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La chiesa di Sant'Ambrogio di Montecorvino Rovella (SA). Contesto insediativo e realtà monumentale....

Date post: 22-Nov-2023
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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale Corso di Laurea Magistrale in Archeologia e Culture Antiche TESI DI LAUREA in Archeologia degli Insediamenti medievali La chiesa di Sant'Ambrogio di Montecorvino Rovella (SA). Contesto insediativo e realtà monumentale. Dati per una rilettura. Relatore Candidato Chiar.ma Prof.ssa CHIARA M. LAMBERT FRANCESCO DE LUCA Matricola: 0322300375 Correlatore Chiar.ma Prof.ssa FRANCESCA DELL’ACQUA Anno Accademico 2014/2015
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1

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale

Corso di Laurea Magistrale

in

Archeologia e Culture Antiche

TESI DI LAUREA in

Archeologia degli Insediamenti medievali

La chiesa di Sant'Ambrogio di Montecorvino Rovella

(SA). Contesto insediativo e realtà monumentale.

Dati per una rilettura.

Relatore Candidato

Chiar.ma Prof.ssa

CHIARA M. LAMBERT

FRANCESCO DE LUCA

Matricola:

0322300375

Correlatore

Chiar.ma Prof.ssa

FRANCESCA DELL’ACQUA

Anno Accademico 2014/2015

2

INDICE

Premessa ..…p. 3

I. Quadro storico-territoriale .….p. 5

I.1. Localizzazione in rapporto alla viabilità antica e medievale ..…p. 5

I.2. Rapporti di dipendenza dal monastero di San Vincenzo al Volturno ..……p. 6

I.3. Fonti documentarie ..…p. 16

I.4. Toponomastica e agiotoponomastica .….p. 20

II. Strutture architettoniche ed evidenze archeologiche ..….p. 31

II.1. Strutture attuali ..….p. 31

II.2. Lo scavo .….p. 36

III. Pitture murarie ..….p. 57

III.1. Descrizione …….p. 57

III.2. Analisi critica …….p. 63

IV. Prospettive di studio …….p. 81

IV.1. Archeologia …….p. 81

IV.2. Storia dell'arte …….p. 84

Conclusioni ..….p. 90

Bibliografia ..….p. 92

Allegati fotografici

3

Premessa

La scelta del soggetto per questa tesi è stata determinata

dalla recente ripresa di interesse nei confronti della chiesa

rurale di Sant’Ambrogio a Montecorvino Rovella (SA), in

località Occiano, contrada Mariotti, lungo le sponde del

torrente Rienna.

L’edificio venne riscoperto alla fine degli anni ’70 in condizioni

di quasi totale abbandono, in un’area territoriale che le fonti

documentarie medievali attestano come antica pertinenza

della celebre abbazia di San Vincenzo al Volturno.

La sua eccezionalità consiste principalmente nella

sopravvivenza nel suo settore absidale di pitture murarie di

elevata qualità tecnico-esecutiva, i cui soggetti – Vergine

Theotokos attorniata dai quattro Santi milanesi Protasio,

Ambrogio, Simpliciano e Gervasio – rimandano a maestranze

di alto livello ed a una cronologia che una serie di recenti

studi storico-artistici e iconografici permette di assegnare al

IX secolo.

Oggetto di indagine archeologica e di un intervento di

restauro ricostruttivo nelle 1992, la pieve, che si configura

come una tra le più importanti fondazioni signorili che

interessarono la Langobardia Minor, costituisce l’oggetto di

specifici interessi di studio da parte di alcuni docenti

dell’Università degli Studi di Salerno, che, di concerto con

colleghi di altri istituzioni e in accordo con gli enti locali

(Comune e Curia diocesana) intendono promuoverne una

4

rilettura multidisciplinare e una compiuta valorizzazione,

anche in rapporto alle attuali realtà territoriali.

L’acquisizione di conoscenze più approfondite circa la storia

dell’edificio e dei suoi rapporti culturali e devozionali con altre

realtà meglio note dell’Italia altomedievale, è finalizzata

altresì all’inserimento del Sant’Ambrogio nell’ambito del

percorso di valorizzazione turistica dei siti longobardi che

fanno parte del programma degli itinerari culturali europei

denominato “Longobards ways across Europe” promosso

dall’Associazione Longobardia. Si tratta di un’iniziativa le cui

finalità strategiche sono imperniate sulla promozione di

valori condivisi e senso di appartenenza tra i cittadini

d’Europa; sulla valorizzazione dei territori attraversati

dall’itinerario, che collega le aree interessate dal “viaggio”

compiuto dal popolo longobardo nella sua plurisecolare

migrazione attraverso l’Europa dall’area scandinava al

Mediterraneo; sul perseguimento dei valori del turismo

responsabile, sostenibile, eco-compatibile, etico.

Il presente lavoro rientra nell’obiettivo primario di recuperare

e sistematizzare la documentazione esistente sulla chiesa di

Sant’Ambrogio, in vista dell’avvio di nuove e più approfondite

indagini che riguarderanno principalmente gli ambiti

archeologici e storico artistici.

5

I. Quadro storico-territoriale

I.1. Localizzazione in rapporto alla viabilità antica e

medievale

La pieve di Sant’Ambrogio sorge ai confini occidentali delle

terre del Picentino, nell’attuale comune di Montecorvino

Rovella (SA), in località Occiano, contrada Mariotti.

L’edificio si trova nelle immediate vicinanze dell’alveo del

fiume Rienna, a circa 3 km dal suo sbocco nel Picentino, che

bagna terre estese tra il mar Tirreno e i Monti omonimi.

Si tratta di un vasto territorio che comprende i comuni di

Pontecagnano, San Cipriano Picentino, Giffoni sei Casali,

Giffoni Vallepiana, Montecorvino Rovella e Montecorvino

Pugliano.

L’area si può distinguere geomorfologicamente in due zone:

la prima costituita dalla pianura tra il Fuorni e l’Asa, parte

della più vasta “litoranea” di Salerno-Paestum, cui fanno da

corona i colli di Faiano e Pugliano, al di là dei quali si apre

una seconda pianura interna solcata dal fiume Picentino nel

suo medio corso, dal Rienna, dal Prepezzano e da altri corsi

d’acqua minori. Limite di quest’ultima pianura sono ad Est il

Fuorni, nel suo corso medio-alto, a Nord i Monti Picentini, ad

Ovest i rilievi sui quali sorgono le frazioni e il castello di

Montecorvino Rovella (fig. 1-3).

6

Nel Medioevo, il distretto territoriale gravitante intorno al

fiume Picentino risulta diviso in una serie di loca tra cui

spiccano quello di Giffoni e di Stricturia.

Tutta la zona è interessata da una fitta trama viaria, sia

terrestre sia fluviale, che permette i collegamenti tra le varie

contrade del territorio salernitano.

Nella documentazione altomedievale vi è attestata la

presenza della via antiqua, direttrice interna della via Popilia,

importante tracciato stradale che collegava Roma (tramite la

via Appia da Capua) con Reggio Calabria, che in questa zona

segue il fiume Picentino. Si tratta con ogni probabilità del

tracciato stradale che toccava una cella del monastero di San

Vincenzo a Volturno, attestata dalle fonti come situata lungo

il Picentino e si dirigeva verso Sant’Ambrogio, proseguendo

poi in direzione di un’altra cella sul fiume Tenza1 (fig. 4).

