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Il “bilancio di genere”: uno strumento di analisi e di programmazione per le Università...

Date post: 22-Jan-2023
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Il “bilancio di genere”: uno strumento di analisi e di programmazione per le Università nell’ottica della strategia di gender mainstreaming Prof. Luisa Pulejo * Il «bilancio di genere» è una tematica assai attuale e interessante. Differenti sono gli spunti di riflessione che suscita e diverse sono le angolature attraverso le quali tale argomento può essere affrontato. Esso sicuramente chiama in causa il principio delle pari opportunità. Si potrebbe, tuttavia, fare riferimento all’evoluzione del quadro normativo della pubblica amministrazione, o al vasto scenario di cambiamenti che sta riguardando l’architettura generale del sistema pubblico, da tempo ispirato ai principi di razionalità nell’utilizzo delle risorse, di innovazione dei modelli organizzativi, di efficienza e di efficacia dei servizi pubblici, di partecipazione alle decisioni pubbliche, di trasparenza dell’azione amministrativa. O ancora alla rilevanza che non soltanto in ambiente pubblico assume oggi il profilo dell’accountability e, pertanto, ai nuovi strumenti volti a “rendere conto” dei complessivi effetti dell’agire sul contesto di riferimento. Parliamo, quindi, di una tematica trasversale che si riferisce ad aspetti diversi e problematiche specifiche che meriterebbero un’analisi approfondita. Le considerazione che seguono riguardano il “bilancio di genere” quale strumento di analisi e di programmazione di genere per le Università nell’ottica della strategia di gender mainstreaming, la cui realizzazione, da parecchi anni ormai, rappresenta un obiettivo fondamentale delle politiche comunitarie. Al bilancio di genere, infatti, si fa riferimento nella Direttiva che regola il funzionamento dei Comitati Unici di Garanzia (CUG) 1 la cui costituzione nelle pubbliche amministrazioni è prevista dalla Legge 183 del 4 novembre 2010 2 . Si tratta di un nuovo organismo in sostituzione dei comitati per le pari opportunità e dei comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, già presenti nelle pubbliche amministrazioni che ha il compito di valorizzare il benessere in ambito lavorativo di tutti i soggetti, di garantire loro l’accesso alle medesime condizioni in merito alla trattamento, alla progressione di carriera e alla sicurezza ed ancora di perseguire l’eliminazione di ogni forma di discriminazione connessa all’appartenenza delle * Professore Ordinario di Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali, Ambientali e Metodologie Quantitative, Università degli Studi di Messina. 1 La Direttiva individua tra i compiti propositivi di tale nuovo organismo “l’analisi e la programmazione di genere che considerino le esigenze delle donne e quelle degli uomini (es. bilancio di genere) ”. Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Linee guida sulle modalità di funzionamento dei “Comitati Unici di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni , 4 marzo 2011, p. 13. 2 Il comma 1 dell’art. 57 così recita: «Le pubbliche amministrazioni costituiscono al proprio interno, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, il “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni” che sostituisce, unificando le competenze in un solo organismo, i comitati per le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione collettiva, dei quali assume tutte le funzioni previste dalla legge, dai contratti collettivi relativi al personale delle amministrazioni pubbliche o da altre disposizioni». Legge 183 del 4 novembre 2010. Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro. Annai della Facoltà di Economia Università degli Studi di Messina Vol. 3/2013 ISSN: 2239-7183 119
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Il “bilancio di genere”: uno strumento di analisi e di programmazione per le

Università nell’ottica della strategia di gender mainstreaming

Prof. Luisa Pulejo*

Il «bilancio di genere» è una tematica assai attuale e interessante. Differenti sono gli spunti

di riflessione che suscita e diverse sono le angolature attraverso le quali tale argomento può

essere affrontato. Esso sicuramente chiama in causa il principio delle pari opportunità. Si

potrebbe, tuttavia, fare riferimento all’evoluzione del quadro normativo della pubblica

amministrazione, o al vasto scenario di cambiamenti che sta riguardando l’architettura

generale del sistema pubblico, da tempo ispirato ai principi di razionalità nell’utilizzo delle

risorse, di innovazione dei modelli organizzativi, di efficienza e di efficacia dei servizi

pubblici, di partecipazione alle decisioni pubbliche, di trasparenza dell’azione amministrativa.

O ancora alla rilevanza che – non soltanto in ambiente pubblico – assume oggi il profilo

dell’accountability e, pertanto, ai nuovi strumenti volti a “rendere conto” dei complessivi

effetti dell’agire sul contesto di riferimento.

Parliamo, quindi, di una tematica trasversale che si riferisce ad aspetti diversi e

problematiche specifiche che meriterebbero un’analisi approfondita. Le considerazione che

seguono riguardano il “bilancio di genere” quale strumento di analisi e di programmazione di

genere per le Università nell’ottica della strategia di gender mainstreaming, la cui

realizzazione, da parecchi anni ormai, rappresenta un obiettivo fondamentale delle politiche

comunitarie.

