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Foscolo e i commentatori danteschi [pdf completo]

Date post: 13-May-2023
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LA RAGIONE CRITICA / 7

Collana diretta da Stefano Ballerio e Paolo Borsa

Davide Colombo

FOSCOLO

E I COMMENTATORI DANTESCHI

In copertina: Ritratto di Ugo Foscolo (tratto da Ritratti scritti da Isabella Teotochi Albrizzi. Quarta edizione. Pisa: Capurro, 1826).

ISBN 978-88-6705-268-4

© 2015

LEDIZIONI – LEDIPUBLISHING

Via Alamanni, 11 20141 Milano, Italia

www.ledizioni.it

La presente opera è rilasciata nei termini della licenza Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International

(CC BY-NC-SA 4.0) il cui testo integrale è disponibile alla pagina

http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0/

Ledizioni è a disposizione degli aventi diritto diligentemente ricercati senza successo

INDICE

NOTA INTRODUTTIVA VII

I. UN «LIBRO DA ITALIANI» (IN FORMA DI LIBRARY BOOK)

1

II. OMERO, DANTE, VICO 17

III. BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA NEGLI STUDI DANTESCHI

37

IV. DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE DEI LETTERATI

67

V. LA SCIENZA DEI FATTI: LOMBARDI EDITORE DELLA NIDOBEATINA

85

VI. LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI: LA VULGATA COME TESTO-BASE DELL’EDIZIONE FOSCOLIANA

107

VII. QUIRICO VIVIANI E IL (FALSO) BARTOLINIANO

129

BIBLIOGRAFIA 163

INDICE DEI NOMI 197

NOTA INTRODUTTIVA

Questo libro si propone di studiare l’apporto di Ugo Foscolo alla tradizione esegetica ed editoriale della Commedia di Dante. Il dantismo foscoliano non è un tema nuovo, ma la ricerca in questo campo riserva anco-ra qualche sorpresa. Sul piano dell’interpretazione gene-rale e delle minute congetture critico-testuali, Foscolo ha fatto progredire gli studi danteschi rispetto allo stato in cui versavano nel secondo Settecento. Perciò il Di-scorso sul testo della ‘Commedia’ di Dante e il com-mento filologico all’Inferno, di cui questo volume rico-struisce la storia, sarebbero un episodio rilevante negli annali della critica e della filologia dantesca anche se il loro autore non fosse il poeta dei Sepolcri.

Eppure gli scritti critici del Foscolo inglese faticano ad emanciparsi da uno stato di minorità rispetto alla produzione poetica. Tale gerarchia, più o meno avallata dalle correnti ricostruzioni storiografiche, risale in ulti-ma analisi a Foscolo stesso. L’epistolario suggerisce che l’edizione dantesca è il risultato di una disciplina co-stante, spronata dalle scadenze contrattuali, sopra un’ in-dole viva e risentita, incline più alla creatività poetica che all’esercizio critico. All’amico e benefattore Hu-dson Gurney, Foscolo scrive della propria ripugnanza a presentarsi al mondo nelle vesti di commentatore. È la

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VIII

polemica verso i letterati da tavolino, ricorrente nella produzione foscoliana e centrale sin dalle prime sezioni del Discorso sul testo della ‘Commedia’.

Sbaglieremmo però a ritenere la critica foscoliana un ripiego rispetto alla produzione in versi. Le pagine suc-cessive sviluppano due argomenti. In primo luogo gli scritti critici di qualsiasi poeta sono sempre una forma indiretta di interpretazione della propria poetica. Quan-do parla di Dante e della Commedia, Foscolo parla pure di sé e del suo modo di intendere la letteratura. Connes-sa al transfert esistenziale con Dante è l’intenzione, poi accantonata, di premettere all’edizione dantesca (quindi al Discorso) la Lettera apologetica: il testo in cui Fo-scolo combatteva le opinioni sbagliate su di sé avrebbe dovuto esser collocato prima del testo in cui combatteva le opinioni sbagliate su Dante. In virtù del marcato au-tobiografismo e del riconoscimento di un destinatario ideale proiettato nel futuro, la struttura comunicativa dell’edizione foscoliana è simile a quella della Comme-dia stessa.

C’è poi un secondo argomento da tener presente. Fo-scolo non limita mai l’ambito della letteratura a quello di chi se ne occupa, non importa se nelle vesti di poeta o in quelle addirittura “ripugnanti” di critico. Per lui il va-lore sociale dell’attività letteraria oltrepassa i suoi limiti in apparenza statutari, e finisce per coincidere con il campo della cultura nazionale. Dante padre della lingua, incitatore alla libertà, riformatore religioso, incarna quella funzione etico-civile della letteratura predicata sin dalla prolusione pavese del 1808 e ribadita dalla Let-tera apologetica. In tal senso la curatela della Comme-dia come «libro da Italiani» illustra le potenzialità della

NOTA INTRODUTTIVA

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lingua e concorre alla rigenerazione della patria, non di-versamente dall’impegno poetico.

Per chiarezza ho ritenuto di distribuire la materia in

capitoli che possono essere letti separatamente. I primi due hanno natura introduttiva. Il primo studia la genesi degli scritti danteschi del Foscolo inglese, compresa una semi-dimenticata Antologia critica della poesia italiana, che include una ricca sezione dantesca; il secondo mette a fuoco l’influenza di Giambattista Vico sulla filologia foscoliana. È nozione acquisita che Foscolo sia figlio della rivoluzione avviata da Vico nel campo della critica dantesca, grazie a travasi di pensiero ben più sostanziali delle citazioni esplicite. Non si sono invece sondati a sufficienza i debiti contratti con Vico da parte del Fo-scolo filologo e interprete dell’antico. Questo parrebbe in effetti un ambito d’indagine ben poco produttivo. Dei quattro campi d’interesse della Commedia indicati da Foscolo sulla Edinburgh Review, quello filologico è l’unico non previsto dal Giudizio sopra Dante di Vico.

Foscolo ha recuperato la lezione vichiana da un’altra strada, quella non poco battuta del paragone fra Dante e Omero. Di tale topos della critica cinquecentesca, rilan-ciato nel Settecento da Gravina, già i lettori ottocente-schi della Scienza nuova denunciano gli aspetti discuti-bili. È tutto da vedere che Dante sia un alter Homerus, e più ancora che Dante e Omero siano come li caratterizza Vico. Ciò nonostante l’accostamento vichiano ad Ome-ro, dov’è insieme possibile e utile, basta a illuminare la Commedia sul piano della storicità e della primitività. Il poeta primitivo, ignaro di regole e di modelli, anteriore a qualsiasi riflessione, vicino alla barbarie delle origini, lavora su un materiale linguistico a prevalente base vo-

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calica. Le pagine successive documentano che il restau-ro della base vocalica è il criterio principale con cui Fo-scolo lettore della Scienza nuova emenda il testo della Commedia.

L’interpretazione omerica di Dante condiziona la ri-cezione dei commentatori della Commedia, a partire da Niccolò Giosafatte Biagioli (1772-1830), a cui è dedica-to il terzo capitolo. L’esordio del Foscolo dantista è una recensione dell’allora inedito commento di Biagioli. Fo-scolo ha potuto leggerne le prime bozze perché Biagioli gli ha chiesto di collaborare con lui. Le strade dei due esuli si sono presto separate, anche se le questioni in e-same sono rimaste in buona parte coincidenti. Ad esem-pio i due mettono a frutto in modo diverso l’eredità di Vittorio Alfieri. Foscolo la declina in senso psicologico, forte della necessità di capire la personalità di Dante, quasi di immedesimarsi con lui. Biagioli invece si serve di alcune inedite annotazioni alfieriane per celebrare in modo acritico l’eccellenza del genio dantesco. L’analisi giunge a esiti diversi, perché diversa è l’impostazione generale. Foscolo l’ha derivata dal saggio Antiquarj e Critici, da quel superiore occhio filosofico grazie a cui prova a collocare i dati raccolti dagli eruditi settecente-schi in un orizzonte complessivo di senso. Questa idea forte gli consente da una parte di saggiare le proposte della più avanzata storiografia europea (in primis di Si-smondi), dall’altra di definire alcuni problemi ineludibi-li della moderna dantistica, quali la cronologia e la di-vulgazione della Commedia.

Il quarto capitolo è dedicato ai dantisti veronesi Gio-vanni Iacopo Dionisi (1724-1808) e Bartolomeo Peraz-zini (1727-1800). Il culto di Dante a Verona ha dato un contributo decisivo all’ingresso della filologia dantesca

NOTA INTRODUTTIVA

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nella modernità. Ora sono in atto sia una rivalutazione dei saggi danteschi del canonico Dionisi, sia una più precisa ricalibratura del suo stretto legame con Perazzi-ni. La figura del canonico assume per noi oggi un rilie-vo diverso da quello che ha mantenuto per anni anche a causa di Foscolo, che gli aveva mostrato un’avversione non sempre giustificata. Prima il commento alla Chioma di Berenice, poi il primo articolo sulla Edinburgh Re-view, infine il Discorso, restituiscono un’immagine di-storta del rapporto di Foscolo con Dionisi. I due sono concordi tra loro più che per molti anni non se ne abbia avuto coscienza. Non si va lontano dal vero se si affer-ma che senza il tesoro filologico e documentario del dantismo veronese, il Discorso foscoliano non sarebbe quello che è.

Si direbbe un dantista veronese non natione, sed mo-ribus il francescano Baldassarre Lombardi (1718-1802), al centro del quinto capitolo. Le ricerche che vado dedi-candogli nell’ambito dell’Edizione Nazionale dei com-menti danteschi, mirano a definire gli orientamenti di gusto e le concezioni estetiche di questo guardiano di confine tra dantismo antico e moderno. Il suo commento dichiara sin dal titolo una triplice finalità: emendare il testo della Commedia, rimasto immutato dal 1595; commentarlo in modo adeguato, non soltanto a livello letterale; difenderne l’ortodossia dagli attacchi del gesu-ita Pompeo Venturi. Di tale protocollo d’analisi Foscolo non può fare a meno se vuol rifondare gli studi dante-schi. Sul piano testuale la Commedia di Lombardi predi-lige le stesse forme piene, ricche di vocali, prescritte dalla lettura foscoliana della Scienza nuova; sul piano esegetico, squaderna all’occhio filosofico foscoliano «fatti veri» raccolti e controllati quanto a pertinenza e

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veridicità; sul piano apologetico, rappresenta un’ alterna-tiva alla lettura gesuitica, poiché non si appiattisce su uno sfondo dottrinale-teologico.

Il sesto capitolo affronta un nodo tipico della filolo-gia prelachmanniana, la resistenza al superamento della vulgata. Nel caso della Commedia, la vulgata è l’ edizio-ne cinquecentesca della Crusca, ripresa tra Sette e Otto-cento da Giovanni Antonio Volpi (1686-1766) e da Gaetano Poggiali (1753-1814). Il principale motivo d’interesse del capitolo consiste nella proposta di ridi-scutere sia i criteri editoriali, sia la consistenza del cor-pus testuale del Foscolo dantista. A lui ricorreva Miche-le Barbi per esemplificare l’individualità dei problemi della filologia: essi cambiano non soltanto fra l’uno e l’altro autore, ma pure fra opere diverse del medesimo scrittore. Se alcuni problemi del passato non sono diver-si da quelli attuali, allora intendere i primi può aiutare a risolvere o a meglio impostare i secondi, pur in mezzo a esitazioni ed errori. Perciò nelle note di questo libro si succedono i nomi e i pareri di alcuni protagonisti del di-battito attuale sul testo della Commedia, Saverio Bello-mo, Giorgio Inglese, Enrico Malato, Giorgio Petrocchi, Federico Sanguineti, Prue Shaw, Paolo Trovato, giudici competenti in siffatte materie.

Domenico, alias Quirico, Viviani (1780-1835), a cui è intitolato l’ultimo capitolo, non è uno di quegli inge-gni che nella storia degli studi danteschi abbiano un po-sto distinto. Poco noto persino agli specialisti è il suo nome, tanto da non figurare nel recente Censimento dei commenti danteschi a stampa della Salerno Editrice. Eppure negli anni Venti dell’Ottocento, quando Foscolo lavorava alla sua edizione, la Commedia di Viviani era reputata la più vicina all’originale. A ridimensionare

NOTA INTRODUTTIVA

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quella reputazione il Discorso foscoliano contribuisce in modo decisivo, perché sospetta quanto poi è stato pro-vato al di là di ogni dubbio, ossia che Viviani inventa una Commedia secondo il suo gusto, invece di ricostrui-re quella storicamente più probabile. Ciò da un lato spiega la damnatio memoriae subìta da parte dei danti-sti, dall’altro però non diminuisce la sua rilevanza per Foscolo. Il quale fa tesoro della contiguità del suo antico compagno di studi con le idee e le esperienze della filo-logia trivulziana, l’ambiente di Vincenzo Monti e degli “Editori milanesi” del Convito di Dante.

Questo lavoro è meno imperfetto grazie ai suggeri-

menti di Simone Invernizzi, Martino Marazzi, Luca Mazzoni, Claudio Milanini, Donato Pirovano, William Spaggiari, Cristina Zampese. Uno speciale ringrazia-mento spetta a Stefano Ballerio e Paolo Borsa, che han-no accolto il mio libro nella collana da loro diretta; e a Francesco Spera, che mi ha indirizzato a questo filone di studi. Ringrazio infine i direttori e il personale di due istituzioni mirabili e mirabilmente liberali, la Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi” di Livorno, e la Società di incoraggiamento allo studio del disegno e di conserva-zione delle opere d’arte in Valsesia. Dedico questo lavo-ro a mia moglie Francesca, che l’ha vissuto con me.

CAPITOLO PRIMO

UN «LIBRO DA ITALIANI» (IN FORMA DI LIBRARY BOOK)

La lettera a Gino Capponi del 26 settembre 1826 è tra le più note dell’epistolario foscoliano. Dapprima parzialmente pubblicata sull’Antologia, periodico a cui collaborava il marchese fiorentino, quindi tradotta dalla Foreign Quarterly Review, aprì infine la prefazione alla postuma princeps della Commedia foscoliana curata da Giuseppe Mazzini tra il 1842 e il 1843.1 Questa lunga lettera-manifesto riveste una triplice e connessa funzio-ne, documentaria, programmatica ed editoriale: fa capire come viveva e cosa scriveva Foscolo nell’ultimo perio-do dell’esilio inglese; chiarisce i suoi progetti futuri, in particolare in ambito dantesco, dopo che nello stesso 1826 era uscito, con data 1825, il Discorso sul testo del-la ‘Commedia’; illumina il contrastato rapporto del poe-ta con il sistema editoriale, specie con William Picke-ring, l’editore del Discorso. A Pickering Foscolo attri-

1 La lettera a Capponi si legge in Foscolo, OEP VIII 229-40. Per la pubblicazione sull’Antologia e per la prefazione di Mazzini, si veda EN Bibl., 2, 190-201 e 246-50. Stefanelli studia le citazioni dante-sche nell’epistolario di Foscolo.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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buisce la responsabilità sia dell’incompletezza dell’ edi-zione dantesca, sia dei limiti (quanto a formato, pagine, persino ideazione) del Discorso.

In questa controversia i biografi di Foscolo tendono a sposare il suo punto di vista, senza la precauzione di in-crociare tutti i dati a disposizione.2 Un aiuto in tal senso può venire dalle note apposte dalla Foreign Quarterly Review alla traduzione della lettera a Capponi. Lo scopo delle note (e della conseguente richiesta di rettifica all’Antologia) è mettere in luce l’assoluta correttezza di Pickering. Ad esempio il libraio-stampatore di Chancery Lane avrebbe interrotto l’edizione del Dante foscoliano non per ostilità preconcetta verso il poeta, bensì a causa della saturazione del mercato librario italiano, prediletto da Foscolo.3 Ripercorrere le traversie editoriali del Dan-te foscoliano è un modo di esaminare la questione legit-timo, ma tutto sommato parziale, visto che, pur di pub-blicare Dante, Foscolo è pronto a scavalcare, o comun-que a ridurre al minimo, la mediazione editoriale. A tal fine accetta o ricerca l’aiuto di tre amici, Antonio Paniz-

2 Lindon, Studi 100 n. 36. 3 Critical Sketches 335-37 [ma 339]. Non entra nel merito della

questione la risposta dell’Antologia, un breve cenno nella rassegna degli articoli usciti sulla Foreign Quarterly Review: «chi conobbe il Foscolo sa che quell’uomo alle volte trasognava. Del resto in Londra non è cosa da far meraviglia se un autore si vede alla volta defrauda-to del frutto dei suoi lavori» (Vieusseux, Rivista 99). Quando però è chiamato a scrivere in prima persona sulla medesima Foreign Quar-terly Review, lo stesso Andrea Vieusseux abbandona il tono pilate-sco, anzi esclude che Foscolo sia stato frodato: egli «only completed the Dante, of which, however, the Introductory Discourse alone was published [...], but for which he received the full amount stipulated» (Foscolo 341).

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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zi, in veste di curatore dell’ultimo volume, Pietro Gian-none, spigolatore di varianti e correttore di bozze, Cap-poni stesso, come consulente editoriale.4 Inoltre il Dante foscoliano è l’anima di un più ampio progetto culturale, che prevede la contemporanea pubblicazione di Omero. Foscolo in sostanza racconta a Capponi come vorrebbe completare la sua Commedia a partire da un ripensa-mento critico della propria carriera di dantista, che cul-mina in una riconsiderazione della propria biografia let-teraria.

Durante l’esilio inglese più volte Foscolo deve esser-si chiesto quale fosse il suo posto nella società che l’ a-veva accolto. A spingerlo a studiare Dante, oltre all’ ur-genza di autodefinirsi come scrittore, concorrono le ne-cessità materiali e l’intermittente afasia poetica. «Or in-calzato dalla Fortuna che pur vuole ch’io anziché vivere a studiare mi rassegni a studiare per vivere» – scrive già il 30 settembre 1818 in riferimento a un Corso di lette-ratura italiana per gl’Inglesi – «ho fatto un contratto con certi libraj per la ristampa d’alcuni grandi scrittori nostri da Dante in qua».5 Nella lettera a Capponi lo stes-so chiasmo assume un tono ben diverso: «non ho cer-tezza oggimai né di vivere per lavorare, né di lavorare per vivere». Per quanto caricata da quell’attitudine all’autocommiserazione tipica della personalità del poe-

4 Lettera a Pietro Giannone del 7 ottobre 1826: «m'occorrerebbe

ch'ella radunasse le varianti delle edizioni che le darei, e le rivedesse meco innanzi la stampa, e poscia correggesse i fogli delle prove di torchio due volte» (Foscolo, OEP VIII 242). Al ruolo di Panizzi nell’edizione foscoliana accenna il cap. VI.

5 EN XX, 387.

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ta, questa frase ben riassume le sue enormi difficoltà materiali e psicologiche. Sulla soglia dell’ultimo anno di vita Foscolo, ormai sopravvissuto a se stesso, confida a Capponi di coltivare un sogno impossibile di felice e-marginazione: vive sotto mentite spoglie per nascondere l’indigenza e sfuggire ai creditori, che gli hanno pigno-rato «tutti i mobili, e i libri, e ogni cosa». Una parte del-la mobilia sottratta alla vendita del Digamma Cottage arreda le case affittate nei villaggi suburbani di Hendon e Totteridge nel 1825, durante la stesura del Discorso; ma al momento di partire da Totteridge, l’ennesima crisi di liquidità spinge il poeta a svender tutto.6

Non è meno amara la perdita della biblioteca. Una memoria prodigiosa, il ricorso saltuario agli amici, qualche volume comperato coi soldi di Pickering, le vi-site occasionali al British Museum, obbligate data l’assenza di una rete di pubbliche biblioteche: tutto ciò non solleva Foscolo dalla necessità di disporre di una biblioteca privata stabile e ben fornita.7 Contingenze do-lorose come quella descritta a Capponi – «mi trovo og-gimai senza tetto né libri, avendo venduto ogni cosa per nulla a pagar creditori»8 – cadenzano e diversificano sia la consistenza, sia i campi d’interesse della biblioteca foscoliana, che per questo risulta nello stesso tempo fol-ta, disordinata e discontinua.9 I conseguenti travagli per l’assenza o l’inattingibilità di testi letti o da leggere pun-teggiano non soltanto l’epistolario, con richieste di libri

6 Lindon, Foscolo 386. 7 Traniello 303-23. 8 Foscolo, OEP VIII 229-30. 9 Mazzacurati 46.

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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ai corrispondenti, ma altresì il Discorso, la cui redazione finisce per esser condizionata dall’impossibilità di acce-dere a una biblioteca “professionale”: ad esempio all’inizio e alla fine della postilla con correzioni auto-grafe a Par. XII 141, spicca il rimando a opere viste in passato («certo […] libercolo ch’io vidi da giovinetto in Venezia») o da vedere in futuro (l’Italia sacra di Ferdi-nando Ughelli, «che fino ad ora non ho esaminato»).10

Le postille, vergate da Foscolo su un esemplare della princeps del Discorso conservato nella sede di Villa Fabbricotti della biblioteca Labronica “Guerrazzi” di Livorno,11 implicano un duplice ordine di problemi: perché sono state scritte? e come possono essere pubbli-cate? Oggi tutte le postille si leggono nell’edizione criti-ca di Giovanni Da Pozzo, fedele alla scelta di privilegia-re l’ultima volontà dell’autore rispetto all’esemplare a stampa, il testo letto e diffuso per decenni, grazie anche alle successive ristampe. Una più netta distinzione tipo-grafica tra testo a stampa e postille manoscritte avrebbe forse permesso di meglio orientarsi nella stratificazione del lavoro foscoliano, che corrisponde alla linea di svi-

10 EN IX, 1, 509-11 n. 1; cfr. poi EN IX, 1, 236 («non mi trovo

d’avere il libro»), 260 n. c («del fascicolo [...] non mi sovviene»), 279 («questo libro, io non l’ho»), 396 («mi duole che la loro edizio-ne, se pure è uscita, non siami venuta sott’occhio»), 449 n. b («non ho il libro alla mano»), 481 («or non ho il libro»); 541 («né a me fi-nora di quell’opera capitarono più che due tomi. Se avessi veduto il quinto [...]»); EN IX, 2, 226 («gli altri volumi, che io non ho vedu-to»).

11 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXVII. I materiali d’interesse dantesco di questo fondo sono inven-tariati da EN IX, 1, cxv-cxxxvii, 739-64.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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luppo di un pensiero in movimento. Infatti le postille non sempre si fondono organicamente col testo che vor-rebbero integrare o ritoccare, a indiretta conferma dei dubbi dello stesso Foscolo sull’opportunità di divulgare i materiali postumi di uno scrittore.12

La prima postilla di rilievo asserisce che l’antichità di un testimone è di per sé garanzia della bontà del testo tràdito. Alla formulazione foscoliana di tale assioma della filologia prelachmanniana, ossia che «l’autorità sta tuttaquanta ne’ codici antichi», si richiama Carlo Ne-groni nel 1889 per affermare che una nuova edizione della Commedia dovrebbe fondarsi su codici non più tardi del 1350:13 un’anticipazione, com’è noto, del ca-none editoriale con cui Giorgio Petrocchi ha riconosciu-to l’antica vulgata. V’è da dire però che nell’esemplare del Discorso di Villa Fabbricotti la cartula che recava quella postilla è andata dispersa, come riconosce Da Pozzo, il quale infatti l’ha recuperata dall’edizione di Mazzini. La stessa postilla, per di più, è smentita da un passaggio successivo del Discorso, per cui il valore di

12 L’allergia foscoliana verso gli editori di minute e scartafacci, e-ditori «indiscreti, per troppa amicizia» (EN VI, 445), come France-sco Reina con Parini, emerge dalle Lettere scritte dall’Inghilterra: «oggi è costume nostro ed inglese che non sì tosto un uomo letterato chiude per sempre gli occhi co’ quali esaminava i suoi scartafacci – né stimatili finiti, né da pubblicarsi – gli amici e gli eredi li stampa-no, e sotterrano col morto una parte della sua fama» (EN V, 428).

13 EN IX, 1, 188; Negroni 19-21. Scrive Prue Shaw nella Introduc-tion alla sua Commedia digitale: «Negroni’s argument was based on two fallacious assumptions: that mss. copied before 1350 were free of textual degradation, and that once these mss. had been identified a simple numerical majority of witnesses would guarantee the authen-ticity of the text at any given point» (Shaw, Commedia n. 2).

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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un codice «è da ricercarsi, non tanto nel tempo in cui fu ricopiato, quanto nell’autenticità del testo da cui deriva-va»: il principio pasqualiano dei recentiores non dete-riores, già invocato in modo strumentale nelle dispute dantesche di fine Settecento, e di recente ribadito tra gli altri da Paolo Trovato appunto in contrasto allo sbarra-mento cronologico di Petrocchi.14 Il criterio editoriale della pubblicazione delle postille incide sulla fisionomia del Foscolo dantista, e di conseguenza sulla sua reputa-zione nella storia della filologia dantesca.

La ratio delle postille è invece più agevolmente rav-visabile. Consapevole dei difetti strutturali del Discorso, imputabili a suo dire a Pickering, Foscolo continuava a rifinirlo in vista del completamento dell’edizione dante-sca, ancorché il perdurante disaccordo con lo stesso Pi-ckering rendesse incerta la sua sorte editoriale. Anche di questo discute la lettera-manifesto a Capponi: a quale pubblico vanno indirizzati i restanti volumi della Com-media? Qual è la readership di un progetto editoriale tanto ambizioso? La risposta accennata nelle prime pa-gine del Discorso («io so, o mi par di sapere, che la na-tura crea pochi poeti, e molti lettori di poesia») è gene-rica, ispirata dalla volontà di rovesciare una massima di Montaigne («nous avons bien plus de poètes que de ju-ges et interprètes de poésie»), piuttosto che di far fronte con scrupolo alla questione.15

14 EN IX, 1, 293; Mazzoni, Le polemiche 88, interviene sulle di-

spute dantesche; per i recentiores non deteriores della Commedia, si vedano D’Agostino; Inglese, La revisione 163 n. 6; Malato, Il testo 146; Mecca, Appunti 271; Trovato, Intorno agli stemmi 634.

15 EX IX, 1, 187, da rapportare a Montaigne 416.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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Al Foscolo editore dantesco, poeta e lettore di poesia trapiantato in un diverso contesto socioculturale, la Let-tera apologetica prospetta grosso modo due strade: o servirsi di quel nuovo contesto come osservatorio privi-legiato per parlare agli Italiani; o portare Dante agli In-glesi per mezzo di un’operazione commerciale che a-vrebbe marcato le distanze da un’Italia lontana fisica-mente e ideologicamente.16 Firmando «Un Italiano» la prefazione alla princeps del 1842-43, Mazzini mostra di aver inteso quale fosse il lettore modello dell’edizione foscoliana, stabilito dalle scelte linguistiche (l’italiano appunto) e ideologiche (Dante poeta nazionale) compiu-te da Foscolo. Questi insomma imbocca con decisione la prima strada, ma pure in campo dantesco non può evitare i condizionamenti dell’industria editoriale, che lo spingerebbero verso la seconda.

Un esempio di tali condizionamenti, parallelo all’edizione dantesca, è un’opera-fantasma nella produ-zione di Foscolo, l’Antologia critica della poesia italia-na in tre volumi. Il manoscritto che contiene il primo,

16 Cfr. Foscolo, Lettera apologetica 38-39: «mi sono rassegnato

quasi a dimenticare questa lingua e scrivere per diporto di lettori che sentono, concepiscono ed esprimono tutte le idee in modi diversi dagli italiani; ed ho ipotecato l’ingegno a’ librai mecenati. Ma se la fama letteraria merita alcune fatiche, certo non è da sperarla se non dalla patria dello scrittore che sola può intenderlo e giudicarne». Scrivendo a Hudson Gurney il Foscolo inglese si paragonava a «a woman selling her own charm to a brutal purchaser» (Lettres inédi-tes 83), proprio lui che, nella lezione pavese intitolata alla Letteratu-ra rivolta unicamente al lucro, aveva immaginato che in Inghilterra uno scrittore potesse «arricchirsi con l’arte sua senza prostituirla» (EN VII, 114).

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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l’unico giunto a un grado avanzato di elaborazione, ri-sulta irreperibile dopo la descrizione fattane da Vittorio Cian in una miscellanea celebrativa risalente a circa un secolo fa.17 Cian riferisce che l’antologia era stata con-cepita all’inizio del 1827 da Giulio Bossi, l’ultimo assi-stente di Foscolo. Il poeta, in un primo momento coin-volto in veste di consulente esterno, aveva poi assunto un ruolo sempre più decisivo nel progetto, sino a dive-nirne il principale responsabile. Pare dunque che a Fo-scolo competessero la scelta dei brani, metà dei quali sono canti della Commedia nella traduzione di Henry Francis Cary, e il loro commento, che rimaneggia i due articoli foscoliani usciti nel 1818 sulla Edinburgh Re-view.

In definitiva del progetto dell’antologia, naufragato a causa della morte di Foscolo e della partenza di Bossi dall’Inghilterra, sfuggono i dettagli, non il significato globale. Nell’intendimento dei curatori l’antologia a-vrebbe dovuto essere una «speculazione» libraria: è il termine che impiegano in due diverse lettere sia Foscolo sia Bossi, vittime del pregiudizio che pone alta letteratu-ra e alte tirature in alternativa insanabile.18 Visto che è un prodotto volto al realizzo immediato più che alla lunga durata, prima del lancio sul mercato l’antologia va garantita presso un ben definito bacino di utenza, ossia presso il pubblico degli studenti d’italiano. Per questo la

17 Cian, L’antologia. Per uno sguardo complessivo sulle antologie

degli esuli italiani fra Sette e Ottocento, cfr. Spaggiari, L’Italia. 18 Foscolo non si avventura a pronosticare l’esito della «specula-

zione libraria» (OEP VIII 265); di «discreta speculazione», anche dopo la morte di Foscolo, parla Bossi a Panizzi (Fagan 70).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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dissertazione proemiale, in cui tra varie mani si ricono-scerebbero correzioni autografe di Foscolo, indaga que-stioni di glottodidattica, come ad esempio l’utilità delle versioni interlineari.

Per gli stessi fruitori inglesi che avrebbero inteso e apprezzato la sezione dantesca dell’antologia di Bossi sono stati pensati alcuni aspetti del Dante foscoliano. Per volontà di Pickering l’ultimo volume dell’edizione avrebbe dovuto contenere, a vantaggio appunto dei «fo-restieri che studiano la Lingua Italiana», una sorta di in-dice esplicativo di nomi, fatti, personaggi, risultato dalla fusione – e in parte dall’integrazione – dei tre indici ap-prontati da Giovanni Antonio Volpi per la sua famosa Cominiana del 1726-27.19 Inoltre svariate note dell’ edi-zione foscoliana riportano parole ed espressioni inglesi per spiegare l’italiano dantesco (to be gibbeted per «gi-betto» di Inf. XIII 151), rinviano a fatti di cronaca (il primo ministro inglese colpito da paralisi paragonato a Pier delle Vigne che perde «lo sonno e i polsi»), men-zionano costumi locali (la candela detta rushlight per il «papiro» di Inf. XXV 65),20 alludono persino alla topo-

19 Foscolo introduce così l’indice esplicativo: «per compiacere an-

zi all’altrui disegno che al mio, ho addottato gl’indici della Cominia-na, affinché, non foss’altro, giovino di Vocabolario Dantesco a’ fo-restieri che studiano la Lingua Italiana» (EN IX, 2, 307). In questo passo manca il nome di Pickering. Foscolo è più esplicito alla fine dell’abbozzato avviso Al lettore: il «librajo che si assunse l’impresa [...] desiderò [...] che non mancassero esposizioni di vocaboli, e no-mi, e allusioni, a giovarne que’ lettori a’ quali esso mira» (EN, IX, 1, 705). Dei problemi legati all’indice esplicativo discute il cap. VI.

20 Si rilegga la nota foscoliana a Inf. XXV 65: «A’ tempi di Dante n’erano assai fatti di giunco di pallude (v. Pietro Crescienzo, presso

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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grafia londinese (nei Frammenti labronici, a margine di Inf. IX 70). Insomma Foscolo non escludeva che il suo Dante incontrasse il favore del pubblico italofono a cui pensava Pickering: come gli articoli edimburghesi erano stati scritti con taglio comparatistico, «selon le goût des Anglais», così l’edizione poteva rivolgersi «agli Inglesi studiosi della Letteratura italiana».21 Pickering, dal can-to suo, aveva per qualche tempo accettato che il Dante foscoliano si vendesse in Italia; in seguito però, sprovvi-sto di agenti nel nostro paese e intenzionato a rientrare subito dal suo investimento, avrebbe contato sulle ven-dite garantite dai sottoscrittori in patria, non dalle espor-tazioni all’estero.22 Rappresentava un ostacolo insor-montabile la mancata appartenenza alla stessa comunità dei lettori a cui miravano Foscolo e Pickering: i quali erano disposti a farsi l’un l’altro concessioni limitate e

il Lombardi), e il costume serbasi tuttavia fra gl’Inglesi per certe candelucce dette rushlight, da rush giunco e light lume» (EN IX, 2, 131). La nota sembra derivare da Zotti, Commedia 291: «il Lombar-di [...] coll’autorità di Pier Crescenzio contemporaneo di Dante, vuol che s’intenda quell’erba, che volgarmente chiamasi giunco, la cui midolla usavasi per lucignolo nelle lucerne in vece della bambagia; forse simile a quello che usano gl’Inglesi, col nome di rush-light». Romualdo Zotti fu editore dell’Ortis londinese del 1817.

21 EN XX, 418; lettera a Lord Dacre del 17 aprile 1824 (Foscolo, OEP VIII 149). Si legge in una rassegna inglese di studi danteschi risalente al 1844: «the residence of Foscolo in this country, his dif-ferent contributions to British Reviews, as well as his fervent and persuasive eloquence, had undoubtedly rendered the subject in some degree attractive even to the English reader» (De’ Mazzinghi iv).

22 Lettere a Gurney del 25 gennaio 1826 e del 12 agosto 1826 (Fo-scolo, Lettres inédites 68 e 80).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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strumentali, senza però giungere a un’intesa piena sulla readership della Commedia in cantiere.

In sostanza le vicissitudini del Dante foscoliano sono

emblematiche di una duplice frattura. La prima, se si vuole scontata e sotto certi aspetti esteriore, è quella tra la fame di successo e le condizioni perché esso si verifi-chi. La seconda, ben più essenziale, è la frattura tra un’idea forte di tradizione letteraria come elemento uni-ficante e fondativo di una nazione, e l’individualismo legato alle leggi del mercato editoriale. Nella lettera a Capponi Foscolo prova però a sanare quella duplice frattura, a dimostrare cioè che il principio ideale di scri-vere di Dante agli Italiani trae forza da ragioni contin-genti, nel senso che proprio il mercato italiano sarebbe l’unico in grado di assorbire la nuova edizione.

In effetti negli ultimi anni della vita di Foscolo co-mincia ormai a declinare l’interesse inglese per la lingua e la letteratura italiane, tipico dell’età della Restaurazio-ne. Gli articoli edimburghesi del 1818 ricevono buona accoglienza, tanto che Foscolo crede di poterli rifondere e ampliare in un volume di trecento pagine.23 Del resto sia la traduzione di Cary (1814), sia il commentario di John Taaffe (1822), suggeriscono che allora l’Alighieri sapeva intercettare i gusti del pubblico colto, lo stesso per cui Lord Byron compone The Prophecy of Dante. Eppure già all’altezza del 1827 il necrologio uscito su due periodici inglesi attribuisce a Foscolo non il Discor-so sul testo della ‘Commedia’, bensì un’inedita tradu-

23 EN XX, 310.

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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zione del poema, secondo un equivoco nato dal sottinte-so che a quell’epoca sarebbe stato commercialmente impubblicabile un libro in italiano d’argomento dante-sco.24 Da una simile consapevolezza è animata la lettera a Capponi: «benché molti invaniscano a chiacchierarne, pochi intendono Dante; ed è libro da Italiani, – ed io m’intesi sempre a illustrarlo per l’Italia presente o futu-ra». Ciò conferma quanto scrive a Foscolo il bibliofilo Thomas Grenville: Dante è un argomento di conversa-zione per gli Inglesi, ma è dubbio che tale familiarità si estenda alle sue opere.25 Stando così le cose, il Dante foscoliano non può che indirizzarsi a lettori italiani, ed è scontato che molti di essi siano addetti ai lavori: biblio-fili, bibliotecari e dotti sono i tre tipi di lettori modello identificati dalla lettera a Capponi.26

24 Sul Blackwood’s Edinburgh Magazine (Deaths 768) e sulla

London Literary Gazette (Biography 604), si legge: «His principal production, the translation of Dante, is finished, and in the hands of a publisher». Sul riflusso dell’italomania inglese (per cui fa testo Dionisotti, Un professore), scrive Antonio Gallenga, un altro esule italiano in Inghilterra, in un articolo su Foscolo del 1845 a firma “Anglomane”: «Byron, Hobhouse, and a hundred others, had raised it [Italian Literature] to a height of fashion in which, in later years, it has been superseded by the more fresh and copious productions of German genius» (405).

25 EN XXI, 283 (lettera di Thomas Grenville del 24 maggio 1821): «The names of Petrarch and of Dante are familiar enough in the con-versation of this country, but I doubt whether that familiar use ex-tends itself to their works».

26 A detta di John A. Carlyle, traduttore scozzese dell’Inferno a metà Ottocento, certe asprezze espositive e argomentative del Discorso, sgradite ai lettori inglesi, sarebbero dirette agli italiani: «English readers will dislike the angry, disjointed, and acrid style of that Discourse; and quiet students of Dante will be able to point out

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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Un «libro da Italiani», dunque: o meglio, nell’ imme-diato un «Library book»,27 disponibile sugli scaffali di consultazione delle biblioteche, in prospettiva un libro destinato a durare per le future generazioni. Mentre Pi-ckering ha in mente un volume, se non popolare, alme-no facilmente smerciabile, la cui composizione non do-vrebbe richiedere più tempo dei celebrati articoli edim-burghesi, Foscolo consuma i suoi giorni a postillare un’opera nel contempo erudita, per gli addetti ai lavori del suo tempo, e popolare, per gli italiani venturi.28 Questa destinazione emerge da un passo del Discorso: «verrà forse giorno che, mentre noi saremo dimenticati, le fatiche nostre avranno per merito l’utile frutto che gli Italiani ricaveranno dal loro poeta».29 Certo, qualsiasi letterato classicista non può non pensare a un destinata-rio postumo, al di sopra delle contingenze del presente. Tuttavia l’impiego del sintagma topico tempus / aetas veniet, usato nelle profezie (ad esempio «veniet lustris labentibus aetas» nell’Eneide, o il «verrà un giorno» di padre Cristoforo a Don Rodrigo), suggerisce che l’ auto-re del Discorso confidava in un esito favorevole, in un lontano ma sincero apprezzamento del suo lavoro. Pi-

various errors, exaggerations, and anachronisms; but it ought to be remembered that poor Foscolo had to remove very large quantities of deep-settled rubbish, and deal with a class of his countrymen upon whom any other style would have produced less effect» (Carlyle, Comedy xxii).

27 Foscolo, OEP XII 460. 28 Traduco, con significativi ritocchi, un passo dell’articolo su Fo-

scolo presente in un dizionario biografico inglese del 1835 (Lardner 391).

29 EX IX, 1, 287-88.

UN «LIBRO DA ITALIANI»

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ckering non era un imprenditore abbastanza illuminato da accettare la prospettiva di un successo editoriale dif-ferito nello spazio e nel tempo. Foscolo invece assimi-lava la struttura comunicativa della sua edizione a quella della Commedia: entrambe le opere sono pensate per i posteri, scritte in vista di un destinatario assai più vici-no, e soprattutto intrise di autobiografismo, di una nota acuta e intensa di coinvolgimento esistenziale.

Questa oltranza irriducibile a una spendibilità imme-diata è il senso ultimo della curatela dantesca di Fosco-lo. Scrivere di Dante è stato per lui come fare un patto faustiano alla rovescia. Per garantirsi in futuro la poste-rità, se non l’immortalità, Foscolo si è rovinata l’esi-stenza quotidiana nel presente. Il suo primo e discusso biografo suggerisce la chiave di lettura del sacrificio di sé condotto sino all’autodistruzione: sarebbe stato il «troppo intenso studio sopra Dante»30 a portare alla morte Foscolo, educato alla dura disciplina del non om-nis moriar.

30 Pecchio 437 n. 23. Ma pure per Mazzini l’edizione dantesca fu

«il lavoro che costò ad Ugo la vita» (cit. in EN IX, 2, xvii).

CAPITOLO SECONDO

OMERO, DANTE, VICO

Quando Pickering comincia a distribuire il Discorso, Foscolo lamenta che neppure una copia sia recapitata né a lui, né probabilmente al dedicatario, il banchiere e mecenate Hudson Gurney. Qualche esemplare riesce pe-rò a trovare la via per l’Italia, com’era nei voti di Fosco-lo, il quale ne viene informato dalle lettere di parecchi amici.1 Sembra che nei primi tempi della sua circolazio-ne in Italia il Discorso fosse un testo «che pochi pos-seggono» e «che molti censurarono acerbamente».2

Uno dei pochi possessori è nominato da Foscolo stesso nella lettera a Capponi: si tratta di un altro ricco mecenate e filantropo, il nobile pistoiese Niccolò Pucci-ni. Egli aveva conosciuto a Bologna nel 1826 Giacomo

1 Lettere a Gurney del 25 gennaio e del 12 agosto 1826 (Foscolo, Lettres inédites 68 e 80). Entro il 10 giugno 1827 Foscolo invia il Discorso dantesco a Gurney e ad altri (ancora Foscolo, Lettres inédi-tes 90).