I.2. Rapporti di dipendenza dal monastero di San Vincenzo al

Volturno

La chiesa rurale di Montecorvino Rovella risulta dunque ben

inserita all’interno di un reticolo stradale che garantisce,

grazie alle sue fitte diramazioni interne, collegamenti diretti

con gli assi viari principali, permettendo facili spostamenti e

assicurando un’efficiente gestione fondiaria che nello

specifico, risulta fare capo al cenobio benedettino di San

Vincenzo al Volturno (VIII – XII sec. d.C.), le cui pertinenze

1 DI MURO 2012, p. 171.

7

ecclesiastiche sono quasi tutte associate a delle proprietà

fondiarie2.

Nel IX secolo d.C. i possedimenti volturnensi sono attestati

in ogni regione del Mezzogiorno longobardo (fig. 5).

È il periodo di massimo splendore, sia economico sia

spirituale del monastero, edificato ai confini settentrionali del

Ducato di Benevento, per volere del Principe Gisulfo II e

dunque sotto l’egida longobarda, che, tuttavia appare

precocemente legato alla corte di Aquisgrana.

L’abate Giosuè, di origine franca (792 – 817 d.C.), era forse

imparentato con l’imperatore Ludovico il Pio.

L’abbazia di San Vincenzo funge da tramite tra l’impero

franco e il ducato longobardo di Benevento a compensare, in

qualche misura, la conquista geopolitica della Langobardia

Minor da parte di Carlo Magno3.

Un diploma emanato ad Aquisgrana dall’Imperatore Ludovico

il Pio nell’819 d.C., riportato dal monaco Giovanni nel

Chronicon Vulturnense (XII secolo), conferma all’abate

Giosuè una lunga serie di beni posseduti dal cenobio

volturnense nelle zone in questione:

cellam Sancti Georgii infra Salernitanam civitatem;

cellam Sancti Vincencii in fluvio Tusciano;

cellam Sancti Valentini in fluvio Bisentino;

cellam Sancti Vincencii in fluvio Tensa, cum omnibus aliis

cappellis et pertinenciis earum, et ominbus aliis cellis et

2 DI GIACOMO 2005-2006, p. 22. 3 DI MURO 2012, p. 167.

8

terris4. Nei tre fiumi citati dal documento sono da

riconoscersi il Picentino, il Tusciano e il Tenza, affluente di

destra del Sele nel suo medio corso nel territorio di

Campagna5.

A riprova del forte legame con l’abbazia di San Vincenzo al

Volturno e, dunque, con l’Impero carolingio, vi sono le

modalità di gestione fondiaria nelle terre del Tusciano, che,

come traspare dalla documentazione scritta, non sembrano

avere analogie con quelle longobarda:

l’amministrazione fondiaria è fondata sul sistema curtense (

di cui si ha un esempio nel complesso di Santa Maria a corte

nella frazione di Monticelli, nel comune di Olevano sul

Tusciano6), un organismo rurale complesso7. È un modo di

conduzione del possesso fondiario legato alla precisa

richiesta di prestazioni d’opera che non sembra trovare

confronti nell’ Italia meridionale di quel periodo8. Le curtes

spesso le troviamo attestate come piccoli nuclei residui,

comunque vitali, di quelle ville rustiche d’età imperiale o

tardoantica dove veniva assicurata, seppure con diversi

sistemi, la vitalità dei fundia9.

4 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, ed. FEDERICI 1925, p. 232. 5 DI MURO 2012, p. 169. 6 ID. 2001, p. 109. 7 Una curtis sede del dominicum dalla quale si pianificano e si dirigono le modalità dello sfruttamento del territorio circostante, dove si trovano le casis ovvero le casae massericiae organicamente collegate dal dominicum e infine l’ecclesia, momento in cui le due “anime” dell’edificio curtense si incontrano nella condivisione di una medesima aspirazione spirituale (DI MURO 2008, p. 110). 8 DI MURO 2001, p. 110-111. 9 PEDUTO 2004, p. 399.

9

Le celle volturnensi del Salernitano si costituiscono come

piccoli nuclei disseminati su tutto il territorio ma sempre

saldamente legati alla casa madre10.

Il dominio volturnense del Picentino nel IX secolo si struttura

in almeno due insediamenti: la cella con chiesa di S.

Vincenzo nei pressi del fiume Picentino11, nell’attuale

territorio del comune di Giffoni Vallepiana, e la chiesa di

Sant’Ambrogio costruita a circa 3 km ad Est della ecclesia

Sancti Vincencii (fig. 6).

La rivisitazione carolingia12 del culto ambrosiano, evocato

nell’intitolazione della chiesa, procede in parallelo con la

diffusione di carattere spirituale e culturale, ma anche

politico della regola benedettina, che porta l’abbazia di Farfa

a schierarsi tra le abbazie fedeli all’Impero franco, e affida a

San Vicenzo al Volturno il ruolo di confine meridionale,

tangente ai domini longobardi. Proprio questo tramite

monastico potrebbe aver contribuito alla trasmissione, nella

devozione locale, del culto ambrosiano di stampo

occidentale, ponendosi al servizio dell’accresciuto interesse

della casa imperiale sul Salernitano e sull’Italia meridionale

10 Il termine cella indica l’edificio che gestisce il complesso dei possedimenti monastici in un determinato territorio, spesso composto da chiese, mulini, masserie, orti, boschi, pascoli, riserve di pesca e/o di caccia, vigne, abitazioni e a volte dei veri e propri cenobi, ricetti e castelli. (DI MURO 2012, p. 169.) 11 Nel 983 d.C. l’abate di San Vincenzo chiede nuovamente conferma all’Imperatore del possesso di alcuni beni tra cui la cellam Sancti Vincencii in fluvio Vixentino. Il diploma imperiale indica la cella del Picentino dedicata a S. Vincenzo e non a San Valentino. Tale nuova denominazione fa pensare ad una corruzione del nome da parte del copista oppure ad una rinominazione del complesso (VISENTIN 2000– 2001, p. 171). 12 Il culto ambrosiano potrebbe essere stato portato dagli stessi Longobardi.

10

in genere e come punto d’incontro religioso fra i Franchi, i

Longobardi e le popolazioni autoctone13.

La vicinanza ai confini con i domini carolingi, la collocazione

lungo la Via degli Abruzzi, una delle direttrici fondamentali

per i collegamenti tra il sud Italia e il settentrione, sono i

fattori principali che consentono la crescita straordinaria del

cenobio benedettino di San Vincenzo, che ben si coglie nelle

ricche strutture dell’abbazia. Quest’ultima si distingue per la

notevole qualità dei materiali impiegati per la sua

edificazione, cosi come per la complessa articolazione

architettonica, estesa su di un’area di circa 10 ettari e in

grado di ospitare più di trecento monaci. La presenza di spazi

e ambienti preposti esclusivamente alla produzione

artigianale (officine e laboratori), l’ampiezza della Basilica

Maior (circa 70 m di lunghezza per 30 di larghezza) e

l’opulenza della vita quotidiana che emerge dall’analisi dei

reperti sono tutti elementi che ben si inseriscono nel contesto

di sviluppo economico che caratterizza il Meridione

longobardo nel IX secolo d.C.14.

Anche le terre tra Salerno e il Sele parteciparono a questa

rilevante crescita economica e la presenza degli interessi di

San Vincenzo al Volturno contribuì al decollo economico della

regione15.

Alessandro Di Muro occupandosi di questo territorio, ha

13 IANNELLI 1993-1994, p. 216. 14 Archeologia relativa, circa la storia e la documentazione, al monastero di S. Vincenzo al Volturno, oggetto di importanti campagne di scavo da parte di un’equipe internazionale, cfr. l’ampia bibliografia di F. Marazzi, in particolare MARAZZI 2010; ID. 2012, 2013, 2014a, 2014b. 15 DI MURO 2012, p. 168.