Al bilancio di genere, infatti, si fa riferimento nella Direttiva che regola il funzionamento

dei Comitati Unici di Garanzia (CUG)1 la cui costituzione nelle pubbliche amministrazioni è

prevista dalla Legge 183 del 4 novembre 20102. Si tratta di un nuovo organismo – in

sostituzione dei comitati per le pari opportunità e dei comitati paritetici sul fenomeno del

mobbing, già presenti nelle pubbliche amministrazioni – che ha il compito di valorizzare il

benessere in ambito lavorativo di tutti i soggetti, di garantire loro l’accesso alle medesime

condizioni in merito alla trattamento, alla progressione di carriera e alla sicurezza ed ancora di

perseguire l’eliminazione di ogni forma di discriminazione connessa all’appartenenza delle

* Professore Ordinario di Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali, Ambientali e

Metodologie Quantitative, Università degli Studi di Messina. 1 La Direttiva individua tra i compiti propositivi di tale nuovo organismo “l’analisi e la programmazione di

genere che considerino le esigenze delle donne e quelle degli uomini (es. bilancio di genere)”. Direttiva della

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Linee guida sulle modalità di funzionamento dei “Comitati Unici di

Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, 4

marzo 2011, p. 13. 2 Il comma 1 dell’art. 57 così recita: «Le pubbliche amministrazioni costituiscono al proprio interno, entro

centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e senza nuovi o maggiori oneri per la

finanza pubblica, il “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi

lavora e contro le discriminazioni” che sostituisce, unificando le competenze in un solo organismo, i comitati per

le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione

collettiva, dei quali assume tutte le funzioni previste dalla legge, dai contratti collettivi relativi al personale delle

amministrazioni pubbliche o da altre disposizioni». Legge 183 del 4 novembre 2010. Deleghe al Governo in

materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori

sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché

misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro.

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persone a un diverso genere, età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e

lingua3. Parlare di «pari opportunità», dunque, non vuol dire fare riferimento ad una

problematica esclusivamente femminile ma di uniformità dei diritti, di responsabilità e di

opportunità per tutti, uomini e donne.

Indubbiamente, le disuguaglianze fra cittadini di sesso diverso, rappresentano un fenomeno

che colpisce la maggior parte delle nazioni del mondo. In Italia, ad esempio, essere una donna

viene ancora percepito uno svantaggio, soprattutto dalle stesse donne. Si potrebbe obiettare

che tale percezione da parte delle donne sia solo uno stereotipo e che, invece, le donne sono

sempre più presenti in ogni ambito lavorativo e raggiungono posizioni di rilievo in molti

settori. In alcuni casi, tuttavia, non si tratta solo di una percezione, o almeno così risulta dal

Global Gender Gap Report del 2012 del World Economic Forum che ha preso in esame il

rapporto tra la condizione maschile e femminile in 135 economie in tutto il mondo, con

riferimento a quattro aree critiche della disuguaglianza tra uomini e donne4 (Fig. 1).

Figura 1. The Global Gender Gap Report 2012. Country profiles: Italy

3 Si fa riferimento, pertanto, ad un’accezione ampia del concetto di «genere» che non riguarda solo la distinzione

delle persone in base al sesso – e, quindi, alla natura biologica – ma si estende anche alla loro identità sociale e

culturale. Il genere, infatti, va considerato come «categoria sociale», funzionale all’analisi dei differenti modelli

di comportamento, degli stili di vita, dei ruoli, delle aspettative dei singoli soggetti. Come categoria sociale,

peraltro, il genere ha valenza economica in quanto condiziona il modo di agire degli individui, suscita in loro

bisogni la cui soddisfazione dipende dall’attenzione verso le loro diversità in ambito lavorativo, oltre che

dall’efficacia degli interventi pubblici nel perseguire pari diritti e opportunità per tutti. 4 Cfr. World Economic Forum, The Global Gender Gap Report 2012 - Country profiles: ITALY. Sta in

www.weforum.org.

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Dal Report risulta che, per quanto riguarda le aree che si riferiscono al “livello di

istruzione” (rispetto all’accesso all’istruzione di base e di livello superiore), alla “salute” e

alla “sopravvivenza” (i risultati sull’aspettativa di vita e di salute) siamo ormai in presenza di

una condizione di parità uomo/donna. Un gap significativo si manifesta, invece, nell’area

della “rappresentanza politica”. Certo se volgiamo lo sguardo al passato la situazione si è

profondamente modificata. Rispetto alla precedente legislatura, ad esempio, le donne elette in

Parlamento sono in notevole crescita (Camera + 33%, Senato + 36%)5. Ma al di là dei numeri

siamo ancora lontani dagli obiettivi di gender equality. Nonostante le azioni positive

introdotte in questi ultimi tempi – penso, ad esempio, alla recente legge della Regione Sicilia

sulla composizione delle liste per l’elezione dei consigli comunali e circoscrizionali e sulla

doppia preferenza di genere6 o al provvedimento che introduce l’obbligo di prevedere le

cosiddette quote rosa nei consigli di amministrazione7 – sono ancora poche le donne presenti

nei luoghi decisionali, e non per mancanza di capacità o di competenze.

