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Il conte Carlo Firmian e la cultura classica, in Le raccolte di Minerva. Le collezioni artistiche e...

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LE RACCOLTE DI MINERVA Le collezioni artistiche e librarie del conte Carlo Firmian ATTI DEL CONVEGNO Trento-Rovereto, 3-4 maggio 2013 a cura di Stefano Ferrari ACCADEMIA ROVERETANA DEGLI AGIATI
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LE RACCOLTE DI MINERVALe collezioni artistiche e librarie

del conte Carlo Firmian

ATTI DEL CONVEGNOTrento-Rovereto, 3-4 maggio 2013

a cura di Stefano Ferrari

ACCADEMIA ROVERETANA DEGLI AGIATI

Il presente volume contiene gli atti del convegno tenutosi a Trento e a Rovereto il 3 e il 4 maggio 2013, curato da Stefano Ferrari e organizzato dalla Società di Studi Trentini di Scienze Storiche e dall’Accademia Roveretana degli Agiati.

La pubblicazione esce con il sostegno economico della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, del Comune di Mezzocorona e della Società Cooperativa Agricola Cantine Mezzacorona.

© Società di Studi Trentini di Scienze Storiche Accademia Roveretana degli Agiati

ISBN: 978-88-8133-043-0

Le raccolte di Minerva : le collezioni artistiche e librarie del conte Carlo Firmian : atti del convegno : Trento-Rovereto, 3-4 maggio 2013 / a cura di Stefano Ferrari. - [Trento] : Società di studi trentini di scienze storiche ; [Rovereto] : Accademia roveretana degli Agiati, 2015. - 317 p. : ill. ; 24 cm. – (Monografie. Nuova serie ; 6)

ISBN 978-88-8133-043-0

1. Firmian, Carlo - Congressi - Trento-Rovereto - 2013 I. Ferrari, Stefano

945.2074

Società di Studi Trentini di Scienze Storiche

Accademia Roveretana degli Agiati

Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol

Gruppo Mezzacorona S.c.a.

Comune di Mezzocorona

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Il conte Carlo Firmian e la cultura classica

Renzo Tosi

D opo il Concilio di Trento e il periodo della Riforma e della Controriforma, si ebbe una profonda divaricazione fra Europa cattolica ed Europa rifor-

mata, che investì pienamente lo studio e la concezione del classico: nel mondo della Riforma fondamentale fu la lettura diretta degli autori classici e il loro ap-profondimento a livello critico-filologico, e si ebbe un particolare interesse per la letteratura greca (siamo agli albori del ‘mito’ secondo cui la cultura del Nord-Eu-ropa, e soprattutto quella tedesca, era erede della Grecia classica, vista come un luminoso faro di civiltà e di perfetta bellezza e razionalità); nei paesi cattolici, in-vece, e in particolare in Italia, il greco era relegato ad un ruolo assolutamente se-condario rispetto al latino, appreso a mala pena nelle scuole dei Gesuiti e portato avanti per lo più da saccenti antiquari provvisti di scarse conoscenze della lingua e dei testi1. Tale negligenza evidenziava un approccio all’antichità non filologico, ma da una parte interessato a desumere da essa begli esempi morali da proporre nell’educazione dei gentiluomini (è questo il nucleo del Classicismo dell’Età Mo-derna2), dall’altra intimamente connesso alle pratiche esperienze poetiche e let-terarie, anzi ad esse finalizzato (emblematico è il longevo caso dell’Arcadia). Se si vuole individuare un elemento unificatore dell’intera cultura europea nell’am-bito del classico, questo può essere solo l’uso del latino come lingua viva, o, me-glio, come lingua dotta internazionale usata costantemente da scienziati e politi-ci e talora anche da poeti e letterati.

