche pagine dopo la creazione del mondo “ragazza con l’assorbente” vediamo
già i suoi elementi mischiarsi con gli elementi esterni:
“Cominciavano già ad affacciarsi ai finestrini, a riempirli, gigantografie di bacini e di glutei femminili
sfuocati. «Ah, è quella ragazza là, con l’assorbente!» mi resi conto d’un tratto mentre il treno riprendeva ad
andare, e poi a fermarsi, a ripartire”. (CC, p. 164)
Ogni bolla creata dai personaggi esplode e forza la bolla più grande e più esterna ad ingrandirsi per
contenere il mondo appena creato. Si può forse parlare anche di un sistema di rimozione dei
diaframmi tra realtà e finzione con cui Moresco si confronta in diversi casi:
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“C’è una parete di luce tra noi e il mondo. Bisogna attraversare questa parete di luce. La creazione che si può
esprimere, a volte, anche attraverso la letteratura e alcune delle sue opere è proprio questo attraversamento”.4
in quanto ritiene che:
“[…] la possibilità di definire una cosa esistente come reale in una qualche forma e un’altra no (peggio
ancora, una cosa “realistica” e l’altra no), dipende dall’avere una percezione minima e consolatoria non solo
della nostra vita ma anche della nostra situazione cosmica e di specie. Anche in letteratura, quasi tutti
ragionano come se vivessero ancora in una dimensione pre-copernicana, in una piccola terra piatta e piana al
centro dell’universo, in una condizione di specie prestabilita e immutabile. All’interno di questa prospettiva
ci si poteva permettere di vedere le cose su una linea retta. Invece sappiamo ormai da tempo di vivere in una
situazione completamente diversa e sbalorditiva. Sappiamo di vivere all’interno di una galassia che contiene
miliardi di stelle, sappiamo che ci sono miliardi di galassie oltre alla nostra. Sappiamo che la struttura della
materia di cui siamo fatti è qualcosa di completamente diverso da ciò che noi percepiamo.”5
E in effetti, se l’esempio dell’ispettore Lanza è forse quello più evidente, non è difficile notare che
l’opera si costruisce tutta attorno a questi moti: il mondo del softwarista, il mondo della
pornografia; ogni personaggio crea bolle, contenenti mondi e personaggi, che immediatamente
esplodono per rilasciare il loro contenuto in un “qui dentro” sempre in espansione. L’universo
dantesco preesiste alla narrazione e continuerà ad esistere dopo di essa: Dante deve solo limitarsi a
percorrerlo e descriverlo; l’universo moreschiano è descritto nel momento stesso in cui esso è
creato, nasce con la narrazione, si espande durante la narrazione e collassa insieme a lei.
Ora, nell’universo circolare dantesco i percorsi dei personaggi e della narrazione stessa sono
rettilinei, lineari, verticali o orizzontali, in quanto i corpi sono soggetti esclusivamente alla forza
centripeta derivante da Dio. Qui, invece, ogni oggetto ed ogni personaggio è costantemente soggetto
a due forze opposte: la prima, espansiva, che tende alla distinzione e alla fuga; la seconda,
gravitazionale o di contrazione, che tende all’unificazione ed all’indistinzione. L’architettura
dell’opera si basa proprio sulla compresenza di queste due forze:
“Io non lo so come sono fatti gli universi, ma mi sembra che se metto solo l’elemento espansivo in realtà
creo un falso movimento: il movimento nasce da questo dramma della compresenza di una forza che tenta di
immobilizzare e una che tenta di fuggire e più è forte l’una, più è forte l’altra” 6.
se una delle due venisse a mancare tutto il materiale narrativo si disperderebbe oppure collasserebbe
su stesso consumandosi in un istante.
“Il sole ha come tutti i corpi dei movimenti di gravitazione e nello stesso tempo i gas tendono a fuggire. Se
non fuggissero continuamente verso l’esterno e ci fosse solo la gravitazione, il sole brucerebbe in meno di
un’ora, ho letto da qualche parte. Invece brucia da miliardi di anni. Lo stesso è per la cosa di cui stiamo
parlando adesso: «qui dentro» è la gravitazione. Però non c’è solo questo, in Canti del Caos: c’è anche la
continua espansione, la proliferazione”7.
