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Immaginario e immagine nel musical dalla fine del cinema classico al postmoderno West Side Story e...

Date post: 30-Nov-2023
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1 Immaginario e immagine nel musical dalla fine del cinema classico al postmoderno: West Side Story e Moulin Rouge! Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico, digitale: teorie e tecniche. Cattedra di Interpretazione del film (L-ART/06) Alessandro IACOACCI n. matr. 1247154 Relatore Correlatore Prof. Giulia FANARA Prof. Andrea MINUZ A/A 2014/2015
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Immaginario e immagine nel musical dalla fine del cinema classico al postmoderno: West Side Story e Moulin Rouge! Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico, digitale: teorie e tecniche. Cattedra di Interpretazione del film (L-ART/06) Alessandro IACOACCI n. matr. 1247154 Relatore Correlatore Prof. Giulia FANARA Prof. Andrea MINUZ A/A 2014/2015

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Il bambino che portasti a vedere 2001 Odissea nello Spazio è diventato grande.

Saresti fiero di lui.

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INDICE

pag.

Introduzione 4 1. West Side story. Gli USA del 1960. 1.1 Gli USA dei primi movimenti studenteschi e della fine del cinema

classico.

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1.2 Romeo e Giulietta a New York; Sharks e Jets come Montecchi e Capuleti.

20 1.3 Integrazione razziale, bande giovanili e prospettive di genere in

West Side Story. 38

2. Il musical verso il 2000. Sempre in bilico tra la fine e la rinascita. 2.1 Dalla New Hollywood fino alla rinascita. 55 2.2 One from the Heart; Coppola fra nuovi orizzonti digitali e non-

luoghi. 63

2.3 Pennies from Heaven; fine del musical (o nuovo inizio?). 80 3. Moulin Rouge!. Fare musical dopo MTV. 3.1 Spectacular, Spectacular! La MTV-izazzione dell’immagine. 100 3.2 Baz Luhrmann. Postmoderno, Cinema, Musica e Videoclip. 115 3.3 Dalla storia in musica alla musica per la storia. L’immagine e la

colonna sonora di Moulin Rouge!. 134

Conclusioni 145 Bibliografia 153 Schede dei film trattati 156 Filmografia 162

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INTRODUZIONE

Il cinema non muore. Forse comincia a vivere adesso.

Francesco Casetti, La galassia Lumière.

La definizione di musical – uno spettacolo teatrale o cinematografico in cui

si avvicendano musica e recitazione – nasconde molte insidie, soprattutto se di quella definizione si cerca il riscontro in tutte le produzioni che gli studiosi di musical hanno delineato come tali nel corso degli anni. Rick Altman ha affrontato l’argomento in maniera sistematica; nel suo The American Film Musical individua il genere e i suoi sottogeneri in modo rigoroso, redigendo anche delle tabelle riepilogative. A un approccio di quel tipo, fa riscontro, ad esempio, quello di un altro studioso Gerald Mast; in Can't help singin'. The American musical on stage and screen ha operato in una direzione diversa e problematica, sostenendo che un film si definisce musical in funzione della prevalenza dei numeri musicali sulle parti recitate. Va da sé che mentre una simile teoria può andare bene per film che sono cantati quasi integralmente, ad esempio Jesus Christ Superstar (Id. - 1973), pone non pochi problemi quando la situazione non è ben definita come ad esempio in un film come The Wizard of Oz (Il mago di Oz – 1939) dove i brani musicali sono presenti in modo più sporadico e solo da un certo punto della pellicola.

L’obiettivo di questa tesi è di verificare, mediante l’uso degli studi a disposizione, se, dopo la fine del cinema classico c’è ancora uno spazio per il musical, se questo termine può essere ancora utilizzato con proprietà per riferirsi alle produzioni musicali dopo la cosiddetta epoca d’oro, quella che ha reso celebre nel mondo l’immaginario rappresentato dai numeri di Fred Astaire e Gene Kelly. Soprattutto si cercherà di dimostrare come il film musicale sia sempre e comunque sensibile a ciò che avviene nella dimensione socio-culturale e, per questo, nel primo capitolo, dopo un excursus della situazione storico politico culturale in cui si è sviluppato, si è preso in esame West Side Story (Id. – 1961), il pluripremiato film di Wise e Robbins che nel 1961, adattando sullo schermo un lavoro teatrale di quattro anni prima, ha rappresentato

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probabilmente il primo vero momento di cambiamento con il passato. Nonostante non sia mai stato inserito a pieno titolo negli studi sul cinema musicale1, testi più recenti hanno invece riconosciuto che il film è stato un vero e proprio spartiacque con le produzioni precedenti, fondendo per la prima volta le realtà del tempo, cioè i problemi dell’integrazione razziale, della ribellione giovanile, proprio negli stessi anni in cui prendevano vita i primi segnali di quella ribellione da cui sarebbero nati i primi movimenti di protesta studenteschi e, per altri versi, le prime lotte delle minoranze etniche, specialmente quelle di colore.

A fronte della quasi unanimità che riconosce la presenza di contenuti socio culturali rilevanti nel film, si vedrà come non sono mancate minoritarie ma interessanti critiche di senso opposto alla pellicola che è stata letta in una chiave di esaltazione del modello culturale americano, una celebrazione della american way of life, descritta da West Side Story come l’unica possibile, rappresentando gli immigrati, in questo caso i portoricani, nei loro aspetti deteriori. Attraverso le dichiarazioni dei protagonisti che raccontano la genesi del film spiegando i lavori di preparazione dei balletti, la minuziosa costruzione delle coreografie, le differenze con il testo che ispirò il musical, cioè il Romeo e Giulietta di William Shakespeare si esamineranno le novità rispetto al passato. Per meglio contestualizzare l’opera, verrà anche analizzato il particolare ruolo che Portorico, da oltre un secolo “51°” stato americano ha avuto e ha rispetto agli USA. Il capitolo successivo concentrerà l’attenzione sulle vicende del cinema musicale degli anni Settanta; caratterizzati dalla profonda crisi dei generi, segno distintivo di quell’epoca. Il musical più di tutti gli altri generi del classico Hollywoodiano, ha risentito di questa crisi; infatti, venendo a mancare la concezione dell’immaginario che per vent’anni lo aveva caratterizzato, non c’è più la coerenza dei canoni che lo avevano contraddistinto. Ne consegue che negli studi del periodo, spesso sono comprese nel novero dei film musicali opere che sono invece più riferibili a film a soggetto, biografici o film concerto2.

Tra i film che caratterizzano quel periodo, occorre citare almeno Saturday Night Fever (La Febbre del Sabato Sera – 1977) e Grease (Id. – 1979); il primo, 1 Rick Altman nella sua opera omnia sul musical, il citato The American Film Musical, relega sbrigativamente West Side Story tra i cosiddetti folk musical, senza dedicare particolare attenzione al lavoro di Wise e Robbins. 2 Un film come The Doors di Oliver Stone non è considerato dagli studiosi come un musical, mentre lo è Jesus Christ Superstar. I due film presentano in realtà caratteristiche strutturali analoghe.

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realizzato con ridotte risorse economiche, ha consacrato la moda della disco-music; anche se apparentemente non emergono i tratti distintivi del musical; cioè personaggi che cantano, la musica e la danza non sono su un piano diverso, ma sono parte della trama e dell’ambientazione del film, a tutti gli effetti contenuto, non forma, da alcuni elementi è possibile rintracciare i caratteri propri del musical classico e la loro applicazione. Almeno due sequenze, infatti, replicano modalità tipiche del genere; la prima è la danza all’Odissea 2001, in cui noi vediamo un vero e proprio corpo di ballo che esegue una coreografia preordinata, certo non quello che accadeva in una discoteca di disco-music; la seconda è quella delle prove per la gara di ballo, in cui Travolta e Karen Gorney sono subito perfettamente sincronizzati; per cui non si tratta di prove, ma di veri e propri balletti3, nello stile del più classico dei musical. Grease, uscito l’anno dopo Saturday Night, cercò di ripetere il successo del primo film ma di fatto è solo un contenitore per sfruttare l’immagine di John Travolta, all’epoca all’apice della sua fama; nonostante sia un lavoro inferiore al precedente, tuttavia, replica la struttura del musical in modo più esplicito.

Il primo numero musicale, in cui i due gruppi, ragazzi e ragazze, al campo sportivo e poi nel cortile della scuola eseguono Tell me More è una citazione palese di West Side Story. Considerando come nell’immaginario collettivo la scena del film di Wise e Robbins costituisca l’antonomasia del musical, ecco che Grease, contrariamente a Saturday Night Fever, vuole porsi esplicitamente nel genere musical, anche se la scelta del rock’n roll come colonna sonora è, da questo punto di vista, un elemento dissonante.

I due film che negli anni Ottanta contrassegnano maggiormente il tentativo di esplorare le possibilità di rinascita del musical in un’ottica postmoderna sono però le due opere trattate nel secondo e terzo paragrafo del capitolo. One From the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982), opera sperimentale e avveniristica di Coppola, che adottando la forma della commedia musicale americana, ne celebra gli aspetti più onirici, funzionali a raccogliere tutte le utopie che il regista cerca di racchiudere nel suo “cinema elettronico” e Pennies from Heaven (Spiccioli dal cielo – 1986), che riprende i codici cari al musical classico anni Trenta, impiantandoli però su una storia cupa, con un finale che lascia poco spazio al sogno, se non quello dello schermo 3 A. Crespi, Sette note (per una teoria sul musical), in «Cinema & cinema», C’era una volta il Musical, VII, 1980, n. 22/23, pp. 62 ss.

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metacinematografico del film. Herbert Ross, il regista, riprende una serie televisiva scritta da Dennis Potter, autore misconosciuto in Italia ma uno dei più grandi della BBC e non solo, che del film di Ross è sceneggiatore. Il film è un’impietosa rappresentazione della fine di un mondo, quello del classico, ma allo stesso tempo, riconoscendo l’impossibilità di far rivivere quel mondo, getta le basi per una rifondazione del genere.

Anni dopo, sarà un autore come Lars von Trier a far propri quegli insegnamenti, costruendo sull’ispirazione di Pennies From Heaven una delle sue opere migliori, Dancer in the Dark (Id. – 2000), con struttura “nera” simile a quella del film di Ross. Chi più di tutti sarà protagonista di una vera e propria rinascita del genere, è però Baz Luhrmann, il regista è riuscito a dare nuovo lustro al musical mediante l’impiego delle tecniche del linguaggio postmoderno.

Mediante il tentativo di analisi dei film della sua cosiddetta Trilogia della Red Curtain, con maggior attenzione a Moulin Rouge! (Id. – 2001), nel terzo capitolo, dopo un paragrafo dedicato all’importanza dell’avvento del videoclip, rievocato attraverso l’avventura di MTV e dei registi che in quella “palestra” si sono imposti all’attenzione, si cercherà di leggere l’uso del linguaggio postmoderno applicato da Luhrmann, le sue combinazioni di oggettive raddoppiate e soggettive vuote4 con un repertorio musicale in cui le citazioni si susseguono, così come avviene per le immagini, tra pop e rock nella Parigi di fine secolo, Luhrmann, nel massimo rispetto dei dettami del postmoderno rifiuta ogni gerarchia e utilizza la parodia, il gioco, come unica possibilità, azzera la progressione temporale, mescolando Parigi di inizio Novecento con le musiche degli anni Sessanta – Novanta. Per Luhrmann non contano i personaggi e tantomeno la storia; volutamente già nota e quindi assimilata dagli spettatori; l’importante è la performance, la messinscena in quanto tale, i colori, le luci, la valenza magica che solo il cinema riesce a possedere e che fin dalle sue origini ha catturato il pubblico.

Il cinema delle origini si mescola qui con le iconografie di MTV per far rivivere anche gli anni Ottanta, gli anni dell’edonismo, dell’apparenza. Per elencare le citazioni e riferimenti musicali, cinematografici, letterari, teatrali, occorrerebbe una 4 Le oggettive raddoppiate realizzano un’immagine che, al suo interno, contiene altre immagini, le seconde tendono per il movimento della cinepresa a segnalare la presenza di qualcuno, qualcuno che in realtà non appare (il regista o il narratore, ad esempio). Ciò grazie al movimento della macchina (volutamente troppo veloce e con zoomate improvvise e repentine) e alla posizione in cui viene posta (in alto con inquadrature panoramiche dal cielo).

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trattazione a parte. È certo che il film crea uno standard di virtuosismo estetico che ha stabilito un nuovo limite alle possibilità che il mezzo cinematografico offre, riuscendo, operazione che Coppola con One from The Heart aveva tentato in tempi non ancora pronti ad accettarlo, a dimostrare che oltre i canoni di genere, oltre i codici e le tecniche, quello che conta è “catturare” lo spettatore con le immagini, i suoni, costringerlo a rimanere intrappolato davanti allo schermo, percependo la sensazione che fino alla fine non si potrà uscire dal vortice di emozioni che stiamo provando. In questo modo Luhrmann riesce a reinventare quel musical, dato per morto e sepolto e invece più vivo che mai, costruendo un “caleidoscopio” dell’immaginario dove al posto dei sentimenti sono ora le emozioni, in perfetta sintonia con l’epoca postmoderna di cui il cinema del regista australiano è uno dei maggiori portatori.

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1. West Side Story. Gli USA del 1960. 1.1 Gli USA dei primi movimenti studenteschi e della fine del cinema classico.

Alla fine della seconda guerra mondiale gli americani confidavano nel

ritorno alla “normalità”, come era accaduto negli anni Venti prima della grande crisi del 1929. Proprio perché memore di quell’evento, il governo si era fatto carico del difficile e ingrato compito di controllare l’economia, sia attraverso le misure fiscali e sia controllando la disoccupazione. In un sistema sociale legato all’iniziativa privata, questo tipo di atteggiamento governativo aveva suscitato non poche polemiche. Il presidente Truman, subentrato all’uomo del New Deal Franklin Delano Roosevelt e i suoi consiglieri sapevano che lo smantellamento dell’economia bellica e la smobilitazione degli uomini alle armi, da ricollocare nella vita civile, erano due elementi potenzialmente vettori di recessione. Attraverso interventi governativi, primo fra tutti l’Employment Act5, industriali e commercianti si impegnarono per assicurare il maggior numero di occupati e i risultati non tardarono. Gli Stati Uniti conobbero un nuovo boom economico che superò addirittura i livelli occupazionali del tempo di guerra. Si era così resa concreta la “dottrina Truman”; per realizzarsi appieno mancava ora un elemento, convincere l’opinione pubblica interna della minaccia rappresentata dal comunismo. Nel 1946 gli USA avevano capito che l’URSS non condivideva il desiderio di pace e stabilità mondiale. In virtù della perdita di importanza nello scenario mondiale della Gran Bretagna che, travagliata da difficoltà economiche e dalle lotte per l’indipendenza delle colonie del suo, ormai ex, impero, tendeva sempre più all’isolazionismo, Truman convinse il popolo statunitense che l’America era il baluardo della libertà e che serviva una mobilitazione del paese, la più grande in tempo di pace, a sostegno della stabilità 5 «The Congress hereby declares that it is the continuing policy and responsibility of the federal government to use all practicable means consistent with its needs and obligations and other essential considerations of national policy with the assistance and cooperation of industry, agriculture, labor, and state and local governments, to coordinate and utilize all its plans, functions, and resources for the purpose of creating and maintaining, in a manner calculated to foster and promote free and competitive enterprise and the general welfare, conditions under which there will be afforded useful employment for those able, willing, and seeking work, and to promote maximum employment, production, and purchasing power» Employment Act of 1946, Pub. L. 79-304, ch. 33, 60 Stat. 23 (1946). Quoted in Bailey (1950), p. 228.

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europea minacciata dalle mire espansionistiche di Stalin «Il germe del totalitarismo è alimentato dalla sofferenza e dalla miseria. Si diffonde e cresce nel cattivo terreno della povertà e della discordia. Raggiunge la piena crescita quando nel popolo la speranza di vita migliore è morta. Noi dobbiamo tenere in vita quella speranza»6.

Dagli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta, ebbe inizio quindi un tentativo di “americanizzazione del mondo” che, in qualche modo, rispondeva all’aspirazione, coltivata da parte degli americani, di essere il modello di civiltà per tutta l’umanità. Questo processo si servì di consistenti aiuti economici per la ricostruzione dei paesi amici, come il Piano Marshall e, soprattutto, della diffusione dello stile di vita attraverso il cinema e tutte le forme di cultura di massa che enfatizzavano l’american way of life. Il supermarket, la lavatrice, il frigorifero, l’automobile divennero, più della potenza militare, i mezzi e i simboli della superiorità degli Stati Uniti; erano diffusi da tutti i media dell’epoca nel resto del mondo, come unico modello di libertà, crescita e benessere contrapposto allo statalismo sovietico che quei desideri reprimeva. La nozione di libertà divenne in breve lo strumento ideologico della Guerra Fredda, opposta al totalitarismo comunista di Stalin.

Gli Stati Uniti ormai si erano autonominati paladini della democrazia e questo fu il motivo che portò Truman alla rielezione del 1948. L’anticomunismo fu il fattore premiante e chiunque cercasse una pur minima conciliazione tra le due posizioni era bollato come pericoloso antiamericano. Non era solo un modello valido per gli USA, doveva esserlo per tutto il mondo; il prototipo di questa esportazione fu il Giappone e, di seguito, l’Europa. Nel frattempo, complice la presa del potere di Mao Tse-Tung in Cina e l’invasione della Corea del Sud da parte dello stato filo-comunista nordcoreano, gli USA intervennero militarmente in Asia, anche se sotto l’egida dell’Onu. La ripresa del nazionalismo fu molto forte e si manifestò attraverso un anticomunismo viscerale e una forte ostilità nei confronti delle organizzazioni sindacali. Dal 1946 al 1950 furono votate leggi che limitavano la libertà di azione dei sindacati, prima fra tutte la legge detta Taft-Hartley, dal nome dei relatori7. Durante il nuovo mandato, Truman non riuscì 6 G. Borgognone, Storia degli Stati Uniti, la democrazia americana dalla fondazione all’era globale, Feltrinelli, Milano 2013, p. 204. 7 Tale legge impose delle restrizioni contro l’obbligo per i lavoratori di iscriversi al sindacato entro un certo lasso di tempo pena la perdita del lavoro. Venne introdotto la facoltà per il presidente di chiedere un'ingiunzione federale per imporre un periodo di riflessione di ottanta giorni se uno sciopero fosse stato ritenuto minacciare l'interesse nazionale. Venne introdotto anche l'obbligo per i dirigenti sindacali del

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a riprendere il programma del suo predecessore, fair-deal/trattamento equo che era l’obiettivo primario di Roosevelt. Ottenne gli stanziamenti per i programmi di edilizia sociale e di conservazione ed elettrificazione delle campagne, ma non volle revocare la Thaft-Hartley e neanche approvare leggi per l’assistenza sanitaria e l’assunzione dei lavoratori. Gran parte delle energie del congresso erano concentrate verso la minaccia della sovversione comunista. Intanto la guerra in Corea continuava e Truman cercava di gestire la situazione con decisione e buon senso, nonostante i repubblicani chiedessero più energia nel conflitto. Il paese accettava la guerra, però malvolentieri sopportava le conseguenze che ne derivavano e quando, per porre freno alle spese militari della guerra, si propose di bloccare i salari, ci fu opposizione che alla fine portò alla concessione di aumenti sostanziali. La guerra di Corea, il malcontento dell’opinione pubblica e alcuni scandali che coinvolsero dei membri dell’esecutivo, portarono alle elezioni del 1952 il partito democratico ormai logorato.

Fu buon gioco per i repubblicani, che candidarono il generale Eisenhower, l’eroe della seconda guerra mondiale, icona dell’americano tollerante, dignitoso e non troppo ideologicamente impegnato, vincere la tornata elettorale ed eleggere il nuovo presidente degli USA. Favorevole al compromesso e alla coesistenza, riuscì, favorito dalla morte di Stalin, a raggiungere un armistizio in Corea e, nel 1955 a modificare il programma di sicurezza guidato dal celeberrimo senatore McCarthy che con la sua campagna anticomunista portata all’estremo aveva prodotto danni devastanti. Alla fine degli anni Cinquanta, nonostante tutto, il boom economico che aveva caratterizzato tutto il decennio era per molti aspetti ancora in corso. Il prodotto interno lordo, dai 353 miliardi di dollari di inizio decennio, aveva superato i 452 miliardi nel 1957 e i 487 nel 19608. Dietro questa immagine sfavillante, però, si nascondevano in realtà problemi sociali che negli anni Sessanta si palesarono in tutta la loro portata e furono al centro di un grande e articolato movimento di denuncia e di esigenza di rinnovamento. La spensieratezza apparente dei fifties celava una povertà drammatica in diverse zone del paese e in alcuni quartieri delle grandi città; la situazione delle comunità nere e delle minoranze ispaniche e asiatiche fino agli indiani delle riserve era tutt’altro che rosea, nonostante la togetherness propagandata con ogni mezzo di comunicazione di massa. giuramento di estraneità alle dottrine comuniste. Tale prescrizione fu ritenuta incostituzionale nel 1965. Venne negato a tutti i dipendenti pubblici il diritto allo sciopero. 8 G. Borgognone, Storia degli Stati Uniti..., cit., p. 223.

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Tuttavia, l’ampio benessere economico ancora esistente, se da un lato evidenziava le differenze sociali, dall’altro permetteva sempre più ai figli della media borghesia l’accesso alla costosa istruzione secondaria (dal 1940 al 1965 gli studenti universitari passeranno dal 15% al 44%)9. Questi giovani, che soffrivano tutte le contraddizioni della società americana e della classe media da cui, in gran parte provenivano, si ribellavano all’educazione ricevuta, percependo come le generazioni precedenti non avessero realizzato un’autentica democrazia. Punto di partenza programmatico della protesta studentesca fu il manifesto di Port Huron del 1962, realizzato dagli studenti del movimento Sds (Students for a Democratic Society) e in particolare di un loro leader, Tom Hayden. Il testo sarebbe diventato uno dei documenti più importanti della “nuova sinistra” (New left) degli anni Sessanta: «Cerchiamo l’istituzione di una democrazia partecipativa a livello individuale, retta da due obiettivi centrali – che l’individuo partecipi alle decisioni sociali che determinano la qualità e la direzione della sua vita; che la società sia organizzata per incoraggiare l’indipendenza degli uomini e per fornire strumenti per la loro partecipazione comune»10.

Era l’idea di una “democrazia partecipativa”, in chiara opposizione alla “tendenza elitaria” del primo Novecento e del New Deal. Veniva rifiutato l’approccio manageriale delle scienze sociali che riduceva i cittadini a meri consumatori di beni e servizi tanto sul piano economico che su quello politico11. Dalla protesta studentesca nacquero la nuova sinistra e la “controcultura”; furono significative le novità della cultura di massa. La musica rock, che attingeva nella cultura black, sarà alla base delle proteste generazionali del decennio 1960-70. Non casualmente Bob Dylan, una delle icone di quelle proteste, comporrà nel 1963 The Times They Are a-Changin (I Tempi stanno cambiando).

Tutto questo fermento culturale non poteva non riverberarsi nel cinema, o meglio nell’industria cinematografica statunitense. La famiglia, mito fondante della nazione, comincia a essere rappresentata con tutte le sue debolezze «[…] l’uomo non è più colui che ha aperto la strada nel continente originario e selvaggio per costruire la

9 Ivi, p. 229. 10 Ivi, p. 230. 11 Ivi, p. 231.

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società parallelamente alla propria mascolinità, è al contrario diventato un modello di compiacenza, remissività, frustrata devozione a uno stile di vita home-oriented»12.

I conflitti generazionali che attraversavano la società americana vennero portati sullo schermo da film come Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata - 1955); Splendor in the Grass (Splendore nell’erba - 1961) ma soprattutto East of Eden (La valle dell’Eden – 1955). Erano descritte le profonde contraddizioni che avevano portato allo scoperto la falsità del mito dell’american way of life degli anni ’50, che permettevano anche di fornire il naturale sbocco delle nuove modalità recitative insegnate all’ Actors Studio13.

In generale, il quadro politico internazionale con la cosiddetta guerra fredda tra USA e URSS; le profonde trasformazioni della società americana con i conflitti generazionali e le mutate abitudini delle famiglie, investirono in pieno l’industria cinematografica americana, portando profonde trasformazioni. Nel libro Storia del cinema Kristin Thompson e David Bordwell affrontano nel dettaglio questo passaggio decisivo che porta a indicare il 1960 come il momento finale del cinema classico hollywoodiano. I mutamenti sociali e culturali ebbero infatti riflessi sullo studio-system. Le sale cinematografiche del periodo d’oro erano in luoghi centrali, facilmente fruibili, mentre lo sviluppo dell’edilizia suburbana del dopoguerra aveva portato molte delle famiglie formatesi dopo il 1945, negli anni del baby-boom14, ad andare ad abitare lontano dal centro. La conseguenza fu che queste famiglie, molte con figli piccoli, difficilmente affrontavano il lungo spostamento per vedere un film, preferendo la comodità della televisione. Nel 1957, gli spettatori settimanali del cinema scesero a 47 milioni dai 98 del 1946, costringendo alla chiusura di quattromila sale e nel 1960 nel 90% delle case degli Stati Uniti c’era un apparecchio televisivo. Hollywood cercò di adeguarsi provando a trarre profitto dalla nuova realtà televisiva, vendendo in tv i diritti di molte pellicole B-movie della Monogram, della Republic e di altri. Dal 1955, poi, anche le majors cominciarono a vendere i diritti televisivi dei loro titoli. Le grandi case 12 A. Caputo, Dall’eredità del New Deal di Roosevelt al nuovo spazio della frontiera di Kennedy, in G. Fanara (a cura di): Shooting from heaven, trauma e soggettività nel cinema americano dalla seconda guerra mondiale al post 11 settembre, Bulzoni, Roma 2012, pp. 11-22. 13 Nel 1948 Elia Kazan fonda l’Actors Studio che dal 1950 e fino al 1982 sarà diretto e reso celebre da Lee Strasberg. L’Actors diverrà la più importante scuola di recitazione d’America. Divi come Marlon Brando, Marilyn Monroe, Paul Newman, James Dean e Montgomery Clift. Sulle basi teoriche di Stanislavskij, l’Actors introdurrà la psicologia nelle modalità di rappresentazione del personaggio. 14 Il rientro in patria dei soldati americani smobilitati dai fronti di guerra portò un aumento esponenziale delle nascite negli anni Cinquanta.

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divennero produttrici di serie televisive; nel 1949 la Columbia convertì il suo reparto cortometraggi alla produzione televisiva. Nel 1953, i network tv passarono dagli sceneggiati in diretta ai telefilm girati su pellicola e le case indipendenti furono pronte a soddisfare la maggiore richiesta di materiale15.

Il declino della produzione cinematografica fu compensato così con i proventi dell’affitto delle loro strutture alle produzioni indipendenti per il cinema e la televisione. Il consumo del prodotto cinematografico era variato, ora gli spettatori tendevano a essere più selettivi e a riservare la fruizione cinematografica solo agli eventi, ai film “importanti”. Poiché l’immagine della televisione degli anni Cinquanta era piccola, opaca e in bianco e nero, i produttori, per cercare di riportare pubblico al cinema, elaborarono modi per mostrare la netta superiorità dello schermo cinematografico. Sono gli anni in cui si diffonde l’utilizzo del colore e si brevettano o si perfezionano le tecnologie per formati panoramici. Il Cinemascope, il più famoso, è un sistema per riprendere scenografie enormi e grandi masse di comparse con una resa più imponente rispetto alle riprese tradizionali. Introdotto dalla Twenty Century Fox con The Robe (La tunica – 1953), era possibile con l’uso di una cinepresa munita di una lente anamorfica che catturava un’inquadratura molto ampia comprimendola in una normale pellicola di 35 mm. La proiezione avveniva applicando al proiettore una lente corrispondente che decomprimeva il fotogramma per restituire un’immagine normale. Contemporaneamente si sperimentano le prime forme di cinema tridimensionale; con l’ausilio degli occhiali bicolori si proponeva l’immagine in 3D che riproduceva in modo diverso e più realistico oggetti e situazioni. Il metodo venne usato soprattutto per i film di fantascienza e dell’orrore, il più famoso dei quali è House of Wax (La maschera di cera – 1953) ma anche un regista come Alfred Hitchcock girò in 3D uno dei suoi film più famosi come Il delitto perfetto (Dial M for Murder – 1954). I produttori non cercarono solo nella tecnologia le soluzioni per frenare la fuga del pubblico dalle sale cinematografiche. Se prima degli anni Cinquanta la gran parte delle produzioni degli studios era pensata per un pubblico familiare, in seguito i film in uscita cominciavano ad essere destinati con maggior frequenza agli adulti, ai ragazzi, agli adolescenti.

15 K.Thompson e D. Bordwell, Film History: An Introduction, third edition, McGraw-Hill, New York, 2010; tr.it. Storia del cinema, un’introduzione, quarta edizione; McGraw-Hill Italia, Milano 2014, pp. 174-176.

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La crisi del modello hollywoodiano tradizionale diede il via a un forte dibattito culturale di cui le principali protagoniste furono, dal 1955, due riviste, entrambe pubblicate a New York, «Film Culture» e «The Village Voice»16, entrambe legate alla figura di Jonas Mekas, regista e critico cinematografico lituano emigrato negli Stati Uniti, ideatore nel 1949 del movimento Underground newyorkese. «Film culture» era destinata a promuovere l'idea di una nouvelle vague americana e intorno a essa nacque il New American Cinema Group (NACG), fondamentale per gli sviluppi del New American Cinema, che raggruppò registi come Shirley Clarke, Robert Frank, Peter Bogdanovich e artisti come Andy Warhol. Di fatto la crisi di Hollywood incoraggiò i tanti tentativi di chi, come Mekas, teorizzava un cinema a basso costo, magari non perfetto come i prodotti di Hollywood, ma vero, combaciante con le persone e con le storie che voleva raccontare, indipendente dalle grandi majors di Hollywood. Anche se alcune volte il budget delle produzioni indipendenti fu simile a quello delle produzioni delle grandi case, come nel caso di Spartacus (Id. - 1960) la maggior parte degli altri produttori indipendenti, approfittando del vuoto lasciato nel settore dei B movie dalle case più grandi, si specializzò nei film cosiddetti di exploitation. Case di produzione come l’American International Picture (AIP) giravano film in un massimo di due settimane. Un regista come Ed Wood divenne famoso per le sue bizzarre opere; Glen or Glenda (Due vite in una – 1953); Plan 9 from Outer Space (Piano 9 da un altro mondo – 1959). Normalmente si trattava di film horror, fantascienza o a carattere erotico, che sfruttavano la passione degli adolescenti per questi argomenti.

Su tutti si impose la figura di Roger Corman; fortemente interessato alla letteratura d'orrore, ebbe l’idea di trasporre sullo schermo molti dei racconti di Edgar Allan Poe. House of Usher (I vivi e i morti – 1960); Pit and the Pendulum (Il pozzo e il pendolo - 1961); The Terror (La vergine di cera - 1963) sono solo alcuni dei titoli degli oltre 50 film diretti e più di 300 prodotti (che gli valsero nel 2009 l’Oscar alla carriera). Nonostante tutti questi mutamenti avessero minato alla base l’industria hollywoodiana, lo stile classico rimaneva il principale modello di racconto. Riprendendo quanto fatto da Orson Welles anni prima, si cominciò a utilizzare diffusamente la soggettiva e la costruzione narrativa cominciò a prevedere un largo uso di flashback. Alcuni registi cercarono un nuovo realismo nell’ambientazione mediante un diverso uso delle luci e 16 R. Censi, Off Hollywood e underground, in S. Della Casa (a cura di), Lezioni di cinema; L’appassionante racconto della settima arte, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2015, p. 4.

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della costruzione del racconto. Uno degli esempi più interessanti è The Killing (Rapina a mano armata – 1956) diretto da Stanley Kubrick «… Kubrick offre di fatto immagini da cinegiornale, con un’asciutta voce over che indica il giorno e l’ora di molte scene e manipola il tempo in modo assai complesso; il film mostra una parte della rapina, poi fa un passo indietro per descrivere le vicende che hanno portato a quelle fase e, poiché segue l’azione da diversi punti di vista, ripropone gli stessi eventi più volte»17.

Le case di produzione cercarono di dare nuovo vigore ai generi cinematografici classici, differenziando ogni film, esaltandone la spettacolarità attraverso le star più famose, le scenografie e i costumi sfarzosi e con lo schermo panoramico. I western del dopoguerra ebbero sempre più il carattere del film-evento, sfruttando appieno la fotografia a colori e proponendo trame sempre più complesse con tensioni psicologiche e sociali. Non sono ancora i tempi di Soldier Blue (Soldato Blu – 1970) ma certamente film come The Searchers (Sentieri Selvaggi – 1956), capolavoro assoluto di John Ford, hanno una complessità che era inusuale nei film di prima della guerra «…Di rado il western aveva mostrato un protagonista così articolato, nel quale devozione e orgoglio coesistono con razzismo e gelosia sessuale. Nella scena clou del film, quando Ethan sta per uccidere Debbie, i comuni ricordi dell’infanzia di lei ristabiliscono il legame reciproco purificando Ethan del suo istinto omicida…»18

La ricerca degli effetti spettacolari e la scelta di puntare sui kolossal portò alla ribalta un altro genere, lo spettacolo biblico. Samson and Delilah (Sansone e Dalila - 1949), Quo Vadis? (Id. – 1951), David and Bathsheba (Davide e Betsabea - 1951); The Rope (La Tunica – 1953), Ben-Hur (Id. – 1959), Spartacus (Id. – 1960) e The Ten Commandments (I Dieci comandamenti – 1956), quest’ultimo dai numeri incredibili: 25.000 comparse e 13 milioni di dollari di budget, per incassi 10 volte superiori. La regia di Cecil B. DeMille, tuttavia, al netto degli effetti speciali, riproponeva la messa in scena tipica degli anni Trenta. Altro genere di successo, già popolare in campo letterario, fu la fantascienza. La guerra fredda, il mito dell’american way of life, la paura del diverso, dell’alieno, il maccartismo, tutti argomenti che nei film di fantascienza trovarono la possibilità di essere rappresentati a più livelli di lettura. The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo - 1951); The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra - 1951); Forbidden Planet (Il pianeta proibito - 1956); «… I 17 K. Thompson, D. Bordwell, Film History: An Introduction…, cit., p. 182. 18 Ivi, p. 189.

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conflitti ingestibili appaiono entro i propri confini, il nemico è temuto all’interno delle proprie case e, forse dall’interno di se stessi, Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultra corpi – 1956), di quella parte ignota non corrispondente all’immaginario mitico. Il nemico allora va eliminato, ma soprattutto individuato, il problema diviene quello della consapevolezza, un problema di coscienza»19.

Ma di tutti i generi di Hollywood, quello che più beneficiò della complessiva riqualificazione fu senza dubbio il musical, che conobbe un periodo d’oro paragonabile a quello degli anni Trenta con Fred Astaire. Il musical non costituisce solo un importante spaccato del cinema statunitense ma è testimone dello sviluppo della cultura nazionale popolare del paese. Rick Altman, nella sua opera chiave American Film Musical, sottolineando la differenza che esiste negli USA tra le altri arti e il cinema e di come questo sia un riflesso della “popular culture”, scrive «The structure of the american film musical is closely tied to cinema’s role in American culture during the musical’s heyday»20. Concetto ripreso anche da Franco La Polla

Proprio in quanto genere popolare, il musical si è fatto carico di dipingere i più diversi affreschi della vicenda culturale del nuovo continente. In questo senso, anzi, non è azzardato affermare che esso ben più del western (“il cinema americano per eccellenza” secondo il titolo di un classico studio del francese André Rieupeyrout) ha le carte in regola per essere definito il più americano di tutti. L’epopea dell’Ovest ricopre infatti un arco temporale ampio ma specifico ed un costume altrettanto ampio ma identificabile. […] Per fantastico che possa essere l’Ovest hollywoodiano, il musical, per sua natura, lo sarà sempre di più, se non altro per la continua lacerazione della verosimiglianza del testo narrativo operata da romanze, duetti, dance routines, ensembles e via dicendo […]. Intrattenimento, certo, ma, nel tempo, cartina di tornasole di un’epoca e delle sue conquiste come delle sue idiosincrasie, dei suoi modelli sociali che si confondono con miti pubblici mediatici21.

Singin’ in the Rain (Cantando sotto la pioggia – 1952), considerato il miglior musical degli anni Cinquanta, sarà contraddistinto da una serie di novità stilistiche e dall’interpretazione di Gene Kelly che assume il carattere di una vera e propria performance, la più celebre è quella che, in dieci sole inquadrature, lo vede 19 A. Caputo, Dall’eredità del New Deal di Roosevelt al nuovo spazio…, cit.., p. 17. 20 R. Altman, American film musical, Indiana University Press, Bloomington 1987, p. 59. 21 F. La Polla, Introduzione, in F. La Polla e F. Monteleone (a cura di), Il cinema che ha fatto sognare il mondo, la commedia brillante e il musical, Bulzoni, Roma 2002, pp. 179-180.

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cantare e ballare, al massimo della felicità, sotto la pioggia. Il film ha i contorni di un backstage musical e, attraverso le vicende della casa di produzione Monumental,

[…] vengono così tematizzati, spesso in chiave ironica, i problemi produttivi legati alla ripresa del suono in diretta, con particolare attenzione alla voce che, nella doppia componente di canto e dialogo, diventa la cartina di tornasole per una più ampia riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione.[…] Hollywood non solo risulta il luogo elettivo per allestire uno show ma diventa anche un “mezzo” attraverso il quale creare un mondo ideale nelle fantasie dello spettatore e col quale costruire e consolidare un passato culturale mitico. Gli artifici della macchina produttiva hollywoodiana vengono posti, quindi, sotto una lente d’ingrandimento, evidenziando la profonda natura autoriflessiva del film22.

Per tradizione il musical rappresenta il rapporto tra spettacolo e vita, questo può avvenire sotto forma di alternanza, parallelismo o compenetrazione (oppure con un misto delle tre). Renata Scognamiglio definisce così le tre modalità «[…] l’alternanza implica una sostanziale estraneità tra le due sfere, tipica ad esempio del musical delle origini; il parallelismo si verifica quando lo spettacolo, pur essendo collocato in uno spazio “altro” dal quotidiano, riflette la vita rappresentandola; infine compenetrazione si ha quando la vita stessa è spettacolo […]»23.

La cosiddetta compenetrazione è la soluzione che trova il suo naturale sbocco nei musical classici, è quella modalità rappresentativa per cui Gene Kelly può danzare sotto il maltempo, oppure trasformare una lezione di dizione in uno scatenato tip tap. Detto più precisamente è l’artificio che permette di passare, senza interruzioni, dalla parola al canto, dal gesto quotidiano a quello coreutico. Non si tratta perciò di momenti magici, poiché in questi film si propone

[…] una continuità autentica tra la vita quotidiana e la musica, l’immagine di un mondo pieno di pretesti per cantare e di inviti alla danza […]. In termini brutali, c’è un tipo di musical che immette sfacciatamente la musica dove non c’è, compensandoci totalmente della squallida mancanza di musica nelle nostre attività quotidiane. L’altro tipo ci suggerisce che la musica è dappertutto, disseminata intorno a noi, se appena ci pigliamo la briga di guardare e ascoltare […]24.

22 K. Thompson, D. Bordwell, Film History: An Introduction…, cit., p. 185. 23 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo: quattro analisi, in «Civiltà musicale», n.1, 2004, p. 140. 24 M. Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1979, p. 136.

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Tanti potrebbero essere gli esempi di questa modalità rappresentativa che per tutti gli anni Cinquanta si propone come quella dominante per tutto il genere del musical. Diventa consueta l’uscita dal chiuso dei locali agli spazi aperti. Le strade, i passanti, la pioggia, i porti, i venditori ambulanti diventano il palcoscenico e le architetture sceniche delle riprese. Il musical è il genere metalinguistico per eccellenza poiché la trama, più o meno articolata, sottende in maniera implicita o esplicita a una riflessione sullo spettacolo in generale e al rapporto tra spettacolo e vita. Più precisamente «… il musical classico altro non è che lo spettacolo che riflette su se stesso; e lo fa indirettamente, usando come intermediario lo spettacolo musicale teatrale o più direttamente tornando alle proprie origini filmiche…»25. Il decennio dal Cinquanta al Sessanta fu, come visto, un periodo di grandi cambiamenti e il cinema non poteva rimanerne affrancato. In un mondo che ancora recepiva lo spettacolo cinematografico come puro intrattenimento, non c’era posto per quella che sarà la nuova frontiera del cinema a venire; la realizzazione del mondo in immagine. Le inquietudini della società non potevano non raggiungere quel mondo; ora l’ottimismo è sempre di meno, si parla di abbandono, di solitudine, di anti-eroi. La macchina dello spettacolo doveva adeguarsi a questa mutazione.

25 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo…, cit., p. 144.

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1.2 Romeo e Giulietta a New York; Sharks e Jets come Montecchi e Capuleti. New York, 6 gennaio, 1949. Jerome Robbins mi ha chiamato oggi con un’idea grandiosa; una versione moderna di Romeo e Giulietta ambientata nei quartieri poveri […]. Ma ancora più importante del soggetto prescelto è l’idea di fare un musical che racconti una storia tragica utilizzando esclusivamente le convenzioni e le tecniche del musical, senza mai ricorrere al registro operistico (operatic trap). Potrà funzionare? Non è stato ancora fatto nel nostro Paese. Sono eccitato. Se funzionerà sarà la prima volta26.

Questo è l’appunto che Leonard Bernstein, musicista già famoso, destinato a

diventare uno dei più importanti del Novecento, scrisse sul suo diario dopo una conversazione con Jerome Robbins, coreografo, regista, primo ideatore di uno dei più grandi successi di sempre a Broadway e nel cinema. Robbins raccontò in seguito che l’idea originale dello spettacolo gli venne dopo una conversazione con un suo amico attore (molto probabilmente il suo compagno del tempo Montgomery Clift). Alla fine degli anni Quaranta, i due frequentavano l’Actors Studio27 e, racconta Robbins, il suo amico stava preparando un’esercitazione che prevedeva l’interpretazione del ruolo di Romeo. Sempre dal racconto di Robbins, il suo amico (Clift), lamentava, a suo giudizio, la mancanza di vitalità del carattere di Romeo e chiese a Robbins come avrebbe fatto lui a dare nuova vita al personaggio. Robbins, che nel frattempo aveva intrapreso una promettente carriera come coreografo, suggerì allora all’amico di interpretare Romeo come un uomo moderno, che viveva in una New York investita da forti mutamenti sociali e alle prese con il costante aumento della criminalità e del fenomeno delle bande giovanili28. Nel 1949, diventato direttore associato del New York City Ballet, Robbins 26 L. Puliti, West Side Story. Come tutto ebbe inizio…; www.goodvibration.it, 2012. 27 Laboratorio statunitense di arte drammatica, fondato a New York nel 1947. È il più noto centro di perfezionamento per attori degli Stati Uniti, e forse del mondo. Le sue tecniche, il cosiddetto metodo, fanno riferimento a quelle dell'avanguardia teatrale russa dell'inizio del Novecento. Il metodo su cui si basa l'A. S. deriva da quello del regista russo Konstantin S. Stanislavskij (1863-1938), uno dei fondatori del Teatro d'Arte di Mosca, 1898. Egli aveva iniziato una pionieristica attività di ricerca sul mestiere di attore, con l'obiettivo di dare maggiore verosimiglianza e creatività alla recitazione, e di evitare che con la ripetizione essa assumesse un carattere puramente meccanico. Secondo questa teoria, occorre abbandonare lo 'stato attorico', cioè l'atteggiamento tradizionale nel quale l'interprete, costretto a simulare sulla scena stati d'animo che non sono i suoi, deve ricorrere a trucchi e artifici esteriori, e passare allo 'stato creativo', in cui egli prova effettivamente ciò che si presume debba sentire il personaggio, come se lo 'rivivesse'. 28 Nel corso degli anni ’50 apparve questa nuova forma di socialità, quella delle bande giovanili. Strettamente localizzata a livello di età, essa faceva adepti in tutte le classi sociali. Minacciava l’ordine pubblico e prendeva le società alla sprovvista, poiché, a differenza delle bande che le avevano precedute

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allestì il balletto The Guests, basato sull’amore proibito fra appartenenti a due diversi gruppi sociali in lotta. Dal colloquio con Bernstein passarono diversi anni; gli impegni di lavoro non permisero a Robbins di sviluppare il progetto, ma il coreografo ne riparlò con Bernstein nel 1955. Ancora dal diario di Bernstein, apprendiamo che il 7 giugno «Jerry [Robbins] non si è ancora arreso. Sei anni di posticipi e rinvii non sono niente per lui. E io sono ancora eccitato!»29

Inizialmente l’idea era di collocare l’intreccio di Romeo e Giulietta nell’East Side, sullo sfondo di un conflitto religioso tra gruppi di giovani, ebrei e cattolici. Robbins e Bernstein erano entrambi di origine russa ebrea, quindi non deve sembrare strano che il primo pensiero sia stato per questa ambientazione. La ricerca di un librettista che potesse andar bene per il progetto (che ancora si chiamava East Side Story) cadde su Arthur Laurents30, già affermato autore di Broadway. Anche se Bernstein non aveva ancora incontrato Laurents, dal suo diario apprendiamo che disse a Robbins «…conosco Home of the Brave31. Alla rappresentazione io piansi come un bambino. »32 Anche Laurents, nelle sue memorie, scrisse che la presenza di Bernstein nel progetto fu uno dei motivi più forti che lo spinsero ad accettare e partecipare «…Io volevo piacergli. Io volevo lavorare con lui. »33

L’ennesimo rallentamento fu dovuto alla messa in discussione dell’intera storia e della sua ambientazione; a un certo punto l’East Side e i conflitti religiosi sembravano inadatti e obsoleti. Dalla lettura di un articolo di giornale che parlava di una rissa fra gang rivali, si decise allora di trasportare la storia nel West Side della metropoli newyorkese e di modificarne profondamente la tematica; da un conflitto basato su radici religiose a una battaglia fra bande giovanili.

nella storia, questi giovani non si appropriavano dei beni altrui, ma li distruggevano, gratuità inconcepibile nei termini della criminologia classica. 29 L. Puliti, West Side Story. Come tutto,…, cit.. 30 Nel 1945 Laurents aveva scritto l’opera teatrale Home of the Brave, che aveva coraggiosamente sollevato il tema dell’antisemitismo esistente nell’U.S. Army, prima e durante la II G.M. 31 Dramma teatrale, scritto da Laurents nel 1946 che fu anche un film nel 1949. 32 M. Berson, Something’s Coming, Something Good, West Side Story and the American Imagination, Applause theatre & cinema books Milwaukee, 2011, p. 22. 33 Ivi, p. 23.