è solo nel Settecento che si registra, insieme a un progresso generale delle scienze, un’apertura verso le grandi esperienze filologiche d’Oltralpe, anche se si è ancora ovviamente molto lontani dal livello dell’Olanda o dell’Inghilterra – la cui cultura, in questo campo, era dominata dalla figura, complessa e affascinante, di Richard Bentley – dove era scoppiata la querelle sull’edizione critica del Nuo-vo Testamento, che sarebbe stata di basilare importanza per lo sviluppo degli stu-di sulla trasmissione dei classici e in genere dei testi letterari3. Questa ‘rinascita’ era contraddistinta da un rinnovato interesse per il greco, visto per lo più in col-legamento con le lingue orientali: basti pensare al riordinamento del 1718 della Regia Università di Torino, voluto da Vittorio Amedeo II e portato avanti da Sci-

1 Nella decadenza degli studi del greco che si manifestò a partire dalla seconda metà del Cinquecento giocarono un ruolo di rilievo la Controriforma e la condanna di Erasmo (a proposito della quale si veda in particolare Seidel Menchi, Erasmo in Italia; per un’analisi dettagliata dell’argomento rinvio a Curione, Sullo studio del greco in Italia, pp. 40-43 (dove però si fornisce un quadro troppo ottimi-stico della situazione); più in generale Degani, Da Gaetano Pelliccioni a Vittorio Puntoni e soprattut-to Filologia e storia, passim (il quale invece presenta il tutto in modo decisamente negativo).

2 Si veda a questo proposito da ultimo l’importante Quondam, Forma del vivere. 3 Su questo elemento pone giustamente l’accento, diversamente da vari altri studiosi, Sebastiano Tim-

panaro nel suo La genesi del metodo del Lachmann.

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pione Maffei, il quale pose le radici per una tradizione d’insegnamento del greco nell’ateneo piemontese, che, dopo vari personaggi come Andrea Bernardo Lama, Domenico Regolotti, Giuseppe Bartoli, Carlo Denina e altri, produsse, un seco-lo dopo, gli importanti lavori di Carlo Boucheron e Amedeo Peyron. A Bologna, dopo l’insegnamento di Gian Luigi Mingarelli, un grande rinnovamento si ebbe grazie a Manuel Rodríguez Aponte, gesuita, buon conoscitore della lingua gre-ca e precettore didatticamente efficace4, nonché insegnante di Lettere Greche all’Università (dal 1790 al 1800); sua allieva fu quella che rientra fra i pochi che godettero di una fama internazionale, cioè Clotilde Tambroni, che tenne a Bo-logna l’insegnamento del greco nell’ultimo decennio del Settecento e nel primo dell’Ottocento5. A Parma insegnò Lettere Greche all’Università Angelo Mazza, discepolo di Melchiorre Cesarotti, arcade col nome di Armonide Elideo, prota-gonista di una celebre polemica con Vincenzo Monti, mentre un’altra figura di notevole spessore fu Luca Antonio Pagnini, carmelitano, insegnante di eloquen-za, lingua greca ed ebraica, arcade col nome di Eritisco Pileneio, famoso tradut-tore di autori greci, latini e inglesi. Nel 1717 poi fu fondata a Padova la stampe-ria Volpi Cominiana, diretta da Giuseppe Comino, che tra il 1720 e il 1750 pub-blicò praticamente tutti i grandi testi latini: essa colmava così una lacuna che era stata evidenziata nel 1715 da Scipione Maffei, il quale appunto aveva lamentato la mancanza di pubblicazioni di testi classici in Italia. Ovviamente non si possono non ricordare il Vico e il Muratori: quest’ultimo in particolare nel 1713 pubblicò una raccolta di Anecdota Graeca, che anticipava uno degli interessi più vivi del-la filologia europea della fine del secolo, la ricerca di testi inediti e la loro pubbli-cazione. Nella seconda metà del Settecento centri di studio di una certa impor-tanza divennero Venezia (soprattutto grazie alla sempre fiorente attività editoria-le e alla presenza di un notevole patrimonio di manoscritti nella Marciana, il cui più importante direttore fu Iacopo Morelli), Firenze (dove molti classici furono editi tra il 1763 e il 1765 da Angiolo Maria Bandini, il celebre bibliotecario della Laurenziana) e soprattutto Napoli, la città dove secondo Villoison più facilmen-te si vendevano i testi greci, e nella quale una grande operazione culturale in tale senso fu fatta da Giacomo Martorelli. La cultura classica, dunque, era sempre in primo luogo funzionale a fornire exempla virtutis, ma si registrava un nuovo inte-resse per il testo originario, e non solamente per la bella frase da esso estrapolata.