2 Così recita la prefazione, firmata Gli Editori, a Arrivabene, Il se-colo 10. «L’Italia ne ha riso», scrive del Discorso lo studioso vichia-no Benedetto Castiglia, e aggiunge: «nondimeno [...] siffatte ricerche [...] rimarranno ognora saldissime [...] e fiano esempio di che possa la longanimità di ingegni veggenti anco in quistioni minuziose ed intricatissime» (135). Cfr. infra, pp. 132-33 e n. 9, per pareri simili.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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Leopardi, autore nel 1832 del testo dell’iscrizione, oggi perduta, per un busto di Raffaello collocato nel parco di villa Puccini a Scornio. Puccini e Leopardi avevano in comune alcune conoscenze, come il già nominato Cap-poni, destinatario della Palinodia leopardiana, e Giam-pietro Vieusseux. A quest’ultimo Puccini il 27 marzo 1827 scrive che una copia del «Dante foscoliano» stava per esser consegnata a Leopardi di ritorno a Bologna. In effetti stralci del Discorso – presente nella biblioteca di casa Leopardi nell’edizione di Lugano del ’27 – sono trascritti nello Zibaldone a Firenze fra il 19 e il 21 set-tembre 1828, con ritorno su questi temi il 13 aprile dell’anno successivo.3

Il denominatore comune dei brani del Discorso tra-scritti da Leopardi è il rapporto Dante-Omero.4 Il primo brano concerne il possibile riuso in campo dantesco de-gli apporti della filologia anglo-tedesca alla questione omerica a cavallo tra Sette e Ottocento; in particolare C.G. Heyne, il suo più brillante scolaro F.A. Wolf, infi-

3 Il filo foscoliano tra Puccini e Leopardi si dipana grazie a tre te-

sti: lo spunto di Bonacchi Gazzarrini 205; la lettera di Puccini a Vieusseux del 27 marzo 1827: «gli porterò il Dante Foscoliano, che non ho ancora inviato a Leopardi, perché aspetto che torni in Bolo-gna» (Puccini 13-15); la scheda dell’edizione di Lugano del Discor-so contenuta nel catalogo della biblioteca Leopardi in Recanati (Campana 133).

4 Leopardi 2945-53 (corrispondenti a EN IX, 1, 156, 196-98, 453-54, 564-72), 3045-46. Stralci di opere foscoliane, compreso il Di-scorso, sono riportati il 30 dicembre 1940 da Cesare Pavese nel suo diario (210-14). Sebbene alcuni brani (la conclusione del Discorso) e alcune tematiche (il confronto Dante-Omero) coincidano con la sele-zione leopardiana, l’intendimento complessivo è diverso: Pavese intende appurare le tendenze aforistiche e la tenuta analitica della scrittura critica di Foscolo.

OMERO, DANTE, VICO

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ne R. Payne Knight, sodale di studi di Foscolo, suggeri-scono cronologie errate o sforzate, e così esemplificano una impostazione da non ripetere per la Commedia. Il secondo brano denuncia che le edizioni vulgate di Ome-ro e di Dante hanno sfigurato la prosodia a base vocalica delle loro opere. La celebre edizione della Commedia del 1595 è sovraccarica di aferesi, troncamenti, elisioni, poiché i curatori, gli Accademici della Crusca, adattano alla pronuncia dei loro tempi la grafia di autori antichi come Dante. Gli argomenti opposti da Foscolo alla soli-darietà cruscante fra grafia e pronuncia (intanto Dante ha composto il De vulgari eloquentia per dimostrare che non intendeva scrivere come parlavano i Fiorentini dei tempi suoi; poi la lingua letteraria italiana, in quanto scritta, non parlata, è impermeabile alle variazioni acci-dentali della pronuncia; infine sarebbe stato impossibile nel Cinquecento congetturare quale fosse la pronuncia trecentesca), sono tutti subordinati all’assioma che «la Divina Commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali».5

Leopardi si rivela un lettore acuto del Discorso, non perché concordi con Foscolo su questo o quel punto del suo pensiero, ma perché con la sua selezione ne segnala indirettamente la linea essenziale nel parallelismo fra Dante e Omero, gli autori degli unici libri che il Foscolo inglese, per uno spavaldo impasto di idealismo e maso-chismo, rifiuta di mettere in vendita, anche se ormai ri-dotto all’inedia.6 Al proposito la lettera-manifesto a Capponi fornisce alcune precisazioni di rilievo. Si è già detto che Foscolo vagheggiava di concludere l’edizione

5 EN IX, 1, 572. 6 Foscolo, Lettres inédites 83.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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della Commedia, e nello stesso tempo di preparare una traduzione dell’Iliade: entrambe, spiega a Capponi, da pubblicare fuori dall’Inghilterra, con adeguata prefazio-ne, ovvero la Lettera apologetica per Dante e un poco definito «discorso politico» per Omero. In più Foscolo attribuisce alla propria carriera di critico dantesco il sen-so di un lungo apprendistato, di una acquisizione gradu-ale di competenze: studiare le opere della letteratura ita-liana gli è servito per capire la Commedia («mi rimase il vantaggio d’avere ben imparato il modo d’illustrare il poema di Dante»), e il metodo interpretativo nato per Dante sarà applicato a Omero, la cui edizione si gioverà delle novità proposte dagli stessi Wolf, Heyne, Payne Knight segnalati nel primo stralcio del Discorso trascrit-to da Leopardi.

L’impostazione teleologica – dagli scrittori italiani a Dante, da Dante a Omero – soffre di reticenze e ambi-guità. Per prima cosa il rapporto fra Dante e Omero ne-gli studi foscoliani meglio si descriverebbe nei termini di un mutuo arricchimento, nel senso che talvolta sono gli studiosi omerici a suggerire nuovi modi di analizzare e pubblicare la Commedia.7 Inoltre tra gli scrittori italia-ni Foscolo passa sotto silenzio il ruolo di Boccaccio, che

7 Come nella Commedia Dante personaggio inganna Frate Alberi-

go, così nell’Iliade Ulisse e Diomede ingannano Dolone (EN IX, 1, 254-57). Mentre però i commentatori danteschi glissano su questo passo, quelli omerici, in particolare Melchiorre Cesarotti nella sua traduzione letterale dell’Iliade (Cesarotti, Versione 42-43), elevano ad argomento di controversia il comportamento di Ulisse e Diomede. Un fine superiore giustifica ogni mezzo per conseguirlo? Può l’eroe agire in modo in apparenza non etico? Da ricordare sull’episodio di Dolone il giudizio storicizzante di Vincenzo Monti: «leggendo Ome-ro, non perdo mai di vista i costumi dei suoi tempi» (Lezioni 116).

OMERO, DANTE, VICO

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ha studiato in parallelo a Dante. Il Discorso critico sul testo del ‘Decameron’ è il trattato gemello rispetto al Discorso dantesco, di cui condivide l’editore (Picke-ring), l’anno (1825), e soprattutto la finalità. In termini moderni quasi si direbbe che Foscolo intenda costruire la critica del testo della Commedia e del Decameron sulla storia della loro tradizione. Quest’ultima sarebbe condizionata da una parte dall’assenza di autografi (ov-viamente Foscolo ignorava il manoscritto hamiltoniano del Decameron), dall’altra dalle edizioni della Crusca, fondate, per Dante come per Boccaccio, sulla erronea solidarietà fra grafia e pronuncia.

Nella lettera-manifesto a Capponi il rapporto esclu-sivo fra Dante e Omero è giustificato in base all’affinità fra le loro epoche: «nel diradare il poema e il secolo o-scurissimo di Dante, parmi d’avere spiato barlume a e-splorare il secolo ignotissimo d’Omero, e lo stato della civiltà de’ Greci a que’ tempi».8 Che i «tempi barbari di Omero» fossero «simiglianti a quelli, che poi seguirono, di Dante», è asserzione di Giambattista Vico.9 La razio-nalità indagatrice del filosofo napoletano fonda e inau-gura quella che Harold Bloom ha chiamato «the Italian line»10 nella tradizione moderna degli studi danteschi, ovvero la genealogia Vico-Foscolo-De Sanctis-Croce. In verità gli innesti vichiani sul dantismo foscoliano paiono più genericamente affermati che provati in base

8 Foscolo, OEP VIII 233. 9 Vico, Opuscoli 233. 10 Bloom 76. In una lettera a Francesco Flora dell’11 agosto 1949,

Croce tracciava la stessa genealogia, dal Dante del De vulgari elo-quentia a De Sanctis, allo scopo di mettere in rilievo che la critica letteraria è una disciplina squisitamente italiana (Mezzetta 164).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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a precisi riscontri testuali. Non esiste infatti per gli scrit-ti di Foscolo su Dante una ricognizione analitica para-gonabile a quella di Andrea Battistini, che ha indagato i nuclei concettuali ed espressivi comuni a Vico e al Fo-scolo dei Sepolcri.11 Se ci limitiamo al parallelo fra Dante e Omero, un tracciato ideale di ricerca è suggerito da Umberto Carpi, il quale ammette il carattere mediato e poligenetico della ricezione di temi latamente vichiani da parte di Foscolo:

nel contesto d’uno dei più strenui tentativi di comples-siva collocazione storica della Commedia, [Foscolo] collega la risorgente fortuna di Dante (e di Omero) al clima culturale determinato dal ciclo rivoluzionario settecentesco, [sicché in lui] dantismo e machiavelli-smo (su un fondo vichiano trasmessogli da Cuoco e da Lomonaco) si sono sviluppati, dopo la rivoluzione e negli anni del dispotismo napoleonico, nell’ambito della riflessione ideologica sulla Storia in generale e sulla storia d’Italia in particolare. (Carpi, La nobiltà 19 e 253) Qual è allora il fondo vichiano della meditazione fo-

scoliana sulla storia? È forse l’idea che un poeta non può essere separato dal periodo in cui vive, nel senso che, essendo la storia il soggetto della sua poesia, egli è chiamato a risolvere in modo peculiare il legame di messa a fuoco reciproca tra linguaggio e realtà. Omero e Dante raggiunsero l’eccellenza non malgrado i tempi in cui vissero, ma grazie a essi, grazie al fatto che quei

11 Battistini, Temi (da integrare con Del Vento 62-65 e con Mazza-

curati).

OMERO, DANTE, VICO

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tempi li indussero a metter in scena storie vere e perso-naggi reali.

Questo concetto è andato progressivamente affinan-dosi nel pensiero vichiano e nella corrispondente riela-borazione foscoliana (il cui nucleo, almeno per quanto attiene alla presente ricerca, andrà spostato più avanti rispetto alla cronologia proposta da Carpi). La Scienza nuova, che Foscolo leggeva nell’edizione milanese usci-ta nel 1801 presso la tipografia dei Classici Italiani, of-friva uno spunto decisivo: «Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere, e rappresentò veri fatti de’ trappassati». Così riprendeva questo spunto il se-condo articolo edimburghese, risalente al 1818: «Dan-te’s whole work [...] is conversant only with real per-sons».12 Nello stesso anno in cui usciva quest’articolo, veniva pubblicato per la prima volta il cosiddetto Giudi-zio sopra Dante, in cui Vico ribadisce sì che la Comme-dia è la storia dei tempi barbari d’Italia, ma nel contem-po precisa che Dante in quanto storico riporta fatti veri, in quanto poeta racconta menzogne.13 L’assunto del Di-scorso foscoliano è più articolato: «chi più la considera più s’accerta che la finzione assume apparenza e potere di verità; onde quanto più Dante è guardato da storico, tanto più illude e sorge ammirabile come poeta».14 Dan-te nell’aldilà non si limita a rappresentare personaggi

12 Vico, Scienza nuova III 20; EN IX, 1, 120. 13 Il Giudizio sopra Dante – che si cita da Opuscoli 27-33 – è un

saggio di difficile datazione e interpretazione (si vedano le osserva-zioni di Cristofolini), ma rappresenta un punto di riferimento impre-scindibile per Foscolo, visto che alla fine tratta di un imprecisato commentatore dantesco (identificato con Pompeo Venturi da Croce 407-10).

14 EN IX, 1, 422.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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incontrati tra le pagine dei libri: all’Inferno vede anche quelli, ma parla (finge di parlare) soltanto coi protagoni-sti della cronaca contemporanea, che gli erano noti per via diretta o indiretta. Per questo tra le favole dei poeti e i fatti veri degli storici non intercorre quel netto disalli-neamento predicato negli stessi anni dallo storicismo manzoniano.15

Non v’è quasi pagina dedicata alla Commedia

nell’Ottocento in cui non si ripeta che, per capire Dante, basta studiare i tempi in cui è vissuto. Ben prima che questo diventi un radicato luogo comune, Foscolo lo su-bordina al nesso vichiano tra individualità e storicità, e così lo carica di un’alta intensità di pensiero e di visio-ne. Vico osserva che Omero e Dante sono autodidatti: non sono in grado d’insegnare come si raggiunge l’ ec-cellenza, perché a loro nessuno, neppure Longino, l’ha spiegato. Furono grandi poiché ebbero grandi qualità (altezza d’animo e magnanimità), e vissero in tempi se-mibarbari. «Natura» e «tempi» sono perciò le parole chiave della seguente citazione del Discorso: «Omero, e Dante [...] non però possono insegnare il secreto dell’arte, perché essi l’usavano quasi senza conoscerlo, e come l’ottennero dalla natura, e da’ tempi», ossia dalle «epoche ancor mezzo barbare».16

Dai tempi in cui sono vissuti, Omero e Dante eredi-tano un linguaggio a prevalente base vocalica. Lo spie-gano i Corollarj del secondo libro della Scienza nuova, dedicati alle Origini della locuzion poetica: «i primi uomini Greci nel tempo de’ loro Dei hanno formato il

15 Nicoletti, Foscolo 293. 16 EN IX, 1, 423, ricalca Vico, Opuscoli 30-31.

OMERO, DANTE, VICO

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primo verso eroico spondaico col dittongo παι, e pieno due volte più di vocali, che consonanti».17 La prosodia delle lingue primitive è vocalica, perché la sostanza fisi-ca dei suoni dipende dalla costituzione anatomica. Infat-ti rispetto alle consonanti, le vocali sono facili da forma-re, visto che la loro emissione richiede una generica vi-brazione delle corde vocali.18 La poesia nasce prima del-la prosa come canto e come melodia, in cui predomina-no le vocali destinate poi a diminuire: «di tal primo can-to de’ popoli fanno gran pruova i dittonghi, ch’essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima esser assai più in numero». L’origine vocalica e melodica del linguaggio è riscontrata in varie lingue, greco, latino, francese, italiano, arabo, cinese, grazie a un incalzante, vertiginoso incrocio della prospettiva diacronica con quella sincronica.

I Corollarj vichiani sono la porta d’accesso al danti-smo foscoliano, ancora da indagare compiutamente no-nostante la sua generica notorietà. Ne fornisce una para-frasi limpida, a tratti didascalica e sincopata, l’ultima sezione del Discorso, non a caso trascritta da Leopardi: «né credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando».19 Non sorprende

17 Vico, Scienza nuova II 75 (anche per le successive citazioni). 18 Lo ripete la Storia del digamma eolico: «languages commence

by being less articulated than modulated: precisely as a child can easily modulate the a, the i, the o, but requires exercise and strength of organs to articulate the f, the l, the n, the r, and to pronounce them together» (EN XII, 238).

19 EN IX, 1, 571. Leopardi non poteva non cogliere l’affinità fra la conclusione del Discorso e la pagina dello Zibaldone datata 12 giu-

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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che, sul modello vichiano, gli specimina a supporto sia-no tratti dal greco, dal latino, dall’inglese, ma princi-palmente dall’italiano letterario. Nel passato prossimo e remoto della riflessione critica foscoliana, compreso il Discorso boccacciano, la predilezione per le forme pie-ne aveva conosciuto occorrenze episodiche,20 generica-mente connesse alle finali vocaliche del lessico italiano, mai tuttavia armonizzate in una più ampia teorizzazione. Negli anni inglesi, invece, Foscolo trova modo grazie a Vico di formalizzare una convinzione che già a lungo si era depositata nel suo animo, ovvero che un testo, al di là della lingua in cui è scritto, più è ricco di vocali, più è vicino alla poesia primitiva. Questa posizione rappre-senta un unicum nel quadro della trattatistica retorica e poetica, che di solito connette la successione di vocali a

gno 1821, secondo cui il concorso di vocali, tipico della fase primiti-va delle lingue, è destinato poi a ridursi: «la lingua italiana antica, quella lingua de’ trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta per-dendo appoco appoco, quanto più s’è allontanata dalla condizione primitiva». Parrebbe dargli ragione Avalle, Concordanze lxxxvii: nei manoscritti della poesia del Due e del Trecento le vocali atone finali, apocopabili per ragioni sillabiche, sono quasi sempre presenti. A det-ta di Aldo Menichetti, la «forma piena in sinalefe» sarebbe «la via globalmente preferita dalla poesia di alto impegno» (327). Non fa eccezione il Leopardi poeta: la sua preferenza per la scriptio plena è messa in luce da De Robertis ciii nella sua ed. critica dei Canti.

20 EN VII, 79: «L’abuso inoltre fa dire ne’ verbi dimostrar per di-mostrare, e nei nomi specialmente femminini – fatto con frequenza è prettissimo barbarismo – costituzion per costituzione e maggior per maggiore e sì fatti»; EN VII, 213: «costituzion, condizion; elisioni che l’indole della lingua e la necessità di un’uniforme pronunzia ri-fiutano»; EN X, 357: «il vezzo [...] di calcare gli accenti su le conso-nanti troncando talor duramente le ultime sillabe».

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categorie stilistiche ed eufoniche. Notevole per la pros-simità a Foscolo, ma evidentemente riconducibile al comune magistero vichiano, è l’eccezione del suo primo maestro, Melchiorre Cesarotti. Il suo commento a De-mostene accenna sì alla «lingua primitiva ed universale, formata dal concorso di varie vocali»,21 senza però ap-profondire il riferimento, che resta estemporaneo ed e-pidermico.

A differenza di Cesarotti e soprattutto di Vico, Fo-scolo scrive da filologo impegnato a giustificare le sue scelte testuali. Quando nell’ultima sezione del Discorso chiarisce il suo proposito di avvicinare la Commedia «alla prosodia di tutte le poesie primitive», Foscolo di fatto dichiara che il principio in senso lato vichiano del-la prosodia vocalica sarà il criterio cardine con cui in-tende emendare il testo del poema contro le «mozzatu-re» o «storpiature» della vulgata, ossia le aferesi, i tron-camenti, le elisioni della Crusca. Perciò quel principio viene piegato alla finalità pragmatica di emendazione testuale del tutto estranea al complesso disegno antropo-logico della Scienza nuova. La filologia di Vico, in quanto «dottrina di tutte le cose, le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lin-gue, de’ costumi, e de’ fatti»,22 non si realizza mai come ecdotica o emendazione testuale. Non a caso Vico ap-

21 Cesarotti, Opere 360. Cfr. Battistini, Un critico. 22 Vico, Scienza nuova I 7. Foscolo non ama il termine “filologia”

e derivati (cfr. EN IX, 1, 176, 196, 253, 273; EN IX, 2, 302), poiché aborre non il concetto in sé, bensì il suo tralignamento rispetto alla Scienza nuova, come suggerisce la chiosa a Inf. XXI 42: «un altro nuovo espositore [forse Costa, Commedia I 180-81] n’abbonda as-sottigliandosi a gloria della loro scienza nuova “Filologia”, com’essi la chiamano». Sull’idea di filologia di Vico si rimanda a Auerbach.

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prezza la capacità del commento di cui parla alla fine del Giudizio di mettere in luce la «bellezza, o leggiadria, dell’ornamento, o dell’altezza de’ di lui [di Dante] par-lari».23 Viceversa Foscolo esclude apertamente che il suo commento possa essere scambiato con le coeve Bel-lezze della ‘Commedia’ dell’abate Cesari: «so ch’altri invocano un critico che faccia ad essi di passo in passo sentire i pregi della composizione; e vi provvederanno gli estetici».24

Del resto il parallelo foscoliano fra Dante e Omero

non trascura la storia del testo dei rispettivi capolavori, un tema assente dalla Scienza nuova. Foscolo denuncia il rischio che la Commedia subisca la stessa sorte dell’Iliade, che diventi il pretesto per una discussione infinita e inconcludente. Tra le bozze a stampa del Di-scorso conservate alla Labronica figura un brano note-vole, benché superato dalle successive rielaborazioni, secondo cui «le sorti dell’Iliade s’hanno da osservare come pronostico delle contenziose emendazioni nella lingua e nella verseggiatura della Divina Commedia, e trovar modo, se v’è, che non si facciano interminabi-li».25 Le controversie sulla prosodia vocalica dei poemi omerici preannunciano un tema di eguale portata e inte-resse per la filologia dantesca. A detta di Foscolo editori come Bentley, Heyne, Payne Knight, sbagliano a ridurre o cancellare le successioni di vocali nei poemi omeri-

23 Vico, Opuscoli 32. 24 EN IX, 1, 187. 25 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol.

XXV, c. 118r. Il brano, riproposto nella bozza di c. 126v, risulta cas-sato nella successiva, a c. 133v.

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ci.26 In particolare Foscolo teme che il suo amico Payne Knight, estraneo agli ambienti universitari, sia presto dimenticato dai compatrioti. Per questo motivo un’intera sezione del Discorso traccia un commosso ri-tratto dello studioso appena scomparso, il quale, giunto al termine di una vita consacrata all’antichità, anche come collezionista, avvertiva ormai il «tedio» e la «va-nità» dell’esistenza, sentimenti comuni sia al Foscolo corrispondente di Capponi, sia al Leopardi trascrittore del Discorso.27 L’edizione omerica di Payne Knight, u-scita nel 1820, ispira a Foscolo l’abbozzata Storia del testo d’Omero. Essa rimprovera allo studioso inglese di aver commesso un doppio anacronismo, ossia di aver introdotto l’apostrofo, un segno ortografico modernis-simo, per indicare l’elisione, un fenomeno assente nell’Iliade e nell’Odissea. Di fatto Payne Knight e Fo-scolo propugnano due visioni opposte ma complementa-ri, perché imputano ai «grammatici» la colpa di aver a-dulterato i poemi omerici, aggiungendo o cancellando le successioni vocaliche.28

26 La nota (EN IX, 2, 181) rimanda alla Storia del digamma eolico. Questo articolo del 1822 anticipa alcune chiose poi travasate nel commento dantesco (ad es. quella su Demetrio Falereo: EN IX, 2, 51), ma termina dando ragione a Bentley («there is every reason to think with Bentley»: EN XII, 242), a differenza del commento; inol-tre suggerisce una lezione per Inf. III 11 («vidi io») poi rigettata nell’edizione dantesca a vantaggio di «vid’io». Sembrerebbe che tra il Foscolo dantista e omerista la sintonia non sia assoluta. Non è que-sta la sede per approfondire la questione, che richiederebbe l’analisi della Storia del testo d’Omero, e soprattutto dei materiali di vario tipo e rilievo pubblicati da Gennaro Barbarisi (EN III).

27 EN IX, 1, 197-98. 28 Scrive Payne Knight: «evenit ut rhapsodi et grammatici [...],

quoties versuum mensurae modos loquendi longiores vel pleniores

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Foscolo compie un passo in più, pensa che gli stessi accidenti abbiano alterato testi lunghi e di tradizione so-vrabbondante come quelli di Omero e di Dante. Il Di-scorso individua il momento di svolta a fine Settecento, quando l’Iliade di Jean-Baptiste-Gaspard d’Ansse de Villoison (1788) e la Commedia di Baldassarre Lom-bardi (1791-92) hanno avviato una fase di più facili e a volte corrive emendazioni ai testi vulgati.29 In effetti Cesarotti riporta l’opinione di chi crede che l’Iliade ve-neta di Villoison, finita nella mani di Wolf, avrebbe amplificato la fluttuazione del testo omerico.30 Allo stesso modo la Commedia del padre francescano Lom-bardi, la prima uscita ufficialmente a Roma, dà vita al profluvio di edizioni dantesche del primo Ottocento, perché incrina il monopolio della Crusca, rilanciato nel 1726-27 dalla Cominiana e di lì in poi più e più volte riaffermato. In tal senso l’impatto dirompente della

desiderarent, toties licentiam istam poeticam excogitaverint, ac litte-ris insititiis hiatus suppleverint» (36). I Prolegomena premessi alla sua edizione, e già editi in precedenza, hanno influenzato il Discorso dantesco sia per l’impianto argomentativo (brevi paragrafi introdotti da numeri romani, a differenza del Discorso boccacciano), sia per la sostanza stessa dell’argomentazione (il percorso storico del testo e della lingua). I frammenti trilingui della Storia del testo d’Omero si leggono in EN XII, 363-92 (per l’elisione, 382-85).

29 EN IX, 1, 561-62. 30 Nel suo catalogo di edizioni omeriche Cesarotti osserva:

«L’antagonista franzese di cui non si dice il nome, confutando l’opinione del Wolfio, confessa però che le osservazioni di lui sopra il testo d’Omero meritano per ogni conto un’attenzione particolare, e molte di esse sono piene di sagacità; teme però che possano diventar pericolose perché sembrano autorizzar la libertà di cangiare, e inter-polare il testo dietro le diverse idee dei critici moderni» (Cesarotti, Iliade 243-44).

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Lombardina, a ragione rilevato da Foscolo, è paragona-bile a quello della Comedia di Federico Sanguineti, che nel 2001 ha acceso l’attuale, ricchissima stagione di di-battiti sul testo dantesco, dopo la lunga quiescenza cau-sata dal prestigio dell’antica vulgata di Petrocchi.31

Per questo Foscolo ha scritto il Discorso, per illustra-re i criteri con cui ha approntato il testo del suo «libro da Italiani». Beninteso, la giustificazione filologica non esaurisce le 211 sezioni del Discorso, perché il Foscolo dantista, per quell’aspirazione alla totalità congiunta alla natura associativa del suo ingegno, passa con apparente disinvoltura da un argomento all’altro. L’andamento di-scontinuo mette talora alla prova la pazienza del lettore, perché implica qualcosa di aperto e provvisorio, quasi fosse necessario accogliere nuovi materiali e i già accol-ti fossero interscambiabili. Malgrado ciò la priorità della filologia è l’ipotesi di lettura unificante dei dati.

È noto che la perizia filologica di Foscolo è stata sot-toposta a una critica radicale a opera di Sebastiano Tim-panaro. Eppure suscita quantomeno perplessità che in un articolo intitolato Sul Foscolo filologo mai si parli del suo commento filologico all’Inferno. Questo restrin-gimento di prospettiva rischia di inficiare i risultati dell’analisi. Timpanaro denuncia «l’estrema scarsezza, quasi l’assenza di esemplificazioni» del Discorso, dove l’unica variante d’autore indicata da Foscolo riguarde-rebbe Inf. II 60 («e durerà quanto ’l moto/mondo lonta-na»).32 Nelle note all’Inferno, nondimeno, Foscolo non

31 Cfr. Canova, Coluccia e Viel. 32 Timpanaro, Sul Foscolo filologo 133. L’articolo del 1971 con-

tribuì ad attenuare – nei toni, non nella sostanza – le riserve antifo-scoliane espresse nella prima edizione di un altro celebre contributo

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soltanto segnala altre presunte varianti d’autore, ma, come vedremo, le inquadra in una visione critica degna di analisi pur se irrisolta.

Dai rilievi di Timpanaro traggono spunto e conforto illustri studiosi, tra gli altri Gennaro Barbarisi, editore delle traduzioni omeriche di Foscolo, e Roberto Tissoni, pioniere delle ricerche sulle edizioni sette-ottocentesche della Commedia. La denuncia di Barbarisi relativa alla scarsa preparazione filologica di Foscolo, condotta sui repertori più diffusi ai tempi suoi, è limitata, se non m’inganno, al versante classico della cultura foscolia-na.33 Allo stesso modo Tissoni, a supporto della sua re-quisitoria contro il Discorso (un «informe sproloquio») e contro Foscolo (tacciato di «degradazione morale» e di «dissesto mentale»), adduce sì qualche citazione dall’Inferno foscoliano, ma, per quanto riguarda il Di-scorso, si limita perlopiù a ripercorrerne l’indice.34

La premessa a un giudizio più equilibrato è una base documentaria meno incompleta, che includa cioè, oltre ovviamente al Discorso e al commento all’Inferno, i materiali preparatori e integrativi pubblicati nell’Edi- di Timpanaro, La filologia di Leopardi 141-42. Il quadro ideologico è lumeggiato da Carpi, Timpanaro 136 n. 10.

33 EN III, 1, xxxiii n. 1. Barbarisi si rifà alla prima edizione del li-bro di Timpanaro sul Leopardi filologo. La recensione di Giuseppe Fischetti a Barbarisi, uscita sul Giornale storico nel 1970, originò la risposta di Timpanaro citata all’inizio della nota precedente. Altri studiosi che si siano imbattuti nel Foscolo filologo in ricerche speci-fiche (Lehnus) o generali (Treves), lo sorprendono a esercitare il suo acume sempre in campo greco-latino.

34 Tissoni 104-10. Simili tentativi di ridimensionare la figura di Foscolo sono precoci. La segnalazione della sua recentissima scom-parsa, collocata in coda a un articolo anonimo sulla Ricciarda, defi-nisce Foscolo «prodigiously overrated» (Horae 584).

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zione Nazionale, ad esempio i Frammenti fiorentini o le già citate postille. L’attività filologica del Foscolo danti-sta non ebbe soltanto una finalità strumentale di tiroci-nio letterario (il che in parte è vero per la Chioma di Be-renice, lungo la strada dei Sepolcri e delle Grazie), ma pure in ambito strettamente ecdotico produsse risultati da giudicare di un certo rilievo persino sul metro della raffinata tecnica moderna. Petrocchi, curatore dell’In-ferno di Foscolo per l’Edizione Nazionale, ha infatti se-gnalato la «centralità della sua posizione nella lunga sto-ria della tradizione del poema», aggiungendo che «la migliore prova dell’importanza del commento filologico del Foscolo risiede nella utilizzazione che l’editore mo-derno deve fare d’esso»;35 sicché nell’apparato dell’ an-tica vulgata sono numerose le volte in cui Petrocchi ri-manda a interventi foscoliani di filologia formale, ossia al suo lavorìo d’interpretazione minuta e di decodifica letterale del testo, di difesa o di emendazione della le-zione tràdita, anche sulla base di folgorazioni estetico-stilistiche. Non è del tutto da escludere che, ogniqual-volta l’interpretatio prevalga sulla razionalizzazione stemmatica e si affermi come fondamentale criterio del-la constitutio textus,36 edizioni a stampa come quella di Foscolo, ricche di congetture, referti di codici, giudizi su lezioni peregrine, possano assumere un valore ecdo-tico, non soltanto culturale, e pertanto si meritino un po-sto nella critica del testo, oltreché nella storia della tra-dizione.

35 EN IX, 2, xli e xliv. 36 È la proposta filologica e critica di Enrico Malato, del quale si

vedranno almeno i contributi citati in Bibliografia.

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Non interessa qui discutere la riproponibilità delle soluzioni testuali suggerite da Foscolo. La sua filologia non comporta infatti né una tecnica nuova né una nuova metodologia in campo ecdotico o linguistico: rappresen-ta piuttosto una grande lezione che restituisce all’ inda-gine testuale la sua funzione preliminare e fondante, in accordo con la tradizione umanistica. Non è un caso che, fra i tanti discorsi danteschi di tipo appunto «preli-minare» concepiti e a volte abbozzati da Foscolo (sullo «stato civile in Italia, ai tempi di Dante», sulla «lettera-tura italiana nel secolo XIII», sulle «condizioni della re-ligione»),37 l’unico ad esser stato concluso in mezzo a gravi avversità, e pubblicato vivente l’autore, sia quello dedicato al testo del poema. Foscolo avrebbe potuto fare a meno di scriverlo, visto che esso non era previsto nel piano dell’opera concordato con Pickering. Malgrado queste e altre difficoltà, non ultima la riluttanza del poe-ta, in piena libertà di pensiero ma non di vita, a presen-tarsi nelle vesti di commentatore “contavarianti”,38 il Discorso sul testo della ‘Commedia’ è stato scritto co-munque, perché, stando allo stesso Foscolo, in assenza di tale premessa filologica le chiose all’Inferno sarebbe-ro state incomprensibili.39

37 EN IX, 1, 153-54. Altri possibili argomenti sono segnalati dalle

parole A’ Lettori di EN IX, 1, 672-74; abbozzi di discorsi si leggono in EX IX, 1, 676-707.

38 Lettera a H. Gurney del 10 giugno 1827: «it was this view also which conquered my natural repugnance of offering myself to the world in the shape of a Comentator [sic]» (Foscolo, Lettres inédites 92).

39 Lettera a T. White del 10 gennaio 1826: «I took upon myself the herculean drudgery of that volume on the Text of Dante, because

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Il medesimo acquisto, in termini di consapevolezza dei problemi e di ricorso a tutte le risorse di dottrina e intuito per risolverli, si misura mettendo a confronto il primo e l’ultimo apparato critico presenti nelle ricerche dantesche di Foscolo. Nel manifesto della collana dei classici italiani per Murray, figura, quale specimen dei criteri editoriali, un apparato laconico, limitato alle le-zioni scartate di Inf. III 99-120.40 Quello per l’edizione Pickering è un apparato ancora negativo, ma risulta in-tegrato da copiose considerazioni critiche che giustifi-cano le scelte meno ovvie, anche grazie al rimando al Discorso. Il recupero del valore fondante, non ancillare, della filologia – corroborato dalle riflessioni vichiane sull’origine vocalica del linguaggio poetico – è un meri-to che negli studi danteschi condotti dai critici-poeti dell’Ottocento italiano sarebbe arduo attribuire ad altri che a Foscolo. Vincenzo Monti, mediatore neoclassico della lezione poetica dantesca, partecipa direttamente a edizioni del Convivio e della Vita nuova, non della Commedia. Leopardi e Carducci, per quanto appassio-nati cultori di Dante, concentrano la loro attenzione cri-tica e filologica su Petrarca. Dell’aspetto filologico si disinteressa, ai confini del secolo, lo stesso Giovanni Pascoli nelle sue labirintiche monografie dantesche.

Sia la perizia filologica di Foscolo, sia il suo contri-buto all’intelligenza della Commedia, risultano dalle sue esigenze di commentatore dantesco, dal suo metodo cri-

without it my illustrations would prove inintelligible [sic]» (Foscolo, OEP XII 405).

40 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXIII, cc. 219-20. Da Pozzo (EN IX, 1, 665-67) ha pubblicato sì il manifesto, ma senza lo specimen testuale.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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tico, e dal nesso fra quel metodo e la tradizione esegeti-ca ed editoriale della Commedia. Stabilire come Foscolo s’inserì in quella tradizione, non se «fu filologo, e fino a che punto, e di che tipo di filologia»,41 può forse contri-buire a spiegare le sue fatiche di editore dantesco.42

41 Fischetti, Filologia 300. 42 Dalla bibliografia di Invernizzi 192-93, risulta che l’unico fosco-

lista ad occuparsi dei commentatori danteschi è stato Giovanni Da Pozzo, prima in un articolo su Belfagor, poi nell’introduzione alla sua edizione critica (EN IX, 1, lxv-lxxxii), dove tuttavia compare un elenco inerte di editori danteschi, non senza gravi imprecisioni. Da verificare, inoltre, la completezza dell’informazione bibliografica: Da Pozzo ad esempio non segnala una ristampa del 1835 del secon-do articolo edimburghese (cfr. Foscolo, Dante).

CAPITOLO TERZO

BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA

NEGLI STUDI DANTESCHI

L’importanza del Foscolo dantista dipende non da quanto la sua opera sia in sintonia col suo tempo, ma da quanto è grande a prescindere da esso. In tal senso i commentatori danteschi sono il presupposto di qualun-que ricerca sulla Commedia: solo conoscendoli Foscolo può differenziarsi da loro. La necessità di sistematizzare le proprie conoscenze sui commentatori emerge all’inizio e alla fine della carriera del Foscolo dantista. Il primo articolo su Dante della rivista di Edimburgo è un rapido excursus sulla storia dell’esegesi della Comme-dia: difatti una traduzione parziale e rimaneggiata di quell’articolo, uscita sul Raccoglitore del 1820 ad opera del conoscente di Foscolo Davide Bertolotti, s’intitola Esame critico dei commentatori di Dante.1 Tre mesi prima di morire Foscolo rimpiangeva di non aver appro-fondito quell’analisi, cioè di non aver corredato la sua edizione dantesca di un’appendice critico-documentaria, «the most irksome part of the work», di sicuro interesse

1 Bertolotti 41-58 e 76-79.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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per gli studiosi di controversie dantesche.2 Entrambe le occasioni, ovvero l’esame critico dei commentatori e l’intenzione irrealizzata di raccoglierne in un’appendice le controversie, sono legate al nome e all’opera di Nic-colò Giosafatte Biagioli, un insegnante d’italiano spreta-to, esule a Parigi dopo un’esperienza politica nella Re-pubblica romana.3 Biagioli aveva progettato per la sua edizione dantesca un’appendice documentaria simile a quella foscoliana ma rimasta anch’essa sulla carta.4 In più l’articolo edimburghese si presenta come una recen-sione anonima dell’allora inedito commento di Biagioli, il quale, secondo Foscolo, non avrebbe in sostanza cam-biato il piano dei suoi predecessori, e quindi sarebbe condannato alla sola dimensione dell’epigonalità. I rap-porti epistolari intercorsi fra i due esuli gettano luce sul-la scelta di Foscolo di aprire il suo articolo con la recen-sione di un commento inedito.

Il 18 novembre 1816 Biagioli scrive a Foscolo ricor-dandogli di averlo conosciuto «molti anni» prima presso la libreria Fayolle, tradizionale luogo d’incontro degli Italiani in trasferta a Parigi. L’aveva frequentata pure Alessandro Manzoni, che infatti nel 1807 chiedeva a Fayolle l’indirizzo esatto di Biagioli da comunicare a Fauriel.5 Quel lontano e breve incontro con Foscolo of-fre a Biagioli il pretesto per parlargli del suo commento

2 Foscolo, Lettres inédites 91-92. 3 Un primo inquadramento offre Timo, Biagioli. 4 Biagioli, Commedia I XVIII n. 1. 5 Manzoni-Fauriel 41: «Nous avons démandé au libraire Fayolle

l’adresse de M.r Biagioli». Dell’adorazione di Biagioli per Dante, Manzoni si faceva beffe: «Biagioli me demande de vous; son travail sur Dante avance, il me dit que bientôt il se mettera à genoux pour en écrire la dedicace, à... vous devinez... à Dante» (101).

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dantesco, nel quale scrive d’aver «speso la vita» e di cui ora gli manda il manifesto. Biagioli prega Foscolo di trovargli sottoscrittori, e lo invita a collaborare all’esegesi del poema redigendo «una nota sopra una voce usata da Dante, per la quale viene da alcuni italiani criticato».6 La risposta di Foscolo non ci è giunta, ma non deve esser stata negativa, visto che Biagioli gli in-via le prime bozze del suo commento (su cui è imbastito l’articolo del 1818), con la promessa che gli «spedirà gli altri fogli tosto che il primo volume sarà stampato».7

Così recita la lettera del 26 marzo 1818, che chiari-sce l’evoluzione del rapporto tra i due esuli. Biagioli non si aspetta di collaborare con Foscolo a livello pari-tario: «le giuro che non sarà mai stato al mondo scolare

6 EN XX, 74. 7 Almeno in un caso, nel 1818, pare che fosse Cyrus Redding, a-

mico e traduttore di Foscolo, a consegnargli a Londra materiali dan-teschi ricevuti da Biagioli a Parigi. Così Redding racconta la sua a-micizia con i due esuli italiani: «it was some time in the year 1818 that I became acquainted with Ugo Foscolo. Señor Biagioli, a very agreeable and accomplished man, now no more, but then professor of Italian in the College of Louis le Grand, to whom I had become known in Paris, asked me if I should have any objection to take over to the celebrated Ugo Foscolo, then an Italian refugee in England, whither he had come in 1816, a remarkable MS. copy of Dante. I was naturally anxious to be acquainted with a man of no mean Euro-pean fame, and I willingly obliged Señor Biagioli» (Redding, Per-sonal Reminiscences 117). A parte il singolare appellativo spagnolo, una versione più sintetica della stessa vicenda fornisce lo stesso Redding, Fifty Years’ Recollections 171 e 186-87: «I had received an introduction to Ugo Foscolo, when I came from Paris two years be-fore [...]. I was introduced to him by a letter from M. Biagioli, of the College of Louis the Grand, in Paris. When I returned, after my long absence, I brought over a present to him from his friend and coun-tryman, a folio of Dante in manuscript».

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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sì docile, e sì riconoscente, come sarò io con lei, glo-riandomi d’averla non meno per amico che per mae-stro». In cambio degli insegnamenti di Foscolo, Biagioli si offre di divulgare i suoi scritti a Parigi («appena il primo tomo della sua nuova opera sarà stampato, me ne mandi due esemplari»)8 e di procurargli gli strumenti di lavoro per il suo impegno di dantista. Entro il luglio del 1818 Foscolo riceve da Biagioli due edizioni della Commedia, quelle di Zatta e di Volpi. Anche se questi specifici esemplari quasi certamente sarebbero finiti sui muriccioli a causa della successiva dispersione della bi-blioteca foscoliana,9 non v’è dubbio che quelle edizioni avrebbero continuato a essere rilevanti per Foscolo, la prima perché contiene la biografia dantesca di Pelli,10 la seconda, la già citata Cominiana, perché costituisce il testo-base della Commedia di Biagioli, e, con qualche aggiustamento, dello stesso Foscolo.

Ha avuto seguito la richiesta di note dantesche inedi-te avanzata da Biagioli a Foscolo: «in quanto alle sue note, me le mandi pure, ma senza fretta che c’è tempo, seguiterò il suo consiglio ponendole in fine del terzo

8 EN XX, 302. 9 Gabriele Rossetti entra in possesso di un’edizione Zatta postillata

da Foscolo: si veda Rossetti, Carteggi 238 e 252. 10 All’erudito fiorentino Giuseppe Pelli (EN IX, 1, 200), e pure a-

gli Accademici della Crusca (EN IX, 1, 417), Foscolo rivolge l’ accu-sa di non aver mai letto tutta la Commedia, accusa già avanzata da Biagioli (Commedia I xxxii): «Un altro difetto, che m'è parso disco-prire in quelli che m'hanno preceduto in sì gloriosa e ardua fatica, si è il non aver abbastanza studiato, letto e riletto per mille volte la Di-vina Commedia intera, prima di porsi a scrivere le loro note e chio-se».