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Ancora ci viene in soccorso il diario di Bernstein; 25 agosto 1955

Ho avuto una lunga riunione con Arthur Laurents oggi […] ormai abbiamo abbandonato l’intera premessa basata sul conflitto fra ebrei e cattolici, che non ci pareva molto fresca, e abbiamo pensato a un’alternativa che credo sarà quella giusta; due gang di giovani teppistelli, una composta da portoricani, l’altra da sedicenti ‘americani’. All’improvviso tutto ha iniziato a prendere vita. Sento i ritmi, le pulsazioni e, soprattutto, sto iniziando a percepirne la forma34.

Mancava a questo punto un paroliere. Al gruppo composto da Bernstein (musiche), Robbins (coreografie) e Laurents (libretto), si aggiunse così Stephen Sondheim, compositore e paroliere che si sarebbe occupato dei versi delle canzoni e che colpì Bernstein fin dal primo incontro per il suo spiccato talento. Di nuovo dal diario di Bernstein; 14 novembre 1955 «Un giovane paroliere chiamato Stephen Sondheim è venuto oggi e ha cantato per noi alcune delle sue canzoni. Che talento! Penso che sia l’ideale per questo progetto. La collaborazione cresce»35.

A questo punto, dopo non poche fatiche per convincere i produttori, il musical debuttò a Broadway, Winter Garden Theatre, il 26 settembre 1957. Il successo fu immediato. Le repliche saranno 732 e le tournée all’estero moltissime, a cominciare da quella nel Regno Unito che fino al 1961 collezionò oltre mille repliche.

Sebbene oggi sembri un fatto automatico, l’adattamento dall’opera di Broadway a un film, alla fine degli anni ’50, fu un banco di prova pieno di insidie per Walter Mirisch, Robert Wise, Jerry Robbins, Saul Chaplin. Nonostante a Broadway West Side Story avesse raggiunto una notevole popolarità le melodie del duo Bernstein – Sondheim non erano così familiari al pubblico del cinema. Inoltre, alla fine degli anni Cinquanta, il musical classico hollywoodiano non stava vivendo un periodo positivo. Il celebre Arthur Freed della MGM, che aveva prodotto Singin’ in the Rain, Funny Face (Cenerentola a Parigi – 1957), produsse il suo ultimo musical nel 1958, Gigi (Id. – 1958) e poi sciolse la celebre Arthur Freed Unit, specializzata in questo genere di produzioni. Inoltre si erano affermati i c.d. teen movie musical, sull’onda dei film con Elvis Presley, che ebbero un incredibile rapporto costi di produzione/incassi al botteghino; Love me Tender (Fratelli Rivali – 1956); Jailhouse Rock (Il delinquente del 34 L. Puliti, West Side Story. Come tutto,…, cit. 35 Ibidem.

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rock’n roll – 1957); Flaming Star (Stella di fuoco – 1960) solo per ricordarne qualcuno. In questo periodo l’unico tentativo di musical cinematografico classico fu l’adattamento del lavoro di Gerwshin Porgy and Bess (Id. – 1959), che ebbe una modesta accoglienza e si rivelò un insuccesso al botteghino.

Oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, West Side Story è riletto come uno dei primi tentativi di proporre il tema, innovativo per l’epoca, della multirazzialità e della povertà urbana (erano ancora gli anni del togetherness), ma nel 1959 non mancarono invece le accuse di razzismo. Il tema dei diritti civili per le comunità afroamericane, i movimenti per la parità degli Ispanici, non erano ancora gli argomenti centrali della discussione pubblica degli USA. La questione della violenza giovanile, poi, fu utilizzata da Hollywood più per gli aspetti sensazionalistici che per farne una riflessione seria e fedele alla realtà. E’ evidente, da questi presupposti, come una produzione fedele artisticamente all’originale teatrale e molto costosa, come era West Side Story, costituiva un vero e proprio azzardo per l’epoca. Robbins scrisse «was a believable and touching work because of the special poetic conventions wich were inherently theatrical. The problem is now to find a new set of conventions, inherently cinematic, which will also convey the essence is not in any of its separate elements… but in their organic unity»36.

Una delle più grandi difficoltà era quindi capire come rendere una coinvolgente ed emozionante (e di successo) produzione teatrale in un altrettanto coinvolgente ed emozionante produzione cinematografica. Le dinamiche della fabbrica dei sogni di Hollywood erano molto diverse da quelle di Broadway, anche per un artista della forza di Robbins. La produzione volle affiancargli alla regia un professionista già affermato come Robert Wise (Somebody Up There Likes Me, Lassù qualcuno mi ama – 1956), ma Robbins ebbe molta libertà d’azione, prima fra tutte la possibilità di scritturare quasi tutti i ballerini dell’opera teatrale che lui aveva diretto a New York o nell’edizione londinese. Gli altri attori inserititi nel cast andarono a completare i ruoli degli Jets e degli Sharks e durante le riprese capitò che qualche ruolo fu cambiato.

Nel documentario West Side Story Memories (Ricordi di West Side Story – 2003), incluso in un’edizione speciale del DVD, sono ricostruiti, attraverso le testimonianze di molti dei partecipanti all’impresa, i momenti chiave della realizzazione 36 M. Berson, Something’s Coming, Something …. , cit., p. 26.

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del film e uno degli aspetti più evidenziati è senza dubbio la maniacale direzione di Robbins delle scene dei balli. Ogni scena era provata e riprovata; la ricerca dell’inquadratura migliore, i movimenti di ballo in un set “reale”, fuori dal teatro e dai set cinematografici, richiedevano tecniche fuori dai canoni consueti. Uno degli aspetti chiave di West Side è comprendere se davvero rompesse gli schemi del film musical classico, in un periodo che metteva in discussione l’intero apparato degli studio-system.

Le testimonianze di alcuni degli autori dell’opera, raccolte nel documentario West Side Story memories, danno utili indicazioni in merito a questo tema.

Arthur Laurents: «non credo in molti principi, però credo che il contenuto determina la forma, ed è stato proprio il contenuto a plasmare la forma di questo musical. Non si poteva parlare di omicidi, scontri, tentati stupri, pregiudizi, odio razziale seguendo lo stile dei musical tradizionali».

Hal Prince, coproduttore teatrale: «Nel caso di West Side Story, vedere per la prima volta un cast così giovane, fu sbalorditivo. Chiaramente fu merito dell’enorme lavoro di Jerry [Robbins]».

Greg Lawrence, autore di Dance with Demons, a Life of Jerry Robbins: «Questo musical non aveva niente a che fare con le canzoni e le coreografie dei film di Kelly e Astaire. Si trattava di un gruppo di giovani artisti che si esibiva con uno stile da un lato molto attuale, considerando i balli di gruppo in voga a quei tempi e dall’altro molto sensibile a influenze più classiche, come la danza classica o quella jazz».

Infine, a significare come, spesso, cambiamenti significativi non avvengano del tutto volutamente ma come risultato di un progetto che, in corso d’opera, muta la sua forma in funzione delle esigenze e delle riflessioni, è indicativo quanto dichiarato da Sondheim: «Molti pensano che parli di pregiudizi, forse è vero a livello di testa ma l’aspetto fondamentale è un altro; è il teatro, il modo di usare la musica, le canzoni e il libretto e di fonderli ottenendo qualcosa di nuovo. Non cercavamo un’innovazione. E’ solo andata così».

West Side Story, insomma, per caso o meno, rompe gli schemi consueti del musical, tanto che per uno studioso come Franco la Polla, ne segna la fine

Sulla natura onirica del cinema ci si è intrattenuti fin troppo, ma mai abbastanza da eliminare un ambiguo concetto di supposto “realismo” (Jakobson docet). Ora, dai film di Busby Berkeley a Brigadoon (id. – 1954) di Minelli lo spazio e la retorica della verosimiglianza conflagrano

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vistosamente, denudando l’onirismo dell’immagine cinematografica non in opposizione a ciò che da essa apparentemente si differenzia, ma potenziandone le qualificazioni. In certo senso, il Musical inscena la versione onirica di una qualunque, affidando non solo alla parola ma anche (in tutto o in parte) alla musica e alla danza la traduzione emozionale delle azioni che, diversamente sarebbero entrate nel regno della verosimiglianza. Dunque, si passa così dalla produzione di immagini cui è sotteso un Immaginario alla produzione di un Immaginario senza mediazioni. Un sogno al quadrato. Il musical denuncia senza remore i valori immaginari che urgono e sostanziano l’immagine cinematografica […] Ora, West Side Story, al di là delle belle coreografie di Jerome Robbins e dell’apprezzabile musica di Leonard Bernstein, ha commesso l’errore di evitare, come di norma, l’effetto di verosimiglianza, ma nel contempo di strutturarsi come metonimia del reale. Tutto è “reale” nel film, tranne l’incontro dei due giovani al ballo; non a caso la sequenza più classicamente musical dell’intera pellicola che per concezione rimanda, certo con meno successo, a quella dell’incontro fra Kelly e la Charisse in Singin’in the Rain, attraverso un processo operativo che è di pura e semplice stilizzazione […] in altre parole non c’è codice ma solo esaltazione dell’immagine in termini di canto e/o danza37.

La Polla rientra tra quegli studiosi che ritengono “estinto” il genere, mentre altri sono propensi a parlare di “nuove prospettive”38. Credo che questo secondo punto di vista sia quello più condivisibile, se intendiamo il musical non come sospensione della realtà ma pienamente calato in essa. Che poi West Side Story non sia motivato da ragioni socio politico culturali come quelle dei registi francesi della nouvelle vague, rientra nelle logiche dell’ambiente cinematografico USA, dove anche durante gli anni della New Hollywood, quasi tutto avviene in un quadro industriale e commerciale. La testimonianza di Sondheim sembra proprio avvalorare questo concetto. Rick Altman colloca, come detto, il film tra i folk musical e, del resto, per la centralità narrativa dei numeri musicali, per lo stile dei balletti che si rifanno ai canoni nati e sviluppati proprio con la nascita e la crescita del folk musical, il film resta saldamente dentro quel sottogenere. Probabilmente Altman ritiene che nel film il rispetto delle convenzioni sia preponderante su quello dei nuovi canoni tanto che, nell’indicare proprio il decennio Sessanta-Settanta come lo spartiacque dove si modifica il folk musical non cita West Side Story 37 F. La Polla, I sentimenti tra virgolette, in «Cinema&Cinema», C’era una volta il Musical, VII, 1980, n. 22/23, pp. 10 ss. 38«in ambito di studi cinematografici, ovvero nella saggistica e non nel giornalismo, si assiste a una spaccatura tra coloro che affermano l’estinzione del musical (La Polla, Comuzio per i quali il musical classico è il musical tout court) e coloro i quali aprono nuove prospettive al «musical fuori del musical» (Gosetti, Zagarrio). R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo…, cit., p. 142.

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[…] these quasi-utopian musical of the thirties are matched by another group, this time from the sixties and seventies, that so stress the realistic aspect of American life that they threatent abandon the musical’s stylized nature all together. When Elvis Presley and Mary Tyler Moore play a blasè doctor in a New York slum and a catholic nun committed both to social work and her wows of chastity, then the conventions of the musical are clearly being stretched to the breaking point (Change of Habit). In Nashville they are snapped cleanly in two: too much realism threatens a film with twenty-seven separate numbers wich takes place in the capital of American folk music […]39.

Nel 1961 il film ebbe un successo oltre le più rosee aspettative, con incassi da vero blockbuster. Anche prima della sua uscita in sala, le aspettative erano così alte che il «Los Angeles Times» aveva scritto «…se una produzione può far rivivere i fasti delle vecchie glorie di Hollywood, quella è West Side Story…».

Lo stesso avvenne dopo l’uscita a New York il 18 ottobre 1961 e a Los Angeles il 13 dicembre dello stesso anno Bosley Crowther, giornalista e critico cinematografico statunitense, aveva definito il film «… a dir poco un capolavoro cinematografico…». Il successo fu incredibile e culminò con le dieci statuette vinte agli Oscar del 196240 eppure, nonostante questo, il film non ha ricevuto dagli studiosi l’attenzione che sembrava meritasse. West Side Story versione cinematografica non riveste un ruolo importante per gli studiosi del musical. Lo stesso Rick Altman, nel suo American Film Musical, analizzando nei minimi dettagli la struttura del genere musical cinematografico, relega brevemente West Side Story nei «folk musical», un sottogenere di cui l’esempio principale rimane Oklahoma! (Id. – 1955). Gli elementi del folk musical «are borrowed from the American past and colored by a euphoric memory»41. Altman classifica West Side Story come folk musical perché tratta uno specifico aspetto esclusivo della cultura americana. West Side Story ha certamente una struttura di base 39«ai musical quasi utopistici degli anni Trenta corrisponde un altro gruppo di film, stavolta degli anni

Sessanta e Settanta, che sottolineano a tal punto aspetti realistici della vita americana da rischiare di abbandonare la musica stilizzata del musical. Quando Elvis Presley e Mary Tyler Moore interpretano un medico disincantato dei bassifondi di New Yorke una suora cattolica dedita al lavoro sociale e ai suoi voti di castità, allora le convenzioni del musical sono messe alla prova fin quasi al punto di rottura (Change of Habit – 1969). In Nashville (Id. 1976), esse vengono spezzate di netto: troppo realismo minaccia l’identità di un film con ventisette numeri musicali che si svolge nella capitale della musica folk americana». Rick Altman, American Film…, cit., p. 273 (trad. mia).

40 Miglior film; miglior regia: Robert Wise e Jerome Robbins: miglior attore non protagonista: George Chakiris (Bernardo); miglior attrice non protagonista: Rita Moreno (Anita); miglior fotografia; miglior montaggio; miglior scenografia; migliori costumi; miglior colonna sonora per un film musicale. 41 Rick Altman, American Film…, cit., p. 277.

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ancora prevalentemente classica, però è indubbio che, se non sono ancora i tempi dei lavori di Bob Fosse o di un’opera come Nashville, in altre parole l’altra faccia del folk con l’esibizione, attraverso la musica, della «parte più pacchiana della società americana»42, il musical del 1961 segnò

[…] uno stacco netto tra la tradizione del grande musical, sospeso tra realtà e sogno, degli anni ’40-’50 e le successive innovazioni del genere, culminate nelle ultime realizzazioni di Bob Fosse. Con West Side Story, la tipica commedia musicale finiva; a celebrarne le esequie erano una storia classica calata un po’ artificiosamente nelle tensioni razziali di una moderna metropoli […]43.

L’inquadratura iniziale (molto lunga, quattro minuti e mezzo) mostra un disegno di linee verticali diseguali e spezzate su uno sfondo colorato che variamente si trasforma in ruggine, giallo, rosso, violetto, azzurro, verde, arancio. Intanto la musica intreccia temi musicalmente assai diversi. E’ un’ouverture che anticipa i brani dell’intero film, intreccia melodie e ritmi assai diversi. Appena si materializza la scritta West Side Story, il gioco di linee si svela come la stilizzazione grafica di Manhattan, il cuore di New York, ripresa dal mare e dall’alto, l’estremo meridionale in primo piano. Subito dopo, con una carrellata a picco dall’alto sono inquadrati vari luoghi significativi, famosi anche grazie alla presenza in tanti altri film celebri (Central Park, la tomba di Grant, lo Yankee Stadium) insieme a luoghi meno riconoscibili e a strade e ponti che si intersecano e si sovrappongono percorse da moltitudini di veicoli in lungo e largo senza soste.

La macchina da presa scende e non si sofferma nella scintillante Broadway, presente nelle scene di molti backstage musical e neppure nella magica città di On the Town (Un giorno a New York – 1949). Siamo invece nella zona povera e degradata dell’Upper West End; vedremo una città dura e violenta, anche se la scenografia, ricostruita in due strade limitrofe e in studio, depurerà degli scorci più degradati. Solo qualche graffito sui muri, qualche scatola sui marciapiedi, un realismo non troppo accentuato. In un campo da gioco ci sono i giovani della banda degli Jets, palesemente temuti dagli altri ragazzi, che camminano, già a passo di danza con il loro capo Riff. Ritmano il loro movimento schioccando le dita a preludio dell’inizio del balletto che, attraverso i movimenti del corpo, esprime già il senso di dominio nel quartiere. Appena 42 T. Chiaretti e L. Lucignani (a cura di), Cinema e Film, la meravigliosa storia dell’arte cinematografica, Armando Curcio, Roma, 1994, p. 2298. 43 Ibidem.

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dopo, mostrando immediatamente la contrapposizione, ci è mostrata la banda rivale, sono i portoricani degli Sharks. Una sequenza di provocazioni, scontri fisici per il controllo del territorio; la scena è una di quelle che nel film più ricorda da vicino l’originale shakespeariano. Lì la rissa è conclusa dall’arrivo del principe, qui meno nobilmente è la polizia che seda la lotta. Come afferma Susan Smith, «un esempio notevole di drammatizzazione, da parte di un musical MGM, dei processi attraverso i quali la bianchezza degli spazi viene sia affermata che contestata tramite i movimenti ispanici mentre si muovono nelle strade di Manhattan…»44.

La trama, con l’amore contrastato tra Tony, amico fraterno di Riff, il capo degli Jets e Maria, sorella del capobanda dei portoricani Sharks, Bernardo, si snoda intorno a questa rivalità. I bianchi, gli Jets, immigrati di seconda o terza generazione, italiani, polacchi, irlandesi, autoproclamatisi WASP45 contro gli Sharks, portoricani, immigrati dell’ultima ora, da poco arrivati dalla loro isola, che non riconoscono la supremazia dei WASP e si ribellano al razzismo di cui sono fatti oggetto. Anche se rispetta le linee principali del dramma shakespeariano, la storia non ne conserva il linguaggio originale. I legami esistono poiché equivalenze tematiche attraverso la libera ripresa dei passaggi narrativi più importanti (e più noti). Così l’incontro tra i due protagonisti avverrà al ballo; Bernardo ucciderà Riff, così come Mercuzio viene ucciso da Tebaldo; Tony pugnalerà Bernardo con la stessa furia vendicatrice con cui Romeo si scaglierà a sua volta contro Tebaldo. Il proprietario del bar frequentato dalle due bande, Doc, può essere considerato il moderno Frate Lorenzo che cerca di aiutare i due giovani innamorati. La scena del balcone, la più famosa del dramma del Bardo, è rappresentata con l’appuntamento segreto di Tony e Maria sulla scala antincendio del palazzo, dove lei vive. Anita, la combattiva fidanzata di Bernardo, di cui a volte contesta l’autorità, ricorda, quando è complice di Maria per nascondere l’amore clandestino di quest’ultima, la Nutrice dell’originale, che aiuta gli innamorati nei loro incontri segreti.

Per non perdere il legame con la fonte shakespeariana e per avere la maggiore intonazione realistica rispetto al genere, West Side Story si discosta dal classico folk musical. Lo scostamento principale è nel finale tragico; il male che 44S. Smith, The Musical: Race, Gender and Performance, Wallflover, London 2005 pp. 50-51, citato in P. Bono, Il bardo in musical, collana Disseminazioni, Editoria e spettacolo, Napoli 2009, p. 131 45Acronimo di White, Anglo-saxon, protestanti, che in confronto alle successive ondate migratorie si considerano veri americani. In realtà anche loro sono relegati agli ultimi posti della società dagli anglosassoni sono quelli che vengono definiti Wops (italiani), Micks (irlandesi, Polacks (polacchi).

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minaccia la felicità non è sconfitto, anche se la sopravvivenza di Maria ne riduce i termini del trionfo: «The joyous nature of the folk world is compromised by characters as diverse […] gang warfare (West Side Story, Grease) […]»46.

La famiglia e i legami tra generazioni sono importanti nel folk musical e anche Shakespeare, attraverso i genitori di Giulietta, Frate Lorenzo e il principe, aveva riconosciuto l’autorità adulta, dei parenti e della società. Nel film gli adulti sono invece figure secondarie, i genitori di Maria sono prima una voce fuori campo e poi dei fantocci, come i genitori di Tony nella simbolica e solitaria scena del matrimonio dei due giovani. Oppure sono figure deboli, non costituiscono riferimenti positivi, addirittura sono dei nemici. Doc, il proprietario del bar è diviso tra la riprovazione del comportamento dei ragazzi e la volontà di comprendere e aiutare, non riesce a farsi ascoltare. Come dice uno degli Jets, non sono stati i giovani a costruire questo mondo e gli adulti, cioè i parenti, i giudici, gli assistenti sociali sono impietosamente presi in giro mentre la polizia ha un atteggiamento che incoraggia, anziché trattenere, la rivalità tra le due bande47.

La comunità non è intesa nella sua totalità intergenerazionale come nel Romeo e Giulietta originale, qui è quella dei ragazzi, dei loro legami amorosi/sessuali, delle amicizie tra ragazze e non c’è posto per gli adulti. Romeo non riceve la notizia della finta morte di Giulietta per un caso; nel film è Anita a causare la corsa suicida per le strade di Tony, che crede Maria morta. La tragedia non è dovuta al caso, ma a comportamenti che sono dovuti al rifiuto dell’altro, dove gli adulti non ricoprono alcun ruolo. Anita, nonostante il dolore per la morte di Bernardo e dopo un drammatico duetto con Maria dove la sua furia si contrappone alla supremazia dell’amore sostenuta dall’altra, accetta di portare un messaggio di quest’ultima a Tony. Le provocazioni degli Jets, che si spingono fino a minacciare lo stupro, costringono Anita a mentire.

Afferma Laurents: «La cosa di cui sono più orgoglioso nel modo di raccontare la storia è il perché le non riesce a far avere il messaggio a Tony: a causa del pregiudizio. Penso sia meglio dell’originale»48.

46 R. Altman, American Film …, cit., p. 289. 47 Il tenente Schrank, nella prima apparizione, inveisce contro la presenza dei portoricani e,

successivamente, nel bar di Doc si rivolgerà con disprezzo sia verso gli uni che gli altri. 48 P. Bono, Il Bardo in …, cit. p. 142.

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«…In the familiar context created by the folk musical, even the world’s largest city can be tamed and made to appear no more than a slightly bigger version of one’s hometown»49. Così Rick Altman indica la rappresentazione della comunità nel folk musical. West Side Story, invece, si svolge prevalentemente nelle strade e in luoghi pubblici: il campo da gioco, le scale e la terrazza del palazzo, dove abita Maria. La palestra del ballo, il locale di Doc. Per Jets e Sharks non c’è un’appartenenza a prescindere, l’Upper West End di New York è uno spazio che i primi devono costantemente difendere mentre i secondi devono cercare di appropriarsene per rivalersi contro un paese che, dietro il mito dell’American Dream, della Togetherness, si è rivelato un finto eden consumista e razzista che li rifiuta, come i ragazzi cantano nel duetto con le ragazze che invece criticano l’idealizzazione dell’isola natale di Portorico e sono contente di vivere a New York.

«Love is only possible, the folk musical seems to affirm, when we are in familiar territory, with familiar people and speaking a familiar language»50; se l’amore nel folk musical è possibile solamente nel contesto familiare, come scrive Altman, nell’Upper West Side la distanza tra i due gruppi è insanabile e dove non c’è un quadro familiare definito, vince l’odio e non c’è posto per l’amore; «L’odio, non l’amore, è la moneta di scambio in uso in West Side Story»51. Secondo Wilfred Mellers, questo elemento è espresso al meglio, anche musicalmente, nei passaggi «frammentati e concitati» degli Jets e in quelli «vitali in modo animale, con impulso armonico, concitati e asciutti» come quelli degli Sharks52. L’odio tra le due bande, la loro violenza che arriva al quasi stupro nei confronti di Anita, tentativo di possesso dell’uomo sulla donna con la forza, massimo sfregio al corpo femminile, gli atteggiamenti sessisti di Bernardo verso Maria, costituisce la spiegazione dell’impossibilità dell’amore tra Tony e Maria. Non a caso sono i passaggi dove si indugia al sentimentalismo, Maria, oppure la scena del matrimonio, One Hand, One Heart, momenti del film dove la storia di Maria e Tony è dominante, che virano verso lo sdolcinato, l’artefatto, il ridicolo, con un’enfasi

49 R. Altman, American Film …, cit., pp. 276-277. 50 Ibidem 51 R. Knapp, The American Musical and the Formation of National Identity, Princeton University Press, Princeton 2004, p. 204, citato in P. Bono, Il Bardo …, cit., p. 144. 52 W. Mellers, West Side Story Revisited, in Approaches to the American Musical, Lawson – Peebles press, Chicago 2004, p. 204, citato in P. Bono, Il Bardo…, cit., p. 145.

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esagerata che invece di esaltare l’amore ne mostra l’impossibilità; Tony: «Ti porterò via, lontano da qui. Finché i muri e le strade non scompariranno». Tony e Maria: «Da qualche parte ci deve essere un posto in cui possiamo sentirci liberi. Da qualche parte ci dovrà pur essere un posto per me e per te».

[…] «C’è un posto per noi, da qualche parte un posto per noi. Pace, serenità e aria fresca ci aspettano da qualche parte. C’è un tempo per noi. Un giorno ci sarà un tempo per noi. Tempo da passare insieme, un tempo libero. Da qualche parte noi troveremo un nuovo modo di vivere, un modo per perdonare, da qualche parte».

Un percorso di lettura poco battuto è infine quello della lettura in prospettiva camp. Il camp è una pratica interna alla cultura omosessuale che ruota intorno all’opposizione tra il romanticismo e la disillusione, tra la serietà e la mancanza di quest’ultima, tra l’autenticità e la non autenticità, tra l’intensità non ironica del desiderio gay di una bellezza mascolina e l’ironico sgonfiamento di questa intensità dove, se si esamina la forma separata dal contenuto e si gode dello stile rifiutando il contenuto come banale, la storia d’amore eterosessuale, con i due protagonisti che sembrano trovarsi in un mondo diverso quando i loro sguardi si incontrano, rappresenta una realtà palesemente idealizzata e desiderabile.53 Emerge, quindi, una nuova e diversa lettura

[…] da un lato facendo propria la gioia di Maria, la sua esaltata sensazione di essere “pretty, and witty, and gay”, d’improvviso e quasi magicamente incantevole e brillante e felice perché ha conquistato un ragazzo davvero stupendo (vedi Miller 1998 pp.44-46 che gioca con la doppia valenza aggettivale e avverbiale di “pretty” in “a pretty wonderful boy”); dall’altra identificando nell’impossibilità del lieto fine un segno della condizione gay in un mondo, siamo negli anni Cinquanta, che non li accetta; i versi di Somewhere sembravano parlare direttamente dell’esperienza gay prima dell’epoca della liberazione. Nel 1996, fu una delle canzoni scelte per il primo matrimonio di massa omosessuale di duecento coppie a San Francisco, celebrato dal sindaco della città Willie Brown (Kaiser 2007, p.93)54.

Partendo dalle teorie citate nel libro di Kaiser e dai suoi riferimenti alla

«metropoli gay» negli anni 1940-1966, emergerebbe quindi, come tema nascosto di

53 D.M. Halperin: Essere Gay, Identità, stereotipi, cultura, Ferrari e Sinibaldi, Milano 2013. 54 C. Kaiser, The Gay metropolis, 2007, citato in P. Bono, Il Bardo…, cit., p. 146.

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West Side Story, l’amore proibito, e, in effetti, va rilevata la centralità dei rapporti omosociali se non omosessuali tra i maschi del film.

Per essere un adattamento teatrale di un’opera cinematografica, West Side Story è fondamentalmente (e insolitamente) fedele, per forma e contenuto all’originale, sia per il testo sia per i balletti. Non ci sono tagli rilevanti, se si eccettua l’importante adattamento a duetto di Somewhere, ma parecchie cose sono ri-arrangiate, integrate o diversamente elaborate per lo schermo. Di seguito le più indicative: 1. L’inizio del film è un pastiche che nello spettacolo teatrale è inesistente. 2. Il prologo sullo schermo dura più del doppio che a teatro, con coreografie, musica e

azioni aggiunte. 3. Cool è ora cantata da Ice, un nuovo personaggio che è subentrato a Riff come capo

degli Jets. Il brano ora è dopo la rissa invece che prima, così che il comando “coolly cool boy” aggiunge altra intensità sulla scia degli omicidi di Riff e Bernardo, con la paura e la frustrazione che ghermisce i ragazzi e le ragazze degli Jets.

4. Il brano satirico Gee, officer Krupke, a sua volta scambiato di sequenza con Cool, è ora cantato da Riff (invece di Action), prima della rissa e non dopo. Questo nuovo ordine piacque a Sondheim, il quale sosteneva che «dei ragazzi che corrono dopo aver assistito a due omicidi, non indugerebbero dietro una recinzione cantando una canzone comica».

5. America è spostata tra Maria e Tonight (che nell’originale teatrale sono consecutive). Gli uomini sono aggiunti al balletto, dando così una componente sessuale maggiore, mentre i testi più incisivi conferiscono una più forte carica satirica.

6. I Feel Pretty è spostata prima della rissa invece che dopo, con Maria al colmo della gioia per aver incontrato Tony. Ma in questa posizione non ha lo stesso impatto emotivo che aveva a teatro, quando il pubblico sa che il ragazzo che lei adora ha appena accoltellato suo fratello nella rissa.

7. Somewhere che a teatro è un balletto con voce solista e resa corale, non è presente nel film. Qui è eseguito come un duetto tra Tony e Maria.

8. Velma e Graziella si scambiano i loro compagni. Velma è la ragazza di Riff nell’originale teatrale, mentre lo è di Ice nel film. I nomi di Anxious, Nibbles e Moose a teatro sono “latinizzati” come Loco, Rocco e Del Campo nel film.

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9. Ernest Lehman scrisse nuove parti di testo, inserite in molti punti della sceneggiatura per rendere più esplicito ciò che Laurents semplicemente suggeriva nel suo libretto teatrale. (Per esempio, Ice descrive le prodezze di Tony in una precedente rissa con un’altra gang).

10. Alcuni dialoghi del testo teatrale furono ritenuti potenzialmente offensivi e quindi edulcorati se non tolti nel film. In The Jet Song le parole «The whole, ever mother lovin street» diventano «The whole buggin’ ever-loving street». Tony e Riff consacrano la loro amicizia dicendo “birth to Earth”, insignificante sostituto di “sperm to worm”, (molto più colorita). In un verso di Gee, Officer Krupke la frase “My father is a bastard/My ma’s an S.O.B../My grandpa’s always plastered/My grandma pushes tea” diventa “My daddys beats my mommy/My mommy clobbers me/ My grandpa is a Commie/My grandma pushes tea”.

11. Il testo di America fu sostanzialmente modificato e nel film la scena è girata con uomini e donne, mentre a teatro è eseguita da Anita e le sue amiche. Alcune frasi dell’originale furono ritenute offensive per i Portoricani, “Puerto Rico, you ugly island, island of tropical diseases” così divenne “Puerto Rico, my heart devotion, let it sink back in the ocean” mentre “ crying and the bullets flying” fu riscritta come “And the sunlight streaming and the natives teeming”. Anita celebra le meraviglie e non le delusioni della vita negli Stati Uniti in un battibecco musicale con Bernardo, che invece replica con amarezza parlando delle poche opportunità a del razzismo che esiste verso i Portoricani (Sondheim spiegò in seguito che il testo della canzone nel film è quello che originalmente scrisse per il teatro ma che poi fu modificato). Le parole di Anita ora sono «lots of new housing and more space where you can have a terrace apartment and life can be bright while you are free to be anything you choose». Invece Bernardo vede «lots of doors slamming in our face, and freedom only to wash dishes and shine shoes . Survival depends on if you can fight, get ride of your accent, and stay on your own side. The coup de grace. The american dream is only available if you’re all while in America».

Le recensioni dell’epoca, subito dopo l’uscita del film, ci permettono di comprendere la critica cinematografica dell’epoca e anche di approfondire meriti e demeriti del film. Ci furono critiche positive entusiastiche mentre le negative stroncarono il film in un modo molto brutale. Complessivamente le critiche positive

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furono notevolmente superiori a quelle negative. Oltre a vincere dieci Oscar, tre Golden Globe awards (compreso quello come miglior film), il premio Directors Guild of America (miglior regia, assegnato dall’associazione registi d’America), West Side story ricevette il New York Film Critics Circle Award come miglior film del 1961.

55 W. Williams, «Variety», 1961. 56 B. Crowther, «The New York Times», 1961. 57 S. Kauffmann, «The New Republic», 1961.

West Side story is a beautiful-mounted, impressive, emotion-ridden and violent musical which, in its stark approach to a raging social problem and realism of unfoldment, may set a pattern for future musical presentation. Screen takes on a new dimension in this powerful and sometimes fascinating translation of the Broadway musical to the greater scope of motion pictures. The Robert Wise production, said to cost $6,000,000 should pile up handsome returns, first on a roadshow basis and later in general runs55 .

In every respect, the recreation of the Arthur Laurents-Leonard Bernstein musical in the dynamic forms of motion pictures is superbly and appropriately achieved. The drama of new York juvenile gang war, wich cried to be released in the freer and less restricted medium of the mobile photograph, is now given range and natural aspect on the large Panavision color screen, and the music and dances that expand it are magnified as true sense-experience[…] This pulsing persistence of rhythm all the way through the film-in the obviously organized dances, such as the arrogant show-offs of the Jets, that swirl through playgrounds, alleys, school gymnasiums, and parking lots, and in the less conspicuos stagings, such as that of the rumble (battle) of the two kids-gives an overbeat of eloquence to the graphic realism of this film and sweeps it along, with Mr.Bernstein’s potent music, to the level of an operatic form56. Because of the quality of the original materials and of the translation, the result is the best film musical ever made. The price of its virtue is our disappointment that isn’t even better. For something more than half the film (as with the play), everything meshes so beautifully […] that we are led to expect cumulation and a towering conclusin. This does not happen […] But it is Robbins’ vision-of city life expressed in stylized movement that sometimes flowers into dance and song-that lifts this picture high. If a time capsule is about to be buried anywhere this film ought to be included, so that possible future generations can know how an artist of ours made our congenials theatrical form respond to some of the beauty in our time and to the humanity in some of its ugliness57.

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Infine, la critica cinematografica più dura fu probabilmente quella di Dwight Macdonald, critico cinematografico di «Esquire», rivista patinata stile «Vogue» o «Vanity Fair» che negli anni Sessanta stava trasformandosi da rivista maschile “ammiccante” in periodico con velleità culturali (in effetti, il direttore di quegli anni, Harold Hayes rese «Esquire» uno dei punti di riferimento del “New Journalism”, che cambiò il modo di fare giornalismo dell’epoca). «Esquire», lussuosa e coloratissima, si rivolgeva a un pubblico di uomini ricchi e ricercati, usciti dai libri di Fitzgerald che però non vogliono apparire come stupidi borghesi ottusi. Nella rivista si trovavano, negli anni Sessanta, articoli di moda maschile, di automobili, consigli per le vacanze e lo sport, fotografie di Elsa Martinelli e altre star femminili del tempo insieme ai racconti di Arthur Miller. La rubrica della critica cinematografica era tenuta appunto da Dwight Macdonald, uno dei più brillanti pensatori statunitensi del Novecento. La sua stroncatura del film, in antitesi all’esaltazione che ne fece Stanley Kaufmann, vale la pena di essere letta (anche se non necessariamente condivisa)59

Anche se molti fra i miei colleghi – incluso Stanley Kauffmann, che in genere ci vede chiaro – trovano questo film “straordinario” e “colossale”, io mi permetto di dissentire e per le seguenti ragioni: 1. appartiene alla tradizione romantico mielosa dei musical tipo Oklahoma! e South Pacific, non a quella più sana di Pal Joey e Kiss me Kate, che si fa gioco del sentimentalismo in modo gaio e irrispettoso;

58 P. Kael, «I Lost It at the Movies», 1965 59 G. Fink, Il grande paese dei critici felici, su «Cinema nuovo» n. 166, novembre-dicembre 1963, pp.

414-427.

How can so many critics have fallen for this frenzied hokum […] and with a score so derivative […] If there is anything great in the American musical tradition-and I think there is-it’s in the light satire, the high spirits, the giddy romance, the low comedy, and the unpetentiously stylized dance of men like Fred Astaire and the younger Gene Kelly […] [The West Side Story dancing] is trying so hard to be great it isn’t even good. Those impressive, widely admired opening shots of New York from the air overload the story with values and importance-technological and sociological. The Romeo and Juliet story could of course be set anywhere, but West Side Story wrings the last drop of spurios importance out of the setting, wich dominates the enfeebled love story […]58.

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2. la musica di Bernstein è un pastiche: vi si odono echi di Rodgers, Kern, Porter, persino Romberg e Stravinski, perché Bernstein è molto al corrente, e sa orchestrare a perfezione, ma c’è ben poco da orchestrare; 3. le parole di Sondheim non mi vanno giù: Tonight sembra un altro White Christmas, e ci sono troppi couplets tipo Say it loud and there’s music playing, say it low and it’s almost like prayer; 4. fare del romanticismo su queste bande di ragazzacci psicopatici che infestano New York è per lo meno disonesto […] 5. il problema artistico era quello di fondere stilizzazione e realismo (cioè, realismo alla South Pacific); la coreografia di Jerome Robbins è bella come dicono i critici, ma a me sembra non leghi con la storia, che è trattata in modo naturalistico; così le due bande “ballano” la loro prima lite nella sequenza d’apertura, che è splendida come balletto, ma ovviamente non include alcun contatto fisico e spargimento di sangue, essendo tutta mimata; ma poi siamo immersi nel mondo reale, dove gli innamorati si abbracciano goffamente e i nemici si colpiscono senza esclusione di colpi, e lo scontro finale, quello che finisce nel sangue, è in parte stilizzato e in parte naturalistico (confermando il nostro sospetto che gli autori volessero puntare su ambo i piani, infallibile segno di non-arte); il Robbins è stato rimpiazzato come regista a metà lavorazione, sotto l’accusa di perfezionismo, che forse significa un tentativo di fare film in un modo solo, a modo suo insomma; se è così, i miei rispetti.

A parte i toni, caratteristici, di Mc Donald, va osservato che il film non nasceva con velleità di denuncia; cercava piuttosto di rivitalizzare un genere contaminandolo con la vita reale, depurandolo degli aspetti onirici delle produzioni dell’età d’oro. I momenti, per citare Mc Donald, mielosi, sono solo nei duetti di Maria e Tony. Abbiamo visto come lo stesso Sondheim abbia rivelato che il risultato innovativo finale fu frutto di un lavoro sulla forma (balletti, musiche, testi) e non sui contenuti, eppure ciò non ha impedito la possibilità di letture a vari livelli, dell’integrazione razziale alla prospettiva di genere. Di questo va dato merito a West Side Story che, per caso o volutamente, certi temi li ha messi in scena, ma volendosi rivolgere a un pubblico vasto ed eterogeno può solo lasciarli come possibilità di lettura, non come concetto centrale. Non di film di denuncia stiamo parlando, ma di intrattenimento. Per concludere, l’importanza di West Side Story come punto di svolta del musical dai classici dell’età d’oro verso la modernità, in un continuum che non si è ancora liberato del passato, ma già vira verso il nuovo, ritengo sia illustrata con precisione da queste parole scritte da Ermanno Comuzio nel 2002

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Il musical, a questo punto [1960], si è imbastardito, si è mescolato ad altri generi, perdendo le caratteristiche tipiche del periodo classico. E la musica è cambiata. La partitura di un film come West Side Story […] ha uno spessore notevolissimo e si situa ai vertici del nuovo musical. Ci sono le canzoni sentimentali (Maria, Together) ma dominano la ritmica durissima dei ragazzi di strada (il prologo e la Jet song): quella pulsante del numero dei portoricani (America) in cui la ripetuta accentuazione sulla terra che ospita gli immigrati è omaggio e dileggio a un tempo […]. Notevoli anche la ritmica disarticolata, influenzata dalla musica giovanile, del sarcastico indirizzo dei ragazzi delle bande ai poliziotti (Gee Officer Krupke); e lo stupefacente coretto sussurrato (Cool) in cui i ragazzi più maturi spingono gli scalmanati a darsi una calmata. E’ il numero musicalmente più originale […]. I temi drammatici, il dolore, i problemi del lavoro, sono entrati a far parte stabilmente dell’universo apparentemente spensierato del musical. E i motivi di nuove generazioni che impongono i loro gusti, le loro abitudini, i loro modelli. Nasce l’era del rock»60.

60 E. Comuzio, Prima la musica, poi le parole, in F. La Polla – F. Monteleone (a cura di), Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical, Bulzoni, Roma 2002, pp. 309-310.

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1.3 Integrazione razziale, bande giovanili e prospettive di genere in West Side Story.

Il 4 novembre del 1946 la rivista «Time» scriveva: “Il cuore del diciottesimo distretto elettorale di Manhattan è un ghetto infestato dal crimine e dai topi chiamato East Harlem. Le orde di italiani, portoricani, ebrei e negri che ci abitano hanno sempre votato repubblicano. Ma nell’ultimo decennio ha preso il potere una nuova forza: la variopinta macchina elettorale di Vito Marcantonio61, il deputato deforme, dagli occhi iniettati di sangue e dalla voce stridula amico dei comunisti. I gangster, i magnaccia e gli spacciatori di droga che lo sostengono lo chiamano l’‘Onorevole Fritto Misto’” («National Affairs» 1946).

A parte il violento attacco contro il politico italo americano che fino alla sua morte, nel 1954, fu uno dei principali attivisti per i diritti delle minoranze etniche e per primo sensibilizzò i portoricani di New York fino a diventare un acceso sostenitore dell’indipendenza di Porto Rico nel Congresso degli Stati Uniti, «Time» coglieva nell’articolo un problema reale: subito dopo la seconda guerra mondiale, la zona nordest di Manhattan era un insieme di comunità immigrate senza pari al mondo. In particolare le due comunità la cui coesistenza presentava la maggiore criticità erano quelle degli italiani e dei portoricani. East Harlem ospitava in quel periodo la più grande comunità portoricana fuori dall’isola con circa 50.000 persone e la più grande italiana nell’emisfero occidentale con circa 70.000 provenienti dall’Italia, immigrati di prima e seconda generazione. Gli scontri tra le due etnie abbondavano. Le bande giovanili dei due gruppi si davano battaglia per le strade del quartiere in difesa di quello che ritenevano, essere il loro territorio. Portoricani e italiani competevano poi per l’accesso alle risorse messe a disposizione dalle politiche sociali del New Deal, e in particolare per l’assegnazione delle case popolari, che alla fine degli anni Cinquanta avevano a East Harlem la più alta concentrazione di tutti gli Stati Uniti.

In generale, come ultimi arrivati nel quartiere, i portoricani trovarono il potere politico locale saldamente nelle mani degli italiani che lottavano per affermare la loro identità di americani bianchi, appena conquistata e ancora incerta, difendendosi anche violentemente dai nuovi arrivati, dalla pelle più scura, più poveri e più incapaci di parlare inglese, ma con cui dovevano condividere sempre più spesso le strade, le case, le 61 Vito Marcantonio fu un uomo politico italo-americano che gli elettori di East Harlem rielessero alla camera sette volte, dal 1934 al 1955; firmatario di leggi proletarie, la cui posizione su temi come immigrazione, lavoro e sindacato, guerre, istruzione e diritti civili risuonano ancora sotto la volta affrescata da Costantino Brumidia Washington.

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scuole e le chiese di East Harlem. Come erano arrivati i Portoricani negli Stati Uniti e qual è la singolarità del loro percorso verso la terra promessa? A differenza delle immigrazioni dall’Europa, Italia, Irlanda, Est Europa, Portorico rappresenta un caso a parte che vale la pena cercare di riassumere.

Puerto Rico, dopo quattrocento anni di dominazione spagnola, fu ceduta agli Stati Uniti nel 1898, nel quadro degli accordi di pace del Trattato di Parigi, seguiti alla conclusione della guerra ispano-americana.62 Gli Stati Uniti si impegnarono da subito a dimostrare che il loro sistema di vita fosse la chiave di volta per risolvere i problemi del sottosviluppo dell’isola, la cui economia si basava sull’agricoltura. Ecco le parole del Maggiore Generale Nelson Appleton Miles (l’uomo che aveva sconfitto Geronimo), vittorioso comandante degli USA contro la Spagna, solo tre giorni dopo l’invasione di Portorico:

It is not our purpose to interfere with any existing laws and customs that are wholesome and beneficial to your people so long as they conform to the rules of military administration, of order and justice. This is not a war of devastation, but one to give to all within the control of its military administration, of order and justice. This is not a war of devastation, but one to give to all within the control of its military and naval forces the advantages and blessing of enlightened civilization63.