In questo ambito vanno viste le riforme scolastiche che si ebbero nell’impero absburgico sotto il regno di Maria Teresa. Esemplare è a questo proposito l’In-stauratio di don Francesco Santoni da Ceniga al ginnasio vescovile (2.6.1774) di Trento6, dove si legge: Ut qui Latinae linguae Italis praecepta exponere debeant

4 Mezzofanti, Discorso in lode del P. Emanuele Aponte, pone l’accento sul metodo da lui escogitato per l’insegnamento del greco, la cosiddetta ‘tabula Ghefiriana’. Egli venne a Bologna in seguito alla sop-pressione dei Gesuiti con la “Bolla Dominus ac Redemptor Noster” di Clemente XIV del 21 luglio 1773. Si veda anche Degani, Da Gaetano Pelliccioni a Vittorio Puntoni, p. 118.

5 Per un’analisi dell’operato di questa studiosa rinvio al mio I carmi greci di Clotilde Tambroni. 6 Di questo si occupa partitamente Lia De Finis, Mille anni di studi classici in Trentino, pp. 210 ss.

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Itali sint, et qui Germanis Germani … ut non Latinam modo, sed et patriam lin-guam ex artis legibus tradere satagant. In essa si prescriveva dunque sempre l’in-segnamento del latino, ma nella lingua materna del docente e del discente; la co-sa non era di poco conto perché andava nella direzione di un insegnamento più filologico del latino e non semplicemente di esso come lingua internazionale. Sia-mo perfettamente in linea con i principi della riforma pedagogica teresiana del 1764, in cui ricoprì un ruolo primario Giovan Battista de Gaspari, che al Firmian era strettamente collegato (sappiamo, tra l’altro, che il Firmian stesso era forte-mente interessato ai problemi scolastici): tale riforma introduceva un nuovo si-stema di insegnamento del latino, che partiva dalla lingua materna senza preten-dere che gli alunni parlassero latino prima di aver letto ed approfondito l’inter-pretazione di qualche autore antico, ampliava i programmi nelle materie e le ar-ricchiva nelle letture. Per la prima volta, poi, il greco entrava, quasi alla pari con il latino, nelle scuole austriache. Dopo gli studi grammaticali si leggevano gli au-tori e i testi che in quell’epoca erano maggiormente ammirati, imitati e conside-rati un modello letterario: in particolare sono menzionati come oggetto di studio i Dialoghi di Luciano, Isocrate (considerato il Cicerone greco), i Memorabili e la Ciropedia di Senofonte, le Sentenze di Menandro (cioè una raccolta di belle fra-si e di insegnamenti morali in metro giambico, che una tradizione già antica ave-va raccolto ed attribuito a Menandro, un autore le cui opere autentiche erano nel Settecento pressoché sconosciute), i carmi di Anacreonte (cioè le cosiddette Ana-creontee), qualche passo di Erodoto, Esiodo, Teocrito e degli Inni di Callimaco; Demostene, Omero, l’Ecuba di Euripide e l’Elettra di Sofocle, il Pluto di Aristo-fane (cioè la commedia meno ‘scandalosa’ del grande comico ateniese) e qual-che epinicio di Pindaro. Il latino rimaneva comunque la lingua più studiata, con molti autori, e si davano edizioni con accurate note esegetiche; solo nel quarto e quinto anno, però, si avviava l’alunno alla composizione in latino.

Questo è l’ambito culturale in cui va inserito il collezionismo del conte Carlo Firmian per quanto riguarda il classico. Va in effetti ricordato che egli ebbe a più riprese modo di venire in contatto con quel rinnovamento filologico di cui ho par-lato prima: innanzi tutto, la sua educazione non fu provinciale, ma ebbe luogo in alcuni centri europei culturalmente sviluppati, perché egli, dopo aver frequenta-to l’Accademia dei nobili diretta dai benedettini ad Ettal, in Baviera, e lo studio triennale della filosofia all’università benedettina di Salisburgo (rispettivamente nel 1731-1734 e nel 1734-1737), si recò per un anno a Leiden (1738-1739), dove, come molti altri giovani signori provenienti dall’Impero, seguì le lezioni di diritto di Ph. R. Vitriarius. Egli potè quindi conoscere il clima intellettuale di un’univer-sità protestante, con forti influenze gianseniste, e che dal punto di vista della filo-logia classica era in quel tempo all’avanguardia: ebbe modo di conoscere, ad es., Pieter Burman senior, autore di varie opere erudite (come il De vectigalibus popu-li Romani, del 1694) ed editore di vari classici latini7. Come si è già detto, un al-tro stato europeo importante per gli studi classici era in quel tempo l’Inghilterra,