Ma perché è necessario un obbligo legislativo per decidere chi può o non può far parte

degli organi di governo? Anche in questo caso si potrebbe parlare di un atteggiamento

discriminatorio nei confronti dei soggetti meritevoli, uomini e donne. Non sarebbe sufficiente

esigere maggiore trasparenza nelle selezioni?

In molti casi, tuttavia, le quote di genere si sono rilevate necessarie perché le donne

potessero accedere nelle “stanze dei bottoni”. Per abbattere i “recinti” in alcuni settori di fatto

a loro preclusi. Non si tratta di imporre un trattamento di riguardo verso le donne o di

privilegiarle, ma di sfruttare le potenzialità di un “serbatoio di competenze e di

professionalità” che può contribuire alla crescita del nostro Paese. L’esperienza di altri paesi

testimonia, infatti, che l’introduzione delle quote rosa – al posto di altri sistemi di incentivi

più soft – può determinare ricadute fortemente positive sullo sviluppo e la competitività.

Con riferimento alla aree della “partecipazione economica” e delle “opportunità nel mondo

del lavoro” (rispetto agli stipendi, ai livelli di partecipazione e soprattutto alle possibilità di

accesso ai posti di lavoro altamente qualificati) continua, invece, a persistere un gap tra la

condizione maschile e femminile. Sebbene, infatti, nel tempo siano state prodotte numerose

leggi atte a sostenere l’occupazione femminile, tuttora permangono discriminazioni nella fase

di accesso al mercato del lavoro, e soprattutto in quella di progressione di carriera e

qualificazione professionale, sia nel contesto pubblico che in quello privato. Nonostante siano

passati due anni dall’approvazione della legge sulle quote di genere nei Cda8, infatti, siamo in

notevole ritardo per quanto riguarda la sua applicazione, soprattutto nelle società controllate

in via diretta e indiretta dalle pubbliche amministrazioni (stato, regioni, province, comuni, ed

enti pubblici). Evidenti discriminazioni si manifestano anche nei livelli retributivi, anche nelle

posizioni apicali.

Per quanto riguarda l’occupazione nelle Università, i dati complessivi presentano una

percentuale di donne molto inferiore alla media del pubblico impiego, anche se è necessario

effettuare una distinzione con riferimento alle modalità di accesso all’impiego e

5 Cfr. http://www.ipu.org/wmn-e/classif.htm

6 Regione Sicilia, Legge 10 aprile 2013, n. 8. Norme in materia di rappresentanza e doppia preferenza di genere.

7 L. 12 luglio 2011, n. 120 recante “Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione

finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di

amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati”. 8 Cfr. Legge 120 del 2011, Quote di genere nelle società quotate e nelle società pubbliche.

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all’inquadramento giuridico-contrattuale del personale docente e di quello tecnico

amministrativo (Fig. 2 - 3).

Figura 2. Numero totale di docenti divisi per sesso

Fonte: R. Frattini, P. Rossi (2012), Report sulle donne nell’Università Italiana

Figura 3. Numero totale di docenti divisi per fascia e per sesso

Fonte: R. Frattini, P. Rossi (2012), Report sulle donne nell’Università Italiana

Così, ad esempio, nonostante la superiorità nel numero di donne che raggiungono traguardi

significativi nella fase di formazione – in termini di titoli di studio (lauree, dottorati, o di

valutazioni negli esami di profitto) – le docenti universitarie nel 2011 si attestano ad una

percentuale intorno al 35% del totale. La loro crescita nel tempo, peraltro, è stata molto lenta

(nel 1959 erano il 14%). Oltre al fatto che la componente maschile è superiore a quella

femminile in tutte le fasce, per le donne emergono difficoltà anche nel raggiungimento di

livelli gerarchici più alti (soffitto di cristallo)9.

9 Cfr. Romana Frattini, Paolo Rossi (2012), Report sulle donne nell’Università Italiana, sta in

http://www.menodizero.eu/attachments/article/247/allegato_qedbrd.pdf

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Quali misure adottare allora per perseguire la parità di genere nel mondo del lavoro?

Certamente essa non dipende solo dalla presenza di stereotipi o, in ambiente universitario, da

ragioni accademiche. Nell’Unione Europea, peraltro, da parecchi anni ormai è diffusa la

consapevolezza che la parità di genere contribuisce alla crescita economica e allo sviluppo

sostenibile delle nazioni10

. Esiste uniformità di vedute anche sul fatto che il perseguimento di

obiettivi di uniformità di diritti e di pari opportunità rappresenta una condizione prioritaria

perché si realizzi l’equità e la coesione sociale e, di riflesso, il benessere generale della

popolazione. Non stiamo parlando, quindi, di una rivendicazione femminile: in gioco è la

competitività del sistema economico italiano.