In realtà gli Stati Uniti avevano ben altri obiettivi e quest’accordo non fu mai rispettato. Gli Americani, in conformità a una precisa strategia politica, volevano stabilire un collegamento permanente con l’isola; vi installarono una base militare e, negli anni Cinquanta, un deposito di armi nucleari. Il controllo dell’attività economica, con l’imposizione della produzione monocultura di canna da zucchero, peggiorò ulteriormente la situazione del paese a esclusivo vantaggio degli USA. Portorico divenne una riserva di manodopera a basso costo e la conseguenza fu l’aumento del tasso di povertà delle famiglie portoricane, con poche eccezioni. Nel 1952, a seguito di un referendum farsa, i portoricani scelsero di diventare un Estado Libre Asociado, che conferì all’isola un ambiguo status giuridico, poiché non può dirsi una colonia, ma 62 La Spagna rinunciò alla sua sovranità su Cuba, che fu proclamata indipendente. Inoltre cedette agli Stati Uniti le Filippine, Porto Rico e Guam (Isole Marianne) dietro un'indennità di 20.000.000 dollari. 63 A. C. Zentella, Language politics in the U.S.A: The English-Only Movement, Literaturem Language and Politics: 39-53, citato in M. Lavecchia, Spagnolo, inglese e spanglish a New York. Analisi sociolinguistica della comunità portoricana, Tesi in linguistica spagnola, Università di Bologna 2013, p. 93.

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neanche uno stato indipendente e neppure il cinquantunesimo Stato Americano64. Comunque i portoricani sono, dal 1952, cittadini americani65 e questo ha favorito una consistente emigrazione verso gli USA, sostanzialmente iniziata nel 1900 ma che è aumentata dopo il 1952 e che cresce o decresce in funzione della necessità degli Stati Uniti di manodopera a basso costo. Questo fattore non è cambiato fino ai giorni nostri. La ricerca di lavoro stabile, la volontà di accedere al sogno americano, costituiscono una costante del popolo portoricano. Come è ovvio, molti sono riusciti a migliorare le proprie condizioni di vita, perché la realtà circostante, che li ha visti relegati nelle zone degradate delle città USA come Spanish Harlem o altre, non gli ha consentito di avanzare socialmente. Molti rimangono ancora coinvolti in realtà dove prevalgono povertà e criminalità.

Come abbiamo visto, non tutti riconoscono a West Side Story il merito di aver descritto, dietro le coreografie scintillanti e le musiche coinvolgenti, questa realtà che connotava la società americana del secondo dopoguerra. Invece, pur con tutti i limiti di una rappresentazione che si rivolgeva, soprattutto il lavoro cinematografico, a un pubblico popolare, i rimandi ai disagi della condizione dell’immigrato non mancano. Il testo di America, ad esempio è molto espressivo in questo senso. Bernstein amava la cultura latina che apprese nei suoi frequenti viaggi e attraverso gli insegnamenti di sua moglie Felicia, sudamericana di nascita.

Sembra che al ritorno da uno di questi viaggi avesse parlato a Sondheim di un tipo di danza molto ritmata, chiamata huapango66: «fired up […] by a dance rhytm he had heard called huapango, wich seemed a perfect choice for the song, and was. What i didn’t know at the time was that he had written the tune years earlier for an unproduced ballet called conch Town»67. Sondheim racconta che inizialmente la canzone doveva essere una danza a due tra Bernardo e Anita, per rafforzare, secondo lui, il carattere ironico della rappresentazione degli aspetti negativi della vita degli immigrati in America. Alla fine, però, Robbins ritenne che il numero dovesse essere modificato prevedendo la sola presenza delle donne degli Sharks, per bilanciare le parti 64 «Puerto Rico possiede un grado di indipendenza addirittura inferiore rispetto a quello di una colonia e rispetto a quello che possedeva quando era sotto il dominio spagnolo» R.F. Acuña, U.S. Latino Issues, 2003. 65 Non possono partecipare alle elezioni presidenziali a meno di essere residenti nel territorio degli USA. 66 E’ una danza di origine messicana, molto veloce e articolata, eseguita di solito su una piattaforma di legno per accentuare il battito ritmico di tacchi e punte. 67 M. Berson, Something’s Coming…, cit., p. 123.

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dove erano presenti gli uomini. Così Bernardo fu sostituito da una Rosalia un po’ svagata e Anita assunse una connotazione fumettistica. Sondheim, a questo punto, riscrisse il testo secondo questa differente messa in scena.

Se nella versione iniziale Anita dichiarava tutto il suo entusiasmo per la terra d’adozione e Bernardo, sarcasticamente, ribatteva evidenziando tutte le difficoltà che esistevano per uno straniero di pelle scura, adesso Rosalia soffre per la nostalgia di Portorico mentre è Anita che con sarcasmo ribatte la romantica visione della terra natia e canta le lodi della vita negli Stati Uniti. Il film ritornò alla versione originale, anche se con le modifiche di alcune frasi, come riportato nel paragrafo precedente. Non credo sia in discussione, concordando del resto con quanto affermato dallo stesso Sondheim, come il testo del film sia quello più incisivo e denso di significati (ancora tristemente attuali). Modifiche a parte e sebbene con una struttura convenzionale, il brano ha rappresentato, nel 1960, una voce fuori dal coro al pensiero comune degli Stati Uniti come la terra promessa piena di opportunità, tra american dream e togetherness.

Attaccare questi stereotipi non sulle pagine di una rivista di un circolo di intellettuali liberal, ma attraverso la forma di spettacolo che più di ogni altra era nel tessuto culturale della società americana, il musical, nei primi anni Sessanta, fu un evento raro e di non poco coraggio, così come fu coraggioso rappresentare la minoranza portoricana in uno spettacolo. America utilizza la vivacità e il brio tipico della cultura sudamericana, non solo di Portorico, permettendo al pubblico di familiarizzare con gli Sharks e particolarmente con la gang-queen Anita. La musicalità di America si ritroverà successivamente in molti spettacoli, teatrali e cinematografici, come Latin number, ma solo il brano di West Side Story, specialmente nel testo cinematografico, ebbe la capacità di aprire una breccia nelle convinzioni e nei miti della società americana dell’epoca. Sondheim descrisse il testo come: «…rooted in real character conflict rather than in an artificial argument consisiting of punch lines set up by an ad hoc straight man (woman in this case)»68. 68 Ivi, p. 174.

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TESTO DI AMERICA

Testo originale del Film

Traduzione

ANITA Puerto Rico My hearts devotion Let it slip back in the ocean Always the hurricanes blowing Always the population growing And the money owing SHARKS That’s right! And the sunlight streaming And the natives streaming ANITA I like the island Manhattan CONSUELO I know you do. Smoke on your pipe and put that in OTHERS . I like the island Manhattan. O.K. by me in America! Ev'rything free in America BERNARDO For a small fee in America! ANITA Buyung on credit is so nice BERNARDO One look at us and they charge twice CONSUELO I have my own washing machine. CHINO What will you have though to keep clean ANITA Skyscrapers bloom in America CONSUELO Cadillac zoom in America ANITA Industry boom in America. BOY SHARKS Twelwe in a room in America. ANITA Lots of new housing with more space. BERNARDO Lots of doors slamming in our face ANITA I’ll get a terrace apartment BERNARDO Better get rid of your accent ANITA Life can be bright in America MALE SHARKS If you can fight in America. FEMALE SHARKS Life is all right in America

ANITA Portorico Luogo dei miei affetti Lascia che torni scivolando nell’oceano Gli uragani colpiscono sempre La popolazione continua a crescere E i soldi a mancare SHARKS Giusto! E la luce del sole a ondeggiare E gli autoctoni a fumare ANITA Mi piace l’isola di Manhattan CONSUELO Lo so. Fumati la tua pipa e mettici dentro i tuoi problemi ALTRI Mi piace essere in America E’ ok per me in America Tutto è libero in America BERNARDO Con una piccola mancia in America! ANITA E’ così divertente comprare a credito BERNARDO Ci guardano e raddoppiano il prezzo CONSUELO Ho la mia lavatrice. CHINO Ma che cos’hai da tener pulito ANITA Fioriscono grattacieli in America CONSUELO Rombi di Cadillac in America ANITA Boom industriale in America. I RAGAZZI DEGLI SHARKS Dodici in una stanza in America. ANITA Molti nuovi alloggi con tanto spazio. BERNARDO Mole porte sbattute sui nostri visi ANITA Voglio una villetta a schiera BERNARDO Meglio se ti liberi del tuo accento ANITA La vita può essere scintillante in America IL RAGAZZO DEGLI SHARKS Se sai combattere in America LA RAGAZZA DEGLI SHARKS La vita è bella in America

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MALE SHARKS If you’re all white in America ALL La La La La America America La La La La America America FEMALE SHARKS Here you are free and you have pride MALE SHARKS Long as you stay on your own side FEMALE SHARKS Free to be anything you choose MALE SHARKS Free to wait tables and shine BERNARDO Everywhere grime in America organised crime in America terrible time in America ANITA You forget I’m in America BERNARDO I think I’ll go back to San Juan ANITA I know a boat you can get on FEMALE SHARKS Bye Bye! BERNARDO Everyone there will give big cheer ANITA Everyone there will have moved here! ALL (shout) Go go go go! ALL OLE!

IL RAGAZZO DEGLI SHARKS Se sei proprio bianco in America TUTTI La La La La America America La La La La America America LA RAGAZZA DEGLI SHARKS Qui siamo liberi e abbiamo l’orgoglio IL RAGAZZO DEGLI SHARKS Finché stiamo nel nostro territorio LA RAGAZZA DEGLI SHARKS Libero di essere tutto ciò che vuoi IL RAGAZZO DEGLI SHARKS Libero di servire ai tavoli e lucidare le scarpe BERNARDO Sporcizia ovunque in America Crimine organizzato in America Giorni terribili in America ANITA Ti dimentichi che sono in America BERNARDO Credo che tornerò a San Juan ANITA Conosco una barca che puoi prendere LA RAGAZZA DEGLI SHARKS Bye Bye! BERNARDO Tutti là faranno dei gran sorrisi ANITA Tutti là si saranno trasferiti qua! TUTTI (urlano) Vai vai vai vai! ALL OLE!

Il soggetto di West Side Story non nacque dal nulla ma fu espressione della società americana che, dopo la seconda guerra mondiale, stava adeguandosi ai mutamenti postbellici in ogni settore, culturale incluso. Il film contribuì in modo massiccio a diffondere quell’immagine dei giovani che l’industria dell’intrattenimento raffigurava in un modo che allo stesso tempo ripugnava e allettava la maggior parte del pubblico. Nel 1957 l’opinione pubblica era colpita dal costante aumento della delinquenza giovanile, un problema che era preoccupante e si prestava a facili sensazionalismi da parte dei media. L’aumento costante della gioventù ribelle fu trattato nei quotidiani come nei giornali scandalistici, ispirò B movie sdolcinati e fumetti, fu sfruttato per alimentare il crescente successo del rock and roll, connotandolo come qualcosa al limite della legalità.

Il problema fu anche oggetto di studi a livello governativo e di importanti sedute del Congresso, dove fu evidenziata la minaccia che certe pubblicazioni potevano

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avere nei confronti delle giovani generazioni. Il problema delle guerre tra bande, in particolare di immigrati, non è certamente nato negli anni di West Side Story, ma è sempre stato parte dello sviluppo urbano delle grandi città già molti anni prima69. Durante la corsa all’oro in California che attrasse persone da tutto il mondo, specialmente a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, nacquero molte bande criminali giovanili che provocarono terrore e devastazione in quella parte d’America. Conflitti razziali, religiosi, non solo di nazionalità hanno sempre comportato un aumento della criminalità. «It’s recurring theme from American life that the generation are ethnically different from one anhoter, and that the rising generation appears less American than the one doing the perceiving»70.

Anche se talvolta trattato come uno spettacolo da giornaletto scandalistico, l’aumento della delinquenza giovanile dalla fine degli anni Quaranta fu un problema reale che preoccupò non poco le autorità americane. Una ricerca dell’U.S. Census (una specie di ISTAT statunitense) accertò che i giovani fra i dodici e i diciassette anni crebbero da 12.900.000 a 17.900.000 nel periodo fra il 1950 e il 1959, compreso un crescente afflusso di giovani provenienti dall’isola di Portorico. Un numero speciale del periodico «Life» dedicato all’impennata della criminalità negli Usa, riportò dei dati FBI secondo cui i reati, nel periodo 1946 -1956, salirono del 40% (L’articolo è datato 9 settembre 1957, due settimane prime che a Broadway debuttasse West Side Story e la copertina di «Life» era la foto di un teppista con una giacca Sharks in copertina)71.

A metà degli anni Cinquanta, New York cominciò ad affrontare con decisione il problema, con la creazione di scuole speciali, un nuovo Ufficio per i giovani, delle leggi speciali e un aumento dei pattugliamenti della polizia. Purtroppo la mancanza di fondi adeguati non permise di perseguire con continuità i programmi di recupero dei giovani delle famiglie a basso reddito, mandarli a scuola e migliorare la loro condizione sociale; queste misure si rivelarono ben poca cosa di fronte alla gravità del problema. Abbiamo visto come la costante diffusione di notizie, inchieste, servizi speciali, non solo a New York e Los Angeles, fu uno dei fattori principali che spinsero 69 T. Hine, The Rise and Fall of the American Teenager, Bard Books, New York 1999. Nel libro Hine sottolinea che la ribellione «è un argomento che suscita sempre il panico nella società» spesso associato all’immigrazione. Hine cita The Gangs of New York di Scorsese, come un esempio molto prima del secondo dopoguerra. 70 Ibidem. 71 M. Berson, Something’s Coming …, cit., p. 144.

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gli autori di West Side Story a spostare l’ispirazione dagli iniziali dissidi religiosi dell’iniziale East Side Story verso le zone dove le cosiddette bande di Bianchi e Spagnoli imperversavano, chi difendendo e chi cercando di conquistare spazio, con vere e proprie battaglie all’ultimo sangue. Fu certamente un’intuizione geniale che coglieva in pieno i cambiamenti demografici che stavano interessando New York.

Robbins, Bernstein, Sondheim, Laurents e, nell’edizione cinematografica, Wise erano professionisti che avevano lavorato alla realizzazione di moltissimi spettacoli, a teatro e per il cinema, ma non avevano grosse conoscenze della vita reale delle bande di New York. Così, come capita per la maggior parte degli artisti, fecero affidamento sulla loro immaginazione per cercare di dare realismo. Robbins, da professionista minuzioso qual era, però, volle studiare le abitudini delle bande dello Spanish Harlem e dell’Upper East Side, cecando di trovare le chiavi per dare allo spettacolo autenticità.

Just 20 blocks away from my NY office, I found there was a world entirely new to me […] The streets are darker, the signs are in Spanish, and the people lead their lives on the sidewalks […] I went to the territory of the delinquents when I was developing the show-went to their social directors, talked to gang members and leaders, visited their dances, and came away with the impression that the kids have a feeling of being born into one of the worst possible worlds, and that they think they have to live their lives now-without delay72.

Robbins e i suoi non sono stati gli unici a rappresentare, in quel periodo, i

drammi umani che stavano dietro le fredde statistiche degli uffici governativi. A differenza di tante produzioni scadenti o a basso costo, West Side Story affrontò il problema con maggiore serietà e altrettanto serio fu il riscontro che l’opera ha avuto in grande maggioranza su pubblico e critica. Sulla rivista «The Saturday Review», Henry Hewes scrisse che Laurents:

[…] penetrates the problem of juvenile delinquency in a way that should give all of us pause. From the beginning he faces the hard fact that today’s teen-ager, who alternates between purposeless violence and sullen detachment, cannot really be explained by use of specific phrases like insufficient housing and broken homes. Rather, he implies that adult sins of omissions on the higest

72 Ivi, p. 149

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level of national and international policy create the vacuum which these teenagers feel obliged to fill with their fierce and cool bravado73.

West Side Story rimaneva comunque un’opera di intrattenimento, non un’inchiesta sul disagio giovanile o delle minoranze etniche negli Stati Uniti; senza alcun dubbio, è stato e continua a essere un mezzo che diede maggiore consapevolezza sui disagi giovanili. In questo modo ancora oggi continua a essere utilizzato in molteplici situazioni.

Un punto di vista totalmente controcorrente è quello sostenuto da Alberto Sandoval Sanchez, nato a Portorico, professore di Spagnolo al Mount Holyoke College, studioso della cultura latino americana che si è anche interessato di teatro. E’ autore di un libro intitolato José Can You See? Latinos On and Off Broadway in cui descrive quelli che, secondo lui, sono tutti i luoghi comuni e gli stereotipi con cui, a Broadway e Hollywood, sono state rappresentate le popolazioni latino americane. Nel libro non manca un capitolo dedicato a West Side Story, intitolato appunto A Puerto Rican Reading of the America of West Side Story.

Dopo la mia immigrazione nel 1973 in Wisconsin, il film musicale West Side Story mi fu frequentemente imposto come modello della mia identità portoricana. Per me, appena arrivato in America, quello sembrava un approccio quantomeno insolito, ma evidentemente non era così per gli americani che incarnavano in me tutti i loro stereotipi sulle popolazioni sudamericane. Ogni volta che mi trovavo in occasioni conviviali, un modo per familiarizzare, era quello di chiedermi se avevo visto West Side Story […] Non potrò mai dimenticare quello che, quando arrivai, abbozzò dei passi di flamenco strillando I like to be in America! /Everything free in America74.

Sandoval si trasferì a New York nel 1983 e andò ad abitare in Hell’s Kitchen – Clinton, quartiere situato all’estremità occidentale di Midtown Manhattan, ad Ovest della Eighth Avenue tra la 34th St. e la 57th St. Per moltissimi anni quello fu un quartiere operaio con un’infinità di case popolari e magazzini alimentari. Con il boom economico degli anni ’90 l’assetto urbanistico del quartiere è stato completamente stravolto. Fra vecchi magazzini ristrutturati ed edifici risalenti ad anni ’30 e ’40 oggi si possono ammirare svettanti grattacieli in stile moderno. West Side Story ha utilizzato 73 Ivi, p. 150 74 A. Sandoval Sanchez, A Puerto Rican Reading of the America of West Side Story, in José Can You See?:Latinos On and Off Broadway, The University of Wisconsin Press, Madison 1999, p. 62 (trad. mia).

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come scenografia molti dei vicoli di Hell’s Kitchen. Finalmente Sandoval andò a vedere il film e, poiché ormai aveva fatto conoscenza con la realtà dei suo connazionali residenti a New York, fu subito stimolato a verificare similitudini e contrasti tra il film e la vera storia dell’immigrazione portoricana. Sandoval racconta che l’entusiasmo cui assistette al cinema al termine del brano America lo fece render conto del forte potere che il musical, dietro il puro intrattenimento, aveva avuto nel costruire lo stereotipo dell’immigrante portoricano e di tutti i latino-americani che all’epoca arrivavano negli USA. Sandoval sostiene che America è il frutto di una campagna politica in favore dell’assimilazione e che, dietro la sua musica, i suoi balli, il romanticismo della storia, si nasconde il razzismo che, per lui, è latente in tutto il musical.

West Side Story è la storia dell’amore tra Maria e Tony ma è anche la storia di una lotta per conquistare uno spazio urbano, uno spazio che è pieno di tutti i significanti culturali e ideologici della società anglo – americana. In questo senso, prosegue Sandoval-Sanchez, il musical non rappresenta i migranti Portoricani a New York, nell’immediato secondo dopoguerra, solo come persone che vogliono imporsi nel territorio, «…threat to the assumed coherent and monolithic identity how the Puerto Rican immigration, from the margins of the ghetto threatens to disarticulate, according to Anglo-American, their sociolpolitical system at the capitalist center of New York»75.

Manhattan è divisa in zone che non sono solo mere ripartizioni toponomastiche, ma rappresentano veri confini tra zone divise territorialmente, economicamente e per etnia e ogni gruppo evita di sconfinare nelle altre zone. Per Sandoval, West Side Story ha contribuito a perpetrare l’immagine del West Side come un luogo di tensioni etniche e di guerriglia urbana tra bande. Gli Jets, gli «Americani» sono un’antologia di americani essendo loro stessi figli di immigrati europei (la cosiddetta «seconda generazione»). Anche loro sono degli stereotipi, il loro modello è «all American boy»; rappresentano la superiorità del modello americano e non ammettono intrusioni di nessun altro nella loro banda, come definiscono chiaramente nella prima canzone Jet song, dove sostengono la loro superiorità, loro sono i più grandi e non si pongono nessun limite se non il cielo. Singolarmente, sottolinea Sandoval, in questa «antologia di americani» non trovano posto i neri e il confronto degli Jets è limitato solo ai Portoricani «against the Sharks we need every man we got».

75 Ivi, p. 64.

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Sandoval vede in questa idea del West Side rappresentato come terra di frontiera dove bande rivali si aggirano per il territorio la visione razzista da parte degli autori, maggiormente enfatizzata dall’assenza assoluta degli altri territori di Manhattan, in particolare del limitrofo Upper East Side che è, invece, il quartiere delle classi borghesi, bianche, più elevate. E’ quest’assenza dell’East Side, per Sandoval segnalata con chiarezza già nei titoli iniziali, che fa diventare il West Side un non luogo dove la storia d’amore tra Maria e Tony nasconde il sottotesto idelogico di un racconto politico e razzista.

Questo postulato di Sandoval trova in realtà una conferma in un evento descritto dallo stesso autore, riferito a una replica del musical teatrale che fu tenuta al Kennedy Center nel 1985; un critico scrisse, all’indomani: «[…] the actress Katherine Buffaloe looks and sounds more like an East Side debutante than a West Side Puerto Rican Girl […]». Nella critica compare in modo evidente come sia reale una divisione socioculturale tra i due quartieri in termini di classi sociali e di etnie. Questa differente visione del mondo, questo contrasto, per Sandoval, è implicitamente inscritto in West Side Story.

La prima scena del film definisce i termini della storia; due bande in lotta per un territorio. I primi ad apparire sulla scena sono i Jets, i padroni indiscussi di tutti gli spazi; dalle strade al campo di basket. E’ subito chiaro che i Jets non permettono agli Sharks di insediarsi nel territorio. Secondo Sandoval, la lettura, nella prospettiva da lui adottata, permette di individuare tutti i dualismi del musical; Jets/Sharks; U.S./Puerto Rico; centro/periferia; impero/colonia; nativi/estranei; identità/diversità; uniformità/contrasto; dualismi enfatizzati chiaramente nella prima scena del film.

Quando gli Sharks stanno inseguendo i Jets, infatti, su un muro capeggia l’immagine di uno squalo con la bocca aperta e i denti in vista, in un’iconica rappresentazione del potenziale barbaro e criminale dei Portoricani. Molti dei Jets sono biondi, alti, in forma perfetta e raffigurano perfettamente il mito del ragazzo americano, mentre i portoricani sono tutti magri, con i capelli neri e la carnagione olivastra.

Sandoval sottolinea come la critica abbia di fatto eliminato il problema del razzismo, concentrandosi sui problemi della delinquenza giovanile e gli autori non si siano mai preoccupati più di tanto delle proteste che qualcuno aveva sollevato. Ad esempio, riguardo alle rimostranze per il testo della canzone America di cui si è già parlato, Sandoval cita quello che Sondheim e Bernstein dissero in un’intervista:

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[We] got a letter complaining about the one line Island of tropic diseases outraged on behalf of Puerto Rico, claiming that we were making fun of Puerto Rico and being sarcastic about it. But didn’t change it. Opening night in Washington we had a telephone message from La Prensa saying that theyìd heard about this song and we would be picketed when we came to New york unless we omitted or changed the song. They made particular reference to Island of tropic diseases, telling us everybody knows Puerto Rico is free of disease. And I wasn’t just that line they objected to. We were insulting not only Puerto Rico but the Puerto Ricans and all immigrants. They didn’t hear Nobody knows in America/Puerto Rico’s in America – it’s a little hear to hear at that tempo. We met that threat by doing nothing about it, not changing a syllable, and we were picketed76.

Sondheim, in un’altra sede dichiarò che, quando fu interpellato per partecipare a West Side Story, non fu subito convinto e anzi disse: «I can’t do this show…I’ve never been poor and I’ve never even known a Puerto Rican!»77. I portoricani erano quindi solo dei modelli letterari necessari agli autori per rappresentare lo stereotipo dell’immigrante secondo la visione del sistema culturale americano. Un modello a priori, l’immigrante tipo, una marionetta nell’immaginario della società occidentale, è diventato il referente dei valori identitari del popolo portoricano. Il punto di vista di Sandoval, nella sua assoluta legittimità, parte dalle riflessioni di Adorno e Horkheimer, per cui l’industria culturale crea dei modelli che vengono passivamente assorbiti dal pubblico

Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. [...]78.

In questo modo, secondo le teorie di Adorno e Horkheimer, la lettura che del film (e del musical) fa Sandoval è assolutamente legittima. Dal mio punto di vista, ritengo però che, a oltre cinquanta anni di distanza, occorre considerare invece un’opera come West Side Story, inserita in un industria con dei codici, in un genere espressione della cultura popolare americana, in un’epoca di profondi cambiamenti e di forti 76 Ivi, p. 76. 77 Ivi, p. 77. 78 M. Horkheimer – T. W. Adorno, Il cinema come industria culturale, dalla Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 141.

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reazioni al cambiamento nel sistema politico e sociale degli Stati Uniti, come un lavoro che ha portato all’attenzione tematiche che fino a quel momento non erano più di tanto oggetto di discussione. Le discussioni che seguirono, l’attenzione per certi problemi e anche punti di vista come quello di Sandoval, non sarebbero stati possibili senza un’opera come West Side Story che rientra a pieno titolo in quel tipo di prodotti autoriali che, ciclicamente, sono riusciti, nonostante facenti parte integrante di un sistema basato su regole precise, a portare cambiamenti, formali e di contenuto, che poi hanno segnato le produzioni successive.

Oggi gli studi dei media audiovisivi sono aumentati in modo significativo, e oltre all’industria del film, che da subito ne è stata l’oggetto principale, i campi di interesse comprendono da tempo la televisione e, ultima, la rete che ha portato a nuove modalità di studio dell’audiovisivo. L’analisi di un audiovisivo può avvenire tramite lo studio degli elementi formali che lo compongono e attraverso lo studio della complessa simbologia che può essere utilizzata per comunicare significati, simbologia che, per essere interpretata, richiede la conoscenza del contesto sociale in cui viene utilizzato.

In questa ottica, nel marzo 2014, è stato pubblicato sull’ «International Journal of Humanities and Social Science» (IJHSS) uno studio a firma della Dr. Virginia Sanchez Rodriguez che illustra la rilevanza della musica nel film e come lo stile musicale può essere il mezzo per illustrare gli stereotipi di genere in West Side Story. Particolare attenzione è stata data all’analisi delle differenti identità delle due protagoniste portoricane (nell’articolo originale definite Latin American) in relazione alle immagini e alla musica. I riferimenti che muovono le riflessioni dell’articolo prendono ispirazione dagli studi dell’antropologo Alan Merriam79 e in particolare dalle metodologie di studio da lui descritte nel volume Antropologia della Musica (1964), pietra miliare degli studi di etnomusicologia. L’approccio etnomusicale non può prescindere dal concetto

La musica è un prodotto dell’uomo e ha una sua struttura, ma questa struttura non può avere un’esistenza propria separata dal comportamento che la produce Per capire il perché una certa struttura musicale viva nella particolare forma che si è data, dobbiamo anche comprendere come

79 Alan P. Merriam (Missoula, Montana 1923-Versavia, 1980) ha insegnato Antropologia alla Northwestern University, alla University of Wisconsin e alla Indiana University. Tra le sue opere Ethnomusicology of the Flathead indians (1967). Ha scritto anche di musica etnica africana e di jazz.

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e perché i concetti che stanno alla base di quel comportamento siano ordinati in modo tale da produrre quella determinata orma del suono80.

In West Side Story, la colonna sonora, parte essenziale del film, combina musica basata su uno stile sinfonico a sonorità che sono vicine ai generi più popolari. Prologue, 5:38 minuti in cui vengono combinati i principali temi della pellicola, illustra in modo eloquente quanto detto. La musica è presente in 89 minuti dei 152 complessivi per 37 numeri musicali, che non sono un semplice “stacco” ma costituiscono parte integrante del racconto, sincronizzati perfettamente con la narrazione. Come già visto, Bernstein disse che il motivo di questa condivisione di stili è da riferire all’opposizione dei due diversi mondi degli Jets e degli Sharks, da cui i diversi ritmi in funzione delle situazioni con le due diverse bande. D’altra parte lo stile sinfonico è prevalente nei momenti non diegetici, come quello dell’amore fra Maria e Tony (Somewhere e Maria hanno entrambi queste caratteristiche), mentre le parti più ritmate con uno stile contemporaneo popolare appartengono ai momenti in cui c’è la contrapposizione tra le due bande.

La musica, in questo caso, vuole illustrare le differenze sociali degli Stati Uniti, il razzismo degli americani verso coloro che provengono da un’altra nazione e che hanno un diverso colore di pelle. Anche la danza, in questo caso, diventa un mezzo per mostrare le differenze; i passi del ballo sono utilizzati per distinguere i due gruppi. Durante Dance at the Gym gli Jets eseguono un twist e uno swing, tipicamente nordamericani mentre gli Sharks si muovono a ritmo di flamenco e ritmi latini. Così, i balletti, le musiche e i testi possono essere studiati come un elemento culturale, perché scandiscono attraverso i ritmi e le canzoni, identità e differenze della società americana degli anni Cinquanta e Sessanta, i problemi di coesistenza fra Jets e Sharks e le discriminazioni nei confronti delle donne, di quelle portoricane in particolare.

Nel film, queste ultime non presentano caratteristiche omogenee ma hanno delle personalità molto differenti e la musica associata a ognuna di loro tende a enfatizzare le differenze. I due caratteri rappresentativi degli stereotipi femminili portoricani sono Anita e Maria, amiche che lavorano nello stesso laboratorio di cucito, ma le similitudini finiscono qui. Le due rappresentano ideali femminili agli opposti. Tanto Maria è sognatrice e romantica quanto Anita è passionale, spigliata. I brani in cui Maria canta sono quelli che rimandano all’amore assoluto, senza confini, Somewhere e 80 A. Merriam, Antropologia della Musica, Sellerio, Palermo 1983, p. 25.

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Tonight, ad esempio. I testi rendono l’idea del suo sogno d’amore con Tony e della visione ottimistica di un futuro con lui. Le scene con Maria e Tony sono improntate all’ottimismo; pensano a una vita insieme in un mondo ideale. In Somewhere le musiche che accompagnano Maria sono nello stile sinfonico con melodie di accompagnamento di strumenti a corda, mentre lei canta la melodia principale e l’orchestra l’accompagna. Le musiche che accompagnano Maria danno le stesse sensazioni delle arie dell’Opera. Anche in I feel pretty, l’ottimismo e la gioia la fanno da padrone e si tende a rimarcare l’aspetto civettuolo di Maria, attraverso il testo, i gesti e la messa in scena che enfatizzano l’aspetto fisico.

Nella società americana degli anni Cinquanta e Sessanta l’aspetto fisico delle donne era ancora l’elemento prevalente rispetto alle loro capacità intellettuali e questo non solo per le immigranti; anche le donne americane hanno sofferto questo problema. Maria (come le donne americane dell’epoca), è rappresentata sempre collegata a un uomo. Questa sottomissione le fornisce sicurezza e felicità, nel pieno rispetto delle convenzioni della società patriarcale che voleva le donne protette dall’uomo; prima Bernardo, suo fratello, poi Tony, il suo ragazzo.

Anita, invece, è differente da Maria; passionale, spigliata e tenace non ha esitazioni quando si pone di fronte agli uomini, sfidandoli per evitare il conflitto finale che avrà conseguenze tragiche. La donna rappresentata da Anita ha una connotazione più realistica, i gesti, gli atteggiamenti, i testi delle canzoni che la vedono impegnata rendono l’idea di una persona comunque ottimista anche se realista. Così passa dall’ottimismo per essere in America, in opposizione alle difficoltà della vita a Portorico (nel brano America), alla consapevolezza delle difficoltà per una donna latino americana in un paese straniero (A boy like that), cercando di spiegare a Maria l’impossibilità del rapporto di quest’ultima con Tony. I ritmi delle canzoni con Anita sono differenti da quelli con Maria; sono canzoni molto ritmate e hanno l’accompagnamento dell’intera orchestra in contrapposizione alla musica melodiosa riferita alla sua amica.

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Robert Wise e Jerome Robbins sul set di West Side Story

La scena iniziale nel campo di basket

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L’incontro tra Tony e Maria

Rita Moreno, America

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2. Il musical verso il 2000. Sempre in bilico tra la fine e la rinascita.

2.1. Dalla New Hollywood fino alla rinascita.

Mentre gli anni Settanta si avviavano alla fine, l’idea di genere sembra definitivamente tramontare; sono gli anni in cui si va consumando il declino delle ideologie che dalla metà degli anni Sessanta e per almeno un decennio avevano attraversato l’America. Nel 1978 la memoria del Vietnam, dei movimenti studenteschi, delle lotte per l’integrazione razziale si stava lentamente attenuando e il paese viveva una sorta di normalizzazione, rimuovendo i tumulti ideologici che lo avevano spazzato. Contemporaneamente a Hollywood si stava affermando una generazione di artisti, fra tutti Lucas e Spielberg, che lavorava come se operasse una “mescolanza” di generi.

È come se questa nuova generazione hollywoodiana, giunta a maturazione concettuale ed estetica, mischiasse le piste ricorrendo in una volta sola a tutto il suo bagaglio storico. Un film di certo riferimento in questo senso resta 1941 Allarme a Hollywood (1979) di Steven Spielberg dove ogni possibile genere hollywoodiano è compresente agli altri e ne porta piena coscienza. Dello stesso anno è Hair di Milos Forman che viene dalla cultura alternativa, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (opera rock dall’impianto classico, erede di Broadway) è addirittura di sette anni precedente81.

Il fenomeno attraversa perciò tutto il cinema hollywoodiano, si consuma un’evoluzione nel segno della confusione dei generi che hanno perso la loro funzione metalinguistica nei confronti della società che rappresentano. Per Gosetti, il musical è tra i generi di Hollywood quello che viene più coinvolto da questi fermenti

Ed è il genere più volatile, solo apparentemente fragile e invece capace come nessun altro di proiettare le aspettative di un popolo in cerca di icone ed eroi, quello che ne subisce la mutazione più profonda; il film musicale si può permettere di agganciarne nuove sponde, ma deve attraversare l’ibridazione più completa per sopravvivere82.

Il musical, che è stato uno dei generi più rappresentativi, se non il più rappresentativo tra quelli della Hollywood classica e della cultura popolare americana, 81 G. Gosetti, Esiste il genere musical? In F. La Polla e F. Monteleone (a cura di); Il cinema che ha fatto sognare il mondo…, cit., p. 346. 82 Ibidem.

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con West Side Story vive il primo grande mutamento inserendo, in modo più o meno esplicito, con intenti più o meno etici, un “impegno” di carattere socio-politico all’interno delle storie: l’integrazione razziale, la delinquenza giovanile, la vita nei sobborghi metropolitani sono i nuovi temi che irrompono nel film musicale. Ma davvero, come sostiene La Polla, l’abbandono della dimensione onirica (o meglio, il suo passaggio in secondo piano) a favore di una narrazione che mostra più esplicitamente la realtà, costituisce quella che lui definisce affermando «La fine del musical è stata la fine del cinema; i sentimenti non ci sono più, restano le virgolette83», oppure il genere, più semplicemente, si allarga a nuove prospettive, anche con il rischio di “contaminazioni” tra diverse categorie? In questo senso può essere di chiarimento quanto afferma Giorgio Cremonini

…il musical non è un «genere», ma una struttura filmica che si serve dell’intersezione di generi diversi (la commedia, il melodramma, a sua volte il giallo, persino il Western); esso non viene definito, nella sua essenza, dalla somma dei film che gli vengono attribuiti, bensì da particolarità strutturali che si conservano inalterate nel tempo e che sono riconducibili, sia pure in una approssimazione azzardata a un momento linguistico specifico né più né meno come succede nel Comico, la cui analisi strutturale è concentrabile all’interno della figura del gag. L’equivalente del gag in questo caso è il momento i cui, sullo schermo, i gesti si trasformano in danza o le parole i canzoni84.

Opinione diffusa tra molti studiosi è che, se vogliamo definire un genere vero e proprio, incasellato in codici rigidi, dobbiamo considerare solo la produzione dei musical del periodo che va dai primi film di Berkeley, inizio anni Trenta, fino alla prima metà degli anni Cinquanta, sostanzialmente fino a Singin’n in the Rain, cioè fino alle produzioni di Donen e Minnelli. Invece, se cominciamo a considerare il musical come una forma, meglio come un contenitore spettacolare che può essere applicato a modelli di varia ispirazione, dal western di Seven Bride for Seven Brothers (Sette Spose per Sette Fratelli – 1955) alla commedia sofisticata come Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde – 1953), la teoria della “contaminazione” prima accennata trova piena conformità. Il problema che si crea è però un altro: venendo a mancare la concezione dell’immaginario che per vent’anni lo aveva caratterizzato, 83 F. La Polla, I sentimenti tra …, cit., p. 21. 84 G. Cremonini, Sette note (per una teoria sul musical), in «Cinema & cinema», C’era una volta il Musical…, cit., p. 39 e ss.

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diventa anche difficile operare una sistematizzazione coerente e si rischia di collocare all’interno della storia del musical film che sono invece opere a soggetto, biografiche o film concerto85.

Da questo punto di vista i film musicali dagli anni Settanta in poi riprendono i caratteri del musical anche se non lo sono nel senso classico del termine; Cabaret (Id. – 1971), Phantom of the Paradise (Il fantasma del palcoscenico – 1974); New York, New York (Id. – 1977), Saturday Night Fever (La Febbre del Sabato Sera – 1977); All That Jazz (Id. – 1979); Grease (Id. – 1978), sono tutti film che, anche solo come semplice rievocazione o citazione, omaggio deferente o trasgressivo, ossequioso o nostalgico, costituiscono dei remake di altri musical. La ricerca di recupero della tradizione non è una tematica esclusiva del film musicale ma rientra in quel più vasto fenomeno che viene chiamato della rinascita di Hollywood. Si tratta del percorso con cui il cinema americano si scrolla di dosso le proprie crisi, nate nel secondo dopoguerra, cresciute con le rivolte nei campus e con la protesta anti-Vietnam, ora annullate da un sistema che, riassestato il suo potere finanziario e produttivo, impone al mondo il recupero dei suoi miti, la sua rinnovata mitopoiesi86.

Anche il musical, quindi, non può far altro che tornare alle proprie origini, ma non riesce tuttavia a ritrovare il legame tra il testo delle canzoni e la narrazione87 e, anche se questo legame in qualche modo sussiste, è il rapporto sogno-realtà, tra universo dello spettacolo e universo del reale che viene modificato. Se nell’età d’oro del musical l’immaginario prevaleva sempre sul reale, nel momento in cui si va a inserire la realtà nella storia i codici del musical classico ne escono snaturati e i risultati non sono sempre quelli voluti.

Prendiamo un film come Saturday Night Fever; è il film, realizzato con risorse economiche limitate, che ha consacrato la moda della disco-music, riuscendo a cogliere proprio il momento in cui quel genere musicale era all’inizio della sua

85 Un film come The Doors di Oliver Stone non è considerato dagli studiosi come un musical, mentre lo è Jesus Christ Superstar. I due film presentano in realtà caratteristiche strutturali analoghe. 86 Cfr. D. Jacobs, Hollywood Renaissance, 1980. 87 E. Dagrada, Remake Musical”, «Cinema & Cinema», n. 39, 1984, pp. 57-62, cita l’unico balletto di All That Jazz «non eseguito in teatri di posa, che Kay e la piccola Michelle inscenano per fare una sorpresa a Joe, balletto accompagnato da una musica la cui presenza deve essere giustificata dalla messa in funzione di un grammofono».

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affermazione88. Quel film, apparentemente, non è un musical; non ci sono personaggi che cantano, la musica e la danza non sono su un piano diverso, sono parte della trama e dell’ambientazione del film, sono a tutti gli effetti contenuto, non forma. Questo farebbe classificare la pellicola come un normalissimo lungometraggio dove sono più evidenti i riferimenti allo Scorsese di Mean Streets (Mean Streets - Domenica in chiesa, Lunedì all'inferno – 1973), a cominciare dall’ambientazione, dall’uso del turpiloquio e dai momenti di misticismo.

A onor del vero è stata proprio questa ispirazione “colta” a nobilitare il film e a fargli tributare il titolo di reportage sull’ambiente, vero e concreto, delle discoteche. Un saggio di Alberto Crespi riesce a individuare invece quelli che sono aspetti propri del musical classico e come sono applicati.

La sequenza dei titoli di testa, in cui il brano Stayn’ Alive accompagna la camminata di Travolta per le vie di Brooklyn, funziona discretamente; la musica fa da pura e semplice colonna sonora, i carrelli e le soggettive ci introducono il personaggio in maniera sostanzialmente corretta. Una prima spia si ha nella celeberrima (e copiatissima) sequenza della «vestizione»: in questa scena, che rappresenta la preparazione alla serata in cui musica e ballo avranno finalmente modo di esplodere, la presenza della musica è, da un punto di vista «realistico», un errore madornale. Accoppiata alle frequenti inquadrature dal basso, la colonna sonora contribuisce, secondo un procedimento abbastanza rozzo, alla mitizzazione del personaggio; colui che ci era stato presentato come un giovane qualsiasi diventa qui un «eroe» (è significativo: per strada, un abbordaggio gli andava male, in discoteca Tony/Travolta è irresistibile, è «il re», come sapremo poco dopo; siamo di fronte a un personaggio «eccezionale», che non può essere indicativo di un «ambiente». Siamo già nel regno del falso, del fantastico; come chiariscono, del resto, per lo meno due scene chiave: la prima sequenza di danza all’ Odissea 2001, in cui noi vediamo un vero e proprio corpo di ballo

88 L’uscita del film La febbre del sabato sera (1977), diretto da J. Badham e interpretato da J. Travolta, con la colonna sonora supportata dalle canzoni dei Bee Gees, fece della disco music un fenomeno internazionale. Si impose come stile di musica da ballo nato nei club di New York e di Los Angeles intorno alla prima metà degli anni 1970 e affermatosi definitivamente nella seconda metà dello stesso decennio, divenendo un fenomeno internazionale. Eludendo quasi del tutto il momento della esecuzione dal vivo, affida il proprio successo al circuito delle discoteche, dove il disc jockey propone al pubblico selezioni musicali preregistrate e mixate, creando un tappeto sonoro senza soluzione di continuità. Strettamente legata all’abilità di disc jockey, produttori e arrangiatori (G. Moroder, Cerrone, N. Rodgers, Q. Jones, T. Moulton, le etichette Stax e Motown ecc.), si caratterizzò fin dagli inizi come musica di puro divertimento e fenomeno di consumo. Il materiale armonico e melodico delle prime produzioni era saldamente radicato nella tradizione soul e funk, ma progressivamente si assisté all’introduzione di strumenti elettronici (sequencer e sintetizzatori digitali), all’arrangiamento ridondante di sezioni d’archi, all’impiego di elementi della musica latina e della salsa in particolare. Sul finire degli anni 1980, mentre la sua influenza si faceva sentire nel suono di diversi artisti e gruppi rock (Kiss, Rod Stewart, Blondie, Rolling Stones), la disco music vide declinare la propria popolarità, anche a causa dell’affermarsi di nuove forme di musica da ballo, come la house music e la techno.

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che esegue una coreografia preordinata, e chiunque abbia messo piede in una discoteca sa che la disco-music è, coreograficamente, il regno del caos, dell’individualismo; per cui quella che vediamo non è una vera discoteca con dei veri giovani, ma un set con tanto di ballerini. Seconda sequenza, le prove per la gara di ballo, in cui Travolta e Karen Gorney sono subito perfettamente sincronizzati; per cui non si tratta di prove, ma di veri e propri balletti89.

Il film, quindi, a prima vista è un normale film narrativo, ma ai più attenti non sfuggì come, invece, utilizzasse modalità tipiche del musical. Ecco cosa scrisse Ugo Casiraghi, critico cinematografico, su «L’Unità» del 26 marzo 1976: «La Febbre del sabato sera può essere assunta come testimonianza del nostro tempo, certamente più artificiale e spettacolare rispetto a quella che fornì Gioventù bruciata, ma forse non meno eloquente. E le sequenze dell’Odissea 2001 fanno già parte, di diritto, di una futura antologia storica del musical». Tutto il film è connotato da elementi narrativi e canoni tipici del musical, gioca in modo ambiguo su questa dicotomia e, in modo abbastanza sordido, esalta la disco-music proprio quando sembra condannarla, innescando nell’ immaginario collettivo, soprattutto quello giovanile più influenzabile, il desiderio della trasgressione e, non a caso, il film alimentò il mito della disco-music in misura esponenziale.

L’anno successivo Grease, film che sull’onda del successo di Saturday Night Fever tentava di ripeterne i fasti, ma in realtà cercava solo di sfruttare l’immagine di Travolta, il divo del momento, ricalca la struttura del musical in modo più esplicito. Il primo numero musicale, in cui i due gruppi, ragazzi e ragazze, al campo sportivo e poi nel cortile della scuola eseguono Tell me More è una citazione palese di West Side Story. Considerando come nell’immaginario collettivo la scena del film di Wise e Robbins costituisca l’antonomasia del musical, ecco che Grease, contrariamente a Saturday Night Fever, vuole porsi esplicitamente in quel genere, tuttavia la scelta del rock’n roll come colonna sonora è, da questo punto di vista, un elemento dissonante. Mai, infatti, neppure all’epoca dei film di Elvis Presley (che non erano musical, essendo

89 A. Crespi, Sette note (per una teoria sul musical), in «Cinema & cinema», C’era una volta il Musical…, cit., p. 62 e ss.