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tomo».11 Biagioli lo conferma nella prefazione al suo commento: «debbo sin da ora far noto a’ miei lettori d’un nuovo pregio che acquisterà la presente edizione, per più note promessemi dal dottissimo sig. Ugo Fosco-lo, alle quali spero dar conveniente luogo nell’ultimo dei tre volumi».12 Il fatto è che nel terzo tomo le note foscoliane promesse non ci sono, e che nei primi due il nome di Foscolo vien fatto soltanto due volte, entrambe nelle chiose al Purgatorio. Non soltanto dunque è nau-fragato il progetto originario di collaborazione, persino nella forma di un’expertise foscoliana sul lessico dante-sco; in più sono mutati i rapporti fra i due esuli. Ora Biagioli non è più così disposto a riconoscere l’autorità di Foscolo, tanto che pensa ancora che Virgilio sia nato ad Andes, malgrado il suo autorevole corrispondente gli abbia fatto conoscere l’opinione contraria.13 Inoltre a un rapporto personale e privilegiato, che comporta l’invio (o almeno la promessa di invio) di osservazioni recipro-camente discusse e concordate, subentra quello anonimo e unilaterale di scrittore-lettore. Difatti la seconda e ul-tima citazione di Foscolo nel Purgatorio di Biagioli non

11 EN XX, 302. 12 Biagioli, Commedia I xliv n. 1. 13 Biagioli, Commedia II 296: «Ho già detto, Inf. I [68-69], che

nacque Virgilio in Andes; così dicevano gli antichi il luogo oggi chiamato Pietola. Scaltrito dal dottissimo sig. Ugo Foscolo, che il D. Visi, nella sua storia di Mantova [cfr. Visi 30-31], combatte questa comune opinione, mi fo un debito di farne parte a’ miei lettori. Non ho tempo di schiarir questo punto, ma non lascerò d’avvertire, che in quello che dice il Poeta nel primo e nel ventesimo [al v. 56] dell’Inferno, e nel presente [Purg. XVIII 82-83], parmi travedere essere intendimento suo di combattere l’opinione contraria, e sin d’allora corrente».

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è niente più che un rinvio a una chiosa dantesca conte-nuta nel commento alla Chioma di Berenice.14 In effetti il 10 dicembre 1818 Biagioli scrive a Foscolo che nella Chioma ha trovato spunti interessanti, e che continua a mandargli bozze del commento.

Dopo questa lettera il legame fra i due si allenta, pur senza interrompersi o incrinarsi, e diminuisce il ritmo dello scambio epistolare. A rifarsi vivo più di un anno dopo, consapevole di esser in fallo per il lungo silenzio, è Foscolo, in cerca di un’edizione di Tacito. Biagioli gli regala la sua, e ottiene così la possibilità di visionare il terzo canto della versione foscoliana dell’Iliade. La ri-sposta del 15 aprile 1820, con cui Biagioli comunica le sue impressioni sulla traduzione omerica, è impreziosita dall’invio del primo tomo dell’edizione dantesca. È sin-golare che soltanto ora Foscolo la riceva, visto che Monti l’aveva avuta appena uscita, prima del 2 dicem-bre 1818. Evidentemente Biagioli non cessa di esprime-re a Foscolo la sua stima, anzi la sua devozione, ma or-mai i due giocano a tavoli diversi, visto che Dante non è più la ragione determinante del loro carteggio.15

14 Biagioli, Commedia II 507: «adunque onde cavò mai il sig. Can. Dionigi quella sozza lezione che porta voce in vece di carne, e, in luogo d’alleviando, alleluiando [Purg. XXX 15], parola sconcia per sé, e per l’orribil guasto che porta nel costrutto e nel sentimento? Ha ben ragione l’egregio sig. Ugo Foscolo di fare al sig. Canonico quel-la lavata di capo, che leggesi in una delle sue eleganti ed erudite note alla Chioma di Berenice» (passo riportato infra, p. 74 n. 17).

15 Il primo giugno del 1822 Giannone scrive a Foscolo: «Biagioli però sente di lei come sent’io, e tutti gli altri che abbiano sortito dal Cielo qualche inclinazion generosa, e ciò mi fa supporlo uomo d’ingenuo costume e di rettissimo cuore» (EN XXII, 64-65). Foscolo figura tra i sottoscrittori di due opere curate da Biagioli per l’editore parigino Dondey-Dupré, le Rime di Michelangelo Buonarroti (1821:

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Tutto lascia credere che il contributo di Foscolo all’esegesi dantesca di Biagioli sia stato, se non irrile-vante, certo trascurabile, comunque non tale da mutare le linee portanti del commento dell’esule parigino. Lo suggerisce la missiva del 16 marzo 1827, l’ultima invia-ta da Foscolo a Biagioli, insieme a una copia del Di-scorso:

Nel Discorso [...] ella vedrà qua e là ch’io parlo di lei; né di certo io la rimerito delle lodi di che a lei piacque d’essermi liberale. Ma dacché non ho fatto mai traffico di lodi letterarie con uomo veruno, ella ascriva quanto scrissi e scriverò intorno alle opinioni del suo Com-mento non a voglia di gara – gara? e a che pro? – bensì a lungo costume fatto sistema, e a natura inflessibile in me, ogni qualvolta, illudendomi o no, a me paja di ri-vendicare ciò che io credo negletto e manifestamente vero. E però in questo primo volume e negli altri che le arriveranno, io professo di sgombrare, per quanto le mie forze il consentano, i molti antichissimi errori, che vanno e andranno tuttavia raddensandosi a rannuvolare il poema e le intenzioni di Dante. Il Commento pubbli-cato da lei mi dolse tanto più, quanto che non essendo accomodato al secolo nostro, riesce macchiato qua e là di motti aspri e fors’anche illiberali e insieme impoten-ti, ma indegni più che altro sì di lei che li ha scritti, e sì del padre Lombardi ch’ella assale a ogni poco, e che fu benemerito più ch’altri mai del Poema [...]. Mi dolse anche, e mi duole, ch’ella siasi avventato contro al Ginguené, che senz’altro è caduto in falli parecchi; ma non era egli uno di que’ forestieri generosissimi, che si studiarono, e venne lor fatto, di ridurre la Letteratura

vi si dà notizia degli Essays on Petrarch), e il Tesoretto della lingua toscana (18222).

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italiana in Letteratura europea? (Foscolo, OEP VIII 259-60) Il giorno prima di scrivere queste righe, Foscolo a-

veva consegnato a Pickering i materiali manoscritti che, in base all’accordo faticosamente raggiunto, gli erano dovuti per completare con altri quattro volumi l’edizione dantesca avviata l’anno prima col Discorso. L’occasione era dunque propizia per un bilancio provvi-sorio, perché, se la collaborazione con Pickering si era conclusa, proseguiva invece lo studio di Dante.

Più volte Foscolo ripete ciò che scrive a Biagioli in questa lettera, ossia che il Discorso mira a liberare l’interpretazione della Commedia dagli errori e dai pre-giudizi che si sono accumulati nel corso di cinque seco-li.16 A tal fine il Discorso tende ad affastellare numeri, date, personaggi, di cui viene di volta in volta messa in dubbio la pertinenza e ricontrollata la veridicità. Soltan-to l’epistemologia novecentesca comprenderà in tutte le sue implicazioni la portata del metodo per errorem ad veritatem, per cui il processo del sapere non è meccani-co o cumulativo, ma si basa sulla ricerca e sulla elimi-

16 Cfr. ad es. EN IX, 1, 186-87: «mi proverò ad ogni modo di dira-dare le opinioni che per cinquecento anni si sono confuse a quel tan-to di vero, che dall’esame del secolo e della vita e della mente del poeta può emergere per emendare ed intendere con norme critiche il testo». Si veda Rossetti, Commedia II ii: «giudico esser mio assunto il mettere in veduta le verità espresse dall’autore, e non gli errori ne’ quali caddero i suoi interpreti». A me pare probabile che una frase di tal fatta presupponga la conoscenza del Discorso. Dal canto suo Rossetti ammise una parziale convergenza d’idee col Foscolo danti-sta, ma dichiarò nel contempo la priorità cronologica del suo Comen-to rispetto al Discorso: su ciò è esauriente l’Introduzione di Tobia R. Toscano a Rossetti, Carteggi xii-xvi.

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nazione di errori.17 Attenersi impersonalmente ai fatti è il metodo della ricerca erudita settecentesca, sperimen-tato dalla filologia maurino-bollandiana e applicato alla storiografia letteraria da vari studiosi, tra cui Muratori e Tiraboschi.18 Il loro ritratto tracciato nel saggio fosco-liano Antiquarj e Critici del 1826 – «hanno la pazienza di cercare i fatti dove sono dispersi; hanno il coraggio di accumularne un numero immenso, e la perseveranza di verificarli fra la moltitudine degli errori popolari»19 – si pone evidentemente in stretta continuità col programma del Discorso. La differenza fondamentale è che racco-gliere i fatti non basta: occorre nel contempo organiz-zarli secondo un «occhio filosofico» guidato da superio-ri categorie interpretative.20 «Se la storia senza filosofia non è che serie cronologica d’avvenimenti», osserva Fo-scolo in difesa della sua orazione inaugurale, «le disqui-sizioni critiche senza avvenimenti non sono mai sto-ria».21

Dei rischi legati a una storia senza filosofia, a uno svolgimento analitico privo di categorie sintetiche, è consapevole lo stesso Tiraboschi. Il quale tuttavia, nella premessa alla seconda edizione della sua Storia della letteratura italiana, rivendica la necessità di accertare «la verità e le circostanze de’ fatti», i dati concreti che

17 Popper 80: «l’eliminazione dell’errore [...] conduce all’accre-scimento oggettivo della nostra conoscenza, della conoscenza intesa in senso oggettivo. Essa conduce all’accrescimento della verisimili-tudine oggettiva, rende possibile l’approssimazione alla verità (asso-luta)».

18 Mari 33 e 64. 19 Foscolo, Antiquarj 4. 20 Quondam, L’occhio filosofico. 21 EN VII, 49.

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possono sfuggire a chi realizza quadri filosofici.22 Così facendo Tiraboschi rimane un archivista che fornisce materiali, non un uno storico che li organizza. Foscolo persegue piuttosto l’ideale di una storia filosofica, prova cioè a realizzare quella sintesi tra Muratori e Vico au-spicata da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti del-la storia longobardica in Italia: una sintesi tra la molti-tudine di notizie particolari verificate e raccolte dal pri-mo (in genere dalla grande tradizione erudita e antiqua-ria), e i generalissimi princìpi regolatori ispirati dal se-condo (la storicità della Commedia, l’innesto della storia sulla filologia).23

È quanto Foscolo stesso lascia intendere nell’ abboz-zo del primo e poi abortito discorso preliminare, intito-lato Intento e metodo delle illustrazioni storiche e poeti-che: «a ben illustrare il poema di Dante Alighieri biso-gna un unico atto a guardare con perspicacia minuta d’analisi, e contemplare con vastità ed altezza di mente le teorie generali».24 Foscolo descrive come un’unica folgorazione, un unico atto di pensiero, in apparenza ir-riflesso, quello che in termini moderni si potrebbe defi-nire un circolo ermeneutico, che avanza dalle minute analisi di stampo muratoriano alle teorie generali di tipo

22 Tiraboschi v-vi. Di Tiraboschi e Foscolo parla Borsa, Introdu-

zione. Sulla storia della critica ottocentesca come «affrancamento dal modello tiraboschiano» si conclude il profilo di Mari.

23 Il passo manzoniano di sintesi tra Muratori e Vico si legge in Manzoni, Discorso 76-77. La trascrizione foscoliana di quel passo, oggi conservata alla Labronica, fu scambiata per un inedito e pubbli-cata in Foscolo, OEP XI 394-98. Sulla questione ragguagliano Tre-ves 243, e Borsa, Introduzione CL n. 157.

24 EN IX, 1, 677.

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vichiano, e viceversa, in una continua fusione di oriz-zonti.25

Inoltre la missiva del 16 marzo 1827 ammonisce

Biagioli di non aspettarsi un trattamento di favore da parte di Foscolo, il quale anzi, in virtù di un «lungo co-stume fatto sistema», esercita nei suoi confronti la stessa inflessibile indipendenza di giudizio rivendicata da Dan-te medesimo nelle sue opere.26 Agli occhi di Foscolo, Biagioli ha commesso il peccato capitale di barattare la propria indipendenza etica con il riconoscimento pub-blico. Il tradimento dei chierici è uno degli errori da cui Foscolo vuol liberare l’interpretazione della Commedia:

Dante fu talor esaltato e talor calunniato in grazia degli altrui mecenati. Anzi è tale che andò magnificando tut-to il poema con improperj contra chiunque non trova sovrumana ogni sillaba, e con ejaculazioni d’ ammira-zione perpetua fin anche ove le imperfezioni palesano che la è pure opera d’uomo; e nondimeno non sì tosto certi antenati de’ padroni del critico sono biasimati da Dante, l’estatico ammiratore diviene in un subito ese-cratore fanatico e accusa il poeta di trascuraggine rea e di accanita malignità. (EN IX, 1, 191) È risaputo che Dante fa dire a Ugo Capeto di essere

«figliuol [...] d’un beccaio di Parigi» (Purg. XX 52), un’origine attribuita dalla tradizione al padre di lui, Ugo il Grande. Di fronte a questo verso Biagioli si inalbera, e

25 Sulla compresenza nella storiografia di Foscolo di due momenti,

la ricerca erudita muratoriana e la sintesi filosofica vichiana, inter-viene Getto 152.

26 Par. XVII 118-20; Conv. IV.viii.13; Mon. III.i.3; Epist. XI.11.

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taccia Dante sia appunto di «malignità», il termine usato da Foscolo, sia di incompetenza in campo storico. Con una reazione così veemente l’esule parigino mirava a difendere gli avi del suo protettore, re Luigi XVIII, pri-mo sottoscrittore dell’edizione, nonché munifico elargi-tore di una gratifica a Biagioli di ben seimila franchi.27 Viceversa, sin dal primitivo e poi disatteso accordo col Pickering per l’edizione dei classici italiani, Foscolo a-veva garantito di non lasciarsi condizionare «by the fear of giving offence [...] to reigning families, whether old or recent».28

Gli «improperj» e l’«ammirazione perpetua», ovvero la mancanza di misura nella lode e nel biasimo, sono un tratto peculiare del commento di Biagioli. Dei suoi ec-cessi verbali è vittima in primis un dantista «benemeri-to» che già abbiamo citato e che più volte dovremo cita-re, il francescano Baldassarre Lombardi. Verrebbe da pensare – ma con molta cautela – che le strade dei due si siano incrociate a Roma, dove Lombardi risiedeva da

27 D’accordo con Foscolo, ma più esplicito nel censurare la doppia

morale di Biagioli, è Vincenzo Monti, postillatore dei commenti di Lombardi e Biagioli: «Per trovare una qualche scusa alla viltà del comento a tutta la parlata di Ugo Ciapetta ricordiamoci che il Bia-gioli scriveva in Parigi; che i discendenti di Ugo onorano dell'augu-sto loro nome il catalogo de’ suoi associati; che le adulazioni gli so-no state pagate seimila franchi [...]; che finalmente nel duro passo a cui s'è trovato gli era impossibile di salvare, come dice il proverbio, la capra e i cavoli. Se poi posto nella dura necessità di contraddire al poeta, egli abbia fatto bene a precipitarlo dal cielo, a cui finora con tanti incensi l'assunse, e a gittarlo adesso nel fango pubblicandolo ignorante de’ fatti, maligno, bugiardo, mentitore, calunniatore, e po-co meno che un pazzo briccone, ciò rimane all'incorrotto giudizio de’ savi che leggeranno» (Monti, Postille 285-86).

28 EN IX, 1, 669.

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anni e dove Biagioli s’era recato a fine Settecento, giun-gendo a ricoprire un incarico nella Repubblica romana. Stando così le cose, il tramite fra Biagioli e Lombardi potrebbe essere Liborio Angelucci, console della Re-pubblica romana e finanziatore dell’edizione lombardi-na della Commedia. La conoscenza personale, tutta da verificare, non giustifica la virulenza con cui Biagioli nel suo commento attacca Lombardi, una virulenza tan-to meno ammissibile quanto più compiaciuta ora di ec-cessi di furore («mozzami l’orecchio, se [Lombardi] di-ce vero»), ora di cadute nel disfemismo («ne dice una sì grossa che, se non s’apre lo scaricatojo, non so donde farla passare»).29

Sebbene l’imbarazzante brutalità di certe offese – ad esempio «sozzo can vituperato» – sia attenuata dalla lo-ro matrice letteraria,30 resta il fatto che la frequenza, l’asprezza e lo squilibrio di queste sfuriate inducono Fo-scolo a sospettare che le «ragioni [di Biagioli] si ristrin-gono spesso a questa unica, di cavillare a ogni modo addosso al suo benemerito [lo stesso attributo della let-tera] predecessore».31 Allo stesso modo Monti aveva ammonito Biagioli dopo aver ricevuto da lui il primo volume dell’edizione dantesca, il 2 dicembre 1818: «voi, mio caro, mi carminate troppo spietatamente quel povero frate Lombardi. Abbiatene un poco di compas-sione, e ne sarete, credetelo, più lodato e stimato».32 Il consiglio di Monti è indirettamente riferito da Biagioli

29 Biagioli, Commedia II 384 e 355. 30 L’insulto rivolto a Venturi da Biagioli, Commedia II 449, stig-

matizzato da una postilla a EN IX, 1, 254, rimanda a Dec. III 6. 31 EN IX, 2, 77. 32 Monti, Epistolario 137.

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nella premessa al secondo volume della sua edizione, dove egli s’impegna con tono mellifluo a «temperare il giusto suo sdegno» verso Lombardi, e si appella, come già aveva fatto alla fine della prefazione, al giudizio del-la comunità dei dantisti.33 Queste promesse non sono mantenute: Biagioli non soltanto continua a «carmina-re» rudemente Lombardi, ma in più rifiuta o ignora i suggerimenti dei colleghi dantisti, che pure aveva solle-citato.34

Lo spazio fra testo e lettore è invaso dalla personalità del critico, dalla flagrante soggettività dei suoi giudizi. Biagioli infatti è intemperante non soltanto nel biasimo ai commentatori danteschi, ma pure nelle lodi a Dante.35

33 Biagioli, Commedia II iii-iv. 34 Lorenzo Da Ponte ricorda di aver inviato alcune chiose dante-

sche a Biagioli senza ricevere risposta. Queste sono le sue parole: «confesserò tuttavia essermi passato qualche volta pel capo il sospet-to d’aver altamente offeso quel sommo critico, che il più dolce di core non credon esser quelli che sentono col Lombardi, sebben “do-cilissimo”, si protesti, “e pronto a ravvedersi, e disdirsi, e a confessar il suo inganno ad ogni cenno che fatto gli venga”» (Da Ponte, Me-morie III 1 69). Giuseppe Campi riferisce di aver saputo «in Parigi da parecchi suoi [di Biagioli] famigliari che il Biagioli morì pentito d’avere bistrattato il Lombardi» (Commedia xxv).

35 Dello stile espositivo di Biagioli, troppo elogiativo verso Dante, troppo critico verso i dantisti, in particolare verso Lombardi, discorre nel 1824 Witte, Ueber das Missverständniss. Foscolo ignorava il tedesco («io di tedesco ne so quanto monsignore B... sa di greco»: EN XVI, 169), quindi non poté conoscere l’articolo, nato come una recensione a Biagioli. Eppure sono evidenti certe concordanze, sia nella concezione generale (l’asserita necessità di una comprensione storica della Commedia, sulla base di una conoscenza di prima mano della biografia dantesca e degli antichi commenti), sia in alcuni pas-saggi particolari (per Witte «Lombardi hat den Vorzug grosser Liebe

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In effetti molte sue chiose includono, come dice Fosco-lo, «ejaculazioni d’ammirazione perpetua». Ad esempio Biagioli rifiuta il parere di Pierre-Louis Ginguené, lo storico francese della letteratura italiana che aveva af-fermato l’eccellenza dell’episodio di Paolo e Francesca: «infatti come può dirsi un ente di perfetta natura supe-riore ad altri pur di perfetta, ma diversa natura?».36 I passi danteschi di cui Biagioli esalta la perfezione asso-luta sono gli stessi evidenziati da Vittorio Alfieri in un autografo inedito, oggi conservato alla biblioteca dell’Institut de France di Parigi, di cui s’era servito lo stesso Ginguené.37 Il rimando alle «bellezze» della Commedia notate da Alfieri comporta da un lato un ap-prezzamento più che altro estetico del poema, senza ef-fettive ricadute esegetiche, dall’altro lato una divinizza-zione acritica di Dante: mentre Alfieri scrive che, se ri-facesse il suo estratto, ricopierebbe tutta la Commedia, perché si impara persino dagli errori di Dante, Biagioli arriva a sostenere che i presunti difetti di Dante sono a ben vedere pregi.38

Questo fanatismo è una reazione alle riserve sette-centesche sul genio poetico dantesco insinuate nella cul-tura francese da alcuni interpreti italiani: è noto che Voltaire comunica per lettera tutta la sua stima a Save-rio Bettinelli deprecatore della mostruosità della Com-media. «Se lo strinse necessità a parlar di Dante», com-menta allora Biagioli, Voltaire «doveva attenersi al giu-

für den Dichter»: 37; per Foscolo agisce «per amore del poeta»: EN IX, 2, 361).

36 Biagioli, Commedia I 101. 37 Timo, Itinerari. 38 Biagioli, Commedia I xiii, n. 1.

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dicio dei sapienti d’Italia, e non a quello di Bettinelli e suoi pari».39 Il divario fra la “dantomania” italiana e le cautele francesi era ormai proverbiale, tanto che Leo-pardi poteva assumerlo a modello della convenzionalità del gusto: «Dante non è egli un mostro per li francesi nelle sue più belle parti; un Dio per noi?».40 Il giudizio più equilibrato cui aspira Foscolo («io nell’uomo non guardo il Dio»)41 è alieno da qualunque sciovinismo let-terario: «chi, ad ogni fallo in che i forestieri [...] trascor-rono, insulta a’ Principi della letteratura Europea [...], non recita egli le parti di bestia spregevole più della scimia?».42 Se un giudizio regolato non esclude il ricor-so a interpreti non italiani, capaci, come Ginguené, di inserire la nostra letteratura in una prospettiva europea, allora è chiaro perché Foscolo contesti a Biagioli le ri-petute citazioni di Alfieri nelle vesti di smodato celebra-tore italiano delle bellezze della Commedia.

Vanno intese in tal senso le singolari riserve del commento foscoliano sul linguaggio poetico di Alfieri. Il verbo saria, prima persona singolare del condizionale presente, è una variante scartata da Foscolo per Inf. XVI 47, in quanto solecismo che può esser confuso con la terza persona. Nella chiosa Foscolo non s’accontenta di sanare la presunta corruttela, ma aggiunge che Alfieri ha sbagliato a impiegare (tre volte) saria nell’Antigone. Vi-sto che lo stesso condizionale occorre più volte nel les-

39 Biagioli, Commedia I vii, n. 1. 40 Leopardi 1176. 41 EN IX, 1, 370; cfr. anche EN IX, 1, 352. 42 EN IX, 1, 484-85. Era stato Biagioli (Commedia I 411), a evoca-

re indirettamente la scimmia, dicendo, a proposito dei seguaci di Voltaire, che «ciò che fa la prima l’altre fanno».

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sico poetico foscoliano, persino nell’Ajace e nel Tieste, la chiosa sarà diretta non ad Alfieri, ma a Biagioli che lo eleva a maestro infallibile di gusto poetico.43

L’episodio di Paolo e Francesca dimostra che Alfieri

ha lasciato un segno indiretto ma non superficiale sulla critica dantesca di Foscolo, che proprio per questo è po-co disposto a tollerare l’abuso di quell’autorità da parte di Biagioli. Foscolo parla dei due cognati sia negli arti-coli per la Edinburgh Review, sia nel Discorso. L’ impo-stazione degli articoli è per certi versi ancora settecente-sca. In primo luogo Foscolo vi sostiene che quell’ episo-dio sa raggiungere vette di poesia in pochi versi, contro l’opinione di chi, come Voltaire o Bettinelli appunto, accusava la Commedia di eccessiva lunghezza.44 In se-condo luogo non viene del tutto respinta una chiosa di Lombardi, secondo cui Dante, a sua volta peccator car-nale, rivede se stesso in Francesca, cosicché mescola al-la compassione nei suoi confronti il timore della propria dannazione. Di simili cascami settecenteschi Foscolo si sbarazza nel Discorso, mentre continua a considerare centrale il problema della pietà / compassione, definita nell’Ortis la sola virtù utile agli uomini.

43 Anche a proposito della «grazia idiomatica» e della «energia di

pur», nella nota a Che pur guate, Inf. XXIX 4, Foscolo rileva che «Alfieri per giovarsene assai troppo le tolse vigore».

44 Secondo Voltaire ciò che nell’Eneide è rappresentato da due ter-zi del sesto canto, nella Commedia ne occupa ben ottantatre. Già nel primo articolo edimburghese Foscolo aveva indirettamente risposto: «Virgil has related the story of Eurydice in two hundred verses; Dan-te, in sixty verses, has finished his masterpiece – the Tale of France-sca da Rimini» (EN IX, 1, 16).

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Ancor oggi i lettori del quinto canto dell’Inferno si domandano per quale motivo, all’inizio («pietà mi giun-se, e fui quasi smarrito»)45 e alla fine («di pietade / Io venni men») dell’episodio di Paolo e Francesca, Dante sia sopraffatto dalla pietà. Troppo generica doveva pare-re a Foscolo la risposta di Vico, non riferita al passo di Inf. V e ancora giocata sul parallelismo fra Dante e O-mero: «entrambi di tanta atrocità risparsero le loro favo-le, che in questa nostra umanità fanno compassione».46 L’esegesi del Discorso corre invece sul crinale fra storia e psicologia. Dal padre di Francesca, Guido da Polenta, e dai fratelli di lei, Dante ottenne asilo a Ravenna. Per-ciò, in segno di gratitudine, immortalò la tragica storia di Francesca in modo tale che il nome della protagonista non fosse né dimenticato, né pronunciato senza pietà. Lo stesso assassinio degli amanti andava riportato al so-lo fine di imputarlo a Gianciotto, atteso per questo dalla

45 Stando a Foscolo è inadeguata per questo verso la spiegazione di

Biagioli: promette costui di «stare alla lettera» (e in effetti il suo commento è ottimo sotto l’aspetto linguistico), ma poi cede alla mo-da di ripercorrere l’infinita trafila dei significati accessori delle paro-le (EN IX, 1, 445). Invece per Foscolo il primo passo dell’esegesi della Commedia è l’explanatio verborum, la spiegazione dei signifi-cati originari nascosti sotto le incrostazioni dei secoli. In tal senso chi commenta Dante dovrebbe riuscire a trasporre nella critica quel che Alfieri ha fatto in poesia. Nel commiato alla Chioma di Berenice Foscolo scrive che Alfieri «restituì il nerbo alla nostra lingua appli-cando sovente alle parole più comuni le antiche ed originarie signifi-cazioni onde riescono nuove ed efficaci» (EN VI, 353-54).

46 Vico, Opuscoli 232. Osserva Andrea Battistini: «il sentimento che dal bestione fa nascere l’uomo è la pietà, continuamente richia-mata nel carme [i Sepolcri], e innalzata da Vico a epifonema dell’intera Scienza nuova, che si chiude con la massima [...] “se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”» (Temi 38).

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Caina. Tanta reticenza, insolita in Dante, riguardo a par-ticolari che avrebbero infamato Francesca e riaperto la ferita nel cuore dei suoi familiari, induce Foscolo a ipo-tizzare che l’episodio fu o composto o almeno ritoccato mentre il poeta era ospite riverito del padre di lei, il suo amico Guido.

Le premesse di questo ragionamento, in particolare della conclusione, sono alfieriane. Intanto Dante non è un cortigiano di Guido da Polenta, e quindi i rapporti fra i due non sono esenti da una sorta di complicità, se non di reciproca stima. Non essendo mai sceso a patti col potere, a differenza di Petrarca,47 l’autore della Comme-dia dimostra la superiorità degli ingegni «sprotetti» di cui scrive Alfieri. Inoltre Dante ha scelto la via dolorosa dell’esilio, la medesima frattura decisiva delle biografie dei suoi ammiratori Alfieri e Foscolo. Sventura e oppor-tunità, l’esilio significa questo: come Alfieri sceglie di “spiemontizzarsi” per poter fare liberamente lo scrittore, così Foscolo più volte ricorda che Dante non avrebbe scritto la Commedia se non fosse andato in esilio.48 Le Muse sono amiche degli esuli, e in quanto esule Dante ha improntato a viva compassione le terzine di Paolo e Francesca.

47 EN IX, 1, 226. 48 Cfr. ad esempio EN IX, 1, 210, 436, 458. È un topos del danti-

smo coevo, ricondotto da Bayle 374 a un passo degli Elogi di Paolo Giovio: «sed exilium vel toto Etruriae principatu ei majus et glorio-sius fuit, quum illam sub amara cogitatione excitatam, occulti, divi-nique ingenii vim exacuerit, et inflammarit». Cfr. anche Parini 208: «il bando, che il Poeta ebbe dalla sua patria per ragioni di stato [...] contribuì alla invenzione del Poema»; e Lomonaco 139: «all’esilio di Dante siamo debitori di quel poema».

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In altri termini la compassione del lettore e di Dante personaggio è indistinguibile dalla compassione di Dan-te poeta, ospite del padre di Francesca e quindi informa-to della tragica fine della giovane. Foscolo applica a Dante l’idea alfieriana per cui lo scrittore dovrebbe «sentire» dentro di sé le passioni che rappresenta. Si legge nel Discorso che «alle varie passioni che lo spet-tacolo d’ogni oggetto eccita in lui [Dante], rispondono spontanee le nostre, perché non che fingerle ei spesso le aveva osservate in altri, e sentite».49 Già Alfieri, nel trat-tato Del principe e delle lettere, aveva osservato che «a voler fare vivamente sentire altrui, bisogna che vivissi-mamente senta lo scrittore egli primo».50 Per capire uno scrittore, specialmente Dante, che nelle sue opere non fa che parlare di sé, occorre allora non leggere i suoi inter-preti, bensì entrare in sintonia con lui e con la sua enci-clopedia mentale, conoscerne la biografia, le antipatie, le aspirazioni che lo rendono unico: in sostanza spiegare Dante al di là dei codici retorici o delle partizioni di ge-nere, quasi fosse un poeta moderno, non medioevale. A tal proposito Foscolo era già stato chiaro: «a molti letto-ri, ed io mi son uno, pare che a volere accertarsi degli intendimenti delle parole, mille commentatori non gio-vino quanto l’impratichirsi delle passioni e de’ caratteri degli scrittori che nel loro stile trasfondono tutto quello che sentono».51

Nel momento stesso in cui ambisce a restituire e in-terpretare il testo del poema, Foscolo afferma la priorità dell’autore rispetto al testo e ai suoi commenti: «esposi-

49 EN IX, 1, 455. 50 Alfieri, Del principe 954. 51 EN IX, 1, 294.

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zione veruna non era mio intendimento di aggiungere al testo»,52 si legge nella premessa Al lettore, in accordo con la “linea italiana” individuata da Bloom nella tradi-zione degli studi danteschi. Come Vico giunge a «legge-re gli autori latini schietti di note, con una critica filoso-fica entrando nel di loro spirito», giacché «lessici» e «commenti» hanno contribuito alla «decadenza» della lingua latina, così De Sanctis e Croce invitano il lettore a gettar via i commenti e a incontrare senza mediazioni la personalità degli scrittori.53 Alfieri stesso leggeva Dante sine notis, ma, a differenza di Foscolo, era indif-ferente ai problemi storici: «le difficoltà di Dante, se e-rano istoriche, poco si curava di intenderle».54 Per Fo-scolo l’altro limite dei commentatori danteschi è appun-to questo, che essi non orientano la loro esegesi secondo l’identità vichiana fra storia e poesia. La primissima versione delle pagine critiche sull’episodio di Paolo e Francesca denuncia che i commentatori, ignari della na-tura essenzialmente storica della Commedia, «ne s’ oc-cupoient pas de la partie poetique; cependant ce n’est que par ces faits que l’on peut connoitre le génie de ce poete».55

52 EN IX, 1, 703. 53 Foscolo poteva leggere la frase di Vico nell’autobiografia pre-

messa alla Scienza nuova (I xxx). L’invito desanctisiano a «gettar via i commenti», rilanciato da Croce (Tissoni 9-10 n. 16), si trova nel saggio su Francesca da Rimini (De Sanctis 3). Di Mazzini e del rigetto dei commentatori danteschi discorre Russo 209-10. Sull’ im-possibilità di leggere la letteratura senza mediazione critica, ha scrit-to pagine notevoli Lavagetto 79-87.

54 Alfieri, Vita 176. 55 EN IX, 1, 631. Il primo frammento della “Francesca” foscolia-

na è pubblicato con questo titolo anche da Chiavacci Leonardi 163.

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Sono sempre più evidenti i motivi per cui Foscolo si è allontanato da Biagioli dopo aver assistito alle fasi terminali della gestazione del suo commento. L’esule parigino non ha ricevuto in sorte un’anima dantesca, pertanto non si applica a indagare né l’indole di Dante, né i tempi in cui è vissuto: preferisce un approccio este-tico inconcludente (a nulla serve tessere panegirici della Commedia), anzi provinciale, poiché chiude la porta in faccia alle grandi personalità della cultura europea, dalle quali Foscolo trae una lezione di metodo. Carlo Dioni-sotti ha scritto che il dantismo foscoliano in tanto ambi-sce a una dimensione appunto europea, in quanto mira a «riformare il culto nazionale di Dante nei termini propri del culto che gli veniva tributato in Europa».56 Tale ri-forma prevede prima una riflessione sulla prassi dei grandi storici europei, poi la traduzione in atto di quella riflessione. Mentre i commentatori danteschi paiono tal-volta aspirare al merito di raccogliere notizie più che di giovarsene, gli storici europei onorati all’inizio del sag-gio Antiquarj e Critici, Gibbon, Roscoe e Sismondi, a detta di Foscolo sanno selezionare i fatti e organizzarli in un sistema superiore, in accordo alla summentovata sintesi tra Muratori e Vico auspicata da Manzoni.57

56 Dionisotti, Varia fortuna 223. 57 Il passo di Antiquarj e Critici merita di esser ripercorso nella sua

compiutezza, quale documento basilare del dantismo foscoliano: «the deservedly popular histories of the Decline and Fall of the Ro-man Empire, of the Age of Lorenzo de’ Medici, and of the Republics of the Middle Ages (we mention these as specimens of the works of the same class which have appeared during the last half-century) are extremely dissimilar in some respects, but possess three characteris-tics in common – genius for historical composition, more or less conspicuous in each, but innate in all – philosophical observation

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Foscolo è in rapporti di studio e di cordiale dimesti-chezza sia con Roscoe sia con Sismondi. Dal primo, grazie a Panizzi, ha ricevuto nel 1826 un manoscritto dantesco (l’attuale Egerton 2567 della British Library), più e più volte collazionato per il suo commento. L’amicizia col secondo è più antica, risale al periodo fra il 1803 e il 1804, qualche anno prima che Foscolo venga a conoscenza dell’opus magnum dell’intellettuale gine-vrino, la Histoire des républiques italiennes du Moyen Âge, opera edita tra il 1807 e il 1818, prima a Zurigo, poi a Parigi.58 Un bifolio delle carte labroniche riporta un lungo brano apografo, non ignoto agli studiosi ma inedito quanto a trascrizione, tratto dalla seconda edi-zione della Histoire del 1826:

Deux écrivains qui sont nés avant la mort du Dante, qui tous deux l’ont enrichi de commentaires, et qui étoient mieux à portée que personne de connoître son histoire, s’accordent à dire que Dante avoit composé les sept premiers chants de son poëme avant son exil (i) [c’è un rimando a una nota a pié di pagina che però non è trascritta]. Il me semble qu’il seroit diffi-cile de produire une autorité assez forte pour réfuter la leur. Les preuves internes que Maffei, Flaminio del Borgo, et quelques autres ont fait valoir contre ce récit, ne sauroient être admises; car il n’est pas douteux que

and reflection – and variety and abundance of facts. For their genius, they were indebted to nature; for their philosophical spirit, to the age in which they lived (of which we shall say more hereafter); but for their facts, almost exclusively to the authors of those ponderous vol-umes, some of which will form the subject of the present article, es-pecially those which have furnished the most ample materials for the genius of Gibbon, Roscoe, and Sismondi to work upon» (3).

58 Su Foscolo e Sismondi si veda Supino.

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le Dante n’ait retouché tout son ouvrage a plusieurs reprises, et n’y ait ajouté, en divers endroits, des vers analogues à l’epoque où il y mettoit la dernière main. La touchante épisode de Francesca de Rimini, le mor-ceau de tout le poëme où il y a le plus de delicatesse et de sensibilité, porte l’empreinte des ménagemens que le Dante croyoit devoir à Guido de Pollenta, père de Francesca, son protecteur et son hôte à la fin de ses jours [in nota: Inf. V 73 et suiv.]. Dans le premier chant, du vers 101 a 111, on trouve une prediction re-lative à Cane della Scala, où sa grandeur future est an-noncée; prédiction qui n’a guère pu être écrite avant l’année 1318, lorsque Cane fut élu chef de la ligue gi-beline. Tous les commentateurs, sans exception, se sont obstinés à supposer que l’on commençoit à écrire un poëme par le premier vers, et que l’on suivoit jus-qu’au dernier, sans jamais retourner en arrière; ce qui, d’après le passage sur Can Grande, devait les porter à conclure que Dante n’avoit commencé son immortel ouvrage que trois années avant sa mort; tandis qu’il n’avoit pas trop de toute la vigueur de la jeunesse pour en concevoir le plan, et qu’il a dû le commencer pen-dant qu’il étoit encore échauffé par les leçons de son maître Brunetto Latini, mort en 1294, et par les encou-ragemens de son ami Guido Cavalcanti, mort avant l’exil du Dante, en 1302 [a pié di pagina: vol. IV pag. 187].59

59 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol.

XXIII, cc. 192r-193r. L’incipit del brano – di cui qui si offre per la prima volta la trascrizione integrale – è riportato da Da Pozzo (EN IX, 1, 746), il quale però non ha saputo individuarne la fonte, sugge-rita dalla nota conclusiva. Si tratta appunto di Sismondi, Histoire 187-89. Non si può non consentire con Amedeo Quondam, secondo cui non è stato ancora chiarito in tutte le sue implicazioni il ruolo

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Foscolo ha fatto trascrivere e ha conservato questo

brano, un intero paragrafo del capitolo XXV della Hi-stoire, perché esso risponde al circolo ermeneutico ri-chiamato all’inizio di Antiquarj e Critici: alcuni «fatti» attentamente selezionati acquistano significato alla luce di una tesi superiore, ossia che Dante avrebbe ritoccato più volte la Commedia, intervenendo a distanza di anni su brani già composti. Questa tesi percorre tutto il Di-scorso, ma in una delle prime sezioni viene attribuita a Boccaccio e a Sismondi appunto sulla base del brano appena citato.60 A ben vedere Sismondi accoglie i tempi di composizione della Commedia fissati da Boccaccio, dalla genesi fiorentina («Dante avoit composé les sept premiers chants de son poëme avant son exil») sino ai ritocchi che Dante avrebbe apportato all’opera «ju-squ’au moment de sa mort».61 È un dettaglio decisivo, che permette a Foscolo di sostenere che appunto al mo-mento della morte di Dante la Commedia non era con-clusa, anzi neppure del tutto divulgata.

Il quadro d’insieme delle attuali conoscenze sulla prima divulgazione della Commedia è ovviamente mu-tato rispetto ai tempi di Foscolo. Al massimo oggi si può ammettere che la morte improvvisa abbia impedito a Dante di licenziare in prima persona il Paradiso, per- storiografico di Sismondi per la critica e la letteratura italiane (Tre inglesi 217 n. 3).

60 EN IX, 1, 198-99. 61 Sismondi, Histoire 192. Anni dopo lo stesso Sismondi (De la lit-

térature I 246 n. 1) avrebbe rigettato la tesi foscoliana dell’incom-piutezza e mancata divulgazione del poema, poiché a suo dire le ope-re dei grandi uomini sono note al pubblico già prima che essi deci-dano di licenziarle.

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ciò diffuso al di fuori della cerchia ravennate senza l’ultima revisione autoriale. Dunque la teoria dell’in-compiutezza e della mancata divulgazione della Com-media è inammissibile nei termini in cui la formula il Discorso. Ciò non toglie che quella teoria vada valutata e giustificata nel quadro del sistema foscoliano. I fosco-listi invece o la ignorano, o la riconducono al transfert esistenziale, ideologico e politico, compiuto da Foscolo nei confronti di Dante. È indubitabile che quando parla di Dante esule, campione di libertà, fustigatore degli Ita-liani, Foscolo sembra parlare di sé: la Commedia è la misura di ogni sua aspirazione e ideale di vita. Parrebbe allora altrettanto indubitabile che l’autore delle Grazie e il traduttore dell’Iliade, opere non finite, pensi che pure la Commedia sia incompiuta e che il suo autografo sia ricchissimo di varianti d’autore.62

Almeno in questo caso l’identificazione biografica non convince appieno, perché sembra ridurre l’analisi letteraria da fine a mezzo, da proposito di compiuta illu-strazione critica a pretesto di un discorso intimo e per-sonale. Basti pensare che sino a qualche mese prima dell’impegno editoriale come dantista, Foscolo negli Essays on Petrarch supponeva che fosse Petrarca, non Dante, ad accumulare un gran numero di manoscritti non finiti, e a questa circostanza addossava una conno-tazione negativa, derivata da un passo della Vita di Al-fieri: «chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri; nessun libro essendo veramente fatto e compito s’egli non è con somma diligenza stampato, riveduto e limato

62 Timpanaro, Sul Foscolo filologo 132, ha rimesso in circolo la te-si ottocentesca di Cattaneo 43-44, che sin dal titolo informa la ricer-ca di Di Giannatale. A quella tesi aderisce pure Mineo 134.

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sotto il torchio, direi, dall’autore medesimo».63 Le bozze corrette di alcune sezioni del Discorso, conservate alla Labronica, testimoniano che Foscolo aveva sì limato sotto il torchio quell’opera, pur senza giungere a una versione definitiva, come provano sia una nota posta sulla soglia della princeps del ’25, sia la successiva e già menzionata attività di postillazione.64

Se dunque Foscolo attribuisce a Dante quel che po-chi mesi prima presumeva avesse fatto Petrarca, ciò ac-cade non perché egli avesse cominciato a identificarsi con l’autore della Commedia per spirito di emulazione, bensì perché la teoria dell’incompiutezza e della manca-ta divulgazione di quel poema gli pareva illustrare in modo economico due ordini di «fatti». In primo luogo il racconto di Boccaccio sul rinvenimento degli ultimi tre-dici canti del Paradiso proverebbe che le prime copie pubbliche del poema, compilate dai figli Jacopo e Pietro sugli originali del padre, furono diffuse dopo la sua morte. In secondo luogo, se Dante avesse divulgato la Commedia quand’era in vita, non avrebbe potuto pere-grinare per l’Italia, ma sarebbe stato perseguitato dai po-tenti che aveva schernito e dagli inquisitori che non ac-cettavano la sua missione di riformatore religioso.