11

sottolineato come il paesaggio ad oriente di Salerno in età

longobarda si sia popolato ben presto di piccole chiese e

oratori, non meno che del sentimento religioso,

manifestazione della potenza e del prestigio della vigorosa

aristocrazia locale; numerosi santuari – anch’essi dotati di

beni da parte dei dominatori di turno - che punteggiano i

campi o dominano le colline a ridosso delle pianure,

costituirono altrettanti nuclei attrattivi e punti di riferimento

spirituale per gli abitanti delle terre circostanti16.

Il continuo stanziamento dei coloni nei poderi loro affidati,

porta alla costituzione di aggregati umani interessati alla

conservazione ed al recupero degli edifici religiosi o, se in

area di nuovo dissodamento, a costruirne ex novo.

La stessa contrada Marotti, che vede la fondazione della

chiesa di Sant’Ambrogio, è un terreno sottratto alle paludi17.

I contratti di locazione fondiaria – sempre nell’analisi del Di

Muro - rappresentano una spinta vigorosa alla modificazione

del paesaggio agrario anche laddove si preveda la semplice

miglioria del fondo18, tanto più quando essi contemplino

clausole in cui si richieda esplicitamente l’impianto di nuove

colture19. Dai contratti agrari in genere è possibile ricavare

informazioni importanti su chi possiede la terra, su chi la

coltiva, su come si organizza il fondo oppure seguire

l’evoluzione di accrescimento territoriale dei possessi di un

16 DI MURO 2001, p. 43. 17 IANNELLI 1993-1994, p. 223. La cui opera di bonifica non è cronologicamente precisabile. 18 La cosiddetta traditio ad laborandum è una tipologia contrattuale tesa esclusivamente a migliorare la produzione delle colture già esistenti (DI MURO 2001, p. 19). 19 Il contratto ad pastenandum ha come obbiettivo l’introduzione di nuove colture in una terra solitamente incolta (DI MURO 2001, p. 19).

12

determinato ente in un locus o ancora osservare l’opera di

“conquista” di nuove terre al selvatico e constatare la

presenza delle diverse coltivazioni, tentando di appurare se

vi siano state o meno aree vocazionali, contraddistinte da

colture preponderanti20.

Le fonti documentarie permettono di ricostruire a grandi

linee il paesaggio rurale dell’area salernitana nel IX secolo;

La zona appare più antropizzata rispetto a quelle dove è

attestata la presenza dei gualdi21 e dei cafaggi22.

Le particelle di cerealicoltura pura sono meno numerose di

quelle adibite a coltura promiscua, dove crescono anche

alberi da vite; gli alberi, mescolati, provano un dissodamento

differenziale della foresta; il castagno comincia ad essere

oggetto di coltivazione e viene innestato abbastanza spesso.

Saliceta e canneta, funzionali per la viticoltura, sono

mantenuti in zone umide; i corsi d’acqua sono fondamentali

per l’insediamento dei mulini, che a loro volta alimentano,

tramite una fitta rete di canalette, i campi circostanti.

È probabile che la parte longobarda del litorale campano

benefici del nascente vivacità commerciale delle città

20 DI MURO 2001, p. 14. 21 La parola gualdo designa un territorio generalmente boscoso e comunque poco o non valorizzato. Un gualdo è considerato come un’appendice di una curtis. Le sole attività documentate sono l’allevamento e la pesca e vi possono vivere solo alcune famiglie in stato servile, vi è talvolta collocata una chiesa. Appartengono originariamente all’autorità pubblica che può concederli a chiese e persino a laici (MARTIN 2004, p. 348). 22 La parola cafaggio o gaio, di origine longobarda, ha il significato di area boschiva recintata. Appartengono originariamente al sovrano, il quale ne concede solo delle porzioni, talvolta molto estese. Vista la sua superficie, il gaio è poco omogeneo: in gran parte incolto, può ospitare chiese isolate e case, di allevatori in particolare, che possono essere raggruppate in curtes articolate; Il gaio, in ultimo è adatto alle zone che costituiscono fronti di dissodamento. In qualche occasione può evolvere in un gualdo (MARTIN 2004, p. 349).

13

tirreniche: il patto stipulato nell’833 dal principe di

Benevento con il Duca bizantino di Napoli proibisce di

comprare e di vendere gli schiavi di etnia longobarda ma

autorizza i negociantes ad esercitare la propria attività in

terra longobarda23. Si attesta, dunque, una forte dinamicità,

sia commerciale sia fondiaria, attraverso le numerose

formule di sfruttamento e di gestione patrimoniale dei

possedimenti agricoli (curtis, gualdo, gaio).

Come afferma Paolo Peduto, all’economia mercantile della

costa tirrenica, si contrapponeva il mondo silvo-pastorale ed

agricolo dell’interno. Qui l’organizzazione per la messa a

coltura delle terre non sfuggiva ad una sorta di contratto

collettivo, di associazione che generava la nascita di veri e

propri villaggi. Il lavoro degli artigiani-contadini determinerà

la lenta maturazione dei villaggi rurali. Questi molto spesso

si ingrandiranno a scapito di altri, o tutti insieme

trasformeranno i luoghi ritenuti più idonei per un nuovo tipo

di sistema aggregativo: il castellum.

Un nuovo tipo di sistema di ampliamento delle terre messa a

coltura è rintracciabile in una carta del 989 del Chronicon

Vulturnense (e in numerosissime altre fonti documentarie)

dove, con il favore dell’abate di San Vincenzo al Volturno,

mediante una «concessione di livello» viene fondato il nucleo

del villaggio di Castro Cerro. Fra i quindici contraenti, oltre il

presbitero Domenico, ci sono fabbri, conciatori di pelli,

maestri d’ascia. Essi, con tutti i soci nelle terre assegnate

23 MARTIN 2004, p. 352.

14

dovranno lavorare e raccogliere i frutti, fondarvi un castellum

e abitarlo risiedendovi nelle case insieme alle famiglie e agli

animali domestici. Questi contadini sono muratori, figuli e

falegnami; un gruppo di circa ottanta persone che fonda un

nuovo villaggio. Una volta costruite le mura si potrà pensare

al guadagno da parte del cenobio. Agli inizi, la diffusione di

piccoli centri rurali permise una occupazione del suolo

generalizzata in luoghi sparsi. Nelle aree “longobardizzate”

della Campania, tale tipo di possedimenti, si individua

nell’odierno comune di Olevano sul Tusciano – luoghi

sviluppatisi, forse, per la presenza del santuario di S. Michele

Arcangelo – o può riconoscersi nelle numerose frazioni del

comune di Giffoni Vallepiana, in prossimità della Pianura

pestana. La trasformazione di simili insediamenti non

genererà direttamente, nella maggior parte dei casi, i borghi

fortificati ed arroccati, caratteristici del paesaggio montano

circostante le pianure. Molte parrocchie dei villaggi rurali

spariranno del tutto o perderanno la loro “funzione

civilizzatrice” con la graduale affermazione della struttura

feudale.

Il processo fu comune a tutta la Penisola italiana ed iniziò sul

finire dell’alto medioevo. In Italia meridionale tale evoluzione

sembra rallentata dall’intensa gestione amministrativa degli

abati, che, almeno a partire dal IX-X secolo d.C., per favorire

la messa a coltura delle terre del monastero, insistono

sempre di più nella suddivisione del latifondo24.

24 PEDUTO 2004, p. 398–402.

15

La fondazione ambrosiana sul Rienna, potrebbe avere

un’origine privata, come sostiene la Iannelli basandosi su

alcune considerazioni di carattere archeologico25 e sul

verosimile verificarsi, anche in questo caso, di una

vivace e frequente contesa dei possedimenti terrieri, con

conseguente erezione capillare di edifici di culto come

sistema di controllo e di sfruttamento del territorio da parte

dell’aristocrazia locale e con la continua ridefinizione dei

termini di confine resi necessari per la facilità dei mutamenti

nella distribuzione della proprietà fondiaria, per effetto di

vendita o per successione ereditaria, come documentano più

curtes confinanti o per l’inserimento, con donazioni o lasciti,

di beni ceduti a chiese e monasteri.