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imperniati solo sulle performance canore di Presley), la matrice musicale è stata il rock’n roll.

Le motivazioni della scelta musicale vanno trovate nella varietà dei modelli di riferimento cui il film sembra rifarsi; a questo proposito c’è una sequenza che fornisce un’importante chiave di lettura; la gara automobilistica che riprende quella del celebre Rebel Without a Cause. Come nella scena del campo sportivo, anche qui c’è una banalizzazione della fonte; lo scopo del film allora diventa manifesto: un revival commerciale (peraltro perfettamente riuscito visti gli incassi che ottenne) degli anni Cinquanta - Sessanta piuttosto che il recupero dei valori sociali e culturali di quell’epoca.

Il film musicale è connaturato dal manifestare la sua peculiarità in un altrove, in un universo onirico e astratto che viene rappresentato dalla musica e dalla danza. Se non “incardiniamo” questo altrove in codici rigidi e schemi prefissati, ecco che non importa se muta il contesto (gli schemi) in cui inseriamo l’astratto90.

Non ha insomma più senso parlare di un genere musical ma soltanto perché non ha più senso parlare di genere. Buona parte dell’immaginario sognato dallo spettatore occidentale diventa allora musical, dal momento che la cultura musicale ha assunto il valore di unica cultura dominante e coesa rispetto ai pubblici possibili, dal momento che solo questo codice permette un attraversamento trasversale dei fattori generazionali e delle attese del pubblico. Proprio negli anni Ottanta un altro genere forte del cinema americano attraversa lo stesso fenomeno con diversi, ma non dissimili approdi: il noir si articola, si frammenta, scompare e riappare come un fenomeno carsico che non è inesatto definire alla fine un puro e semplice «super genere» ovvero un codice interpretativo anziché un filone o una modalità espressiva91.

Le stesse considerazioni possono valere per il western e il cinema di guerra, che però sono generi per cui è necessario un forte riconoscimento storico – ideologico (non a caso si rivitalizzano quando in America ideologia e opinione pubblica sono concordi). Quest’ultimo requisito, in ogni caso, non è necessario per il musical a cui non serve la legittimazione storica e meno che mai una ripetitiva ritualità. Nel momento in cui le coreografie non hanno più l’importanza che avevano nei film di Busby Berkeley, l’attenzione si concentra sulla musica. 90 Per Gosetti il primo Disney candidato all’Oscar ovvero La sirenetta (1989), non viene considerato un musical solo per la resistenza di quella parte di critica legata agli schemi classici. 91 G. Gosetti, Esiste il genere musical? …, cit., p. 347.

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E allora piano piano invade di sé tutto il cinema contemporaneo mano a mano che i musicisti diventano le uniche, reali icone dei nostri tempi. […] Forse dobbiamo aggiornare semplicemente la terminologia e rassegnarci a capire che la vera rivoluzione, dagli anni Settanta in poi, fu la reinvenzione del musical. E dico reinvenzione perché ciò che non viene meno è il valore catartico di questo genere di spettacolo. Che si permette di sprezzare il realismo, che rende quotidiano il mito, che fa da ponte al sogno e che oggi non legittima più con questo espediente la fuga nella rassicurazione, ma ci porta tutti a “danzare nel buio”92.

92 Ivi, p. 349.

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Saturday Night Fever (La Febbre del sabato Sera – 1977)

Grease (Id. – 1978)

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2.2 One From the Heart; Coppola fra nuovi orizzonti digitale e non-luoghi.

Francis Ford Coppola negli anni Ottanta è un regista già affermato, protagonista della New Hollywood e della New New Hollywoood, perennemente in bilico tra prodotti commerciali e opere personali. Coppola, che motiva questa alternanza con la necessità di fare cassa con prodotti di “largo consumo” per poter realizzare opere dai contenuti artistici più pronunciati, nel 1982 fa seguire al suo capolavoro Apocalypse Now (Id. – 1979) un esperimento come One From the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982).

La critica divide di solito l’opera di Coppola in due grandi periodi: prima e dopo Apocalypse Now (1979). Certamente quel film, che costituisce quello che di solito viene etichettato come punto di non ritorno, rasenta la perfezione sotto ogni punto di vista, narrativo, estetico, ideologico e davvero può definirsi uno spartiacque tra il prima e il dopo di Coppola. Risalta però che questa suddivisione, accettata dagli studiosi di cinema senza grandi eccezioni, cada proprio nel momento in cui il cinema americano e, inevitabilmente, anche quello di tutto il mondo, sta vivendo una delle più vaste trasformazioni estetico industriali di sempre.

Questa trasformazione è stata chiamata di volta in volta rinascita hollywoodiana, cinema postclassico o neoclassico, New New Hollywood come risposta alla New Hollywood degli anni ’70, nomi a effetto che però non colgono l’aspetto più importante. Il vero segno distintivo di ciò che avviene è il passaggio dalla cultura cinematografica della modernità a quello che verrà definito cinema postmoderno93. Non

93 Laurent Jullier, nel suo saggio L’ecran post-moderne. Un cinema de l’allusion et feu d’artifice, L’Harmattan, Paris, 1997, tradotto in Italia nel 2006 con il titolo Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006, analizza linguaggio, pratiche, uso delle tecnologie del film postmoderno tentando di definirne l’estetica. A lui si deve la definizione, sintesi efficace del concetto di postmoderno cinematografico, di film-concerto (cfr. p. 8 e ss.): «Il film concerto non mostra necessariamente musicisti su una scena, ma prende dal concerto amplificato tre delle sue caratteristiche più evidenti: l’obbligo di ricorrere a un dispositivo tecnologico concepito ad hoc […]. L’idea di spettacolo come hic et nunc, provenendo dall’uso di immagini che rimandano più che a una realtà passata, di cui sarebbero le impronte visive piane (immagine-traccia), a una tecnologia di innesti perfetti e della sintesi, che ne cancella l’effetto di rimando a favore di una dimostrazione al presente. Il prevalere della dimensione sonora su quella visiva; una colonna sonora avvolge lo spettatore occupando tutte le frequenze, o quasi, dello spettro, emanando da una serie di altoparlanti che immergono l’uditorio in un bagno sonoro al quale esso non si può sottrarre. […] Considero l’uscita di Guerre Stellari (1977) l’atto di nascita del cinema postmoderno, perché esso unisce le caratteristiche visive e narrative di questo stile, ma anche perché è stato il primo film a essere presentato commercialmente con il sistema Dolby. Il fatto è che il film-concerto è ancora più dipendente degli altri dalle condizioni di proiezione. Ha bisogno di un vero arsenale tecnologico multipista per

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ci sono aspetti esenti da mutamenti in questo passaggio; dalle correnti estetiche e stilistiche alla dimensione tematico-narrativa agli assetti tecnologici e produttivi, fino alle modalità di ricezione e di consumo del cinema. E’ un periodo in cui i principali Studios, in funzione della crescita del mercato dell’intrattenimento, hanno bisogno di nuovi capitali che garantiscano l’accesso al credito. Provano quindi a coinvolgere nella loro attività aziende estranee al cinema e, attraverso una politica di fusioni, gli Studios più grandi finiscono assorbiti da multinazionali per le quali il cinema è solo un’attività al pari delle automobili o dei telefonini94.

Nello stesso periodo Coppola segue la strada diametralmente opposta, ovvero fondare e dirigere un proprio studio, in modo da autofinanziarsi e utilizzare i profitti per nuovi progetti. Dopo il successo di Apocalypse Now, che lo salva dalla rovina finanziaria, decide di resuscitare la sua vecchia casa di produzione, la Zoetrope, che un decennio prima aveva dovuto chiudere95. Così, il 25 marzo 1980, per poco più di 6 milioni di dollari, Coppola acquista gli studi della Hollywood General, ribattezzati Zoetrope Studios e comincia subito a cercare e acquisire nuove tecnologie e nuovi canali per la produzione, la distribuzione e il consumo di audiovisivi (satelliti e video ad alta risoluzione).

La posta in palio è la realizzazione del sogno di ogni regista: il controllo totale del film, dalla produzione allo sviluppo alla distribuzione. A rischio ci sono la propria fortuna e la propria reputazione, oltre che il destino di una generazione di registi, nati ed educati nelle università di cinema, ed esplosi per la maggior parte dopo l’uscita del Padrino96.

Entrambi i processi, cioè le fusioni tra gli Studios e la strada seguita da Coppola, sono tentativi di superare la crisi che affligge il cinema hollywoodiano, insidiato dalle nuove forme di intrattenimento popolare. Se l’accorpamento tra Studios rappresenta la naturale espressione dell’evoluzione dell’economia occidentale, fatta di integrazione in grandi gruppi con diversificazione dei prodotti, la scelta di Coppola produrre i suoi stimoli in direzione del corpo dello spettatore, arsenale che sembra talora rivestire più importanza del contenuto del film» 94 Come esempio su tutte basti citare la Sony, oggi proprietaria di Columbia e Tristar. 95 E’ storia abbastanza nota di come nel 1970, Coppola fu costretto a chiudere la Zoetrope dopo che i dirigenti della Warner, alla visione di THX-1138 (La fuga di Logan) di George Lucas, rescissero il contratto, obbligandolo alla restituzione dei soldi versati. 96 J. Lewis, Whom God Wishes to Destroy, Athlone press, London 1995, citato in V. Buccheri, Sguardi sul postmoderno, I.S.U., Milano 2000, p. 124.

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percorre una strada che appare come il retaggio dell’utopia “sessantottesca” dell’autogestione, dell’indipendenza. Saranno quattro i film prodotti dalla Zoetrope prima della messa all’asta nel 1983: One from the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982); The Outsiders (I ragazzi della 56a strada – 1983); Rumble Fish (Rusty il selvaggio – 1983); Cotton Club (Id. – 1984).

In questi film, Coppola vive la sua fase più sperimentale, alla ricerca dell’opera programmatica e gli esperimenti sono molteplici: in One from the Heart è forte il ricorso alle tecniche della videoarte e dell’elettronica; le vignette dello storyboard vengono accoppiate ai paragrafi della sceneggiatura, trasferite su video, sonorizzate con le voci degli attori che leggono le battute come in un dramma radiofonico e infine rigirate sotto forma di polaroid con gli attori in posa davanti al set; in un secondo tempo, tutto il girato in 35 mm viene sviluppato e trasferito su un videotape per il premontaggio.

Nei due film successivi, le sperimentazioni di Coppola non sono meno rilevanti; The Outsiders e Rumble Fish, entrambi tratti da romanzi di Susan E. Hinton, sono realizzati quasi contemporaneamente, utilizzando lo stesso set e riadattando volti, scenografie, atmosfere. In pratica Coppola gira quasi lo stesso film in due versioni opposte, il primo a colori, distribuito in tutti gli USA in moltissime sale, con intenzioni decisamente commerciali e rivolto ai più giovani, mentre il secondo è in bianco e nero e viene proiettato solo nelle grandi città, come prodotto sperimentale rivolto a un pubblico di cinefili.

Rusty il selvaggio, lo si vede subito, è una storia di disillusione. L’ideale, una volta incarnato, delude. Idolatrate, le star si rimpiccioliscono (ricordatevi di Kurtz-Brando in Apocalypse Now). Tutto ciò è normale. Un regista intenzionato a rivedere i poteri dell’illusione del cinema ha bisogno di credere che il mondo (il mondo “vero”) sia già un’illusione. Un mondo fatto di apparenze, di ammiccamenti del cielo e di false evidenze della terra […]. Il mondo, in fondo, quasi non esiste. Il regista ne trita la materia per recuperare un po’ della sua anima97.

Cotton Club, infine, porta a termine il progetto di Coppola di rifondare la realtà e pratica quella commistione di generi che sarà una costante degli anni Ottanta. Qui musical e gangster film si fondono dando un grande affresco dell’America sognata al cinema. 97 S. Daney, Rusty James, «Libération», 15 febbraio 1984.

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Intrecci e scambi tra cinema e video, tra arte e mercato, tra stili d’autore e strutture di genere: coppola si muove in una poetica dichiaratamente postmoderna, e i problemi che mette in campo sono gli stessi cui, nello stesso periodo, cercano di rispondere anche gli Studios hollywoodiani. E’ la prospettiva, invece, a essere di nuovo rovesciata. Coppola forza i tempi e i modi, insegue un postmoderno tutto di testa, teorico e progressista, che non parte dal basso ma dall’alto, dall’esterno e non dall’interno dell’industria culturale. Il suo presupposto rimane romantico e utopico, capace di anticipare l’aria dei tempi, ma lontano dalla concretezza dei processi economici e sociali: è il sogno di fondere in una sorta di wagneriana «opera d’arte totale» l’autorialità europea con quella americana, il classicismo con la modernità, l’avanguardia con il prodotto di massa98.

Dopo la tentata rifondazione e il fallimento dell’utopia della Zoetrope, il Coppola della seconda metà degli anni ’80 entra in una fase che può essere inquadrata nel concetto, definito da Fredric Jameson, del “nostalgia film”99. Dopo il 1985 le cose sono rapidamente mutate; le Majors sono sparite del tutto, sono ora delle mescolanze mediali colossali che fanno dell’entertainment la loro attività di punta. Ted Turner, magnate della tv via cavo, acquista la MGM, Rupert Murdoch la 20th Century Fox, la Sony la Columbia e la Time la Warner. Ormai il cinema è anche videogame, pubblicità, giochi di ruolo per un pubblico sempre più giovane.

La Zoetrope è invece una semplice casa di produzione e Coppola, segnato anche dalle vicende familiari100, gira film che sono delle vere e proprie elegie: ripiegamento sul passato, ricordo, rimpianto, elaborazione del lutto e dei propri sogni infranti in una commistione tra vicende familiari e professionali. Se prima predominava la vitalità e l’incoscienza giovanile, ora traspare evidente la maturazione, la coscienza 98 V. Buccheri, Sguardi sul postmoderno, I.S.U., Milano 2000, p. 127. 99 Il concetto di «nostalgia film», secondo Fredric Jameson rappresenta la mercificazione della storia. Egli asserisce che il postmoderno è la cultura dominante del capitalismo delle multinazionali e delinea due caratteristiche di postmoderno. La prima è che il postmoderno è la cultura del pastiche, da non confondersi con la parodia. Quest’ultima ha comunque un senso, un motivo mentre il pastiche è una «parodia vuota». I principali esempi che Jameson cita come esempi di film nostalgia Back to the Future (Ritorno al futuro – 1985), Peggy Sue Got Married (Peggy sue si è sposata – 1986), Rumble Fish (Rusty il selvaggio – 1983), Angel Heart (Ascensore per l’inferno -1987), Blue Velvet (Velluto blu – 1986). Per gli americani gli anni ’50 sono non solo un periodo di prosperità, ma l’era del sogno perduto. Quei film non sono solo la ripresa di quello stile ma il recupero dei sentimenti e delle sensazioni di quell’epoca. La seconda caratteristica è detta da Jameson della «schizofrenia culturale». Il termine è mutuato da Lacan che lo utilizza per indicare un disturbo del linguaggio, un fallimento della relazione temporale tra significanti. Il cinema della nostalgia è caratterizzato da questa schizofrenia culturale che vive il tempo come un perpetuo presente. Quindi film bloccati nel loro presente come quelli della nostalgia soffrono, secondo Jameson, di «amnesia storica». 100 Nel 1986 un figlio, Roman fonda una compagnia commerciale a basso costo, la Commercial Pictures, quasi a sconfessare le idee paterne, mentre un altro figlio, Gian Carlo, muore nel 1986 in un incidente di off-shore.

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meditata del tempo. Peggy Sue Got Married (Peggy Sue si è sposata -1986); Gardens of Stone (Giardini di pietra – 1987); Tucker, the Man and his Dream (Tucker, un uomo e il suo sogno – 1988); Life without Zoe (La vita senza Zoe – 1989) sono i film che conducono Coppola verso gli anni ‘90, che vedranno l’ultimo episodio della saga del Padrino (The Godfather part III – 1990) e Bram Stoker’s Dracula (Dracula di Bram Stoker – 1992). Quest’ultimo è considerato come uno dei migliori adattamenti vampireschi di sempre. Un Dracula che è la somma di quasi tutto il cinema “nocturno” di tutti i tempi.

Uno dei film più alti del decennio, oltre che uno dei più belli della filmografia coppoliana; struggente epopea di amore e morte, riflessione sul tempo e sull’eternità, saggio sulla natura del cinema e dell’illusione, impressionante per l’abilità con cui rinnova le forme visive e narrative, resuscitando l’incanto dello spettacolo delle origini (dalla stop motion alla colorizzazione alle ombre cinesi), rifiutando in blocco quella rivoluzione digitale che era appena cominciata101.

Dopo quei film Coppola dirada l’attività, limitandosi a poche direzioni dove con la sua maestria, riesce a valorizzare sceneggiature decisamente deboli; Jack (Id. – 1996) e The Rainmaker (L’uomo della pioggia – 1997). Ormai le sue attività sono le più svariate; dirige lo studio American Zoetrope ma è proprietario di vigneti e di resort di lusso. Di fatto non fa più il regista, anzi in pratica ha abbandonato il cinema.

Un po’ manager, un po’ idealista, un po’ politico e un po’ pubblicitario, Coppola è un regista che ha coltivato il mito del successo e insieme della sconfitta, della ricchezza e insieme della marginalità, del trionfo ma anche della morte del cinema. E’ l’ultimo artista totale del cinema americano e insieme una specie di performer concettuale, che si esprime più nei progetti lasciati in sospeso che nelle imprese effettivamente realizzate. E’ l’ultimo dei romantici e il più grande dei cinici. Dopo, altri registi verranno, ma saranno tutti nani sulle sue spalle102.

All’uscita di One from the Heart sia il pubblico che la critica furono

impreparati di fronte alla combinazione tra stravaganza visiva e stile narrativo dei musical di Broadway. Di fatto il film è stato, all’epoca, responsabile del crack finanziario della casa di produzione di Coppola, la Zoetrope studio103. Tuttavia, in tempi più recenti la pellicola ha guadagnato l’attenzione degli studiosi che hanno riscoperto 101 Vincenzo Buccheri, Sguardi sul postmoderno…, cit., p. 127. 102 Ivi, p. 132. 103 Costato circa 27 milioni di dollari il film incassò, il primo weekend 389.249 dollari (dati IMDB) per un incasso totale che non arrivò al milione di dollari. Coppola impiegò più di vent’anni a pagare le spese.

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nel film i profondi aspetti innovativi di un esercizio cinematografico concettualmente e esteticamente raffinato.

La trama è elementare; Hank e Frannie, una coppia matura, decidono il giorno dell’Indipendenza di rompere il loro rapporto (cercando di raggiungere anche loro l’indipendenza), solo per arrivare alla conclusione che, una volta da soli e attraverso diverse vicende, non possono stare separati. Una storia estremamente semplice che combina ed enfatizza all’estremo le convenzioni più note del cinema classico, utilizzando il genere più popolare per antonomasia, il musical, proprio per dimostrare l’impossibilità del ritorno a quel modello e alle sue convenzioni. A Coppola non interessa la storia, non opera una semplice rievocazione attraverso delle citazioni; vuole letteralmente riscrivere il genere e per questo introduce delle innovazioni profonde e radicali. Se l’aspetto intrinseco del musical è la spettacolarizzazione del reale, l’utilizzo delle scenografie e delle coreografie per creare la dimensione onirica, in abbinamento a un uso delle canzoni e della danza come momenti qualificanti delle situazioni che da ordinarie, diventano straordinarie, One from the Heart fa proprie queste modalità e, anzi, esaspera scenografie e coreografie, recupera la musica, la danza, il canto.

Rispetto alla caratteristica, tipica degli anni Settanta, di “contaminare” il musical classico con gli elementi della realtà, Coppola opera esattamente al contrario, mettendo in scena un universo figurativo dove domina completamente il sogno, contrapposto a un quotidiano fin troppo prosaico. La scena iniziale, con la camera che scende dal cielo e segue le impronte di passi sulla sabbia di un paesaggio della Arizona, accompagnata dalla voce di Tom Waits e Cristal Gayle, è una sintesi di tutta la dimensione onirica del film, con Nastassja Kinski parte integrante della scena e del sogno, apparizione che scompare non appena Hank chiude gli occhi. Nel momento in cui la tradizione è svuotata di ogni significato dalla ripetizione automatica di strutture ripetute in modo esasperante, la risposta di Coppola è provare a rivitalizzare le configurazioni di base del musical, rinnovandole dal suo interno.

Questo rinnovamento non può che passare dalla musica e dal canto mediante il ripristino del legame tra parole delle canzoni ed eventi della storia; la novità rispetto al musical tradizionale è che non sono i personaggi a pronunciarli e a esserne i materiali esecutori. Se fosse stato così, inevitabilmente, si sarebbe creato l’evento

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straordinario, si sarebbe realizzata la continuità fra musica e vita quotidiana, ovvero proprio quel passaggio dal gesto quotidiano al gesto coreutico, mirabilmente rappresentato da Gene Kelly che danza per strada sfidando le intemperie. Coppola mantiene la dimensione di evento al livello ordinario, normale (la normalità quotidiana di un lavoro con poche soddisfazioni, di un amore ormai spento, il monotono ripetersi dei festeggiamenti di un anniversario). Nonostante siano materialmente al di fuori dell’azione, musica e canto partecipano agli eventi e riescono a esserne parte integrante.

Allo stesso tempo però fanno anche qualche cosa di più – e di più significativo ancora: denunciano, enunciandola esplicitamente, la natura metalinguistica dell’operazione. In apertura, ancor prima dei titoli di testa, quando, mentre un sipario si apre sullo spettacolo (sul sogno), enunciano la formula di rito: once upon a time. C’era una volta – qui e ora – la storia di Franny e Hank, dei loro amici Mag e Moe, delle loro avventure col pianista Raymond e con la ragazza del circo Leila. Ma c’era una volta anche – altrove (prima) – il musical, le sue configurazioni peculiari; musica, canto e danza, certo, ma anche scenografia, struttura (intreccio), personaggi, sentimenti: il suo spazio104.

Lo spazio materiale, prima di tutto. Gli esterni della città, la scenografia urbana sono il luogo destinato allo spettacolo, alla dimensione del fantastico e del sogno. Gli interni, al contrario, sono il teatro del quotidiano, dell’abitudinario; l’immagine domestica è stilizzata e monotona, scialba. Sono questi i luoghi dove si rappresenta il commento corale delle canzoni, mentre gli esterni, in gran parte spazi urbani fantastici sono quelli dove si può danzare: la Bora Bora del sogno di Franny e Raymond è richiamata da scenari tropicali palesemente fittizi come tutto il paesaggio urbano di Las Vegas completamente ricostruita in studio come un immenso palcoscenico.

Quando la scena si sposta nel deserto, lo scorcio ricostruito è teso non a rappresentare il tangibile, ma a distruggere ogni idea di realtà, come un avviso, un avvertimento riguardo il nuovo corso della rappresentazione, la scenografia del musical classico era funzionale alla metamorfosi in danza e sogno di ogni rappresentazione naturalistica, One from the Heart elimina a priori tale naturalismo; la Las Vegas del film assume come propria la caratteristica del musical di rappresentare la città attraverso la sua assoluta spettacolarizzazione, portata ai massimi livelli possibili di astrazione e 104 E. Dagrada, Remake Musical…, cit., p. 59.

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privandola di ogni connotazione realistica. Tutto risulta ancora più evidente se rapportato all’estremo livello di concretezza della realtà quotidiana, oltremodo prosaica, che invece delinea gli spazi interni. Questa contrapposizione dialettica e di immagini, è alla base dello spazio materiale del film che si fonde con quello del racconto, con le sue innovazioni e diventa una vera e propria mappa, un percorso urbano composto di incontri, scambi equivoci, incroci.

L’intreccio stesso è a sua volta un percorso all’interno del film tra sogno, realtà domestica, itinerari rurali e urbani. L’attraversamento di questo percorso definisce le relazioni tra i personaggi, determina l’evoluzione dell’intreccio, la sua stessa struttura. Vladimir Propp, identifica la funzione, ovvero l’operato, come «l’atto del personaggio, ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell’azione»105. Propp ha osservato che le fiabe si basano su un numero limitato di funzioni (“allontanamento”, “proibizione”, “violazione”); le funzioni, ovvero l’operato dei personaggi distribuiti simmetricamente, formano una struttura dell’intreccio che costituisce il modello di riferimento di One from the Heart: quello del musical classico degli anni Trenta, cioè i musical RKO interpretati dalla coppia Ginger Rogers/Fred Astaire.

Si trattava di opere basate su uno schema narrativo rigido costruito di norma su una coppia di innamorati, sovente accompagnati da una seconda coppia di amici o innamorati complementari, spesso ostacolati nelle loro trame amorose dall’intervento di una terza coppia di potenziali amanti. Questo schema a tre coppie, per una struttura a sei, tipico dei musical RKO, è il modello che il film mette in scena, con i personaggi che si alternano in modo simmetrico e continuamente variabile in relazione alla successione degli eventi che li allontana o li avvicina di volta in volta. La novità dell’opera di Coppola consiste nel fatto che il modello di riferimento ha il solo scopo di mostrarne la sua stessa vacuità, il suo fallimento. La coppia Astaire/Rogers ha rappresentato per anni il sogno di eleganza, raffinatezza e spensieratezza, lo stesso che Franny insegue in modo goffo sullo sfondo di immagini di spiagge volutamente artefatte in modo caricaturale (e che scompaiono al tramonto) con colori degni della tradizione dei più scintillanti musical di Vincente Minnelli.

105 F. Muzzioli, Le teorie della critica letteraria, Carocci, Roma 2007, p. 92.

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Proprio in quegli atteggiamenti goffi e in quei palmizi finti è contenuta l’essenza del film. Riprendere un modello non come puro e semplice remake, ma per mostrarne l’altro, dopo averlo decostruito e attualizzato non nella struttura ma nei personaggi:

Come Franny e Hank (Mag e Moe…) rispetto ai loro predecessori – a ciò che essi stessi erano prima, nel tempo. In questa prospettiva allora One from the Heart non è solo un ipotetico remake del musical classico, ma è anche la ripresa di quel musical di cui adotta la struttura come modello per intervenire su di essa modificandola dall’interno, aggiornandola a «qualche tempo dopo». […] E’ in questa rivendicazione formulata all’interno di un’impalcatura scenografica e strutturale assolutamente – eccessivamente – rispettosa nei confronti dei dettami della tradizione, che risiede l’importanza del film, la sua originalità e forza innovativa. In un genere in cui il fondamento ontologico ha sempre coinciso con la rappresentazione figurativa e non, di un universo altro rispetto al reale. One from the Heart, rispettando i modelli strutturali e iconografici di partenza e tuttavia riuscendo a dire qualcosa di più, di diverso, perviene così a rinnovare il genere dall’interno106.

One from the Heart è anche considerato un processo alla società basata

sull’immagine e sul denaro che ha caratterizzato l’America degli anni Ottanta durante i due mandati di Ronald Reagan107. Coppola coglie i segnali del cambiamento dell’America che sta cercando di liberarsi dalle ansie del decennio precedente, provando a scacciare i fantasmi della guerra del Vietnam e la congiuntura economica che la crisi del petrolio aveva scatenato negli anni Settanta. Reagan con le sue doti retoriche e carismatiche, che gli valsero la definizione di “grande comunicatore”, seppe recuperare gli aspetti caratteristici della filosofia pubblica statunitense: il senso della “missione religiosa”, il recupero del passato statunitense e della sua forza. Tutto questo ebbe enorme presa sulla nazione e gli valse una vittoria schiacciante nel 1984, al suo secondo mandato.

La politica economica di Reagan fu “antistatalista”; strenuo oppositore del welfare state, tagliò sostanzialmente la spesa sociale, ma, soprattutto, operò un 106 E. Dagrada, Remake Musical…, cit., p. 62. 107 Ottenuta una schiacciante vittoria sul presidente democratico uscente Jimmy Carter, Reagan creò un modello di conservatorismo populista che si reggeva sulla sua capacità di comunicazione, si fondava sulla sua fede nei valori semplici della tradizione ed era esaltato dal mezzo televisivo, che gli consentiva di trasmettere con battute brevi e dirette un'immagine di forza, di calore e di fiducia. L'opinione pubblica, scossa dagli insuccessi internazionali degli anni Settanta, da una grave crisi economica e dalla rivoluzione in corso dei valori, trovò in Reagan il simbolo di certezze alle quali non intendeva rinunciare e gli rimase affezionata e fedele in entrambi i mandati.

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massiccio cambiamento della filosofia pubblica statunitense. Durante l’era Reagan si svilupparono, con l’ausilio delle moderne tecnologie elettroniche delle sofisticate tecniche di marketing; in nome di un ideale di capitalismo estremo, si impose un modello sociale basato sul potere del denaro e dell’immagine108. In questo senso, la scelta di spostare la storia da Chicago, com’era nella sceneggiatura originale, a Las Vegas trova spiegazione nel fatto che Las Vegas, in quel momento storico più di ogni altro periodo, rappresentava «a metaphor of America itself»109 come simbolo del trionfo del capitalismo e della ricerca della ricchezza oltre ogni cosa. Las Vegas, inoltre, è il luogo dove il fondamento del sogno americano, cioè il raggiungimento della ricchezza attraverso il lavoro, è sconfessato dalla possibilità di arricchirsi in pochi istanti con il gioco d’azzardo, che però non ha certezza di riuscita.

Coppola mette le dinamiche del gioco sullo stesso piano di quelle amorose e, quindi, Las Vegas assume il ruolo supplementare di metafora dell’amore. Sono questi due livelli di lettura, quello amoroso, funzionale alla storia, e quello sociale, di lettura della società americana del tempo il motivo conduttore dell’intero film. Las Vegas, città dei sogni dove tutto è possibile, epitome dell’iperreale, dove esiste la replica di Venezia o delle piramidi, dove ogni cosa è possibile, dove la riproduzione va a colmare il desiderio dell’originale, più e meglio della realtà stessa. Coppola, però, non filma questa Las Vegas simulacrale; la scelta del regista è di re-inventare e costruire la sua Las Vegas, o meglio la Las Vegas della sua mente. Coppola voleva una città «lucente, luminosa e ancor più esteticamente connotata»110 di quanto fosse la città reale e così costruisce una città virtuale basata su un modello reale che per sua stessa natura è una copia.

Proprio attraverso l’enfasi degli aspetti più sfavillanti si svela la falsità intrinseca del reale preso come modello. Qui il doppio livello è tra la città costruita sul modello reale ma un reale di per sé copia, rappresentazione. La città scintillante, piena di insegne al neon, di manifesti pubblicitari multicolori, rumorosa, piena di movimento, conduce l’immaginazione verso una idilliaca visione di felicità. Secondo Baudrillard, la 108 La definizione di questo periodo: “edonismo reaganiano”, che nacque come una boutade comico-pseudo- filosofica in una nota trasmissione della tv italiana degli anni ’80, è oggi il termine con cui anche in saggi autorevoli viene inquadrato storicamente il decennio. 109 M. Schumacher, Francis Ford Coppola: a Filmaker’s Life, Bloomsbury Publishing, London 2000, p. 279. 110 H. Rothmann e M. Davis, The Grit beneath the Glitter: Tales from the Real Las Vegas, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 2002.

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ricerca della felicità fornisce una spinta al consumismo111. Per questo la felicità, diventando qualcosa di misurabile e materiale, nel mondo postmoderno ha bisogno di essere rappresentata attraverso segnali e stimoli, non può essere ricercata individualmente.

Nel caso di One from the Heart, i segni sono quelli che arrivano dalla colonna sonora di Tom Waits, extradiegetica, che interviene nell’immagine per trasportare gli spettatori verso i sentimenti e le emozioni112, dai scintillanti neon, dai grandi manifesti pubblicitari, dalla rappresentazione di località esotiche. Vivere in un mondo fantastico permette ai due protagonisti principali di negare la realtà, che nel loro caso non è delle migliori. Baudrillard attribuisce questo stato di cose alla forte influenza che il valore dei segni [cioè quello che chiamiamo tendenze, mode], ha assunto nella società contemporanea.

Nel suo La società dei consumi, miti e strutture, Baudrillard osserva che i segni della società che sta cambiando si manifestano attraverso la perdita della spontaneità nelle relazioni umane, la graduale sostituzione delle pratiche ludiche e combinatorie con segni [clichè] culturali a costruire una cultura dei simboli; la realizzazione dei rapporti attraverso le tecnologie piuttosto che con le normali relazioni; la sessualità come una merce visualizzabile piuttosto che espressione dei desideri sessuali basilari, la sostituzione del senso comune con l’individualismo. Frannie e Hank tentano di evadere dalla realtà alla ricerca del loro compagno dei sogni, ma il romanticismo, che appare così sfavillante, non è che un insieme effimero di luci e colori.

La felicità che ricercano con una trapezista (Hank) e con un suonatore di pianoforte (Frannie), mette in ombra la loro relazione che, essendo reale, non può competere con l’eccitazione e l’attrazione di un amore idealizzato, sognato. Las Vegas quindi non è la città delle relazioni interpersonali, le scene notturne dominano facendo risaltare le insegne al neon che evidenziano all’estremo il palcoscenico seducente di cui è costituita, ma al contempo delineano il senso di solitudine che è proprio nei luoghi. Quando Las Vegas non riesce più a colmare i vuoti individuali, in One from the Heart, 111 J. Baudrillard, America, SE, Milano 1989. 112 La colonna sonora è composta di 12 canzoni, tutte composte da Tom Waits appositamente per il film e sono eseguite dallo stesso Waits e da Christina Gayle. Nonostante il clamoroso flop al botteghino del film, le musiche sonora ebbero una nomination agli Academy Award come colonna sonora originale. E’ tutt’ora considerata una delle migliori “original soundtrack” di sempre.

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c’è sempre il soccorso di un’immagine di sogno, per esempio attraverso il dépliant di un’agenzia di viaggi che indica una possibilità di fuga (Bora Bora), l’ennesima illusione del film.

L’immagine di Las Vegas città dei divertimenti è portata all’estremo da Coppola facendo ricorso a un sovraccarico di immagini e stimoli che trasformano la città in un palcoscenico dove la musica è un elemento sempre presente113.

Coppola cerca di colpire in tutte le direzioni, guarda indietro alla meravigliosa epoca degli studios e in avanti con il suo esperimento di laboratorio, manda un messaggio ai suoi contemporanei e si innamora di una Las Vegas ancor più artificiale della vita reale e quindi vera. I suoi personaggi cercano la fortuna in questa favola elettronica. […] Lo sguardo elettronico di Coppola viene da lontano e cade da una grande altezza. Troppo grande, forse. Che accade laggiù? Un luminoso punto scintillante in Nevada: Las Vegas. E quale mini-apocalisse sta mettendo sottosopra vite umane? Un fatto semplicissimo, durante la sera del 4 luglio, Hank e Fanny, che vivono insieme da cinque anni, hanno una lite cui fa seguito per tutti e due un’avventura con un altro/a e in lacrime si riconciliano in extremis. È una storia che ritorna indietro al punto di partenza. One from the heart è uno spettacolo di luci e suoni, un Son et lumiere, un piccolo angolo di teatro del boulevard, osservato da una navicella spaziale. «Casa Coppola» vista da Marte. One from the heart è anche un musical. C’è una voice-over cantante e delle danze approssimative, ma le deboli emozioni, l’illuminazione rossa e verde, il modo in cui l’ambiente rischia costantemente di cancellare i personaggi, creano una situazione che non è troppo lontana da un maestro del genere, Vincente Minnelli. I riferimenti di Coppola sono infatti Brigadoon (Id. – 1954) e The Clock (L’ora di New York – 1945), da cui il regista ha attinto a piene mani. Tranne che nei film di Minnelli gli ambienti e i personaggi appartenevano allo stesso mondo, sulla stessa lunghezza d’onda, reciprocamente incantatii. Cantando e danzando riescono miracolosamente a illuminare la scena, incoraggiano la camera a muoversi. Fred Astaire potrebbe danzare sul soffitto o insieme a un attaccapanni. Liberarsi dalla gravità era l’unico modo per rimanere svegli nel suo sogno. Ma questo fu prima: prima dei video, prima di Coppola, prima ogni cosa era già movimento e nessuno sapeva ballare […]114.

113 La Las Vegas del film sembra corrispondere anche a quello che Augè definisce come «[…] uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi a «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico. […] luogo e non luogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente; palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione. Tuttavia i nonluoghi rappresentano l’epoca, ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra superficie, volume e distanza- […]». Marc Augè, Non-lieux, Edition du Seuil, 1993, trad. It. nonluoghi, eleuthera, Milano 1993 - 2009, p. 77. 114 S. Daney, One from the Heart, «Liberation» 1982, (trad. mia).

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Una dimostrazione è data nella scena in cui Leila, la trapezista, danza intorno a un gigantesco bicchiere da cocktail, decontestualizzandolo115 dalla sua funzione originale e inserendolo come elemento della messa in scena. Oppure quando sempre Leila esegue esercizi al trapezio sopra una discarica e Hank mima i gesti di un direttore d’orchestra composta non di musicisti ma di rottami d’auto, il tutto sullo sfondo delle onnipresenti luci al neon della città.

La scena dei rottami - musicisti è probabilmente il momento in cui il film raggiunge l’apice dell’incredulità. Abbiamo visto come la musica, nel film, sia l’elemento che veicola alle emozioni ma la sua funzione non si esaurisce qui. In una palese analogia con i cori Greci, le canzoni di Waits e Gayle introducono alle azioni successive, stabilendo un profondo collegamento tra i personaggi e il pubblico. Coppola, ligio alla regola aristotelica della Poetica che vuole che il coro debba essere considerato come uno degli attori, è uomo di spettacolo attento agli sviluppi tecnologici e alle possibilità che le stesse permettono e riesce perciò a integrare quella regola con un uso delle immagini combinato con la musica che ricalca lo stile dei video musicali che negli anni ’80 avevano fatto la loro apparizione in televisione attraverso l’emittente MTV (che cominciò le trasmissioni nel 1981). One from the Heart è denso di influenze di questo tipo, al punto da far affermare che la colonna sonora sembra «have the effect of making the film sometimes seem more like a series of music videos than a unified narrative»116, arrivando a far pensare che Coppola apprezzi e condivida l’influenza che MTV, con le sua nuova e particolare concezione dell’immagine visiva, stava avendo sulla cultura popolare americana.

Questo particolare tipo di immagini con finalità altamente commerciali (i video musicali nascevano per far vendere), realizzati con l’utilizzo di elaborazioni digitali, erano specificatamente indirizzati a un pubblico giovane, secondo una formula che raffigurava e definiva lo stile di vita americano (American way of life) secondo 115 La decontestualizzazione di un oggetto attraverso l’enfatizzazione delle sue dimensioni è una delle caratteristiche più note di Las Vegas. Per esempio, le grandi dimensioni delle insegne al neon in relazione alle costruzioni o, per contrasto, le piccole cappelle dove è possibile contrarre matrimonio in 24 ore, vicino ai giganteschi casinò grandi come cattedrali. 116 «[la colonna sonora] sembra talvolta avere l’effetto di rendere il film come una serie di video musicali più che come una storia unitaria». S. Gaggi, From Text to Hypertext: Decentering the Subject in Fiction, Film, the Visual Arts, and Electronic Media. Philadelphia: University of Pennslvania press, 1998, citato in “Viva Las Vegas! City, Stage avnd City-Stage in Francis Ford Coppola's One from the Heart” (Co-auth: Luísa Sol). Int. Conf. Changing Times: Performances and Identities on Screen, U Lisboa, 7-9 Nov. 2012.

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canoni ben definiti di moda, marchi, musica, cinema, giochi. La scena della danza di Ray e Frannie, tenendo presente le relazioni tra l’immaginario e la realtà, spicca tra i momenti più eclatanti dell’intero film. Cominciando come una danza, al chiuso, tra i due personaggi, rapidamente acquisisce una dinamica propria e, quando i due escono in strada, coinvolge sempre più persone che insieme danzano celebrando il 4 luglio. La scena, caratterizzata da una minuziosa organizzazione, ricalca una formula convenzionale utilizzata in diversi video musicali117.

Vittorio Storaro è stato, insieme a Ron Garcia, l’artefice della fotografia del film; in un’intervista del 1984, ricorda come operò sul set One from the Heart.

C’è una scienza che studia le reazioni fisiche del corpo umano alle radiazioni, a certe lunghezze di radiazioni elettromagnetiche. Queste non sono cose che ho scoperto io. Esistono persino studi sul piano terapeutico. E questo era un film fatto di emozioni, di reazioni proprio sul piano emotivo. Poi c’era il luogo in cui si svolgevano gli avvenimenti descritti, la città di Las Vegas, che probabilmente è stata costruita da persone che avevano capito questo tipo di reazioni del corpo umano, abituato da millenni a essere colpito da un certo tipo di radiazioni – la luce del giorno – che creano uno stimolo di attività; e al cessare di esse un senso di irradiamento del corpo umano tramite la luce e il colore, perché la notte sia come il giorno. Il tutto per far continuare un’attività, il gioco, al punto che hanno colorato tutte le vetrate, le finestre di Las Vegas di blu per non far sentire - quando si è dentro a questa gabbia – che fuori può esistere una vita basata sul giorno. Quella di Las Vegas è invece una vita basata sulla continua attività, su un tempo che è quasi interrotto. Questa cosa mi aveva abbastanza colpito nella mia prima visita a Las Vegas: quindi mi è sembrato opportuno applicarla alla storia del film. Tanto più che andavamo a ricostruire una nostra Las Vegas e una nostra storia con un modo di narrare fantastico, non realistico: così ho applicato la fisiologia del colore come principio fotografico alla storia del film118.

Il film riesce a catturare lo stato d’animo dell’America degli anni Ottanta,

che sta muovendo verso la simulazione estrema, dando priorità all’apparenza. Attraverso l’enfatizzazione di tutto ciò che è immagine e sogno in una città come Las Vegas che è già nella realtà la capitale dell’effimero, il significato che One from the Heart rivela, neanche troppo implicitamente, è quello di un’America e dei suoi abitanti

117 Thriller di Michael Jackson’s, Dr. Beat dei Miami Sound Machine, Dancing on the Ceiling di Lionel Ritchie, solo per citarne alcuni. 118 C. Bragaglia, Segno speciale, immagini elettroniche, in «Segno cinema» n. 4, aprile 1983.

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che sono essi stessi prodotto dell’industria dei divertimenti119. Probabilmente, il motivo principale dell’insuccesso al botteghino di One from the Heart va ricercato proprio nell’impietosa denuncia di un assenza, l’assenza di contenuti dell’America del periodo reaganiano, rappresentata attraverso la deliberata mancanza di contenuti del film.

119 Non è strana una lettura di questo tipo se si considera che, durante l’era Reagan, ci fu un impulso fortissimo al potere dell’immagine, attraverso il cambio della cultura popolare, rimodellata in funzione del nuovo mito edonista, al punto che Jane Feur arrivò a dire che «Reagan fu lui stesso un’immagine».

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One From the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982)

La “vera” Las Vegas

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One From the Heart, La scena finale del ballo

One From the Heart, Nastassja Kinski e la scena del bicchiere

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2.3 Pennies From Heaven; fine del musical (o nuovo inizio?). Il musical cinematografico degli anni Settanta e Ottanta, se non è l’adattamento di un successo di Broadway, tende a collocare «i numeri musicali su un palcoscenico, così come avveniva nella fase iniziale, oppure nella mente dei propri personaggi»120. Questa seconda categoria trova la sua massima espressione nel film di Herbert Ross Pennies from Heaven (Spiccioli dal Cielo – 1981), che costituisce insieme la celebrazione e il testamento del musical del periodo d’oro, attraverso l’uso di soluzioni che saranno adottate a cavallo tra il secondo e il terzo millennio. Quando il film esce nelle sale121, da tempo il musical vive una profonda crisi che vede quasi sparita la sua forma classica, tipica degli anni Trenta. Non è un caso che questo avvenga negli anni Ottanta, in concomitanza con la fine dello studio system, smantellato nella sua struttura originale che durava da cinquant’anni. Rispetto a quel periodo, ma anche rispetto a opere considerate “ibride” come West Side Story, il musical è ora quasi del tutto funzionale alle esigenze dell’industria musicale122. Pennies from Heaven non è un inedito cinematografico, il film è ispirato alla serie tv della BBC123 dal titolo omonimo, realizzata da Dennis Potter124 che, sebbene in Italia sia un autore praticamente sconosciuto, è una figura fondamentale per la storia della televisione, non solo

120 R. Scognamiglio, Aspetti del musical … ,cit., p. 142. 121 Il film non è mai uscito in sala in Italia. Ci sono stati vari passaggi televisivi a tarda notte, sia con il tiolo originale che con quello italiano. 122 Strada aperta dalla serie di film con protagonista Elvis Priesley. 123 Nell’originale la vicenda di Arthur Parker (Bob Hoskins, Steve Martin nella versione cinematografica) è ambientata nei sobborghi di Londra a metà anni ’30 mentre nel film l’azione è spostata a Chicago nel 1934. 124 Dennis (Christophes George) Potter (1935-1994) è considerato una delle figure di maggior rilievo nella storia della televisione britannica. Nato in una comunità di minatori di Berry Hill (Forest of Dean), si laureò ad Oxford nel 1959 in Ppe (Philosophy, Politics and Economics) ed entrò nella BBC Documentaries Department. Intraprese la carriera di critico televisivo e di drammaturgo in seguito alla comparsa di un’invalidante forma di artropatia psoriasica che, sebbene attenuatasi nel corso degli anni, non lo abbandonò per il resto della vita (e della quale rimane traccia ingli anni, non lo abbandonò per il resto della vita (e della quale rimane traccia in uno dei lavori più celebri, The Singing Detective, del 1986). Al fallimento della sua candidatura al Parlamento (1964), per il Partito laburista, seguono i primi successi come drammaturgo televisivo (1965), con le autobiografiche Nigel Barton Plays. Personalità controversa per antonomasia, Potter attirò su di sé stima profonda e aspre critiche per i contenuti provocatori di alcuni Plays. La sua vocazione al medium televisivo si espresse come volontà di creare una forma d’arte accessibile a un pubblico socialmente variegato. Tra i suoi capolavori Double Dare (1969), Moonlight on the Highway (1969), Son of a man (1969), la trilogia formata da Pennies from Heaven (1978), The Singing Detective (1981) e Lipstick on your collar (1993), Blue Remembered Hills (1979), Karaoke (1996) e Cold Lazarus (1996).