In Italia, al di là dell’imposizione delle “quote rosa”, la prospettiva di genere rappresenta

un elemento costante degli interventi legislativi di riforma. L’attuale sistema normativo in

tema di gender equality è indirizzato a favorire le condizioni più idonee per la concreta

realizzazione delle pari opportunità e a tutelare le donne, assicurando loro la piena

partecipazione alla vita sociale, politica ed economica. Possiamo dire che, sul piano

sostanziale, il sistema socio-economico attuale è coerente. Ciò nonostante non è in grado di

garantire indistintamente a tutti i soggetti la possibilità di accedere a determinati servizi

pubblici, e di operare in un contesto che consenta loro di sviluppare appieno le proprie

capacità secondo le proprie attitudini ed aspirazioni. Concretamente, cioè, il principio di pari

opportunità non viene rispettato.

Anche sul fronte delle possibili soluzioni esiste uniformità di veduta da parte delle

istituzioni pubbliche e private. Nell’Unione Europea, ad esempio, da parecchi anni vengono

attuate un insieme articolato di iniziative volte, da un lato, a combattere le discriminazioni

fondate sul genere e, dall’altro, a evidenziare e valorizzare i vantaggi connessi alle diversità

degli individui. Sono tutti concordi sulla necessità di attivare un insieme complesso e

articolato di strategie e politiche che devono coinvolgere necessariamente aree diverse. Un

impegno su più fronti, da parte degli organismi pubblici ma anche delle aziende private, delle

organizzazioni sindacali. Si tratta di adottare interventi concreti per incentivare, sostenere

l’occupazione femminile e, allo stesso tempo, per fornire un supporto adeguato alla soluzione

dei problemi connessi alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che investono le famiglie

italiane, gli uomini e le donne11

.

Conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari, infatti, è un problema che riguarda

principalmente l’universo femminile. Alla donna, da sempre, sono riservati compiti di cura

dei propri familiari, di assistenza agli anziani o a persone non autosufficienti. L’uomo, invece,

ancora oggi continua a svolgere il tradizionale ruolo di breadwinner. L’ingresso delle donne

nel mercato del lavoro ha comportato innegabilmente un cumulo di ruoli in capo alla madre-

lavoratrice; un problema che la donna affronta e gestisce come può e che, in alcuni casi,

10

“The European Union’s achievements in fostering equality between women and men have helped to change

the lives of many European citizens for the better and provide the foundation on which we now have to build a

genuinely gender-equal society”. The Strategy for equality between women and men 2010-2015.

Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and

Social Committee and the Committee of the Regions. COM(2010) 491 final. Sta in http://ec.europa.eu 11

La risoluzione delle problematiche di conciliazione è uno degli obiettivi principali della “Tabella di marcia per

la parità tra donne e uomini 2006-2010”. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento

Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni - COM(2006) 92 definitivo.

Sta in http://ec.europa.eu

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risolve con la rinuncia alla carriera o l’abbandono del lavoro12

. Ancora oggi non siamo in

presenza di adeguati meccanismi compensativi e di supporto, in grado di sostenere le donne

lavoratrici per far fronte agli impegni familiari. Consideriamo, peraltro, che in questo periodo

di profonda crisi economica l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, oltre ad essere una

necessità delle famiglie, rappresenta un’esigenza del sistema economico.

I problemi di conciliazione dei tempi di vita privata e di attività professionale dipendono

soprattutto dal fatto che le politiche e gli interventi pubblici non tengono conto delle esigenze

specifiche delle donne. Le politiche e gli interventi pubblici, di fatto, non sono “neutri”

rispetto ai bisogni di soggetti di sesso diverso, soprattutto in relazione alla molteplicità dei

ruoli sociali, degli stili di vita, delle responsabilità, delle condizioni economiche dei cittadini

destinatari di tali interventi. Vale a dire che ogni decisione ha un impatto, determina

conseguenze, effetti differenziati sui membri della collettività. Integrare la prospettiva di

genere in tutti i piani, i programmi, i progetti, le politiche e, più in generale, in tutte le

decisioni e gli interventi degli organismi pubblici di diverso livello – sia nazionali che

sopranazionali, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni istituzionali, ma con una

visione unitaria e condivisa – diventa, pertanto, un fattore strategico.

Si parla in tal senso di gender mainstreaming come di una strategia che dà rilievo ai

“sistemi” e alle “organizzazioni” che generano le discriminazioni, piuttosto che ai diritti delle

donne. Una strategia pervasiva – la cui origine è probabilmente da ricondursi alla 4°

Conferenza Mondiale sulle Donne tenutasi a Pechino nel 1995 – che ha come obiettivo, nel

medio-lungo termine, l’eliminazione delle disuguaglianze di genere e le loro cause

scatenanti13

. Per la sua implementazione sono stati individuati un insieme di strumenti quali,

ad esempio:

l’elaborazione di dati statistici disaggregati in base al genere;

l’elaborazione di indicatori di uguaglianza di genere;

l’introduzione di una (significativa) componente femminile negli organi decisori;

la valutazione preventiva dell’impatto sul genere di ogni singola politica, azione

ovvero intervento pubblico;

la rielaborazione e la rilettura dei bilanci pubblici in ottica di genere

Particolare rilievo assume l’osservanza del profilo del genere nella predisposizione e

nell’analisi del bilancio pubblico; nel bilancio, infatti, si delineano le strategie perseguite e il

modello di sviluppo socio-economico adottato14

. Nella sua predisposizione si dovrebbe,

quindi, tener conto dei bisogni e delle aspettative di tutti, uomini e donne.