A tutela della proprietà, dunque, poteva così intervenire

anche l’atto di fondazione di una chiesa privata, la quale,

oltre a soddisfare un’esigenza religiosa individuale e

garantire la cura animarum ai coloni dipendenti, sanciva il

possesso patrimoniale del relativo territorio e ne definiva i

confini26.

Anche per A. Di Muro la pieve montecorvinese potrebbe

avere un’origine privata27. Le Eigenkirchen, che emergono

come segnacoli di potenza dei gruppi dell’aristocrazia

principesca (quali in ambito urbano le fondazioni del

monastero di San Massimo e della chiesa di Santa Maria de

domno a Salerno), partecipano al più ampio fenomeno di

25 IANNELLI 1993–1994, p. 215-217. 26 Su questa interpretazione si tornerà in maniera più approfondita nel capitolo seguente.

27 DI MURO 2001, p. 57-58.

16

destrutturazione delle originarie circoscrizioni diocesane

diffuso in Italia meridionale nel corso del IX secolo d.C. e

sopperirono all’inadeguatezza della rete plebana nel

territorio.

Nel Concilio romano dell’826 il pontefice Eugenio II, sotto la

spinta dei vescovi longobardi, tentò di dare una collocazione

alle chiese private nel quadro della giurisdizione diocesana.

Il fallimento di questo tentativo è visibile nei documenti

beneventani immediatamente successivi al Concilio, in cui si

coglie il forte contrasto tra l’aristocrazia longobarda e

l’ordinario diocesano relativamente ai temi riguardanti il

possesso delle chiese battesimali, con il prevalere delle

ragioni dei primi.

Dalla documentazione esaminata, il Peduto nota come non vi

sia traccia, fino alla fine del IX secolo, di un’organizzazione

plebana dipendente dall’ordinario diocesano28, quindi la

chiesa di Sant’Ambrogio potrebbe essere una fondazione,

privata o monastica, il cui obbiettivo era sopperire alla

mancanza di una plebe amministrata dalla Diocesi.

28 Con l’eccezione di alcuni edifici ecclesiastici, quali la chiesa di San Fortunato nella foria di Salerno o i piccoli oratori rurali di Sant’Andrea o di Santa Maria dell’Irno sempre nelle immediate vicinanze della città salernitana (DI MURO 2001, p. 58).

17

I.3. Fonti documentarie

La documentazione archivistica rintracciabile, già indagata

da Paolo Peduto, risulta limitata29. Nelle fonti scritte, la prima

attestazione della pieve ambrosiana sul Rienna risale ai

principi del XIV secolo d.C., dove viene citata come

appartenente al comune di Montecorvino Pugliano30.

La datazione dell’architettura dell’edificio e delle pitture

murarie – come verrà approfondito nei capitoli seguenti -

indicano una cronologia anteriore di secoli alle prime

menzioni delle fonti scritte.

Negli anni 1308 – 1310 la chiesa di Sant’Ambrogio è

menzionata due volte nelle Rationes decimarum Italiae31

per ciò che concerne le rendite, mentre un’altra citazione

dell’edificio e dei suoi amministratori si ha nelle Inquisizioni

dello stesso secolo, nel 1338, la chiesa è annoverata fra i

benefici appartenenti ad A. Lombardi32.

Nessuna traccia si ritrova nei documenti quattrocenteschi.

Solo nel XVI secolo la chiesa viene menzionata nuovamente:

nell’Archivio Diocesano di Salerno sono presenti due petizioni

all’Arcivescovo, rispettivamente del 1517 e del 1518, per

poter fare degli acquisti relativi alla «venerande ecc.e Santj

ambrosi de casali Ociany33». Nel corso del Cinquecento la

29 L’autore fa riferimento alle seguenti fonti archivistiche e documentarie: il Codex Diplomaticus Cavensis, il Codice Diplomatico Salernitano, il Catalogus Baronum, i volumi di A. Di Meo, Annali critico – diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, 1795 – 1819, ai Registri della Cancelleria Angioina, alle Fonti Aragonesi, e agli Archivisti Napoletani. In tutte queste fonti, consultate dal Peduto, non c’è traccia delle attestazioni della chiesa di Sant’Ambrogio. (PEDUTO 1990, pp. 11-14.) 30 CRISCI - CAMPAGNA 1982, p. 289-290. 31 INGUANEZ – MATTEI CERASOLI – SELLA 1942, pp. 399 – 449. 32 ADS, coll. S. 46. 33 ADS, coll. U 4.

18

chiesa possedeva ancora dei beni fondiari34; in un inventario

del 1580 relativo alla proprietà stabili e mobili, la sua

dedicazione è associata a quella di S. Maria dello stesso

casale di Occiano.

Quest’ultimo edificio, già attestato nella documentazione del

XIV secolo35, viene indicato come chiesa parrocchiale di S.

Maria Assunta nella Santa Visita del 168336.

È significativo che, a quell’epoca, si siano perse

completamente le tracce della pieve ambrosiana.

P. Peduto sostiene che nel corso del Cinquecento

l’importanza della chiesa in esame sia cominciata a declinare

a favore dell’altro edificio ecclesiastico citato (sito nella

stessa località di Occiano), che gradualmente avrebbe

“assorbito” i fedeli ed i beni del complesso ambrosiano sul

fiume Rienna.

Per tutto il Seicento non c’è traccia della chiesa di

Sant’Ambrogio, mentre puntuale è la presenza di Santa

Maria Assunta37. Al 1704 risale la successiva attestazione

della chiesa ambrosiana: in un inventario di quell’anno dal

parroco Camillo Aiutolo della chiesa di S. Maria Assunta di

Occiano è detto «(…) che sia fundata la suddetta Parrocchia,

et eretta circa l’anno 1580, ò per dir meglio trasferita la cura

dell’anime in detta chiesa della cappella sotto il titulo di S.

Ambrosio vicino il corso dell’acqua della Rienda, e questa

34 ADS, coll. R 88. 35 CRISCI – CAMPAGNA 1982, p. 284. 36 ADS, coll. R 88. Bisogna precisare come la denominazione di chiesa parrocchiale sia già attestata in un documento del 1538 (ADS, coll. U 56.). 37 ADS, R 88 e ibidem (R 89, U 62, U 64, U 66, U 44, U 49, U 13, U 55).

19

notizia l’ho avuta da alcune personi per traditione da loro

antenati, et anchora da alchune vicente antiche fatte dal fù

Rev. D. Camillo Aiutalo ultimo curato di detta chiesa di S.

Ambrosio et primo curato di detta hodierna Parrocchia di d.

Casale»38.

Questa notizia si ritrova in altre carte del 1723 - 172439 e del

175940. Sono le uniche in cui Sant’Ambrogio trovi ancora

menzione, dato che nei numerosi documenti settecenteschi,

inerenti la zona esaminata, non si ha memoria della pieve.

Nel secolo successivo, infine, Sant’Ambrogio viene indicato

come contrada o fondo della parrocchiale di S. Maria

Assunta41.

Dall’analisi delle fonti archivistiche, il Peduto giunge alle

seguenti conclusioni: la chiesa di Sant’Ambrogio di

Montecorvino Rovella è menzionata, a partire dal XIV sec.

indifferentemente come chiesa o cappella, e sul finire del

Cinquecento, probabilmente per scarsità di fedeli e di clero,

la giurisdizione ecclesiastica dell’edificio e dei suoi

parrocchiani viene trasferita nella chiesa dell’Assunta della

medesima contrada di Occiano. Da quel momento in poi su

Sant’Ambrogio le fonti tacciono. Negli elenchi di edifici di

culto acclusi alle Visite Pastorali manca qualsiasi riferimento.