È significativo il proposito di evidenziare il ruolo svolto nella prima divulgazione della Commedia da Ja-copo Alighieri: il suo testo, forse in parte autografo,

63 EN X, 129; Alfieri, Vita 269. 64 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol.

XXV, cc. 117r-181v: sono le bozze di stampa corrette del Discorso, cui si è già fatto riferimento. La nota di Pickering, trascritta in EN IX, 1, 175 n. 1, ricorda però che il Discorso fu «stampato senza che l’Autore fosse presente alle prove sul torchio».

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rappresenta verosimilmente la fonte dell’intera tradizio-ne del poema.65 Per il resto la teoria dell’incompiutezza e della mancata divulgazione della Commedia ha basi ben poco solide. Intanto il racconto di Boccaccio è inat-tendibile, perché nel periodo in cui egli colloca il mira-coloso ritrovamento dei canti finali del Paradiso, a Gui-do Novello era nota l’intera Commedia.66 Inoltre non disponiamo di alcuna documentazione relativa alle ri-percussioni sulla vita di Dante causate dai suoi sferzanti giudizi sui potenti ancora in vita mentre scrive,67 sicché sembra eccessivo insistere sui condizionamenti esterni alla sua attività letteraria. Infine, argomento decisivo: l’iper-interpretazione di Foscolo si scontra con i versi del poema (Purg. XXXII 104-05: «quel che vedi [...] fa che tu scrive; Par. XVII 128: «tutta tua vision fa mani-festa»; Par. XXVII 66: «e non asconder quel ch’io non ascondo») in cui Dante subordina la riuscita della mis-sione profetica della Commedia alla sua piena divulga-zione.

Alla tesi cardinale dell’incompiutezza della Comme-dia seguono due esemplificazioni, relative a Francesca da Rimini e a Cangrande della Scala. La circostanza chiave per capire l’episodio del quinto canto dell’ Infer-no, ossia che Francesca sia la figlia di Guido da Polenta, si basa su uno scambio di persona autorizzato dal brano di Sismondi conservato alla Labronica: Guido da Polen-ta il Vecchio, padre di Francesca ma non protettore di Dante, è confuso con Guido da Polenta il Giovane, alias Guido Novello, il nipote di Francesca che ospitò il poeta

65 Inglese, Filologia 411-14. 66 Casadei 52 (anche per la bibliografia pregressa). 67 Santagata 251.

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al tramonto della sua vita. Subito dopo aver affermato l’intenzione di liberare la Commedia dagli errori che si sono accumulati nei secoli, il Discorso ammette che nel-la ricerca letteraria l’errore è inevitabile, purché non sia adottato per amore di sistema; anzi, nell’ultima lettera a Biagioli Foscolo aveva rinnovato un’ammissione del Boccaccio dantista, ovvero che la possibilità dell’errore offre materia di rettifica a nuovi studi e a nuovi inter-venti.68 Mentre però l’ammissione boccacciana è un semplice modulo retorico, Foscolo ribadisce la propria fedeltà al metodo per errorem ad veritatem. Dato che la nostra opera è fallibile, noi impariamo dai nostri errori, soprattutto da quelli che emergono dalla discussione cri-tica grazie ai nostri tentativi di risolverla.

Il secondo esempio riguarda Cangrande. Il quale, i-dentificato nel veltro dalla celebre profezia del primo canto, comincia a dar prova della sua grandezza soltanto nel 1318, allorché viene eletto capo della lega ghibelli-na. Foscolo ne ricava che Dante deve aver inserito la profezia soltanto dopo quell’anno. L’osservazione non è originale (l’aveva formulata il solito Lombardi), e certo non permette di concludere che tutti i commentatori, senza eccezione alcuna, abbiano pensato che Dante compose la Commedia «par le premier vers [...] ju-squ’au dernier».69 Sembra però indiscutibile che Fosco-

68 EN IX, 1, 288; Foscolo, OEP VIII 261. Scrive Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante: «se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante» (642).

69 Lombardi, Commedia I 14: «nel 1318 successe la prefata elezio-ne di Cane in Capitano della lega Ghibellina, né se non in vicinanza di esso tempo pare che potesse Dante giudiziosamente azzardare co-tale predizione». Nella stessa chiosa Lombardi ricorda che «Boccac-cio vi crede inserita posteriormente dal Poeta medesimo la parlata di

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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lo avesse sullo scrittoio l’apografo di Sismondi («ce qui, d'après le passage sur Can Grande, devait les porter à conclure que Dante n’avoit commencé son immortel ouvrage que trois années avant sa mort»), quando osser-va, proprio in riferimento a Cangrande, che «chiunque persiste e contende che l’opera non era ritoccata mate-rialmente a norma degli avvenimenti, s’assume di dimo-strare che poco più di quattr’anni bastassero a comporla dal primo all’ultimo verso».70

Ciacco nel sesto canto di questa cantica». Del resto pure G. I. Dioni-si, parlando proprio di Cangrande, scrive che «non poteva il poeta chiuder bene il suo Paradiso senza ritoccar qua e là il Purgatorio e l’Inferno» (Aneddoto II, 27 n. 3). Infine Giuseppe Pelli, riguardo alla tesi di Dionisi, osserva: «tutto questo può spiegarsi con ritocchi e aggiunte che gli autori fanno finché vivono alle opere loro» (163 n. 19).

70 EN IX, 1, 466. C’è un altro caso in cui Sismondi fornisce a Fo-scolo un particolare decisivo che manca nei commenti coevi. Nel canto decimo dell’Inferno, Farinata degli Uberti riprende a parlare dopoché Cavalcante Cavalcanti, convinto che suo figlio Guido sia morto, è crollato nell’avello infuocato. Secondo Foscolo la chiave per intendere l’episodio consisterebbe sia nella parentela fra i due personaggi (Guido è il genero di Farinata), sia nel fatto che quest’ultimo, pur avendo appena appreso che il marito della figlia Bice è morto, riprende comunque a parlare, perché gli affetti dome-stici non lo distolgono dalla calamità della patria (EN IX, 1, 424). È Sismondi, Histoire 107, a ricordare che Guido è «gendre de Farina-ta», o meglio il promesso genero di Farinata. La promessa di matri-monio tra Guido e Bice risale al 1267, e Farinata muore nel 1264: non sa se il matrimonio sia stato effettivamente celebrato. Stando a Velardi, il Guido Cavalcanti genero di Farinata sarebbe soltanto un omonimo del primo amico di Dante.

CAPITOLO QUARTO

DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE DEI LETTERATI

Il marchese Giovanni Iacopo Dionisi fu canonico della cattedrale di Verona e bibliotecario della Capitola-re. Il suo elogio funebre dettato in stile lapidario da An-tonio Cesari ne esalta l’impegno proficuo e prolungato come dantista. L’amore esclusivo di Dionisi per Dante («Dantem Alligherium unice dilexit») lo spinse a consa-crargli, oltre a sei degli otto Aneddoti e alla Preparazio-ne istorica e critica, l’edizione bodoniana della Com-media del 1795 («cujus et Comoediam, comparatis ma-gno sumptu interque se conlatis optimae notae codici-bus, justae lectioni restituit»), basata sulla collazione di più manoscritti, tra i quali spicca un codex vetus e opti-mus, il Laurenziano di Santa Croce, conservato a Firen-ze. Qui Dionisi soggiornò dall’aprile al giugno del 1789, circa la metà di quanto pensasse Cesari («cujus rei causa Florentiam profectus, ibidem ad sex menses commora-tus est»). Nel corso dei suoi studi il canonico perfezionò un protocollo d’analisi attento alle implicazioni storiche e linguistiche delle opere dantesche: «implexiora loca explicavit, sive ea ad historiam, sive ad Poetae senten-tiam adsequendam pertinerent; neque eorum quae ad il-

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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lius vel vitae vel studiorum rationem attinent, quidquam non pertractatum reliquit».1

Rispetto a queste parole, non si sa se più scontate o magniloquenti, le ponderate ricerche di Luca Mazzoni hanno restituito un ritratto di Dionisi assai più sfaccetta-to, almeno per due motivi: da un lato, perché il contribu-to del canonico veronese agli studi danteschi è stato sminuito o negato, spesso a vantaggio del suo rivale Lombardi; dall’altro, perché quel contributo va in buona parte ascritto non a Dionisi, bensì al suo nègre littéraire, il parroco di Soave Bartolomeo Perazzini, autore delle Correctiones et adnotationes in Dantis ‘Comoediam’, opera celebre e celebrata negli annali della filologia tan-to per i restauri di passi danteschi quanto per l’ enuncia-zione teorica di princìpi di ecdotica.2 Dionisi sottovalu-tato, Perazzini presente in filigrana: i risultati degli studi di Mazzoni sono un utile avviamento a questo capitolo del dantismo foscoliano.

Dal momento che le indagini di Dionisi sono state

condotte a quattro mani con Perazzini, non è sempre a-gevole stabilire il peso specifico dell’uno e dell’altro nel Dante foscoliano. Attraverso la Bodoniana giunge a Fo-scolo la proposta di Perazzini di sottolineare con le pa-rentesi il carattere di inciso della battuta rivolta alla me-retrice Taide dal suo amante a suggello del canto XVIII

1 L’elogio funebre di Dionisi, «che si vede a stampa con sopra il ri-

tratto di lui in un foglio volante ora divenuto assai raro», fu ristam-pato da Scolari 60-61 n. 16.

2 Di Mazzoni si vedranno Dante a Verona e Apogeo, in attesa di un altro suo contributo, Fra Dante. Su Perazzini, cfr. D. Colombo, Le ‘Correctiones’.

DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE

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dell’Inferno: «(quando disse: Ho io grazie / grandi appo te?)».3 In questo caso il debito con Perazzini non è rico-nosciuto. Invece per Inf. I 28, uno dei loci del canone di Barbi, a fronte della vulgata «poi ch’ebbi riposato il corpo lasso», Foscolo propugna il ritorno alla lezione aldina, con hei anziché ei (dunque «poi ch’hei posato un poco il corpo lasso»), e accredita apertis verbis questa emendazione a Dionisi, che però poteva leggerla nelle Correctiones.4

Perazzini riflette altresì sul tema cardine della proso-dia vocalica della Commedia. È noto che Foscolo pensa che l’edizione della Crusca abbia rimosso troppe vocali. Perazzini, con tono più assertivo che convincente, è di parere opposto: «hoc est vitium pene perpetuum vulga-tae editionis, in quam imperite nimis ad infarciendos versus mille et mille vocales intrusae sunt».5 L’eccesso

3 Perazzini 60. 4 Perazzini 57. Le varianti del verso appena citato nascono dalla

difficoltà d’intendere poi che per poi ch’e’. L’erroneo scioglimento di sequenze univerbate è analizzato dal quinto aneddoto: «per difetto ancora d’apostrofe e mancanza d’accenti si rese difficile la lettura de’ Codici: quando v. g. la particola che de’ leggersi ch’è o ch’e’» (25). Nello stesso tempo però si è talvolta abusato dell’apostrofo: Dionisi propone di leggere «guardommi un poco» per Inf. VI 92, anziché l’«idiotismo» «guardomm’un poco». Foscolo accetta la pro-posta, perché considera quella apostrofata un esempio di «pronunzia cattiva, che sa più di Valtrompia, che di Toscana». Dionisi sottolinea pure la necessità della scriptio separata per poi che, però che, men-tre che (in luogo di poiché, perocché, mentreché), «massime dove l’andamento del verso lo voglia», come alla fine di Inf. II, «così gli dissi: e poi che mosso fue» (Aneddoto II 101). A sua volta Foscolo non soltanto introduce la stessa correzione, ma in più si pronuncia contro perocché, un «brutto mosaico» (EN IX, 2, 21), e a favore di poi che, «costume universale a que’ tempi» (EN IX, 2, 59).

5 Perazzini 78.

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di vocali (ad esempio Caino per Cain di Inf. XX 126) illanguidisce e deturpa la bellezza della Commedia («quibus oratio languescat, et nativa Dantis pulchritudo depereat»). Gli Accademici avrebbero favorito la suc-cessione di vocali nel verso con l’arbitrario inserimento di sillabe (incoronato per coronato), contro la volontà del poeta, «qui virili ornamento contentus mollitiem a-spernatus est».6 Al contrario Perazzini pensa che Dante eviterebbe lo iato («hiulcum», la successione di vocali appunto), grazie alla -d eufonica: «quid fieri potuit – si chiede il parroco di Soave – ut Dantes hiulcum hunc verborum concursum, qui saepius occurrit, non tempe-raverit, si satis constet, eum ad hoc dixisse od pro o, sed pro se, ned pro né, ched pro che?».7 Dionisi filtra e rior-ganizza tali considerazioni: da una parte bisogna «to-glier con l’autorità delle vecchie edizioni l’iato, ed altre minuzie viziose che lascio per brevità»,8 dall’altra parte le -d eufoniche mancano nel manoscritto di Santa Cro-ce, quello su cui fonda la sua edizione, ma vanno man-tenute per seguire la Crusca, o, come scrive Dionisi, «per non dispiacer a’ leggitori da gran tempo avvezzi all’edizione volgata, coll’istraniar troppo spesso in tali minuzie da quella».9

6 Sono osservazioni congruenti alla retorica classica: cfr. Cic., O-

rat. 23.77: «habet enim ille tamquam hiatus et concursus vocalium molle quiddam».

7 Perazzini 67. 8 Dionisi, Aneddoto II 102, traduce Perazzini 58: «Mitto cetera hu-

jus generis, quae quidam minuta sunt». 9 Dionisi, Commedia I xxx. Dionisi avrà scelto le forme eufoniche

bembiane sed, ned, ched, anche per rispettare una delle norme tipo-grafiche dell’editore Bodoni (cfr. Cappelletti, Elementi di filologia). Può capitare dunque che un intervento di Dionisi criticato da Foscolo

DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE

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Non ci soffermeremo sulle risposte di Foscolo (ad esempio nella chiosa a Inf. XXIX 77-78: ned «particella così posticcia non necessaria alla verseggiatura propria di questo poema»; o in quella a Inf. XXXIV 113: contro ched della Bodoniana, la -d è inserita per evitare la suc-cessione di vocali), se non per riscontrare la fedeltà alla prosodia vocalica di matrice vichiana. Invece si dovrà insistere sul fatto che la replica di Foscolo a Dionisi (e a Perazzini) verte ugualmente sul loro lessico critico. A Inf. XXVI 97 la Crusca legge «vincer poter dentro da me l'ardore». Dopo aver preferito la lezione oggi inval-sa, «vincer potero dentro a me l’ardore», Foscolo sente il bisogno di giustificarsi:

Le sono minuzie. Ma v’è egli poesia senza parole? o parole senza sillabe? o metro mai senza brevi sillabe e lunghe? o verseggiatura scevra di noja a chi non prov-vede a varietà di distribuzione d’accenti? o melodia e armonia di verseggiatura senza esattissima proporzio-ne di modulazioni nelle vocali, e articolazioni nelle consonanti? Né la vita umana tutta quanta non consiste d’altro se non di minuzie. (EN IX, 2, 138)10

sia stato in realtà imposto o suggerito da Perazzini o, meno spesso, da Bodoni. Chiosa Foscolo a Inf. VII 22: «Bod. sopra, qui e sempre e forse su l’autorità di pochi codici ne’ quali il Dionisi amò il ‘sopra’ da prosatore più del ‘sovra’ de’ poeti»: ma era stato Bodoni a prefe-rire la forma sopra. Del resto Dionisi, Aneddoto IV 169 n. 2, avrebbe voluto che la sua edizione mantenesse l’ortografia della Crusca e fosse corredata da ampie note. Il fatto che la Bodoniana non segua questi criteri parrebbe confermare quella «fastidiosa tendenza a cambiare idea» da parte di Dionisi messa in luce da Mazzoni, Dante a Verona 2.

10 Commenta questo brano Pasquini 476.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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Tra le maggiori insidie per un editore degli scritti del Foscolo inglese, Michele Barbi segnala «la trasfusione della stessa materia dall’uno nell’altro», come se quelle che noi siamo portati a considerare opere singole siano state ottenute saldando après coup pezzi differenti.11 Dalla «trasfusione» di sintagmi singoli o di brani interi all’interno del corpus foscoliano, da un’opera all’altra e persino da una redazione all’altra, origina l’«alta densità di coagulo»12 della chiosa appena riportata. Essa compa-re, oltreché a commento di Inf. XXVI 97, in versioni provvisorie tanto del Discorso sul testo, quanto di un altro discorso preliminare d’argomento dantesco, rima-sto incompiuto.13

Il monito che l’arte risieda in particolari anche mi-nimi ha insomma particolare risonanza nel pensiero cri-tico foscoliano. Il Discorso sul Decameron, come già si diceva, ribadisce che la solidarietà cruscante fra grafia e pronuncia ha alterato il testo dei grandi classici volgari, Boccaccio certo, ma anche, e non meno, Dante: «gli uomini non impazienti a queste necessarie minuzie giu-dicheranno»,14 appunto grazie al Discorso sulla Com-media. Dunque quando parla di minuzie, poter / potero, da me / a me nel caso in esame, Foscolo allude alla scri-zione piena di parole apocopate o elise, quindi all’ inve-

11 Barbi, La nuova filologia 162. 12 Mazzacurati 46. 13 La chiosa sulle minuzie si legge tra le bozze a stampa del Di-

scorso (Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXV, c. 125r), e in un abbozzo del secondo dei Discorsi preli-minari (EN IX, 1, 679).

14 EN X, 323. Anche nella Storia del testo d’Omero (EN XII, 384), il termine minutiae si riferisce all’utilizzo anacronistico dell’apostrofo da parte di Payne Knight.

DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE

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ramento del principio vichiano della Commedia verseg-giata a vocali. Perciò è più che probabile che l’obiettivo non dichiarato della chiosa sia Dionisi: il canonico ve-ronese, sulla scia di Perazzini, marginalizza come «mi-nuzie viziose» gli iati, quasi per inerzia rispetto alle scelte della Crusca.

Non v’è dubbio che la parola minuzie porti con sé la connotazione negativa di indugi prolungati su inezie all’apparenza irrilevanti. Non a caso Foscolo ammette che l’edizione dantesca «fu la meno allegra delle sue fa-tiche», e la paragona ai lavori eruditi di Giuseppe Scali-gero e di Pierre Daniel Huet. I loro nomi compaiono nell’abbozzo di uno dei discorsi preliminari, allo scopo di ribadire che le spossanti ricerche erudite (le «fatiche dotte» dell’ultimo sonetto delle Poesie) sono «minuzie necessarie» purché esercitate non su minori e minimi, bensì sui grandi classici: «e Dante merita dopo Omero le prime cure non foss’altro dagl’Italiani».15 Dionisi i-gnora l’altissima posta in gioco di un piano editoriale ambizioso, affidato all’operosità italiana.

Sul progetto della Commedia come «libro da Italia-ni», e di riflesso sul valore condizionante della propria filologia, Foscolo scandisce parole definitive a suggello della Serie di edizioni: «quand’oggimai non ha di libere se non le minuzie letterarie, trattile in guisa che le non pajono inezie, e ne derivi alquanto di vero, il quale dov’anche emerga da minime cose ha in sé ad ogni mo-

15 EN IX, 1, 679-81. Simili considerazioni su Huet ritornano nel

secondo paragrafo dei Discorsi (EN IX, 1, 176-77), che comincia così: «qui dov’io scrivo, le minuzie sono istituto di Università», e quindi sono riconosciute ed apprezzate nella repubblica letteraria.

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do l’eterna onnipotente natura del vero».16 Queste paro-le, giocate sull’antitesi fra «minuzie» (positive) e «ine-zie» (negative), sono ispirate al motivo alfieriano dell’intellettuale che si dedica alle lettere perché in altri campi gli è preclusa l’azione. Scrivere compensa l’impossibilità di agire, o meglio scrivere la verità di-venta una forma superiore di azione, un’azione che ha qualcosa di eroico, specialmente nelle circostanze mi-nime delle dispute letterarie.

Sminuire Dionisi è una costante degli studi danteschi

di Foscolo sin dagli esordi. Le critiche rivolte al canoni-co dalla Chioma di Berenice e dal primo articolo edim-burghese sono però viziate dall’invalidità logica dell’ ar-gomento ad personam. L’età avanzata di Dionisi, il suo temperamento da canonico abituato a intonare «allelu-ia», oppure «the dogmatic tone of a prelate, and the con-temptuous air of a patrician» nella polemica con Lom-bardi: tutto ciò da un lato risponde al taglio psicologisti-co della critica foscoliana, dall’altro però non basta né a stabilire la fallacia dell’emendazione di Dionisi a Purg. XXX 15, «la rivestita voce alleluiando», né a provare che, più in generale, le sue varianti sono «the most ma-nifest errors of copyists».17

La denigrazione dell’avversario e il ricorso al princi-pio d’autorità sono argomenti deboli dal punto di vista

16 EN IX, 2, 305. 17 Particolarmente sferzante il brano della Chioma: «dirò bensì che

in tutte le cose, e fino ne’ codici, e negli autori ogni uomo travede le proprie passioni ed i propri costumi: qual maraviglia dunque se mon-signore [Dionisi] fa alleluiare la rivestita voce, poich’egli da più di ottant'anni alleluia? e da più di ottant’anni....?» (EN VI, 442).

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logico, ma sufficienti a persuadere Biagioli. Questi non soltanto approva la «lavata di capo» della Chioma con-tro Dionisi, ma in più riserva al canonico ormai scom-parso lo stesso irridente disprezzo già sperimentato con-tro Lombardi: se per Foscolo la lezione «alleluiando» era «stravagante», per Biagioli Dionisi interpreta un passo dantesco «così stravagantemente, che non si può tenere che non ne informi i forestieri per fargli un tratto sganasciar delle risa».18

In fin dei conti Dionisi è un superstite dell’ancien régime della critica dantesca, un vecchio prete patrizio che provoca scomposte sghignazzate di scherno e com-miserazione. Ce n’è abbastanza perché Foscolo e Bia-gioli siano richiamati a una critica più urbana e argo-mentata dal filologo modenese Marcantonio Parenti, in un passo poi trascritto dalla Commedia della Minerva del 1822, una sorta di edizione-archivio sotto il profilo testuale ed esegetico, da Foscolo posseduta e postillata. In particolare Parenti spiega in modo convincente l’eziologia della corruttela alleluiando > alleviando, e quindi contesta l’intangibilità della vulgata alleviando.19

18 Biagioli, Commedia I 628. Da vedere anche, sempre in riferi-mento a Dionisi, Biagioli, Commedia III: «tienti dal ridere, se puoi» (52); «muove a riso» (385); «sustituisce a chiarezza la voce carezza, che non la posso scrivere senza ridere» (421).

19 Minerva, Commedia II 691-94, riprende Parenti, Alcune annota-zioni 173-76. A proposito dell’edizione-archivio della Minerva, cu-rata da G. Campi, F. Federici e G. Maffei, Foscolo rivela che «la tan-ta congerie di cose, mi ha fatto utilissimo il loro lavoro» (EN IX, 2, 301). Da questa edizione – che si suppone posseduta e annotata da Foscolo in base alla postilla di EN IX, 1, 355 – vengono ad esempio le uniche citazioni esplicite di Perazzini negli studi danteschi fosco-liani, nelle chiose a Inf. IV 125 e a Inf. XVIII 18. Va di conseguenza escluso che Foscolo conoscesse direttamente le Correctiones, possi-

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Insomma, che alleluiando sia una difficilior nascosta sotto l’apparenza di una lectio impossibilis, mai Foscolo lo concede; però, colpito dal silenzio di Dionisi di fronte alle acerbe critiche della Chioma, egli ammette di esser stato nei suoi riguardi «peggio che discortese» e «villa-no di motteggi puerili».20

Questa ritrattazione è più di forma che di sostanza. Più della metà dei rimandi a Dionisi e alla Bodoniana presenti nelle chiose foscoliane all’Inferno si concentra, se non ho visto male, nei primi cinque canti. Foscolo la-scia capire che Dionisi è uno smodato congetturatore vittima della propria estrosità critica, tanto che non oc-corre compulsare per intero la sua edizione.21 Lo stesso «splendido ritratto caricaturale»22 di Dionisi consegnato

bilità lasciata aperta da Da Pozzo, Dante e Foscolo 666-67. Uno de-gli editori della Minerva, Giuseppe Campi, curò in proprio una Commedia, pubblicata postuma, in cui dichiarò di seguire il criterio foscoliano della prosodia vocalica: «tante affettate smozzicature che s’incontrano nel testo degli Accademici non ricorrono ne’ Mss. anti-chi. Tali sono, ad esempio, lo ’nferno, lo ’ngegno, e simili, e vanno soppressi; ché le vocali nel nostro idioma aiutano il numero e l’armonia del verso» (Campi, Commedia lxiv).

20 Il passo di Foscolo, Lettera apologetica 58-59, è rifuso in EN IX, 2, 302-3.

21 EN IX, 2, 4: «Dionisi propone da certi codici Eh, e altrove Ehe, a anche Hee, Heh ed Hey come più gl’incontra; non perciò importerà il ricordarli». Forse Foscolo scriveva così perché aveva dovuto resti-tuire a Pickering il primo volume della Bodoniana. Lo suggerisce la lettera del suo copista G. Berra a Pickering del 10 gennaio 1826: «the books lent by you to Mr. Foscolo and peremptor[i]ly requested by you to be returned, although still necessary to the edition in course for you, namely – Bodoni’s Dante first volume [...]» (Foscolo, OEP XII 415).

22 A EN IX, 1, 562-63, si riferisce la nota definizione di Dionisotti, Varia fortuna 208.

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alla quintultima sezione del Discorso è un crogiuolo in cui vengono riplasmati spunti e motivi già emersi nei testi sinora allegati. In un primo tempo Foscolo pare an-cora interessato all’indole del vecchio canonico più che alla correttezza logica delle sue tesi, che «sapevano dell’autorità di prelato, e della non curanza signorile di un patrizio Italiano». In seguito però Foscolo entra nel merito della critica testuale di Dionisi. Le emendazioni stravaganti della Bodoniana, dettate dalla volontà di preservare la divinità di Dante o di contestare gli Acca-demici della Crusca, suscitano perlopiù scherno («pro-vocava altri [Biagioli appunto] a ridere insieme e resi-stergli»), per certi versi stupore per la splendida edizio-ne bodoniana cui sono consegnate, rare volte perfino consenso («ei talor vi coglieva», scrive Foscolo; «n’ha pur indovinata una», ammette Biagioli).23 La conclusio-ne del ritratto, a sorpresa, si distende in un più cordiale apprezzamento dei talenti del Dionisi dantista, il quale «scoperse alcuni documenti ignotissimi ed utili, e ri-chiamò gli studi alla storia della Divina Commedia».

L’ultima ammissione è di sicuro rilievo. Al di là del-le dichiarazioni di facciata così ostili a Dionisi, Foscolo guarda con occhio attento alle ricerche d’archivio con-dotte dal canonico insieme a Perazzini, perché esse illu-strano gli «implexiora loca» di cui parlava Cesari, e quindi mettono in luce la dimensione storica della Commedia.24 In particolare il quinto degli Aneddoti,

23 Biagioli, Commedia III 567. 24 La Dedica dell’ultima opera di Dionisi parla così di Dante:

«perché ho conosciuto tutte le ragioni della sua eccellenza non poter-si investigare e sapere senza la cognizione di molte cose alla Storia di lui appartenenti, questo ho almen fatto di trarne quante ho saputo

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scritto dopo la summentovata visita a Firenze, descrive almeno tre di quei «documenti ignotissimi ed utili». Il primo è il già citato Laurenziano di Santa Croce, una vera e propria “edizione” allestita sul fondamento di va-rie tradizioni per mano di Filippo Villani, umanista della cerchia di Coluccio Salutati. Dionisi e Foscolo negano (a torto) l’autografia di Villani per ragioni cronologiche, cioè perché Villani, pubblico lettore della Commedia all’inizio del Quattrocento, non avrebbe potuto scrivere il codice ben sessant’anni prima, nel 1343.25

L’epistola di Dante all’amico fiorentino è il secondo documento scoperto da Dionisi e Perazzini alla Lauren-ziana su indicazione di Lorenzo Mehus, e valorizzato già dal secondo articolo della Edinburgh Review.26 Su questa rivista Foscolo non soltanto aveva riportato il te-sto dell’epistola nella trascrizione dionisiana, ma l’ ave-va fatto precedere da una serie di considerazioni che ri-sentono della lettura assidua degli Aneddoti. Il canonico aveva scritto che «la storia e la lingua» sono «due chiavi maestre ad aprir la Commedia», pur non essendo riusci-to a rinvenire, malgrado le ricerche nelle biblioteche fio-rentine, «un comento ben ragionato, il quale avesse per fondamento la Storia».27 A sua volta Foscolo ribadisce l’importanza di conoscere la storia e la lingua della

dall’opere sue principalmente, e da quelle, che a questo fine mede-simo ne furono da’ benemeriti scrittori parecchi tramandate copio-samente» (Preparazione I vii).

25 Dionisi, Dialogo apologetico xxiv; EX IX, 1, 188. Sul codice di Santa Croce interviene Boschi Rotiroti. Di recente si è tornato a di-battere della collocazione stemmatica del codice: l’ultimo intervento in ordine di tempo è di Sanguineti.

26 Dionisi, Aneddoto V 176-78; EN IX, 1, 140-43. 27 Dionisi, Aneddoto IV 34 e Aneddoto V 3.

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Commedia, e nel contempo, con simili accenti, deplora la mancanza di un commento di taglio storico: «a com-mentary upon Dante, which should be useful in a histo-rical and poetical view, still remains to be executed [...]; Dante, notwithstanding the number of his biographers, has not yet had a historian».28

Proprio un commento, il cosiddetto Ottimo commen-to alla Commedia, è il terzo dei documenti d’archivio che le ricerche di Dionisi offrivano all’occhio filosofico foscoliano. Il quinto Aneddoto ne parla nell’ambito di un esame più generale dell’esegesi dantesca antica, che costituisce il principale merito del dantismo veronese. A detta di Dionisi, i commentatori antichi sono spesso all’oscuro di elementi basilari per capire la Commedia: ad esempio ignorano l’identità del veltro, o, pur se lo identificano con Cangrande, non sanno trarre tutte le conseguenze da questa identificazione.29 Per lo stesso motivo qualche anno prima Dionisi aveva sostenuto l’apocrifia del comentum di Pietro Alighieri: come sa-rebbe possibile che il figlio di Dante fosse così poco in-formato dell’opera del padre da non saper identificare il veltro né sciogliere qualche altro enigma?30 È totale il disaccordo con Foscolo: «i primi interpreti» – si legge nel Discorso – «non perché non vedessero, ma non s’attentavano di additare, sin da’ primi versi della Commedia, i nomi di personaggi potenti e il vero peri-

28 EN IX, 1, 132 e 138. 29 Dionisi, Aneddoto V 15-16. 30 Dionisi, Aneddoto II 5-6, pubblica la premessa del commento di

Pietro Alighieri, traendola dal codice di Santa Giustina, dal quale Perazzini ha a sua volta esemplato due copie: cfr. Mazzoni, Un nuo-vo codice.

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coloso».31 Ad esempio, secondo Foscolo, Pietro Ali-ghieri sarebbe un po’ troppo laconico in alcuni punti de-cisivi del suo commento, perché, intimorito dalle mi-nacce dei nemici del padre, non poteva mostrarsi filo-scaligero, identificando Cangrande nel veltro. «Ad ogni modo di tutto quasi che abbiamo di certo nelle allusioni storiche» – conclude Foscolo – «siamo pur debitori a que’ primi commentatori; e ove mostravano d’ignorare cose note a’ loro occhi, la colpa era de’ tempi»32. Non soltanto l’antica esegesi è imprescindibile per capire la Commedia, ma l’Ottimo in particolare merita davvero il titolo di «famigliare di Dante»: una familiarità con la sua persona, con i suoi manoscritti, col poema nella sua interezza.33

Servirsi di testi inediti di Dante o delle testimonianze di suoi contemporanei come fondamento per le nuove ricerche relative alla biografia dantesca e alla genesi del poema: è questa la strada indicata dagli Aneddoti, in sin-tonia con la tradizione antiquaria veronese, che il Di-scorso ha provato a percorrere. Certo, Foscolo ha letto le chiose dell’Ottimo e di Pietro Alighieri in modo par-ziale e indiretto,34 molto probabilmente grazie non tanto

31 EN IX, 1, 474. 32 EN IX, 1, 476. 33 L’impressione di Foscolo riguardo all’Ottimo («pare ch’abbia

l’intero poema, e la corrispondenza d’ogni sua parte davanti agli oc-chi»: EN IX, 1, 534), è stata confermata da Massimiliano Corrado: «il commentatore palesa una profonda dimestichezza con l’intera Commedia» (Ottimo 383).

34 EN IX, 1, 498-99: «a me di questo commento [...] non è toccato di leggere se non pochi squarci riferiti ne’ libri altrui, e mi sono ri-portato anche qui all’antiquario che lo divorò tutto intero» (per Pie-tro: forse l’antiquario è Dionisi); EN IX, 1, 525: «da quel tanto del

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agli Aneddoti, quanto a due edizioni «nobilissime e più benemerite del poema»,35 l’edizione-archivio della Mi-nerva e la Commedia fiorentina dell’Ancora, uscita nel 1819. È altrettanto certo che sulla storicità del poema Foscolo matura idee diverse rispetto a Dionisi. Questi tende a distinguere in Dante lo storico dal poeta,36 e a collocare la Commedia nel Medioevo, allontanandola da noi in un eccesso di scalarità cronologica. Al contrario Foscolo, ostile alla «affannosa, contenziosa, boriosa in-dagine delle date»,37 non soltanto troverebbe del tutto anacronistico il dettagliatissimo «giornale della visione» proposto dal quarto Aneddoto, ma in più pensa che si debba sottolineare l’originalità della Commedia, che va avvicinata a noi perché inaugura la storia letteraria eu-ropea e quindi getta luce sul futuro.

Ciò nonostante, la profonda rielaborazione dei mate-riali dionisiani da parte del Discorso38 ha permesso a Foscolo di inverare il postulato vichiano per cui il sog-getto del poema è la storia del suo tempo. In altre parole la feconda dialettica col canonico, lungi dall’essere un curioso effetto d’eco, definisce le condizioni di leggibi- suo commento che mi è toccato di leggere» (a proposito dell’ Otti-mo).

35 EN IX, 1, 282. Sulla rilevanza della Commedia dell’Ancora per la conoscenza dell’esegesi antica da parte di Foscolo, insiste Bello-mo, Dizionario 5.

36 Dionisi, Preparazione II 109: «in questi capitoli s’è fatta veder manifesta la contraddizione in tal senso tra Dante istorico, e Dante poeta»; II 68 n. 1: «Dante fece la Vita nuova [...] non da istorico, ma da poeta».

37 EN IX, 1, 195. 38 Il riuso foscoliano degli Aneddoti si distingue dal semplice stoc-

caggio di materiali dionisiani operato da Girolamo Mancini e studia-to da Frasso, All’ombra.

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lità, orienta la lettura, e talvolta governa l’ interpretazio-ne, di svariate sezioni del Discorso e di altrettante chio-se all’Inferno. Quelle sezioni e quelle chiose non sareb-bero state scritte in assenza delle ricerche sul campo condotte da Dionisi (e Perazzini), non tanto perché Fo-scolo, procedendo per errorem ad veritatem, rettifichi sbagli e incongruenze,39 quanto perché egli si serve dei loro «documenti ignotissimi e utili» per l’intelligenza storica della Commedia.

Il dibattito sull’allegoria del primo canto è il para-digma del rapporto tormentato e contraddittorio tra Dio-nisi e Foscolo: come il primo riconosce nella «storia» il «senso nuovo nascosto»40 del proemio, così il secondo è reticente nell’ammettere i debiti nei suoi riguardi. Sul piano letterale Foscolo parrebbe il primo esegeta a ri-chiamare come referente delle tre fiere un brano di Ge-remia che descrive tre animali selvatici, leone, lupo e pardus, mandati a punire i peccati degli abitanti di Ge-rusalemme. Il richiamo a Geremia è oramai pacifica-mente accolto dal secolare commento, benché il merito dell’agnizione di lettura non sia accreditato a Foscolo.41

39 Valga ad esempio la diversa valutazione della Visio Alberici, la visione di un monaco di Montecassino conservata nell’archivio dell’abbazia e innalzata, da Dionisi (Preparazione I 4-18), non da Foscolo (EN IX, 1, 59-69 e 471-73), a principale fonte del poema. Un passo del secondo articolo edimburghese ancor oggi si potrebbe sottoscrivere per raffinata eleganza: «much of a great writer’s origi-nality may consist in attaining his sublime objects by the same means which others had employed for mere trifling». Il saggio di Gizzi contiene la riproduzione fotografica del codice e la traduzione italiana del testo della Visio Alberici.

40 Dionisi, Aneddoto II 67. 41 EN IX, 1, 513. Secondo Hollander, Commedia I 5, il primo a

parlare di Geremia sarebbe stato «forse» Tommaseo. Costui disprez-

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Sul piano metaforico, invece, il Discorso assume una posizione minoritaria (il che non significa per forza er-ronea), alla quale ha dato un apporto decisivo e misco-nosciuto appunto Dionisi. Il secondo dei suoi Aneddoti suggerisce una spiegazione storica, anziché morale, del primo canto della Commedia: la selva rappresenta gli incarichi politici di Dante, la lonza Firenze, il leone il regno di Francia, la lupa la curia romana.42 Eppure, dato che le tre fiere impediscono a Dante di uscire dalla sel-va, Lombardi ha buon gioco a rilevare l’aporia di questa spiegazione: com’è possibile che Firenze, la Francia e Roma, insomma i tre nemici di Dante, gli abbiano im-pedito di lasciare i suoi incarichi politici? La tesi di Dionisi e l’obiezione di Lombardi furono sviluppate dal nobile marchigiano Giovanni Marchetti nella prefazione alla Commedia da lui curata nel 1819 insieme a Paolo Costa. Pur attribuendo a Marchetti il merito di aver de-finitivamente chiarito la questione dell’allegoria della selva e delle tre fiere, Foscolo non può non ammettere a denti stretti che l’originaria «interpretazione [di Dionisi] raccoglie e riflette lume in più versi oscuri nelle tre can-tiche».43

zava Foscolo («quando parlava di Dante imbecilliva», annota nel Diario 150), tanto che mai avrebbe menzionato con onore il Discor-so. Cfr. anche pp. 161-62 n. 79.

42 Dionisi, Aneddoto II 66-86. Una sintesi equilibrata fornisce Mazzoni, Dante a Verona 85-86.

43 EN IX, 1, 475; per tutti i riscontri, Cappelletti, Della prima e principale allegoria.

CAPITOLO QUINTO

LA SCIENZA DEI FATTI: LOMBARDI EDITORE DELLA NIDOBEATINA

La prima carta dei Frammenti fiorentini pubblicati da Petrocchi si intitola Edizioni e varianti. Così Foscolo vi descrive la situazione editoriale della Commedia nel primo Ottocento:

vi furono a questi tempi tre editori, l’uno per amore del poeta, l’altro per libidine di novità, l’ultimo per vanità di fama letteraria – tanto è misero chi crede di aver nome di letterato, per sì fatte inezie viziose – i quali pubblicarono il poema con tre lezioni sì discrepanti tra loro che i novizi di questo poeta non saprebbero a chi dar fede. Tutti e tre anziché venire eleggendo secondo il giudizio o l’orecchio, alcune lezioni con parsimonia, ristamparono di pianta l’uno l’edizione del Nidobeato, l’altro quante più bizzarre e spropositate varianti trovò ne’ codici, l’ultimo – ed è un’edizione in foglio impe-riale di cui si sono tirati pochi più di settanta esemplari dal tipografo rimessi – pubblicò con ortografia sua nuova anzi tutta sua forse, certo suo codice tra cento ch’ei ne possiede. Costui vaneggiò di mente e annichi-lò quante più virgole ha potuto, e fece più oscuro il po-eta; levò la bella e tutta toscana lettera aspirativa, e in

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luogo di che avea, scrive c’avea, e sì fatte prodezze. (EN IX, 2, 361) I primi due editori cui allude Foscolo, in un gioco in-

crociato di rimandi, sono Lombardi e Dionisi. Quest’ ul-timo riduce la Commedia a oggetto non di amore, ma di libidine, la stessa parola che Foscolo aveva riferito a Dionisi nella nota della Chioma di Berenice ricordata da Biagioli. Proprio in polemica con il «grammatico dotto» di Parigi, Foscolo attribuisce al canonico di Verona quello studium novandi di cui invece Biagioli accusava Lombardi.1 La contrapposizione tra la fedeltà di Lom-bardi alla Nidobeatina, l’incunabolo curato dall’ umani-sta Martino Paolo Nibia, e l’inclinazione di Dionisi a introdurre lezioni stravaganti, è l’opinione comune dei tempi di Foscolo.2 Questi vi aderisce parlando della Lombardina nella Serie di edizioni, ossia nel repertorio delle edizioni dantesche progettato per l’ultimo volume della Commedia foscoliana. La stessa Serie di edizioni offre tre indizi, ovvero l’ampio formato, la limitata tira-tura, la peculiarità ortografica di c’avea, che permettono di individuare la terza edizione a cui accenna il fram-mento fiorentino: si tratta della Commedia edita a Mila-no da Luigi Mussi nel 1809 e curata dal colto pittore lombardo Giuseppe Bossi. Foscolo l’aveva acquistata, ma ne era rimasto fortemente deluso: in particolare egli

1 Nell’avvertimento al Purgatorio, in risposta all’invito di Monti a non attaccare così rudemente Lombardi, Biagioli (Commedia II iii), ribatte che intendeva far fronte all’influenza negativa del francesca-no sugli studi danteschi, «tanto si lascia l’uomo al disio di novità trasportare». Sullo studium novandi di Lombardi, cfr. Biagioli, Commedia I 322, e II 238.

2 Cfr. D. Colombo, Per l’edizione 364.

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mette in dubbio l’attendibilità della biografia boccaccia-na manoscritta di proprietà di Bossi e premessa all’ edi-zione.3

Dunque le edizioni di Lombardi, Dionisi e Mussi sa-rebbero responsabili dell’anarchia testuale in cui versa la Commedia a inizio Ottocento. Secondo Foscolo l’unica via d’uscita è il ritorno alla vulgata, la forma più comune del testo della Commedia, quella nota a tutti perché fissata e diffusa tramite la stampa. Essa offre le migliori garanzie di affidabilità, malgrado i limiti evi-denti di cui diremo in seguito. Il ritorno alla vulgata comporta la revisione delle lezioni stravaganti introdotte dagli ultimi editori. È questa la posizione di William Warburton, lo studioso shakespeariano più volte citato da Foscolo sulla rivista di Edimburgo, secondo la pro-spettiva comparatistica che caratterizza il primo artico-lo. A parere di Warburton spetta al critico «vindicate the established reading from interpolations occasioned by the fanciful extravagancies of others», sicché occorre giustificare ogni alterazione del «common text».4 Un simile conservatorismo oltranzista mira a difendere il testo dall’aggressione di chi vorrebbe mutilarlo o sfigu-rarlo con emendazioni indebite.