7 Devo questa notizia a Elisabeth Garms.

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e il Firmian, ancor giovane, fece la conoscenza del console inglese Joseph Smith: è probabile che in questo modo egli sia per la prima volta venuto in relazione con lo stile di vita di un mecenate e collezionista di rango internazionale e che ciò ab-bia rafforzato in lui l’interesse per tutto ciò che era inglese, che aveva forse già de-stato in lui il matematico e astronomo della corte salisburghese, lo scozzese P. Ber-nhard Stuart. Questo interesse divenne una vera e propria anglomania, un’anglo-mania che non poteva non portarlo ad interessarsi degli elementi nodali di quel-la cultura, in particolare la scienza e lo studio critico dei testi, entrambi affronta-ti con il metodo sperimentale tipico dell’Empirismo. Un terzo momento impor-tante è costituito dal viaggio di formazione in Italia intrapreso probabilmente nel 1743 e che lo portò per un certo tempo a Firenze, dove strinse vari rapporti per-sonali: essi sono ben documentati dal successivo carteggio con Lorenzo Mehus, per i cui studi tardoumanistici il Firmian mostrò un vivo interesse, spiegabile solo con una sensibilità di tipo filologico e storico-letterario, che aveva evidentemen-te acquisito con la frequentazione dell’ambiente di Leiden. Egli intrattenne buo-ni rapporti anche con l’incaricato d’affari inglese H. Mann e col nunzio pontifi-cio A. Archinto, futuro segretario di Stato e protettore di J. J. Winckelmann; an-che la sua ammissione all’Accademia Etrusca di Cortona (1744) fu dovuta ai suoi rapporti con questa cerchia, mentre un’altra figura importante, G. Lami, sembra avere svolto per lui un ruolo più marginale. Nel 1745, poi, rese omaggio, in occa-sione del viaggio a Vienna (dove era stato nominato nel Consiglio Aulico), a no-ti eruditi come Giovanni Bianchi (Ianus Plancus) a Rimini, Scipione Maffei a Ve-rona e soprattutto al venerato L. A. Muratori a Modena; a Vienna, poi, insieme agli intellettuali italiani che gravitavano intorno alla Bibliotheca Palatina (tra que-sti alcuni fuorusciti napoletani, come Biagio Garofalo), si adoperò per diffondere e dare ampia risonanza alle opere del Muratori che erano ancora poco note fuo-ri dai confini (anche se la citata raccolta di Anecdota aveva ricevuto il plauso dei dotti lipsiensi). Alla fine del 1752 il Firmian fu nominato ministro plenipotenzia-rio imperiale a Napoli, che, come si è visto, era un altro centro culturale partico-larmente attivo; lì stabilì un ottimo rapporto con vari studiosi ed eruditi tra cui lo stesso Winckelmann, cui rese possibile il viaggio per vedere i templi greci di Pae-stum (egli stesso ne era stato uno dei primi visitatori), e che divenne, a quanto pa-re, uno dei suoi commensali preferiti; lì, inoltre, ebbe un qualche contatto con i classicisti se inviò a Metastasio, perché ne facesse una traduzione, il testo di una stele greca appena rinvenuta (IG 14,769), secondo la lettura proposta da Nico-la Ignarra contro quella del Martorelli8. A quanto mi risulta, minori furono i rap-porti con gli antichisti negli anni milanesi: da questo punto di vista il periodo più importante fu senz’altro quello napoletano.

Date queste esperienze, non meraviglia la presenza nella biblioteca di Fir-mian di un’ampia serie di opere filologiche, e non si deve ignorare che gli stu-di di Aurora Scotti Tosini9 hanno messo in rilievo che il mecenatismo e il colle-

8 Sulla questione La Torraca, Lo studio del greco a Napoli nel Settecento, pp. 123-126. 9 Scotti Tosini, Carlo conte di Firmian e le belle arti.