Il «Bilancio di genere» rappresenta, quindi, un nuovo approccio da seguire nel processo di

redazione del bilancio pubblico. La sua utilità deriva dal fatto che la prospettiva di genere

viene osservata a tutti i livelli del processo di costruzione dei bilanci pubblici; viene posto

l’accento sul differente impatto che le politiche e gli interventi pubblici producono su cittadini

12

È opportuno ricordare anche che oggi la scelta di lavorare e quella di avere figli per una donna comporta, in

molti casi, un unico complesso di decisioni che vedono in gioco usi alternativi del tempo a disposizione (work-

life balance) e che il progressivo “invecchiamento” della società, connesso ai fenomeni interrelati di diminuzione

delle nascite e di crescita delle aspettative di vita ha determinato l’insorgere di ulteriori fabbisogni assistenziali. 13

Per una compiuta disamina del concetto di gender mainstreaming si rinvia a S. Walby (2005), “Gender

mainstreaming: Productive tensions in theory and practice”, Social Politics: International Studies in Gender,

State and Society, Oxford University Press, 12(3) [321-343]. 14

È ormai ampiamente condiviso, infatti, che «the budget reflects the values of a country - who it values, whose

work it values and who it rewards […] and who and what and whose work it doesn’t». D. Budlender & R. Sharp

with K. Allen (1998), How to do a gender-sensitive budget analysis: contemporary research and analysis,

Australian Agency for International Development, Canberra and the Commonwealth Secretariat, London, p.6.

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di diverso genere; si tende a ristrutturare le entrate e le uscite in modo da attribuire il

medesimo rilievo alle aspettative legittime e alle necessità espresse dai “diversi” cittadini. In

altre parole, si tratta di valutare con un “approccio di genere” le conseguenze di ogni

decisione e azione, nonché gli impatti che le politiche e gli interventi pubblici producono sui

diversi soggetti; di “intervenire sui bilanci pubblici” e non di “produrre bilanci rivolti in

modo specifico alle donne”15

; riclassificare e analizzare le poste di bilancio nella prospettiva

del genere. Ciò assume rilevanza soprattutto a livello di enti territoriali che, di fatto,

rappresentano gli ambiti di governo più idonei per combattere le disparità di genere e

promuovere una società equa.

Per costruire un bilancio pubblico, integrando la prospettiva di genere, occorre rispondere

ad una serie di interrogativi:

- chi beneficia delle spese e chi contribuisce alle entrate?

- come si dividono le entrate e le uscite rispetto agli uomini e alle donne?

- quale diverso impatto producono su uomini e donne le politiche di bilancio e la

distribuzione delle risorse?

- l’allocazione delle risorse risponde in modo congruo/adeguato ai bisogni diversi di

uomini e donne?

- quali sono le priorità e le azioni specifiche da porre in atto per ridurre le ineguaglianze

tra uomini e donne?

Stiamo parlando, dunque, di un «nuovo orientamento» da seguire nella definizione delle

politiche pubbliche, basato sul riconoscimento dei bisogni specifici che uomini e donne

esprimono e sulla necessità, quindi, di monitorare le conseguenze delle scelte effettuate,

tenendo conto del differente impatto che le stesse producono sui cittadini di diverso genere.

Ciò comporta - in una logica ex ante rispetto all’azione - l’analisi della popolazione in

termini di genere, al fine di coglierne le caratteristiche anagrafiche, economiche, sociali e

lavorative, ponendo particolare attenzione su quegli aspetti della vita che determinano

disparità di genere e si riflettono, quindi, sui bisogni e sulle aspettative. Già in sede di

elaborazione delle politiche e delle strategie, si tratta, quindi, di strutturare i sistemi

informativi in modo da individuare ed evidenziare le differenze esistenti tra cittadini in

termini di ruoli, attitudini, opportunità di accesso ai servizi e, in relazione a tali differenze,

«riconsiderare» la programmazione dell’attività da svolgere tenendo conto degli effettivi

bisogni espressi e latenti della collettività amministrata. Tale analisi successivamente – in una

logica ex post – supporta il controllo delle attività svolte e il processo di rendicontazione dei

risultati prodotti (accountability), poiché mette in relazione le politiche e i servizi resi tenendo

conto delle esigenze specifiche connesse alla diversità dei generi, con i risultati realizzati e gli

impatti sulla qualità della vita di donne e uomini.