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britannica125. Il film di Herbert Ross, sceneggiato dallo stesso Potter e la serie tv da cui è tratto, nonostante il quasi anonimato che hanno avuto Italia, rappresentano un capitolo fondamentale della storia del musical cinematografico, non solo per i contenuti ma anche per la struttura drammaturgico-musicale.

La televisione parrebbe, per sua stessa natura un medium naturalista per eccellenza mentre il musical è forse la forma più anti-naturalista nella storia del cinema. Allora come si conciliano le due cose? Per comprendere meglio come si sia potuto realizzare questo interscambio bisogna conoscere i caratteri dell’estetica del programma televisivo secondo Potter, ovvero quella caratteristica che lui stesso definisce la ricerca della «increspatura nell’acqua stagnante del naturalismo»126. Un aiuto alla comprensione del fenomeno si ha se si prova a riscoprire i fermenti culturali che negli anni ’60 attraversano la BBC e che saranno concentrati nel manifesto di Troy Kennedy Martin Nats go Home127

Il Naturalismo – secondo Kennedy Martin – rendeva il television drama «un figlio illegittimo del teatro utilizzato come ripiego» ed egli era invece a favore di «una sorta di espressionismo» che metteva a sua volta in relazione con la «narrazione visiva», considerando un realismo dinamico in opposizione a un naturalismo prescrittivo. Quest’enfasi sul narrativo piuttosto che sul puramente descrittivo – l’attivo opposto al passivo – si riallaccia chiaramente a Lukács e Brecht e come tale, sebbene presentata come una preoccupazione essenzialmente stilistica, rappresenta un’implicita presa di posizione politica. Tale forma di realismo drammatico, opposto com’era al naturalismo, è ora noto come non-naturalismo, tecnica che utilizza espedienti i quali creano paradossalmente un accresciuto senso di realismo, in particolare attraverso il processo di «defamiliarizzazione»128.

I contenuti, innanzitutto, non sono quelli tipici del musical classico; la vicenda lugubre, fatta di tradimenti stupri e omicidi129 e la struttura narratologica di 125 In proposito cfr. http://www.yorksj.ac.uk/potter/biog.htm del sito Clenched Fist, The official Dennis Potter web site. 126 La parafrasi di questa espressione potteriana è utilizzata da R. Scognamiglio in Pennies from Heaven dalla televisione al cinema: la doppia sfida” musicale di Dennis Potter in «Musica realtà», n. 3/2005 Libreria Musicale Italiana, Euresis Edizioni, p. 51. 127 Cfr. T. Kennedy-Martin, Nats Go Home: First Statement of a New Drama for Television, Encore (London), March-April 1964. 128P. A. Ferguson, Dennis Potter: Showing ‘The Very Age of the Time His Formand Pressure’, www.jstor.org/stable/469322. 129 Nella versione televisiva del 1978, Arthur Parker è un song-salesman che vive nell’Inghilterra degli anni Trenta, costantemente insoddisfatto per i suoi insuccessi in affari e per continui rifiuti della sua frigida moglie piccolo borghese, Joan. Durante uno dei suoi viaggi lungo la A40, da Londra a Gloucester, Arthur offre un passaggio prima e un pasto poi a una strana figura di suonatore ambulante, l’Accordion Man. Nella stessa circostanza conosce Eileen, una giovane maestra della Forest of Dean, che viene da lui

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Pennies from Heaven, presentano una scissione tra la sfera del racconto e quella del canto. Nel musical classico, questo passaggio viene realizzato di norma con un graduale inserimento di un’introduzione strumentale sui dialoghi e sottolineato da segnali profilmici e filmici come variazioni evidenti dell’illuminazione, utilizzo di filtri speciali e, soprattutto, con il ricorso allo sguardo in macchina da parte dei personaggi, per stabilire un rapporto dialettico, idealmente teatrale, con il pubblico.

In Pennies from Heaven, invece, il momento dell’intonazione è allo stesso tempo originale e assolutamente televisiva grazie all’innovativo artificio del lip-synch130, ovvero l’uso di canzoni post-sincronizzate invece del tradizionale meccanismo del recitar cantando (prendendo in prestito la terminologia dell’opera per intendere la convenzione del musical classico dove i personaggi muovono le labbra mimando il canto e che, mediante la “sospensione d’incredulità” permette il proseguimento dell’azione attraverso il canto e la danza). Tecnicamente il lip-synch non è niente di più di un playback, ma la scelta registica di utilizzare registrazioni d’epoca, con tutti i difetti legati alla qualità tecnica dei sistemi di registrazione e dei supporti del passato, unita alla dissociazione di sesso e voce rende palese l’artificio e crea una situazione di disorientamento per lo spettatore131.

sedotta e abbandonata. Tornato a casa, Arthur– che in precedenza aveva tentato invano di ottenere un prestito bancario – convince la moglie a investire tutti i suoi risparmi per aprire un negozio di dischi, ma l’investimento si rivela fallimentare. Nel frattempo Arthur reincontra Eileen, la quale, in seguito alla gravidanza prodotta dal primo rapporto con l’uomo, è stata costretta a lasciare casa e lavoro e a prostituirsi. Ancora attratti l’uno dall’altra i due decidono di fuggire insieme, dopo aver devastato il negozio di dischi di Arthur. La fuga d’amore, tuttavia, assume ben presto connotati meno piacevoli, poiché Arthur diventa, suo malgrado, il maggior indiziato per lo stupro e l’assassinio di una giovane ragazza cieca (compiuto invece dall’Accordion Man). Catturato e processato, Arthur è ritenuto colpevole di tutte le accuse e condannato a morte mediante impiccagione. 130 Il termine lip-synch indica la situazione in cui l'artista mima il canto su una base pre-registrata. 131 In un interessante articolo apparso su «Reverse shot online», Nick Pinkerton definisce il lip-synch: “Un mezzo così toccante e così semplice che ci si domanda come mai sia occorso tanto tempo per scoprirlo”, e si chiede: «Era forse sempre lì, nascosto appena sotto la superficie delle idee base del genere?» (Cfr. N. Pinckerton, Cheap songs, http://reverseshot.com/novdec03/pennies.html). Un precedente in tal senso è ravvisabile in Singin’ in the Rain, nell’episodio dell’«invenzione del playback», in cui Cosmo (Donald O’Connor) muove le labbra mentre Kathy (Debbie Reynolds), nascosta dietro di lui, canta Good Morning. È curioso che da allora (1952) siano occorsi ventisei anni perché qualcuno intuisse le possibilità insite in un simile procedimento; solo di passaggio segnaliamo il caso singolare del filmopera Parsifal di Hans Jürgen Syberberg (1982), in cui il protagonista è interpretato dall’inizio alla metà dell’Atto II, quindi nella fase della inconsapevolezza, dall’attore Michael Kutter e successivamente, raggiunta la consapevolezza, dall’attrice Karin Krick. A entrambi dà voce il tenore Rainer Goldberg. (nota di R. Scognamiglio, Pennies from Heaven…, cit., p. 54)

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Pennies From Heaven, sia nella serie tv che nell’adattamento cinematografico132, rappresenta un tentativo di svolta del genere da cui trae ispirazione; il programma tv, che, cerca di rompere i limiti naturalistici imposti dal mezzo e la versione cinematografica, attraverso una connotazione quasi noir della vicenda e il citato processo di “defamiliarizzazione” di Kennedy Martin, indicano le risposte possibili alla crisi del musical classico, ovvero alla crisi dell’onirismo di cui il genere era ammantato.

Il film, diretto da Herbert Ross133 con la sceneggiatura di Potter, nonostante le critiche contraddittorie e lo scarso successo di pubblico, ha rappresentato la fonte di ispirazione per lavori che hanno avuto ben altra fortuna, su tutti Dancer in the Dark (Id. – 2000) e Chicago (Id. – 2002) che ne ricalcano la struttura drammaturgico musicale e i contenuti tetri. Dall’approfondimento delle fonti musicali dalle quali le due rappresentazioni attingono, emerge una netta dicotomia. Accanto a molti popular song degli anni Trenta, fanno da contrasto alcuni tra i più significativi esempi di musica popolare religiosa in lingua inglese del XIX e XX secolo: Rock of Ages, The Old Rugged Cross e All Things Bright and Beautiful134. Le due tipologie musicali, in apparente contrasto ma in realtà complementari, rappresentano la diatriba tra la cultura di massa dei popular song e la folk art che caratterizzò il panorama musicale dell’Inghilterra degli anni ’30. Erano infatti anni in cui attraverso le radio e l’industria discografica la musica popolare era in costante ascesa a discapito dei repertori popolari 132 Va tenuto presente che, per evidenti necessità di sintesi (dai 477’ della serie tv si passa a 108’) e altre necessità narrative, tra il film e l’originale televisivo ci sono cambiamenti che riguardano i titoli, il numero e la dislocazione delle canzoni. 133 Herbert Ross. - Ballerino, coreografo e regista statunitense (Brooklyn 1927 - New York 2001). Allievo di D. Humphrey, debuttò a Broadway con coreografie presso il New York coreographers workshop (1950), specializzandosi subito nel musical e nelle danze per film (Carmen Jones, 1954; Funny girl, 1968). Ideò coreografie per l'American Ballet Theatre e per il Festival dei due mondi di Spoleto (1959). Regista cinematografico dal 1969 (Good-bye, Mr. Chips), diresse con buon mestiere numerosi film: The owl and the pussycat (1970); Play it again Sam (Provaci ancora Sam, 1972); The turning point (Due vite, una svolta, 1977); Nijinsky (1980); Steel magnolias (Fiori d'acciaio 1989); Boys on the side (A proposito di donne, 1995). Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/herbert-ross/. 134 Rock of ages: testo (1776) di Augustus M. Todplay, musica (1830) di Thomas Hastings; The Old Rugged Cross: testo e musica (1913) di George Bennard; All Things Bright and Beautiful: testo di Cecil F. Alexander (tratto da Hymns for Little Children) 1848. La musica di quest’ultimo inno è un arrangiamento del secolo scorso (Martin F. Shaw, 1915) di Royal Oak, melodia tradizionale inglese del XVII secolo. Mentre i primi due inni vengono mantenuti nella versione filmica, All Things Bright and Beautiful, interpretato nel serial dai bambini della classe di Eileen, non è sopravvissuto alla contrazione della sceneggiatura necessaria per l’adattamento cinematografico (nota di Renata Scognamiglio, Pennies from Heaven…, cit., p. 54).

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tradizionali, diffusi con le esibizioni dal vivo di corali o brass bands durante festival o competizioni musicali. Nel Pennies televisivo la scelta di riprodurre questa differenza è mirabilmente costruita affidando le esecuzioni degli hymns (religiosi) alle performance di strada dell’Accordion Man e alla scolaresca di Eilen, mentre i song il più delle volte accompagnano gli episodi onirici; rispettivamente quindi al livello interno e al livello mediato135, l’uso del lip-synch, nella sua artificialità non nascosta, si rivela percò la soluzione migliore per rendere l’effetto che una produzione musicale massificata ha come vettore di emozioni dell’immaginario dei singoli.

Potter sembra richiamare la concezione adorniana della musica popolare e della perdita di spontaneità individuale, ovvero dei “riflessi condizionati” che dall’ascolto di essa derivano136. Tuttavia, in questo Potter si distacca dal filosofo di Francoforte:

Poiché la spontaneità è recuperata dai personaggi nella rielaborazione interiore e trasfigurazione di quelle forme standardizzate. Non a caso l’accostamento azione-song creato da Potter assume spesso i connotati della decontestualizzazione più estrema, illuminando in senso patetico o grottesco entrambi i membri del binomio. Rivitalizzati dall’apporto individuale, quei testi insulsi e quelle musiche senza pretese diventano, paradossalmente, veicolo dei sentimenti più intensi e autentici -ivi compresi paure riposte e sensi di colpa – offrono occasione e luogo alla scoperta dell’unicità e sovranità dell’individuo, indicando una sorta di «trascendenza profana». Illuminante è a questo proposito la sequenza in cui Eileen (Cheryl Campbell), salita sulla pedana dell’aula scolastica per la lettura del Salmo di Davide, mima l’intonazione del song You got me crying again, che nella sua mente prende le veci del passo biblico137.

La distanza tra produzione profana, popular song e produzione sacra, tra vecchio e nuovo mondo, con le modalità utilizzate comincia ad annullarsi; tutta la parte musicale di Pennies from Heaven è costruita in questo modo. Se la colonna sonora 135 Per l’individuazione delle funzioni drammaturgico-musicali cfr. E. Morricone e S. Miceli, Comporre per il cinema, Teoria e prassi della musica nel film, Biblioteca di B&N, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2001. 136 Facendo particolare riferimento alla società borghese Adorno riconosce che dal punto di vista sociologico la musica risulta tanto più interessante quanto minore è la sua compromissione diretta con le vicende sociali. Di qui la sua incapacità di accettare di conferire una pur minima dignità artistica (con annessi caratteri di autonomia e di purezza) ad ogni tipo di musica leggera, vista come una musica calata dall’alto (dall’industria culturale) e come tale totalmente compromessa con l’ordinamento sociale borghese. Di qui le accuse ad un sistema musicale complessivo fondato nel sistema capitalista, in cui “l’unica norma diventa la necessità di distendere gli ascoltatori dopo il faticoso processo lavorativo”, incoraggiando una passività che porta alla volgarità, all’instupidimento e alla distrazione dalla realtà esistente. A.Pascale, La concezione Artistico-Musicale di Adorno, www.storiadellamusica.it. 137 R. Scognamiglio, Pennies from Heaven … cit., p. 57

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sostiene il contrasto dal punto di vista musicale, nella storia la rappresentazione delle due opposte polarità, e del loro progressivo avvicinamento è dato dalle due figure maschili, Arthur il protagonista e l’Accordion-man138. Quest’ ultimo, sorta di alter-ego di Arthur, ricopre nella vicenda un ruolo che va oltre quello di personaggio; piuttosto il suo ruolo è quello di catalizzatore di diverse valenze simboliche; rappresenta la presenza della dimensione metafisica che vuole le figure ai margini della società come portatori di presagi del destino139 e, in effetti, l’Accordion-man segnerà il destino di Arthur, ma è anche la maglia della catena che tiene il legame con un mondo musicale passato, non a caso a lui è devoluta l’esecuzione di Rock of Ages e The Old Rugged Cross, peraltro eseguiti sempre come spezzoni rappresentativi di tutto quel mondo. E’ l’Accordion-man che ricompone lo stacco tra musiche popolari e popular music e, come affermava lo stesso Potter prima ancora di realizzare Pennies from Heaven: «Riusciamo in qualche modo a percepire che molto di quanto è autentico e prezioso nella cultura tradizionale della classe lavoratrice è tuttora riflesso nella fasulla, degradata cultura “pop”, benché indirettamente, anche se in maniera più simile a un raggio di luce che splende attraverso una finestra lurida140».

Anche qui, come in precedenza, Potter sembra richiamare Adorno, questa volta la sua Teoria Estetica, ma se il filosofo tedesco riconosceva solo all’opera d’arte la possibilità di cogliere, attraverso la cosiddetta riflessione seconda «[…] il linguaggio dell’opera d’arte nel senso più ampio […]»141, escludendo, anzi avversando tutto ciò che è riconducibile all’industria culturale, Potter, pur non nascondendo anch’egli un certo astio per il lato commerciale, identificava la popular music come la risposta più efficace ai bisogni dell’uomo di fuggire la realtà quotidiana a vantaggio della propria individualità. Proprio per questo l’autore inglese mantiene nei confronti dei personaggi 138 In televisione rispettivamente Bob Hoskins e.Kenneth Colley e al cinema Steve Martin e Vernel Bagneris. 139 R. Scognamiglio, Pennies from Heaven dalla televisione al cinema … cit., p. 56: « Proprio questa connotazione nascosta rende simili figure sotterraneamente inquietanti, basti pensare al Leiermann schubertiano. Nel caso dell'Accordion Man il senso d’inquietudine è inoltre amplificato dall’intrinseca “doppiezza” del personaggio, in cui convivono distacco dal mondo e istinti primordiali, quasi si trattasse di un individuo al di là del bene e nel male. Sarà l’Accordion Man, non a caso, l’autore del delitto (che porterà Arthur alla condanna a morte), commesso il quale si ucciderà a sua volta gettandosi dall’Hammersmith Bridge. 140 D. Potter, The Glittering Coffin, Gollancz, London 1960, p. 121, citato in D. Evans, “Grasping the costellation. Dennis Potter and the Mythologies of Popular Culture”, in V. W. Gras & J. R. Cook (edited by), The Passion of Dennis Potter, p. 67. 141 Cfr. Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino. ed. 2009, p. 38.

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una posizione ambigua142 che, se da un lato ne mette in luce le debolezze, soprattutto la necessità di evasione che li definisce in modo spietato, dall’altro fa emergere la sua comprensione per tali comportamenti. Potter non esprime giudizi, piuttosto egli è «interessato soprattutto a indagare i processi per i quali un prodotto della cultura popolare interpreta, nel bene e nel male, le mitologie del tempo cui appartiene e finisce per veicolare, rielaborato, le esigenze interiori degli individui che vivono quel tempo143».

Il film, come già detto sceneggiato dallo stesso Potter per la regia di Herbert Ross, si allontana dall’atteggiamento di contemplazione e comprensione che caratterizzava la serie tv per muoversi verso un forte senso critico che diventa spesso un crudele sarcasmo. Potter e Ross non si accontentano più di rappresentare le modalità espressive degli anni Trenta, alla ricerca di improbabili aspetti positivi presenti nella realtà cupa degli anni della Depressione, ma di quelle modalità vogliono invece proprio smascherare quello che di falso contenevano. Nel film l’ambientazione è spostata a Chicago nel 1934, nell’anno in cui si svolse la Chicago World’s Fair, l’esposizione internazionale che celebrava i primi 100 anni di storia della città, da cui il nome «a century of progress», proprio quando il paese era alle prese con la più grande depressione economica della sua storia. Arthur è qui un rappresentante di spartiti musicali che sogna di aprire un negozio di dischi ma intanto si barcamena tra una moglie insensibile e un prestito che la banca non vuole concedergli. Tradisce lei con un’insegnante che trascinerà, in un succedersi di eventi, verso l’inevitabile fallimento.

Confrontando le due realizzazioni, ciò che appare evidente è l’incremento del livello esterno144 nella pellicola del 1981, incremento riconducibile non solo alle differenze tra le estetiche e i modi di produzione della BBC e dell’industria cinematografica americana. 142 Nella versione televisiva. 143 R. Scognamiglio, Pennies from Heaven …, cit., p. 59. 144 Il concetto di livelli è introdotto da Sergio Miceli nel volume del 2009 Musica per film, Miceli rifiuta l’uso esplicito del termine diegesi (ad esempio Bordwell e Thompson usano le categorie di musica diegetica e non diegetica) e lo sostituisce con la parola livello intorno a cui fonda una nuova classificazione. Esiste un livello interno quando esso è «prodotto nel contesto narrativo della scena/sequenza», ovvero ogni intervento della musica che sia udibile dai personaggi della storia, a prescindere che la fonte del suono sia visibile o meno allo spettatore. Si definisce invece livello esterno quello che solo lo spettatore, al di fuori dell’universo diegetico è in grado di ascoltare. Livello esterno è per Miceli «un evento musicale che si pone in veste di accompagnamento o più spesso di commento, in ogni caso non prodotto all’interno della narrazione e come tale non condiviso da personaggi e spettatori, bensì indirizzato esclusivamente a questi ultimi».

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Si osservi per esempio il cambiamento delle funzioni di un song «simbolo», tanto nel serial quanto nel film, The Clouds Will Soon Roll by, vero e proprio manifesto di un‘ epoca [il song, del 1932, esemplifica efficacemente lo sforzo intrapreso dagli autori di canzoni e di film di tenere alto il morale degli americani.]. In entrambi i casi il brano di Harry Woods riveste un ruolo chiave, inaugurando la tecnica del lip-synch nella versione televisiva e commentando inizio e spannung [suspence, tensione] della vicenda in quella cinematografica. Ma mentre nel primo caso il song ci viene presentato dall’interno della realtà cui appartiene, sulle labbra del protagonista di cui interpreta le aspirazioni, nel secondo caso gli artefici se ne servono, dall’esterno, proprio per mostrare polemicamente la discrasia tra la cruda realtà dei «fatti» e gli sterili auspici delle canzoni145.

Un altro esempio dell’aumento della carica satirica del film è riscontrabile nel finale; in entrambe le realizzazioni è previsto un finale tragico e un post-finale lieto, dove il protagonista sfugge all'impiccagione e si ricongiunge all’amata146. Il finale tragico del film presenta una novità rispetto all’originale televisivo. Arthur è sul patibolo e quando gli viene chiesto: «Arthur Parker, ha qualcosa da dire?», l’uomo risponde citando i versi introduttivi del song Pennies from Heaven: A long time ago A million years B.C. The best things in life Were absolutely free. But no one appreciated A sky that was always blue. And no one congratulated A moon that was always new. So it was planned that they would vanish now and them And you must pay before you get them back again. That's what storms were made for And you shouldn't be afraid for Every time it rains it rains Pennies from heaven. Don't you know each cloud contains Pennies from heaven. You'll find yor fortune falling All over town.

Tanto tempo fa Un milione di anni prima di Cristo Le migliori cose della vita Erano assolutamente gratuite. Ma nessuno apprezzava Un cielo sempre blu. E nessuno faceva complimenti A una luna sempre nuova. Fu dunque pianificato che questi sparissero di tanto in tanto E occorre pagare per riportarli indietro A questo servono i temporali E non devi aver paura perché Ogni volta che piove piovono Spiccioli dal cielo. Non sai che ogni nuvola contiene Spiccioli dal cielo Scoprirai la tua fortuna che cade In tutta la città

145 R. Scognamiglio, Pennies from Heaven … , cit., p. 61. 146 Il procedimento dei finali alternativi ha una tradizione antica nel teatro musicale.

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Be sure that your umbrella is upside down

Assicurati che il tuo ombrello sia capovolto”.

Quando il parlato si trasforma in cantato, è la prima volta, e sarà anche

l’ultima, che Arthur canta con la sua voce; contemporaneamente la mdp si avvicina progressivamente a lui fino al primo piano, il tutto per amplificare la liricità dell’episodio. Il post-finale, The Glory of Love è volutamente eccessivo in ogni suo aspetto, in contrasto con la connotazione minimale della scena precedente; il protagonista ritorna a cantare mediante l’artificio del lip-synch, tutto è volutamente esagerato, pacchiano. E’ l’ennesimo svelamento della falsità intrinseca dell’episodio e di tutto il genere: «L’inquadratura che mostra Arthur e Eileen di tre quarti e a mezzo busto, vestiti di tutto punto – stile “ritratto di famiglia” -, sembra individuare il bersaglio ideale nel pubblico medio del musical, le cui aspettative di un ritorno dei protagonisti a una “sana normalità” borghese vengono soddisfatte e sbeffeggiate allo stesso tempo147».

Tutto questo non è assolutamente presente nell’originale televisivo dove la scena dell’impiccagione di Arthur è frettolosa e senza musica, rappresentata con un brusco stacco di montaggio che introduce nel non luogo, rappresentato dallo schermo buio e con il brano In the Dark, che appartiene, secondo la classificazione di Miceli, al livello esterno. Successivamente, una dissolvenza ci porta sull’Hammersmith Bridge; qui Arthur, sopravvissuto, sventa il suicidio di Eileen e i due, finalmente riuniti, si rivolgono allo spettatore con un ultimo messaggio.

Il finale televisivo è estremamente crudo e contrasta con la tenerezza e intimità del post-finale, autentico per quanto evidentemente falso, come lo è il post-finale del film. Il film di Ross attinge a piene mani da Busby Berkeley e Fred Astaire, creando un contrasto tra la realtà narrata e la fantasia di Arthur. E’ come se Ross e Potter avessero voluto attraverso il protagonista, non a caso venditore di dischi, celebrare il musical attraverso la sintesi di quanto di meglio proveniente dal periodo d’oro degli anni Trenta e, allo stesso tempo, inserendo il genere in una storia dalle tinte noir, provvedere alla sua commemorazione in quanto appartenente alla sfera del non più ripetibile. Del resto, l’America rappresentata nel film appartiene a tempi lontani, quelli del New Deal. 147 R. Scognamiglio, Pennies from Heaven … cit., p. 63.

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Nel 1932, anno dell’elezione di Franklin Delano Roosevelt, l’America sembrava aver trovato l’uomo che poteva risollevare la nazione dalla Grande Depressione del 1929, l’artefice del New Deal, espressione che lo stesso presidente utilizzava per indicare l’indirizzo politico, basato sulla stretta relazione tra governo ed economia e un nuovo rapporto con cittadini. Queste alcune delle sue parole in un discorso a Chicago del 1932: «Io impegno voi tutti e impegno me stesso a un nuovo patto per il popolo americano. Proclamiamoci tutti qui riuniti, profeti di un nuovo ordine di competenza e di coraggio. Questa è più di una campagna politica è una chiamata alle armi»148. Nonostante fosse propagandato come una novità, in realtà il New Deal realizzò quasi esclusivamente teorie e progetti di carattere tecnocratico che nel passato erano già stati definiti.

A ispirare la politica economica del periodo contribuirono le teorie dell’economista britannico John Maynard Keynes149, che costituivano un taglio netto con il passato e teorizzavano la necessità dell’intervento pubblico: «[…] lo Stato, nelle fasi di crisi, doveva assumersi il compito di stimolare il mercato attraverso investimenti pubblici, anche a costo di un bilancio in passivo. […]150». Il governo federale cominciò quindi a intervenire direttamente nella vita economica del paese, contrariamente alla libertà che fino a quel momento era stata lasciata. In tale prospettiva sorsero numerose iniziative che caratterizzarono il New Deal, delineando il ruolo nuovo dell’amministrazione pubblica. L’Agricultural Adjustment Act introdusse indennizzi federali per gli agricoltori; l’Home Owners’ Loan Act consentì a molti cittadini di rifinanziare le ipoteche sulle loro case. Con la Public Works Administration milioni di Americani disoccupati furono assunti per lavori pubblici (costruzione di strade, ponti, scuole ecc.). il National Industrial Recovery Act istituì la National Recovery Administration (NRA) che, a sua volta, promosse e incentivò accordi tra Stato, imprenditori e sindacati per il mantenimento di un certo livello di occupazione e dei salari. Anche la vita culturale è direttamente coinvolta dalla crisi; la Farm Security Administration (FSA) documenta la miseria della nazione, ad esempio attraverso le foto 148 D. Frezza (a cura di), F.D. Roosevelt: il presidente e l’opinione pubblica, Servizio Editoriale Università di Siena, Siena 1982, p. 116, cit. in Giovanni Borgognone, Storia degli Stati Uniti…, cit., p. 182. 149 Keynes raccolse i suoi studi in forma completa nel 1936 nel volume Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. 150 G. Borgognone, Storia degli Stati Uniti…, cit., p. 184.

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di Walter Evans e Dorothea Lange. Nonostante la congiuntura economica negativa avesse portato quasi al fallimento Major come la Warner Bros e la RKO, gli americani andavano ancora al cinema in buon numero.

Il cinema esercitava ancora influenza sull’immaginario nazionale e, in particolare il musical assume importanza sia dal punto di vista economico, permettendo di risollevare le sorti finanziare della Warner e della RKO, che da quello sociale, in quanto rappresentava un’estensione della realtà poiché «i film erano significativi perché rappresentavano tutto ciò che si era perso o ciò che si desiderava»151.

Non è un genere di pura evasione, piuttosto, come osserva Mark Roth, si tratta di prodotti «[…] essenzialmente politici: il musical, con i suoi plot ripetitivi e, in particolare, con i suoi numeri di danza realizzati grazie allo sforzo collettivo e alla cooperazione, rappresentano una forma di ritualità, in grado di creare unità e di ristabilire l’ethos e la mitologia del sistema economico-sociale che era stato minato dalla depressione»152. Uno dei musical cui si riferisce Roth, Gold Digger of 1933 (La danza delle luci – 1933), ha, tra le varie coreografie di Busby Berkeley, quella allestita per il brano We’re in the Money che fornisce l’ispirazione per Yes, Yes, secondo brano musicale di Pennies from Heaven. Arthur comincia a cantare quando il direttore della banca gli rifiuta il prestito. Il rifiuto del direttore viene “rimosso” con il passaggio (un’evasione) nel siparietto onirico della performance musicale. Il transito tra le due sfere diegetiche è istantaneo; un raccordo sull’asse e un breve preludio strumentale prima del canto sono le modalità che dal dialogo tra direttore di banca e Arthur, introducono a un grande numero collettivo che riprende le “due anime”. Renata Scognamiglio, nel suo saggio su Pennies from Heaven, descrive in una tabella i vari passaggi del brano, distinguendo due macrosezioni, articolate per trattamento filmico, musicale e sonoro; la prima che si riallaccia al serial tv per mezzo del lip-synch e dell’incisione d’epoca153; la seconda una citazione/celebrazione del musical anni Trenta,

151 J. Feuer, The Hollywood Musical, p.172, citato in E. Sammartino, Una riflessione di genere sul proprio passato: caduta delle illusioni e scissione postmoderna del sé in Pennies from Heaven (Herbert Ross, 1981), in G. Fanara (a cura di), Shooting from Heaven …, cit., p. 208. 152 Ibidem. 153 La Scognamiglio precisa che, a questo proposito, bisogna ricordare come, a differenza di ciò che avveniva nel serial, le incisioni d’epoca utilizzate nel film sono tutte rimasterizzate (a opera di Len Engel, Contempo Recording Co.) e ciò attutisce per certi versi l’effetto straniante. In ogni caso la grana sonora tradisce l’originario utilizzo di strumenti monofonici di registrazione.

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con tutte le conseguenze di una scelta del genere (giochi ottici, inquadrature azimutali, ballerine di fila). Tratta da Renata Scognamiglio: Pennies from Heaven dalla televisione al cinema: la «doppia sfida» musicale di Dennis Potter. eventi musica Raccordo sull’asse: transizione subitanea a seconda sfera diegetica Sezione «potteriana»: rimozione del rifiuto, coreografia grottesca Dissolvenza incrociata: pp di Arthur che riceve in faccia una pioggia di monete, nuova dissolvenza, transizione a sfera degetica 2°, amplificazione della fantasia Sezione «berkeleyana»: delirio di onnipotenza, coreografia fastosa. Inquadrature azimutali delle chorines e frammentazione del quadro. Entrata in campo di una grossa moneta che nasconde le chorines. Vortice. Pp. Di Arthur che si sostituisce all’immagine della moneta. Tap dace di Arthur e delle chorines (carrello a precedere), poi del direttore di banca, infine stretta di mano fra i due a suggello dell’accordo raggiunto. Assolo tip tap di Arthur tra le fila di chorines (carrello ottico ad allargare), entrata in campo di una banconota da cento dollari. Arthur «sostituisce» B.

Scala cromatica che prepara breve introduzione cantata. Nucleo centrale originario. Incisione d’epoca, jazz band, registrazione monofonica. Coda Riorchestrazione: passaggio a registrazione stereofonica Ponte modulante che prelude a ripresa strumentale Ripresa strumentale variata affidata a sezioni di una jazz orchestra Ponte modulante affidato a ottoni che culmina con un trillo di tromba. Note ribattute. Nuovi elementi tematici esposti prima dell’orchestra (tremolo degli archi sul registro grave), poi da coro femminile vocalizzante. Ponte modulante, progressioni che si concludono con una cadenza/fanfara di trombe.

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Franklin; vortice tra i due piani. Finale. Lungo carrello a precedere. Arthur e un nutrito chorus maschile e femminile scendono la scalinata della banca. Pp. Di Arthur che guida l’auto. Brusca interruzione della fantasia, ritorno a prima sfera diegetica. Avanzata di Arthur e Eileen, presto interrotta. Ballerini ai due lati della coppia e poi in semicerchio. Eileen tenta la fuga, ma alcuni boys le sbarrano la strada con i bastoni. Eileen torna da Arthur. Figure ampie, ma lo spazio è sempre delimitato. Ballerini circondano la coppia fino a coprirla. Ballerini s’inchinano Sbarre salgono: Arthur e Eileen, intrappolati si avvicinano alle sbarre.

Ripresa della strofa eseguita dall’orchestra al completo e poi, per due volte e con una modulazione, anche dal coro. Coda (ripetizione dell’ultima semifrase) interruzione brutale. Subitanea diminuzione del volume audio della musica e dissolvenza incrociata sonora con rumori diegetici. A nuova ripresa strumentale. Ponticello ascendenti e modulanti che portano a: Parziale ripresa con variazioni, soprattutto timbriche (ottoni al posto degli archi e ruolo centrale della sezione ritmica). Progressioni ascendenti modulanti costruite su semifrase iniziale e poi su frammenti. Ripresa ultima frase ma con modulazione che resta in sospeso. Dissonanza. Sovrapposizione di due tonalità: accordo finale e pedale dei contrabbassi.

Sia la scenografia art decò, con grandi monete d’argento che rotolano sullo

sfondo, sia i costumi delle ballerine ricalcano quelli del film del 1933. Il numero è girato come fosse un film dell’epoca. Le dissolvenze incrociate, l’uso di lunghe riprese dall’alto a evidenziare i movimenti del chorus, creando percorsi geometrici e dinamici

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all’interno dell’inquadratura, sono simili alle coreografie di Berkeley. Se però nei film degli anni Trenta la caratteristica principale era l’unitarietà, ogni elemento era funzionale all’altro senza individualismi, Arthur invece, si distingue dal gruppo e non è mai amalgamato con loro; Steve Martin è un attore già di successo e quindi facilmente riconoscibile anche grazie agli abiti che si differenziano da quelli degli altri ballerini. La sua individualità si esterna definitivamente quando, grazie a una dissolvenza incrociata, il suo volto sostituisce quello di Benjamin Franklin nella banconota da 100 dollari.

E’ qui che si consuma il primo stacco dai contenuti del cinema classico: non l’unione e la cooperazione tra gli uomini degli anni Trenta ma lo spirito individualista tipico dell’epoca reaganiana e dello yuppismo anni Ottanta con una importante differenza: Arthur, contrariamente agli yuppies del periodo, non riesce a raggiungere il successo, forse perché ancora vincolato a ideali romantici. Il rapporto tra il reale e la fantasia, resa cinematograficamente attraverso i numeri, è importante nel musical classico; le cosiddette dream sequences, che sono presenti in Pennies from Heaven, presentano un doppio livello spazio-tempo, che definisce i confini sogno-realtà:

[…] E’ il momento della verità in cui il ballerino cammina ancora, ma già sonnambulo che sarà posseduto dal movimento che sembra chiamarlo: lo si trova in Fred Astaire, nella passeggiata che insensibilmente diventa danza (The Band Wagon, Spettacolo di varietà di Minnelli), così come in Kelly, nella danza che sembra nascere dal dislivello del marciapiede (Singin’ in the Rain, Cantando sotto la Pioggia di Donen). Tra il passo motorio e il passo di danza vi è talora quel che Alain Masson chiama un «grado zero», quasi un’esitazione, uno sfalsamento, una dilatazione, una serie di fallimenti preparatori (Follow the Fleet, Seguendo la flotta di Sandrich), o al contrario una brusca nascita (Top Hat, Cappello a cilindro). Lo stile di Astaire e quello di Kelly sono stati spesso contrapposti. […] ma in entrambi i casi, la commedia musicale non si accontenta di farci entrare nella danza oppure, oppure, ed è lo stesso, di farci sognare. L’atto cinematografico consiste nel fatto che il ballerino stesso entra nella danza, come si entra in sogno. La commedia musicale ci presenta esplicitamente tante scene funzionanti come sogni o pseudo-sogni con metamorfosi (Cantando sotto la pioggia, Spettacolo di varietà e soprattutto An American in Paris, Un Americano a Parigi di Minnelli), in quanto è tutta un gigantesco sogno, ma un sogno implicato, che implica a sua volta il passaggio da una realtà presupposta al sogno154.

Pennies from Heaven riprende queste modalità ma con una differenza sostanziale: il passaggio da un livello narrativo a un altro non è caratterizzato dalla 154 G. Deleuze, L’immagine –tempo, Ubulibri, Milano 2009, pp. 74-75.

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gradualità tipica delle opere del periodo classico; nel film di Ross (Potter), invece, l’effetto dei passaggi è sempre straniante, non esiste collegamento tra i due livelli e l’uso delle “voci altrui” nei numeri musicali, annulla ogni collegamento tra significante e referente. Ai numeri musicali sfavillanti, fa da sfondo una realtà degradata, quella della Grande Depressione. Il direttore della fotografia di Pennies from Heaven, Gordon Willis, è considerato

Artigiano dotato di uno stile ben riconoscibile, nel suo lavoro ha sempre fatto un uso delle luci ispirato a un principio di raffinata essenzialità, in base al quale la composizione del fotogramma, spesso decentrata, si fonda su un'attenta gestione dei vuoti, soprattutto nel formato Cinemascope […] In quel periodo uno degli esiti più complessi e raffinati della sua filmografia fu Pennies from heaven (1981) di Herbert Ross, un musical per il quale Willis volle ispirarsi alla pittura iperrealista di E. Hopper, imitando alcuni tra i suoi più celebri quadri (come, per es., Nighthawks)155.

Franco La Polla, non giudica positivamente il film di Ross, ma riconosce tuttavia i meriti della fotografia anche se riguardo alla ricostruzione vivente di Nighthawks (1942) e di New York Movie (1939), si limita a liquidare il tutto come un anacronismo. In realtà La Polla sembra dimenticare che l’ambientazione è una licenza poetica usuale e legittima e quindi la citazione dei dipinti del pittore americano è assolutamente coerente con le scelte stilistiche di Ross. Sebbene la saggistica critica europea e gli studi di storia dell’arte non diano molto rilievo all’arte di Hopper, individuando l’apice dell’arte americana nell’espressionismo astratto di Pollock e nel pop di Warhol e definendolo sbrigativamente come “pittore realista”, senza aggiungere granché altro, va invece riconosciuto a Hopper un carattere tutto americano in ciò che dipinge, i suoi sono i paesaggi che osserva, sono le persone colte nella realtà di tutti i giorni, nel momento in cui risultano più indifferenti a ciò che stanno compiendo. Hopper li cattura nel momento in cui sono più fragili e forse sì, anche malinconici, ma totalmente umani. La sua filosofia estetica è ben riassunta in un estratto da un articolo pubblicato nella rivista «Reality: A Journal of Artist’ Opinions», da lui fondata negli anni Cinquanta156 155 www.enciclopediadelcinematreccani.it 156 Hopper si tenne sempre in disparte rispetto ai movimenti artistici. P. L. Albini, Edward Hopper: Estetica dell’inorganico, 2010 www.homolaicus.com/arte, ricorda come partecipò solo a un gruppo di protesta contro il MOMA di New York che dava spazio solo alla pittura non realistica.

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La grande arte è l’espressione visibile della vita interiore di un’artista e da questa vita interiore nascerà la sua personale visione del mondo. Nessuna abile invenzione può rimpiazzare un elemento fondamentale come l’immaginazione. Una delle debolezze di tanta pittura astratta è il tentativo di sostituire le invenzioni dell’intelletto a una concezione derivante dalla pura fantasia. La vita interiore di un uomo è un regno vasto e variegato e non riguarda solo piacevoli accordi di colore forma e disegno157.

La scelta di quadri di Hopper nelle scene del film trova la sua motivazione proprio in quello che nei suoi quadri è il significato legato al:

[…] continuo slittamento di senso che si compie nei suoi quadri ne rende difficile l’interpretazione, il segno non rinvia del tutto a ciò che dovrebbe essere. Abituati agli eccessi dell’arte contemporanea e ai suoi scandali, quando guarda un quadro di Hopper allo spettatore sembra di poter navigare nell’alveo conosciuto del figurativo e del normale, ma appena è dentro il quadro avverte qualcosa che va fuori posto: le cose non sono come gli apparivano a un primo sguardo. Sente di rischiare una perdita dell’orientamento: i significati costruiti dalla nostra mente non combaciano con ciò che emerge dall’opera, per quel non so che di spietato e di amaro che sprigiona da molte delle sue raffigurazioni, acquerelli esclusi158.

Nighthawks, l’emblema della poetica di Hopper, rappresenta l’alienazione indotta da una grande città, l’incomunicabilità, la noia, la banalità del quotidiano. Una banalità che ha il suo significato nella rappresentazione di un intervallo dalla vita, la vita reale che mette di fronte al proprio vuoto. Lo stile figurativo di Hopper, quindi, non rassicura lo spettatore ma anzi, connotando un senso differente, fa emergere l’altro della realtà, come è normalmente caratteristico, invece, nell’arte astratta.

Pennies from Heaven ha modalità simili; con lo stile del film classico, Ross opera il suo slittamento di senso per rappresentare, mettendo in scena un periodo di crisi come la Grande Depressione, la società USA degli anni Ottanta, società reaganiana che non ha più le certezze e i valori che avevano fondato l’America e, anche se Reagan rimandava continuamente proprio a quei valori, questi non esistono più; la vita reale, come nel dipinto di Hopper, mette di fronte al proprio vuoto, che le apparenze edonistiche non riescono a colmare. L’artificio del lip-synch utilizzato nel film è teso a ottenere lo stesso effetto straniante del dipinto di Hopper. Come rileva Rick Altman,

157 P. Albini, Edward Hopper: Estetica…, cit., p. 4. 158 Ibidem.

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definendo Pennies from Heaven «[…] one of the great surprise films of recent years […]»:

Pennies from Heaven seems to have sensed the cultural problems to be posed by MTV and music videos years before the problems existed. With the first half of the film built around overtly post-synchronized songs, Pennies from Heaven suggests that Steve Martin’s soul has been emptied out and replaced by the voices of others. In order to be ourselves we must learn to sing again with our own voice, we must regain the right to our own soundtrack, we must return our voices to their rightful place in synchronization with the rest of our body. The most beautiful song in this strangely haunting film is thus the last one, the only one that Martin sings with his own voice159.

Ecco quindi che il “gioco” di Ross e Potter è svelato: il film non è un film classico, come apparentemente sembra, ma è pienamente inserito nel postmoderno, che negli anni Ottanta trova la sua massima diffusione. Esistono molte accezioni del concetto di postmoderno; quella storico sociale di Habermas e Jameson; quella filosofica di Lyotard e Derrida, quella letteraria di Hassan e Spanos e quella Estetica di Jenks e Calabrese160. Per il cinema, che è medium moderno per definizione (cfr. Benjamin), la categoria di postmoderno cinematografico non è ancora legittimata storiograficamente, anche se studi recenti come quello di Larent Jullier hanno classificato e storicizzato il cinema postmoderno161.

Le teorie che hanno finora interessato il cinema e il suo rapporto con il postmoderno, trovano pieno riscontro in Pennies from Heaven: gli espedienti formali, primo tra tutti il lip-synch, la sottolineatura dei codici, la rottura del flusso narrativo, l’effetto straniante, che rimanda alle teorie di Brecht sul rifiuto dell’illusione di realtà, sono presenti e ben manifesti. Quando Arthur ed Eilen salgono sul palco, iniziando a imitare i passi di danza di Fred Astaire e Ginger Rogers (dopo che l’inquadratura iniziale, copia conforme di New York Movie di Hopper li ha collocati in una sala cinematografica semi-deserta), è evidente come i due sono in un numero che è frutto della fantasia di Arthur, ma che rappresenta il reale, rompendo l’illusione del numero stesso. Quando i bastoni da passeggio dei ballerini si alzano alla fine del numero, come sbarre della prigione, non è rappresentato solo il reale, ovvero i problemi che i due 159 R. Altman, American Film …., cit., p. 353. 160 V. Buccheri, Sguardi sul postmoderno …, cit., p. 33. 161 Cfr. nota 93, p. 63.

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dovranno fronteggiare all’uscita dal cinema, ma anche l’impossibilità di mantenere viva negli anni Ottanta l’illusione del musical del periodo d’oro, illusione confinata nelle sbarre che il tempo ha eretto distanziando quell’epoca dai giorni nostri [gli anni Ottanta]; quelle sbarre rappresentate dai bastoni dei ballerini che si ergono di fronte ai due come a bloccargli ogni possibilità di fuga. Non c’è rassicurazione possibile ed è Arthur stesso, all’uscita dal cinema, a confermarcelo: «come out of the movies and the goddam world has changed!162».

162 «Esci dal cinema e lo stramaleddittissimo mondo è cambiato!».

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Pennies from Heaven, Yes Yes

Steve Martin, Bernadette Peters and Jessica Harper

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Edward Hooper: Nighthawks (1942).

La ricostruzione di Nighthawks nel film

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3. Moulin Rouge!. Fare musical dopo MTV. 3.1 Spectacular, Spectacular! La MTV-izazzione dell’immagine.