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zionismo d’arte del Firmian, pur perdurando fino alla morte, dal punto di vista del gusto furono influenzati dalle correnti neoclassiche in voga a Roma e a Na-poli negli anni Cinquanta e Sessanta. La prima cosa che colpisce, nello scorrere i titoli dell’immensa biblioteca, è che c’è un’ampia sezione di autori latini di ogni età in quello che, per le conoscenze del tempo, era l’ordine cronologico (Plauto, Terenzio, Lucrezio, Catullo, Cornelio Nepote, Varrone, Cicerone, Sallustio, Ce-sare, Livio, Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio, Namaziano, Ovidio, Vitruvio, Manilio, Velleio Patercolo, Fedro, Celso, Valerio Massimo, Columella, Pompo-nio Mela, Seneca, Lucano, Petronio, Persio, Silio Italico, Plinio il Vecchio, Soli-no, Valerio Flacco, Quintiliano, Stazio, Curzio Rufo, Giovenale, Frontino, Mar-ziale, Tacito, Plinio il Giovane, Floro, Svetonio, Apicio, Gellio, Apuleio, Catone [cioè i Disticha Catonis, in una preziosa edizione, con introduzione di Erasmo10 e commento dello Scaligero], Palladio [l’autore del De re rustica], Giustino, Cen-sorino, Sereno Sammonico, Aurelio Vittore, Eutropio, Ausonio, Ammiano Mar-cellino, Vegezio, Macrobio, Claudiano, Simmaco, Boezio, Cassiodoro). Anche li-bri sugli autori greci di primo livello non mancano, ma non c’è nel catalogo una sezione apposita: essi sono sparsi nelle varie sezioni specifiche, con una cospi-cua dedicata agli oratori, una ai poeti (in cui soprattutto si hanno libri su Ome-ro, ma anche su Teocrito, Pindaro, Callimaco) e una più piccola sui poeti ‘dra-matici’. Ad es., in quella storiografica, figura un’ampia bibliografia su Tucidide, in cui non c’è solo la traduzione latina dell’Acacius (Tubingae 1596), la traduzio-ne italiana di Francesco di Soldo Strozzi del 1545, ma anche una delle prime im-portanti edizioni (anche questa con traduzione latina), cum notis variorum, che costitituisce il primo nucleo dell’immensa edizione di Poppo (si tratta di quel-la con note dello Stephanus, di John Hudson11, Joseph Wasse12 e Karl Andreas Duker del 1731). La presenza di questa e di molte altre edizioni cum notis vario-rum è a mio avviso significativa: si tratta delle raccolte dei frutti dell’atteggiamen-to critico sui testi con una importante messe di osservazioni testuali, congetture e richiami a loci similes. Una sezione particolarmente interessante è quella gram-maticale-lessicografica, che da un lato conferma l’alto livello di questo collezio-nismo, dall’altro rivela che lo studio delle lingue antiche era sentito come stretta-mente imparentato con quello delle lingue orientali, e dall’altro accomuna lessici moderni e lessici antichi, mostrando che il lessico antico non era visto nella sua specificità, ma sentito come un equivalente del nostro lessico monolingue. Figu-rano anche qui comunque le edizioni del lessico di Esichio curate dallo Schreve-lius (1668) e soprattutto quella di Joannes Baptista Alberti (1746), la cui caratte-

10 Questo non meraviglia: figurano anche i Colloquia (in tre edizioni, una di Amsterdam del 1650, una di Leiden del 1729 e una di Ulma del 1747), la Laus stultitiae (pur in castigatissima editone parigina del 1765) e le Epistole (in due edizioni: la prima, del 1642, contiene anche quelle di Melantone, Tom-maso Moro e Ludovico Vives).

11 Vissuto fra il 1662 e il 1719, studioso oxoniense; Sandys, A History of Classical Scholarship, 2, p. 356. 12 Vissuto tra il 1672 e il 1738, amico di Bentley che diceva di lui che se egli fosse morto sarebbe stato

il più dotto in Inghilterra. Sandys, A History of Classical Scholarship, 2, pp. 412, 447.