La chiesa è certamente anteriore alla prima attestazione

documentaria, come del resto è possibile cogliere

nell’aggettivo “venerande” con cui essa è qualificata nel

38 ADS, R 89. 39 Ibidem. 40 ADS., coll. R 78. 41 ADS., coll. R 78 e ADS., coll., U 8.

20

1518, un indizio sulla sua antichità “percepita”.

Nel corso dell’Ottocento l’edificio, che pure non viene mai

sconsacrato, cadde in rovina, riducendosi allo stato di rudere

nel quale verserà fino all’intervento di recupero e di restauro

del 199242.

I.4. Toponomastica e agiotoponomastica

I.4. a. Principi di metodo43

L'importanza della toponomastica consiste nelle informazioni

di carattere storico che essa può confermare, soprattutto nei

territori dove è carente il patrimonio documentario o

bibliografico. Non meno utile, per quanto frequente, invece,

ne è l'utilizzo per delineare con maggior chiarezza le

caratteristiche fisiche dell'ambiente e del paesaggio, o per

comprendere le strategie insediative umane.

Non da ultimo, è importante il suo carattere informativo

indiretto e non invasivo nelle situazioni in cui altre

metodologie di ricerca o la strumentazione tecnologica non

sono utilizzabili.

A volte, la ricerca sui nomi dei luoghi è l'unico strumento per

localizzare nei territori le attività commerciali e produttive le

cui tracce e strutture non sono più individuabili o addirittura

sconosciute.

Talvolta, essa costituisce l'unica impronta topografica di siti

archeologici, scomparsi non solo dalla cartografia ma perfino

42 Circa l’intervento di restauro, cfr. infra, cap. II. 43 Per la stesura di questa sezione ci si è avvalsi principalmente di CLEMENTE 2012.

21

dalla memoria collettiva. Per questo la toponomastica è

diventata nel tempo una guida per le ricerche di superficie,

soprattutto quando non è possibile fare delle ricognizioni

estensive o quando vaste porzioni di territorio sono

impraticabili a causa della natura del terreno o per la

presenza di fitta vegetazione.

Per tutte queste ragioni, le ricerche toponomastiche condotte

con metodo e largo confronto storico-archivistico possono

apportare validi contributi ed integrazioni alle indagini

topografiche e archeologiche, aumentandone il potenziale

informativo.

Complesso e scarsamente utilizzato in ambito archeologico è

un approccio di tipo geografico e topografico che posizioni i

vari toponimi, divisi per periodi o per classi, nella cartografia

e ne raffiguri la distribuzione sul territorio. Tramite questo

criterio è possibile stabilire una distribuzione geografica dei

fenomeni toponomastici macroscopici e visualizzare le

relazioni storico-culturali a prima vista non individuabili.

Questo permette, inoltre, di analizzare la toponomastica

anche sotto l'aspetto statistico e consente di comprenderne

meglio le basi storiche superando l'aspetto puramente

linguistico, tanto da poterne dare un inquadramento

organizzativo e gerarchico.

La toponomastica può inoltre aiutare la ricerca facilitando

anche la localizzazione dei toponimi attestati dalle diverse

fonti in modo sbagliato o a seguito di traduzioni errate.

Mediante un'attenta analisi fonetica si può arrivare a stabilire

22

se un nome antico possa avere avuto una continuità di

utilizzo, o se sia stato sostituito nel tempo o definitivamente

abbandonato. A volte gli studi fonetici, però, non riescono a

fornire dei riscontri sufficienti per le particolari condizioni

storiche e topografiche del territorio anche perché

determinati toponimi possono aver assunto molteplici

connotazioni o essersi semplicemente spostati. Il fenomeno

della traslazione è molto comune perché è collegato alla

memoria collettiva delle popolazioni e ai meccanismi di

trasmissione delle parole e del linguaggio e così anche

all'identificazione dei luoghi.

Lo studio sulla fonetica fornisce, infine, importanti indicazioni

etnico-linguistiche: dalla lingua nella quale è formulato un

toponimo si può risalire alla presenza e alla provenienza delle

popolazioni che lo hanno utilizzato. Se si indaga sulla

distribuzione di fenomeno linguistico dal punto di vista

geografico si possono scoprire gli areali di diffusione di una

comunità. Ogni territorio, infatti, possiede una stratificazione

linguistica che riflette la storia delle popolazioni che si sono

succedute.

Al di là dell'inquadramento di natura linguistica, possono

essere realizzate svariate classificazioni a seconda del tipo di

informazione 'semantica' che può essere ricavata dallo studio

dei singoli toponimi. Generalmente si possono distinguere i

toponimi definiti ambientali o di paesaggio perché utili allo

studio dell'ambiente geografico. A seconda dell'aspetto

fisico-geografico che descrivono, essi si dividono a loro volta

23

in idronimi (segnalano cioè la presenza dei fiumi, corsi

d'acqua, foci, lagune ecc.), oronimi (indicano la presenza di

monti, colli, passi e di altre strutture geologiche), fitonimi

(evidenziano la presenza di boschi, alberi, piante e ogni altra

forma del mondo vegetale). Essi sono spesso anche i

toponimi più antichi, in quanto indicano luoghi geografici

sempre visibili nel territorio e che conservano più a lungo il

loro nome, sia per la sacralità che ad essi veniva conferita in

età antica, sia perché subiscono minori processi di

sostituzione, come avviene nel caso delle città (i poleonimi)

e gli altri tipi di insediamento.

Un altro gruppo importante dal punto di vista storico-

archeologico è quello dei toponimi confinari, che servono ad

indicare i confini o i limiti tra diverse entità statali politiche

ed amministrative, ma anche tra diverse strutture

organizzative di tipo agricolo e pastorale, soprattutto, se di

grande estensione. A questi ultimi, per ovvie ragioni, si

associano i toponimi rurali, che alludono a produzioni

agricole anche scomparse e, come nel caso di alcuni fitonimi,

possono rivelare anche diversi aspetti dell'ambiente naturale

e dell'economia che su di essa si basa; essi, talora, possono

indicare l'estensione dei fondi e delle tenute agricole e

possono definire il tipo di proprietà, come nel caso dei

prediali romani. Questi ultimi, infatti, costituiscono un

gruppo di toponimi a sé stante e sono indicatori fondamentali

della presenza dell'insediamento e dell'intensità dello

sfruttamento agricolo nell’antichità. Le proprietà fondiarie

24

romane o tardo-antiche sono spesso segnalate da toponimi

con suffissi — anum il più diffuso o anche — acum, — icum,

— ate ecc. La differenziazione di tali suffissi deriva dalla

distinzione tra le diverse tipologie di strutture di proprietà

(praedium, fundus, vicus, ecc.). E meno frequente, invece,

che la terminologia agrimensoria lasci tracce nella

toponomastica dei luoghi.

Un altro gruppo molto importante è quello dei toponimi viari.

A questa categoria appartengono i toponimi che indicano una

strada o una via di comunicazione sia in modo generico che

in modo specifico. In quest’ultimo caso si ha un riferimento

all’andamento della strada, al tipo di pavimentazione, o alla

presenza di passaggi obbligati, come valichi, stretti, guadi, o

di infrastrutture come viadotti, tunnel e ponti. In altri casi

ancora, la toponomastica indica le distanze, facendo

riferimento come i miliari che individuano la presenza di

incroci, stazioni di sosta e infrastrutture legate al viaggio.