Il rapporto con la tecnologia ha avuto sempre un ruolo importante nello sviluppo dell’attività artistica. Nel corso dei secoli, tuttavia, le forme di questa relazione sono state mutevoli; non sempre i protagonisti della ricerca artistica sono stati consapevoli di questa corrispondenza e il suo sviluppo non ha mai avuto un carattere lineare. Paradossalmente in periodi più lontani come quello rinascimentale, i grandi artisti sono stati anche brillanti nel campo tecnologico (un nome su tutti: Leonardo da Vinci) mentre ad esempio nel romanticismo, ovvero in epoche più vicine, si compie il momento di massima scissione tra il sapere tecnico e quello scientifico. È l’avvento della società industriale e la comparsa dei primi mezzi tecnici di comunicazione e di rappresentazione che provoca il cambiamento più profondo da alcuni secoli a quella parte. La fotografia, la riproduzione del suono e, poco dopo, la cinematografia, mettono in discussione il modo di lavorare e il compito sociale dell’artista.

Non è solo una discussione sulla forma dell’arte; è proprio la sua natura a essere messa in questione e con essa la sua funzione nella società industriale. In tempi e modi diversi, gli intellettuali si mobilitano e, come spesso accade, si dividono: in questo caso tra coloro che sdegnosamente rifiutano le nuove tecnologie e con esse l’intera modernità163 e chi, invece, ne viene profondamente attratto fino a inserire a pieno titolo la tecnologia nell’immaginario artistico, utilizzando le macchine stesse nella sperimentazione di nuove forme di espressione. La discussione andrà avanti per quasi un secolo quando la parola definitiva per il superamento della questione sarà resa possibile da Walter Benjamin e dal suo saggio fondamentale, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Come noto, Benjamin sostiene che la disponibilità di strumenti tecnici per produrre e riprodurre gli oggetti artistici ha portato finalmente a compimento il superamento della concezione idealistica dell’arte, ovvero la concezione che l’arte sia un’attività sacrale che l’artista, individuo che eccelle dalla massa, svolge

163 A metà Ottocento, il grande poeta francese Charles Baudelaire, che fu anche valente critico e teorico dell’arte, scriveva: «Se alla fotografia si permetterà di integrare l’arte in alcune delle sue funzioni, questa ultima verrà ben presto soppiantata e rovinata da essa, grazie alla sua naturale alleanza con la moltitudine» (citato in F. Ciotti e G. Roncaglia, Il mondo digitale, Laterza, Bari 2010, p. 352).

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in solitudine, facendo dell’opera d’arte un oggetto unico e irripetibile nel suo essere hic et nunc:

Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di «aura» e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe riformulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato - a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni164.

La riproducibilità tecnica elimina l’aura dall’opera d’arte ma non ne limita la funzione estetica; secondo Benjamin la ridetermina in funzione delle mutate condizioni storiche e all’avvento della società di massa. Anche se parte di queste riflessioni possono sembrare datate, i concetti basilari del pensiero di Benjamin sono tuttora validi e la rivoluzione digitale, cominciata negli anni Ottanta e tuttora in corso, pienamente inserita nel processo di trasformazione dell’attività estetica, sia per la fruizione che per la produzione, porta a compimento alcune tendenze alla base della modernità, individuate e descritte dal critico e filosofo tedesco. In tal senso, uno dei fenomeni che dagli anni Ottanta più hanno contraddistinto le varie forme dell’espressività contemporanea, influenzando lo stile di molti autori cinematografici, è senza dubbio quello del videoclip.

Il videoclip è un forma breve della comunicazione audiovisiva il cui linguaggio nasce e si sviluppa in relazione all’esigenza di promuovere un bene di consumo effimero e immateriale, la musica. La durata ridotta e la funzione commerciale non condizionano negativamente il potenziale espressivo dei video musicali, certamente non in senso assoluto. Al contrario queste costrizioni spesso si rivelano uno stimolo prezioso, un’occasione per andare oltre i limiti tracciati dalle forme di testualità audiovisive più consolidate165.

164 W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1996, p. 23. 165 P. Peverini, Il videoclip. Strategie e figure di una forma breve, Meltemi, Roma 2004, p. 11.

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Gli studiosi del fenomeno hanno spesso individuato la nascita del videoclip negli anni Quaranta, precisamente riferendosi ai soundies, cortometraggi musicali realizzati negli USA per promuovere la musica jazz. Si trattava di veri e propri mini-film di durata tra i tre e gli otto minuti con protagonisti illustri come Bessie Smith, Billie Holiday, Duke Ellington, Cab Calloway e Bing Crosby. Consistevano in realizzazioni commissionate dai proprietari di teatro per l’intrattenimento degli spettatori, utilizzate anche all’interno della programmazione televisiva. Il controllo minore che subivano da parte degli organi di censura, fece sì che i soundies fossero spesso molto più derisori dei film che andavano a supportare.

La maggior parte di questi lavori anticipa le tendenze che per molti anni caratterizzeranno i videoclip, ovvero documentare performance artistiche su un palco o all’interno di un set. Per molti critici musicali, gli antenati del videoclip sono rintracciabili in tempi più recenti anche nei primi film dei Beatles, nei loro clip promozionali e negli speciali televisivi166. Da citare è la posizione di Andrew Goodwin che, nel saggio Dancing in the Distraction Factory. Music, Television and Popular Culture, sostiene che «il candidato più popolare per il titolo di primo video musicale è il clip di sei minuti realizzato da Bruce Gowers nel 1975 per Bohemian Rapsody, il singolo di maggior successo dei Queen». La posizione di Goodwin nei confronti di questa ricerca delle origini del videoclip è fortemente polemica. Il professore americano afferma che per comprendere l’evoluzione del fenomeno è necessaria l’analisi di fattori extra testuali basilari

Certamente la maggior parte di questi primi tentativi di riunificare suoni e immagini sono molto importanti e forniscono indicazioni molto utili per comprendere i fenomeni pop, ma se vogliamo identificare le origini del videoclip, considerato nelle sue forme più attuali, è necessario prendere in considerazione anche il contesto. Se i suoni e le immagini pop su pellicola e videocassetta risalgono a Bill Haley e Elvis Priesley, ai Monkees e ai Beatles, agli Abba e ai Sex Pistols, allora perché è solo a partire dal 1980 che i critici musicali e gli addetti ai lavori dell’industria discografica iniziano discutere di qualcosa che si chiama video musicale?167

166 Tra i film Hard Day’s Night, Help; le clip Penny Lane e Strawberry Fields Forever; gli speciali televisivi The Magical Mistery Tour. 167 A. Goodwin, Dancing in the Distraction Factory. Music, Television and Popular Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1992, p. 30.

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Alla fine del 1979, nasce ad Atlanta Video Concert All, canale musicale via cavo che trasmette i video prodotti dalle case discografiche. È dello stesso periodo il programma di Casey Kasem, uno dei più celebri disc jockey dell’epoca, American Top 10, cioè la “hit-parade” americana, presentata esclusivamente attraverso i videoclip dei brani musicali. L’esordio di MTV avverrà poco tempo dopo, esattamente il 31 luglio 1981. All’inizio, l’archivio dei videoclip è ridotto, circa duecentocinquanta video utilizzati secondo diverse tipologie di trasmissione168.

MTV è stato davvero il primo strumento promozionale dal declino della radio nazionale a consentire una rapida commercializzazione dei dischi. Offrì alle compagnie discografiche un’alternativa, sia alla commercializzazione radiofonica secondo il modello del goffo impatto regionale, sia alle strategie della lenta promozione del disco attraverso la tournée o attraverso le connessioni fra giovani, cinema e colonne sonore. La MTV (…) ebbe effetto sulla velocità di vendita e ricevette presto credito per aver risollevato l’industria discografica americana da una recessione quinquennale169.

Dopo i primi anni, in cui la forma breve del videoclip aveva solo scopi promozionali, “vendere a tutti i costi”, i video hanno raggiunto rapidamente un’autonomia stilistica, approfittando della brevità come uno stimolo creativo straordinario. Vincolati dalla necessità di conciliare le esigenze di marketing e quelle artistiche, questi brevi filmati hanno contribuito a rinnovare radicalmente i canoni estetici di forme d’arte ben più consolidate come il cinema. Un panorama così complesso, con un’evoluzione molto rapida, ha fatto nascere negli studiosi la preoccupazione di “sistematizzare” il fenomeno, o almeno tentare di farlo. Procedendo all’esplorazione delle forme espressive presenti nel videoclip, la classificazione costruisce modelli esplicativi generali. Tuttavia i videoclip sembrano sottrarsi a ogni tentativo di classificazione, probabilmente anche perché la tendenza diffusa da coloro che hanno studiato il fenomeno è stata quella di prescindere dalle dinamiche di consumo e dalle esigenze di chi presiede alla produzione, prioritariamente di natura commerciale, per procedere a un’analisi in termini astratti. Per almeno un decennio si sono quindi succedute classificazioni e 168 La heavy rotation include i video di maggior successo con una frequenza di sei o sette passaggi televisivi, nella medium rotation i passaggi scendono a tre o quattro al giorno, nella light rotation, infine, ci sono i video che non superano i due passaggi giornalieri. 169 S. Frith, Music for Pleasure, Essays in the Sociology of Pop, Routledge, New York 1988, trad. it. Il Rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, EDT, Torino 1990 (citato in P. Peverini, Il videoclip. Strategie…, cit., p. 23).

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denominazioni diverse che però hanno avuto come unico risultato condiviso, quello di individuare l’ibridazione linguistica come una peculiarità di queste forme brevi.

Sebbene ai critici sdegnosi i video possano sembrare tutti uguali, in realtà possono assumere qualsiasi dimensione, forma e colore. Ci sono video-performance… narrativi… gotici… d’animazione… e video creati interamente… ci sono inquietanti paesaggi onirici, ritratti classici, stravaganze futuristiche e home movies fortemente personali (Reiss, Feineman 2001, p. 24)170.

Uno dei luoghi comuni che ha caratterizzato l’analisi del videoclip è stato quello di individuare l’articolazione del livello discorsivo di queste forme brevi in un numero elevato di inquadrature e nel montaggio “frammentato”, con la conseguenza di definire il videoclip solo in funzione della complessità visiva e la velocità del ritmo. Tutti i tentativi di classificazione basati sull’opposizione tra i testi narrativi e quelli concettuali, se riferiti a criteri analitici comuni, come quelli descritti da A. J. Greimas e J. Courtés nel loro Dizionario ragionato della teoria del linguaggio – 1979, dove la narratività è il «principio organizzatore di ogni discorso e la narrazione, considerata come genere discorsivo fortemente codificato, il prodotto di una successione di stati e trasformazioni», avrebbero un valore estetico, ma l’applicazione impropria di quelle categorie concettuali, non riesce a rendere la complessità di una forma testuale che ha delle sue peculiari modalità di articolazione del “livello discorsivo”. Studi più recenti hanno dimostrato, o almeno tentano di dimostrare, che il successo di un videoclip «si costruisce non tanto sull’adesione o sul rifiuto di formule narrative più o meno consolidate quanto piuttosto sulla capacità di sfruttare pienamente le potenzialità seduttive del sincretismo linguistico, valorizzando la melodia e il ritmo di un brano musicale con la composizione di un’inquadratura, i movimenti di macchina, la grana delle immagini»171. All’inizio degli anni Ottanta le dinamiche che riguardano la produzione e la fruizione dei linguaggi visivo e musicale stanno subendo una trasformazione radicale e i videoclip diventano rapidamente la forma di espressione che può raccontare e riconsiderare l’immaginario collettivo, delle nuove generazioni e non solo; Ian Chambers, uno dei più autorevoli esponenti dei cultural studies, rileva che 170 P. Peverini, Il videoclip. Strategie …, cit., p. 28. 171 Ivi, p. 32.

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La cultura di massa contemporanea è vissuta direttamente attraverso le superfici immediate della vita quotidiana: una radio, un disco, un paio di cuffie, gli annunci pubblicitari, lo schermo televisivo. Immersi ogni giorno nel suo flusso, ne abbiamo una «percezione distratta» (Benjamin 1973). Criticato a torto da molti osservatori per una sua presunta passività, è proprio questo modo distratto di percepire i prodotti culturali, favorito dalla riproduzione elettronica dei vari linguaggi visivi e sonori esistenti, che fa presagire un mutamento nelle «regole del gioco» (Lyotard 1979), e una situazione in cui tutti noi diventiamo degli «esperti» (Benjamin)172.

È indubbio che i video musicali contribuiscono a ridisegnare profondamente le dinamiche che regolano il rapporto tra spettatore e audiovisivo, in virtù di possibilità di fruizione “invasive” e di un bacino di pubblico sempre più numeroso ed eterogeneo. Di contro, per essere sempre in linea con le esigenze di questo pubblico, è necessario che le soluzioni stilistiche e i rituali espressivi siano continuamente rielaborati. Per questo i videoclip, oltre la funzione primaria di promozione all’album musicale e al suo autore, sono un riassunto delle forme espressive contemporanee, soprattutto con

[…] un linguaggio che nasce da profonde contaminazioni spazio-temporali, da un uso intensivo delle citazioni – come era evidente ad esempio già nell’eclettismo e sincretismo architettonico realizzato nelle grandi esposizioni – e si sviluppa in modo specifico nel tempo delle risorse immateriali, della riduzione al presente dei flussi televisivi di ogni tradizione e contesto storico (Abruzzese, Borrelli 2000, p.185)173.

I video non nascondono mai le tracce del loro scopo primario, puramente commerciale, e le esibiscono continuamente attraverso un meccanismo di autoriflessione che mira a catturare l’attenzione di un pubblico consapevole, mediante lo svelamento delle tecniche, delle dinamiche, degli scenari, rinegoziando continuamente il rapporto con lo spettatore, in una parola enunciando. L’enunciazione è «quella particolare istanza grazie a cui l’intersoggettività (emittente-ricevente, in questo caso) è inscritta all’interno del discorso stesso»; in altre parole può essere concepita come un atto di produzione originario, la pratica fondante del senso, che può rendersi più o meno visibile all’interno dell’enunciato. Nelle forme di testualità audiovisiva (cinema e televisione) l’enunciazione svolge un duplice ruolo decisivo. È sia l’istanza che media tra sostanze dell’espressione differenti, cioè i suoni e le immagini, dando luogo alla loro 172 Ivi, p. 33 173 Ibidem.

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unificazione in un’unica forma audio-visiva, sia l’elemento che permette di ridiscutere a un livello pratico le forme di contatto tra emittente e destinatario, attraverso l’uso di figure particolari come l’uso della soggettiva, gli sguardi in camera, le riprese dei “dietro le quinte”.

Nei video musicali, l’uso di queste figure dell’enunciazione è finalizzato al soddisfacimento dell’esigenza di avvicinare la star al suo pubblico allo scopo di stimolare le motivazioni all’acquisto del prodotto musicale. Gli accorgimenti sfruttati nelle produzioni di video, soprattutto quelle più recenti, consistono nei continui rimandi all’apparato della produzione, alle riprese dei backstage, all’allestimento e alla ripresa di finti scenari; come detto, lo scopo non è più solo quello di far identificare lo spettatore con il modello, anzi, appurato come ciò sia complesso se non impossibile, diventa primario far condividere al pubblico le fasi della costruzione del mito. Il sincretismo linguistico dei video, la loro durata ridotta, l’esigenza commerciale non costituiscono un vincolo a canoni rigidi, ma sono sfruttati per una continua esplorazione di nuove figure del ritmo audiovisivo con ricadute profonde sui canoni estetici del linguaggio televisivo e cinematografico.

La riprova di ciò si manifesta in modo rilevante all’inizio degli anni Novanta. Gli anni Ottanta sono stati il decennio dell’affermazione del videoclip, che si impone soprattutto come mezzo promozionale delle star, centro di tutto il prodotto audiovisivo; cantano, ballano, sono protagoniste di eventuali narrazioni video. Negli anni Novanta il discorso cambia; cambiano gli stili musicali, si affermano generi nuovi come il big beat e il trip hop174 che, per le loro intrinseche caratteristiche, non necessitano del presenzialismo degli artisti che li eseguono. A differenza che per le star degli anni Ottanta, perciò, viene meno l’esigenza di occupare il centro della scena175. 174 Il decennio vede nascere generi all’insegna della commistione, sia sul versante delle tecniche, utilizzando il dialogo, all’epoca innovativo, tra analogico e digitale, sia su quello dei generi, intrecciando e amalgamando diversi stili musicali. Così, in estrema sintesi, il trip-hop, fonderà l’hip hop e rock, mentre il big beat può definirsi un «concentrato» di hip-hop, punk, remix di brani anni ‘60. 175 I motivi di questo cambiamento non sono solo legati al cambiamento dello stile musicale. Il mondo che si affaccia agli anni Novanta è radicalmente diverso da quello del decennio precedente; la caduta del Muro e del comunismo ha provocato un vero e proprio spaesamento negli USA che si ritrovano come unica superpotenza mondiale, ma non avendo più un nemico con cui confrontarsi, sono in preda a una vera e propria crisi di identità. La necessità di un presenzialismo forte, impersonificata dall’ edonismo di Reagan non è più necessaria. Quando, nel 1992, dopo dodici anni, i democratici tornano alla Casa Bianca con Bill Clinton, primo presidente nato dopo la fine della II G.M., l’inversione di rotta rispetto al passato è notevole; da un’economia basata sull’industria, Clinton lancia un sistema economico basato sui servizi, su un forte sitema di comunicazioni e che sfrutta le potenzialità che il nuovo strumento tecnologico del web rende possibili. È con lui si comincia a parlare di New Economy. Il mondo, svincolato dalla politica

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Non c’è più lo schema che vede il cantante che canta, il gruppo che suona e le avventure della star. I brani cui associare le immagini sono spesso esclusivamente strumentali e, di conseguenza, l’abbinamento deve essere organizzato in un modo diverso. L’inversione di valori degli anni Novanta è perciò rilevante: se prima, nella maggior parte dei casi, erano le canzoni a determinare i video e questi ne seguivano rigorosamente strategie commerciali e conseguenti destini, adesso questo vincolo viene meno, il ruolo dei registi non è più quello di esecutori dei personalismi delle star, possono esprimersi liberamente e fare del promo un oggetto diverso. Il videoclip non è solo il supporto alla canzone, è un ulteriore elemento della proposta musicale, la arricchisce e, per la prima volta, crea un suo specifico pubblico appassionato. Gli anni Novanta sono gli anni d’oro di MTV; si affermano i videomaker, veri e propri registi che impongono i propri stili e le loro caratteristiche individuali e, proprio per questo, vengono ricercati e scelti. Diventano popolari nomi come Michel Gondry, Spike Jonze, David Fincher, Chris Cunningham e altri. È così forte l’inversione di tendenza che i loro video determinano, che le star ripensano le loro posizioni riguardo a come debba essere strutturato un videoclip.

Esemplare è il caso di Madonna, artista sempre attenta a ogni mutamento, che riesce ad adeguare la sua immagine, mediando tra presenzialismo e nuove tendenze e modificando la concettualità delle sue proposte video, peraltro realizzate con il meglio che era disponibile nel decennio; registi del calibro di David Fincher, Mark Romanek, Stephane Sednaoui, Walter Sterno, Jonas Akerlund e Chris Cunningham. Proprio con quest’ ultimo Madonna realizza nel 1998 Frozen, primo video tratto dall’album Ray of Light considerato:

[…] un’opera decisiva, crocevia storico tra due modalità espressive, l’iconic video e il video d’autore. Il regista Chris Cunningham, all’epoca, ha diretto solo un pugno di titoli, ma le sue istanze deformate della realtà, certe trascendenze psichedeliche, la biologia mutante e tecnologicizzata, la science fiction possibile, le glaciali e cupe ricognizioni nell’inferno contemporaneo si sono già imposte con forza straordinaria, tanto da diventare un patrimonio al quale ancora tale immaginario attinge quasi inconsapevolmente. Cunningham, per converso, dopo l’esperienza con Madonna afferma di non volere più collaborare con una star del mainstream: nel 2005 in un’intervista a «Pitchfork», dichiara: «Il video con Madonna fu un’esperienza che non

dei blocchi contrapposti e rigidamente separati, diventa interconnesso, le informazioni viaggiano per tutto il globo, mescolando elementi globali e realtà locali (glocal).

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volli più ripetere. Non fu così male, sto facendo un po’ il melodrammatico: a confronto con tante altre persone, ho ricevuto molto rispetto e molta libertà. Ma per i miei standard non era abbastanza. Ho bisogno di sapere che se decido di scartare tutto e di tenere buona solo una sequenza, mi sarà permesso farlo. Ma quando stai lavorando con tutti quei soldi e con un grosso artista che si mette così tanto in gioco, c’è uno stress aggiuntivo che non mi piace»176.

I video degli anni Novanta, sdoganati dal solo ruolo di mezzi promozionali della canzone e dell’artista, diventano un mezzo espressivo che si aggiunge agli altri e se Madonna, aperta alle nuove tendenze, comunque media con le sue esigenze di immagine, un’artista europea come Björk risulta molto più duttile; non rinuncia alla sua immagine, ma è disposta a mettersi a disposizione del regista autore cui si affida, dando risalto alla loro collaborazione. In questo senso Biörk costituisce un riferimento tra gli artisti per la sua capacità di muoversi in linea con le evoluzioni del linguaggio dei videomaker.

Se nel decennio precedente gli autori dei video erano dei perfetti sconosciuti, negli anni Novanta i nomi, oltre a emergere, divengono essi stessi motivo promozionale177. La collaborazione è una griffe. Certamente non tutti i registi di videoclip sono autori e non va sottovalutato il ruolo importante che gioca comunque la committenza, ma resta il fatto che, dagli anni Novanta, il videomaker va considerato in un altro modo perché è in un altro modo che opera, conscio di come il suo lavoro possa influire sulla percezione della canzone e di come le immagini divengano importanti per sottolineare gli elementi del brano, siano i suoni, il ritmo, il testo, al punto che video diversi per la stessa canzone creano nell’immaginario dello spettatore emozioni anche molto diverse.

Quello del videoclip è un campo dove i registi hanno la possibilità di sperimentare in modo praticamente illimitato, come sottolinea David Fincher, che definisce l’esperienza del video musicale «the most terrific sandbox»178. È grazie a professionisti come Fincher che il video musicale ha guadagnato una sua dignità nel

176 L. Pacilio, Il videoclip nell’era di Youtube, 100 videomaker per un nuovo millennio, Bietti, Milano 2014, p. 21. 177 In una puntata del programma di RaiTre del 1999, Ghezzi trasmetterà il video dei Chemical Brothers Let Forever Be, che sarà spesso presentato come «l’ultimo lavoro di Gondry», a rimarcare l’importanza del regista, peraltro uno dei più celebri videomaker. 178 L. Pacilio, Il videoclip nell’era di Youtube …, cit., p. 23.

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settore degli audiovisivi, sviluppando in modo appassionato la relazione tra immagini e suono.

La loro autorialità è legata all’avere imposto alla forma commerciale, ludica, breve del clip una marca estetica, una poetica, imponendo così un lavoro sul testo molto simile a quello cinematografico e soprattutto snaturando il videoclip nato come spot di una canzone da inserire in una rotazione (o in una compilation di musicisti), per ridefinirlo come opera da studiare e godere all’interno di un corpus autoriale registico. Con questi autori, dopo il classicismo degli anni Ottanta, il videoclip entra in una fase nuova, moderna, legata anche al definitivo sdoganamento in campo critico e teorico179.

Soprattutto nei primi anni, il videoclip attinge dal linguaggio del cinema, il genere audiovisivo per eccellenza. I video, in questo senso, si trasformano in veri “mini-film” musicali e non mancano i registi del grande schermo che si cimentano in questo genere emergente. Paradigmatico è il caso del videoclip di Thriller del 1983, pezzo storico di Michael Jackson diretto da John Landis, all’epoca già affermato con film come National Lampoon's Animal House (Animal House - 1978); The Blues Brothers (Id. - 1980) e An American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra -1981). Landis sceglie di girare un vero e proprio cortometraggio, della durata di circa 15 min. nella versione originale, che non intende semplicemente presentare il brano musicale e l’artista, ma anche raccontare una storia. L’ispirazione è quella del genere thriller-horror e il videoclip si snoda attraverso un crescendo di suspense, in un’ambientazione tipicamente cinematografica. Non è un caso se Landis inserisca all’interno della storia Michael Jackson e la sua bella al cinema. Come è abbastanza usuale che registi cinematografici si cimentino in realizzazioni di videoclip180, non sono 179 Ivi, p. 24. 180 Anche un maestro del cinema come Michelangelo Antonioni si è cimentato nel campo dei video musicali, seppure con risultati non proprio all’altezza della sua arte. Ecco, in merito, la recensione di Gino Castaldo su «Repubblica» del 26 giugno 1984, del video che il grande regista ferrarese diresse per la canzone Fotoromanza della Nannini: «Molta delusione per Fotoromanza e Antonioni illustra le parole della Nannini. La rappresentanza italiana a Cervia era foltissima, ma è ovvio che l'attesa fosse tutta per Fotoromanza, il videoclip realizzato da Michelangelo Antonioni sulla canzone di Gianna Nannini. Quando il video è finalmente arrivato, è stato accolto da un silenzio stupefatto. Sì, è vero: Antonioni aveva detto di essersi sentito piuttosto condizionato dalla canzone, che non aveva scelto e che, oltretutto, non gli piaceva granchè, ma nessuno si aspettava un risultato del genere. Il videoclip segue la canzone con rigido didascalismo (come non si vedeva dai primordi della videomusica), ad ogni frase cantata corrisponde una illustrazione conseguente: "questo amore è una camera a gas", e si vede una stanza che si riempie di fumo, "è una finta sul ring" e si vedono due boxeur, "è una scena al rallentatore" e, incredibile ma vero, arriva davvero una sequenza al rallentatore. E così via. Un pessimo servizio alla canzone e una

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pochi i registi di videoclip che si sono cimentati con il cinema: Michel Gondry, considerato da molti come il “maestro” assoluto dei videoclip, firmerà Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello – 2004) che gli valse un Oscar nel 2005 per la miglior sceneggiatura originale, a riprova di come i registi di videoclip non siano inferiori a quelli cinematografici. Spike Jonze è un altro nome simbolo degli anni Novanta che nel 2013 ha vinto un Oscar per la sceneggiatura Her (Lei – 2013). Tra l’altro, mentre Gondry ha ridotto l’attività nei video a favore di quella cinematografica, Jonze è ancora attivo in maniera sempre convinta continuando la sua ricerca. Joseph Kahn nel 2011 firma Detention, film che gronda riferimenti dal cinema generazionale, dalla fantascienza stile Cronenberg, da film come Donnie Darko (Donnie Darko – 2001), elementi che Kahn fonde in un organismo unico di 93 minuti senza passaggi interlocutori e a velocità supersonica. L’unico dei “grandi” a non aver diretto un film tutto suo è Cunningham, che però, sotto pseudonimo o non accreditato, ha comunque avuto dei ruoli, nel cinema di fiction ufficiale: nel 1990 ha curato gli effetti speciali per Nightbreed (Cabal – 1990) e ha poi lavorato sul set di Alien (Id. – 1990); Alien3 (Id. – 1992); Alien: Resurrection (Alien: la Clonazione – 1997) e Artificial Intelligence: AI (A.I. – Intelligenza Artificiale – 2001).

Nonostante gli sconfinamenti da un settore all’altro facciano intuire come tra i due campi esistano molti punti di contatto, quasi tutta la critica cinematografica ha avuto nei confronti di questo mondo un atteggiamento di pregiudizio, vivendo l’ingresso di molti videomaker nel cinema “serio” non come la possibilità di un arricchimento reciproco, ma come un’invasione volgarizzante della settima arte. Se invece il punto di vista fosse stato di apertura, forse sarebbe anche più facile la comprensione del linguaggio di molti film di oggi, senza arrivare tardivamente a scoperte che sono “ovvie” per chi ha un minimo di familiarità con i videoclip. Il critico cinematografico, di norma, non accetta l’idea che gli autori di clip, più di tutti, riescano a intercettare la contemporaneità e le forme che esprime, cosa sia di cattivo gusto e cosa faccia tendenza, riuscendo a mediare tra i due aspetti con un linguaggio che è costantemente in linea con l’attualità. Intere generazioni, piaccia o no, si sono formate

delusione per quanti speravano in uno scatto di qualità su piani superiori d' immagine. Del resto, quasi tutta la produzione italiana è visibilmente arretrata, vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per scarsa dimestichezza col genere specifico. […].

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guardando MTV; è necessario approcciare ai lavori cinematografici che si rifanno a quei codici senza pregiudizi, senza diffidenze.

C’è un evidente pregiudizio verso il mainstream, una convenzione cinematografica che si manifesta nella contrapposizione che i critici propugnano fra le idee, l’umanità, la narrazione e la coerenza (i buoni film), e la distrazione, il caos, la superficialità e il nonsense (l’estetica da MTV). In altre parole, anche se fosse vero che oggi i film di Hollywood sono molto diversi dal passato (affermazione molto discutibile), non esiste nessuna ragione per la quale la coerenza, la narrazione e lo sviluppo dei personaggi dovrebbero essere preferiti allo stile, allo spettacolo e al «superficiale» caos cinematografico – a meno che, come ho appena affermato, i critici non lavorino con degli assunti rigidi su quello che i film di Hollywood possono e devono essere. Il fatto che molti critici rifiutino l’estetica MTV ritenendola sciocca, predefinita e commerciale e allo stesso tempo non l’accettino a causa dell’allontanamento dalle norme della coerenza, della storia e di un chiaro e comprensibile significato – cosa che certamente fa parte di un’infinità di opere d’arte, di cinema e non solo – sono soltanto punti di ulteriori contraddizioni nella loro confutazione all’estetica di MTV181.

Eppure, dalla sua entrata in scena, il videoclip si è imposto come oggetto di promozione non solo musicale ma anche cinematografica, fino a essere uno degli elementi principali delle strategie commerciali dei prodotti delle grandi produzioni hollywoodiane, dense di effetti speciali, rimpiazzando i vecchi trailer e garantendosi il successo grazie alla presenza delle maggiori star come Madonna o Will Smith. Bruno Di Marino riporta le parole di Serge Daney a riguardo

Il video musicale non è, come si dice “un piccolo film”, è il falso riassunto di un grande film introvabile. La clip è qualcuno che ti trascina in una serie di “scorciatoie” senza avere il coraggio di dire che, comunque, non conosce la strada giusta. Ed è proprio questo che è interessante. […] La clip è la memoria del cinema in quanto il cinema è finito. Ma è anche la promessa del cinema in quanto il cinema comunque si ricompone. Ci sono due modi di vedere una clip. Come un simulacro (frammenti di un tempo perduto) o come un sintomo (frammenti di un tutto da scoprire)182.

È indubbio che alcune delle peculiarità del linguaggio dei video musicali siano diventate consuete anche negli altri media. Il video musicale si è trovato coinvolto 181 M. Calavita, “MTV Aesthetics” at the Movies: Interrogating a Film Criticism Fallacy, «Journal of film and Video», a. 59, n.3, autunno 2007, p. 27 (trad.mia). 182 B. Di Marino, Clip!20 anni di musica in video, Castelvecchi, Roma 2001, p. 32.

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in un più ampio processo caratterizzato dalla contaminazione e ibridazione delle varie forme dei mezzi di comunicazione e di divulgazione culturale (i massmedia), favorito dall’avvento delle tecnologie digitali che hanno permesso l’eliminazione della separazione esistente tra le diverse forme d’arte operando un passaggio di stile che dai videoclip si è propagato verso gli audiovisivi più tradizionali. Gli autori di videoclip, obbligati a considerare sempre, anche nelle loro massime espressioni artistiche, l’aspetto commerciale, sono riusciti a intercettare le tendenze e i cambiamenti sociali prima degli altri e, nel fare questo, hanno sviluppato dei prodotti caratterizzati da un ritmo frenetico, rispondente ai ritmi e stili di vita attuali e perciò in grado di tenere costantemente alta l’attenzione del pubblico che si è abituato a questo linguaggio, molto lontano dalla produzione cinematografia e televisiva tradizionale. Il cosiddetto MTV-style, nonostante le critiche aspre che ha subito, è stato trasferito all’estetica cinematografica.

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Madonna: Frozen (regia: Chris Cunningham – 1998)

Madonna: Frozen (regia: Chris Cunningham – 1998)

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Michael Jackson: Thriller (regia: John Landis – 1983)

Björk: Stonemilker (regia: Andrew Huang – 2015) Clip in realtà virtuale a 360 gradi

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3.2 Baz Luhrmann. Postmoderno, Cinema, Musica e Videoclip.

Uno degli esempi paradigmatici della contaminazione tra forme d’arte che caratterizza la fine del Novecento è senza dubbio rappresentata dalla cinematografia di Baz Luhrmann, regista australiano proveniente da una piccola cittadina del Nuovo Galles del Sud, dove viene cresciuto dalla mamma, insegnante di ballo e proprietaria di un negozio di abbigliamento e dal padre gestore di una pompa di benzina e del cinema del paese. Dopo l’infanzia passata imparando a ballare e la scuola a Sydney, Luhrmann esordisce come attore nel film Winter of Our Dreams e partecipa al film-documentario, dove è attore e condirettore, Kids of the Cross. Nel 1984 si iscrive al prestigioso National Institute of Dramatic Arts in Sydney (NIDA) e, nel 1985, è uno degli assistenti del grande maestro regista teatrale Peter Brook per la realizzazione dell’epico The Mahabharata. Nel 1986 mette in scena una breve rappresentazione teatrale, di cui è anche ideatore, dal titolo Strictly Ballroom che, al Festival Mondiale Giovanile del Teatro di Bratislava, vince i premi per la miglior produzione e la miglior regia. Sempre in quell’anno è il regista di Crocodile Creek, un musical teatrale completamente realizzato in Australia.

Dopo la laurea al NIDA, si forma lavorando come direttore artistico per una compagnia indipendente chiamata Six Years Old Company. Intanto Strictly Ballroom è un successo che viene replicato al Wharf Theatre di Sydney e al World Expo di Brisbane. Prima di giungere alla versione cinematografica di questo lavoro, il regista si dedica alla messa in scena di opere classiche, tra cui una versione de La Bohème, ambientata nel 1950, che riscuote un grande successo nella rappresentazione all’ Australian Opera.

Luhrmann La Bohème was originally set in Paris c. 1830, but Luhrmann placed his version in the 1950s, working with longtime creative partner Catherine Martin to design striking, monochromatic sets, contemporary costumes, and an innovative mobile stage. Luhrmann's La Bohème appealed to opera aficionados as well as to a younger generation not so familiar with the medium. It won the annual Australian live entertainment (‘Mo’) Award for Operatic Performance, and in 1994 it was aired in the United States on the Public Broadcasting System’s “Great Performances” series.

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Luhrmann’s and Martin’s production was restaged in 1993 and 1996, and in 2002 Luhrmann adapted it for a Broadway version simply titled Bohème183.

Eclettico uomo di spettacolo, Luhrmann si cimenta anche nella realizzazione di videoclip, tra i più importanti dei quali quello per Paul Young e la sua Love is in the Air e per la cover di Ignatius Jones del brano Beat Me Daddy, Eight to the Bar, delle Andrew Sisters184. Il suo interesse per la musica è dimostrato anche dalle cooperazioni con Anton Monsted, destinato a diventare uno dei suoi più importanti collaboratori, che porteranno alla produzione di CD di successo. Il film che segna il suo debutto cinematografico come regista è del 1992 ed è la versione estesa dell’atto unico che aveva avuto un buon successo a teatro: Strictly Ballroom (Gara di Ballo – 1992).

Presentato a Cannes, vince il premio dei giovani e ottiene una menzione speciale per il premio Camera d’Oro. Lo stile di Luhrmann, che è ancora sconosciuto ai più, appare già in tutte le sue componenti più importanti in questa opera d’esordio, la prima della cosiddetta trilogia del Sipario Rosso che comprenderà William Shakespeare's Romeo + Juliet (Romeo + Giulietta di William Shakespeare – 1996) e Moulin Rouge! (Id. – 2001); Luhrmann sviluppa la prima opera di questa trilogia contaminando fra loro convenzioni teatrali e cinematografiche per disegnare sulla struttura e lo stile di un musical di Hollywood, una storia ambientata in una lontanissima Australia, combinando immagini colorate e abbaglianti con una colonna sonora composta di brani di musica classica, pop e dance.

È un film senza star internazionali, il cast è costituito da alcuni bravi caratteristi e attori poco conosciuti, con cui Luhrmann riesce a far quadrare il budget a disposizione, alquanto ridotto, privilegiando costumi e scenografie. Strictly Ballroom differisce dai classici lavori “festivalieri”; i suoi toni ottimisti e il suo stile da parodia non rientrano nei canoni tipici del cinema europeo, ma il suo allegro populismo è risultato molto gradito al pubblico. La trama è estremamente semplice. In una cittadina della provincia australiana vive Scott, figlio di due appassionati ballerini, Shirley e 183 R. Coyle, Baz Luhrmann’s Eclectic Musical Signature in the Red Curtain Trilogy, «Screen Sound» n.4, 2013, p. 12. 184 Trio vocale formato dalle sorelle Andrews: LaVerne Sophie (Minneapolis, MN, 6 luglio 1911 – Brentwood, CA, 8 maggio 1967); Maxene Angelyn (Minneapolis, MN, 3 gennaio 1916- Boston, MA, 21 ottobre 1995) e Patricia Maria (Minneapolis, MN, 16 febbraio 1918 – Northridge, California, 30 gennaio 2013). Al culmine della loro popolarità, negli anni quaranta, parteciparono a diciassette film, tra cui Buck privates (Gianni e Pinotto reclute - 1941); Swingtime Johnny (1943).

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Doug. La madre è disperata perché il figlio, promettente ballerino, abile in qualsiasi tipo di danza figurata, ha deciso di inserire a sorpresa nelle sue esibizioni dei passi non previsti dalla tradizione provocando le ire degli anziani tutori del regolamento. Rischia così di non essere ammesso all'importantissimo Pan Pacific Grand Prix, che le sue doti gli consentirebbero di vincere. Scott però continua per la sua strada e, anzi, fa di più; decide di accettare la proposta di Fran, ragazza latino americana appassionata di danza ma molto introversa, di essere la sua partner, lei o nessuna. La Federazione della danza e la madre fanno di tutto per farlo “rinsavire”, mentre l'unico che sembra assistere passivamente alla diatriba è il padre che però saprà riservare a Scott più di una sorpresa185.

Il film, dietro una storia tra le più ovvie e inflazionate, un lui e una lei provenienti da ambiti socioculturali decisamente diversi, impegnati a diventare coppia nella vita e nella danza, nascondeva un secondo livello di lettura, cioè un tentativo, riuscito, di presentare una nuova idea di cinema. Il protagonista Scott è un ballerino che conosce alla perfezione tutte le tecniche base, ma proprio per questo ne soffre la ripetitività e cerca perciò di rinnovarle attraverso l’introduzione di passi di danza che rivisitino la tradizione. Attraverso il personaggio autobiografico di Scott, Luhrmann illustra la propria idea di cinema, cioè l’esplorazione continua dei generi e delle loro codifiche; ogni genere preso in considerazione da Luhrmann è studiato, analizzato, rivisitato e consegnato al pubblico come qualcosa di corrispondente al modello ma profondamente rinnovato.

I riferimenti ai miti cinematografici e non solo sono molti: Scott è un bianco e Fran è una immigrata latino americana, come lo erano Tony e Maria di West Side Story; Fran è una somma di Cenerentola e Brutto Anatroccolo; i film anni Ottanta sul ballo sono tutti presenti: Grease, Fame, Saranno famosi, Dirty Dancing, Saturday Night Fever186. L’accumulo di citazioni contenute in Strictly Ballroom potrebbe sembrare un’operazione di nostalgia e, certamente, Luhrmann ha nostalgia per il musical di Hollywood, ma le fonti di ispirazione non sono solo da omaggiare, servono per fornire materiale su cui lavorare per dare origine a un nuovo, più moderno, prodotto. Piuttosto

185 Trama pubblicata su www.mymovies.it. 186 L’assolo di Scott nello studio di danza richiama palesemente John Travolta, evocando il periodo di massimo splendore della disco-music.

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che guardare con nostalgia al passato dell’età d’oro, il regista australiano usa i riferimenti e le citazioni per andare avanti e delineare la propria visione estetica.

The manipulation of cinematic time is evident in the opening sequence, which begins with a monochrome, slow motion, medium-long shot of Scott and Liz with Scott’s friend Wayne (Pip Mushin) and his partner Vanessa (Leonie Page) excitedly preparing to enter ballroom. They are in costume, and the Blue Danube waltz play as they move in slow motion through the glass doors at the entrance towards the camera. This is the audience’s first glimpse of ballroom enchanted world, wich appears dreamlike. There is an explosion of sound and colour as the dancers burst onto the dance floor to begin their exhibition. […] the strategy of cutting the two scenes against one another, combined with the histrionic, non-naturalistic performance by Pat Thomson as Shirley, produces an impression that both are taking place simultaneously. The confusion about time scale is exacerbated when the next sequence at Kendall’s dance studio carries the title «Three days later»187.

Un altro esempio di gioco con il tempo è nella sequenza retrò che accompagna la storia con cui Barry Fife, il presidente della federazione di ballo cerca di convincere Scott a desistere dalla sua idea di inserire nuovi passi non conformi nei numeri di danza. La fotografia in bianco e nero di Doug e Shirley, genitori di Scott, prende vita come i loro passi veloci sul palco, incorniciati dal vellutato sipario rosso. Il tempo e il luogo sono indefiniti; la foto in bianco e nero evoca gli anni Trenta - Quaranta, la pettinatura di Shirley richiama gli anni Cinquanta – Sessanta.

Il set combina gli anni Cinquanta, lo stile del “sipario rosso” con la disco degli anni Settanta, lo striscione titola “Championship 1967” mentre i due danzano sulle note di Yesterday Hero di Paul Young del 1975 a ritmo di Swing Jazz anni Cinquanta. Il trucco e le movenze di Doug evocano quelle del celebre Maestro di Cerimonie, alias Joel Grey in Cabaret (Id. – 1972) di Bob Fosse. Sebbene questo modo di gettare lo sguardo nel passato sia molto più stilizzato e onirico in questa scena che nel resto del film, Luhrmann indica qui, in modo chiaro, i principi base della sua Red Curtain aesthetic; la ridondante messa in scena di stile teatrale descrive «un mondo artificiale autosufficiente in cui i personaggi sono stereotipati e privi di profondità psicologica»188.

187 P. Cook, Baz Luhrmann, BFI Palgrave Macmillan, London 2010, p. 47. 188 Ivi, p. 49.

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Il regista usa il pastiche189 per satireggiare le convenzioni del teatro e del cinema e imporre il suo stile decisamente non-naturalistico. Anche per i luoghi Luhrmann utilizza lo stesso metodo che usa per il tempo; siamo in Australia, ma è una Australia immaginaria, è l’Australia che Luhrmann ha nella mente; la sala da ballo è un microcosmo, più vicino a Hollywood che a Sydney, ma potrebbe essere qualsiasi altro luogo. Ci sono degli indizi che fanno pensare a dei luoghi precisi: la competizione iniziale è il Warah State Championship, che fa pensare al Nuovo Galles del Sud, ma tutto è intenzionalmente accennato, vago.

La grande insegna della Coca-Cola ricorda la torre che domina la stazione King Cross a Sidney e potrebbe intendersi come un segno della passione che il regista ha per la cultura americana, ma anche come una ironica dichiarazione nei riguardi del dominio di quella cultura. Il tetto della sala da ballo, come il resto del film, è una combinazione di segni, riferiti a luoghi specifici, rappresentati attraverso delle ricostruzioni assolutamente creative. Luhrmann trova le motivazioni del suo cinema non nella storia in se stessa, ma nella «magia» della sua rappresentazione, nella scelta e nella cura delle musiche, nell’invenzione delle coreografie. Il successo di Strictly Ballroom consolida la sua fama di innovatore, portandola fuori dai confini nazionali e facendo notare il regista dalle grandi produzioni che, per il suo secondo film non lesinarono finanziamenti di gran lunga superiori al low-budget di Strictly Ballroom. L’accordo raggiunto con la Twenty Century Fox, gli assicura oltre a un buon ritorno economico, la massima autonomia nello sviluppo del suo lavoro. 189 «Il pastiche, letteralmente «Composizione, per lo più letteraria o musicale, risultante dalla giustapposizione di brani di opere diverse di un solo autore o di più autori che utilizzano stili e linguaggi diversi» (vocabolario Treccani online), vuole essere imitazione di una determinata maschera, anch'esso si dimostra in apparenza, similmente alla parodia, come provocazione, come stimolo e slancio creativo, ma in realtà finisce necessariamente per chiudersi all'interno di una viziosa circolarità, ricadendo su se stesso. Si potrebbe dire che il pastiche sia in qualche modo già la parodia di se stesso. In altre parole, con il crollo dell'ideologia moderna dello stile, la parodia perde la propria funzione svuotandosi e trasformandosi in uno stile bianco fine a se stesso e privo di un qualsivoglia referente donatore di senso. Si tratta di una dinamica molto simile a quella incontrata a proposito del confronto delle scarpe di Van Gogh e di Warhol, in cui si vedeva chiaramente il passaggio da un modello di realtà strutturato nel senso della profondità ad uno completamente irretito in una dimensione di piattezza e di lucidità. Nella pratica del pastiche l'universo linguistico viene ridotto ad un groviglio inestricabile di stili e dialetti in cui appare inmpossibile trovare un centro. La vita del pastiche consiste nel saccheggio indiscriminato e sistematico degli stili morti del passato, e in ultima istanza è proprio al passato in quanto tale e alla sua onnivora presenza che essa richiama lo sguardo del critico. […] Ciò che appare immediatamente e in modo più emblematico non è tanto la perdita di un qualsivoglia slancio utopistico-redentivo, quanto il fatto che nella post-modernità il passato sembra volersi costituire come unica dimensione temporale possibile e, in particolar modo, prendere la forma del presente. In altre parole, nel clima post-moderno, il passato si configura come dominante temporale, assorbendo sia il presente che il futuro ed i loro possibili rapporti, tendendo cioè ad organizzarsi cvome unica forma possibile di esperienza del tempo».