A ben vedere le supposte lezioni stravaganti intro-dotte da Lombardi, Dionisi e Mussi nel «testo comune» della Commedia si prestano poco a dimostrare la sua

3 EN IX, 2, 293-94 è la scheda bibliografica di Mussi, Commedia.

Sui rapporti fra Foscolo e Bossi interviene A. Colombo, Princeps ingenii 39-72. Il codicetto quattrocentesco della biografia boccaccia-na di Dante, di cui si servì Bossi, oggi in Trivulziana, fu acquistato dal marchese Trivulzio dopo il 1818: cfr. Pedretti 352 n. 4.

4 Warburton xiv.

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presunta anarchia o fluttuazione ai tempi di Foscolo. Il tratto distintivo della nuova Commedia di Mussi, appena trasferito a Milano, avrebbe dovuto essere la milanesità: per questo il testo base era la Nidobeatina, nella revisio-ne del «chiarissimo padre Lombardi milanese» (nato in realtà vicino a Monza, e vissuto a Bergamo e a Roma).5 La Commedia di Mussi è affine alla Lombardina, e a sua volta l’edizione di Lombardi non è molto diversa da quella di Dionisi, visto che ambedue emendano la Co-miniana.

È significativo – anche se, come vedremo, infondato

– che Foscolo identifichi l’edizione di Lombardi con la Nidobeatina. Al padre francescano Foscolo riconosce «il merito di avere osservato e citato puntualmente talu-na delle Edizioni del secolo XV».6 Non soltanto il testo-base di Lombardi è un incunabolo, la Nidobeatina ap-punto: in più egli ha collazionato altre stampe del Quat-trocento, ossia quelle di Foligno e Mantova del 1472, quella di Windelin da Spira del 1477, la princeps di Landino del 1481.

Foscolo descrive queste e altre edizioni quattrocente-sche nella prima parte del suo catalogo delle stampe del-la Commedia. Benché i tre elenchi di libri foscoliani non includano alcun incunabolo dantesco, risulta che il poeta ne abbia posseduti tre.7 Il primo è un esemplare della

5 Il manifesto della Commedia stampata da Mussi si legge sul Giornale italiano dell’11 giugno 1809, in un Annunzio tipografico a firma A. C.

6 EN IX, 2, 256. 7 I tre elenchi, pubblicati da Nicoletti, La biblioteca 92-105, regi-

strano i libri posseduti da Foscolo a Firenze (in data 8 aprile 1813), e quelli lasciati a Milano al momento di partire per l’esilio.

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princeps della Commedia di Landino, «la sola [tra quel-le del ’400] procurata con alcun sentimento di critica»,8 oggi conservata dalla Biblioteca della Società dantesca italiana con la seguente nota di possesso sul frontespi-zio: «a me Nicolao Ugo Foscolo dono del probo Filippo Maderni. Venezia 1797», in accordo con l’interesse ap-pena manifestato da Foscolo per la Commedia nel Piano di studi.9 Il secondo incunabolo foscoliano, di proprietà della Casa di Dante in Roma, è una delle pochissime copie conosciute del cosiddetto Liber Dantis, la Com-media uscita nel 1472 quasi certamente a Venezia. La nota autografa collocata fra le carte di Inf. XI è un’ ana-lisi bibliologica dell’in-folio, che elenca le lettere, i ver-si, le terzine mancanti.10 Né la princeps di Landino né il Liber Dantis sono comunque menzionati dai lavori dan-teschi del periodo inglese, quando l’unico incunabolo che il poeta dichiara di aver a disposizione, il terzo complessivo, è appunto la Nidobeatina. Ne ha acquistata una copia per poco prezzo, grazie a un intermediario, a un’asta; un’altra ne ha potuto sfogliare presso la biblio-teca dell’italianista Roger Wilbraham:11 si tratterebbe

8 EN IX, 2, 257. 9 Bianchi 89-90. 10 Zennaro. 11 EN IX, 2, 268. Wilbraham è il dedicatario del Discorso decame-

roniano appunto perché ha permesso a Foscolo di usufruire della sua biblioteca. Oltre alla Nidobeatina, Wilbraham possedeva un esem-plare della Commedia di Landino, almeno stando a Dibdin, Biblio-theca IV 114-15. Al proposito si veda l’abbozzo del secondo dei Di-scorsi preliminari: «quali, dalla Fiorentina del Landino in fuori, io non mi trovo d’averne veruna; né avrei veduto la Nidobeatina origi-nale se Ruggero Wilbraham gentiluomo inglese non fosse cortese a me de’ suoi libri» (EN IX, 1, 684). Queste parole sono cassate con due tratti di penna, perché, a quanto sembra, riportano informazioni

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insomma di un’edizione meno rara di quel che si possa pensare.

Qual è il peso degli incunaboli, in particolare della Nidobeatina, nella tradizione a stampa del poema sacro? La Nidobeatina vanta un’elevata qualità del testo, poi-ché risulta esemplata sull’edizione mantovana del 1472, «da un punto di vista testuale [...] indubitabilmente la migliore del secolo».12 È dunque rilevante che proprio la Nidobeatina abbia fatto prender coscienza a Foscolo del problema ecdotico del poema dantesco. Giorgio Petroc-chi ha portato a conoscenza degli studiosi un’altra Commedia appartenuta a Foscolo, la ristampa della Cru-sca uscita a Napoli nel 1716 per le cure di Cellenio Zac-clori, anagramma di Lorenzo Ciccarelli, l’abate e avvo-cato napoletano che aveva sollecitato Vico a scrivere la sua autobiografia.13 All’interno di una lunga nota auto-grafa, datata 7 novembre 1800 e collocata in fondo all’esemplare, Foscolo scrive di averlo collazionato con

in parte imprecise: era la Nidobeatina l’unica posseduta da Foscolo. Inoltre Wilbraham è il traduttore della lettera dantesca all’amico fio-rentino scoperta da Dionisi e Perazzini, e compresa nel secondo arti-colo per la Edinburgh Review. All’inizio del primo articolo è citato il reverendo Thomas Frognall Dibdin, ammesso insieme a Foscolo (e a Payne Knight) nel salotto di Wilbraham. Nelle sue memorie Dibdin traccia un ritratto impietoso di Foscolo («the petted and spoilt mar-mozet of the upper circles in London. He had undoubted genius, but he had as undoubted vanity – which at times bordered on insolence [...]. He at last became giddy, and lost both his balance and position in society»), e rammenta un alterco fra il poeta e Wilbraham, il quale avrebbe scongiurato l’apparentemente inevitabile duello con queste parole: «Our combats must be confined to Dante and Machiavelli dissertations» (404-06).

12 Mecca, La tradizione: gli incunaboli 63. 13 EN IX, 2, xxxv-xxxvii. Costa ha scritto su Vico e Ciccarelli.

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la copia della Nidobeatina conservata alla Biblioteca Magliabechiana a Firenze: qui, stando all’epistolario, il poeta soggiornava il 2 novembre del 1800, e poi nel me-se di gennaio del 1801. In realtà sono soltanto una deci-na le varianti della Nidobeatina segnate da Foscolo sull’esemplare della Ciccarelli: un esercizio irregolare, dettato da circostanze occasionali e privo d’intenti si-stematici. Evidentemente egli si era reso conto che era inutile proseguire la collazione della vulgata dantesca con la Nidobeatina, visto che Lombardi l’aveva già condotta a termine in anni e anni di impegno. È dunque naturale che Foscolo acquisti la Commedia curata dal francescano, e che lo faccia in quello stesso anno: «Ugo Foscolo / Firenze / M.DCCC.I» è appunto la nota di possesso segnata su ognuno dei tre tomi di una Lombar-dina oggi custodita dalla Biblioteca Marucelliana.14

Foscolo non ha portato con sé in Inghilterra né que-sta Lombardina, né la ristampa Ciccarelli della Crusca: dai suoi elenchi di libri risulta che la Lombardina è ri-masta a Firenze, la ristampa Ciccarelli a Milano. Si trat-ta comunque delle edizioni che Foscolo compulsava mentre stava attendendo ai Sepolcri.15 Infatti la ristampa Ciccarelli reca sulla prima carta l’indirizzo dell’abita-zione milanese del poeta fra il 1806 e il 1807; e proprio al gennaio del 1807 risale una lettera in cui Foscolo scrive a Monti di avergli «rimandato», ovvero restituito,

14 Questa Lombardina presenta annotazioni di servizio pubblicate da Nicoletti (La biblioteca 109-11) e da Petrocchi (EN IX, 2, xxxvii-xxxix).

15 Sicché la nota ai vv. 173-74 dei Sepolcri, «È parere di molti sto-rici che la divina Commedia fosse stata incominciata prima dell’ esi-lio di Dante», sottintende Lombardi, Commedia I 110 n. 1 (che a sua volta riscrive Venturi, Commedia I 72-73 n. 1).

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«il Lombardi».16 La Lombardina di Monti torna dunque al suo legittimo proprietario, così come rimane a Firen-ze, a casa di Quirina Mocenni Magiotti, quella compera-ta da Foscolo nel 1801. A Londra il poeta non ha biso-gno di acquistarne un’altra: può vedere le emendazioni e le chiose della Commedia di Lombardi in altre edizioni che le hanno ristampate o revisionate, come quelle di Poggiali o della Minerva.17 Anzi, quest’ultima edizione-archivio registra tutte le varianti della Nidobeatina «ori-ginale» del 1477-78 che sono riportate nelle chiose fo-scoliane.18 Forse m’inganno, ma non esistono prove che Foscolo abbia tangibilmente impiegato, a fini testuali o esegetici, la copia della Nidobeatina che dice di aver ac-quistato. La qualità del lavoro di qualunque filologo è vincolata dai materiali che ha a disposizione. Nel caso di Foscolo editore degli editori di Dante si rivela ancora una volta decisiva l’impossibilità di accedere con conti-nuità a una biblioteca “professionale” all’altezza delle sue esigenze.

Appunto perché il Foscolo inglese non sembra aver

accesso diretto e prolungato né alla Lombardina né alla Nidobeatina, risultano per lo meno azzardate due sue asserzioni formulate nella premessa Al lettore. Foscolo scrive che il termine Nidobeatina designa la Commedia pubblicata da Lombardi, e aggiunge di aver contaminato

16 EN XV, 164. Ulteriori ragguagli fornisce il Primo supplemento all’epistolario di Monti, 167-68.

17 EN IX, 1, 464 («Lombardi, e Poggiali, Ed. di Livorno»), 519 («Ediz. Padov. Vol. II»), 564 («Ediz. Pad., vol. I»).

18 Le chiose foscoliane a Inf. XII 21, XIV 126, XV 39, XXIX 132, XXXII 122, presuppongono la lettura della Minerva più che della Nidobeatina originale.

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per la sua edizione il testo della Crusca con quello di Lombardi: «dov’è citata la Volgata, e non la Nidobeati-na, o la Nidobeatina, e non la Volgata, significa che ho adottata la lezione di quella che è nominata».19 Il senso di queste parole va valutato in base alla seguente tabella comparativa, limitata per motivi di discrezione ai primi due canti dell’Inferno:

Inf. Nidobeatina Crusca Lombardi Foscolo

I 5 esta questa questa questa 6 rinuova rinnuova rinnuova rinnova 7 tantera tanto è tanto è tanta e 26 aretro ’ndietro ’ndietro indietro 41 mera m’era m’era m’eran 66 od ... od od ... od od ... od o ... o 69 amendui amendui amendui ambedui 80 spande spande spande spandi 84 mafatto m’han fatto m’han fatto m’han fatto 88 rivolsi volsi volsi volsi 93 desto lugo d’esto luogo d’esto loco d’esto loco 102 condoglia di doglia con doglia di doglia 103 costui questi questi questi 114 luogo luogo luogo loco 117 challa che la che la che a la 126 cittade città città città

II 1 laere l’aer l’aere l’aer 6 che non erra che non erra che non erra se non erra

19 EN IX, 1, 706. Un’altra, incondita, versione di questo passo in

EN IX, 2, 347: «non ricordarò d’ora innanzi se non le sole varianti che importando al senso del poema e alla mente dell’autore, ho sosti-tuito alla lezione dell’Accademia della Crusca, o del Padre Lombar-di».

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9 nobeltade nobilitate nobilitate nobilitate 21 emperio empireo empireo empireo 23 fu stabilito fur stabiliti fur stabiliti fur stabiliti 27 papale manto papale ammanto papal ammanto papale ammanto 30 alla via alla via alla via e via 41 lampresa la ’mpresa la ’mpresa la impresa 43 laparola tua la tua parola la tua parola la tua parola 50 chentesi ch’io ’ntesi che ’ntesi che intesi 52 intra tra intra tra 60 quantol mondo quanto ’l moto quanto ’l mondo quanto il moto 68 fa mestieri ha mestieri ha mestieri ha mestieri 86 rispuose rispose rispose rispose 98 bisogna abbisogna abbisogna abbisogna 100 nemica nimica nimica nimica 104 soccorri aquei soccorri quei soccorri quei soccorri quei 128 sol imbianca sol gl’imbianca sol gl’imbianca sol gl’imbianca

Nei limiti della ridotta campionatura sono possibili

alcune considerazioni. È illusoria l’equivalenza fra Ni-dobeatina «originale» e Commedia di Lombardi,20 il quale infatti riproduce circa un terzo delle lezioni del suo incunabolo preferito. Di conseguenza metà delle le-

20 Lo notava già Witte, Prolegomeni xxvi-xxvii. Il dantista tedesco

formulava un giudizio negativo sull’edizione foscoliana: «questa congerie inordinata di tante e tante varie lezioni sembra cosa di ben poca utilità. Le ragioni che determinarono la scelta del Foscolo [...] sono quasi sempre dedotte da argomenti secondarj, come sarebbe l’armonia del verso, l’eufonia, e cose simili; ma invano si cerca di stabili principj di critica, che, escludendone l’arbitrario, potessero dar certa legge alla scelta da farsi fra le lezioni» (Witte, Prolegomeni xliv). Questo giudizio è ribadito da Scartazzini 518. Ora però do-vrebbe esser chiaro che il Dante foscoliano, per quanto non immune dall’arbitrio (cfr. infra, pp. 140-41), d’altra parte non esclude il ri-corso a criteri quasi sempre coerenti, come la prosodia vocalica.

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zioni della Lombardina messe a testo da Foscolo di-scendono non dal Nidobeato, ma dalla Crusca. Non è mantenuta la promessa di ricorrere o alla Crusca o a Lombardi, l’una in alternativa all’altro, almeno per re-stituire il testo dei primi due canti dell’Inferno. Infatti i casi in cui Foscolo elegge una lezione della Crusca con-tro Lombardi (o viceversa) sono più o meno equivalenti a quelli in cui ricorre ad altri testimoni, l’Aldina, il Bar-toliniano, i «testi a penna» registrati sui margini della Crusca.21

Il divario fra l’apprezzamento della Nidobeatina e

l’uso che ne viene fatto condiziona la sezione CCVIII del Discorso, dedicata a Lombardi. Costui

opponendo fatti veri, perseveranza di metodo, e senso comune, redense il poema dalle imputazioni gesuiti-che, e dall’autorità conceduta sovr’esso alla critica del-la Crusca. Se non che, o non vedendo, o più veramente non potendo più in là, tenne le allusioni alla religione fra’ termini degli antichi. Non migliorò il modo usato d’esposizione, ma ne scemò la verbosità e sciolse nodi spesso intricati dagli altri. Era anzi temprato ad inten-dere che a sentire la poesia; o forse a non potere e-sprimere quant’ei sentiva. Scrive duro ed inelegante, per non dire plebeo; e non giureresti che fosse dotto [...]. La Nidobeatina gli era sorgente ricca, non sempre limpida, di emendazioni, e fu corrivo ad usarne. A me pare edizione ottima in questo, che la sua molta disso-miglianza dalle altre mi accerta più sempre che gli e-

21 Simone Invernizzi sta concludendo uno spoglio integrale

dell’Inferno foscoliano, allo scopo di accertarne i criteri di edizione in rapporto alla Nidobeatina e alla Lombardina.

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semplari primitivi essendo stati ricopiati sopra un au-tografo pieno di varianti, riuscivano diversi secondo il diverso giudizio de’ primi che lo compilavano per pubblicarlo. Le ristampe procacciate da nuovi filologi stanno, quale all’Accademia, e quale al Lombardi; non però tanto ch’essi non le raffrontino a’ loro codici. Se non che è da temere non la fretta e la gara si partori-scano la confusione dell’abbondanza: e s’altri aspira al merito d’accumulare la messe delle varie lezioni, tro-verà chi può superarlo; e non sì tosto il numero sarà innumerabile, allora diverrà inutilissimo. (EN IX, 1, 563-64) La sezione è rilevante per due aspetti, esegetico e te-

stuale. La conclusione cui giunge Foscolo, cioè che nes-sun editore riproduce meccanicamente il suo esemplare di base, anzi quasi sempre lo corregge ope ingenii o lo contamina con altri modelli, è stata validata dalle attuali ricerche sulle tradizioni a stampa.22 La vulgata della Crusca e la Lombardina sarebbero le edizioni più anti-che normalmente assunte a base delle successive. Ora Foscolo esclude che la Lombardina sia un fattore per-turbante nella tradizione testuale del poema, al pari delle edizioni di Dionisi e di Mussi, come sostenevano i Frammenti fiorentini; pensa piuttosto, in sintonia con l’esperienza avviata e subito interrotta a Firenze a inizio secolo, che il testo approntato da Lombardi possa con-

22 Mecca, La tradizione: gli incunaboli 34. Potrebbe esser genera-

lizzata un’osservazione che Giuseppe Frasso ha formulato sul Convi-to degli “Editori milanesi”, ossia che, in assenza di una sistematica recensio scientifica, l’emendatio ope codicum viene condotta con criteri non diversi dalla emendatio ope ingenii (Frasso, Pietro Maz-zucchelli 340).

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tribuire a emendare la Commedia, anche se non ribadi-sce – o almeno così sembra – l’equivalenza, affermata nella premessa Al lettore, tra Lombardina e vulgata quanto a importanza testuale.

Non è chiaro, però, se e come l’asserita eccellenza della Lombardina influisca sulla constitutio textus dell’edizione foscoliana. Per stabilirlo, almeno in prima approssimazione, basterà confrontare le varianti ritenute genuine da Lombardi ed elencate canto per canto alla fine di ciascun tomo della sua edizione, con quelle pro-mosse a testo da Foscolo. Su cento luoghi circa emenda-ti da Lombardi, corrispondenti ai primi cinque canti dell’Inferno,23 Foscolo ne ripresenta più o meno una sessantina. Non sorprende che il principale criterio di scelta in comune sia la preferenza per le forme piene, spesso in sinalefe, con effetti di legato. Il restauro della base vocalica della Commedia comporta dunque io, guardai, perdei, anziché i’, guarda’, perde’, e così via. Malgrado Foscolo lo accusi del contrario, Lombardi è consapevole del fatto che «io ed altre parole servono a Dante a far piedi di sole vocali»,24 benché il francescano non applichi questo principio con la stessa inflessibilità di Foscolo.25

Esaminiamo ora la sezione CCVIII del Discorso dal punto di vista esegetico. Foscolo è consapevole che la Lombardina, frutto di una lunghissima consuetudine con

23 Lombardi, Commedia I 491-92. 24 EN IX, 2, 151. 25 Scrive infatti Lombardi «lascia ’ndar» (Inf. XV 33), e «Lo ’mpe-

rador» (Inf. XXXIV 28), in base al principio della Crusca di adegua-re la grafia alla pronuncia, con conseguente raddoppiamento fono-sintattico di rendelle (Inf. XIV 3).

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l’opera del poeta, rappresenta una svolta e un vertice. Nella Serie di edizioni la Commedia curata da Lombardi apre la quarta e ultima età delle edizioni del poema; nel Discorso, grazie a questo passo, collocato subito dopo la sezione su Dionisi, chiude la breve storia della textual bibliography dantesca. Come nel passo su Dionisi, pure in questo Foscolo riprende e sviluppa alcuni giudizi già espressi sulla rivista di Edimburgo, ovvero l’eccessiva fedeltà di Lombardi alla Nidobeatina (in realtà indimo-strata, come si è visto), e la contrapposizione fra la sua esegesi e la lettura confessionale di Dante da parte dei Gesuiti, in particolare di padre Pompeo Venturi. Secon-do Foscolo il commento di questo «gesuita ignorantis-simamente sfacciato» ha incontrato grande e immeritata diffusione, perché è stato adottato come libro di testo nelle scuole gestite dai suoi confratelli.26 Lombardi pro-scioglie Dante dalle «imputazioni gesuitiche» sul piano poetico e dottrinale, ma rimane comunque rispettoso dell’autorità religiosa. Nella Serie di edizioni Foscolo infatti ribadisce che il francescano «non solo dissimula le dottrine del poema contro alla Chiesa; ma talor le di-svia dal loro manifesto significato».27 Ad esempio nella chiosa a Inf. VII 47-48, «Papi, e Cardinali, / in cui usa avarizia il suo soperchio», Lombardi preferisce il passa-to remoto usò per allontanare il sospetto che il rimpro-vero di Dante ai religiosi sia ancora attuale, mentre Fo-scolo si attiene al presente usa indicato dalla maggio-ranza dei testimoni.28

26 EN IX, 2, xxvi, 167, 365. Su Venturi, cfr. Marzo. 27 EN IX, 2, 291. 28 Si rilegga anche EN IX, 1, 519: a margine di Purg. XXXIII 36,

«che vendetta di Dio non teme suppe», Lombardi allega l’apocrifo

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La censura principale che Foscolo rivolge a Lombar-di, a parte le sue comprensibili inclinazioni filopapali, riguarda lo stile espositivo, sia per la qualità della scrit-tura, da Foscolo ritenuta trasandata,29 sia innanzitutto per i limiti della forma commento in sé. Il problema è che Lombardi «ragiona quasi sempre vigorosissimo, ma non cita felicemente»; lo danneggia il fatto di aver ela-borato un commento intessuto di «argomenti dispersi, e quasi appiattati qua e là nelle chiose». Gli stessi Volpi e Poggiali stendono note troppo brevi, mentre sarebbe ne-cessario un «narrative commentary» più strutturato. Il Discorso stesso «avrebbe dovuto essere narrativo», ammette Foscolo, ma è diventato «polemico» per cor-reggere gli errori su Dante: un esito scontato, visto che negli studi danteschi sono state avanzate quasi tutte le tesi possibili, tanto che l’assunzione di qualunque punto di vista rischia sempre di sembrare polemica, anche in modo preterintenzionale.30

Credo di Dante per allontanare dal poeta ogni sospetto di eterodossia (suppe allude all’eucarestia?).

29 L’unico chiarimento indiretto a questa accusa, ripetuta dal primo articolo edimburghese (EN IX, 1, 28), si trova nei Frammenti labro-nici: per spiegare «ch’egli approda», Lombardi scrive: «come se det-to fosse Che approda egli, che arriva egli di nuovo». Foscolo com-menta: «Questo è, temo, uno degli indizj parecchi del suo [di Lom-bardi] poco scrivere ne’ modi propri all’idioma» (EN IX, 2, 354).

30 EN IX, 1, 28 (Edinburgh Review), 313 (Discorso), 707 (Al letto-re). Sui limiti statutari della forma commento, incompatibile con una esposizione continuata, era intervenuto, con accenti singolarmente simili a quelli foscoliani, Witte, Ueber das Missverständniss 44: «Allerdings ist die bisher angedeutete Behandlung mit der Form ei-nes Commentars unvereinbar, und nothwendig muss die letzte eine zerstreute und gelegentliche Erzählung zusammengehöriger Bege-benheiten herbeiführen».

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L’accostamento degli ultimi brani permette di appro-fondire le ragioni della riluttanza di Foscolo a presentar-si nelle vesti di commentatore dantesco. Introspezione simpatetica, occhio filosofico, accordo fra storia e poe-sia: a detta di Foscolo le qualità indispensabili per un più pieno possesso della Commedia sono ignote ai commentatori del suo tempo. Perciò, sin dal suo esordio come dantista sulla rivista di Edimburgo, Foscolo ambi-va a fornire un «new method» di commentare Dante.31 A quanto pare tale metodo prevedeva che le note slega-te, di per sé insufficienti, si coagulassero in interventi di più largo respiro, secondo un’impostazione di tipo sag-gistico già sperimentata nelle chiose alla Chioma di Be-renice. Il commento non può far altro che accompagna-re linearmente il testo, annotandolo punto per punto nel suo sviluppo sintagmatico, senza quell’autonomia di movimento concessa invece al saggio, in quanto rico-struzione paradigmatica del senso complessivo di un’opera. In questa tipologia rientrano a pieno titolo i «discorsi preliminari» al poema secondo il primitivo ac-cordo con Pickering, oppure le numerose e spesso in-complete postille supplementari cui Foscolo allude nel commento all’Inferno.32 Non sarebbe allora del tutto avventato supporre che lo stallo del Dante foscoliano,

31 EN IX, 1, 2. 32 L’apparato supplementare progettato da Foscolo prevedeva «di-

scorsi» o «osservazioni» di vario tipo e natura, relativi a porzioni testuali diverse (dal singolo verso al canto, dalla cantica all’intero poema) e a diverse questioni (i personaggi, la lingua, l’architettura del poema...). Resta il fatto che l’unico discorso concluso da Foscolo riguarda il testo della Commedia, e che di tipo prevalentemente te-stuale sono anche le note all’edizione, a conferma della natura pre-liminare dell’indagine filologica secondo Foscolo.

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fermo alla prima cantica, fu dovuto non (o non solo) a una crisi d’incompiutezza, ma altresì (se non soprattut-to) a un’indecisione di struttura. Se Foscolo, come vole-va,33 fosse tornato a lavorare all’edizione dantesca, a-vrebbe applicato questo nuovo metodo? E l’avrebbe poi esteso a Omero? Le domande sono legittime, le risposte del tutto incerte.

È indiscutibile invece che, qualunque fosse il com-

mento che aveva in mente, nella Lombardina Foscolo ammirava, se non un «nuovo» metodo, certo la sua «perseveranza», insieme ai «fatti veri» e al «senso co-mune». Il sintagma «fatti veri», a prima vista anodino, travalica il suo significato letterale, e anzi contribuisce a spiegare il circolo ermeneutico fra Vico e Muratori di cui si è parlato nel terzo capitolo, dedicato a Biagioli. Foscolo si attiene a un procedimento euristico scandito in tre fasi: prima la raccolta dei fatti, siano essi bio-bibliografici, linguistici, storici («l’ajuto migliore [...] consiste [...] nell’osservare i fatti reali, che il poeta a-dornò d’illusioni»);34 poi la verifica della loro pertinen-za e veridicità («l’eterna onnipotente natura del vero» alla quale sono sottoposte persino le «minuzie» della prosodia vocalica); infine l’inquadramento in un supe-riore assetto argomentativo.35

33 Foscolo, OEP VIII 259: «s’io non morrò, l’edizione un dì o l’altro uscirà com’io avevala disegnata»: è uno stralcio dell’ultima lettera a Biagioli già commentata.

34 EN IX, 1, 703. 35 L’articolazione del procedimento è chiarita dalla seconda carta

dei Frammenti fiorentini: «la scienza de’ fatti è la meno incerta di tutte, anzi è la sola scienza; ma se non ragionando sovr’essi non si ricavano vere ed utili conseguenze, è scienza infecondissima e ap-

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Tale assetto è spesso di tipo cronologico. La prolu-sione pavese spiega che «la scienza dei tempi ordinò la scienza de’ fatti»,36 ossia che l’osservazione del cielo, delle stagioni, del moto degli astri, dell’alternanza gior-no-notte, consentì ai primi uomini di calendarizzare i “fatti” in cicli cronologici che si ripetono uguali. Ciò si-gnifica che tali fatti acquistano valore e interesse a con-dizione che siano collocati in una sequenza temporale plausibile. Sopravvalutare la date è però altrettanto dan-noso che non curarsene affatto. Si legge nel Discorso dantesco che «le date ove importano veracemente, s’hanno da temere con religione; sono ostinate, imper-territe, onnipotenti; ti rovesciano ogni ragionamento, e ti vietano di rispondere».37

Qualunque riscontro voglia compiere la mente uma-na, la cronologia lo fonda e lo condiziona. È per questo che l’introduzione alla Scienza nuova si chiude con una Tavola cronologica. Vico illustra i vari tipi di «fatti» che vi sono riportati, e più avanti auspica di ridurli «a princìpi di scienza». In tal modo la sua «scienza vien ad essere ad un fiato una storia dell'idee, costumi, e fatti del gener umano».38 Vico non allinea notizie d’archivio, non si limita a una concatenazione di eventi disposti su un asse di tempo lineare, ma persegue una «scienza dei

partenente alla metodica fredda memoria» (EN IX, 2, 362). «Dei dati che Lei reperisce» – chiedeva Contini a Jakobson – «quali possono essere considerati significativi, “pertinenti” nel senso tecnico della parola, e quali invece accidentali? Questi ovviamente non sono reali, non sono fatti» (cit. in Avalle, L’analisi letteraria 227).

36 EN VII, 12. 37 EN IX, 1, 355-56. 38 Vico, Scienza nuova I 43 (i vari tipi di fatti), 85 («li ridurremo a’

Principj DI SCIENZA»), II 7 (la scienza dei fatti).

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fatti», identifica gli eventi autentici nella loro portata gnoseologica che rimane inaccessibile alla pratica anna-listica di stampo muratoriano. Supporta questo proce-dimento euristico una vocazione antimetafisica che non è difficile rinvenire negli studi danteschi di Foscolo. Chi non si accontentasse dei fatti sottoponibili a un processo di verifica positiva, ma li cercasse negli arcani della teo-logia, sostiene Foscolo, non soltanto non troverebbe la verità, ma in più «adunerebbe sofismi nuovi, errori anti-chissimi, e noja sovra ogni pagina».39

Il già menzionato Vittorio Cian per primo intuì che la «scienza dei fatti» è la chiave di volta del Discorso e dell’intera attività del Foscolo erudito.40 Questi più volte dichiara di aderire al paradigma dell’erudizione sette-centesca, «perché le ragioni efficaci in tutte le cose, e più nelle lingue, emergono solamente da’ fatti».41 Le pagine precedenti hanno segnalato numerosi esempi di fatti inquadrati in un assetto argomentativo superiore, perfino quando essi, a rigor di logica, o non sono “veri” (Francesca da Rimini figlia di Guido Novello), o condu-cono a una iper-interpretazione forzata (l’incompiutezza del poema). Le sezioni che il Discorso dedica a Can-grande della Scala forniscono però l’esempio di «ragio-namento» sui fatti più trasparente, nel senso di più spe-ditamente razionalizzabile. A conforto dell’esilio, Cac-ciaguida nel canto XVII del Paradiso predice a Dante la

39 EN IX, 1, 403: è la critica rivolta all’Edizione dell’Ancora. 40 L’articolo di Cian, Ugo Foscolo erudito, risente della tesi di De

Sanctis, poi ripresa da Fubini, per cui Foscolo sarebbe un epigono del Settecento, tesi oppugnata da un allievo dello stesso Cian, C. Dionisotti, Foscolo esule 62-63.

41 EN X, 303.

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generosità e la cortesia di due Scaligeri, il primo (il «gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccel-lo») identificato dai più in Bartolomeo, dai meno in Al-boino, il secondo all’unanimità in Cangrande. Lungo tutta la sua carriera di dantista Dionisi sostiene un’ ipo-tesi rivoluzionaria: in questi versi Dante parla di un solo Scaligero, Cangrande, da considerare quindi il primo e unico ospite veronese del poeta.42 Troppo lungo sarebbe ripercorrere le argomentazioni del canonico, che spazia-no dall’araldica (lo stemma degli Scaligeri non portò l’aquila imperiale se non dopo che Cangrande divenne vicario imperiale) alla filologia (l’emendazione di Par. XVII 76 in «colui vedrai, colui»).43 Ai fini del nostro discorso è sufficiente ricordare per quale ragione Dioni-si esclude che il «gran Lombardo» sia Bartolomeo. L’identificazione proposta da Pietro Alighieri è per Dionisi l’ennesima prova che quel commento è apocri-fo. Secondo la biografia di Leonardo Bruni, Dante nel luglio del 1304 partecipa al fallito tentativo di alcuni fuoriusciti di rientrare a Firenze, e soltanto in seguito cerca ospitalità a Verona, dove non poteva accoglierlo Bartolomeo, morto a maggio.44

Gli Aneddoti dionisiani confermano quindi la loro funzione di repertorio di fatti storico-biografici offerti

42 Mazzoni, Dante a Verona 83. 43 Una simile lezione, scrive Foscolo, «manomette la poesia, la sto-

ria, e la logica di quel passo» (EN IX, 1, 269). Sembra una risposta dissimulata alle parole di Dionisi: «né Cacciaguida, né la storia, né la ragion vuole, che quegli [Bartolomeo] sia stato il primo albergatore di Dante» (Preparazione II 125).

44 Dionisi, Aneddoto II 19-20. Indizio 224 dubita che Pietro sia at-tendibile riguardo a Bartolomeo. Sulla cosiddetta battaglia della La-stra e sulla testimonianza di Bruni, è da vedere Tavoni.

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all’occhio filosofico foscoliano. Come già accaduto per l’allegoria del proemio, la verifica di quei fatti è affidata alla Lombardina, che, nel commento a Par. XVII, rove-scia punto per punto la dimostrazione di Dionisi: Pietro Alighieri è attendibile, mentre Lombardi sospetta «che falli Lionardo Aretino nella vita di Dante a credere che si trovasse il Poeta insieme cogli altri Bianchi esuli».45 Proprio perché il Discorso foscoliano ha cominciato a sgombrare le «favole» accumulatesi nei secoli sulla Commedia, Michele Barbi, in implicita polemica con Carducci apologeta di Dionisi, reputa Foscolo «uno dei più geniali restauratori della critica letteraria».46 È un’arte critica che non si limita a catalogare e descrive-re, ma interpreta e categorizza. Infatti il superiore asset-to argomentativo entro cui sono inquadrati i «fatti veri» dell’esilio dantesco è una lettura alfieriana dell’episodio di Cangrande, che mira a storicizzare l’autonomia etica del letterato di fronte al potere politico, secondo l’ ana-logia indicata da Carpi, per cui Dante sta a Cangrande come Foscolo a Napoleone.47

45 Lombardi, Commedia III 264. 46 Barbi, Dopo dieci anni 18; di contro Carducci considera Dionisi

«instauratore d’una critica nuova su le opere del poeta, in somma tutt’altro che degno del ridicolo onde lo perseguitò il Foscolo» (265).

47 Nell’ambito di una rigorosa riconsiderazione dell’approccio sto-ricistico di Foscolo («che gli consentì di cogliere meglio di chiunque altro come la storicità della Commedia sia la storicità del suo propor-si quale visione tutta intessuta di materia storica»), Carpi ha rilevato che della «questione del rapporto con gli Scaligeri» Foscolo «ha compreso tutta la crucialità, l’interna problematicità e contradditto-rietà, con una scansione dei tempi danteschi sostanzialmente giusta» (Carpi, La nobiltà 19 e 266-67).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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I «fatti veri» riscontrati grazie alla Lombardina «per via d’induzione»48 sono il perno attorno a cui ruota il discorso critico di Foscolo nei suoi rapporti con i com-mentatori, Dionisi certo, ma altresì Biagioli (dai cui at-tacchi Foscolo difende Lombardi) e, come vedremo, Quirico Viviani. Sembrerebbe allora che il ruolo di Lombardi si giochi più sul piano esegetico che su quello testuale. Foscolo ha cominciato a pensare di dover e-mendare la vulgata della Commedia dopo aver letto la Lombardina. L’asserto che essa segna una svolta nella storia della Commedia perché avvia una fase di maggio-re libertà emendatoria,49 è dunque la generalizzazione di un accidente biografico, che Foscolo cerca di oggettiva-re in termini logici. Tuttavia, se si allineano le testimo-nianze raccolte alla ricerca di un filo logico, resiste ai tentativi di razionalizzazione il rapporto tra vulgata e Lombardina, quelle che Foscolo definisce le «edizioni maestre» del poema. Da un lato Foscolo dichiara di aver contaminato per la sua edizione la vulgata con la Lom-bardina, dall’altro la Lombardina contribuisce all’ anar-chia testuale della Commedia, a cui mette freno il ricor-so alla vulgata. Le postille ai margini di un esemplare delle Correctiones di Perazzini, di recente portato alla luce, suggeriscono che persino gli agguerritissimi danti-sti veronesi, alle prese con il superamento della vulgata, non riescono a evitare incertezze e contraddizioni.50

48 EN IX, 1, 311. 49 EN IX, 1, 562. 50 Mazzoni, Si quid me judice 203-05.

CAPITOLO SESTO

LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI: LA VULGATA COME TESTO-BASE

DELL’EDIZIONE FOSCOLIANA

Foscolo nega l’intangibilità della vulgata, ma nel contempo ritiene che, in ossequio più alla sua presunta stabilità testuale che al suo prestigio storico, essa, pur emendata, vada posta alla base di qualsiasi tentativo di edizione che oggi si direbbe critica.1 Il problema è che il commento all’Inferno identifica la vulgata non con un testo, il «common text» di Warburton, bensì con una tradizione di testi, momenti successivi di una linea di sviluppo.

Per Foscolo la vulgata fondante, costitutiva dell’identità testuale a prescindere dalla fedeltà alle ef-fettive scelte dell’autore,2 è l’edizione della Crusca, di-scendente recta via dall’Aldina di Bembo. È stato dimo-strato che la Crusca «innesta sul tronco della vulgata bembiana una serie di correzioni decisamente estempo-

1 Diversa l’interpretazione di Timpanaro, Sul Foscolo filologo 115-17, perché basata sulla Chioma di Berenice e non sul commento dan-tesco.

2 Riprendo la terminologia proposta da Zaccarello 236.

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ranee e scelte ad sensum, in base cioè alla chiosa, pre-levate da un gran numero di manoscritti»3 e di stampe. Secondo Foscolo l’allargamento del testimoniale a ope-ra degli Accademici non riscatta la scarsa qualità tipo-grafica della loro edizione, sfigurata dai circa duecento errori introdotti dallo stampatore Domenico Manzani.4

Risultato di un consapevole rimaneggiamento dei materiali tràditi dalla Crusca è la Cominiana di Volpi, la vulgata filtro, l’unica Commedia presente nelle tre liste di libri appartenuti a Foscolo, che grazie a Biagioli ne potrà consultare una anche negli anni inglesi. Sulla vul-gata filtro Foscolo formula giudizi contraddittori: è in-certo cioè se la correzione dei duecento errori tipografici per mano di Volpi basti a differenziare nettamente la sua Cominiana dalla Crusca.5

La vulgata di riferimento, traguardo e sintesi del per-corso testuale, è rappresentata piuttosto dall’edizione livornese, curata in quattro tomi dal bibliofilo Gaetano Poggiali. Nella sua ricca biblioteca egli possedeva un codice trecentesco miniato della Commedia, oggi Pala-tino 313 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, noto appunto come «Dante Poggiali» e latore delle co-

3 Mecca, La tradizione: dall’Aldina 58. 4 EN IX, 1, 556-57. Nella nota a Inf. XII 107 Foscolo conta non

duecento, ma seicento errori, e più avanti ne attribuisce la colpa al segretario dell’Accademia Bastiano De’ Rossi. Questa accusa tutta-via viene formulata nella chiosa a Inf. XXVII 41, relativa a una le-zione («là si cova») introdotta da Poggiali, non dalla Crusca.

5 EN IX, 2, 52 («La Cominiana [...] rappresenta a un di presso l’esemplare pubblicato dall’Accademia della Crusca») da contrap-porre a EN IX, 2, 362 («Questa edizione [...] non è più quella dell’Accademia»).

LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI

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siddette Chiose palatine. In un primo tempo Poggiali aveva pensato di pubblicare quel codice, ma in seguito si era attenuto al criterio abituale delle tradizioni a stampa, se n’era servito cioè allo scopo di emendare la vulgata.6

Della curatela dantesca di Poggiali Foscolo ha avuto

notizia precoce, pur senza nutrire speciali aspettative sul risultato: «stiamo a vedere l’esposizione del Poggiali ch’io aveva udito preconizzare da molti anni addietro: ma tal lampada splende in camera, e si spegne in piaz-za».7 Così scrive Foscolo, il 26 luglio 1807, all’amico corfiota Stelio Doria Prosalendi, che l’ha informato dell’uscita dell’edizione Poggiali e gliene ha trascritte delle varianti. Risponde Foscolo che soltanto «alcune» gli paiono «belle assai», mentre altre si limitano ad aval-lare i restauri di Lombardi e Dionisi.8

I tempi per un giudizio più meditato sono maturi qualche anno più tardi, nel 1813, allorché a Firenze Fo-

6 Scrive Carl Ludwig Fernow, a sua volta futuro editore dantesco,

in visita a Poggiali nel 1803: «he besides possesses a considerable collection of manuscripts [...]; among these, he showed me, as the most precious article in the collection, a manuscript copy of Dante, on parchment, which he considers as one of the most ancient, and probably contemporary with the author. Poggiali has a design of printing this work, which contains a great number of passages that vary considerably from the ordinary versions, and would clear up many obscurities in Dante, together with the marginal commentary with which it is accompanied» (Fernow 483). Si rimanda a Abardo per la recente edizione di questo «commentary». Sull’edizione di Poggiali è esauriente Corrado, Poggiali.

7 EN XV, 249. 8 EN XV, 259.

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scolo entra in possesso di un esemplare dell’edizione Poggiali. Un altro tomo gli viene consegnato nel no-vembre dello stesso anno dal libraio fiorentino Giuseppe Molini, con l’invito a corrispondere dieci paoli di prez-zo.9 La passione per Dante si riaccende dopo un periodo di appannamento («quant’è ch’io non lo leggo!»),10 e l’impegno di postillatore sembra riprendere laddove s’era fermato. L’Inferno dell’esemplare Ciccarelli è an-notato fino al canto XIII; le postille autografe imprezio-siscono i vivagni della Livornese comprata a Firenze dal canto XVI sino al XXX della prima cantica. Tali postil-le, nel primo come nel secondo caso, non vanno oltre una epidermica revisione del testo: «alcune [sono] di lieve momento, perché unicamente volte a rigettare pa-recchi fiorentinismi pretti [...]; altre [...] di maggior ri-lievo, come quelle che propongono emendamenti di fi-lologia, o di storia, o di maggior poetica eleganza».11 Il primo tomo della Livornese comprata a Firenze conte-

9 EN XVII, 421. Un prezzo equo, visto che l’opera completa era

messa in vendita dai librai fiorentini a un costo compreso fra 40 e 50 paoli: cfr. Colomb De Batines I 129.