Infine, un ultimo gruppo è formato dai toponimi economici

che identificano i luoghi in cui venivano praticate le attività

economiche più importanti del territorio. I siti indicati sono

essenzialmente di due categorie, quelli legati ad attività di

tipo commerciale o di scambio e quelli collegati a ad attività

produttive, prevalentemente di tipo artigianale o agricolo.

Una branca specifica degli studi linguistici legati ai luoghi è

l’agiotoponomastica, che fornisce un contributo sostanziale

alla ricerca toponomastica: gli eventi religiosi possiedono un

aspetto geografico visibile che si esprime attraverso la

25

toponomastica sacra. Questo riguarda non solo gli

insediamenti che prendono il nome dalla presenza di un

qualsiasi tipo di edificio religioso, ma anche tutti quei

fenomeni geografici che hanno una denominazione derivata

da un Santo o da altre espressioni di carattere religioso.

Dal punto di vista puramente linguistico i toponimi religiosi

si possono dividere in due gruppi, ovvero, quelli derivati da

toponimi pagani e quelli di origine cristiana. Questi ultimi a

loro volta si disgiungono in nomi comuni derivati da luoghi

religiosi (monastero, basilica, oratorio ecc.) e in toponimi

derivati da nomi di Santi. Nel primo caso, talvolta, i toponimi

più antichi di età paleocristiana o altomedievale prendono il

nome da un riferimento topografico che costituiva un

elemento dominante del paesaggio, urbano e non, che poi è

stato obliterato. Tutti i toponimi preceduti dal titolo 'Santo o

Santi' - i più numerosi - spesso hanno sostituito quelli di

origine più antica. Non tutti hanno mantenuto la forma

linguistica assunta con la consacrazione del luogo di culto:

talvolta hanno subito trasformazioni fonetiche, riprendendo

forme dialettali, poi fissate nella toponomastica.

Il passaggio dalla lingua latina a quella volgare ha causato

diverse modalità di trasmissione dei toponimi. Alcuni nomi

hanno subito alterazioni profonde e si discostano molto dalle

forme primitive (es. S. Ciriaca/S. Domenica, S. Eligio/S.

Aloi). Talvolta al nome del Santo è stato aggiunto un suffisso

che si è fuso con il nome in volgare; altre volte, invece, il

titolo di santità si è saldato nella pronuncia al nome del Santo

ed è stato poi alterato al momento della scrittura (es. S.

26

Niceto/Sant'Aniceto). Ancora più spesso il titolo si è legato

ad un nome proprio tanto da formare un nome composto

irriconoscibile. In altri casi, infine, è stato attribuito a nomi

latini, non religiosi, in modo totalmente erroneo.

La toponomastica sacra oltre ad unire l'aspetto geografico e

religioso attribuisce al nome del luogo altri significati storici,

politici, economici, archeologici e agiografici in quanto il

susseguirsi degli avvenimenti si è stratificato in toponimi chi

si sono sostituiti ai precedenti. In altri casi il toponimo

religioso è espressione della devozione di un territorio ad un

particolare Santo che direttamente o indirettamente è

entrato in contatto con esso.

In generale, quando un fenomeno toponomastico si ripete in

ambiente geografico, vuol dire che l'elemento storico che lo

ha generato si è diffuso per ragioni culturali che riguardano

la specifica religiosità di una popolazione.

Trattandosi di fenomeni culturali difficili da classificare, la

frequenza e la diffusione dei toponimi è in rapporto diretto

con il tipo di culto. Se la devozione di cui un Santo gode in

un determinato periodo, è un fenomeno limitato nel tempo,

il suo nome potrà essere fissato ad un luogo oppure no, in

base a circostanze più o meno favorevoli che possono essere

del tutto arbitrarie e legate a concause di natura sociale,

economica e politica.

Le basi geografiche della diffusione di un toponimo religioso

dipendono dall'azione di diverse correnti spirituali, talvolta

dovute all'azione di un singolo che poi le diffondeva a livello

27

popolare. È per questo che determinati culti e toponimi sono

diversamente diffusi e interessano zone più o meno estese.

Essendo il fenomeno legato al concetto di santità, è la

percezione popolare ad influenzare l'importanza

dell'agiotoponimo e a far sì che si manifesti in maniera

diseguale sul territorio e pertanto ogni regione, avendo una

sua specifica sfumatura religiosa, ha quindi una

toponomastica sacra individuale.

È possibile che alcuni toponimi sacri siano soggetti a

migrazioni, o che nomi diffusi in un territorio subiscano una

certa 'gemmazione' verso un'altra regione geografica.

A favorire o ad ostacolare questi fenomeni sono soprattutto

le condizioni ambientali e geografiche, quali la presenza di

vie di comunicazione che determinano anche il diffondersi

dell'uso dei toponimi.

A determinare la nascita e la localizzazione di un toponimo è

soprattutto, nei centri abitati o urbanizzati, il luogo di culto

perché la vita fino all'età contemporanea ha avuto una

connotazione prevalentemente religiosa e la religione ha

svolto per questo un ruolo ‘politico’. Nelle campagne invece

prevale un aspetto diverso in quanto le popolazioni,

mancando di grandi poli a funzionalità aggregativa, sentono

maggiormente il bisogno di invocare una protezione

sovrannaturale attraverso un toponimo, che non si identifica

più con un singolo luogo ma con un'intera area geografica.

In ambito rurale, molto spesso, la propagazione del

fenomeno è legata ad aspetti della religiosità quotidiana che

28

si manifestano sempre attraverso l'uso dei patronati.

Quest'ultimi, a prescindere dal momento di diffusione del

culto, generano toponimi religiosi che si fissano in aree

specifiche. L'importanza di questi toponimi sta soprattutto

nella loro cronologia di diffusione, che può spiegare la

strutturazione dell'organizzazione ecclesiastica ma anche la

scansione cronologica della distribuzione dell'insediamento

nel territorio. A volte gli agionimi sono espressione di un

patronato e diventano una testimonianza indiretta delle

attività produttive diffuse nel territorio.

È opportuno considerare che spesso i patronati sono

polivalenti e lo stesso mestiere può essere affidato alla

protezione di diversi Santi, variando da zona a zona. Le

attività per così dire 'protette' sono prevalentemente

artigianali o comunque di tipo manuale. Questo rapporto tra

attività produttive e Santi protettori è molto importante se

visto nella prospettiva dell'analisi toponomastica e

topografica, perché se si incrociano questi dati con quelli

storici e archeologici si possono individuare con buona

approssimazione i siti in cui venivano svolte le attività

economiche principali44.

44 CLEMENTE 2012, pp. 28–31.

29

I.4. b. Il contesto territoriale del Sant’Ambrogio

Nel contesto territoriale esaminato, una serie di ricerche

condotte per lo più da studiosi e appassionati locali ha

portato all’individuazione di alcuni toponimi che attestano la

presenza longobarda45.

Nei territori montuosi ricadenti nei comuni di Giffoni

Vallepiana e di Montecorvino Rovella sono presenti Faragna,

Farinola e Farmano, che richiamano il più antico Fara46.

Il termine Fara, nella prima fase della conquista longobarda,

ebbe il significato di corpo di spedizione, composto da gruppi

di guerrieri a carattere gentilizio. Solo più tardi, quando gli

scopi militari dell’espansione incominciarono a venir meno, il

termine indicò un nucleo abitato o una unità di insediamento

con il preciso compito di stabilizzare i territori conquistati e

finalizzato al diretto possesso delle terre47. Inoltre, i toponimi

delle Sale di Gauro e di San Martino, il toponimo Dominico48

e il prospicente Vinea Dominica49 di Occiano, attestano, nel

VII e VIII secolo, la presenza di signori longobardi proprietari

di case, terreni agricoli e boschi.