Anche se comunemente, quindi, il termine bilancio «di genere» viene utilizzato

indistintamente con riferimento al gender auditing e al gender budgeting, il processo di

analisi e valutazione assume significato diverso se riferito al bilancio consuntivo o a quello

preventivo. L’analisi di genere del bilancio pubblico, potremmo dire, svela la sua priorità nel

contesto della programmazione16

. È questo il momento in cui vengono concepite le politiche

15

Tale errata interpretazione deriva anche dal fatto che in Australia nella prima sperimentazione del 1984 è stata

utilizzata l’espressione “Women’s Budget Program”. Questo è anche il motivo per cui successivamente si è

preferito l’utilizzo di termini quali “gender budgets” o “gender-sensitive budgets”. 16

“Le informazioni gender-sensitive in questa fase supportano il processo decisionale, manifestando la loro

valenza pragmatica ossia l’attitudine ad influire sul comportamento dei soggetti decisori. È questo il momento in

cui è necessario tener conto dei bisogni concreti, espressi e latenti, della collettività amministrata al fine di

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pubbliche, si definiscono gli obiettivi da perseguire, le aree gender sensitive sulle quali è

necessario intervenire, le priorità da assegnare, le risorse da utilizzare per far fronte alle

esigenze di donne e uomini. Le informazioni contenute nei bilanci in fase di audit hanno,

quindi, una valenza informativa significativa solo se confrontate con le strategie definite in

fase di programmazione, poiché in tale caso consentono di verificare se e quanto tali strategie

si sono tradotte in politiche, azioni e risultati concretamente osservabili.

È facile comprendere, quindi, come l’interiorizzazione del profilo di genere – in primo

luogo negli strumenti di programmazione economica che accompagnano le scelte e le

politiche pubbliche (gender budgeting) e, successivamente, in quelli di controllo della azione

(gender auditing) – possa apportare notevoli vantaggi alla realizzazione della parità tra i

generi. Oltre ad accrescere l’efficacia dell’agire pubblico, peraltro, la gender budget analysis

contribuisce a promuovere la consapevolezza degli amministratori pubblici sulla necessità di

non trascurare i variegati riflessi delle politiche adottate.

L’osservanza di un “approccio di genere” nelle logiche di programmazione e nei criteri di

allocazione delle risorse, in tutti i livelli di governo dell’amministrazione pubblica, in

definitiva può concorrere all’affermazione di una nuova concezione di pubblica

amministrazione capace di rispondere alle istanze variamente articolate della collettività

amministrata, di perseguire obiettivi di equità delle politiche e delle decisioni pubbliche e di

efficienza nell’utilizzo delle risorse a disposizione, e di creare le condizioni che favoriscono il

pieno sviluppo delle persone, così come previsto dal dettato costituzionale. Tale approccio,

inoltre, migliora la trasparenza informativa e integra il processo di accountability sulle scelte

attuate, sulle azioni svolte e sui risultati realizzati con informazioni sulla capacità (efficacia)

dei servizi e degli interventi pubblici di soddisfare i bisogni della comunità connessi alle

istanze di gender equality. Peraltro, l’attenzione e soprattutto la condivisione da parte degli

organi di governo delle aziende pubbliche delle istanze connesse al genere, e la loro

traduzione in un orientamento strategico di fondo che si traduce in comportamenti, azioni e

risultati da comunicare alla collettività amministrata, non può che suscitare nei cittadini la

fiducia e l’approvazione sul modo di essere e di operare dell’ente pubblico.

Nel conteso pubblico italiano, da qualche anno l’approccio di genere nella predisposizione

del bilancio pubblico ha trovato applicazione a livello di enti pubblici territoriali nell’ambito

degli strumenti di rendicontazione dei risultati ottenuti17

. In alcuni casi le informazioni gender

concepire politiche pubbliche efficaci rispetto alle esigenze specifiche dei cittadini, di definire le aree sulle quali

è necessario intervenire, gli obiettivi da perseguire, le priorità da assegnare e le risorse da utilizzare per

promuovere la gender equality”. L. Pulejo (2011), La gender equality nell’economia dell’azienda. Strategie e

strumenti di mainstreaming di genere per lo sviluppo sostenibile, Franco Angeli, Milano. p. 164. 17

La prassi volta a considerare le differenti implicazioni delle decisioni assunte e delle politiche attuate sulla

popolazione maschile e femminile, attraverso l’introduzione nel bilancio nazionale di un sistema di indicatori di

genere è stata avviata dal Governo Federale australiano nel 1984. Successivamente le iniziative di Gender

Budget Analysis hanno trovato diffusione nel Regno Unito nel 1989, in Sud Africa nel 1994 e in numerosi altri

paesi in via di sviluppo (tra i quali, ad esempio, il Bangladesh, il Kenia, le Filippine, il Brasile, il Messico,

l’Uganda) e industrializzati (ad esempio, il Canada, la Francia, la Svezia). Si parla oggi di iniziative di gender-

responsive budgeting in oltre 60 paesi del mondo. «The explosion of gender-responsive budgets in the last eight

years has been phenomenal. In 1995, there were only a few countries and agencies involved in this area. Today,

however, a variety of groups operating at various levels have implemented some form of gender budget work in

over sixty countries. In addition, many development agencies either have a GRB programme or support work at

the country level. Encouragingly, there has been particular interest in countries new to democracy». D.