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I quattro anni fra l’uscita di Strictly Ballroom e quella di William Shakespeare’s Romeo + Juliet sono un periodo molto movimentato per Luhrmann e Catherine Martin190. Abituati a lavorare contemporaneamente su diversi progetti, saliti alla ribalta per il successo della loro opera prima cinematografica, erano molto impegnati nella rappresentazione della versione Hindu di un'opera lirica di Benjamin Britten, del 1960, liberamente tratta dall'omonimo lavoro teatrale di William Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate; è durante i lavori preparatori a quest’opera che i due soggiornano in India, visitando il Rajasthan e provando l’esperienza di vedere dei film di Bollywood.

Lo stile di quella cinematografia, composta di ambientazioni colorate, trama drammatica e protagonisti che si corteggiano cantando tra elaborate coreografie, ispirate sia ai musical hollywoodiani degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, sia alle danze indiane, segneranno le future produzioni, influenzando Romeo + Juliet e Moulin Rouge!. Gli sviluppi del lavoro di preparazione del Sogno shakespeariano devono certamente aver influenzato la successiva scelta di Luhrmann; l’adattamento di Romeo e Giulietta di cui sarà regista, co-sceneggiatore e co-produttore. L’idea era quella di fare un film che rendesse lo spirito del teatro di Shakespeare, utilizzando forme contemporanee: «[…] to make the film that Shakespeare’s himself might make. This would also take the theatrical cinematic style to the next level, updating the play for a modern audience while retaing Shakespeare’s poetic laguage»191. Luhrmann propone una versione “medializzata” della storia di quei due «amanti, nati sotto infelice stella». Ancora una volta, sebbene a distanza di anni, gli stessi temi di ribellione dei giovani e la crisi di autorevolezza della famiglia, vengono posti al centro dell’attenzione dai media. Luhrmann li ripropone, combinandoli con il caos post-moderno di una metropoli versione ibrida di Miami, Los Angeles e New Mexico, tra colpi di pistola e pasticche di ecstasy.

Le vicende ricalcano quasi interamente, ambientate ai giorni nostri, quelle della tragedia shakespeariana di cui sono ripresi in modo molto fedele i testi. Le 190 Compagna nella vita del regista australiano, due volte vincitrice di un Academy Award, è la forza ispiratrice del design della Bazmark Inq. La sua estetica ricca e distintiva è da sempre un ingrediente essenziale in tutti i progetti di Baz Luhrmann: dal cinema all'opera, dalla commedia agli eventi live. Insieme a Luhrmann, la Martin è socia della Bazmark Inq. che, con le consociate Bazmark Live e Bazmark Music, è una della società di produzioni più innovative a livello mondiale nel settore del cinema, del teatro e dello spettacolo (fonte:www.mymovies.it). 191 P. Cook, Baz Luhrmann, cit., p. 58.

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famiglie dei Montecchi e dei Capuleti sono rappresentate come dei potenti imperi d’affari e al posto delle spade ci sono le pistole. Luhrmann trasporta l’ambientazione in un sobborgo di Los Angeles di fantasia, chiamato Verona Beach192, mentre Mantova diventa una desolata area desertica. L’approccio brioso al tempo e allo spazio era un punto forte della poetica di Shakespeare, senza trascurare l’importanza dei costumi, altro punto cardine del teatro elisabettiano. La costumista Kym Barrett disegna gli abiti dei personaggi cercando di mantenere il linguaggio shakespeariano ricorrendo anche a interpretazioni letterali. Romeo veste l’armatura da cavaliere come nell’ opera originale e le ali d’angelo di Giulietta riportano direttamente alla definizione di «angelo luminoso», ma l’immaginario felino con cui è rappresentato Tibaldo è simboleggiato dai suoi luccicanti stivali bianchi dove spiccano gli speroni stampati a forma di gatto.

I personaggi sono riconoscibili dalle loro tenute, che vanno dagli abiti anni Sessanta (gli anziani) ai vestiti su misura stile Dolce e Gabbana (i Capuleti giovani) fino alle magliette hawaiane (i Montecchi). Per sottolineare la purezza dell’amore di Romeo e Giulietta, la Barrrett aveva consultato Prada, ritenendo che lo stile del noto marchio italiano della moda fosse quello adatto al suo scopo e alle indicazioni di Luhrmann.

Barrett felt that their costumes should be simple, and consulted the Italian fashion house Prada, whose steamlined style she perceived as appropriate. Prada supplied the suit that Romeo wore to his wedding. In other scenes, Romeo was dressed predominantly in blue or silver-grey, while Juliet’s costume was mainly white. The simplicity of colour and line projected the innocence of the young couple and intimated their tenuos hold on life193.

Lo stile schematico dei costumi è stato solo uno degli aspetti in cui l’adattamento di Luhrmann differisce da altri film ispirati allo stesso immortale soggetto. In tutta la pellicola Luhrmann gioca mischiando la cultura letteraria a quella popolare dei personaggi cult del contemporaneo. Padre Lorenzo, il prete tatuato, richiama Giovanni Paolo II, il Papa amico dei giovani, icona del periodo sociale e politico del secolo scorso. Il teatrale make-up da Cleopatra di Lady Capuleti richiama la Madonna di Open Your Heart. Il padre autoritario e violento ricorda Vito Corleone, e tutta la serie di produzioni cinematografiche degli anni Novanta ambientate nel mondo della malavita. Romeo si contrappone al resto del suo clan perché indossa le vesti di 192 Il nome della località gioca sul fatto che a Los Angeles esiste un luogo chiamato Venice Beach. 193 P. Cook, Baz Luhrmann, cit., p. 63.

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cavaliere romantico. Mercuzio, vestito da drag queen, mostra l'amore perverso, carnale, legato al mondo della droga, dei travestimenti e della disco-music che ha segnato gli anni '80. L’ ambiente di Verona Beach è pieno di immagini di cinismo capitalista; la città è set di violenza urbana, assalti mediatici, consumismo e alienazione. E' un mondo post-moderno, dove soldi e armi fanno il potere delle persone.

Come con Strictly Ballroom, il regista australiano costruisce una complessa tessitura di immagini, suoni e riferimenti culturali che producono un effetto di sospensione dello spazio e del tempo, dove l’ora e il poi, il qui e là si confondono; la tragedia originale aveva già subito molte trasformazioni durante la sua lunga storia; Luhrmann le azzera tutte e fa emergere le possibilità di adattamento che giacevano sotto il dramma, costruendo un visibile che Pam Cook definisce un’ estetica dell’ «iperbole iperbolica»194.

L’uso della iperbole nel Romeo and Juliet shakespeariano collega commedia e tragedia, amore e morte, esplora gli effetti a volte nefasti della religione e si pone in polemica con la concezione utopica dell’amore che vince sopra ogni cosa. Nel film di Luhrmann, il linguaggio cinematografico è “aumentato”, ridondante in ogni sua componente; costumi, recitazione, colori, dialoghi, musica, uso della macchina da presa, montaggio. Questa estetica dell’iperbolica iperbole traduce lo stile magniloquente di Shakespeare in qualcosa che costruisce una nuova esperienza audiovisiva, puntando dritta alle percezioni e ai sensi del pubblico. Anche la colonna sonora, che per il regista australiano è componente fondamentale, si muove in un ambito che conferma la ricerca di uno stile schematico, ma riesce a enfatizzare il realismo e a rimanere entro i confini della storia.

Prevalentemente vengono utilizzati brani contemporanei con pezzi di rock alternativo e musica pop eseguita da artisti spesso controversi: Crush dei Garbage; Lovefool dei Cardigans; Talk Show Host dei Radiohead; Whatever (I Had a dream) dei Butthole Surfers; Local God degli Everclear. Molte delle musiche sceneggiate rappresentano nichilismo, ossessioni, morte e fanno riferimento alla “drug culture”, aspetto quest’ultimo che rende esplicita l’intenzione di Luhrmann di rappresentare 194 L’iperbole è la figura retorica che consiste nell'esagerare la descrizione della realtà tramite espressioni che l'amplifichino, per eccesso o per difetto. Fu comunente usata nel Rinascimento e nel teatro elisabettiano; lo stesso Shakespeare vi ricorse nei suoi testi. Uno degli scopi dell’iperbole è quello di suscitare lo stupore del lettore o dello spettatore, per conquistarlo o per chiarire le vicende.

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Romeo come qualcosa a metà tra James Dean e Kurt Cobain195. L’uscita, in 1.200 sale avvenne il 1 novembre del 1996; il film incassò circa 14 milioni e mezzo di dollari nel primo fine settimana, con molti cinema “sold out” il giorno della prima, registrando i migliori incassi negli Stati Uniti per molte settimane. L’abile promozione, la presenza di giovani stelle del cinema e lo stile “MTV” dell’adattamento sono i motivi principali del favore incontrato, soprattutto presso i più giovani.

L’eccezionale successo di Romeo + Juliet stupì gli addetti ai lavori, mai un adattamento di Shakespeare aveva ottenuto un consenso di pubblico così vasto e trasversale. Luhrmann aveva raggiunto un obiettivo che sembrava impossibile: il suo stile sperimentale e molto personale aveva prodotto il fenomeno più sorprendente della stagione.

The film’s unpreciedented critical and box-office success had dramatic repercussion for Luhrmann’s career. Not only was he now internationally recognised as an auteur; he was also regarded by Fox as having the Midas touche. Romeo + Juliet was a risky venture, but it was also a shrewd gambit through which Luhrmann and Martin had acquired the artisitic credibility to give them bargaining power with Fox. Thanks to strategic thinking, they now entered a life-changing phase that would see the culmination of the theatrical cinematc style and the consolidation of their international prestige196.

Il successo di Romeo + Juliet consacra Luhrmann e il suo personalissimo stile, mettendolo in condizioni tali da poter trattare con i produttori in una posizione di vantaggio che gli consentirà una grande autonomia nelle sue scelte artistiche. Un primo passo è quello di tornare a lavorare stabilmente in Australia, dopo l’esperienza che lo aveva visto impegnato ai poli opposti del globo. Gli attuali rapporti con la Fox rendevano questo possibile; inoltre poteva così contribuire a incentivare le produzioni australiane di altri registi, aiutando finanziariamente a sviluppare il settore del cinema indipendente. Risiedere in patria facilita anche la possibilità di lavorare con quello che ormai era il suo vero e proprio team; Catherine Martin fonda nel 1997 la Bazmark Inq., consociata con la Bazmark Design, la Bazmark Film, la Bazmark Live and Bazmark

195 P. Cook, Baz Luhrmann, cit., p. 70. 196 Ivi, p. 82.

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Music, tutte con sede nella loro villa in stile italiano di 2.700 metri quadri House of Iona a Darlinghurst197 che diviene il loro quartier generale.

È proprio a House of Iona, nelle discussioni di lavoro con i “fedelissimi” del suo staff, che prende vita il progetto del nuovo film, quello che doveva rappresentare l’apice dello stile cinematografico di Luhrmann, sintesi e sommatoria di tutti i suoi elementi più caratteristici: una storia ispirata a una figura mitica universalmente conosciuta; un linguaggio e una forma in grado di rendere la dimensione di un mondo assolutamente di fantasia, dove tutto è enfatizzato, accresciuto per coinvolgere attivamente il pubblico. Nel 1998 comincia a prendere corpo l’idea di realizzare un musical, ambientato nella Parigi della fine del diciannovesimo secolo, nei teatri di posa Fox di Sydney. Le ragioni di questa scelta erano state più di una: Luhrmann e la Martin volevano lavorare in Australia, anche per usufruire delle agevolazioni fiscali concesse alle produzioni australiane, ma le motivazioni artistiche erano quelle più importanti; il loro nuovo progetto doveva essere la celebrazione del musical classico, che il regista amava, mettendo insieme la ricostruzione delle decadenti atmosfere bohémien della Parigi di fine Ottocento con una forma che incontrasse il favore del pubblico contemporaneo.

L’idea di fare un musical quando ormai quel genere veniva dato per finito era una sfida che affascinava Luhrmann e i suoi collaboratori; ridare vitalità al genere attualizzandone le convenzioni attraverso la definitiva affermazione del suo personalissimo stile cinematografico. Il gruppo che comincia a lavorare a questo progetto era composto dagli stessi che avevano collaborato a Stryctly Ballroom e Romeo + Juliet: al regista si affiancavano nuovamente Craig Pearce co-sceneggiatore; Martin Brown e Fred Baron co-produttore; Catherine Martin è scenografa e collabora ai costumi con Angus Strathie; Jill Bilcock è al montaggio; Donald McAlpine direttore della fotografia; John O’Connell coreografo; Marius DeVries e Craig Armstrong si occupano della colonna sonora. Luhrmann ha a disposizione circa 50 milioni di dollari, il budget più alto di cui avesse mai disposto, anche se non altissimo in assoluto se si considerano le medie dei finanziamenti che le major concedono ai registi affermati. La nuova produzione raccoglieva molto delle passate esperienze professionali del cineasta australiano: La Boheme, che era stata rappresentata da Luhrmann nel 1990, nel 1993 e 197 È di luglio 2015 la notizia della messa in vendita per 16.000.000 di dollari della sede Bazmark per trasferirsi negli States.

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nel 1996; il mito di Orfeo che in Romeo + Juliet era stato una delle ispirazioni; l’uso del metalinguaggio, cioè rappresentare la realizzazione di uno spettacolo nel film, che era anche una delle caratteristiche di un sottogenere del musical tra i più apprezzati, il backstage musical. Questo era già stato, insieme alla cinematografia di Bollywood, fonte di ispirazione principale dello spettacolo teatrale A Midsummer Night’s Dream, prodotto da Luhrmann insieme alla Martin per l’Australian Opera. Nel cast vengono scritturati Christine Anu che aveva lavorato nel video musicale del 1997, diretto dal regista australiano, Now Until the Break of Day e John Leguizamo, già interprete di Tibaldo in Romeo + Juliet.

The personal association went deeper: Luhrmann likened the crazy bohemians of Moulin Rouge! to his creative circus at the House of Iona, marking the film with his particular ethos. Although Moulin Rouge! was not an adaptation, it was a similar undertaking to the other films in that it set out to modernise classic material. Whereas Romeo + Juliet reproduced the creative ferment of Shakespeare’s early-modern theatrical context Moulin Rouge! recreated the social and cultural unpheavals that gave rise to late-nineteenth-century modernism. In this case the language bridging past and present was that of contemporary popular song, a device that both gave the idealistic hero Christian (Ewan Mcgregor) credibility as a poet and evoked the Moulin Rouge as a hedonistic nightclub akin to New York’s Studio 54 in the 1970s and 1980s198.

Il tipo di scelte operate da Luhrmann in Moulin Rouge!, cioè la volontà di dare nuovo impulso al genere musical mediante l’impiego di tutte le tecniche e del linguaggio del cinema postmoderno, sono abbastanza chiare ed evidenziano come nel film sia imprescindibile il rapporto tra musica e immagine. Il regista punta all’esasperazione del sistema allusivo che è tipico del musical classico199; i protagonisti sono impegnati alla realizzazione di uno spettacolo teatrale dal titolo tanto ridondante quanto eloquente: Spectacular Spectacular200; l’uso delle citazioni è continuo così come l’uso del linguaggio metateatrale che viene utilizzato per rappresentare in chiave ironica 198 P. Cook, Baz luhrmann, cit., p. 85. 199 Spesso in un musical si assiste a situazioni che alludono alla realizzazione di uno spettacolo musicale e, di frequente, addirittura l’intera storia è imperniata attorno a un attore o attrice la cui professione è legata al genere del musical (Gene Kelly, Julie Andrews). 200 La trama del film è estremamente semplice, poco più di un “canovaccio” utile per tutte le sperimentazioni di Luhrmann. Parigi, 1889, Satine è la star del Moulin Rouge, la cortigiana più desiderata ma anche pronta a vendere i propri favori al miglior offerente. Finché un giorno arriva da fuori il giovane e timido scrittore Christian che si innamora, corriposto, di lei. Ma, c'è un "ma". Interessato a Satine è anche un ricchissimo conte che è pronto, pur di averla in esclusiva, a farla diventare un'attrice e ad assumersi il carico delle spese per un rinnovo totale del locale. In agguato, poi, c'è il "mal sottile": la tubercolosi (trama pubblicata su www.mymovies.it).

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le convenzioni stilistiche di uno spettacolo teatrale201. La scelta dei protagonisti ricade su interpreti che già si erano cimentati nel genere: Ewan McGregor aveva già lavorato in un film musicale dove si era cimentato come cantante, Velvet Goldmine (Id. – 1998)202, mentre Nicole Kidman era già una delle star del panorama cinematografico mondiale.

Luhrmann ha spesso raccontato nelle sue interviste la genesi di Moulin Rouge!, confermando come abbia utilizzato appieno il linguaggio postmoderno; in questo senso appaiono evidenti le analogie con il processo creativo di quello che è considerato il punto di riferimento della narrativa postmoderna, cioè il romanzo di Umberto Eco Il Nome della Rosa del 1980203; lo stesso Eco spiega che

per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo il più possibile ammobiliato fino agli ultimi particolari: basta ammobiliare il proprio mondo e: «già c’è l’inizio di una storia». Questo, precisa Eco, non ha nulla a che vedere con il realismo: «si può costruire un mondo del tutto irreale, in cui gli asini volano e le principesse vengono resuscitate da un bacio: ma occorre che quel mondo, puramente possibile e irrealistico, esista attraverso strutture definite in partenza […]. È il mondo costruito in che ci dirà come la storia deve andare avanti». Anche nel caso di Moulin Rouge! la costruzione del mondo - «our own world» - precede l’invenzione dell’intreccio: una storia in cui il

201 In una delle prime scene, dove Ewan McGregor si unisce a Toulouse –Lautrec e agli altri nell’ideazione dello spettacolo, questo aspetto ironico è rappresentato in modo esemplare. 202 Velvet Goldmine è un film musicale in cui il regista Todd Haynes, con una struttura narrativa riconducibile a Citizen Kane, utilizza messe in scena vicine a quelle care a Luhrmann; in proposito ecco un breve estratto della recensione del film di Lietta Tornabuoni su «La Stampa» del 22 novembre 1998: «Velvet Goldmine di Todd Haynes, rievocazione dell'ascesa e della caduta d'una rock star dei primi Anni Settanta a Londra attraverso l'inchiesta compiuta quattordici anni dopo dal giornalista Christian Bale: capelli verdi, body argentati come corazze, abiti settecenteschi tutti d'oro, stivali dagli alti tacchi, nudità, paillettes, grandi collari di piume, gioielli, finti assassinii in palcoscenico […]». La scelta di McGregor sembrerebbe trovare un motivo anche in questa sua precedente esperienza in un contesto simile a quello di Moulin Rouge!. 203«Il nome della rosa si presenta come un romanzo complesso, non appartenente a un singolo genere e che sotto la patina "gialla" cela la ricchezza di rimandi intertestuali e il gioco citazionistico (dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media) tipicamente postmoderno del suo autore. Innanzitutto si tratta di un romanzo storico, sul modello dei Promessi sposi di Manzoni, in cui vicende e personaggi inventati sono calati in una determinata epoca storica e contesto sociale. In questo caso Eco ricostruisce l’Italia medievale delle controversie religiose e degli scontri tra Papato e Impero, inserendo oltre a personaggi inventati, anche figure storiche mentre l'ambientazione e l’atmosfera ricordano quelle dei romanzi gotici del Sette-Ottocento. I delitti e le indagini sono tipici del romanzo giallo: lo stesso nome di Guglielmo da Baskerville ricorda in maniera trasparente il titolo del noto romanzo di Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, una delle più famose indagini di Sherlock Holmes. Holmes e il monaco inglese (cui ovviamente corrispondono il dottor Watson e il buon Adso...) utilizzano il metodo deduttivo, basato sulla ragione e la scienza, per arrivare ad accertare la verità; a differenza del modello classico del giallo però, Il nome della rosa si conclude con il successo dell’assassino, che, pur morendo, riesce a distruggere il manoscritto di Aristotele.» (A. Cane: Eco, «Il Nome della Rosa», www.oilproject.org).

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Moulin Rouge di fine Ottocento non è solo una cornice spazio-temporale, ma diventa agente e soggetto del racconto filmico204.

La costruzione del mondo del Moulin Rouge si realizza innanzitutto con la precisa ricostruzione, frutto di un meticoloso lavoro di ricerca e documentazione della Parigi della Belle Èpoque, dell’ambiente di Montmartre, della grandiosa sala da ballo del Moulin Rouge tappezzata di specchi, dell’ambiente bohémienne e della variegata corte di artisti, ballerine, acrobati, resi celebri dai quadri del pittore simbolo di quel mondo, Henry Toulose-Lautrec, a cui John Houston aveva già dedicato un film nel 1952205 e che compare anche nel film di Luhrmann. La successione degli eventi del film australiano ricalca quella dell’omonimo del 1952; soprattutto l’inizio con l’ingresso al Moulin Rouge, la scena di ballo e l’ingresso della prima donna dopo un breve intervallo di dialogo costituiscono un preciso riferimento a Houston. Diverso è ovviamente il linguaggio cinematografico: se il primo film è un tipico prodotto del cinema classico della cosiddetta età d’oro degli studios, il secondo è espressione esemplare del linguaggio postmoderno. Nel film di Houston ci sono inquadrature oggettive, caratterizzate da riprese da lontano, senza angolazione e ad altezza neutra; soggettive ravvicinate con angolazione dal basso. Riprendono ciò che Toulouse Lautrec, seduto a un tavolo adiacente la sala da ballo, riesce a vedere. Infine le oggettive irreali sono facilmente riconoscibili per il posizionamento in alto della cinepresa. I cambi d’inquadratura giocano molto su questa differenziazione dei punti di vista, realizzando una narrazione dinamica che segue di pari passo le musiche di Georges Auric. Del tutto diversa la situazione nel Moulin Rouge! di Luhrmann

[…] proprio a partire dall’aggiunta del punto esclamativo nel titolo che si può cogliere il cambio di registro. Tutto viene esagerato: l’avvicendarsi delle inquadrature è molto più frenetico, così come frenetico è il susseguirsi degli spezzoni musicali che compongono i medley, tecnica su cui ruota tutto il musical. Diverse sono anche le tipologie di inquadrature, quelle tipiche del linguaggio

204 S. Pasticci; Narrative d´ascolto nel tempio della memoria audiovisiva: Moulin Rouge! di Baz Luhrmann, in Daniele Barbieri, Luca Marconi, Francesco Spampinato (a cura di), L´ascolto musicale: Condotte, pratiche, grammatiche, Atti del Terzo Simposio Internazionale sulle Scienze del Linguaggio Musicale (Bologna, 23-25 febbraio 2006), Biblioteca Musicale Lim - Saggi, LIM, Lucca 2008. 205 Il film di Houston è un film biografico e non un musical. Tuttavia ci sono tre parentesi musicali significative: la scena iniziale che è la riproduzione di un tipico spettacolo del Moulin Rouge; la performance canora di Zsa Zsa Gabor che nel film interpretava Jane Avril, forse la più celbre ballerina di tutti i tempi del Moulin Rouge; il finale, dove Toulose –Lautrec in punto di morte rievoca tutti i personaggi incontrati al Moulin Rouge.

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del cinema postmoderno: le oggettive raddoppiate e le soggettive vuote. Le prime realizzano un’immagine che, però, al suo interno contiene altre immagini, le seconde tendono per il movimento della cinepresa a segnalare la presenza di qualcuno, qualcuno che in realtà non appare (il regista o il narratore, ad esempio). Ciò avviene sia grazie al movimento della macchina (insolitamente troppo veloce: zoomate improvvise e repentine), che alla posizione in cui questa viene posta (troppo in alto; inquadrature panoramiche dal cielo)206.

L’uso di questo linguaggio cinematografico, combinato con il corrispettivo musicale, genera una proliferazione di immagini e suoni che si susseguono e si sovrappongono; le musiche pop e rock inserite nell’atmosfera della Parigi di fine Ottocento producono uno sfasamento temporale che produce l’effetto finale di uno

sprofondare consapevole nel kitsch e un conformarsi ai dettami del post-moderno: rifiuto delle gerarchie; ironia (il gioco, la parodia sono le sole risposte possibili al rifiuto delle gerarchie); molteplicità (unione di più materiali, purché provengano da fonti diverse); frammentazione (il medley musicale); circolarità temporale (non esiste più una progressione temporale: passato remoto – Parigi fin de siècle – e passato prossimo – frammenti musicali anni ’60-’90 – si mescolano); indeterminatezza (tutto è importante, qualsiasi frammento visivo o sonoro è ugualmente importante)207.

In Moulin Rouge! la contaminazione, che pure ha caratterizzato il musical dagli anni Sessanta a oggi, raggiunge il culmine e investe ogni componente espressiva. Se al primo impatto il film appare come «un melodramma in forma di musical»208, a un esame più attento ci accorgiamo che questa definizione è decisamente riduttiva, poiché non considera assolutamente le numerosi fonti cui Luhrmann si ispira e preleva a piene mani per costruire il suo Spettacolo Spettacolare, dal titolo del film che i protagonisti di Moulin Rouge! stanno preparando. In questo titolo sta l’intera essenza del progetto del regista australiano: rifondare lo spettacolo nella direzione dell’iperbolico. Così il film è una sorta di baraccone da fiera dove convivono, dialogando tra loro, melò, teatro musicale, musical hollywoodiano e bollywoodiano, cinema classico, videoclip, fiabe e videogiochi. Non stupisce perciò che a Offenbach venga affiancato Elton John, Roxanne dei Police sia trasformata in un tango degno del più classico Mariano Mores e Like a

206 M. Gurrieri, Moulin Rouge! di Baz Luhrmann, «Philomusica on-line» n. 3, Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia, 2007, p. 2. 207 Ibidem. 208 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo …, cit., p. 147.

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Virgin di Madonna divenga la base musicale di un numero musicale dai toni benevoli di Hello Dolly!.

In questo film Luhrmann adotta senza compromessi tutte le scelte linguistiche sperimentate finora, il suo stile raggiunge il massimo delle sue caratteristiche e, in questo, non consente reazioni intermedie: o si accettano con entusiasmo le sue scelte estreme o si rifiutano in modo netto. La maestria e padronanza nell’utilizzo di tecnologie che all’inizio del millennio erano ancora di nuova applicazione, primo fra tutti il digitale, nel cineasta australiano è indiscussa, quello che crea stupore è come, attraverso una resa visiva più vicina a Bollywood che alle atmosfere della Parigi di fine Ottocento, la pellicola renda una straordinaria attinenza allo spirito dell’epoca. Questo terzo lavoro chiude la cosiddetta Red Curtain Trilogy (Trilogia del Sipario Rosso)209; nonostante le perplessità suscitate da certa critica, è indubbio che con Moulin Rouge! siamo di fronte al modello di quello che potrebbe essere il musical del futuro.

Il testo di The Pitch, brano che i commedianti improvvisano al Duca (l’attore Richard Roxburgh), è una sorta di manifesto del nuovo musical secondo Luhrmann:

The Pitch

Testo originale Trad. Italiano Zidler Spectacular, spectacular No words in the vernacular Can describe this great event You'll be dumb with wonderment Returns are fixed at ten percent You must agree that's excellent And on top of your fee You'll be involved artistically

Zidler Spettacolo spettacolare Nessuna espressione dialettale Può descrivere il grande evento Un autentico avvenimento Guadagnerete il dieci percento C’è di che essere contento Il vostro guadagno salirà Sarete artefice di un opera d’arte

209 A tale proposito ecco quanto afferma Luhrmann «The Red Curtain style that defines our filmmaking comprises several distinct storytelling choices. A simple even naive story based on a primary myth is set in a heightened or created world that is at once familiar yet exotic, distant. Each of The Red Curtain trilogy has a device which awakens the audience to the experience and the storyteller’s presence, encouraging them that they are in fact watching a film. In Strictly Balroom dance is device, the actors literally dance out the scenes. In Romeo+Juliet it is the 400-years-old language. In Moulin Rouge!, our ultimate Red Curtain gesture, music and sings is the device that release us from a naturalistic world». (in R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo …, cit, p. 148).

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Chorus: So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years Elephants, Bohemians Indians and courtesans Acrobats and juggling bears Exotic girls, fire-eaters Musclemen, contortionists Intrigue, danger and romance Electric lights, machinery All run with electricity So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years Spectacular, spectacular! No words in the vernacular Can describe this great event You'll be dumb with wonderment [The hills are alive with the sound of music...] So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years [Duke: Yes, but what happens in the end?] Christian The courtesan and sitar man Are pulled apart by an evil plan Satine But in the end she hears his song Christian And their love is just too strong [Duke: It's a little bit funny, this feeling inside...hmmm] So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years

Chorus: Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Elefanti, Bohemiens Indiani e cortigiani Acrobati e orsi giocolieri Ragazze esotiche e mangiatori di fuoco Uomini robusti e contorsionisti Intrighi, pericolo e amore Luci elettriche, macchinari E tutta quella elettricità Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Spettacolo spettacolare Nessuna espressione dialettale Può descrivere il grande evento Un autentico avvenimento [Le colline vivono del suono della musica...] Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà [Duke: Sì, ma cosa succede alla fine?] Christian La cortigiana e il suonatore Sono divisi da un piano malvagio Satine Ma infine lei la sua canzone sentirà Christian E il loro amore trionferà [Duke: È davvero un po’ strano, quello che sento dentro...hmmm] Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà

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Christian The sitar player's secret song Helps them flee the evil one Though the tyrant rants and rails It is all to no avail [Zidler: I am the evil maharajah -- you will not escape! Satine: Oh Harold, no one could play him like you could. Zidler: No one's going to.] So exciting, it will make you laugh and make you cry, So delighting Duke: And in the end should someone die?] Pause So exciting, the audience will stop and cheer So delighting, it will run for fifty years Duke Generally, I like it. Cheers!

Christian La sua canzone segreta A fuggire li aiuterà Urla e sbraita il marajà Ma a niente servirà [Zidler: Io sono il perfido marajà – non fuggirete! Satine: Oh Harold, nessuno può farlo come te. Zidler: No, infatti. Così eccitante, rideranno, piangeranno, così inebriante [Duke: E alla fine moriranno?] Pause Così eccitante, il pubblico impazzirà Così inebriante, 50 anni si replicherà Duke In generale, mi piace. Esultanza!

Il musical da sempre è rapporto tra spettacolo è vita. Nel film le due dimensioni, il rapporto tra Satine (Nicole Kidman) e Christan (Ewan McGregor) e quello dei protagonisti di Spectacular Spectacular, si riflettono l’una nell’altra, intrecciandosi durante tutto il corso del film fino all’incontro finale che avverrà sul palcoscenico. Solo alla fine le due vicende si divideranno. In questo è forte la similitudine con la scena finale di Pennies from Heaven di Herbert Ross; lì erano i bastoni dei ballerini a ergersi come sbarre e impedire il passaggio dallo spettacolo e dal suo happy end al mondo reale che non riservava nulla di buono, qui la stessa situazione è resa dal sipario che, abbassandosi, separa realtà e finzione: anche qui solo nello spettacolo sarà possibile il lieto fine.

Emblematica in tal senso è una delle ultime carrellate, che ci mostra il mondo ai due lati della Red Curtain. Da una parte le tragedie degli individui, in particolare di quelli che appartengono allo showfolk, dall’altra la massa indifferenziata che perpetua il “rito” collettivo dell’entertainment. Ma il vertiginoso movimento di macchina di Luhrmann continua, sfondando il tetto del “teatro

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mondo” (o del mondo-teatro, a seconda del punto di vista), per poi attraversare per l’ultima volta le pale del Moulin. Ricevuta la loro vittima sacrificale, Satine, quelle pale possono finalmente fermarsi, mentre Toulouse (John Leguizamo) intona con un filo di voce un frammento di Nature Boy che è prologo, epilogo e apologo di questa moderna favola di Orfeo210.

Ciò che è importante in Moulin Rouge! non sono i personaggi o la trama, intenzionalmente già vista e completamente assimilata dal pubblico; quello che conta è lo spettacolo in quanto performance, ipercinetica messinscena fine a se stessa; la recitazione degli interpreti e la narrazione sono continuamente tagliate dal montaggio, il movimento è sempre accelerato e le immagini, invece di scorrere, scattano. Sembra talvolta, di vedere un film delle origini o quei filmini, non a caso di fine Ottocento, che venivano proiettati con il kinetoscopio e altre macchine simili (si ripensi in proposito alle sequenze che accompagnano il brano musicale The Pitch). Del resto Luhrmann non nasconde il riferimento all’atmosfera di magia che quelle rudimentali proiezioni costruivano.

Poco tempo prima anche un maestro come Coppola aveva ricercato quella magia nel suo Dracula di Bram Stoker211. Infine, come non pensare che quella luna ammiccante nel cielo sulle note di Your Song, come al personale omaggio del regista australiano al primo grande creatore di effetti speciali, quel George Méliès che aveva stupito gli ingenui spettatori del 1902 con il suo Voyage dans la lune (Viaggio nella luna).

210 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo …, . cit., pp. 149-150. 211 Non mancano in Moulin Rouge! i riferimenti al film di Coppola: la ricostruzione d’epoca, qui Parigi del 1899, in Dracula l’Inghilterra vittoriana come pure il ricorso a effetti speciali ottenuti con tecniche d’avanguardia e resi in scena volutamente come quelli dei film delle origini.

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Strictly Ballroom (Ballroom – Gara di ballo – 1992)

William Shakespeare's Romeo+Juliet (Romeo+ Giulietta di William Shakespeare – 1996)

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3.3 Dalla Storia in musica alla musica per la storia. L’immagine e la colonna sonora di Moulin Rouge!.

C’è chi suggerisce come unico modo per apprezzare un film come Moulin

Rouge! quello di «[…] lasciarsi andare, di sospendere la facoltà critica e lasciarsi trascinare dalle immagini, dal suono, dal ritmo. Moulin Rouge! è una specie di ottovolante dal quale si smonta dopo due ore e mezza di impennate e scivoloni vertiginosi, chiedendosi se è stato più forte il rush di adrenalina o il mal di mare»212. Dal primo istante si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di innovativo; una carrellata velocissima a seguire213 attraverso una Parigi ricostruita come un diorama digitale, scolorita in modo da inculcare con precisione nella mente dello spettatore, evocando il ricordo delle foto d’epoca, la collocazione temporale della vicenda, innestando il tutto con degli universali segni di riconoscimento della capitale francese: la Torre Eiffel, Montmartre e il Moulin Rouge, colorato e luminoso più del reale.

L’intenzione del regista non è quella di elaborare una riproduzione storica dell’epoca: questa è certamente necessaria per definire un punto di partenza, lo scopo è un altro: restituire lo spirito e l’essenza di quel mondo di fine Ottocento esattamente come doveva apparire al pubblico dell’epoca, con tutta la sua atmosfera licenziosa e trasgressiva214. Così, quando Christian varca per la prima volta la porta del Moulin Rouge, Luhrmann porta all’estremo tutte le potenzialità che possono essere sfruttate con il linguaggio cinematografico: un turbine di suoni e colori ripresi con carrellate accelerate in un crescendo di ritmi sempre più frenetici.

Un eterogeneo agglomerato umano balla al ritmo di un medley musicale che combina frammenti di Lady Marmalade: «Voulez-vous coucher avec moi, ce soir», l’invito sexy delle ballerine, con un riff campionato versione cabaret di Smells Like

212 P.Casella, Moulin Rouge!, la love story che ci meritiamo, in www.caffeeuropa.it, Rivista online Reset. 2001. 213 Poiché in realtà non c’è un soggetto da seguire, è direttamente l’occhio della mdp che ci guida nel percorso, viene legittimo pensare che lo scopo sia quello di introdurre il pubblico senza ulteriori ecquivoci o divagazioni su quello che sarà l’ambiente, cioè il Moulin Rouge della mente di Luhrmann che deve diventare senza esitazioni il Moulin Rouge dello spettatore. 214 L’idea che il Moulin Rouge dovesse rappresentare qualcosa di davvero sconvolgente per i frequentatori di fine Ottocento trova numerose conferme nelle cronache dell’epoca; stando alla testimonianza di un visitatore inglese: «This type of entertainment […] manifests, above all, a desire of uninhibitedness, languorsness, spectacle, and debasement that is peculiar to our times», citato in S. Pasticci; Narrative d´ascolto nel tempio…, cit., p. 218

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Teen Spirit: «Here we are now, entertain us»215. Come non bastasse, su tutto questo si inserisce il rap di Harold Zidler, proprietario del Moulin Rouge216: «Got some dark desire? Love to play with fire?»; il tasso di adrenalina è infine portato all’estremo con dei frammenti di un pezzo house realizzato appositamente per il film dal deejay Fatboy Slim, Because We Can: «Because we can can can», perché nel regno del can can è tutto possibile. Nella ricostruzione effettuata da Luhrmann assume una importanza rilevante l’hip-hop; non solo per una questione legata alla sonorità ma perché, e questo è il dato rilevante, la struttura discorsiva dell’hip-hop combina e mette in sequenza materiali anche molto eterogenei; questa stratificazione di elementi musicali alternati rapidamente è molto vicino alle idee estetiche del regista australiano. Nonostante il ricorso a elementi audio e visuali vicini al pubblico contemporaneo per rendere la natura di un mondo cronologicamente lontano, l’intenzione non è quella di avvicinarsi alle aspettative degli spettatori, ma piuttosto:

Ciò che Luhrmann intende restituirci è un mondo di «real artificiality» [cfr. Luhrmann – Martin – Marx, Moulin Rouge!, p. 78] popolato di oggetti inautentici rispetto alla Parigi fin de siecle, ma dotati tuttavia di una straordinaria autenticità sul piano emozionale e affettivo. La falsificazione della verità storica, dunque, come invito allo spettatore a far leva sul meccanismo dell’immedesimazione e del transfert emotivo, per ri-costruire nuove relazioni di significanza tra oggetti apparentemente inconciliabili. Oggetti che possono tranquillamente convivere in un orizzonte di realtà immaginaria proprio grazie alla stratificazione di sensi e portati affettivi che si sono sedimentati attraverso il loro uso e ri-uso in diversi contesti217.

L’elemento più straniante rispetto all’ambientazione fine ottocentesca rimane indubbiamente quello della colonna sonora; non solo per la sua estrema eterogeneità ma particolarmente per la notorietà di molti pezzi che anche lo spettatore meno attento non può non identificare o almeno rammentare. Lo straniamento è amplificato dal fatto che i brani non sono mai riproposti in versione originale ma sono oggetto di un radicale procedimento di riarrangiamento e vengono utilizzati remixati, in 215 Lady Marmalade fu un successo delle LaBelle, un trio di Rhythm and blues, Funk, Soul e Disco music degli Stati Uniti. La versione per il film, interpretata da Christina Aguilera è stata per mesi in vetta alle classifiche mondiali. Smells Like a Teen Spirit, scritta da Kurt Cobain, leader dei Nirvana nel 1991, è considerato uno dei più grandi successi rock di tutti i tempi. 216 Zidler, Charles e non Harold, fu effettivamente insieme a Joseph Oller, il proprietario e fondatore del locale nel 1889. Nel film il personaggio di Zidler è interpretato da Joseph Broadbent.

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modo frammentato, combinati tra loro, anche in continuità con generi diversi. Le fonti sono le più disparate: dall’operetta di Orphée aux Enfers, il cui riferimento è principalmente al celebre Can can, arrivando al musical anni Sessanta di The Sound of Music (Tutti insieme Appassionatamente – 1965); dal brano Le Complainte de la Butte, tratto dal film di Jean Renoir French Can Can (Id. – 1955), a un classico del tango argentino (Tanguera di Mariano Mores) e poi attingendo a piene mani dal repertorio pop, rock e dance degli ultimi quarant’anni. Con questa mescolanza estrema non esiste una gerarchia dei brani, così che il Can Can dell’Orphée può essere sviluppato come un jingle pubblicitario, mentre un brano come The Show Must Go On dei Queen, comunque di per sé abbastanza drammatico, qui è solennizzato dall’esecuzione per soli coro e orchestra e unitamente alla espressività della fotografia e del montaggio, può diventare una delle più amare riflessioni dell’intero film. Quest’ultimo esempio testimonia come le scelte dei brani musicali e dei riferimenti letterari e cinematografici attingano sempre dal repertorio, nei vari generi, dei classici. Su questi, Luhrmann opera sempre una rilettura decostruttiva per ricercare e rivelare altri possibili livelli di interpretazione, che gli permettono di restituirli arricchiti di nuovi elementi insospettati, rendendoli funzionali al suo progetto artistico. Oltre ai casi appena citati, va ricordato El Tango de Roxanne, uno dei momenti più intensi dell’intero film, dove è forte la contrapposizione tra i ritmi frammentati e la sospensione degli eventi attraverso la dilatazione del brano, formato dall’integrazione di Roxanne dei Police, trasformata in tango, e dalla già citata Tanguera di Mores, che con l’aggiunta del testo di Luhrmann diviene Le Tango du Moulin Rouge. Anche dove le modifiche non comportano così radicali stravolgimenti, i brani sono comunque reinterpretati, realizzando delle cover218 appositamente per il film e non utilizzando le versioni originali. Luhrmann, in questo modo, priva i brani di ogni riferimento temporale preciso, così che siano riconoscibili dallo spettatore senza rimandare esclusivamente a se stessi, mantenendo il completo asservimento al film. Craig Armstrong, autore della colonna sonora, che gli è valsa anche il Golden Globe nel 2001, è riuscito a trattare questa vasta ed eterogenea mole di materiale musicale in modo davvero vario a seconda delle esigenze. Orientativamente le linee guida di Armstrong

218 La cover è la nuova versione di un brano preesistente, spesso realizzata come omaggio all’autore originario.

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sono riconducibili a tre diversi modi operativi: collage, medley e song219. Può essere individuato un ibrido tra collage e medley che prende il nome di remix, dove le molteplici variabili messe in atto di volta in volta non consentono una definizione precisa. Ad esempio nel brano Hindy Sad Diamonds, la base campionata è comune, ma i due episodi musicali che si susseguono sono distinti tra loro: Chamma Chamma, omaggio al cinema di Bollywood e Diamonds Are a Girl's Best Friend, dal famosissimo Gentlemen Prefer Blondes. Nonostante tutto quello detto finora, in un melting-pot quale è Moulin Rouge! succede anche che un song, nonostante sia interposto del materiale eterogeneo, mantenga l’organicità; avviene quando l’interpolazione di Material Girl di Madonna in Diamonds Are a Girl's Best Friend (nei titoli di coda del film il tutto è definito: Sparkling Diamonds –Medley) rimane come tra parentesi, senza alterare la continuità dell’insieme. Subito dopo, la seconda parte inizia come un dance song, The Rhythm of the Night, ma in questo caso il tema del brano viene esposto nella sua totalità. Terminata la fase dell’esposizione, si arriva in modo graduale, sempre mantenendo la base ritmica campionata, alla fase in cui subentra il remix di frammenti sempre più ridotti dello stesso tema, inserendo frammenti di un altro brano precedentemente citato, Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. Verso la conclusione c’è uno stringendo e una lunga pausa, che prelude alla ripresa del finale di Diamonds Are a Girls Best Friend che però rimane interrotto. Questo episodio filmico-musicale, catalogato dallo stesso Luhrmann come un medley in realtà ha quindi contemporaneamente tutti e tre i tipi di trattamento. Con un procedimento esattamente inverso, lo stesso trattamento può servire a più esigenze espressive, come avviene nei due collage Children of the revolution (scena dell’allucinazione) e Zidler’s rap. Il primo ha la funzione di riprodurre in termini musicali l’affollarsi di stimoli e ricordi nella mente di Christian sotto l’effetto dell’assenzio. I frammenti dei tre brani Nature Boy, The Sound of Music e Children of the revolution sono combinati tra loro, con l’ultimo dei tre che è anche la base ritmico-armonica; insieme i brani danno vita a un insieme organico, riverberandosi e

219 Nel collage s’individuano alcuni frammenti melodico/armonici esposti anche separatamente, ma che vengono poi ripresi e integrati in una struttura organica a suo modo unitaria. Nel medley o sequenza, invece, abbiamo una serie di episodi musicali, più o meno estesi e più o meno accuratamente collegati l’uno all’altro, i quali si susseguono senza intrecci, mantenendo perciò una loro autonomia. Infine il song rappresenta, com’è noto, una forma chiusa ben delineata e del tutto autonoma. I tre procedimenti possono susseguirsi all’interno di uno stesso episodio filmico-musicale, oppure possono trovare un’applicazione contemporanea.