45 Si ringrazia i Signori A. D’Arminio, L. Scarpiello, R. Vassallo, dell’Archeoclub “Roberto Sguazzo” di Montecorvino Rovella per aver fornito materiale documentario illustrativo per questa sezione del lavoro, nonché per le proficue conversazioni. 46 SCARPIELLO– VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, p. 13. 47 SABATINI 1963-1964, pp. 146 – 147. 48 Toponimo attestato nelle fonti documentarie anche come Donnico o Dominicus (in SCARPIELLO – VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, pp. 13 – 14). 49 Toponimo attestato nelle fonti documentarie anche come Vineadonica o Vignadonica (in SCARPIELLO – VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, pp. 13 – 14).

30

Da questi nuclei si diffuse la ‘longobardizzazione’ in direzione

di Montecorvino Pugliano, Aiello e San Vito, con l’acquisizione

di terreni e la costruzione di nuove Sale: Costa della Corte

Grande, Sala Betere e Casa Orsana50(fig. 7).

Il toponimo Sala indica la casa per la residenza padronale

nella Curtis o anche il centro per la raccolta delle derrate

dovute al signore. Potrebbe essere un elemento tipico di ogni

distretto o unità poderale dipendente da un nucleo

longobardo51.

Inoltre, per quanto riguarda l’agiotoponomastica, gli autori

di Toponomastica storica montecorvinese, Lazzaro

Scarpiello, Roberto Vassallo, Alfredo D’Arminio e Cosimo

Vasso collegano la cella/chiesa di San Vincenzo al cenobio

benedettino volturnense, di cui era una dipendenza attestata

dalle fonti documentarie, mentre non approfondiscono le

possibili motivazioni dell’intitolazione al Santo patrono

milanese della chiesa presso il fiume Rienna52 (fig. 8-9).

Circa la presenza dell’agiotoponimo ambrosiano e

dell’associazione con gli altri principali santi milanesi,

attestata dai personaggi ritratti nelle pitture murarie

dell’interne, una convincente chiave di lettura è stata

proposta più di recente da Francesca Dell’Acqua, la quale

conferma i legami cultuali e patrimoniali con l’Abbazia di San

Vincenzo al Volturno, evidenziando il ruolo che avrebbe

avuto l’abate Ambrogio Autperto nella scelta dei Santi che

50 D’ARMINIO – SCARPIELLO – VASSALLO - VASSO 2005-2006, p. 103. 51 SCARPIELLO – VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, p. 13. 52 SCARPIELLO – VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, p. 48.

31

fanno da corona alla Vergine Theotokos53. Entrambe gli

edifici sarebbero stati fondati da un nobile salernitano legato

alla dinastia principesca della città, nonché un benefattore

della comunità religiosa locale.

Secondo la posizione degli autori, la chiesa di Sant’Ambrogio

sarebbe stata costruita per uso privato, con annesso

beneficio e diritto di sepoltura. L’edificio era posto in una

curtis (?) (fig. 10), e nel XI secolo era utilizzato come luogo

di culto con annessa zona cimiteriale. La chiesa e la curtis

erano siti nei pressi del prediale Correiano, dunque un luogo

di antica presenza romana, mentre dal punto di vista

amministrativo facevano parte del Comitato Giffonese54.

II. Le strutture architettoniche ed evidenze

archeologiche

II.1. Le strutture attuali

I lavori di restauro del 1992 hanno interessato la quasi

totalità dell’edificio che versava in stato di grave abbandono,

ricostruendolo integralmente con un lavoro filologicamente

corretto. (fig. 11-13)

L’edificio a pianta rettangolare di 12.25 metri di lunghezza e

di 6.75 metri di larghezza55, è concluso ad Est da una

profonda abside semicircolare estradossata (fig. 14).

53 DELL’ACQUA cds, per un approfondimento di queste considerazioni, cfr. infra. Cap. III. 54 SCARPIELLO – VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001, p. 48. 55 PEDUTO 1990, p. 7.

32

La chiesa presenta due ingressi: uno laterale, sul lato

meridionale in corrispondenza con l’area presbiteriale, e

l’altro sulla fronte principale, costruito a doppio arco e

accessibile attraverso l’atrio (fig. 15-16).

L’atrio, non restaurato ed attualmente in precarie condizioni

di conservazione, presenta un’articolazione architettonica

complessa a testimonianza delle modifiche strutturali e

funzionali che hanno investito quest’area del complesso

ecclesiastico nel corso dei secoli (fig. 17).

L’area cimiteriale della pieve si colloca principalmente in

questa zona, in corrispondenza della facciata, nella quale

insistono una dozzina di inumazioni. All’interno dell’aula di

culto è presente un’unica tomba, tagliata nel terreno vergine.

Da segnalare, per posizione e tipologia, alcune sepolture

esterne al corpo principale del complesso: una addossata alla

risega dell’abside, caratterizzata da una particolare struttura

in blocchetti litici (fig. 18); un’altra posizionata sul lato

settentrionale della chiesa (fig. 19) e altre tre inumazioni, a

fossa semplice, collocate ad Ovest dell’atrio, nelle sue

immediate vicinanze56, sepolture sub impluvio57.

Su ciascuna delle pareti lunghe, all’altezza di poco più di tre

metri, si aprono tre monofore ad arco a tutto sesto prive di

strombature58 (fig. 20).

56 IANNELLI M.A. 1993 – 1994, p. 200 – 205. 57 Cfr. HERKLOTZ 2001, p. 62. 58 PEDUTO 1990, p. 8.

33

All’interno dell’aula di culto, nella parete absidale, a destra e

a sinistra del catino, ci sono due grandi nicchie emisferiche

intradossate, edificate contestualmente all’erezione

dell’edificio a circa 70 cm dal piano di calpestio originario59

(fig. 21). Il gradino del podio absidale è a filo con l’accesso

laterale e con il recinto presbiteriale. Quest’ultimo elemento

murario, lungo poco più di un metro, è costruito in blocchetti

di pietra di Faiano e si addossa al muro perimetrale

settentrionale, aderendo perfettamente al pavimento in

malta.

Il breve tratto murario termina con una sagomatura per

l’alloggiamento di una balaustra presbiteriale60.

Lungo il muro meridionale e settentrionale della navata

affiorano due subsellia in muratura61 (fig. 22-23).

Per quanto concerne la zona absidale, resti della platea di

fondazione sono da individuare in uno strato di ciottoli

stondati di grossa pezzatura, non lavorati, simili a quelli

impiegati per l’alzato della chiesa, legati da abbondante

malta62.

Al centro dell’abside si trova una piccola monofora a

strombatura semplice. Costruita con l’asse verticale

leggermente decentrato rispetto all’asse Est-Ovest dell’aula,

59 DI MURO 2001, p. 99. 60 IANNELLI 1993 – 1994, p. 190. 61 Tale è l’interpretazione che me dà il Peduto (PEDUTO 1990, p. 8.), a differenza di quanto sostiene M. A. Iannelli che li ritiene banconi in muratura utilizzati forse per l’appoggio delle botti, utilizzati nella fase di trasformazione della chiesa in deposito agricolo. (IANNELLI 1993-1994 p. 201-202) Se si considera la grande circonferenza delle botti usate fin dall'antichità per la conservazione, la maturazione, l'invecchiamento ed il trasporto di liquidi pregiati, come il vino o per altri alimenti come grano e prodotti cerealicoli, l’esigua ampiezza dei sedili, inadatti ad ospitare delle botti o altri recipienti per uso agricolo, lascia propendere verso l’interpretazione data dal Peduto. 62 IANNELLI 1993 – 1994, p. 190.