L’agire di queste due forze opposte ha come risultato ciò che Moresco stesso definisce muoversi per
orbite; orbite che, molto spesso, sono innescate dalle storie d’amore presenti nell’opera:
4 A. MORESCO , La parete di luce, Effigie 2011
5 Ibid.
6 "Le orbite", Conversazione con ANDREA TARABBIA, cit., pag. 106
7 Ivi, p.108
7
“È come se bruciando all’interno di queste storie d’amore […] i personaggi bruciassero il proprio ciclo
vitale, che è anche interno al ciclo biologico, amoroso e corporeo: a quel punto un’altra storia viene
rilanciata. Ma non è così anche la vita? E che cosa resta di tutto questo? Resta il movimento della creazione
delle orbite, una finisce e un’altra parte…”8
Qui non c’è più nei personaggi un percorso evolutivo come quello che riguarda il protagonista della
Divina Commedia e non c’è nemmeno un obiettivo, se non momentaneo e provvisorio, verso il
quale concorrono. Ogni personaggio traccia un’orbita: nasce, acquisisce progressivamente una
funzione per poi progressivamente perderla, esattamente come accade nella vita di tutti i giorni,
tutt’altro che lineare. C’è una continua e traumatica lotta per la nascita e la morte tra le figure
all’interno dell’opera. Eppure, anche senza un principio ordinatore esterno per così dire
“medievale”, tutto ciò sembra spesso accadere con straordinaria serenità e accettazione da parte dei
personaggi: ognuno sembra conoscere fin dal principio quello che sarà il destino ultimo di tutti, in
un’onniscienza preclusa a chiunque non si trovi “qui dentro”. Tutti sanno sempre cosa accade,
sebbene spesso non sappiano perché.
“Il personaggio brucia come una stella: una stella nasce, si incendia, collassa. Ha un inizio e una fine.” 9
La narrazione per tenere conto di questi movimenti non potrà dunque essere lineare: la fusione dei
vari mondi all’interno di un “qui dentro” indistinto fa si che l’attraversamento dei piani diegetici
non sia un’eccezione ma la regola, tanto da trascendere la nozione stessa di livello diegetico.
Moresco stabilisce un contatto tra la struttura del romanzo e i movimenti della materia
nell’universo; anche il racconto, dunque, si muoverà per orbite attraverso:
“[…] rivelazioni, colpi di scena, e concatenazioni interne, nuove possibilità di sviluppo e compresenza di
azioni e di piani di tempo”. 10
Ed a ben vedere anche l’immagine delle sfere concentriche, che pure fin qui abbiamo utilizzato per
comodità, mal si adatta ad un universo lontano dall’ordine e della perfezione come quello che
Moresco ci presenta nella sua opera. Forse sarebbe più corretto parlare di ellissoidi o forse ancora
l’autore potrebbe avere in mente una delle teorie più giovani sulla struttura dell’universo.
Secondo tale teoria, detta dell’universo aperto o iperbolico, l’universo
avrebbe una struttura aperta ed in continua espansione, la cui forma
assomiglierebbe a quella di una sella da cavallo all’interno della quale
ogni moto è necessariamente curvo. Questo accostamento,
apparentemente un po’ azzardato, potrebbe essere confermato da
quello che gli scienziati considerano il destino ultimo di questo
modello di universo: la morte termica o Big Freeze. In questa
condizione l'universo raggiunge, grazie alla sua espansione, il
massimo grado di entropia e rimane un luogo buio e freddo, senza
energia e con la materia fagocitata e trasformata dai buchi neri, ma continua ad esistere per sempre
in un modo alternativo, non esistendo più nemmeno il tempo.
8 Ivi, pag. 105
9 Ibid.
10 Ivi, pag. 112
8
È una situazione, questa, molto simile a ciò che si verifica nell’ultimo libro di Canti del Caos, in cui
personaggi ed oggetti continuano ad esistere, pur in uno stadio di materia informe, all’interno dello
spazio e del tempo immobilizzati. Rimosso anche il diaframma del presente, passato e futuro si
incontrano e quando l’opera dell’Investitore è ormai completa ed ogni personaggio è stato increato
allora nasce una nuova voce, una voce collettiva e non ancora specializzata, staminale, che risuona
in un ultimo canto dove corpi celesti, uomini, animali, cellule e batteri sono riportati allo stadio di
disordine ed indistinzione entropica primordiali.