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rispecchiandosi l’uno nell’altro, come dimostrato dallo sdoppiamento vocale della Fata Verde (Kylie Minogue). Nell’episodio Zidler’s rap, dove vengono presentati musicalmente i personaggi che popolano il mondo sommerso del Moulin Rouge, l’inizio è un frammento di Lady Marmelade, mentre la mdp si muove a schiaffo sui volti delle quattro Diamond Dogs220. È a questo punto che ha inizio il vero e proprio Zidler’s rap, in cui la parte propriamente rap, che spetta al personaggio di Harold Zidler, si sovrappone a una cellula ritmica/melodica/armonica tratta da Lady Marmelade che funge da ostinato, creando un effetto di staticità e insieme di stacco rispetto alle altre parti, soprattutto alla melodia. È così che il direttore del Moulin Rouge si presenta nel suo regno. A questo punto entra un altro ostinato ritmico/armonico che introduce il secondo frammento musicale, questa volta da Smells Like Teen Spirit, a presentare, dopo il direttore, gli avventori del Moulin Rouge. L’integrazione di questi elementi musicali si realizza in sincronismo con l’incontro sullo schermo dei personaggi appena presentati. Nel film i song hanno il delicato compito di introdurre i personaggi, rendendo espliciti i loro principi e le loro aspettative. Per rendere possibile questo, alcuni frammenti musicali sono quindi ripresi a livello esterno221 con la funzione di motivo conduttore; avviene così che Christian sia presentato nel prologo mediante Nature Boy e, quando si propone come un novello Orfeo intoni Your Song. Satine esprime invece le proprie aspirazioni di riscatto nel brano One Day I’ll Fly away, che ricorda molto da vicino il ruolo che ne La Traviata viene ricoperto da «È strano... Sempre libera»222. Il compito di cantare dell’inevitabilità del destino della gente dello spettacolo è affidato a Zidler attraverso le note rivisitate di The Show must go on e i bohémiens si autodefiniscono come Children of the Revolution223. Non è certamente casuale che tutti gli spunti tematici descritti siano 220 L’appellitivo è mutuato direttamente dal brano di David Bowie e nel film è riservato alle quattro ballerine di fila-entreneuse del locale. 221 Per la definizione di livelli cfr. p. 86 nota 144. 222 Entrambi i brani si collocano in un momento della storia in cui la protagonista, finalmente sola, può calare la maschera di apparente superficialità e spensieratezza dietro la quale si nasconde, anche a se stessa, nella vita di tutti i giorni e meditare sulla propria condizione, che vede ora sotto un’altra luce in conseguenza dell’incontro con Alfredo/Christian. Non solo, ma in entrambi i brani Alfredo e Christian s’inseriscono – Christian fisicamente presente, Alfredo nella mente di Violetta – intonando un frammento delle loro precedenti dichiarazioni d’amore (rispettivamente “Un dì felice, eterea” e Your song) incalzando le protagoniste, che si dibattono tra sentimenti contrastanti. (R. Scognamiglio, Op. cit., p. 153). 223 Quasi certamente il brano dei T-Rex, scritto nel 1972 da Marc Bolan, è l’ispirazione di Luhrmann. Va segnalato che Children of The Revolution è anche il titolo di film australiano del 1996 diretto da Peter Duncan. Il film racconta, alternando materiale d'archivio con immagini anticate la vicenda di Joan,

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ripresentati, in ultimo, nel finale della rappresentazione di Spectacular Spectacular, cioè nel momento in cui tutti i personaggi si riuniscono sulla scena per accomiatarsi dal proprio pubblico. Per rendere anche graficamente, infine, l’idea di tutte le molteplici fonti cui attinge Luhrmann, ecco una tabella riferita al medley che probabilmente raggiunge uno degli esiti più felici del film: Elephant Love Medley, dove la disputa amorosa tra Christian e Satine è riprodotta da un susseguirsi incalzante di frammenti musicali presi da canzoni degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta:

TESTO DEL DUETTO FONTI MUSICALI S. C. S.C C. C. C. S.C S. C. S. C.S C. S.

I can’t fall in love with anyone. Can’t fall in love? But …a life without love? That’s terrible. No, being on the street, that’s terrible. No! Love is like oxygen! Love is a many-splendored thing Love lifts us up where we belong All you need is love! Please, don’t start that again… All you need is love! A girl has got to eat! All you need is love! Or she’ll end up on the streets! All you need is love! Love is just a game. I was made for loving you, baby You were made for loving me The only way of loving me, baby Is to pay a lovely fee.

Love is Like Oxygen (1978) SWEET [Scott/Griffin] Love Is a Many-Splendored Thing (1955)[Webster/Fain] Up Where We Belong (1982) JOE COCKER [Jennings/Nitzsche/Sainte-Marie] All You Need Is Love (1967) BEATLES [Lennon/McCartney] I Was Made for Loving You (1979) KISS [Stanley/Child/Poncia]

giovane idealista comunista di nazionalità australiana e della sua presunta notte d’amore addirittura con Stalin.

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C. S. C. S. C. S. C. S. C. C. S. C. S. C. S. C. S. C. S. C. S. C.

Just one night, just one night There’s no way, ‘cause you can’t pay. In the name of love, One night in the name of love. You crazy fool, I won’t give in to you. Don’t leave me this way…I can’t survive, without your sweet love Oh baby, don’t leave me this way. You’d think that people Would have had enough of silly love songs I look around me and I see It isn’t so, oh no Some people want to fill the world With silly love songs Well, what’s wrong with that? I’d like to know, ‘cause here I go again! Love lifts us up where we belong! Get down, get down! Where eagles fly, on a mountain high! Love makes us act like we are fools Throw our lives away, for one happy day. We could be heroes! Just for one day. You, you will be mean No I won’t! And I… I’ll drink all the time! We should be lovers! We can’t do that. We should be lovers! And that’s a fact. Though nothing… will keep us together… We could steal time

One More Night (1985) [PHIL COLLINS] Pride (In the Name of Love) (1984) [U2] Don’t Leave Me This Way (1975) HAROLD MELVIN & THE BLUE NOTES[Gamble/Gilbert/Huff] THELMA HOUSTON (1995) Silly Love Songs (1976) [PAUL McCARTNEY] Up Where We Belong (1982) JOE COCKER [Jennings/Nitzsche/Sainte-Marie] Heroes (1977) [DAVID BOWIE/Brian Eno]

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C.S C. C. S. C.S C. S. C.S S.

Just for one day We could be heroes, for ever and ever We could be heroes, for ever and ever We can be heroes… Just because… I will always love you! I…! I can’t help loving… You! How wonderful life is… Now you’re in the world… You’re going to be bad for business, I can tell.

I Will Always Love You (1974) [DOLLYPARTON] WHITNEY HOUSTON (1992) Your song (1970) [ELTON JOHN/Taupin]

(Fonte: S. Pasticci) Pur essendo parte decisiva nello sviluppo dell’azione, i numeri musicali

tendono inevitabilmente a scindere il tempo in due diverse evoluzioni parallele, il “tempo della rappresentazione” e il “tempo rappresentato”. Il primo è il tempo che si rivela nella durata effettiva dell’esecuzione, mentre il secondo è strettamente connesso al contenuto che lo spettatore, in base al proprio bagaglio personale di esperienze vissute, ricava dall’andamento dell’azione scenica. La musica quindi, anche nell’ambito cinematografico, territorio dove l’immagine è componente privilegiata, riesce a mantenere il suo potere di ordinatore nei confronti del tempo; di norma quello che è riferito al tempo tende a essere definito in un impressione sonora, così come quello che pertiene allo spazio è codificato in un impressione visiva.

Anche se lo schermo è comunque il punto centrale dell’attenzione, e le impressioni uditive vi convergono, in un film come Moulin Rouge! il contributo della musica è così forte che la gerarchia dei rapporti suono-immagine non è “normalizzata” come di solito. L’esempio più evidente è la già citata sequenza El Tango de Roxanne, dove la musica acquista una forza tale da arrivare a governare il ritmo delle immagini, diventato il mero supporto della colonna sonora che, invece, descrive e racconta. Nella versione originale Roxanne è una canzone dei Police che racconta di un uomo perdutamente innamorato di una prostituta di nome Roxanne; nella versione rielaborata per il film, la melodia viene combinata con un classico del tango argentino, Tanguera di Mariano Mores.

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La sequenza inizia nella sala del Moulin Rouge, dopo le prove di Spectacular Spectacular; l’Argentino (uno degli artisti bohémiens, che recita da protagonista nello show) racconta la storia di un ballo dei bordelli di Buenos Aires, la storia di un uomo che si innamora di una donna di strada. In un’illuminazione teatrale esagerata e drammatica, i ballerini si muovono a ritmo di tango mimando il corteggiamento del Duca nei confronti di Satine, che si svolge contemporaneamente nella torre gotica del suo palazzo. Il montaggio alternato mostra ciò che accade nella sala da ballo e nella torre del Duca: ma il senso narrativo di questa sequenza, ciò che l’esperienza audiovisiva ci restituisce nel suo complesso, è soprattutto la gelosia e il dolore che si insinua a ritmo di tango nel cuore di Christian. […]. Il continuum musicale è il filo conduttore che sostiene l’alternanza delle inquadrature: una musica che agisce contemporaneamente a livello interno (la sala del Moulin Rouge, luogo d’emissione della fonte sonora) e a livello esterno (la torre gotica), ma che evoca allo stesso tempo anche una sorta di livello mediato, nel momento in cui viene filtrata attraverso gli occhi, i pensieri, i sentimenti e l’immaginazione di Christian. L’esperienza percettiva dello spettatore, suono e immagine si fondono in ununicum audiovisivo in cui il ritmo delle immagini è scandito dalla musica, che assume un valore aggiunto capace di trascendere il significato delle singole inquadrature. Un valore aggiunto che, non dobbiamo dimenticarlo, è ulteriormente amplificato dal fatto che il materiale sonoro è il risultato di un’operazione di remix di musiche preesistenti e culturalmente connotate, su cui si è stratificata una plusvalenza di significati e vissuti altri che lo spettatore è soggettivamente invitato a rimettere in circolo224.

Oltre i processi di trasformazione che subisce il materiale preesistente, in funzione delle esigenze legate all’evoluzione del racconto filmico, va sottolineato che, dal punto di vista dello spettatore, non si tratta di un rapporto di percezione che delinea questi elementi come dei ready made; piuttosto si tratta di qualcosa che va a stimolare il proprio immaginario, costruito sulle esperienze individuali e differente in funzione del proprio personale vissuto. Le questioni che un film come Moulin Rouge! pone non sono solo la semplice identificazione delle quasi infinite citazioni di cui la pellicola è disseminata o la possibilità di sistemarsi sia su un livello di fruizione superficiale, legato alle emozioni più istintive, sia su quello di una fruizione più critica, analizzando e studiando in modo più approfondito tecniche e linguaggi. La vera forte peculiarità di un film così innovativo sta nel mostrare gli enormi margini, ancora possibili, di ricognizione dello spazio intermediale. Tanta parte della critica, come descritto nei capitoli precedenti, ha posto il problema della esatta definizione del musical, arrivando alla conclusione che questo genere avesse esaurito il suo percorso già con i classici 224 S. Pasticci, Narrative d´ascolto nel tempio…, cit., pp. 229-230.

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degli anni Cinquanta, e liquidando i tentativi successivi di riproposizione del ”cinema in musica”, caratterizzati peraltro da forti riferimenti al passato, certo meno numerosi che nel film di Luhrmann come opere connotate da un’ «idea post moderna di maniera […] una mania citatoria, un crogiolarsi nei gusci vuoti della tradizione passata che forse non guida verso una nuova frontiera, ma rimanda nel passato come una macchina celibe»225. Se, però, il livello di utilizzo della cifra metalinguistica assume le proporzioni praticamente senza limiti come quelle presenti in Moulin Rouge!, viene legittimo chiedersi se una messa in scena così radicale e innovativa che muove le singole stratificazioni delle proprie memorie individuali non sia, piuttosto che una sterile rappresentazione allegorica della morte, il tentativo di riflettere sul passato per rimettersi di nuovo in gioco e ripartire, perché del resto la morte non può prevalere e, nonostante tutto, The Show Must Go On.

225 G. Gosetti, Esiste il genere musical? …, cit., p. 349.

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Moulin Rouge! (Id. – 2001) Spectacular, Spectacular!

Moulin Rouge! (Id. – 2001) Your Song

Moulin Rouge! (Id. – 2001) El Tango de Roxanne

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CONCLUSIONI

I film musicali trattati in questa tesi appartengono a epoche successive al periodo definito dagli studiosi l’età d’oro, cioè l’arco temporale che va dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, riassumibile come il periodo di Fred Astaire; Gene Kelly, Busby Berkely e Stanley Donen. La principale questione che si pone con le pellicole illustrate è: ha un senso, dopo il 1960, continuare a parlare di “genere” musical se ci riferiamo a film come West Side Story, One From the Heart o ai film della Trilogia della Red Curtain di Luhrmann? È ovviamente una questione complessa cui non è possibile fornire una risposta certa; se con “genere” musical intendiamo una struttura consolidata, con canoni definiti, non possiamo sottovalutare che nel periodo cosiddetto d’oro, le esigenze ideologiche riferite al tentativo di uscita dalla Grande Depressione erano prioritarie. Il cinema doveva supportare queste esigenze e il musical, da sempre rappresentativo in “toto” della cultura popolare americana, era perfetto per questo scopo. Bisognava rassicurare il pubblico e per questo una struttura basata sulla dimensione “onirica” si adattava alla perfezione.

Le strutture del cinema di Hollywood, come quelle della mitologia popolare americana nel suo insieme, servono a mascherare proprio la distinzione tra funzione rituale e ideologica. Hollywood non si limita a dar voce ai desideri del pubblico, né a manipolare semplicemente gli spettatori. Al contrario, la maggior parte dei generi attraversa un periodo di adattamento in cui i desideri del pubblico sono conciliati con le priorità di Hollywood (e viceversa). Dal momento che il pubblico non vuole sapere di essere manipolato, la combinazione tra rituale/ideologico è quasi sempre attenta a celare il potenziale di manipolazione di Hollywood dietro la sua capacità di intrattenere226.

Nel film di Vincente Minnelli The Band Wagon (Spettacolo di Varietà - 1953) Jack Cordova (l’attore Jack Buchanan) afferma davanti allo sbalordito Tony Hunter (Fred Astaire) che ogni entertainment ha eguali diritti di esistenza e che anzi tutto è spettacolo, non essendovi alcuna differenza fra il «magico ritmo dei piedi di Bill Robinson» (nel doppiaggio italiano diventerà Gene Kelly) e il «magico ritmo dei versi di Shakespeare».

226 R. Altman, Film/Genre, BFI, London 1999; tr. It. Film/Genere, Vita&Pensiero, Milano 2004, p. 339.

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Il numero che ne segue, That’s Entertainment, non a caso, recita cantando, tra l’altro «it could be Oedipus Rex when a chap kills his father and causes a lot of bother»227. Una sintesi dell’Edipo Re in questi termini rende ancora di più l’idea di come la cultura di massa ha avuto nel musical lo strumento per semplificare la complessa cultura accademica e, di conseguenza, come questo tipo di film abbia consentito ai governanti Usa di veicolare i messaggi positivi del New-Deal. Nel dopoguerra, l’avvento della televisione, con il suo ingresso dirompente nelle case delle famiglie americane, fa sì che molti dei messaggi della popular-culture si spostino dal cinema al piccolo schermo, permettendo la diffusione pervasiva dei nuovi ideali della nazione americana nel secondo dopoguerra, attraverso programmi televisivi e inserti pubblicitari. Essere costantemente nelle case degli americani, reclamizzando elettrodomestici, automobili e tutto quello che nell’immaginario rappresentava il mezzo per conquistare il benessere, la felicità, non ha solo scopi commerciali, ma persegue anche un preciso disegno ideologico.

I sogni che si creano sono nuovi, diversi da quelli rappresentati da Fred Astaire e Gene Kelly. Usciti dalla Grande Depressione, sopravvissuti alla II guerra mondiale, siamo nel momento in cui si consuma la frattura con il passato. Accanto a film che replicano i vecchi schemi, come Brigadoon (Id. – 1954) di Vincente Minnelli, fanno la loro comparsa opere innovative nei temi ma anche nelle musiche, in questo caso grazie al contributo di musicisti come Bernstein e Kurt Weil228. In generale il cambiamento della società si riflette sui gusti del pubblico; verso la fine degli anni Cinquanta negli USA cominciano tutti i fermenti sociali che si riverbereranno nei movimenti studenteschi, nelle lotte contro la segregazione razziale e nella presa di coscienza contro la guerra in Vietnam. Cambiamenti di questa portata non possono non influenzare l’immaginario cinematografico; il musical, fra tutti i generi, quello che ha rispecchiato di più gli ideali della società americana, non può esserne esente e necessita di essere adeguato ai tempi. I temi drammatici, il dolore, i problemi del lavoro, l’integrazione razziale, la delinquenza giovanile entrano a far parte dell’immaginario del film musicale. West Side Story, il primo grande musical di successo dopo la fine dell’età d’oro è il film di questo tipo più premiato della storia del cinema, dieci Oscar vinti è un 227 «potrebbe essere Edipo Re quando un tizio uccide il padre e provoca un sacco di fastidio» 228 Weil lavorò per le scene di Boadway e realizzò alcune partiture originali per lo schermo dove combinò la sua formazione europea con la musica leggera americana.

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record che ancora nessun altro musical è riuscito a superare; i motivi di un successo che dura ormai da oltre cinquant’anni sono da ricercare in una narrazione quasi archetipica, talmente popolare da suscitare, visceralmente e incondizionatamente, immedesimazione e coinvolgimento da parte del pubblico.

Non è stata solo la narrazione, però, a sancire il successo del film. Il trionfo è, infatti, da ricercarsi anche nell’impatto visivo fortemente evocativo che l’estro di Jerome Robbins e Robert Wise sono riusciti a ricreare sul grande schermo. Un fatto è però incontrovertibile: non siamo più nei territori percorsi da Busby Berkeley e della Arthur Freed Unit anni prima. A questo punto non ci sono più molte caratteristiche del periodo “classico”; nelle musiche, accanto a canzoni sentimentali (Maria, Togheter), dominano i brani caratterizzati dalla ritmica dura e pulsante (Il Prologo, Jet Song, America), nella messa in scena le riprese al chiuso sono limitate (e le poche sono anche le meno incisive). Il periodo degli anni Sessanta – Settanta, contrassegnato dal fenomeno che poi sarà classificato come la New Hollywood, vedrà i film musicali sostanzialmente ridotti a riprendere i caratteri del passato, senza però ricreare quelle magiche atmosfere. Sono produzioni che si pongono come semplice rievocazione o citazione, omaggio deferente o trasgressivo, ossequioso o nostalgico, costituendo dei remake di altri musical.

Sarà dalla fine degli anni Settanta, in corrispondenza con la cosiddetta rinascita di Hollywood che diventerà dominante la ricerca di recupero della tradizione, non solo del musical. Il cinema americano, di riflesso a quanto stava accadendo in tutto il paese, prova a scrollarsi di dosso le proprie crisi, nate nel secondo dopoguerra, cresciute con le rivolte nei campus e con la protesta anti-Vietnam. Si assiste quindi al tentativo di ritorno al classico e anche il musical, quindi, cerca di recuperare le proprie origini ma non riesce tuttavia a ricomporre il rapporto tra il testo delle canzoni e la narrazione, tra il sogno e la realtà. Mentre generi come il western e il film di guerra tendono a rivitalizzarsi quando l’opinione pubblica è allineata con l’ideologia (il post 11 settembre, in questo caso, è di esempio), il musical classico poteva trovare il suo significato solo a condizione che l’immaginario prevalesse sul reale, alimentando così, come necessario alla riuscita del New Deal, la speranza della ripresa, nella mente dei cittadini prima ancora che nella realtà.

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Quando da West Side Story in poi, non ci sono più questi presupposti e gli autori inseriscono la realtà nelle storie, i codici del musical classico saltano e i risultati non sono più quelli di prima, di quel genere così rigidamente codificato. Tuttavia, se il dispositivo delle immagini e dei suoni muta in funzione dei mutamenti esterni, non significa automaticamente la fine tout court del musical; adesso è soprattutto la musica che si impone sull’immagine, è la musica

a capovolgere il rapporto sonoro-immagine: mentre di solito è l’immagine a dominare e il sonoro è funzionale solo in quanto apporta un sovrappiù di vero, nel musical sembra accadere l’esatto contrario: il sonoro diventa il vero e proprio elemento linguistico portante e l’immagine si sottomette ad esso da un punto di vista tanto di composizione quanto di montaggio tra le diverse immagini229.

One from the Heart, da questo punto di vista, rappresenta il tentativo

estremo di sfruttamento di queste possibilità. Non è certo un caso che per realizzare questo esperimento, un «prototipo destinato a fare sfoggio delle innovazioni tecnologiche che il regista padroneggia con maestria»230, Coppola ricorra, in maniera del tutto personale, a stilemi che celebrano la commedia musicale classica, ma servendosi di effetti speciali come ad esempio il chroma-key231. Ancora, un film come Pennies from Heaven che, adattando per il cinema una fortunata serie della BBC inglese costituisce il punto di svolta tra il musical del passato e le nuove possibilità di fare cinema in musica. Le parole di Steve Martin alla fine del film esemplificano questo 229 R. Eugeni, Il musical l’arte delle maniglie. Percorsi d’analisi nei paraggi del musical, in «Il Musical ieri e oggi», Cinecircoli giovanili Socioculturali, Roma 1992, p. 67, citato in F. La Polla e F. Monteleone (a cura di); Il cinema che ha fatto sognare…, cit., p. 313. 230 S. Delorme, Francis Ford Coppola, Cahiers du cinema, Paris 2007, tr. it. Francis Ford Coppola, Collana Maestri del cinema, Cahiers du cinema, Parigi 2010, p. 43. 231 Il Chroma Key, letteralmente “chiave di colore”, è un effetto speciale elettronico ideato negli anni ‘70, che consente di sovrapporre un'immagine a uno sfondo di colore predeterminato, che funge da sorgente video autonoma». Il chroma key ha origine nella tecnica del Blue Back, utilizzata per integrare segmenti video girati in unità spazio-temporali differenti. La sua funzione principale è quella appunto di sovrapporre, integrandole, due immagini provenienti da sorgenti diverse, generalmente per ambientare soggetti e oggetti su sfondi “virtuali”, aggiunti separatamente e successivamente. Tecnicamente, si realizza unendo lo sfondo voluto all'immagine del soggetto, o dell'oggetto, girata su uno sfondo dal colore uniforme, la chiave, per l'appunto, che in precedenza è stato il blu (blue screen) ma che recentemente è diventato il Pantone 354 (green screen), più adatto alle macchine digitali. Il mixer video registrerà l'immagine del soggetto, o dell'oggetto, soltanto nei punti di colore diverso dalla chiave, in pratica scontornandola, e aggiungendo lo sfondo voluto negli altri. Il chroma key può essere realizzato con materiale girato in precedenza e integrato con quanto ripreso sullo sfondo verde o blu, oppure con materiale completamente elaborato in digitale, con l'ausilio della grafica computerizzata, e integrato con i movimenti dal vero degli attori.

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passaggio: «Esci dal cinema e lo stramaledettissimo mondo è cambiato!», cioè la fine del continuum musica-realtà. Al cambiamento di quell’immaginario, di quel periodo dorato e dell’alone di magia che lo aveva caratterizzato è sopravvissuto il capitale costituito dalle enormi possibilità linguistiche e metalinguistiche intrinseche nel genere già alle sue origini. È attingendo a quel capitale, unico punto di contatto con il passato che gli autori più abili sono riusciti a costruire

quel rapporto ludico straordinariamente efficace e gratificante. […] Il prezzo che il musical ha dovuto pagare per darsi come tale alle soglie del nuovo millennio è lo sclerotizzarsi, il ridursi a funzione e spesso a funzione di altro da sé. Di qui i fenomeni di contaminazione, di ibridazione con generi per tradizione molto lontani, primo tra tutti il melodramma. […] Reincarnatosi infatti come funzione in altri corpi, non si poteva escludere che il musical del nuovo millennio non gettasse un occhio, anche di sfuggita, sulle proprie origini232.

Il tentativo di dimostrare che è più appropriato parlare di riconfigurazione del musical piuttosto che di “morte”, trova piena rispondenza a cavallo del nuovo millennio con la cinematografia di un regista australiano e della sua cosiddetta Trilogia della Red Curtain (Strictly Ballroom – 1992; William Shakespeare’s Romeo + Juliet - 1996; Moulin Rouge! – 2001); Baz Luhrmann è tra coloro che confortano al massimo la tesi che si è cercato di dimostrare: il musical, nella sua accezione più estesa, non va confinato al periodo classico, ma nel corso di cinquant’anni si è di volta in volta “ricollocato”, mutuando le tematiche e le tendenze provenienti dall’esterno. I film del regista australiano sono, per esempio, quelli che tra l’ultimo decennio del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio, più di tutti hanno rappresentato la rinascita del musical in chiave postmoderna. Analisi del fenomeno, decostruzione meticolosa a rivelare gli elementi “altri” e proposizione di questi ultimi attraverso contaminazione, ibridazione e riferimenti musicali e cinematografici; così potrebbe definirsi la cinematografia di Luhrman e comunque sarebbe un’esplicitazione riduttiva.

Luhrmann agisce sulle emozioni, sui sentimenti attraverso l’uso di elementi che risvegliano il percettivo individuale, facendo vivere l’immaginario di ogni spettatore in funzione della propria riflessione, maturata sulla base del proprio vissuto. «Music is the great unifying art of humanity, especially music that tells a story. I agree with Pythagoras’ point of view that music and matter are connected. […] If you can 232 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo… cit., p. 144.

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make music and story work together it is arguably the most powerful storytelling form»233.

Non esiste una forma narrativa più potente ed efficace di quella che si affida alla musica per raccontare una storia: questo è il presupposto che muove la cinematografia della Red Curtain e che, in particolare, è portata all’estremo in Moulin Rouge! film che si colloca a pieno titolo nella tradizione del musical, sia perché utilizza i principi fondanti del genere, in particolare quello del ‘recitar cantando e danzando’, sia per la scelta di rinnovare la caratteristica metalinguistica tipica di gran parte del musical classico, caratteristica che si manifesta principalmente nella tendenza ad ambientare l’intreccio nel mondo dello spettacolo, nel solco del celebre backstage musical, mettendo al centro della narrazione filmica le dinamiche dei rapporti tra spettacolo e vita.

Per completezza vanno citati due film che non sono stati analizzati nella tesi, due opere significative nella chiave di lettura, finora seguita, del musical come genere che si perpetua nel tempo attraverso un costante rinnovamento al passo con l’evoluzione sociale, culturale e tecnico-commerciale del cinema. Mi riferisco a Dancer in the Dark (Id. – 2000) di Lars von Trier e Chicago (Id. – 2002) di Rob Marshall.

Il film del regista danese segue idealmente la linea già tracciata dal citato Pennies from Heaven, con la differenza che Dancer in the Dark, rispetto al lavoro di Ross, è intimo, individuale, con la protagonista Selma (interpretata dalla cantante islandese Björk) combattuta nel contrasto tra la sua ottica e il contesto in cui vive che non capisce le motivazioni della sua passione per la musica, riflesso del conflitto interiore tra il von Trier amante del musical e quello fondatore del Dogma 95234, 233 B.Luhrmann, C. Martin, M. E. Mark, Moulin Rouge: The Splendid Illustrated Book that Charts the Journey of Baz Luhrmann’s Motion Picture, Newmarket, New York 2001, p. 70. 234 Ideato dal regista Lars von Trier per “purificare” il cinema da effetti speciali e investimenti miliardari, il movimento di Dogma 95 vide l’adesione di diversi registi danesi e internazionali. Questa è la traduzione delle regole che per 10 anni hanno guidato i registi del movimento, permettendo la realizzazione di 35 film: «Giuro di sottostare alle seguenti regole compilate e confermate da DOGME 95: Le riprese vanno effettuate nei luoghi reali. Non si possono portare scenografie e oggetti di scena sul set, se c’è la necessità di usare un particolare oggetto di scena, è necessario girare in un luogo in cui quell’oggetto si può trovare naturalmente. Il suono non dev’essere mai prodotto separatamente dall’immagine, o viceversa. La musica non deve essere usata, a meno che non sia suonata nel luogo in cui la scena è girata. La macchina da presa dev’essere sempre tenuta a mano. Ogni movimento o immobilità ottenibile con la ripresa a mano è permessa. Il film non deve svolgersi davanti alla macchina da presa, ma è la macchina da presa a dover andare deove il film si svolge.

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manifesto cinematografico che peraltro il regista danese, con il suo stile inconfondibile, ha disatteso sistematicamente, realizzando un solo film che ne rispetta i canoni, il provocatorio Idioterne (Idioti – 1998).

In Dancer in the Dark, Von Trier prende tutt'altra direzione grazie all'inserimento di incredibili scene musical, formalmente e sostanzialmente all’opposto del Dogma. La scelta di accomunare i numeri musicali nella mente di Selma viene riproposta in Chicago; nel film di Marshall la realtà è letta attraverso gli occhi di Roxie (Renée Zellweger), attraverso la sua passione ossessiva per il mondo dello spettacolo.

L’operazione realizzata da Rob Marshall non consiste tanto nella ripresa del musical di Bob Fosse del 1975, costruito su un soggetto da commedia nera235. Rispetto alle opere di Luhrmann, particolarmente a Moulin Rouge! Chicago possiede una maggiore omogeneità delle fonti musicali, anche perché basato su un’opera precedente; la componente musicale principale è costituita dai songs di John Kander e Fred Ebb, gli stessi del lavoro del 1975. Quello che è rilevante è come Marshall sviluppi contemporaneamente il piano della commedia nera e quello del musical riuscendo a mantenerli distinti tra loro. L’abilità del regista, alla sua opera cinematografica

Il film dev’essere girato a colori. Illuminazioni speciali non sono permesse, se il set è troppo buio per permettere le riprese la scena dev’essere tagliata, o al massimo si può attaccare una singola lampada alla macchina da presa. Ottiche particolari e filtri non sono permessi. Il film non deve presentare azioni “superficiali”. Omicidi, uso di armi e cose simili non sono accettabili. L’alienazione temporale e geografica non è permessa. Dev’essere evidente che il film è ambientato qui e ora. I film di genere non sono accettabili. Il film deve essere in formato Academy 35 mm. Il regista non deve prendere credito per il suo lavoro. Inoltre, giuro che come regista non mi farò condizionare dal mio gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare “un’opera”, perché considero il momento più importante dell’insieme. Il mio obiettivo supremo è di spremere la verità fuori dai miei personaggi e le mie ambientazioni. Giuro di farlo con ogni mezzo possibile e a costo di ogni buon gusto e di ogni considerazione estetica. Così faccio il mio VOTO DI CASTITÀ». Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995 A nome di DOGME 95 Lars von Trier, Thomas Vinterberg (fonte: http://www.cinefile.biz) 235 Chicago racconta le prodezze amorose di Roxie Hart, una ballerina di night club che uccide il proprio amante; narra di Billy Flynn, un astuto avvocato che trasforma Roxie in un celebre personaggio; e di Velma Kelly, una ballerina che si trova in prigione, abile nell'attirare l'attenzione della stampa e nell'individuare la presenza di talento.

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d’esordio236, sta nel riuscire a mettere in relazione questi luoghi della diegesi così diversi tra loro.

Seguendo la lezione del Fosse cinematografico, per cui il montaggio serrato di dettagli diventa esso stesso coreografia, Marshall integra la performance di Velma [Catherine Zeta-Jones] e il rapporto sessuale di Roxie in un unico grande numero. […] Servendosi dei mezzi propri del cinema nel modo appena descritto, Marshall potenzia il contenuto satirico del lavoro fosseiano […] Inoltre, conferendo coreuticità all’azione delle protagoniste e dell’ambiente in cui si muovono, Marshall sembra voler riprodurre l’euforia che caratterizza il clima dei roaring 20ies […]. Tutto ciò, è importante ricordarlo, avviene senza mai interrompere la continuità dello storytelling, il che rappresenta per il regista un obiettivo prioritario, per raggiungere il quale – dimostrando una padronanza del mezzo filmico tale da farci dimenticare che stiamo parlando di un’opera prima per il grande schermo – egli opera sui songs di Kander ed Ebb in due modi distinti237.

Abbiamo visto come, tra inserimento delle tematiche legate alla realtà (West Side Story), rivisitazioni apparentemente nostalgiche, ma in realtà tese a celebrare il mondo dell’età d’oro e a segnarne l’ultimo capitolo per rilanciare con altri contenuti la formula (Pennies from Heaven), sperimentazioni elettroniche visionarie ma indicative di nuove possibilità (One From The Heart), riferimenti, cinematografici e musicali innumerevoli per rivelare l’inesplorato di un genere rivisitato in chiave postmoderna (Moulin Rouge!), il musical, se possiamo ancora chiamarlo così, è ancora oggetto di interesse e tutt’altro che morto. Probabilmente perché, come spiega l’amico del cuore a Troy Bolton, il protagonista di High School Musical che si ostina a perder tempo partecipando alle audizioni per uno spettacolo scolastico: «un musical non è essenziale per la cultura… un musical… è musica da musical!». 236 Marshall arriva a dirigere un film dopo diversi anni come coreografo di Broadway e regista televisivo. 237 R. Scognamiglio, Aspetti del musical contemporaneo…, cit., p. 144.

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SCHEDE DEI FILM TRATTATI West Side Story (Id. 1961) USA – 145 min. Regia: Robert Wise, Jerome Robbins; Soggetto: liberamente tratto da Romeo e Giulietta di William Shakespeare; Sceneggiatura: Ernest Lehman, Arthur Laurents; Produzione: Robert Griffith, Harold Prince; Coreografie: Jerome Robbins; Musiche: Leonard Bernstein; Testi delle canzoni: Stephen Sondheim; Direzione della fotografia: Scenografia: Oliver Smith; Montaggio: Thomas Stanford; Costumi: Irene Sharaff. Cast: Natalie Wood: Maria; Richard Beymer: Tony; Russ Tamblyn: Riff; Rita Moreno; Anita; George Chakiris; Bernardo; Simon Oakland: tenente Schrank; Tucker Smith: Ice; Tony Mordente: Action; David Winters: A-Rab; Eliot Feld; Baby John; Bert Michaels: Snowboy; Joe de Vega: Chino; Sue Oakes: Anybodys; Gina Trikonis: Graziella.

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One From the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982) USA – 107 min. Regia: Francis Ford Coppola; Soggetto: Armyan Bernstein; Sceneggiatura: Francis Ford Coppola, Armyan Bernstein; Produzione: Gray Frederickson, Fred Roos per Zoetrope; Musiche: Tom Waits; Direzione della fotografia: Vittorio Storaro; Scenografia: Dean Tavoularis; Montaggio: Rudi Fehr, Anne Goursaud e Randy Roberts; Costumi: Ruth Morley; Effetti speciali: Robert Swarte; Cinema elettronico: Thomas Browne; Murdo Laird; Anthony St. John; Michael Lemhann. Cast: Frederic Forrest: Hank; Teri Garr: Frannie; Raul Julia: Ray; Nastassja Kinski: Leila (as Nastassia Kinski); Lainie Kazan: Maggie; Harry Dean Stanton: Moe; Allen Garfield: Restaurant Owner (as Allen Goorwitz); Jeff Hamlin. Airline Ticket Agent, Italia Coppola: Couple in Elevator; Carmine Coppola: Couple in Elevator, Edward Blackoff: Understudy, James Dean: Understudy; Rebecca De Mornay: Understudy (as Rebecca de Mornay); Javier Grajeda: Understudy; Cynthia Kania: Understudy; Monica Scattini: Understudy.

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Pennies from Heaven (Spiccioli dal cielo – 1981) USA – 108 min. Regia: Herbert Ross; Soggetto: Dennis Potter; Sceneggiatura: Dennis Potter; Produzione: Rick McCallum, Herbert Ross, Nora Kaye; Musiche: Ralph Burns, Marvin Hamlisch, Billy May; Direzione della fotografia: Gordon Willis; Coreografie: Danny Daniels; Scenografia: Dean Tavoularis; Montaggio: Richard Marks; Costumi: Bob Mackie. Cast: Steve Martin: Arthur; Bernadette Peters: Eileen; Jessica Harper: Joan; Vernel Bagneris: The Accordion Man, John McMartin: Mr. Warner; John Karlen: The Detective; Jay Garner: The Banker; Robert Fitch: Al; Tommy Rall: Ed; Eliska Krupka: The Blind Girl; Christopher Walken: Tom; Francis X. McCarthy: The Bartender (as Frank McCarthy); Raleigh Bond: Mr. Barrett; Gloria LeRoy: A Prostitute (as Gloria Leroy).

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Strictly Ballroom (Ballroom, Gara di Ballo – 1992) Australia - 98 min. Regia: Baz Luhrmann; Soggetto: Baz Luhrmann; Sceneggiatura: Baz Luhrmann e Craig Pearce, Produzione: Antoinette Albert, Tristram Miall, Jane Scott; Musiche: David Hirschfelder; Direzione della fotografia: Steve Mason; Montaggio: Jill Bilcock; Scenografia; Catherine Martin; Costumi: Angus Strathie; Cast: Paul Mercurio: Scott Hastings; Tara Morice: Fran; Bill Hunter: Barry Fife; Pat Thomson: Shirley Hastings; Gia Carides: Liz Holt; Peter Whitford; Les Kendall; Barry Otto: Doug Hastings; John Hannan: Ken Railings; Sonia Kruger: Tina Sparkle, Kris McQuade: Charm Leachman; Pip Mushin: Wayne Burns; Leonie Page: Vanessa Cronin; Antonio Vargas: Rico; Armonia Benedito: Ya Ya; Jack Webster: Terry;

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William Shakespeare’s Romeo + Juliet (Romeo + Giulietta di William Shakespeare - 1996) USA - 115 min. Regia: Baz Luhrmann; Soggetto: liberamente tratto da Romeo e Giulietta di William Shakespeare; Scenggiatura Craig Pearce, Baz Luhrmann; Produzione: Jill Bilcock, Martin Brown, Baz Luhrmann, Catherine Martin, Gabriella Martinelli; Musiche: Nellee Hooper; Direzione della fotografia: Donald McAlpine; Montaggio: Jill Bilcock; Scenografia: Catherine Martin; Costumi: Kym Barrett; Cast: Leonardo Di Caprio: Romeo Montecchi; Claire Danes: Giulietta Capuleti; John Leguizamo: Tebaldo Capuleti; Harold Perrineau: Mercuzio, amico di Romeo; Pete Postlethwaite: Frate Lorenzo; Paul Sorvino: Fulgencio Capuleti; Brian Dennehy: Ted Montecchi; Paul Rudd: Paride, figlio del governatore; Vondie Curtis-Hall: Capitano Principe; Miriam Margolyes: Balia; Jesse Bradford: Baldassare; Zak Orth: Gregorio; Jamie Kennedy: Sansone; Dash Mihok: Benvolio Montecchi; Vincent Laresca: Abramo, Carlos Martín Manzo Otálora: Petruccio, Christina Pickles: Carolina Montecchi.

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Moulin Rouge! (Id. – 2001) Usa, Australia – 123 min. Regia: Baz Luhrmann; Soggetto: Baz Luhrmann, Craig Pearce; Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce; Direzione della fotografia: Donald McAlpine; Montaggio: Jill Bilcock; Effetti speciali: Brian Cox; Musiche: Craig Armstrong; Scenografia: Catherine Martin; Coreografie: John O’Connell; Produzione: Fred Baron, Martin Brown, Baz Luhrmann, Catherine Martin; Cast Nicole Kidman: Satine; Ewan McGregor: Christian; John Leguizamo: Henri de Toulouse-Lautrec; Jim Broadbent: Harold Zidler; Richard Roxburgh: duca di Monroth; Garry McDonald: dottore; Jacek Koman: argentino narcolettico; Matthew Whittet: Erik Satie; Kerry Walker: Marie; Caroline O'Connor: Nini "gambe-all'aria"; Christine Anu: Arabia; Natalie Mendoza: China Doll; Lara Mulcahy: Môme Fromage; David Wenham: Audrey; Kylie Minogue: fatina verde dell'assenzio.

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FILMOGRAFIA 1941 (1941 Allarme a Hollywood – 1979) Steven Spielberg Alien (Id. – 1990) Ridley Scott Alien: Resurrection (Alien: la Clonazione – 1997) Jean-Pierre Jeunet Alien3 (Id. – 1992) David Fincher All That Jazz (Id. – 1979) Bob Fosse American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra -1981) John Landis Apocalypse Now (Id. – 1979) Francis Ford Coppola Artificial Intelligence: AI (A.I. – Intelligenza Artificiale – 2001) Steven Spielberg Ben-Hur (Id. – 1959) William Wyler Bram Stoker’s Dracula (Dracula di Bram Stoker – 1992) Francis Ford Coppola Brigadoon (id. – 1954) Vincente Minnelli Cabaret (Id. – 1971) Bob Fosse Chicago (Id. – 2002) Rob Marshall Children of the Revolution (Figli della Rivoluzione – 1996) Peter Duncan Citizen Kane (Quarto Potere – 1941) Orson Welles Cotton Club (Id. – 1984) Francis Ford Coppola Dancer in the Dark (Id. – 2000) Lars von Trier Dial M for Murder (Il Delitto Perfetto – 1954) Alfred Hitchcock David and Bathsheba (Davide e Betsabea - 1951) Henry King. Dirty Dancing (Dirty Dancing - Balli proibiti – 1987) Emile Ardolino Donnie Darko (Id. – 2001) Richard Kelly East of Eden (La valle dell’Eden – 1955) Elia Kazan Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello – 2004) Michel Gondry Flaming Star (Stella di fuoco – 1960) Don Siegel Forbidden Planet (Il pianeta proibito - 1956) Fred McLeod Wilcox Funny Face (Cenerentola a Parigi – 1957) Stanley Donen Gardens of stone (Giardini di pietra – 1987) Francis Ford Coppola Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde – 1953) Howard Hawks Gigi (Id. – 1958) Vincente Minnelli Glen or Glenda (Due vite in una – 1953) Ed Wood Gold Digger of 1933 (La danza delle luci – 1933) Mervyn LeRoy - Busby Berkeley Grease (Id. – 1978) Randal Kleiser Hair (Id. – 1979) Milos Forman Her (Lei – 2013) Spike Jonze High School Musical (Id. – 2006) Kenny Ortega House of Usher (I vivi e i morti – 1960) Roger Corman House of Wax (La maschera di cera – 1953) André De Toth Idioterne (Idioti – 1998) Lars von Trier Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultra corpi – 1956) Don Siegel Jack (Id. – 1996) Francis Ford Coppola Jailhouse Rock (Il delinquente del rock’n roll – 1957) Richard Thorpe Jesus Christ Superstar (Id. – 1973) Norman Jewison Life without Zoe (La vita senza Zoe – 1989) Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Woody Allen Love me Tender (Fratelli Rivali – 1956) Robert D. Webb

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Mean Streets (Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno – 1973) Martin Scorsese Moulin Rouge (Id. – 1952) John Houston Moulin Rouge! (Id. – 2001) Baz Luhrmann National Lampoon's Animal House (Animal House - 1978) John Landis New York, New York (Id. – 1977) Martin Scorsese Nightbreed (Cabal – 1990) Clive Barker Oklahoma! (Id. – 1955) Fred Zinnemann On the Town (Un giorno a New York – 1949) Stanley Donen One From the Heart (Un sogno lungo un giorno – 1982) Francis Ford Coppola Peggy Sue got married (Peggy Sue si è sposata -1986) Francis Ford Coppola Pennies from Heaven (Spiccioli dal Cielo – 1981) Herbert Ross Phantom of the Paradise (Il fantasma del palcoscenico – 1974) Brian de Palma Pit and the Pendulum (Il pozzo e il pendolo – 1961) Roger Corman Plan 9 from Outer Space (Piano 9 da un altro mondo – 1959) Ed Wood Porgy and Bess (Id. – 1959) Otto Preminger Quo Vadis? (Id. – 1951) Mervyn LeRoy Rebel without a cause (Gioventù bruciata - 1955) Nicholas Ray Rumble Fish (Rusty il selvaggio – 1983) Francis Ford Coppola Samson and Delilah (Sansone e Dalila - 1949) Cecil B. DeMille Saturday Night Fever (La Febbre del Sabato Sera – 1977) John Badham Seven Bride for Seven Brothers (Sette Spose per Sette Fratelli – 1955) Stanley Donen Singin’ in the rain (Cantando sotto la pioggia – 1952) Stanley Donen Soldier Blue (Soldato Blu – 1970) Ralph Nelson Spartacus (Id. - 1960) Stanley Kubrick Splendor in the Grass (Splendore nell’erba - 1961) Elia Kazan Strictly Ballroom (Gara di Ballo – 1992) Baz Luhrmann The Blues Brothers (Id. - 1980) John Landis The Clock (L’ora di New York – 1945) Vincente Minnelli The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra – 1951) Robert Wise The Doors (Id. – 1991) Oliver Stone The Godfather part III (Il Padrino parte III – 1990) Francis Ford Coppola The Killing (Rapina a mano armata – 1956) Stanley Kubrick The Outsiders (I ragazzi della 56a strada – 1983) Francis Ford Coppola The Rainmaker (L’uomo della pioggia – 1997) Francis Ford Coppola The Robe (La tunica – 1953) Henry Koster The Searchers (Sentieri Selvaggi – 1956) John Ford The Ten Commandments (I Dieci comandamenti – 1956) Cecil B. DeMille The Terror (La vergine di cera - 1963) Roger Corman The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo – 1951) Christian Nyby Tucker, the man and his dream (Tucker, un uomo e il suo sogno – 1988) Francis Ford Coppola Velvet Goldmine (Id. – 1998) Todd Haynes Voyage dans la lune (Viaggio nella luna - 1902) George Méliès West Side Story (Id. – 1961) Jerome Robbins e Robert Wise, William Shakespeare's Romeo + Juliet (Romeo + Giulietta di William Shakespeare – 1996) Baz Luhrmann

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Ringrazio Antonella, per l’amore (e la pazienza) con cui

ha condiviso (e sopportato) questo meraviglioso sogno


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