10 EN XVI, 160. 11 Orlandini 45 (è la prima edizione delle postille, che oggi si leg-

gono in EN IX, 2, xxii-xxviii). Quando lavora in Inghilterra fino al 1827 sul secondo esemplare della Livornese, Foscolo non ha dimen-ticato le postille apposte al primo, posseduto a Firenze nel 1813: cer-to non le ha più sottomano, e quindi non può trascrivere osservazioni che gli sarebbero tornate utili. La continuità è però innegabile. Nel 1813 alla vulgata «famiglia» di Inf. XXII 52, preferisce «famiglio», «benché famiglia sia più virgiliano e dantesco ponendo il tutto per la parte». Questo dubbio induce il Foscolo inglese a tornare alla vulga-ta, con simile motivazione: «il nome collettivo non nuoce all’ inten-dimento, e giova alla novità e vaghezza della dizione».

LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI

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neva annotazioni più lunghe (un «discorso» sul canto decimo e su Guido Cavalcanti), affidate però a interfogli volanti e perciò smarrite12.

Oltre alla Livornese, nell’elenco di libri posseduti da Foscolo a Firenze compaiono due opere d’interesse dan-tesco acquistate nel 1813. La prima è un rimario della Commedia, quasi certamente quello di Niccolò Carli, comperato presso un altro libraio di Firenze, Guglielmo Piatti;13 la seconda è la parafrasi in prosa del poema rea-lizzata fino a Inf. XVII dall’amico Ferdinando Arriva-bene e ricevuta da Foscolo prima del 29 maggio 1813.14 Il soggiorno fiorentino del 1813 segna dunque per un verso un salto di qualità nella conoscenza da parte di Foscolo delle più recenti edizioni dantesche, per un altro l’avvio di una prima embrionale riflessione sulla ripro-ponibilità di certe soluzioni editoriali. Non è difficile provare che i volumi danteschi acquistati o ricevuti nel 1813 (la Livornese di Poggiali, il rimario di Carli, la pa-rafrasi di Arrivabene), lasciano una traccia nell’attività del Foscolo critico ed editore della Commedia durante il

12 Del discorso su Inf. X collocato nel primo tomo della Livornese Foscolo parla in una postilla alle Rime di Cavalcanti datata 16 luglio 1813 (EN VIII, 377). Se quel discorso coincidesse con le «illustra-zioni» al medesimo canto a cui allude EN IX, 1, 419 n. c, sarebbe confermata la continuità ipotizzata dalla nota precedente.

13 Scrive F.S. Fabre: «J'ai payé à Piatti le petit compte que vous m'aviez laissé: mais il réclame le payement des livres suivants, qu'il dit que vous avez oubliés [...]; Dante, il rimario, Lire 2, 0, 0» (EN XVIII, 12): si tratta presumibilmente di Dante, Rimario, ristampa di quello di Volpi del 1726.

14 EN XVII, 267: «ringraziate l’Arrivabene del suo Dante [cfr. Ar-rivabene, Commedia] a cui si deve dare più lodi che biasimo».

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periodo inglese. Intanto l’edizione foscoliana è priva di rimario, le cui funzioni, in primis la più agevole indivi-duazione di un luogo dantesco a partire da un singolo verso, Foscolo attribuisce piuttosto alle concordanze.15 Inoltre la proposta di curare una parafrasi in prosa della Commedia, rivoltagli nel 1824 da un non meglio identi-ficato signor Hants,16 non ha séguito, non soltanto per-ché Arrivabene aveva già realizzato lo stesso progetto, ma anche perché le postille del 1813 alla Livornese atte-stano un proposito di lavoro di ben altro respiro.

Ciò che resta di questi materiali è ripartito fra tre nu-

clei documentari di valore diseguale. Alla Labronica c’è il testo della Livornese postillato da Foscolo, una copia di servizio in tre tomi, non in due come nell’originale del 1806-1807, perché sono state aggiunte carte bianche prima di ogni cantica e tra un canto e l’altro, appunto per permettere l’inserimento delle postille.17 Alla Maru-celliana è conservato il quarto tomo della Livornese in-viato dal libraio Molini, privo della coperta originale, con carte dai margini non rifilati e di dimensioni varie, senza segni distintivi oltre al bollo di possesso della bi-blioteca e al timbro «legato Martelli», entrambi presenti sul frontespizio.18 C’è da chiedersi se Foscolo ebbe mai

15 EN IX, 2, 300-01. 16 EN XXII, 366-68. 17 Sul dorso di ciascuno dei tre tomi si legge Dante / Inferno [Pur-

gatorio - Paradiso] / e postille di Ugo Foscolo, segn. 851.66 0 37. Cfr. Nicoletti, Mostra 39.

18 Devo queste notizie alla cortesia della dott.ssa Silvia Fusco della Marucelliana di Firenze (comunicazione via mail del 17 aprile 2014). Cfr. Nicoletti, La biblioteca 47-48.

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effettivamente tra le mani quel quarto tomo, visto che, ancora all’altezza del 1818, nel primo articolo edimbur-ghese, dichiara di ignorare se davvero esso avesse visto la luce; il Discorso del 1825, al contrario, ne riporta in nota alcuni stralci. Evidentemente in quel lasso di tempo Foscolo aveva preso visione di una copia completa della Livornese, senza però mai possedere i volumi di chiose. Questi infatti risultano assenti dalla cosiddetta “cassetta foscoliana” della Pinacoteca di Varallo Sesia, presso la Società di incoraggiamento allo studio del disegno e di conservazione delle opere d’arte in Valsesia. La copia della Livornese ivi contenuta insieme ad altri materiali assume un’importanza fondamentale ai nostri fini, per-ché è l’esemplare di collazione del Dante foscoliano.

Sul coperchio della cassetta lignea di Varallo, oltre alla vecchia segnatura D.4.3.1, si legge: «MANOSCRITTI / FOSCOLIANI / Dono al Museo Calderini / del Prof. G. Frascotti di Borgosesia». Intorno al 1880 Gaudenzio Frascotti, insegnante di Latino e Greco, donò al museo di Varallo i manoscritti foscoliani che aveva acquistato da Luigi Rolandi, pronipote ed erede di Pietro, l’editore della princeps mazziniana del 1842-43.19 Nel 1920 Giu-lio Romerio, allora direttore del museo Calderini, rior-dinò il contenuto della cassetta in dodici unità archivi-stiche.20 Questa catalogazione non ha del tutto cancella-to le tracce di quella originaria, che doveva essere ben

19 Federici 116 n. 25. 20 La classificazione di Romerio si legge nei suoi articoli, presenti

nella cassetta di Varallo. Ripetono quella classificazione Petrocchi, EN IX, 2, xix-xxi, e Federici. Cfr. infine Bocchi, Mazzini e il com-mento, e Gazzola.

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più analitica, visto che i canti finali del Paradiso sono tuttora raggruppati in un fascicolo siglato col numero 49. L’unità archivistica più significativa, malamente compattata da pezzi di nastro adesivo, è la prima, le pa-gine 1-249 del primo tomo della Livornese, corrispon-denti all’Inferno. Esso in origine è stato ora sfascicolato, ora scompaginato, sia per agevolare le emendazioni, sia per rimuovere le sezioni paratestuali, risalenti a Poggiali stesso o addirittura alla Crusca, non riproposte dal Dan-te foscoliano.

Sulle pagine del suo exemplar eletto a modello Fo-scolo è solito intervenire in questo modo: sul margine destro numera i versi di tre in tre (Poggiali l’aveva fatto di dieci in dieci); a piè di pagina depenna le pochissime varianti della Livornese; all’interno del testo ritocca la punteggiatura, introduce le «minuzie necessarie» della prosodia vocalica, compie emendazioni di maggior im-pegno. Soprattutto queste ultime sono motivate da un massiccio apparato negativo di chiose manoscritte, au-tografe o apografe, riportate – in una grafia minuta ma quasi sempre intelligibile – su fogli di carta a volte fili-granata (si riconoscono il nome e la sede del più grande cartaio inglese, James Whatman di Turkey Mill, oltre alle date 1824 e 1825). Per il Purgatorio e per il Paradi-so Foscolo si sarebbe limitato ad appiccicare al testo di Poggiali liste di carta bianche, senza compilarle con le semplici varianti che pure ha promesso.21 Per l’Inferno, al contrario, le carte di chiose – intitolate appunto Va-

21 Lo testimonia Mazzini nelle sue Note autobiografiche (1863), cit. in EN IX, 2, xv. Delle varianti di Purgatorio e Paradiso Foscolo parla nella premessa Al lettore: EN IX, 1, 706.

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rianti – di solito presentano in alto a destra la stessa numerazione delle pagine della Livornese a cui si riferi-scono.

Per far fronte all’accumulo di chiose, Foscolo suole allineare più fogli, uno sotto l’altro, sino a formare un lungo cartiglio rettangolare, poi più volte ripiegato su se stesso e applicato al margine basso della pagina chiosata (o, meno spesso, semplicemente interfogliato). Anche tra le carte della Labronica, un tempo depositate nella cosiddetta “cassetta Mazzini”, figurano apografi lunghi e stretti, composti da ritagli incollati fra loro in vertica-le. La cassetta di Varallo accentua queste caratteristiche. Ad esempio la prima facciata del Dante di Varallo è un rettangolo di circa 12 x 86 cm, formato da sei pezzi in-collati e ripiegati, rispetto ai quali il testo della Livorne-se (Inf. I 1-9), dai margini a brandelli, occupa la porzio-ne superiore, assai limitata e tormentosamente ricorretta, che spunta al di sopra della siepe delle chiose mano-scritte. Ancor più in alto due fogli incollati riportano il titolo dell’opera (in perpendicolare l’avviso rivolto allo stampatore «this to be printed in black letters»), e l’indicazione «cantica Prima / Inferno». A destra del settimo verso si distende verso l’esterno una paperole ripiegabile di circa 10 x 3 cm, che riporta un altro pro-memoria autografo per lo stampatore: «to avoid mi-sprints, the line 7th reading Tanta e amara che poco è più morte».22

22 Simili avvertenze in inglese rivolte al tipografo non sono infre-quenti. A Inf. XXIII 57, si legge «to prevent confusion and mi-sprints, the line is to be printed [sostituisce il precedente read, can-cellato] thus: Potere indi partirsi a tutti tolle; 59 che giano attorno

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Resta da spiegare per quale motivo tra i manoscritti di Varallo manchino il terzo e il quarto tomo dell’ edi-zione livornese, quelli cioè che contengono gli apparati esegetici. Evidentemente questi risultano poco interes-santi agli occhi di Foscolo, poiché, a dispetto delle pro-messe di Poggiali, altro non sono che una semplice pa-rafrasi delle note di Lombardi. Al massimo Poggiali ha fornito isolati e non originali spunti di riflessione, che Foscolo ha saputo sviluppare in modo autonomo.

Due esempi al proposito riguardano la lunghezza complessiva della Commedia e gli argomenti introdutti-vi ai singoli canti. Si è già detto che Foscolo numera le terzine dell’esemplare di Varallo. Questa operazione è meno meccanica di quel che sembri. Appunto perché per primo segna con un numero progressivo i versi della Commedia, Volpi nella Cominiana ha maturato una convinzione poi rilanciata da Poggiali, ossia che le tre cantiche abbiano più o meno la stessa lunghezza. Il Di-scorso osserva che tale particolarità riguarda pure i sin-goli canti. Se avesse avuto più spazio alla fine del Pur-

assai con lenti passi». Le varianti sui margini dell’edizione Poggiali sono talvolta accompagnate da thus. Sul frontespizio manoscritto della prima cantica Foscolo ha scritto: «(here the Latin motto as in the first volume)»; sul frontespizio manoscritto della seconda canti-ca: «Like the other title pages, with the only exception of the number of the volume [...]»; nella cronologia di avvenimenti è indicata la parola poetry accanto ai versi appunto in poesia, da stampare in di-verso carattere. I promemoria autografi per lo stampatore spesseg-giano anche sui margini degli autografi di villa Fabbricotti: cfr. ad es. Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXIII, c. 226r: «Place the prints of different size and the dimensions of the lines according to the more or less underlines».

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gatorio, prosegue Foscolo, Dante ci avrebbe detto qual era il sapore dell’acqua dell’Eunoè, «lo dolce ber, che mai non m’avria sazio». Ciò non è accaduto perché «piene son tutte le carte, / ordite a questa cantica secon-da». Difatti l’architettura del poema è immutabile quan-to a lunghezza dei canti e quindi delle cantiche: proprio perché mantiene invariato il numero complessivo dei versi, Dante può introdurre cambiamenti infiniti, sosti-tuendo gli episodi cancellati con altri ispirati a fatti di cronaca o a eventi della politica, sotto forma di profezie post eventum.23

Il progetto di revisione degli argomenti dell’edizione Poggiali, per quanto abortito, è comunque significativo per la cultura del Foscolo dantista. Nell’esemplare di Varallo Foscolo oblitera con un tratto di penna gli ar-gomenti prima di ogni canto, a partire dal IV dell’ Infer-no, senza però sostituirli con quelli da lui scritti o fatti copiare tra i Frammenti labronici fino al canto XIV.24

23 Il computo di Volpi, Commedia I [XIIIr], – «i versi della Com-

media di Dante arrivano al numero di 14230, cioè dell’Inferno 4720, del Purgatorio 4752, del Paradiso 4758; dalla qual curiosa ricerca si viene a conoscere la diligenza posta dal poeta in fare che le tre canti-che riuscissero di grandezza eguale infra di loro» – è ripetuto da Poggiali (Commedia I xv-xvi) e da Foscolo, EN IX, 1, 460-61. Que-ste argomentazioni prestano il fianco alle obiezioni riassunte da Hol-lander, Commedia II 296.

24 Il manoscritto di Varallo testimonia l’indecisione di Foscolo ri-guardo agli argomenti dell’edizione Poggiali (a loro volta derivati da quelli di Lodovico Salvi, stampati da soli nel 1744, e poi riprodotti dall’edizione Berno del 1749). Foscolo depenna gli argomenti della Livornese dal quarto canto, ma li rimaneggia già dal primo. Nel se-condo canto l’argomento originario è cancellato e corretto; per il ter-zo la correzione viene cancellata. In alcuni canti s’intravedono tracce

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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Gli argomenti che Foscolo aveva pensato di inserire te-stimoniano il suo interesse per la topografia infernale. Ad esempio l’argomento del canto quinto recita tra l’altro: «cerchio secondo. Sua larghezza orizzontale mi-glia 75 – sotto la superficie della Terra 800». Questi dati su larghezza e profondità dei singoli cerchi pare derivi-no, non senza aporie, dalle ricerche quattrocentesche del matematico e architetto fiorentino Antonio Manetti, i cui risultati furono divulgati da Landino e Benivieni per primi.25 A quelle ricerche, dopo aver descritto la struttu-ra dell’inferno, Foscolo rimandava i lettori inglesi dell’antologia promossa dal suo assistente Giulio Bos-si.26 Del resto nella cassetta di Varallo, prima del testo dell’Inferno, è presente lo schema topografico del regno infernale riprodotto da Poggiali «secondo la descrizione d’Antonio Manetti fiorentino».

Non è dunque per il corredo esegetico che Foscolo

ha acquistato per ben due volte l’edizione livornese, bensì perché la sobrietà testuale e la qualità di architet-tura della pagina la rendevano in prima battuta uno

di colla, talvolta coincidenti coi vertici di un rettangolo, come se una paperole fosse stata collocata nell’area corrispondente al numero del canto e all’argomento. Per Inf. XII, una volta rimossa la paperole, Foscolo ha riscritto sul margine alto della pagina «canto Duodeci-mo».

25 Si veda Gigli 63-64 per il Dialogo di Antonio Manetti. Foscolo forse lo conosceva attraverso il riassunto di Giuseppe Del Rosso inti-tolato Breve trattato sopra la forma posizione e misura dell’ ‘Infer-no’ di Dante Alighieri, pubblicato dal quinto volume dell’edizione-archivio della Minerva.

26 Almeno stando a Cian, L’antologia 89.

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strumento di lavoro ideale. Gli ampi margini per anno-tazioni e postille circondano il testo della vulgata filtro di Volpi, priva di note di commento e corredata da va-rianti rigorosamente selezionate. Poggiali non le pubbli-ca tutte, né quelle della Crusca, né quelle del suo codice trecentesco, il già citato «Dante Poggiali». Stando a Fo-scolo il pregio maggiore di tale codice consisterebbe nella «rotondità dell’ortografia»: esso dimostra che «ne’ più riputati fra’ codici i piedi del verso si conducono per vocali» e che «le sconciature delle e’ i’ e dozzine delle sì fatte vogliono abolirsi e noverarsi fra gli usati espe-dienti de’ copiatori provvedute poscia d’apostrofi per via d’indovinamenti».27 Il manoscritto adottato da Pog-giali conferma quindi la natura vocalica della versifica-zione dantesca. È questo il motivo principale per cui Fo-scolo, non senza ambagi,28 se ne è servito come testo base, ancorché Poggiali stesso si sia lasciato fuorviare dagli errati criteri editoriali della Crusca.

Già nelle postille al primo esemplare della Livornese posseduto nel 1813, Foscolo ha maturato la principale censura all’edizione della Crusca, che avrebbe sacrifica-to troppe vocali alla volontà di adeguare la grafia alla pronuncia. La variante a invitar, riconfermata nel 1827 contro a ’nvitar della vulgata fondante, è chiarita così nel 1813: «senza mai tenermi fra denti cruschevolmente

27 EN IX, 2, 227 e 80. 28 Foscolo ricorre al Dante Poggiali per l’escussione delle varianti,

pur non reputandolo affidabile in assoluto: anzi, a suo parere l’editore livornese si fa illudere dal codice che possiede (Inf. XXII 101), e talvolta (Inf. X 1, XXIV 87) discute nel commento una lezio-ne diversa da quella messa a testo.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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la vocale susseguente all’articolo; da che la dolcezza delle lingue alimentasi di vocali». Al noto principio del-la prosodia vocalica si attiene più o meno un quarto del-le postille del 1813: ch’i’ > ch’io, et a fuggirsi > e a fuggirsi, ch’ha > che ha, ’n su > in su, e così via.29

In base a tale principio il Foscolo inglese mette in controluce e gerarchizza le tre vulgatae editiones, la Crusca, la Cominiana e la Livornese. Si prenda la con-giunzione e, di solito rappresentata nei codici da et o dalla nota tironiana. Nell’Inferno Foscolo legge e o ed: se si scegliesse et, «infiniti versi dove si trova ne’ codici si leggerebbero senza metro».30 Al riguardo la chiosa foscoliana a Inf. I 5 osserva che la Crusca, davanti a pa-rola cominciante per vocale, «scrive ed sempre per entro il poema, se non se forse qua e là; che il Volpi attribuì, a quanto pare, a fallo tipografico da che ristampò invaria-bilmente ed; e il Poggiali invariabilmente rimuta in et, non come più antico, ma “più dolce all’orecchio”».31 A

29 Anche sul piano esegetico alcune predilezioni del 1813 saranno

poi confermate. Foscolo segue Lombardi su alcune cruces testuali ed esegetiche (Inf. XX 65, «Val Camonica Pennino», e Inf. XXIV 85-87, i serpenti di Lucano), e nelle aspre critiche a Venturi.

30 Il criterio è enunciato nel Discorso boccacciano: cfr. EN X, 375. 31 La scelta di Poggiali è in controtendenza rispetto alle edizioni

del Sette e del primo Ottocento, che preferivano ed a et. La spiega-zione è che si tratta di questioni marginali, nelle quali è inutile allon-tanarsi dalla vulgata. Si veda Lombardi, Commedia I 491: «Quan-tunque persuaso [...] che Dante e tutti gli antichi Italiani ad iscansar collisione della particella congiuntiva e con vocale seguente, scrives-sero et, e non ed; per nondimeno in un affare di niun momento uni-formarmi a chi più è piaciuta la ed, ove tra le seguenti varie lezioni noterò et detta invece di e, scriverò nel testo ed». Già abbiamo ricor-

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parte l’imprecisione finale (Poggiali aveva giustamente scelto et appunto per la sua antichità),32 la chiosa traccia una linea di condotta. «Spesso il Poggiali, nella sua Edi-zione scrupolosissima, si diparte dalla Volgata ch’ei nondimeno professa di ristampare; onde qui [Inf. XI 68] pure aggiungendo una t alla schietta e congiuntiva della Cominiana legge et assai». Volpi, più fedele alla Cru-sca, legge pianti e alti (Inf. III 22) e grande aggirata (Inf. VIII 79), laddove Poggiali, mettendo a testo et alti o grand’aggirata, è poco attento alla sostanza fonica della Commedia, e aggrava il principale difetto della Crusca. Dunque sotto questo aspetto la Cominiana, la vulgata filtro, ha saputo metter a frutto l’eredità della Crusca meglio della vulgata di riferimento livornese.

La superiorità della Cominiana risalta altresì nell’ambito dell’interpunzione.33 Alla mancanza dei se-gni paragrafematici nei manoscritti della Commedia, la Crusca prova a porre rimedio ricorrendo a una punteg-giatura ridondante, che però non facilita l’ interpretazio-

dato che a parere di Dionisi le d eufoniche, «minuzie» assenti dal manoscritto di S. Croce, vanno mantenute per seguire la Crusca.

32 Poggiali, Commedia I xiv: «per l’appoggio dell’e congiunzione abbiamo sostituita la lettera t alla d, non solo perché et costantemen-te si trova ne’ Codici più antichi».

33 Nella seconda lista di libri foscoliani compare Vitarelli, Com-media. Nell’Avviso degli Editori si legge: «noi non abbiamo però ricopiata la puntatura ch’essi [Volpi, Venturi, Lombardi, Poggiali] usarono nelle loro edizioni; perché questa, per una sorprendente con-traddizione, è spesso direttamente opposta al loro comento» (I iv). Saverio Bellomo suggerisce un uso funzionale dei segni d’ interpun-zione: «il filologo deve agire, per così dire, con mano leggera, evi-tando di orientare, in mancanza di indicazioni precise, in modo trop-po netto e univoco il lettore» (Virgole 26).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

122

ne sintattica del testo. Volpi e Poggiali propongono allo-ra di riformare l’interpunzione della vulgata fondante.34 Foscolo giudica i loro sforzi a margine di Inf. XXIII 75: la vulgata fondante, «qui e spesso e peggio nella ristam-pa, per altro diligentissima di Livorno, ma meno sincera della Cominiana, riesce intralciata di troppe virgole, e malapplicate qua e là».35 Pure nel campo della punteg-giatura, insomma, Poggiali, pur «professandosi religio-sissimo ristampatore della Volgata, [...] affattura con in-terpolazioni ortografiche il testo» comune della Com-media.36 Invece, secondo Foscolo, la distinctio assolve a una funzione prosodica (contribuisce all’armonia del verso), o più spesso semantica (ne chiarisce il significa-to): cosicché, a parte interventi di mera cosmesi grafica, non sono pochi i casi in cui la restituzione del testo nell’edizione foscoliana si affida a semplici mutamenti di punteggiatura.

Lo sfoltimento delle virgole e la scrizione piena di parole aferetizzate ed elise sono gli interventi quasi di routine compiuti sul testo dell’Inferno da parte di Fo-

34 Volpi (Commedia I [XIIv]) ammette di aver quasi sempre mante-nuto l’interpunzione della Crusca, «avvegnaché possa parere troppo abbondante di virgole o comme, la qual cosa produce molte volte confusione e dubbietà nella mente di chi legge». Poggiali (Comme-dia I xiv) osserva: «noi pertanto ci siamo studiati in quella vece di procurare che la stampa del testo riesca di tutta quella maggiore esat-tezza e correzione, che ci è stata possibile: e perché non resti in ciò alcuna cosa a desiderare, ne abbiamo riformata quasi interamente l’interpunzione». Così pure Biagioli (Commedia I xli): «ho riformata l’interpunzione, orribile a parer mio in ogni altro testo». Cfr. D. Co-lombo, Le ‘Correctiones’ 176-78.

35 EN IX, 2, 120. 36 EN IX, 2, 175.

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scolo, il quale poi giustifica alcuni di quegli interventi in apposite note manoscritte. Già Mazzini rileva che talune correzioni fissate da Foscolo nell’apparato notulare non sono state riportate a testo,37 per cui l’editore ha il com-pito di adeguare il testo alle note, inserendo nel primo le emendazioni stabilite dalle seconde. A detta di Petrocchi Mazzini, curatore della princeps del Dante foscoliano, avrebbe «in gran parte eseguito […] con molto scrupo-lo»38 l’adeguamento del testo alle note. In realtà diverse emendazioni fissate nelle note foscoliane non sono state inserite a testo né da Mazzini nel 1842-43, né da Petroc-chi nella sua riproduzione fotografica della princeps mazziniana. Ad esempio la chiosa a Inf. XXVIII 10 premia Trojani anziché Romani, mentre nel testo si leg-ge Troiani. Allo stesso modo Mazzini e Petrocchi met-tono a testo «chi t’approda?» (Inf. XXI 78), quando la nota ha preferito «chi ti approda?», più coerente alla prosodia vocalica. Infine l’ultima chiosa manoscritta di Inf. XIII riporta la prima terzina del canto successivo; tuttavia all’inizio di Inf. XIV essa compare nel testo con una punteggiatura diversa.

Il peso assegnato da Petrocchi alle scelte di Mazzini

merita un’ulteriore considerazione. Si è già detto che l’ultimo volume dell’edizione foscoliana avrebbe dovu-to contenere una sorta di enciclopedia dantesca, l’indice esplicativo di nomi, fatti, personaggi del poema, collo-

37 Lo rileva in una Nota, collocata nell’antiporta del terzo volume della princeps, l’unico caso in cui Mazzini dia brevemente conto dei criteri editoriali che l’hanno ispirato.

38 EN IX, 2, xlix.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

124

cati in ordine alfabetico. Era un’idea di Pickering, atten-to al mercato inglese, non di Foscolo, che alla sua Commedia pensava come a un «libro da Italiani». Fo-scolo aveva comunque accettato la proposta, perché probabilmente non l’avrebbe realizzata da solo. Tutto l’ultimo volume del Dante foscoliano era stato affidato alle cure di Antonio Panizzi.39 All’esule di Brescello, non ancora bibliotecario del British Museum, Foscolo il 23 settembre 1826 propone di realizzare

un indice alfabetico d’allusioni oscure e vocaboli; e basterebbe ridurre i tre indici della Cominiana, fatti dal Volpi, in un solo, scemandovi molte dichiarazioni su-perflue, aggiungendone alcune nuove, e correggendo-ne parecchie false; ma la pianta alfabetica essendo già preparata e le citazioni de’ canti e versi indicate corret-tissimamente, la fatica consisterebbe piuttosto a riscri-vere che a comporre il volume del Volpi. (Fagan 48)40

39 Entusiasta del Discorso, Panizzi scrive a Foscolo il 25 febbraio

del 1826 (cfr. Foscolo, OEP VIII 461), offrendogli alcune varianti di codici danteschi oxoniensi e proponendogli la propria collaborazio-ne. Foscolo accetta sia le varianti (ma non le impiega: EN IX, 2, 254), sia l’offerta di collaborazione. A definirne la natura soccorrono le missive di Foscolo comprese tra le Lettere ad Antonio Panizzi pubblicate nel 1880 dal figlio adottivo Luigi Fagan. Foscolo propone a Panizzi di «assumersi la parte dell’interpretazione verbale della Commedia» (38), anzi di «comporre l’ultimo volume» (45), insom-ma di fare da «espositore» retribuito, che «aiuterebbe nelle dichiara-zioni» (48). A Panizzi si dovrebbe affiancare, come si ricordava, Pie-tro Giannone (59). Per le lettere di Panizzi a Foscolo, cfr. Spaggiari, Per l’epistolario.

40 Meno di un mese dopo, l’11 ottobre 1826, Panizzi scrive a Fo-scolo di aver accettato: «resta [...] che in queste 400 pagine si con-tengan tutti e tre gl’Indici del Volpi, rifatti» (OEP VIII 466). Dopo

LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI

125

Il vocabolario dantesco dell’edizione foscoliana è

dunque il frutto della riunificazione alfabetica dei tre in-dici della Cominiana. Alcune voci sarebbero state eli-minate, altre corrette o riscritte ex novo. Integrazioni e aggiunte sono comprese fra asterischi, collocati all’ ini-zio e alla fine: è un’avvertenza che Foscolo rivolge sia allo stampatore perché la rispetti, sia al lettore perché ne tenga conto.41 Tuttavia nella cassetta di Varallo, già al momento della donazione di Frascotti, l’indice è assen-te, fuorché una breve prefazione di tre carte, apografe con correzioni autografe, che costituiscono la nona unità archivistica nella classificazione di Romerio. Per questo motivo Petrocchi ha stampato soltanto le giunte asteri-scate che leggeva nella princeps di Mazzini. La scelta è di per sé opinabile: talvolta le integrazioni risultano in-comprensibili in mancanza delle chiose. Ad esempio se non si riporta tutta la chiosa di Volpi relativa a Bertran de Born, è inutile trascrivere soltanto la giunta foscolia-na, che afferma che quella chiosa è erronea.42

aver recensito il Discorso nel 1827 (EN Bibl., II 147-62), Panizzi si era disinteressato del completamento del Dante foscoliano ad opera di Mazzini, per i motivi chiariti da Bocchi, Mazzini e il commento 519-21. Sui rapporti tra Foscolo e Panizzi interviene ancora Spaggia-ri, Sir Anthony Panizzi e ‘Me ne rido...’.

41 A Varallo, in calce alla prima carta dell’originale manoscritto dell’indice, si legge: «for the printer / Take care that such passages beginning with a star ∗, and ending with a star ∗, ought invariably to have such stars printed in the beginning and end». Si veda poi EN IX, 2, 307.

42 EN IX, 2, 308.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

126

Il punto decisivo è un altro, e sinora è passato del tut-to inavvertito. Una rapida collazione con gli Indici ori-ginali della Cominiana dimostra che quelli riunificati della princeps curata da Mazzini presentano molte note aggiunte non asteriscate. In altri termini il vocabolario dantesco dell’edizione del 1842-43 è più articolato di quello noto grazie a Petrocchi. Alcune chiose aggiunte sono un semplice prolungamento delle “voci” della Cominiana: Volpi spiega che l’anima prima è Adamo, la princeps scioglie le perifrasi della Commedia in cui compare la parola anima. Più interessanti sono le rettifi-che alle “voci”, seguite da rimandi alle note foscoliane. «Cola, per cole, riverisce. Inf. XII 120», aveva scritto Volpi, a cui segue la precisazione: «ma è chiosa sbaglia-ta. V[edi] postilla al verso». Quando la rettifica alla Cominiana riguarda un verso dantesco delle cantiche non commentate da Foscolo, la spiegazione è più argo-mentata. Chi è «quel di Spagna» di cui si vedrà «la lus-suria e ’l viver molle» (Par. XIX 124-25)? Così recita una nota non asteriscata della princeps mazziniana:

Comeché tutti gli espositori moderni qui citino il Vol-pi, e gli Edd. Fiorentini pare che raffermino la sua opi-nione allegando gli antichissimi fra’ comenti, la chiosa a ogni modo si mostra confusa. Alfonso III regnò agli Spagnuoli che il nominarono Il Benefico innanzi la vi-sione di Dante e morì nel 1290; ed è per avventura Lo giovinetto veduto nel Purg. VII 116, «che non rimase (intendo ‘lungamente’) Re»; perché in fatti dopo sei o sette anni di regno finì di vivere. Di ciò il Poeta si duo-le; non però dice «che non ereditò di Pietro d’Aragona suo padre altro che il valore». Successegli Giacomo

LA CRUSCA, VOLPI, POGGIALI

127

secondo, malveduto da Dante e dopo quattro anni l’Aragona e la Castiglia furono rette da esso e da Fer-dinando IV, sino al 1312; e quindi Alfonso detto l’ un-decimo al quale di certo il Poeta nel XIX del Paradiso e i suoi primi espositori intendevano di alludere. Quel Canto è profetico, e parla de’ principi regnanti dopo la visione, e mentre Dante scrivevalo o ritoccavalo verso gli ultimi anni della sua vita; poiché ei ricorda come Filippo il Bello era morto di un colpo di cotenna nel 1314 cacciando un cinghiale. (Foscolo, Commedia IV 152) Il tema della chiosa è l’identificazione dei re di Spa-

gna succedutisi ai tempi di Dante e citati nella Comme-dia. Benché oggi la critica dantesca sia giunta a conclu-sioni diverse, la strumentazione ermeneutica della chio-sa è foscoliana, poiché attribuisce primazia all’esegesi antica e dà per scontato che Dante sia intervenuto su canti già scritti. È improbabile che la chiosa venga dalla penna di Mazzini: costui, nelle assai più tarde Note au-tobiografiche, rivela di essersi limitato a correggere il testo e a compilare l’apparato delle varianti di Purgato-rio e Paradiso. Lo stesso Mazzini, in risposta ai dubbi sollevati da Enrico Mayer, escludeva che fosse Panizzi l’autore dell’edizione dantesca di Foscolo.43

Andrebbe inoltre considerato un indizio quasi certa-mente decisivo per l’attribuzione della nota non asteri-scata. Nella Cronologia di avvenimenti, che a Varallo si legge manoscritta e ricorretta, per tre volte Foscolo rin-

43 EN IX, 2, xvii.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

128

via alla nota:44 l’aveva scritta lui, allora, o almeno la ri-teneva cosa sua, meritevole di una menzione ripetuta al fine di illuminare i tempi del poeta e la cronologia del poema. Sembra allora di poter concludere che, in assen-za dell’originale foscoliano, la mancanza di asterischi non sia una ragione sufficiente per escludere dagli scritti danteschi di Foscolo le giunte all’indice della Cominia-na presenti nella princeps di Mazzini. Paolo Borsa ri-marca l’opportunità di un ripensamento globale dei cri-teri filologici in base ai quali sono stati pubblicati, nell’Edizione Nazionale delle Opere, alcuni degli scritti del Foscolo inglese.45 Alla luce delle precedenti consi-derazioni, relative al rapporto testo-chiose e alla consi-stenza dell’Indice, un simile ripensamento dovrebbe forse estendersi all’edizione Petrocchi (o meglio Mazzi-ni-Petrocchi) dell’Inferno foscoliano.46

44 EN IX, 2, 201, 206, 219. 45 Di Borsa sono utili tre interventi: Introduzione XXXIII; Appunti

123-49; Per l’edizione 299-335. 46 Non tutti i refusi introdotti da Mazzini sono stati corretti da Pe-

trocchi: ad es. nella chiosa a Inf. V 134, si legge l’incomprensibile «Ba 615», da correggere nel greco Βασις. Inoltre le note dell’edizione Petrocchi rimandano al Discorso nella paginazione del 1825, non in quella di Da Pozzo. È auspicabile una più marcata complementarità fra le due parti degli Studi su Dante foscoliani nel quadro dell’Edizione Nazionale.

CAPITOLO SETTIMO

QUIRICO VIVIANI E IL (FALSO) BARTOLINIANO

Il problema del testo della Commedia era di stretta attualità mentre Foscolo lavorava alla sua edizione. Sui giornali europei si era diffusa la notizia che un ex pro-fessore di liceo, Quirico Viviani, aveva scoperto e pub-blicato nel 1823 un codice della Commedia, il Bartoli-niano (così detto da Giovanni Antonio Bartolini, che l’aveva acquistato nel 1817; ora è il codice 50 della bi-blioteca Arcivescovile e Bartoliniana di Udine), a prima vista molto vicino all’autografo dantesco, anzi a dire del curatore identificabile con esso. Viviani e Foscolo ave-vano percorso insieme – sebbene in modi e in tempi di-versi – un breve ma rilevante tratto del loro tirocinio let-terario in quanto allievi di Cesarotti a Padova. Foscolo si era presto distaccato dall’ambiente padovano, nel quale Viviani era rimasto saldamente inserito.1 Da quell’ambiente, su impulso di Cesarotti che ne costitui-va il baricentro, erano giunti a Foscolo spunti e motivi destinati a maturare negli scritti danteschi del periodo

1 Sul noviziato cesarottiano di Foscolo interviene Chiancone.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

130

inglese. Ad esempio dalla presunta superiorità dell’In-ferno rispetto al Paradiso, opinione comune nella scuola padovana, Foscolo derivava la priorità cronologica della terza cantica rispetto alla prima.2

L’affiliazione alla cerchia cesarottiana, temporanea per Foscolo, definitiva per Viviani, è la circostanza de-terminante nella valutazione del rapporto fra i due lette-rati. Cesarotti infatti lodava a Viviani l’ingegno di Fo-scolo emulo di Alfieri,3 e favoriva la pubblicazione delle tre Canzoni militari di Viviani presso Nicolò Bettoni nel 1807, stesso anno e stesso editore dei Sepolcri e dell’Esperimento di traduzione. La plaquette omerica era percorsa da un sottile antagonismo nei confronti del magistero di Cesarotti: riportava infatti la sua traduzione in prosa dell’Iliade, fedele ma grezza, allo scopo di mo-strare come potesse esser superata dalle versioni poeti-che di Foscolo e di Monti, nel contempo fedeli ed ele-ganti. Quando Foscolo sollecitava a Luigi Mabil, a Isa-bella Teotochi Albrizzi e a Mario Pieri, corrispondenti vicini a Cesarotti, un suo parere indiretto sull’Esperi-mento, non otteneva risposta alcuna. Al posto di Cesa-rotti parlava Viviani, forse su mandato del suo maestro. Questi, accecato dal malanimo verso Foscolo, il suo ex allievo più dotato e più indocile, già nel 1803 lo defini-

2 Elogio 127 n. a: «per consenso comune Dante riuscì assai meglio

nel descriver l’Inferno che il Paradiso»; EN IX, 1, 459. 3 Viviani, Commedia III I xxix n. 1: «vedasi l’orazione del Foscolo

fatta a Bonaparte pei Comizii di Lione. Il Cesarotti mi diceva, che benché sia questa una imitazione del famoso panegirico dell’Alfieri a Trajano, tuttavia in quella del Foscolo trionfava di più la forza e l’ardimento dell’eloquenza».

QUIRICO VIVIANI E IL (FALSO) BARTOLINIANO

131

va un «pazzo»: lo stesso tagliente giudizio («ha più dell’insano che altro») che Viviani esprimeva per lette-ra, il 2 giugno del 1807, riguardo all’Esperimento.4

Eppure la frattura tra Foscolo e Viviani, consumatasi nel nome di Cesarotti, non doveva esser né pubblica né definitiva. Qualche anno dopo Viviani, per sua stessa testimonianza, avrebbe ascoltato Foscolo recitare in an-teprima alcuni brani dell’Ajace, e in seguito, grazie alla premessa al terzo volume del Dante bartoliniano, avreb-be divulgato per primo in Italia le idee direttive del Di-scorso dantesco.5 Quest’ultima dichiarazione, per quan-to non abbastanza circostanziata, merita comunque un’attenta verifica, giacché, se provata, porrebbe Vivia-ni in testa al gruppo dei fruitori o possessori del Discor-so, ossia Puccini, Biagioli e Leopardi.

Era stato dunque il plauso quasi incondizionato dei primi lettori nei confronti di un testo curato da un suo probabile conoscente a suscitare in Foscolo forte attesa per il Dante bartoliniano (un’edizione, a differenza della Livornese di Poggiali, «aspettata e implorata, da poi che lesse in certi giornali Francesi com’era stampata sopra l’autografo, o non foss’altro sopra un esemplare dettato dalla viva voce di Dante»),6 e a rendere perciò ancor più cocente il suo disinganno. La sentenza capitale emessa allora da Foscolo contro la curatela di Viviani («impo-

4 Si vedano la lettera di Cesarotti a Giustina Renier Michiel del 20

dicembre 1803 (cit. da Terzoli 628); e Zagonel 35 n. 85. 5 Fiammazzo lxxix-lxxx. 6 EN IX, 1, 273: Foscolo allude alla recensione di F. Salfi sulla

Revue enciclopédique.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

132

stura, o mania»)7 è stata ratificata dagli storici della filo-logia dantesca. In primo luogo l’autografia del Bartoli-niano è ovviamente indimostrata, a causa sia della sua origine ignota, sia dell’incerta o addirittura assente alle-gazione di fonti e riscontri.8 All’inizio di una disserta-zione sul Convivio apparsa qualche anno dopo il Di-scorso, così scriveva Pietro Fraticelli, curatore di un’ ap-prezzabile edizione delle opere minori di Dante:

se non fossimo stati mancanti di lavori cronologico-critici accurati ed esatti, non avrebbe Quirico Viviani accumulati tanti spropositi in quelle poche pagine che formano la Prefazione alla sua stampa del Codice Bar-toliniano; né il Foscolo, per rilevare gli spropositi ap-punto di quell’editore, con altri parecchi ch’eran corsi finallora intorno la storia del Testo della Commedia, e intorno le opinioni e le particolarità a quello spettanti, si sarebbe trovato costretto ad affrenare il suo fervido ingegno nella minuta ricerca di date, nella istituzione di confronti e nella prolissità dell'analisi. Lavoro è quello del Foscolo non scevro affatto d'inesattezze (e come potrebbe esserlo opera d’uomo?) e di opinioni speciali non ammissibili facilmente; ma lavoro, che, sebbene criticato da molti ed inteso da pochi, fia pur ventura l’averne più d’uno di simili. (Fraticelli 610-11)9

7 EN IX, 2, 166. 8 Stando a Trovato, Appendice 241, il Bartoliniano è un codice

dell’ultimo quarto del Trecento, di area linguistica nord-orientale. 9 Il passo di Fraticelli è in parte riportato da Marco Aurelio Zani

De’ Ferranti nel suo commento a Inf. I-III, ricco di citazioni fosco-liane. Il musicista e letterato bolognese era pronto a scommettere, nel

QUIRICO VIVIANI E IL (FALSO) BARTOLINIANO

133

Fraticelli rileva lo sforzo condotto da Foscolo per

mettere in luce gli anacronismi del Dante bartoliniano. Ad esempio Viviani opina che Dante sia stato ospite di Gherardo da Camino, uno dei «tre vecchi» esempio di antica virtù della terza cornice del Purgatorio. Secondo Foscolo, di contro, proprio questi versi («ben v’èn tre vecchi ancora, in cui rampogna / L’antica età la nova») proverebbero che già nel 1300 Gherardo era troppo in là con gli anni per accogliere Dante esule. Questi inoltre era uno sbandito bianco: difficile allora accettare che egli sia stato ospite dei Caminesi, legati ai Neri, in parti-colare agli Este, irriducibili avversari dei Bianchi.10 In secondo luogo l’attendibilità della ricostruzione filolo-gica condotta da Viviani è minima; anzi, il sospetto a-vanzato dal Discorso per via di preterizione, che Viviani abbia manipolato in modo arbitrario il suo codice finen-do così per falsificarlo, è stato di fatto confermato dalle verifiche di Antonio Fiammazzo ed Ermes Dorigo.11

Malgrado tali e tanti limiti, che di fatto hanno con-

dannato all’oblio la Commedia curata da Viviani,12 la

1846, sulla lunga tenuta critica del Discorso, contro chi lo reputava «empio» o «inconcludente» (Zani De’ Ferranti, Commedia xiv).