In questo spazio curvo, deformato, la linearità non è possibile: né quella del racconto, come
abbiamo già notato, né quella dei movimenti perché, come chiarisce Moresco raccontando un
proprio viaggio in treno:
“Questo almeno è il viaggio che ci sembra di avere fatto. In realtà abbiamo compiuto un viaggio più
sterminato, più curvo, perché nello stesso momento in cui la macchina del treno compiva il suo piccolo
spostamento noi stavamo compiendo un percorso infinitamente più grande nello spazio ruotando sulla
superficie del nostro pianeta attraverso i movimenti della rotazione e della rivoluzione terrestre attorno alla
nostra stessa”. 11
I movimenti curvi fanno in modo che ogni personaggio, anche se momentaneamente viene
abbandonato, ritorni e si faccia nuovamente vedere finché non esaurisce definitivamente la sua
funzione. È l’esatto opposto di ciò che accade nella Commedia, in cui i personaggi vengono
abbandonati per non ripresentarsi più: incontriamo Ciacco nel VI canto dell’Inferno, Ulisse nel
XXVI, Casella nel II del Purgatorio, ma quei personaggi rimangono dove sono e non torneranno
nella narrazione, esauriscono la loro funzione nel momento stesso in cui vengono superati.
Torniamo dunque per un attimo “là fuori”. Possiamo immaginare il “qui dentro” moreschiano come
uno spazio (sia esso di forma sferica, ellittica o iperbolica) in continua espansione sotto la spinta di
personaggi che gravitano orbitalmente al suo interno e creano nuovi mondi. Questi mondi, solo
momentaneamente chiusi, non appena creati esplodono e il loro contenuto comincia a sua volta a
muoversi “qui dentro” tracciando nuove orbite, nuove possibilità. Una volta raggiunto il massimo
grado di espansione e rimosso l’ultimo diaframma, quello del tempo, tutto continua ad esistere
seppure in una forma diversa, in un tutt’uno indistinto e rinnovato, increato.
OPERA MONDO – OPERA UNIVERSO
Ma se, come abbiamo tentato di spiegare, la struttura dell’opera si modella sulla struttura
dell’universo stesso, allora è davvero possibile parlare di Canti del Caos come di un’opera-mondo
come ha fatto Raffaele Donnarumma? Possibile sì, ma riduttivo.
È vero che, come scrive il critico, l’opera condivide con opere-mondo quali il Faust di Goethe,
l’Ulysses di Joyce, e Moby Dick di Melville “la vastità d’impianto, la sovrasignificazione
allegorica, la polifonia dissonante, l’enciclopedismo asistematico, l’evasione dai confini dei generi
se non del letterario, la pretesa di essere un libro epocale e assoluto, la messa in scena di conflitti
totali, l’apertura su una dimensione sovranazionale o cosmica”12
, ma qui si va ben oltre tutto questo.
Queste opere, pur nel loro enorme respiro, si fermano alla superficie terrestre. Qui la struttura del
romanzo, i personaggi, gli oggetti e le situazioni non si limitano a rappresentare un mondo o un’idea
11
A. MORESCO , La parete di luce, cit. 12
R. DONNARUMMA, "La guerra del racconto: Canti del caos”, cit.
9
di esso. Qui i mondi sono molteplici e tutti fusi all’interno di un unico spazio dalla comune
atmosfera. Qui, e qui sta l’estrema contemporaneità dell’opera, si tenta di rappresentare il nostro
mondo inserito nell’universo che lo contiene.
L’autore vuol farci percepire ciò che c’è al di là della visione della realtà che l’uomo si crea per
comodità: una visione pre-copernicana, medievale, che non si è affatto evoluta rispetto a quella
rappresentata dall’opera dantesca. Pensa la realtà a livello cosmico sia sul fronte macroscopico in
quanto “anche noi siamo attraversati dal movimento cosmico, ne siamo configurati”, sia sul fronte
microscopico “perché anche all’interno delle nostre cellule avvengono processi continui, di morte,
di sdoppiamento” 13
.
Possiamo considerare l’opera di Moresco come una vera e propria “rivoluzione copernicana
letteraria”, che finalmente considera l’io nel suo rapporto con ciò che realmente lo circonda tolto il
velo dell’astrazione. Eppure, sebbene l’io, o meglio “gli io”, perdano ovviamente centralità, questo
non si traduce necessariamente in una riduzione della funzione dell’essere umano all’interno del
cosmo. Nel caos moreschiano ogni soggetto ha una funzione specifica ed ineliminabile che
contribuisce a far muovere e far crescere l’universo contenuto “qui dentro”; una funzione
temporanea, certo, provvisoria, di cui si vuol rendere conto senza prolungarne artificiosamente la
durata .