Budlender and G. Hewitt (2003), Engendering budgets: A practitioners’ guide to understanding and

implementing gender-responsive budgets, New Gender Mainstreaming Series on Development Issues, The

Commonwealth Secretariat, London, p. 1. Mentre le sperimentazioni maturate nei contesti internazionali hanno

Annai della Facoltà di Economia Università degli Studi di Messina Vol. 3/2013 ISSN: 2239-7183

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sensitive sono state inserite in strumenti di social accountability di contenuto più ampio,

tipicamente il bilancio sociale. Altri enti, invece, hanno privilegiato la scelta di redigere un

documento autonomo finalizzato all’analisi di genere dei risultati conseguiti, o hanno assunto

un ruolo di first mover nell’implementazione di politiche di genere, rappresentando un

modello di riferimento per gli altri, e agendo da stimolo per lo sviluppo e la condivisione di

best practice18

. L’approccio di genere, in definitiva, è stato osservato principalmente in fase di

rendicontazione dei risultati realizzati e non nel processo di budgeting al quale, come si è

inteso sottolineare, è da ricondurre la sua valenza principale, per via della centralità assegnata,

in ambiente pubblico, al momento della previsione nelle scelte di allocazione delle risorse.

Nonostante fino ad oggi gli aspetti di comunicazione siano stati prevalenti rispetto a quelli

comportamentali non si intende certo esprimere un giudizio negativo sull’impegno

manifestato dalle amministrazioni pubbliche. La lettura in ottica di genere dei risultati dei

progetti e degli interventi adottati in tema di gender mainstreaming rappresenta, comunque,

una prima fase di un processo comunicativo circolare che, se portato a compimento, potrebbe

rendere efficace e strategica l’attività di comunicazione con riflessi positivi sul processo di

cambiamento della pubblica amministrazione. L’impressione che ne deriva, tuttavia, è che, al

momento, la predisposizione del bilancio di genere sia la conseguenza di un orientamento

“miope” nel gestire l’attività di comunicazione, il risultato di una moda del momento in vista

di ottenere «obiettivi contingenti». Non si tratta, a nostro avviso, di un modo di gestire

«informato ai principi di trasparenza e di coerenza». Di una visione diversa e duratura della

responsabilità degli enti pubblici nel perseguire il benessere sociale e del ruolo attivo che essi

possono svolgere nel modificare/migliorare la qualità della vita degli uomini e delle donne

che risiedono nel territorio19

.

In ambito universitario, è opportuno richiamare la sperimentazione dell’Università degli

Studi di Ferrara che, a partire dal 2011, ha inserito all’interno del Bilancio sociale un’apposita

sezione sul Bilancio di genere, volta a descrivere lo «status quo» dell’ateneo in termini di pari

opportunità. Nel documento viene rappresentata la diversa composizione di genere dei gruppi

che operano all’interno dell’Università (studenti, Dottorandi, Assegnisti, Personale docente e

Personale tecnico-amministrativo) e degli organi di Governo. Tale descrizione, peraltro,

prevede anche un’analisi dettagliata della composizione dei diversi gruppi; gli studenti, ad

esempio, vengono suddivisi per corsi di laurea frequentati o per provenienza geografica, il

personale docente per ruolo, il personale tecnico amministrativo per fasce di età, etc. (Fig. 4).

assunto prevalentemente una dimensione nazionale, in Italia, invece, sono state prodotte a livello di enti pubblici

territoriali. 18

Si fa riferimento alle Regioni Emilia Romagna e Valle d’Aosta che, a partire dal 2001, hanno attuato le prime

sperimentazioni. “Tali regioni, peraltro, hanno favorito la costruzione di una rete comune che, attraverso la

condivisione delle esperienze maturate e delle metodologie di analisi proposte, ha agevolato lo sviluppo del

gender mainstreaming e del “bilancio di genere”, e lo scambio di best practice per la promozione e lo

svolgimento di azioni volte alla valorizzazione delle differenze e alla realizzazione delle pari opportunità. Si fa

riferimento al “Protocollo di intesa” siglato nel 2003 tra le province di Genova, Modena e Siena - al quale hanno

già aderito numerosi enti regionali e locali - uno strumento di interscambio e di armonizzazione culturale, che si

associa alla testimonianza di impegno dei singoli enti aderenti, in una prospettiva di accountability delle

relazioni di partnership pubblico-pubblico che assumono forma di collaborazione stabile”. L. Pulejo, (2011), La

gender equality nell’economia dell’azienda. Strategie e strumenti di mainstreaming di genere per lo sviluppo

sostenibile, Franco Angeli, Milano. 19

Cfr. Pulejo L. (2009) (con G. Barresi, R. Coppolino, C. Marisca, D. Rupo), Le strategie di gender

mainstreaming negli enti pubblici territoriali: l’esperienza italiana, in Gruppo di studio e di attenzione

dell’Accademia Italiana di Economia Aziendale, Innovazione e Accountability nella Pubblica Amministrazione. I

drivers del cambiamento, Rirea, Roma.