10 Accettano però questa possibilità Santagata 161 e Carpi, La no-biltà.

11 Fiammazzo e Dorigo mettono alla prova la buona fede di Vivia-ni, e concludono che egli non è stato né abile né onesto: ha sacrifica-to il testo di Dante al proprio arbitrio, e non s’è trattenuto dall’ impo-stura di fabbricare di sana pianta lezioni.

12 Frasso, Manoscritti 54-56, accenna a un episodio della fortuna dell’edizione udinese: l’Ambrosiana di Milano ne conserva un e-

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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sua spregiudicatezza non poteva non colpire Foscolo. Viviani aveva cercato di risalire alle origini della poesia dantesca. La meta di Foscolo era la stessa, e comuni po-tevano essere alcuni strumenti. Nelle note a Inf. XXXI 39, Purg. XVII 27, Par. XIX 24, Viviani accenna alla possibilità, affacciata forse per la prima volta nella sto-ria della tradizione della Commedia, che alcune sue va-rianti siano riconducibili a Dante stesso. Ad esempio «faccia e vista [di Purg. XVII 27] sono due lezioni fa-cilmente cadute entrambe dalla penna di Dante. Lascio pensare al lettore» – prosegue Viviani – «quale egli a-vrebbe serbato, se avesse dato l’ultima mano al suo ma-noscritto». È questo un punto di singolare rilevanza, poiché, come si è visto, Timpanaro accusava Foscolo di sottovalutare la questione delle varianti d’autore. Tim-panaro, però, si pronunciava prima delle edizioni criti-che di Da Pozzo e di Petrocchi, perciò non aveva a di-sposizione materiali divenuti di pubblico dominio sol-tanto in seguito. Difatti in una postilla al Discorso non pubblicata da Mazzini, Foscolo ribatte che Viviani ha insinuato l’eventualità delle varianti d’autore in modo surrettizio, in contrasto con un principio nodale della sua edizione, ossia che Dante avesse finito e licenziato la Commedia.13 L’incompiutezza del poema è invece uno dei cardini del Discorso di Foscolo, che quindi so-stiene che per lo stesso luogo Dante può mantenere due

semplare interfogliato dal commento inedito di Giovan Battista Bo-nacina.

13 EN IX, 1, 195. Il fondo Timpanaro della Normale di Pisa con-serva copie di entrambe le edizioni di Da Pozzo e Petrocchi. La pri-ma fu oggetto di una breve e positiva recensione che Timpanaro pubblicò su Belfagor nel 1980.

QUIRICO VIVIANI E IL (FALSO) BARTOLINIANO

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o più lezioni alternative, e che in alcuni casi non si pos-sa accertare quale sia la lezione definitiva.14

Ad esempio il passo dei serpenti della settima bolgia, famoso ai tempi perché a partire da esso si era consuma-ta la rottura fra Dionisi e Lombardi, secondo il Discorso non può essere restaurato, poiché risulta non del tutto finito nell’autografo. Di qui Foscolo sembra intuire la rilevanza degli interventi sul testo del poema compiuti dai primi esegeti con intenti quasi editoriali. Anche per Inf. XVII 124-25 la lezione genuina sarebbe andata per-sa insieme all’autografo e ai primi esemplari della Commedia. Il fatto è che tali esemplari, essendo stati ri-copiati da un autografo collettore di varianti, riuscivano diversi a seconda del diverso giudizio dei primi ama-nuensi: tra questi figurano, secondo la chiosa a Inf. XXXIV 32, i figli di Dante, che avrebbero esemplato il poema senza accordarsi sulle lezioni incerte, contri-buendo così alla sua instabilità testuale. Infine, già mez-zo secolo dopo la morte del poeta, gli studenti trascrive-vano la Commedia inserendovi le glosse dei loro profes-sori.15

Molte di queste congetture non convincono appieno, specie quelle che presuppongono che la Commedia sia un’opera aperta e incompiuta, e così lasciano campo a-perto alla discrezionalità (talvolta all’arbitrio) del Fo-

14 EN IX, 1, 539: «spesso è probabile che sovrapponesse varie pa-

role l’una a l’altra, e ritenesse due o tre perplesse lezioni, finché po-tesse decidere». A detta di Foscolo varianti alternative sarebbero mo-to/mondo di Inf. II 60, altro/alto di Inf. XVII 95, dal lato/dall’altro di Inf. XXX 51; oltre all’intero distico di Inf. XVII 50-51.

15 EN IX, 2, 254.

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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scolo critico testuale. Costui non esita a invocare fanto-matiche varianti d’autore non dopo aver scartato tutte le altre possibilità, ma persino di fronte a riconoscibilissi-me sviste, banalizzazioni, corruttele di copisti o tipogra-fi. Queste ultime sono quasi sempre vicine alla lezione autentica per forma e grafia, cioè per quegli aspetti che invece l’autore tende a modificare, insieme al significa-to, quando introduce nel proprio testo varianti sostanzia-li.16 È vero d’altra parte che oggi alcuni dantisti, per quanto ben più scaltriti sotto il profilo testuale, non e-scludono, sulla scia remota di Viviani e Foscolo, che possano essere d’autore poche e selezionate varianti ai piani più alti della tradizione, vista anche l’impossibilità di provare con certezza assoluta l’esistenza di un arche-tipo della Commedia.17

16 Di questo criterio empirico s’è servito Claudio Giunta per re-

spingere una presunta variante d’autore delle Rime (Dante, Opere 629).

17 A parte alcuni improvvisati spunti ottocenteschi – ad es. Niccolini, Commedia xxviii, o Campi, Commedia lviii n. 1 – un’impostazione razionale del problema delle diverse redazioni d’autore si ha soltanto con Moore xxii («the suggestion of such equally divided authority for different readings must remain a mere-ly possible though not uninteresting speculation»), e 500 («I cannot but think that this consideration of author’s own variants may not have been sufficiently allowed for»): entrambe le citazioni rinviano al Discorso foscoliano. La cautela del reverendo Moore ha tuttora seguaci. Per Petrocchi, Commedia I 113-14, il poema sarebbe «mal sospettabile di varianti d’autore», che però sono chiamate in causa per Purg. XII 5 e Par. XXXI 20. Non trascurano l’ipotesi di varianti d’autore anche Contini, Un’interpretazione 73, e Malato, Storia 932. Di recente, mentre Canova 68 e 73 esclude questa possibilità, Casa-dei 55 invita a non smettere di cercare varianti siffatte per il «Para-diso, il cui testo fu probabilmente copiato più di una volta dall’ origi-

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Dalla discussione su questo tipo di varia lectio risul-ta che Foscolo e Viviani non si soffermano sui versi danteschi se non in quanto lo richieda il valore delle singole lezioni. Ciò comporta un radicale cambiamento nell’architettura della chiosa. La prima mossa dei com-mentatori danteschi fra Sette e Ottocento, da Volpi a Lombardi, da Dionisi a Biagioli, era controllare se una certa parola della Commedia fosse lemmatizzata nel Vocabolario della Crusca. Perciò Bettinelli insinuava che leggere Dante fosse un passatempo da pedanti, un rischio che lo stesso Foscolo non ignorava, visto che, come si è detto, temeva che la Commedia fosse vittima delle stesse eterne contese letterarie che avevano dila-niato l’Iliade. Invece secondo Gasparo Gozzi la consul-tazione di un vocabolario era indispensabile per diventa-re contemporanei di un autore: perché non dovrebbe va-lere per Dante ciò che si accetta comunemente per Vir-gilio e Omero? Già dalla plaquette omerica del 1807 Foscolo rovescia polemicamente i termini della questio-ne: il vocabolario della Crusca non serve per capire Dante, proprio come Omero non si capisce scartabellan-do dizionari compilati secoli dopo di lui.18

nale che, almeno per una parte della terza cantica, poteva non essere in pulito». Viceversa Mecca, Appunti 311, ammette «una qualche forma di intervento da parte dell’autore a pubblicazione avvenuta (ovviamente per le sole prime due cantiche)». Infine Inglese, La re-visione 170, sospetta una variante d’autore per Purg. II 80-81.

18 Bettinelli 14: «le strane parole si registrano ne’ vocabolari»; Gozzi 60: «se tu, il quel se’ nato oggidì, ti lasci volentieri da’ glossa-tori e dizionari ricondurre a’ tempi di Virgilio e d’Omero, e sdegni di lasciarti guidare all’età di Dante, son certo che Dante non potrà pia-certi come gli altri due»; Foscolo, Esperimento viii n. 1: «quando per

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Non servono dizionari a Viviani e a Foscolo, perché il loro obiettivo è la revisione della vulgata. Altre finali-tà attribuite all’esegesi, come la parafrasi o il chiarimen-to di temi dottrinali o teologici, sono presenti in modo incidentale, senza mai risolversi in sequele di commen-tatori l’un contro l’altro armati, vista la primazia confe-rita al solito Lombardi, custode della scienza dei fatti.19 Il fine ultimo dell’apparato è giustificare ogni alterazio-ne del «common text» nel senso chiarito da Warburton. Le chiose privilegiano l’escussione dei testimoni (senza costruire rapporti genealogici) e la scelta delle varianti (senza distinguere le formali dalle sostanziali). Quanto ai testimoni, sbaglierebbe chi pensasse a Viviani come a un bederiano ante litteram. Contrariamente a quanto faccia credere il titolo, la sua edizione non è esemplata soltanto sul Bartoliniano, ma lo considera una sorta di teste privilegiato, accanto a molti altri codici, onde cor-reggere la vulgata. Questo eclettismo combinatorio, nel senso migliore del termine, può ricordare la «posizione di equilibrio a tre (Volgata della Crusca, Nidobeatina e Bartoliniano)» in cui, stando a Petrocchi, si risolve «il giuoco filologico di Foscolo».20

volere del tempo la lingua italiana non risponderà che da’ vocabo-larj, s’intenderà mai per essi quel verso di Dante [...]?».

19 «Ove si parli del Lombardi quasi sempre s’ha da lodare», am-mette Viviani nella chiosa a Purg. XXV 31. Alcuni giudizi un po’ più limitativi di Foscolo su Lombardi, già discussi nel cap. V («ra-giona quasi sempre vigorosissimo», «era anzi temprato ad intendere che a sentire la poesia»), sono in sintonia con Viviani, Commedia I 141: «quel dotto Padre [Lombardi appunto] ragionava assai meglio che non sentiva».

20 EN IX, 2 xlii.

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A tratti collimano gli stessi criteri di scelta delle va-rianti, spigolate da un apparato critico perlopiù negati-vo. In particolare Foscolo ritrova nelle chiose del Dante bartoliniano alcuni accenni sporadici alla prosodia voca-lica («qualora [...] l’armonia del verso resti sempre la stessa, sarà sempre meglio scrivere la parola intera di quello che tronca», in opposizione alla Crusca «amante [...] di mozzar le parole cogli apostrofi»),21 accenni non privi di ricadute sulla concreta prassi emendatoria.22 Dunque grui è poziore rispetto a gru per la celebre simi-litudine «e come i grui van cantando lor lai». Foscolo approva la variante introdotta da Viviani, il quale a sua volta la riconduce al magistero di Cesarotti. Questi im-piega grui nella versione dell’Iliade in virtù delle sue qualità fonosimboliche, della «armonia imitativa» che Viviani dice d’aver appreso dal suo maestro. In effetti secondo il Saggio sulla filosofia delle lingue, il latino grus va preferito al greco Γέρανος, poiché una parola è tanto più bella quanto più possiede un suono adeguato alla cosa che rappresenta. Non a caso nella sua versione letterale dell’Iliade Cesarotti aveva promesso di racco-

21 Viviani, Commedia I 6 e 193. 22 Ad esempio Foscolo e Viviani respingono ched ella di Inf.

XXXI 138 a favore di ch’ella: Viviani considera ched «sgraziato», Foscolo un «puntello accattato». Anche la lezione «ch’erano meco» di Inf. XXXIII 39 è preferita a «ch’eran con meco» per la sua dichia-rata semplicità (Viviani: «la lezione ch’erano meco non è ella più semplice?»; Foscolo: «né mi credo che Dante [...] andasse accattan-doli a macchiare una narrazione che per essere terribile e nuova nelle sue circostanze, domanda semplicità di parole e di frasi»), ma certo anche perché ha una vocale in più.

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gliere in un’appendice i versi omerici «ammirabili per l’armonia imitativa».

Nelle chiose foscoliane s’affaccia più e più volte questo concetto, declinato in implicita reazione a Vivia-ni e Cesarotti. Di armonia imitativa parla in questi ter-mini la nota a Inf. XIII 13: «l’orecchio dilicatissimo a sentire i minimi modi diversi con che alcune voci pos-sono scriversi, e il giovarsi di quello che più conferisce all’immagine col suo suono è una delle doti naturali al poeta, e Dante n’era vaghissimo». Dunque l’armonia imitativa non s’impara, è una dote innata al poeta, Ome-ro o Dante che sia, superiore alle regole imposte da qua-lunque critico. In secondo luogo Foscolo ammette che la lingua inglese è naturalmente dotata di armonia imitati-va, da Milton in poi, e quindi avversa il giudizio oppo-sto di Cesarotti, ostile a Pope traduttore di Omero.23

In non pochi casi la stretta interrelazione fra signifi-cante e significato decade a un estetismo testuale oggi inammissibile: per Inf. XXXIV 118 Foscolo accetta la variante del Bartoliniano, perché «di man ci piace più di da man». Capita perfino che per stabilire una lezione la propria esperienza diretta prevalga su una rigorosa criti-ca del testo. Inf. IX 70 si deve leggere «i rami schianta, abbatte e porta fuori», oppure «porta i fiori»? La distru-

23 Oltre alle chiose di Viviani (Commedia I 47) e di Foscolo (EN

IX, 2, 65), il passo decisivo per il concetto di armonia imitativa – su cui intervengono Bonomi 198-99 e Bruni 72 – è uno dei Rischiara-menti apologetici di Cesarotti, Saggio 437-39. La promessa di un’appendice si trova in Cesarotti, Iliade 231-32. Brocchi 48-51 di-scorre della voga dell’armonia imitativa in rapporto a Omero, Dante e Cesarotti.

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zione dei fiori precede o meno la rovina delle piante? Era stato Marcantonio Parenti a farsi testimone oculare per dirimere la questione: «a chi ha veduto nelle monta-gne o nelle coste marittime i rami e gli alberi, non solo schiantati e svelti, ma scagliati per la forza del turbine a gran distanza dalla foresta, sì fatta immagine della de-scrizione dantesca si presenterà ben più vera ed espres-siva, che la piccola idea de’ fiori portati dal vento». Os-serva a rimorchio Viviani: «io, nato e vissuto parecchi anni vicinissimo ad una immensa selva, ho veduto spes-so cogli occhi miei gli effetti di tale disordinata tempe-sta di venti». Foscolo, con simile movenza sintattica, chiosa in un frammento manoscritto: «io che vivo e scrivo in uno fra’ più elevati suburbani di Londra [...], vidi io spesso, ed oggi 14 d’ottobre vedo molti alberi diramati».24 Sotto un’apparenza di obiettività affidata alla verifica empirica, queste discussioni sono in balia di una soggettività incontrollata.

L’abuso rovinoso della critica soggettiva non esclude che talvolta l’arte ermeneutica possa risultare decisiva per la constitutio textus.25 La serie ternaria alla fine della

24 Parenti II 373; Viviani, Commedia I 84; EN IX, 2, 346. A pro-

posito della spiegazione di Viviani, ma l’osservazione vale anche per Parenti e Foscolo, Trussardo Calepio, in una recensione al Dante bartoliniano uscita nel 1824 su più numeri della Gazzetta di Milano, rileva: «le cose dette dai poeti vanno misurate con un compasso più vasto di quello che si adopera colle verità fisiche o naturali» (443).

25 Al principio di Inf. XV Viviani legge «il fumo del ruscel di so-pra aduggia / sì, che dal foco salva l’acqua gli argini», omettendo la congiunzione e della Crusca (che leggeva «l’acqua e gli argini»): infatti non l’acqua è salvata dal fuoco, come suggerisce la lezione della Crusca, bensì gli argini grazie all’acqua lo sono. Perciò alla

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descrizione di Cerbero, «graffia ... iscoia ... isquatra» (Inf. VI 18), è resa così sia dalla Crusca, sia da Petroc-chi. Le due vulgate più famose nella tradizione della Commedia rifiutano la lezione «ingoia», ancorché atte-stata da manoscritti autorevoli, sulla base della stessa argomentazione: dal resto dell’episodio non risulta che Cerbero mastichi i golosi. Di contro Viviani rileva – e Foscolo conferma, pur con qualche perplessità, la sua «variante [...] virilmente difesa» – che l’idea del demo-nio che ingoia cibo (la carne dei dannati, oltre all’offa di virgiliana memoria) conviene alla pseudoetimologia di Cerbero κρεοβóρος, «divoratore di carni». In effetti quella legata all’interpretatio nominis sembrerebbe la lezione migliore: uno studio di Sonia Gentili ha illustra-to una tradizione esegetica medioevale diffusa a partire dal commento di Servio all’Eneide, dove Cerbero è ap-punto «quasi Kreoboros, id est carnem vorans».26

Ufficio del critico è scomporre i processi compositivi della poesia dantesca, in modo da attingere a una più approfondita forma di conoscenza che superi la superfi-cie del testo, una conoscenza genetica, che ricalchi l’atto compositivo stesso. «To develop the beauties of a poem – si legge nel secondo articolo edimburghese – the critic must go through the same reasonings and judgments which ultimately determined the poet to write as he has

fine del canto XIV il poeta dice che sugli argini si poteva cammina-re. Foscolo riprende e loda queste argomentazioni in base al princi-pio della coerenza interna del testo.

26 Petrocchi, Commedia I 172-73; Gentili 144-45. La spiegazione di Viviani era già in Dionisi: cfr. Mazzoni, Dante a Verona 54.

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done. But such a critic would be a poet».27 Parole me-morabili: perché sottintendono che è il migliore quel cri-tico-poeta che sappia ricostruire le singole tappe del processo creativo e ricomporle nella loro unitarietà agli occhi del lettore.28

Di qui deriva la sensibilità di Foscolo e di Viviani per le varianti d’autore. A margine di «ali sembiaron le lor gambe snelle» (Inf. XVI 87), Viviani annota che «è facile che l’autore siasi provato in ambedue le maniere espresse in questo verso [ovvero ali-ale], per risvegliare nell’animo [...] l’idea della rapidità della fuga di quei dannati». A questa linea Foscolo si adegua quando chio-sa che la lezione Ali è «connessa a idee […] di diritta rapidità».29 In breve un critico è autorevole purché eser-citi in prima persona l’arte poetica (sicché Viviani, se-guito da Foscolo, allega un luogo di Tasso per la chiosa a Inf. III 114). Vige il luogo comune dell’accademismo

27 EN IX, 1, 34. 28 A conferma che «in Foscolo il poeta e il critico parlano la stessa

lingua e si servono delle stesse immagini», Matteo Palumbo, nell’articolo Foscolo lettore di Dante, studia il passaggio del termine irritare dall’Ortis al Discorso (Palumbo 411-13).

29 Il critico-poeta, mentre ripercorre a ritroso il cammino della cre-azione estetica, sa sanare eventuali aberrazioni. Per Inf. IX 45 la spiegazione paleografica di Erine, la variante prescelta da Foscolo (nel codice «di Roscoe discerno rine, e un tentativo di raschiare e raggiustare la prima lettera che or guasta com’è, può scambiarsi per un e per un c o per un t, né quel copiatore usa majuscole fuorché a capo»), viene con ogni probabilità da Viviani («non sarebbe forse un errore di qualche amanuense [...], il quale [...] potesse [sic] aver pre-so il t per un c? E [...] non è egli probabile che un qualche critico, per la somiglianza materiale del c colla e, possa aver giudicato doversi leggere erine, molto più che le iniziali dei nomi proprj nel Trecento non soleano scriversi con lettere majuscole?»).

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settecentesco, per cui nessuno può giudicare di poesia se non ha un animo per natura poetico.30 Negli scritti non solo danteschi del Foscolo inglese, Samuel Johnson è il prototipo del letterato mediocre in quanto poeta manca-to, gonfio d’invidia e mordacità affilate dal rancore di un’ambizione fallita.31 Sviluppa nei dettagli il concetto, e ne certifica quindi la diffusione, una recensione ano-nima al Discorso: l’arte della critica, applicata alle ope-re di genio, compete agli artisti, mentre Johnson denun-cia una lampante mancanza di discernimento per difetto di pratica poetica.32

Se è vero che il buon critico è necessariamente dota-to di animo poetico, allora è ineludibile il confronto con Monti, già amico fraterno di Foscolo, traduttore di Ome-ro e restauratore della lingua dantesca. Angelo Colombo suggerisce che Viviani è la figura ponte tra Foscolo e Monti, anzi tra Foscolo e l’ambiente filologico e dante-sco milanese.33 Con quell’ambiente, per motivi filologi-ci anche se non danteschi, Foscolo entra in contatto pre-cocemente, quando lavora alla Chioma di Berenice ca-tulliano-callimachea. Nel 1803 il bibliotecario dell’ Am-brosiana Pietro Mazzucchelli, al solito largo del suo squisito sapere ai dotti, collaziona quattro manoscritti catulliani per conto di Foscolo. Il quale dal canto suo commette una grave scorrettezza deontologica nel commento alla Chioma: non soltanto si guarda bene dal ringraziare Mazzucchelli per la sua precisa consulenza

30 Mari 45-46. 31 EN IX, 1, 34; EN IX, 2, 65; EN XI, 2, 353. 32 Foreign 109. 33 A. Colombo, Tra filologia e politica 83.

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scientifica, ma in più lamenta di non averne potuto rice-vere alcuna durante il mese di ferie del collegio dei Dot-tori dell’Ambrosiana.34

Invece non si ferma a Mazzucchelli la lunghissima lista di ringraziamenti di Viviani,35 ma comprende chi-unque gli abbia prestato aiuto. Già nel manifesto dell’edizione, datato 22 gennaio 1823, Viviani rivendica a fini promozionali la natura composita del Dante barto-liniano, tributario dei suggerimenti degli intellettuali del Nord Italia, di Monti in particolare.36 La lettera prefato-ria scritta al marchese Gian Giacomo Trivulzio il 22 ot-tobre, nove mesi dopo, precisa che, proprio nel palazzo di piazza Sant’Alessandro a Milano, oggi al numero ci-vico 6, Viviani ha potuto consultare il fondo dantesco del marchese, ed è stato confortato dai suggerimenti del-lo stesso Trivulzio e appunto di Monti, «quello che Dan-te mise dentro ai suoi alti secreti».37

Il supporto ricevuto non si limita alle informazioni date a voce e riportate nelle chiose, ma viene arricchito da un lavoro di ricerca e di documentazione condotto in sinergia. In veste di critico-poeta Monti ha messo a di-sposizione di Viviani le sue opere, edite (la Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Cru-sca) o inedite (le postille alla prima cantica del com-

34 La vicenda è ricostruita da Rodella 33-34. Stando a Blume 124,

il collegio dell’Ambrosiana era in ferie dal primo di settembre al 12 di novembre.

35 Ringraziamenti contenuti nella lettera prefatoria al marchese Trivulzio, e reiterati in Viviani, Commedia II 59 e 212.

36 Il manifesto è riportato da Scolari 61 n. 17. 37 Viviani, Commedia I [XVr].

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mento di Biagioli). Trivulzio ha fatto stampare l’inci-sione intitolata Dante alla grotta di Tolmino che prece-de il testo bartoliniano;38 ha steso le schede descrittive dei codici danteschi di sua proprietà, e da uno di essi ha trascritto gli argomenti attribuiti a Jacomo della Lana; in compagnia di Viviani o su sua indicazione s’è recato a consultare altri manoscritti.39 Inoltre Viviani è riuscito a ottenere che non soltanto Trivulzio, ma pure altri privati e bibliotecari gli descrivessero i codici della Commedia in loro possesso o custodia. Aggiungendo a questi i co-dici da lui visti direttamente, Viviani ha potuto in tal modo compilare un ampio catalogo di manoscritti e in-cunaboli della Commedia.40 Così numerosi i collabora-tori, così rilevante e continuo il loro apporto, che fu giu-dicata abusiva l’attribuzione della paternità del Dante bartoliniano al solo Viviani.41

38 Zagonel 214 e n. 261. 39 Viviani, Commedia I vi e xxxix n. p (analisi di codici); viii-xviii

(descrizione dei codici trivulziani); lviii-lxix (argomenti dei canti della Commedia tratti da un codice trivulziano). Cfr. poi le chiose a Inf. IX 113, a Purg. XXVI 146, alla presunta versione latina di Inf. V 131 (con rimando in nota a Trivulzio: Viviani, Commedia I 320).

40 Viviani, Commedia I i-liii. Il catalogo fu stampato anche separa-tamente in cinquanta esemplari numerati e firmati dallo stesso Vi-viani. Ho visto l’esemplare alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, segnatura F.IV.253, legato col vol. I dell’ed. udinese, rispet-to al quale il catalogo contiene un’ulteriore descrizione del codice num. 60: si veda Viviani, Catalogo.

41 Asquini, Lettera seconda 22-23: «tutte quelle note, e illustrazio-ni non sono sue, né sua assolutamente può dirsi tutta l’opera, aven-dovi con lui avuto mano dottissimi ingegni, com’egli stesso confes-sa». Avviò la polemica l’archeologo ed epigrafista Asquini con un suo libello, la Lettera prima, cui rispose Viviani, Perditempo.

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In questo concorso di voci Foscolo drizza le orecchie all’unisono fra Monti e Viviani. Quando deplora la ten-denza del Bartoliniano «di esiliare le voci poetiche e fa-re onore alla locuzione degli scienziati», Foscolo in re-altà prende di mira il ruolo attribuito da Monti al lessico scientifico nell’ammodernamento della lingua italiana.42 Infatti la polemica con Monti ha radici ben più antiche. Dal Dante bartoliniano in quanto prodotto di scuola so-no mediate tutte le citazioni di Monti nell’Inferno fosco-liano, molte delle quali fanno capo alla dispositio e alla sonorità del testo poetico.43 Gli stessi princìpi innervano il saggio montiano Sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’‘Iliade’, riportato da Foscolo nell’ Esperi-mento del 1807. Monti osserva che la versione letterale foscoliana («l’ira, o Dea, canta, del Pelide Achille») è cacofonica a causa del dittongo dea e della successione di quattro a.44 Generazioni di studenti italiani sanno che Monti, come già Cesarotti, sceglie di collocare in prima posizione il verbo («cantami, o diva, del Pelide Achil-le»), perché a suo dire questa versione ha il merito di

42 EN IX, 2 57; cfr. A. Colombo, Tra filologia e politica 85. 43 Cfr. ad es. EN IX, 2, 127 (Monti rifiuta una lezione «per la bar-

bara sintassi che ne produce»), e 142 («i filologi si tengono d’ orec-chio più dilicato d’assai che non i poeti»). Va detto che la citazione di Monti nei Frammenti labronici («che udì dalla mia bocca la le-zione cotanto diversa dalla comune»: EN IX, 2, 358) risulta incom-prensibile e fuorviante se non la si colloca nel contesto fornito dall’edizione udinese: Viviani, Commedia I 287.

44 Cfr. Torelli 20: «aveva ancora il primo con più stretta inerenza scritto “Canta o Dea l’ira”: ma cancellò per quel finir tutto in a».

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corrispondere all’oraziano «dic mihi Musa» dell’ Odis-sea.45

Foscolo accetta sì la condanna montiana al concorso delle quattro a,46 ma nel contempo rivela di aver dato rilievo nella sua versione all’ira in quanto elemento ba-silare dell’Iliade. Viene subito in mente, per prossimità cronologica, un distico celeberrimo dei Sepolcri, «e tu prima, Firenze, udivi il carme / Che allegrò l’ira al Ghi-bellin fuggiasco». La prima parola dell’Iliade combacia con l’impulso primario di Dante esule. Ancora una volta il parallelismo è suggerito da Vico: «Dante fornito di poetici favellari impiegò il colerico ingegno nella sua Commedia: nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia, in narrando ire implacabili, delle quali una, e non più, fu quella di Achille».47

Vent’anni dopo la plaquette del 1807, le due tradu-zioni dell’Iliade di Foscolo e di Monti avevano cono-sciuto un destino opposto, incompiuta e nota solo in par-te quella di Foscolo, baciata dal successo e più volte ri-pubblicata quella di Monti. Anche alla luce di questa circostanza andrà letto il passo seguente:

45 Foscolo, Esperimento 2, 90, 98. 46 Diversa l’opinione espressa dall’edizione dantesca: «il concorso

di più a inevitabilmente protratte conferisce a grandezza. Tale era l’opinione de’ Greci, e ne adducono esempi da Omero» (EN IX, 2, 9). Si spiega allora la predilezione per la forma piena nel titolo della seconda ode, Alla amica risanata, e poi per le a dell’incipit, «Qual dagli antri marini / L’astro più caro a Venere». In altre occasioni, però (EN IX, 2, 78 e 155), la successione di a dispiace a Foscolo.

47 Vico, Opuscoli 231-32.

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Omero, non che inframmettersi pur una volta fra gli spettatori e gli attori, dileguasi come se volesse far ap-parire il poema caduto dal cielo; e ove mai ne fa cen-no, diresti che intenda di rammentare che non è opera d’uomo. Contrasta, parmi, alla mente e al tenore di tut-ta l’Iliade, chi traduce CANTAMI, O DIVA, nel primo verso. Mostra a dito l’autore, appunto quand’ei più brama nascondersi; fa ch’ei s’arroghi il merito di ridire cose non risapute dall’alto, se non da lui; quando inve-ce il CANTA, O DEA, nell’originale la invoca a farsi udi-re da tutto il genere umano. Quel MI, o che m’inganno, ristringe la circonferenza del Mondo, e riduce all’orecchio di un solo mortale il canto divino che nel verso Greco par che diffondasi a un tratto per l’ univer-so. La versione d’Orazio DIC MIHI MUSA VIRUM, ri-sponde letteralmente al principio dell’Odissea, e per-ciò appunto non è da prestarla all’Iliade. (EN IX, 1, 453) Questa pagina risente della divaricazione vichiana

fra Dante, forte individualità, ed Omero, figura mitica e non individuale. La divaricazione giunge a tal punto che nel Giudizio sopra Dante l’autore della Commedia vie-ne accostato più a Petrarca e Boccaccio che a Omero. La discoverta del vero Omero, come s’intitola il terzo, centrale, capitolo della Scienza nuova, è appunto questa, che Omero non è mai esistito, e che le sue opere sono frutto di una creazione collettiva. Foscolo non arriva a tanto: attenua l’«ipotesi del Vico, che Omero non abbia scritto poemi»,48 nel senso che egli, a differenza di Dan-

48 EN IX, 1, 196. È l’unica citazione esplicita di Vico negli studi

danteschi di Foscolo.

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te, non è presente come arci-personaggio nelle sue ope-re. Perciò la traduzione montiana della protasi dell’ Ilia-de è impropria, perché trascina in primo piano la sogget-tività del poeta, come improprio è il riferimento alla versione oraziana, adatta piuttosto all’Odissea.

Ciò comporta due conseguenze rilevanti. In primo luogo è chiara la diversità fra l’Iliade, che narra i grandi casi della politica, e l’Odissea, che ritrae la «vita dome-stica e giornaliera degli uomini».49 In secondo luogo l’oggettività del perfetto modello epico non affida a se-gnali retorici o grammaticali (qui il pronome enclitico mi) il rapporto empatico dell’autore con la sua materia.50 L’appendice all’Esperimento ricorda che Fidia per scol-pire Giove si ispirò a tre versi dell’Iliade in virtù della potenza rappresentativa di Omero, il quale non faceva sfoggio della sua arte, a differenza di imitatori come Virgilio, Orazio e Alfieri. Conclude Foscolo che «in Omero l’autore si nasconde e non si vede che il qua-dro».51 Omero è davvero esistito, ma ha così dissimulato la propria soggettività da ispirare gli artisti. Monti traduttore dell’Iliade non ha capito le implicazioni di questa authorship peculiare, come spiega l’Essay on the Present Literature of Italy (1818): «Monti has given an agreeable colouring to the pictures of the Iliad; but he

49 Diversità espressa da Foscolo (EN IX, 1, 453-54) nei termini

della Ragion poetica di Gravina: «volle Omero in due favole ritrarre l’umana vita. Nell’Iliade comprese gli affari pubblici e la vita politi-ca, nell’Odissea gli affari domestici e la vita privata; in quella espose l’attiva, in questa la contemplativa» (234).

50 Pastore Stocchi 231. 51 Foscolo, Esperimento 113-14.

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has not always been sufficiently exact in his representa-tion of him, who is, as it were, the master of design, and the father of all the great artists».52 Nessun traduttore deve togliere a Omero la maschera indossata in quanto «maestro di design», del soggetto figurativo.

Lo stesso tipo di poesia ecfrastica Foscolo mira a re-alizzare con le Grazie: esse intendono fornire appunto una serie di designs da usare nelle belle arti.53 Il modello non dichiarato di quest’arte ecfrastica è Giuseppe Parini. L’Essay del 1818 evidenzia che l’autore del Giorno ha dispiegato tutto il suo talento per mettere in pratica il concetto neoclassico che la poesia deve dipingere, non descrivere.54 La riflessione sul senso della tradizione let-teraria italiana condotta dal Foscolo dantista va decifrata in chiave di poetica militante, nasce cioè dalla tacita ri-vendicazione di aver raccolto l’eredità di Parini (contro Monti) e di Alfieri (contro Biagioli).

Tale rivendicazione merita un breve approfondimen-

to. Essa era tutt’altro che scontata nell’ambiente dei fuo-riusciti italiani a Londra. Vi era giunto dalla Francia nel 1823 un altro reduce dal laboratorio politico della Re-pubblica romana, Luigi Angeloni, promotore di diverse organizzazioni settarie della prima Restaurazione. An-geloni racconta di aver letto su un periodico inglese u-scito l’anno precedente, The Museum, una rassegna a-nonima di scrittori italiani contemporanei, in cui Fosco-

52 EN XI, 2, 461. 53 EN I, 1096: «that poem [...] is intended to furnish a series of de-

signs for the use of the fine arts». Cfr. Colombo-Spera 170. 54 Obbligato il rinvio a Isella 79-102.

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lo, erede di Dante, Alfieri e Parini quanto a indipenden-za morale, era contrapposto a Monti compromesso col potere romano. «Da Dante a Ugo Foscolo lo spazio è incommensurabile», commenta allora Angeloni, il quale insinua che a dettare o almeno a suggerire la rassegna sia stato Foscolo stesso.55 La Lettera apologetica lo ne-ga, ma con sottile ambiguità: i pennivendoli delle gaz-zette, i compilatori di dizionari biografici, i cacciatori di pettegolezzi, ricamano all’infinito su qualche frammen-to di realtà, a completa insaputa degli scrittori interessa-ti56. A ben vedere il passo del Museum che indispettiva Angeloni è troppo simile a quello di una lettera fosco-liana del 1806 perché si possa parlare di semplice coin-cidenza: «Oh s’egli [Monti] avesse anima più alta! e forse l’aveva quanto il Parini e l’Alfieri, ma la corte di Roma l’ha guasto».57 Si può supporre allora che l’ esten-sore della rassegna del Museum fosse non un semplice

55 Angeloni, Della forza 178-80. 56 Foscolo, Lettera apologetica 44-45. 57 EN XV 151, da confrontare col seguente passo del Museum:

«Brought up to the court of Rome, it was likely he [Monti] would attach himself to that ‘great majority’ which in Italy can only boast of such exceptions [...], as Dante, Alfieri, Parini, and Ugo Foscolo» (cit. da Angeloni, Della forza 179 n. b). Stando a un’altra Lettera apologetica, quella dell’antifoscoliano di lungo corso Urbano Lam-predi, la rassegna del Museum sarebbe stata scritta da Foscolo e poi fatta tradurre da un irlandese, il quale gli avrebbe fatto causa per compensi non saldati (Lampredi 11 n. a). È l’identikit di William Williams, tra il ’21 e il ’22 traduttore dell’articolo sul Digamma eo-lico, il cui contenzioso con Foscolo fu ricomposto grazie alla media-zione del già citato Redding.

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conoscente di Foscolo, bensì una persona a lui legata da un’intima frequentazione.58

Al di là delle strategie autopromozionali indiretta-mente messe in atto dal Foscolo inglese, il suo duello di penna con Angeloni coinvolge uno dei cardini della let-tera-manifesto a Capponi, la readership di un’edizione dantesca. La Commedia è un «libro da Italiani», e in ita-liano la commenta Foscolo. Sono posizioni antitetiche rispetto a quelle di Angeloni: questi da una parte racco-manda il Dante di Biagioli agli stranieri; dall’altra si chiede provocatoriamente perché Foscolo, colpevole di aver biasimato l’eccesso d’imitazione boccacciana nella prosa d’arte, non sia ancora passato all’inglese per i suoi articoli letterari.59 Sin dai tempi della prolusione pavese Foscolo considera la lingua veicolo di civiltà e cono-scenza, non vuoto esercizio di stile. Perciò una sua lette-ra del 1826 liquida con sarcasmo l’invito paradossale di Angeloni, il «buon vecchio di Frosinone» che vorrebbe «il dominio della lingua italiana».60

Torniamo ora a Viviani. Un altro prodotto della filo-

logia trivulziana rielaborato da Foscolo è il catalogo di manoscritti e incunaboli contenuto nel primo volume del Dante bartoliniano. Nel Discorso Foscolo conferma che quel catalogo è «ricchissimo», e promette di ristam-parlo nella sua edizione,61 pur dubitando che esso sia un censimento accurato degli incunaboli della Commedia.

58 Al proposito è ancora valida la ricostruzione di Gambarin 79-85. 59 Angeloni, Dell’Italia 313-14; Della forza 177. 60 OEP VIII 186-87. 61 EN IX, 1, 289.

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Abbiamo già visto che secondo Foscolo nessun editore, ad eccezione di Lombardi, ha saputo valorizzare le va-riae lectiones di quegli incunaboli: chi ha promesso di farlo si è in realtà limitato a rimandare alle «edizioni an-tiche», senza entrare nello specifico.62 Simili allegazioni sommarie spesseggiano nelle chiose di Viviani, benché questi si fosse impegnato nella prefazione a «collaziona-re le rarissime antiche edizioni, che finora sono state neglette», grazie alla biblioteca del marchese Trivul-zio.63

Malgrado i limiti del repertorio di Viviani, Foscolo ha mantenuto la promessa di includerlo nella sua edi-zione, e, grazie forse a Panizzi, l’ha integrato con il ca-talogo delle Commedie pubblicato dall’edizione-archivio della Minerva, ancora con il sostegno di Tri-vulzio.64 Il fatto è che lo stesso catalogo della Minerva è un centone dei precedenti di Volpi e di De Romanis, e

62 EN IX, 2, 256. 63 Nel primo volume del Dante bartoliniano spiccano ad esempio

le seguenti chiose: a Inf. XI 37 («Omicidi, non omicide, hanno la maggior parte dei codici e delle edizioni antiche»); a Inf. XVIII 7 («ai codici e alle antiche edizioni che leggono come il B[artoliniano], viene in sussidio la critica»); a Inf. XVIII 43 («La ragione della cosa, e l’appoggio della miglior parte dei codici e delle antiche edizioni, mi hanno fatto aderire al Lombardi»); a Inf. XXIV 119 («Potenzia leggono più di 20 de’ migliori codici, e quasi tutte le antiche edizioni»).

64 Minerva, Commedia V 537-74, riporta la Serie dell’edizioni del-la ‘Divina Commedia’. Nello stesso volume gli editori rivelano: «abbiamo riprodotto il Catalogo cronologico delle edizioni della di-vina Commedia, già pubblicato dal Volpi, arricchito dal sig. De Ro-manis, e da noi pure accresciuto e corretto, grazie principalmente alle cure del cultissimo sig. marchese G. G. Trivulzio» (x).

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in operazioni di tal fatta il totale è sempre inferiore alla somma delle sue parti. Foscolo s’illude di fornire al let-tore Notizie e pareri diversi intorno a forse duecento codici e alla serie delle edizioni della ‘Commedia’ di Dante, come recita il titolo della sua bibliografia, pre-servata manoscritta a Varallo. In realtà la costruzione per accumulo (Volpi, De Romanis, Minerva, Viviani) sottrae al censimento foscoliano coerenza interna (i co-dici sono censiti per collocazione geografica, le edizioni per successione cronologica), complementarità (è pro-mossa a testo una nota dell’edizione udinese, che affer-ma l’inutilità di un’indagine come quella condotta da Foscolo nel suo catalogo),65 in una parola affidabilità (ad esempio gli incunaboli di Foligno e di Jesi sono de-scritti due volte). Foscolo disattende quel procedimento euristico per errorem ad veritatem fondato sulla com-presenza di ricerca erudita muratoriana e sintesi filoso-fica vichiana, che rappresenta l’arco di volta del Discor-so: l’erudizione, la raccolta di «fatti», rimane disgiunta dal controllo della loro attendibilità e dall’ orchestrazio-ne in un sistema superiore. Potrebbe in sostanza esser ripetuto per l’erudizione senza filosofia del catalogo fo-scoliano quel che il Discorso stesso osserva a proposito dell’edizione udinese, ovvero che «molti errori [...] ser-peggiano pur nondimeno talora per via di citazioni di seconda mano [...] e spesso per via di plagi silenziosi; e

65 EN IX, 2, 270, promuove a testo la nota b di Viviani, Commedia

I liii.