Che cosa c’è dunque nel “qui dentro” di Canti del Caos? C’è un universo, o meglio il “qui dentro” è
sia l’universo che l’opera che lo contiene: un universo in cui, pur nel disordine totale, ogni
personaggio ricopre una funzione fondamentale, agisce e pensa in comunione con esso. L’universo
è preso come forma e contenuto dell’opera e in essa vive e si sviluppa. Parleremo dunque più
propriamente di “opera-universo”.
Ed è forse questo che avvicina di più i Canti alla Commedia dantesca: Dante ci racconta di un
personaggio che attraversa un universo, Moresco di un universo dal quale i personaggi sono
attraversati; da una parte l’universo dalla prospettiva dell’uomo, dall’altra l’uomo dalla prospettiva
dell’universo. Ma in entrambi c’è l’idea che la vita quotidiana, se esiste, non sia affatto limitata a
ciò che accade sulla superficie terrestre, alla visione accomodante e semplificata che l’uomo si dà
della realtà. Non c’è differenza nella volontà di rappresentare l’universo; la differenza è
nell’universo che si rappresenta: Dante rappresenta il suo universo, un universo costruito attorno
all’uomo e per l’uomo, rettilineo, ordinato da un principio divino immutabile ed eterno, garante di
imperitura giustizia; Moresco, settecento anni dopo, rappresenta un universo contemporaneo,
caotico, curvo, un universo in cui l’uomo ha perso la sua centralità ma non la sua funzione. Per
Dante il protagonista della propria opera non poteva essere che l’uomo stesso, per Moresco il vero
protagonista è l’universo, nei confronti del quale l’uomo deve prendere coscienza di costituirne
un’infinitesima parte.
E del resto il ritorno ad una situazione di indistinzione cosmica, di massa staminale indifferenziata,
di tutt’uno con l’universo, è il messaggio ultimo dell’opera: un messaggio apocalittico, sì, ma
anche utopico perché auspica un rinnovamento in “un’epoca ultimativa, in cui bisogna provare a
cercare un passaggio per andare dall’altra parte”14
. Per Moresco questo passaggio non è senza
l’uomo, ma oltre l’uomo, dopo l’uomo, postumano: alla fine non c’è disperazione ma speranza.
13
"Le orbite", Conversazione con Andrea Tarabbia, cit., pag. 108 14
Ivi, pag. 112
10
“«Il mio tempo è finito. È cominciato il mio» penso penserò un istante prima che penserà, nella luce nera che
sarà, nell’increato che sarà, nel mio cervello seminale increato che sarà, che sorriderà, che sorriderà, che
nell’increato sorriderà”. (CC, p. 1069)
CONCLUSIONE: UN NON-MODELLO
Nonostante, come abbiamo cercato di mostrare, siano molti gli elementi danteschi che Moresco
recupera in Canti del Caos, non sembra corretto parlare della Divina Commedia come di un suo
modello. Manca, infatti, quella sistematicità e quel citazionismo che sono invece tipici del romanzo
postmoderno. Dante, qui, è sempre ricordato ma anche stravolto e oltrepassato, sia nella struttura
dell’opera che nei contenuti.
Eppure, proprio per il fatto che la ripresa non è limitata a sterili e puntuali citazioni, il mondo
dantesco vive all’interno dell’atmosfera dell’intera opera in modo sotterraneo ma potente. Per
questo fin dal titolo abbiamo parlato di echi danteschi: Dante forse non si vede nell’opera di
Moresco ma, certo, si sente. L’autore, che inserisce esplicitamente Dante nel suo canone personale,
sembra talmente permeato dalla cultura dantesca da farla rivivere nella sua opera senza nemmeno
rendersene conto, omaggiando incoscientemente il poeta fiorentino.
La Commedia e i Canti sono due opere radicalmente diverse: eppure, in un certo senso, è possibile
vedere la seconda come un’evoluzione ed una complicazione della prima in quanto entrambe
rispecchiano sistemi di pensiero a loro contemporanei. Due opere-universo che rispecchiano due
diversi universi.
Perciò qui, molto più che in altre opere che scelgono la Commedia come modello diretto, l’eredità
di Dante, echeggiando per le orbite di tutto il “qui dentro” moreschiano, assume una forma
rinnovata e straordinariamente contemporanea.
Ma del resto queste sono solo speculazioni e l’unica chiave di lettura di questa grandiosa e
rivoluzionaria opera la custodisce l’autore, che sicuramente sorriderà nel vedere quante cose che lui
non aveva nemmeno immaginato i critici riescono ad inventare. Come era solito dire Eugenio
Montale: “quando leggo ciò che i critici scrivono delle mie poesie scopro sempre qualcosa di
nuovo”.