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ristica è di presentare le notae variorum, e che proprio per questo è spesso tutto-ra ineludibile per lo studio delle glosse esichiane. è chiaro che il nostro concet-to di studio della lessicografia antica è profondamente diverso da quello del Set-tecento, che noi sappiamo che non si può accomunare Esichio coi nostri lessi-ci, ma questa raccolta delle edizioni migliori di Esichio, Polluce, Frinico, Arpo-crazione evidenzia un rinnovato interesse per uno studio serio dell’antichità. Pa-rallelamente, figurano strumenti importanti di lessicografia biblica, a partire dal lessico della Polyglotta Complutense: nel 1502 il cardinale Ximénes de Cisneros intraprese ad Alcalá l’edizione della Bibbia ebraica, greca e latina, la cosiddetta Polyglotta Complutense, ed è questa la prima edizione a stampa del Vangelo gre-co (prima in Occidente si conosceva solo la Vulgata di San Girolamo) che fu edi-ta nel 1514, ma il permesso papale arrivò solo nel 1520, e l’opera in 6 volumi ini-ziò a circolare solo nel 1522, quando Erasmo aveva già pubblicato due edizioni della sua (1516 e 1519); questo fece sì che l’edizione corrente divenne quella di Erasmo, mentre la complutense rimase oscura. Il quinto volume della poliglotta aveva annesso un vocabolario del Nuovo Testamento, della Sapienza e dell’Eccle-siastico, composto da parole greche con significato latino, in ordine alfabetico, il cui autore è di solito considerato Demetrio Doukas, ma non è possibile dirlo con precisione13. La presenza di questo come di altri testi mostra un interesse per gli strumenti che senza dubbio qualifica il collezionismo di Firmian; in tale ambi-to, non poteva poi mancare una sezione dedicata agli Emblemata, che costituiva-no uno dei generi eruditi più diffusi in Età Moderna, uno strumento di diffusio-ne della cultura classica, o meglio di aiuto alla memorizzazione di frasi esempla-ri ed ‘emblematiche’ dell’etica dominante, opportunamente collegate a loci clas-sici ed illustrate. Essa comprendeva quelli dell’Alciato (in tre edizioni, quella del 1574, quella del 1600, quella del 1621) e altre opere variamente connesse a que-sto genere, come i Symbola Pythagorae di Filippo Beroaldo del 1503 o il Dialogo delle imprese militari ed amorose di Paolo Giovio (1574), mentre i famosi Emble-mata oraziani di Otto Vaenius non sono presenti in una edizione autonoma, ma nel Theatro Moral de la Vida Humana del 1672. A ben vedere, non può che me-ravigliare il fatto che gli Emblemata, certo presenti, non lo fossero tuttavia in mi-sura così massiccia come ci si potrebbe aspettare: questo di per sé non è un indi-zio di un minore interesse verso questo genere erudito tradizionale, ma è comun-que un elemento che non può essere sottaciuto.

In conclusione, se leggiamo il caustico giudizio di Pietro Verri (“Intanto ci te-neva depressi un ministro invisibile e rintanato fra una galleria di cattivi quadri, fra una libreria di volumi conosciuti pel solo frontispizio, segnando comodamen-te senza leggerli i decreti che gli presentavano i suoi scrivani favoriti”14), siamo tentati di vedere nel collezionismo di Firmian lo stesso gusto antiquario ed eru-dito, privo di, anzi contrario a qualsiasi approfondimento filologico, che percor-re l’intera cultura italiana nell’Età Moderna, ma – anche se non è dato sapere in

13 A questo proposito Lee, A History of New Testament Lexicography, pp. 45-60. 14 Valsecchi, L’assolutismo illuminato in Austria e in Lombardia, 2, p. 146.

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che misura sia lecito vedere in questa biblioteca il frutto di un progetto cultura-le – quanto si è visto porta in un’altra direzione, rivela che non c’era solo questo: la presenza della cosiddetta letteratura strumentale, di recenti edizioni dei clas-sici cum notis variorum, dei frutti della più affinata filologia d’Oltralpe e non so-lo dei prodotti, per lo più qualitativamente mediocri, dell’editoria italiana, van-no di concerto con quel nuovo interesse per il mondo antico e per la filologia classica che verso la metà del Settecento si accompagna all’esperienza neoclassi-ca, con un aprirsi ad una dimensione europea che era proprio di un personaggio che, come si è visto, aveva avuto un’educazione ed esperienze di vita internazio-nali e non certo provinciali.

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