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si avviticchiano a nuovi sistemi in guisa da illudere gli autori e i lettori».66

Non sorprende dunque constatare che il ruolo storico del catalogo foscoliano fu pressoché nullo, non tanto per i limiti appena evidenziati, quanto per la sua poco pro-pizia collocazione cronologica. Quel catalogo uscì nel 1843, nel quarto tomo della princeps di Mazzini. Di lì a poco, a partire dal 1845, sarebbe cominciata a Prato la stampa della monumentale Bibliografia dantesca di Paul Colomb De Batines: «la prima e unica opera che documenta con uno sguardo d’insieme, esteso a mano-scritti e stampe di ogni epoca e di ogni luogo, l’ampio fluire della tradizione della Commedia e dei suoi com-menti, in una concezione unitaria, coerente e vigoro-sa».67 Una pietra miliare insomma, così rilevante da re-trocedere i repertori precedenti a tentativi malcerti. An-che se imputa alla curatela di Mazzini i limiti del cata-logo foscoliano, De Batines non può fare a meno di ser-virsene nei punti dove il poeta, messi da parte i plagi non dichiarati, formula osservazioni personali su edi-zioni effettivamente maneggiate.68 Ciò conferma che, in definitiva, il catalogo foscoliano aiuta a capire il Fosco-lo dantista ben più che la tradizione editoriale della Commedia.

66 EN IX, 1, 270-71. 67 Zamponi-Guerrini-De Laurentiis 303. 68 «Pare che l’esule italiano» – scrive Colomb De Batines I 7 – «al-

le cui cure è dovuta questa edizione postuma delle fatiche Dantesche del Foscolo, non portasse in questo lavoro bibliografico tutta la dili-genza desiderabile». Giudizi di Foscolo sono trascritti da Colomb De Batines I 133, 141, 147, 156, 267.

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157

Alla pur bistrattata edizione udinese Foscolo assegna

insomma gran rilievo per almeno tre motivi: perché è un vient de paraitre di sicuro richiamo; perché offre un commento filologico, l’unico termine di paragone per quello foscoliano; perché fa da veicolo al concorso di voci della filologia trivulziana. In più il lavoro di Vivia-ni rappresenta un nuova occasione per riflettere sulla «scienza dei fatti», sulla necessità di un vaglio rigoroso dei dati raccolti, in contrasto a un sapere lineare, cumu-lativo e progressivo, in cui le nuove acquisizioni fan massa con le vecchie, senza mai rinnegarle o discuterle.

Alla fine del primo volume della sua edizione, Vi-viani stampa la più antica versione latina di alcuni canti del poema (Inf. IV, dal v. 13, V, VI e parte del VII).69 Tale versione, anonima, è tràdita dal manoscritto chia-mato “fontaniniano” dal nome del suo antico proprieta-rio, monsignor Giusto Fontanini. Questi, e in seguito al-tri eruditi settecenteschi come A. M. Salvini e G. M. Crescimbeni, consideravano quel testo latino la primiti-va versione della Commedia: così pensava lo stesso Vi-viani, il quale per primo pubblica il testo latino «con e-roicomica premessa e molti concieri»,70 e lo correda di chiose miranti a confermare alcune varianti testuali da lui in precedenza sostenute. Da parte sua Foscolo, men-

69 Viviani, Commedia I 303-30. 70 Contini, Il manoscritto 417. Dei concieri di Viviani si servì lo

stesso Contini nell’edizione dell’anonima versione latina cui stava attendendo al momento della morte: cfr. Gavazzeni-Gorni viii-ix. Per una prima introduzione al problema della fantomatica ur-Commedia in latino, si vedrà Santagata 89-91, 368-71.

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tre riporta in un’appendice i versi latini pubblicati da Viviani, ha gioco facile a far notare che essi rispondono così pedissequamente ai volgari che non permettono neppure di supporre che Dante si ritraducesse da sé. La presunta Commedia latina, additata dalla venerazione passiva dei dotti di professione, altro non è che una ver-sione dal volgare dantesco.71 La scienza dei fatti di ma-trice vichiana postula invece il rifiuto della tradizione come criterio autoritativo, sul modello del consensus gentium.

Viviani ignora l’appendice dedicata da Foscolo al codice fontaniniano, rimasta inedita sino alla princeps di Mazzini. Intenzionato però a completare la sua edizione con un terzo volume, ne ritarda la pubblicazione, allo scopo di leggere il commento foscoliano completo, di cui crede imminente l’uscita.72 La prefazione al terzo volume del Dante bartoliniano, proposta ancora nella forma della lettera aperta a Trivulzio, è un capitolo di rilievo della primissima ricezione del Discorso. Viviani attenua alcune sue tesi (ora il Bartoliniano non è più un quasi certo autografo, bensì un codice trecentesco, an-corché il più antico che si conosca), accetta certe criti-che di Foscolo per neutralizzarle (ammette ad esempio

71 EN IX, 2, 314-16. 72 Il manifesto del terzo volume del Dante bartoliniano risale al

giugno del 1826. Il volume, in due tomi, uscì però più tardi, tra il ’27 e il ’28, perché Viviani era venuto a conoscenza dell’imminente pubblicazione a Londra delle edizioni dantesche di Rossetti e di Fo-scolo. Questa spiegazione si trova nella lettera di Torti a Viviani del 7 ottobre 1826, riportata da Rati 251.

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d’aver fatto il pedante per combattere i pedanti),73 non ribatte alla principale imputazione del Discorso, quella di aver falsificato il suo codice prediletto. Nella rivalità con il vecchio compagno di studi, Viviani conferma la sua indole di figura ponte priva di solida personalità, giacché non smette di cercare la tutela sia di Cesarotti, il suo «sommo maestro e padre», sia di Monti e Trivulzio, i garanti dell’originario progetto del Dante bartoliniano.

Tale arroccamento è perseguito a prezzo di contrad-dizioni lampanti. In primo luogo è del tutto evidente che, malgrado gli sforzi contrari di Viviani, la Comme-dia rimane estranea al canone di Cesarotti. Negli anni della sua formazione il maestro padovano aveva avuto la ventura di frequentare la ricchissima biblioteca del suo concittadino Volpi, il primo grande editore della Commedia nel Settecento. Ciò non gli aveva impedito di perpetuare le riserve di quel secolo sul poema dantesco e sulla sua grandezza raggiunta a dispetto della cultura e dell’arte. Sono le stesse riserve a fatica dissimulate dagli stralci danteschi del Saggio sulla filosofia delle lingue che Viviani ha trascritto nella prefazione al terzo volu-me. In secondo luogo, benché Trivulzio e più ancora Monti prendano le distanze dal Dante bartoliniano,74 Viviani continua però a ribadire la sua fedeltà alla filo-logia trivulziana e al suo frutto più maturo, l’edizione

73 Cfr. EN IX, 1, 273: «Potrebbe anche darsi che l’eruditissimo il-

lustratore [Viviani] s’intendesse d’imitare ironicamente le usate dis-sertazioni de’ professori di filologia per rivelarne l’assurdità»; e Vi-viani, Commedia III xvi: «quando taluno è costretto a disputar coi pedanti, gli è d’uopo vestirne qualche volta le tonache».

74 A. Colombo, L’eredità dantesca.

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del Convivio curata tra gli altri dai medesimi Monti e Trivulzio. Oltre a riportare le varianti di quest’edizione, di per sé irrelate all’impianto del Dante bartoliniano, nella stessa prefazione Viviani afferma che il Convito degli “Editori milanesi” ha confutato l’idea di Foscolo che fa di Dante uno scismatico, e della Commedia un «codice d’impostura», non diverso dal Corano.75

Questo riferimento ha un duplice significato: per un verso, dato che richiama un’opera finita di stampare all’inizio del 1827, benché retrodatata al 1826 sul fron-tespizio, smentisce – o almeno mette in dubbio – la pre-tesa di Viviani di aver fatto conoscere per primo in Italia il Discorso; per l’altro verso ripropone l’incognita del sapere di seconda mano, della pertinenza e verificabilità dei «fatti». Foscolo afferma senza possibilità d’ equivo-co che Dante fu sì un riformatore religioso («riceveva illusioni a sperare dalla religione, alla quale egli s’era costituito riformatore»), ma non uscì mai dal perimetro dell’ortodossia («non come quelli che poi si divisero dalla Chiesa del Vaticano»),76 come confermano sia la professione di fede del canto XXIV del Paradiso, svi-scerata a lungo nelle sezioni XLII e XLIII del Discorso, sia l’affermata apocrifia del cosiddetto Credo di Dante, ovvero di Alcuni versi che fece Dante Alighieri quando gli venia apposto essere eretico e non credere in Dio.77

75 Viviani, Commedia III xx, cita la Prefazione, scritta da A.M.

Maggi a nome degli “Editori Milanesi”, a Dante, Convito xx: «l’Alighieri trasformato per lo meno in un impostore scismatico [...], e la Divina Commedia accomunata coll’Alcorano».

76 EN IX, 1, 237. 77 EN IX, 1, 561.

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Il Discorso osserva en passant che, per disinnescare la forza dirompente della proposta di riforma religiosa di Dante, questi fu reputato un eretico, e la sua Commedia, non diversamente dal Corano, finì all’Indice, nel senso che da essa furono espurgati tre passi. Gli “Editori mila-nesi” non soltanto tramutano indebitamente questo pas-saggio incidentale – «Dante morì in odore d’eresiarca; e la Divina Commedia e l’Alcorano [...] furono poscia in-famati negli Indici dell’Inquisizione»78 – in uno dei ca-pisaldi del sistema foscoliano, ma in più ne travisano il senso, avviando il familiare processo di degradazione entropica del sapere di seconda mano, che coinvolge re-censioni, libelli compilatori, persino opere d’alto profilo scientifico, come il commento di Niccolò Tommaseo.79

78 EN IX, 1, 245. 79 L’attribuzione a Foscolo della tesi di un Dante scismatico è ri-

lanciata dalle recensioni: quella di S. Betti allo stesso Convito del 1826 («Foscolo, il quale interpretando a suo pieno capriccio molti luoghi degli scritti dell’Alighieri, vuole nel cantore divino avvisare un nuovo Maometto, e nell’immortal poema [...] un nuovo corano»: 362), e quelle ad opere foscoliane oggi riportate dall’Ed. Nazionale: si vedano EN Bibl., II 146 («il sistema foscoliano [...] si aggira dun-que su questi due cardini: la Divina Commedia è sorta come un altro Corano, e Dante ne sarebbe stato il Maometto»), 167 («Pare, s’è vero ciò che sento dirne, ch’ei siasi imaginato in Dante una specie di Ma-ometto, e voglia spendere l’ingegno a provarci che la Divina Com-media è un secondo Corano»). Lo stereotipo crescit eundo, e alligna in opere molto diverse tra loro. Vaccaro 6 ripete senza più ambagi le parole dell’ultima recensione: «si è invero immaginato in Dante una specie di Maometto, e vuole spendere il suo sapere a provarci che la Divina Commedia è un secondo Corano». Si veda infine Tommaseo, Commedia I 175: «[...] acciocché sia smentito il sogno del Foscolo che voleva fare di Dante un Maometto, senza che egli, anima franca,

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In definitiva Foscolo finisce a sua volta vittima di una piaga che aveva denunciato, parlando della presunta Commedia in latino, ma rispetto alla quale era vulnera-bile, come dimostra il suo raffazzonato catalogo di co-dici ed edizioni.

mai pronunciasse parola accennante a cotesto: cioè farne un pazzo e un vile e un ipocrita». Per una corretta esegesi, Nardi 185-86.

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Dei Sepolcri. Carme di Ugo Foscolo. Edizione critica a cura di Giovanni Biancardi e Alberto Cadioli. Milano: il Muro di Tessa, 2010. Stampa.

* Si registrano i soli testi e studi citati nel presente volume. Stru-

menti indispensabili di lavoro sono due bibliografie: quella foscolia-na in due tomi curata da Giuseppe Nicoletti nel 2011, in appendice all’Edizione lemonnieriana delle Opere; e quella online della Società dantesca italiana, aggiornata però dagli anni Settanta del secolo scor-so (‹http://domino.leonet.it/sdi/bibliografia.nsf›; ultima consultazio-ne 26 settembre 2014).

FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI

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EN I Poesie e carmi. Poesie - Dei sepolcri - Poesie postume - Le Grazie. A cura di Francesco Pa-gliai, Gianfranco Folena, Mario Scotti. 1985.

EN III Esperimenti di traduzione dell’‘Iliade’. Edi-zione critica a cura di Gennaro Barbarisi. 3 voll. 1961-67.

EN V Prose varie d’arte. Edizione critica a cura di Mario Fubini. 1951.

EN VI Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808. A cura di Giovanni Gambarin. 1972.

EN VII Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811). Edizione critica a cura di Emilio Santini. 1933.

EN VIII Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816. Frammenti sul Machiavelli - Ipercalisse - Storia del sonetto - Discorsi sulla servitù d’Italia - Scritti vari. Edizione critica a cura di Luigi Fassò. 1933.

EN IX, 1 Studi su Dante. Parte prima. Articoli della E-dinburgh Review - Discorso sul testo della ‘Commedia’. A cura di Giovanni Da Pozzo. 1979.

EN IX, 2 Studi su Dante. Parte seconda. ‘Commedia’ di Dante Alighieri. A cura di Giorgio Petrocchi. 1981.

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EN XII Scritti vari di critica storica e letteraria (1817-1827). A cura di Uberto Limentani, con la collaborazione di John M.A. Lindon. 1978.

EN XV Epistolario. Volume secondo (luglio 1804 - dicembre 1808). A cura di Plinio Carli. 1952.

EN XVI Epistolario. Volume terzo (1809-1811). A cu-ra di Plinio Carli. 1953.

EN XVII Epistolario. Volume quarto (1812-1813). A cura di Plinio Carli. 1954.

EN XVIII Epistolario. Volume quinto (1814-Primo tri-mestre 1815). A cura di Plinio Carli. 1956.

EN XX Epistolario. Volume settimo (7 settembre 1816 - fine del 1818). A cura di Mario Scotti. 1970.

EN XXI Epistolario. Volume ottavo (1819-1821). A cura di Mario Scotti. 1974.

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2. Edizioni della ‘Commedia’

[Arrivabene] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri illu-

strata da Ferdinando Arrivabene. 2 voll. Brescia: per Car-lo Franzoni, 1812-13. Stampa.

[Biagioli] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, col co-mento di G. Biagioli. 3 voll. Parigi: Dondey - Dupré, 1818-19. Stampa.

[Campi] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri ridotta a miglior lezione con l’aiuto di ottimi manoscritti italiani e forestieri e soccorsa di note edite ed inedite antiche e mo-derne per cura del Cav. Giuseppe Campi. Vol. 1. Discor-

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[Dionisi] La ‘Divina Commedia’ di Dante Allighieri. [A cura di Giovanni Iacopo Dionisi]. 3 voll. Parma, nel Regal Pa-lazzo: co’ tipi bodoniani, 1795. Stampa. Riedito a Milano: Vallardi, 1965. Stampa.

[Foscolo] La ‘Commedia’ di Dante Allighieri illustrata da Ugo Foscolo. [A cura di Giuseppe Mazzini]. 4 voll. Lon-dra: Rolandi, 1842-43. Stampa.

[Hollander] La ‘Commedia’ di Dante Alighieri. Con il com-mento di Robert Hollander. Traduzione e cura di Simone Marchesi. 3 voll. Firenze: Olschki, 2011. Stampa.

[Lombardi] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri nova-mente corretta spiegata e difesa da F. B. L. M. C. [Fra Baldassarre Lombardi minore conventuale]. 3 voll. Roma: Fulgoni, 1791[-92]. Stampa.

[Minerva] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri col co-mento del p. Baldassarre Lombardi m. c. ora nuovamente arricchito di molte illustrazioni edite ed inedite. [A cura di Giuseppe Campi, Fortunato Federici e Giuseppe Maffei]. 5 voll. Padova: Tipografia della Minerva, 1822. Stampa.

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[Nidobeatina] La ‘Commedia’ col commento di Martino Pao-lo Nibia. Milano: Ludovico e Alberto Piemontesi, 1477-78. Stampa.

[Petrocchi] La ‘Commedia’ secondo l’antica vulgata. A cura di Giorgio Petrocchi. 4 voll. Terza ristampa. Firenze: Le Lettere, 2003. Stampa. Le Opere di Dante Alighieri. Edi-zione Nazionale a cura della Società dantesca italiana.

[Poggiali] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri già ri-dotta a miglior lezione dagli Accademici della Crusca ed ora accuratamente emendata, ed accresciuta di varie le-zioni tratte da un antichissimo codice. [A cura di Gaetano Poggiali]. 4 voll. Livorno: Masi, 1806-13. Stampa.

[Rossetti] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri con co-mento analitico di Gabriele Rossetti. 2 voll. Londra: Mur-ray, 1826-27. Stampa.

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[Zani De’ Ferranti] La ‘Commedia’ di Dante Alighieri con illustrazioni antiche e moderne pubblicata da M. Aurelio Zani De’ Ferranti. Parigi - Londra - Brusselles: Baudry - Rolandi - Meline, Cans e C., 1846. Stampa.

[Zatta] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri. 4 voll., 5 tomi. Venezia: Antonio Zatta, 1757-58. Stampa.

[Zotti] La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, illustrata di note da varj comentatori scelte ed abbreviate da Romual-do Zotti. Vol. 1. Londra: dai torchj di R. Zotti, 1808. Stampa. 4 voll. 1808-09.

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INDICE DEI NOMI* Abardo, Rudy: 109n, 169

Angeloni, Luigi: 151, 152, 152n, 153, 153n, 169

Angelucci, Liborio: 49

Anceschi, Giuseppe: 183

Antiseri, Dario: 191

Alberico di Montecassino (iunior): 82n, 185

Alessio, Gian Carlo: 182

Alfieri, Vittorio: X, 51, 52, 53, 53n, 54n, 55, 56, 56n, 57, 57n, 62, 63n, 130, 130n, 150, 151, 152, 152n, 170

Alfonso III d’Aragona: 126

Alfonso XI di Castiglia: 127

Alighieri, Jacopo (Iacopo): 63, 176

Alighieri, Pietro: 63, 79, 79n, 80, 80n, 104, 104n, 105

Aretino, Leonardo (Lionardo): vedi Bruni, Leonardo

Arrivabene, Ferdinando: 17n, 111, 111n, 112, 166, 175

* Non sono stati indicizzati i nomi di personaggi biblici, mitologici

e letterari.

INDICE DEI NOMI

198

Asquini, Girolamo: 146n, 176, 195

Auerbach, Erich: 27n, 176

Avalle, D’Arco Silvio: 26n, 102n, 176

Baldini, Massimo: 190

Ballarini, Marco: 184

Ballerio, Stefano: XIII

Barbarisi, Gennaro: 29n, 32, 32n, 164, 176, 180, 184, 186, 190, 193

Barbi, Michele: XII, 69, 72, 72n, 105, 105n, 176

Bartesaghi, Paolo: 173

Bartolini, Giovanni Antonio: 129

Battistini, Andrea: 22, 22n, 27n, 54n, 176

Bayle, Pierre: 55n, 170

Becchi, Fruttuoso: 168

Becherucci, Isabella: 172

Bellini, Eraldo: 184

Bellomo, Saverio: XII, 81n, 121n, 176

Bembo, Pietro: 107, 189

Benivieni, Girolamo: 118

Bentley, Richard: 28, 29n

Berno, Giuseppe: 117n

Berra, Claudia: 184

Berra, Giovanni: 76n

INDICE DEI NOMI

199

Bertoldi, Alfonso: 173

Bertolotti, Davide: 37, 37n, 177

Besomi, Ottavio: 194

Betti, Salvatore: 161n, 177

Bettinelli, Saverio: 51, 52, 53, 137, 137n, 170

Biagioli, Niccolò Giosafatte: X, 37, 38, 38n, 39, 39n, 40, 40n, 41, 41n, 42, 42n, 43, 44, 47, 48, 48n, 49, 49n, 50, 50n, 51, 51n, 52, 52n, 53, 54n, 58, 65, 75, 75n, 77, 77n, 86, 86n, 101, 101n, 106, 108, 122n, 131, 137, 146, 151, 153, 166, 173, 193

Biancardi, Giovanni: 163

Bianchi, Natascia: 89n, 177

Bigi, Emilio: 171

Bloom, Harold: 21, 21n, 57, 177

Blume, Friedrich: 145n, 177

Boccaccio, Giovanni: 20, 21, 61, 63, 64, 65, 65n, 72, 149, 171, 188

Bocchi, Andrea: 113n, 125n, 177

Bodoni, Giambattista: 70n, 71n, 76n, 179

Bognini, Filippo: 182

Bonacchi Gazzarrini, Giuliana: 18n, 177

Bonacina, Giovan Battista: 134n

Bonaparte, Napoleone: 105, 130n

Bonomi, Ilaria: 140n, 178

Boretti, Elena: 178

Borghi, Giuseppe: 168

INDICE DEI NOMI

200

Borsa, Paolo: XIII, 46n, 128, 128n, 163, 178

Boschi Rotiroti, Marisa: 78n, 178

Bossi, Giulio: 9, 9n, 10, 118, 180

Bossi, Giuseppe: 86, 87, 87n, 190

Botta, Irene: 172

Branca, Vittore: 170

Breschi, Giancarlo: 181

Brioschi, Franco: 185

Brocchi, Giambattista: 140n, 171

Bruni, Arnaldo: 140n, 165, 178

Bruni, Leonardo: 104, 104n, 105

Bruscagli, Riccardo:192

Buonarroti, Michelangelo: 42n

Byron, George Gordon: 12, 13n

Cadioli, Alberto: 163, 178

Calepio, Trussardo: 141n, 178

Campana, Andrea: 18n, 171

Campi, Giuseppe: 50n, 75n, 76n, 136n, 166, 167

Cancellieri, Francesco: 163

Canova, Andrea: 31n, 136n, 178

Capeto, Ugo: 47

Cappelletti, Cristina: 70n, 83n, 179

INDICE DEI NOMI

201

Capponi, Gino: 1, 1n, 2, 3, 4, 7, 12, 13, 17, 18, 19, 20, 21, 29, 153, 168, 177

Caproni, Attilio Mauro: 194

Carducci, Giosué: 35, 105, 105n, 179

Caretti, Lanfranco: 189

Carli, Niccolò: 111, 170

Carli, Plinio: 165

Carlyle, John A.: 13n, 14n, 167

Carnazzi, Giulio: 176, 180, 193

Carpi, Umberto: 22, 23, 32n, 105, 105n, 133n, 179

Caruso, Carlo: 194

Cary, Henry Francis: 9, 12

Casadei, Alberto: 64n, 136n, 179

Castellani Pollidori, Ornella: 187

Castiglia, Benedetto: 17n, 179

Cattaneo, Carlo: 62n, 179

Cavalcanti, Guido: 60, 66n, 111, 111n, 195

Cavallaro, Cristina: 194

Cesari, Antonio: 28, 67, 77

Cesarotti, Melchiorre: 20n, 27, 27n, 30, 30n, 129, 130, 130n, 131, 131n, 139, 140, 140n, 147, 159, 171, 176, 179, 180, 193, 196

Chiancone, Claudio: 129n, 179

Chiarini, Giuseppe: 166

Chiavacci Leonardi, Anna Maria: 57n, 179

INDICE DEI NOMI

202

Chiesa, Paolo: 178

Ciampini, Raffaele: 174

Cian, Vittorio: 9, 9n, 103, 103n, 118, 180

Ciccarelli, Lorenzo: 90, 90n, 91, 110

Cicerone, Marco Tullio: 70n

Cofano, Domenico: 190, 193

Coglievina, Leonella: 177

Colomb De Batines, Paul: 110n, 156, 156n, 180, 196

Colombo, Angelo: 87n, 144, 144n, 147n, 159n, 180

Colombo, Davide: 68n, 86n, 122n, 151, 180, 181

Coluccia, Rosario: 31n, 181

Contini, Gianfranco: 102n, 136n, 157n, 181

Corrado, Massimiliano: 80n, 109n, 181, 186, 188, 193

Costa, Gustavo: 90n, 181

Costa, Paolo: 27n, 83, 167

Crescienzo, Pietro (Pier Crescenzio): 10n, 11n

Crescimbeni, Giovanni Mario: 157

Cristofolini, Paolo: 23n, 175, 181

Croce, Benedetto: 21, 21n, 23n, 57, 57n, 172, 182

Cross, Maurice: 163

Cuoco, Vincenzo: 22

Dacre, Lord: 11n

D’Afflitto, Chiara: 178

INDICE DEI NOMI

203

D’Agostino, Alfonso: 7n, 182

Damiani, Rolando: 172

Danelon, Fabio: 176

Da Camino, Gherardo: 133

Da Polenta, Guido il giovane (Guido Novello): 64, 103

Da Polenta, Guido il vecchio: 54, 64

Da Ponte, Lorenzo: 50n, 171

Da Pozzo, Giovanni: 5, 6, 35n, 36n, 60n, 76n, 128n, 134, 134n, 164, 182

Da Vinci, Leonardo: 180

De Angelis, Violetta: 182

De Laurentiis, Rossano: 156n, 196

Del Borgo, Flaminio: 59

Della Lana, Jacomo: 146

Della Scala, Alboino: 104

Della Scala, Bartolomeo: 104, 104n

Della Scala, Cangrande (Can Grande, Cane): 60, 64, 65, 65n, 66, 66n, 79, 80, 103, 104, 105

Della Torre, Lodovico: 195

Del Rosso, Giuseppe: 118n

Del Vento, Christian: 22n, 182

De’ Mazzinghi, Thomas John: 11n, 182

Demostene: 27, 171

De Robertis, Domenico: 26n, 182, 185

De Romanis, Mariano: 154, 154n, 155

INDICE DEI NOMI

204

De Rosa, Carlantonio: 175

De’ Rossi, Bastiano: 108n

De Sanctis, Francesco: 21, 21n, 57, 57n, 103n, 182

Dibdin, Thomas Frognall: 89n, 90n, 182

Di Benedetto, Arnaldo: 170

Di Donato, Riccardo: 179

Di Giannatale, Fabio: 62n, 183

Dionisi, Giovanni Iacopo: X, XI, 66n, 67, 68, 68n, 69, 69n, 70, 70n, 71, 71n, 73, 74, 74n, 75, 75n, 76, 76n, 77, 77n, 78, 78n, 79, 79n, 80n, 81, 81n, 82, 82n, 83, 83n, 86, 87, 88, 90n, 96, 98, 104, 104n, 105, 105n, 106, 109, 121n, 135, 137, 142n, 167, 179, 183, 188

Dionisotti, Carlo: 13n, 58, 58n, 76n, 103n, 183

Di Ricco, Alessandra: 170

Dondey-Dupré, Auguste-François: 42n

Doria Prosalendi, Stelio: 109

Dorigo, Ermes: 133, 133n, 183

Fabre, Francesco Saverio: 111n

Fagan, Luigi: 9n, 124, 124n, 172

Falereo, Demetrio: 29n

Fauriel, Claude: 38, 38n, 172

Fassò, Luigi: 164

Fayolle, Luigi: 38, 38n

Federici, Fortunato: 75n, 167

INDICE DEI NOMI

205

Federici, Gabriele: 113n, 183

Ferdinando IV di Castiglia: 127

Fernow, Carl Ludwig: 109n, 184

Festanti, Maurizio: 192

Fiammazzo, Antonio: 131n, 133, 133n, 184

Fidia: 150

Fischetti, Giuseppe: 32n, 36n, 184

Flora, Francesco: 21n, 172

Folena, Gianfranco: 164

Foligno, Cesare: 165

Fontanini, Giusto: 157

Frascotti, Gaudenzio: 113, 125

Frassineti, Luca: 173

Frasso, Giuseppe: 81n, 96n, 133n, 184, 190, 191

Fraticelli, Pietro: 132, 132n, 133, 185

Fubini, Mario: 103n, 164, 170, 185

Fusco, Silvia: 112n

Gadda, Carlo Emilio: 186

Gallenga, Antonio: 13n, 175

Gambarin, Giovanni: 153n, 164, 185

Garavini, Fausta: 173

Gavazzeni, Franco: 157n, 185

Gazzola, Giuseppe: 113n, 185

INDICE DEI NOMI

206

Gentili, Sonia: 142, 142n, 185

Geremia (profeta): 82, 82n

Getto, Giovanni: 47n, 185

Giabakgi, Maria Isabel: 190

Giacomo II di Aragona: 126

Giammattei, Emma: 172

Giannone, Pietro: 3, 3n, 42n, 124n

Gibbon, Edward: 58, 59n

Gigli, Ottavio: 118n, 185

Ginguené, Pierre-Louis: 43, 51, 52

Giovio, Paolo: 55n

Girardi, Maria Teresa: 184

Giunta, Claudio: 136n, 170

Gizzi, Corrado: 82n, 185

Gorni, Guglielmo: 157n, 170, 185

Gozzi, Gasparo: 137, 137n, 172

Gravina, Gianvincenzo: IX, 150n, 172

Grenville, Thomas: 13, 13n

Guerrini, Mauro: 156n, 196

Guglielminetti, Marziano: 173

Gurney, Hudson: VII, 8n, 11n, 17, 34n, 166

Hants: 112

Heyne, Christian Gottlob: 18, 20, 28

INDICE DEI NOMI

207

Hobhouse, John Cam: 13n

Hollander, Robert: 82n, 117n, 167

Horne, Philip R.: 174

Huet, Pierre Daniel: 73, 73n

Indizio, Giuseppe: 104n, 186

Inglese, Giorgio: XII, 7n, 64n, 137n, 186

Innocenti, Piero: 194

Invernizzi, Simone: XIII, 36n, 95n, 186

Isella, Dante: 151n, 186

Jakobson, Roman: 102n

Johnson, Samuel: 144

Lampredi, Urbano: 152n, 172

Landino, Cristoforo: 88, 89, 89n, 118

Lardner, Dionysius: 14n, 186

Latini, Brunetto: 60

Lavagetto, Mario: 57n, 186

Lehnus, Luigi Angelo: 32n, 186

Leopardi, Giacomo: 18, 18n, 19, 20, 25, 25n, 26n, 29, 32n, 35, 52, 52n, 131, 171, 172, 177, 182, 183, 193

Limentani, Uberto: 165

Lindon, John: 2n, 4n, 165, 187

INDICE DEI NOMI

208

Lombardi, Baldassarre: XI, 11n, 30, 43, 48, 48n, 49, 50, 50n, 53, 65, 65n, 68, 74, 75, 83, 85, 86, 86n, 87, 88, 91, 91n, 92, 92n, 93, 93n, 94, 95, 96, 97, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 105, 105n, 106, 109, 116, 120n, 121n, 135, 137, 138, 138n, 154, 154n, 167, 173, 181, 188

Lomonaco, Francesco: 22, 55n, 187

Longino: 24

Longo, Nicola: 185

Lucano, Marco Anneo: 120n

Luigi XVIII: 48

Mabil, Luigi: 130

Machiavelli, Niccolò: 90n, 164

Maderni, Filippo: 89

Maestosi, Danilo: 185

Maffei, Giuseppe: 75n, 167

Maffei, Scipione: 59

Maggi, Antonio Maria: 160n

Maggi, Carlo Maria: 186

Malato, Enrico: XII, 7n, 33n, 136n, 178, 181, 186, 187, 188, 193

Mancini, Girolamo: 81n, 184

Manetti, Antonio: 118, 118n

Manni, Paola: 187

Mantovani, Dario: 172

Manzani, Domenico: 108

INDICE DEI NOMI

209

Manzoni, Alessandro: 38, 38n, 46, 46n, 58, 172, 176, 183

Maraschio, Nicoletta: 187

Marazzi, Martino: XIII

Marchesi, Simone: 167

Marchetti, Giovanni: 83

Mari, Michele: 45n, 46n, 144n, 187

Martelli, Diego: 112

Marucci, Valerio: 168

Marzo, Antonio: 98n, 188

Mayer, Enrico: 127, 166

Mazzacurati, Giancarlo: 4n, 22n, 72n, 188

Mazzini, Giuseppe: 1, 1n, 6, 8, 15n, 57n, 113n, 114n, 115, 123, 123n, 125, 125n, 126, 127, 128, 128n, 134, 156, 158, 167, 177, 183, 191

Mazzoni, Luca: XIII, 7n, 68, 68n, 71n, 79n, 83n, 104n, 106n, 142n, 188

Mazzucchelli, Pietro: 96n, 144, 145, 184, 190, 191

Mazzucchi, Andrea: 178, 181, 186, 188, 193

Mecca, Angelo Eugenio: 7n, 90n, 96n, 108n, 137n, 188

Mehus, Lorenzo: 78

Menichetti, Aldo: 26n, 189

Mezzetta, Enrica: 21n, 172

Mineo, Nicolò: 62n, 189

Milanini, Claudio: XIII

Milton, John: 140

INDICE DEI NOMI

210

Mocenni Magiotti, Quirina: 92

Montaigne, Michel de: 7, 7n, 173

Monti, Vincenzo: XIII, 20n, 35, 42, 48n, 49, 49n, 86n, 91, 92, 92n, 130, 144, 145, 147, 147n, 148, 150, 151, 152n, 159, 160, 173, 180, 186

Molini, Giuseppe: 110, 112

Moore, Edward: 136n, 189

Motta, Uberto: 184

Muratori, Ludovico Antonio: 45, 46, 46n, 58, 101, 171

Murray, John: 35

Mussi, Luigi: 86, 87, 87n, 88, 88n, 96, 168

Nardi, Bruno: 162n, 189

Nay, Laura: 173

Negroni, Carlo: 6, 6n, 189

Nibia (Nibbia, Nidobeato), Martino Paolo: 85, 86, 95, 168, 176

Niccolini, Giovan Battista: 136n, 168

Nicoletti, Giuseppe: 24n, 88n, 91n, 112n, 163n, 165, 166, 173, 189, 190

Novello, Guido: vedi Da Polenta, Guido il giovane

Nozzoli, Anna: 192

Olivi, Giuseppe: 172

INDICE DEI NOMI

211

Omero: IX, 3, 17, 18, 18n, 19, 20, 20n, 21, 22, 24, 28, 29, 29n, 30, 30n, 54, 72n, 73, 101, 137, 137n, 140, 140n, 144, 148n, 149, 150, 150n, 151, 165, 171, 175, 178, 181

Orazio Flacco, Quinto: 149, 150

Orlandini, Francesco Saverio: 110n, 166, 190

Ottimo (commento): 79, 80, 80n, 81n, 181

Pagliai, Francesco: 164

Palmieri, R.: 190

Palumbo, Matteo: 143n, 190

Panizzi, Antonio: 2, 3n, 9n, 59, 124, 124n, 125n, 127, 154, 172, 177, 183, 192

Parenti, Marcantonio: 75, 75n, 141, 141n, 190

Parini, Giuseppe: 6n, 55n, 151, 152, 152n, 173, 186

Pascoli, Giovanni: 35

Pasquini, Emilio: 71n, 171, 190

Pastore Stocchi, Manlio: 150n, 190

Pavese, Cesare: 18n, 173

Payne Knight, Richard: 19, 20, 28, 29, 29n, 72n, 90n, 173

Pecchio, Giuseppe: 15n, 173

Pedretti, Paolo: 87n, 190

Pensa, Maria Grazia: 172

Pelli, Giuseppe: 40, 40n, 66n, 190

Perazzini, Bartolomeo: X, XI, 67, 68, 68n, 69, 69n, 70, 70n, 71, 71n, 73, 75n, 77, 78, 79n, 82, 90n, 106, 173, 180, 188

INDICE DEI NOMI

212

Petrarca, Francesco: 35, 43n, 55, 62, 63, 149, 165, 188, 194

Petrocchi, Giorgio: XII, 6, 7, 31, 33, 85, 90, 91n, 113n, 123, 125, 126, 128, 128n, 134, 134n, 136n, 138, 142, 142n, 164, 168, 172, 178

Piatti, Guglielmo: 111, 111n

Pickering, William: 1, 2, 4, 7, 10, 10n, 11, 14, 17, 21, 34, 35, 44, 48, 63n, 76n, 100, 124

Pieri, Mario: 130

Poggiali, Gaetano: XII, 92, 92n, 99, 107, 108, 108n, 109, 109n, 110, 111, 114, 116, 116n, 117, 117n, 118, 119, 119n, 120, 120n, 121, 121n, 122, 122n, 131, 168, 181

Pope, Alexander: 140, 195

Popper, Karl R.: 45n, 190

Puccini, Niccolò: 17, 18, 18n, 131, 174, 177

Quondam, Amedeo: 45n, 60n, 172, 191

Raimondi, Ezio: 172

Rati, Giancarlo: 158n, 191

Redding, Cyrus: 39n, 152n, 174

Reina, Francesco: 6n

Renier Michiel, Giustina: 131n

Ricci, M.: 190

Ricci, Pier Giorgio: 171

Rodella, Massimo: 145n, 185, 190, 191

Rolandi, Luigi: 113

INDICE DEI NOMI

213

Rolandi, Pietro: 113, 183, 191

Romerio, Giulio: 113, 113n, 125, 191

Roscoe, William: 58, 59, 59n, 143n

Rossetti, Gabriele: 40n, 44n, 158n, 168, 174

Rossi, Arcangelo: 191

Russo, Luigi: 57n, 191

Salfi, Francesco: 131n, 191

Salutati, Coluccio: 78

Salvi, Lodovico (Ludovico): 117n, 188

Salvini, Anton Maria: 157

Sanguineti, Federico: XII, 31, 78n, 192

Santagata, Marco: 64n, 133n, 157n, 170, 192

Santini, Emilio: 164

Santoro, Marco: 188

Sanzio, Raffaello: 18

Scaligero, Giuseppe Giusto: 73

Scartazzini, Giovanni Andrea: 94n, 192

Scolari, Filippo: 68n, 145n, 192

Scotti, Mario: 164, 165

Segre, Cesare: 173

Servio (Servio Danielino): 142

Shaw, Prue: XII, 6n, 168

INDICE DEI NOMI

214

Sismondi, Jean-Charles-Léonard-Simonde de: X, 58, 59, 59n, 60n, 61, 61n, 64, 66, 66n, 174, 193

Spaggiari, William: XIII, 9n, 124n, 125n, 190, 192

Spencer, George John: 182

Spera, Francesco: XIII, 151n, 180, 181

Spira, Windelin da: 88

Stefanelli, Ruggiero: 1n, 193

Supino, Armando: 59n, 193

Taaffe, John: 12

Tacito, Publio Cornelio: 42

Tasso, Torquato: 143

Tavoni, Mirko: 104n, 170, 193

Tellini, Gino: 192

Teotochi Albrizzi, Isabella: 130

Terzoli, Maria Antonietta: 131n, 193

Timo, Filippo: 38n, 51n, 193

Timpanaro, Sebastiano: 31, 31n, 32, 32n, 62n, 107n, 134, 134n, 179, 193

Tiraboschi, Girolamo: 45, 46, 46n, 174

Tissoni, Roberto: 32, 32n, 57n, 194

Tobler, Rudolf: 166

Tommaseo, Niccolò: 82n, 161, 161n, 168, 174

Tonello, Elisabetta: 178

Torelli, Giuseppe: 147n, 188, 194

INDICE DEI NOMI

215

Torti, Francesco: 158n, 191

Toscano, Tobia R.: 44n, 174

Tournon, André: 173

Traniello, Paolo: 4n, 194

Treves, Piero: 32n, 46n, 194

Trivulzio, Gian Giacomo: 87n, 145, 145n, 146, 146n, 154, 154n, 158, 159, 160, 190

Trovato, Paolo: XII, 7, 7n, 132n, 178, 187, 194

Ughelli, Ferdinando: 5

Ugo il Grande: 47

Vaccaro, Emmanuele: 161n, 195

Valerio, Sebastiano: 193

Velardi, Francesco: 66n, 195

Venturi, Pompeo: XI, 23n, 49n, 91n, 98, 98n, 120n, 121n, 168, 182, 188

Vico, Giambattista: IX, 17, 21, 21n, 22, 23, 23n, 24, 24n, 25n, 26, 27, 27n, 28n, 46, 46n, 54, 54n, 57, 57n, 58, 90, 90n, 101, 102, 102n, 148, 148n, 149, 149n, 175, 176, 181, 182

Viel, Riccardo: 31n, 195

Vieusseux, Andrea: 2n, 195

Vieusseux, Giampietro: 18, 18n

Villani, Filippo: 78

Villoison, Jean-Baptiste-Gaspard d’Ansse de: 30

INDICE DEI NOMI

216

Viola, Corrado: 179

Virgilio Marone, Publio: 41, 41n, 137, 137n, 150, 170

Visi, Giovanni Battista: 41n, 175

Vitarelli, Giovanni Battista: 121n, 169

Viviani, Quirico (Domenico): XII, XIII, 106, 129, 130, 130n, 131, 132, 133, 133n, 134, 136, 137, 138, 138n, 139, 139n, 140, 140n, 141, 141n, 142, 142n, 143, 143n, 144, 145, 145n, 146, 146n, 147, 147n, 153, 154, 155, 155n, 157, 157n, 158, 158n, 159, 159n, 160, 160n, 169, 175, 180, 195, 196

Vivoli, Carlo: 178

Volpi, Giovanni Antonio: XII, 10, 40, 99, 107, 108, 111n, 116, 117n, 119, 120, 121, 121n, 122, 122n, 124, 124n, 125, 126, 137, 154, 154n, 155, 159, 169

Voltaire (François-Marie Arouet): 51, 52n, 53, 53n

Warburton, William: 87, 87n, 107, 138, 195

Whatman, James: 114

White, Thomas: 34n

Wilbraham, Roger (Ruggero): 89, 89n, 90n

Williams, William: 152n

Witte, Karl: 50n, 94n, 99n, 195

Wolf, Friedrich August (Wolfio): 18, 20, 30, 30n

Woodhouse, John Robert: 174

Zaccarello, Michelangelo: 107n, 195

INDICE DEI NOMI

217

Zacclori, Cellenio: vedi Ciccarelli, Lorenzo.

Zagonel, Giampaolo: 131n, 146n, 196

Zampese, Cristina: XIII

Zamponi, Stefano: 156n, 196

Zani De’ Ferranti, Marco Aurelio: 132n, 133n, 169

Zatta, Antonio: 40, 40n, 169

Zennaro, Silvio: 89n, 196

Zotti, Romualdo: 11n, 169

LA RAGIONE CRITICA

Collana diretta da Stefano Ballerio e Paolo Borsa

1. Ugo Foscolo, Antiquarj e Critici. On the Antiquarians and Critics, edizione critica bilingue a cura di Paolo Borsa

2. Laura Neri, Identità e finzione. Per una teoria del personaggio

3. Michele Mari, La critica letteraria nel Settecento

4. Michele Comelli, Poetica e allegoria nel Rinaldo di Torquato Tasso

5. Stefano Ballerio, Mettere in gioco l’esperienza. Teoria letteraria e neuroscienze

6. Linguaggio, letteratura e scienze neuro-cognitive, a cura di Stefano Calabrese e Stefano Ballerio

7. Davide Colombo, Foscolo e i commentatori danteschi


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