Annai della Facoltà di Economia Università degli Studi di Messina Vol. 3/2013 ISSN: 2239-7183

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Figura 4. Composizione di genere dei gruppi che operano all’interno dell’Università di Ferrara (studenti,

Dottorandi, Assegnisti, Personale docente e Personale tecnico-amministrativo) e degli organi di Governo

Fonte: Università di Ferrara, Bilancio di genere 2011.

Si fa riferimento, altresì, alle iniziative dell’Ateneo avviate nel 2011 per promuovere le

pari opportunità mediante le attività poste in essere dal Comitato Pari Opportunità (Consiglio

di Parità, nel nuovo Statuto di Ateneo) e dal Comitato unico di garanzia per le pari

opportunità, per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni e

agli impegni da assumere nel futuro20

.

I dati e le informazioni fornite rappresentano un punto di partenza necessario per la

definizione dei piani di azione e delle politiche di promozione delle pari opportunità. In tal

modo, infatti, gli organi che esercitano il governo degli atenei da un lato “rendono conto” dei

complessivi effetti del loro operato – soddisfacendo così le esigenze di accountability – e, al

tempo stesso, “si rendono conto” dei bisogni espressi dai soggetti di diverso genere e dei

risultati realizzati, facilitando così l’individuazione delle azioni da intraprendere per garantire

una maggiore equità, efficienza e trasparenza delle loro azioni rispetto al profilo delle pari

opportunità.

* * *

Nell’ambito delle Università, pertanto, il perseguimento del benessere di tutti i soggetti,

delle medesime condizioni di accesso alle posizioni lavorative e di progressione di carriera,

dell’eliminazione di ogni forma di discriminazione connessa all’appartenenza delle persone a

un diverso genere, età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua,

comporta necessariamente un diverso approccio al profilo delle pari opportunità, un

cambiamento di filosofia sui diritti delle persone in merito alla parità di trattamento.

L’osservanza dell’approccio di genere nell’attività di programmazione e di rendicontazione

delle Università può rappresentare uno strumento chiave per misurare e monitorare il livello

di gender mainstreaming, per valutare le implicazioni per le donne e gli uomini di ogni azione

pianificata in ogni area e ad ogni livello. Esso, infatti, consente di promuovere l’innovazione,

l’efficienza e la trasparenza delle attività dell’Ateneo, e di trarre gli elementi utili per

perseguire il miglioramento dei risultati ottenuti (strumento di management strategico ed

operativo). La sua adozione, peraltro, testimonia l’assunzione da parte degli organi di governo

di una responsabilità nel perseguire il benessere di chi lavora e nel combattere ed eliminare le

20

Cfr. Università degli Studi di Ferrara, Bilancio di genere 2011, Edizione 2012, sta in www.unife.it

Annai della Facoltà di Economia Università degli Studi di Messina Vol. 3/2013 ISSN: 2239-7183

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Il “bilancio di genere”: uno strumento di analisi e di programmazione per le Università nell’ottica della

strategia di gender mainstreaming - © Prof. Luisa Pulejo

discriminazioni fondate sul genere nei confronti degli stakeholder principali di riferimento

(personale docente e amministrativo, studenti).

È necessaria anche una maggiore consapevolezza, diffusa e interiorizzata, degli enormi

vantaggi che la valorizzazione delle diversità può comportare sui singoli individui, sulle

istituzioni e su tutta la società. In altre parole, si tratta di riconoscere che le differenze sono la

vera forza in ogni settore della vita politico-sociale, culturale, professionale; di fare in modo

cioè che le diversità non vengano considerate in modo distorsivo – come fattori discriminanti

– ma come un «valore» per le persone e per le organizzazioni pubbliche e private.

Oltre all’adozione di strumenti che possano favorire il gender mainstreaming nelle

politiche e negli interventi – quali il bilancio di genere – si ritiene, tuttavia, che sia

fondamentale un “cambiamento di cultura” che investa tutti gli attori del contesto socio-

economico, legislatori nazionali ed europei, datori di lavoro, sindacati e naturalmente

lavoratori/lavoratrici. Una modifica nei comportamenti e negli stili di vita di vita delle

persone. Un diverso approccio alla genitorialità e alla gestione dei tempi di vita e dei tempi di

lavoro da parte delle donne e degli uomini. Una «maggiore sensibilità» per le diversità di

genere e per il «valore» generato dalle diversità. Parlare di gender mainstreaming e di

bilancio di genere nell’Università non significa, pertanto, “veicolare uno slogan ideologico”,

bensì “ripensare in termini di genere” a tutta l’attività da svolgere, partendo dalla

considerazione che le decisioni da prendere e gli interventi da attuare vanno declinati tenendo

conto dei reali bisogni espressi dalle persone, uomini e donne.

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