34

secondo il Peduto tale accorgimento fu attuato per consentire

ai raggi del sole sorgente di colpire, probabilmente,

un’immagine, un segno posto sulla parete prospicente,

durante le preghiere mattutine63.

Secondo la testimonianza di Francesca Dell’Acqua64, intorno

al 21 giugno, il raggio del sole sorgente attraversa la

monofora e colpisce una parte precisa del presbiterio, dove

si può ipotizzare la presenza dell’altare originario con le

relative reliquie. Non pare casuale che la festività di Gervasio

e Protasio, i santi ritratti nel catino, sia il 19 giugno, giorno

in cui le loro spoglie, nell’anno 386 d.C., vennero deposte dal

vescovo Ambrogio sotto l’altare principale della Basilica

Martyrum a Milano. Pertanto la festa dei protomartiri

milanesi non è distante dalla Natività del Battista, il 24

giugno, data prossima al solstizio d’estate.

La chiesa, dunque, potrebbe avere un orientamento ben

preciso, sottoposto a specifiche esigenze di culto.

L’attuale copertura è a capriate lignee. Peduto sostiene che

quella originaria - andata distrutta durante la fase di

abbandono dell’edificio - era costituita da travi lignee

adagiate e sistemate probabilmente su quella assiale

principale, considerando la non eccesiva ampiezza dell’aula.

A riprova di questa interpretazione, lo studioso nota, in alto,

al di sopra dell’arco trionfale dell’abside, l’impronta

63 PEDUTO 1990, p. 7-8. 64 F. DELL’ACQUA cds.

35

dell’incasso orizzontale della trave lignea di colmo,

terminante a sezione quadrata65.

Nei paramenti murari v’è l’uso prevalente dei ciottoli raccolti

lungo il fiume; la ricercata omogeneità della pezzatura dei

ciottoli ha consentito di produrre una tessitura compatta e a

ricorsi regolari. Nei tratti dove fu necessario predisporre

nervature, che disegnassero nitidamente gli spigoli vivi e le

variazioni delle direzioni delle superfici murarie, vennero

impiegati conci sagomati di tufo, di travertino e di laterizi

spesso fra loro alternati.

Anche se tale tecnica produce un forte ritmo policromo

dovuto all’attuale scarnificazione della fabbrica, è certo,

sostiene Peduto, che l’interno della chiesa fosse interamente

intonacato ed affrescato66.

L’edificio, nel suo complesso, doveva costituire sia un

caposaldo architettonico della campagna circostante sia un

punto di riferimento visivo per la popolazione locale:

la posizione che occupa, su di un piccolo pianoro, le

garantisce l’immediata individuazione.

65 PEDUTO 1990, p. 8. Non è da escludere che anche l’esterno fosse intonacato a scopo protettivo. 66 PEDUTO 1990, p. 9.

36

II.3 Lo scavo67

Parte integrante del progetto per il restauro, della chiesa

di Sant’Ambrogio, predisposto a cura della Soprintendenza

ai B.A.A.A.S. di Salerno, è stata una campagna di scavo

condotta dalla Soprintendenza Archeologica di Salerno.

L’indagine, finalizzata alla definizione delle fasi costruttive

e delle relative articolazioni strutturali, ha consentito

altresì l’acquisizione di una serie di reperti materiali, che

contribuiscono a definire la cronologia d’uso del sito e a

suggerire un inquadramento socio-culturale dei suoi

frequentatori.

Dalla sezione dello sbancamento, effettuato quando ancora

si ignorava la consistenza archeologica del sito, è stata

individuata con chiarezza una triplice stratificazione di

inumati in fosse terragne. Il versante settentrionale,

soggetto a straripamenti per la vicinanza del corso

d’acqua, e che pertanto non era evidentemente ritenuto

idoneo all’uso sepolcrale, ha restituito un’unica struttura

tombale riferibile all’altomedioevo.

La specificità dell’esplorazione, ha consentito la verifica

dell’inserimento dell’edifico religioso in un complesso più

articolato ed ha portato al recupero dell’atrio - addossato

sul lato Ovest alla facciata - il cui perimetro risultava in

parte sottoposto all’edificio rurale impiantatovi in epoca

moderna, ed in parte inglobato nell’ispessimento operato

67 Per la stesura di questo capitolo ci si è basati sui dati di scavo editi in IANNELLI 1993-1994.

37

sulla muratura per far combaciare il perimetrale

dell’erigenda casa colonica con i precedenti setti murari.

II.3.1. L’edificio di culto

L’indagine dell’aula di culto ha permesso di precisare alcuni

elementi della distribuzione interna, di localizzare la

facciata della chiesa, dimensionandone l’ingresso e l’invaso

complessivo e l’individuazione degli antichi livelli

pavimentali. Stratigraficamente è stato individuato un

deposito di terreno (US 18) identificato con l’humus antico,

formatosi direttamente sul terreno vergine, in naturale

pendenza verso nord-ovest, costituito da spuntoni

irregolari di roccia, livellati da terreno frammisto ad

abbondante brecciame (US 19).

Da questi livelli parte l’impianto della chiesa. Gli strati

interni hanno subito effetti di disturbo, indotti dalla

presenza di grosse querce e da interventi clandestini. Gran

parte delle tombe sono risultate violate. Non è stata

accertata una preesistenza insediativa. Dal riempimento

della tomba T. 19. e della malta del muro US 27 sono stati

raccolti due frammenti di ceramica ad impasto e dalla US

21 un bordo di dolio. Sono dati non sufficientemente

indicativi di una diretta frequentazione premedievale del

sito68.

68 IANNELLI 1993-1994, pp. 187-188.

38

Le vicende edilizie – all’interno di una periodizzazione

articolata in età medievale ed in età moderna – sono state

assegnate a quattro fasi (fig. 24-25)

La prima, seconda e terza fase si riferiscono al periodo

medievale dell’edificio. Alla fase d’impianto della chiesa

(scorcio del IX secolo) sono riferibili i ruderi dell’aula di

culto, nonché le fondazioni del primo impianto con i relativi

corsi in muratura (US 37a, US 26, US 80) ed il buco di palo

(US 71) incassato in un base litica nell’angolo sud-est del

muro US 26. Tra la costruzione della chiesa e l’edificazione

dell’atrio passò un lasso di tempo non determinabile.

Si tratta di una struttura di forma quadrangolare addossata

allo spigolo nord-ovest della chiesa, che presenta due lati

chiusi, mentre il terzo, sul versante meridionale, ha due

luci di differente apertura, scandite, forse, da archi voltati

su un pilastro (US 37a), decentrato verso la fabbrica della

chiesa e sull’aggetto angolare del muro US 26, rinforzato

dal palo ligneo. Gli interventi strutturali successivi non

hanno consentito di accertare l’eventuale presenta di una

scansione interna, anche lignea, che ricalcasse la

posteriore divisione in navate assunta dall’atrio. In questa

fase quest’ultimo risulterebbe sprovvisto di pavimento.

All’interno furono realizzate almeno quattro strutture

tombali (TT. 2, 7, 15, 1), tagliate nel terreno vergine. La

T.15 è di tipo a cappuccina, mentre le TT. 7 e 2 sono con

copertura a lastroni di laterizio. La T. 1 sembrerebbe più

recente.

39

All’interno della navata, è stato individuato un elemento

murario in fondazione (US 61) eretto nell’area destinata

agli officianti. Si tratta del paramento murario che ospitava

l’alloggiamento della balaustra e che scandiva la

ripartizione dello spazio interno. A 1,30 m dall’US 61,

venne praticata una buca per un palo ligneo (US 86)

contestuale alla messa in opera del battuto in malta di

calpestio. La buca presenta parte del profilo accuratamente

stondato ed è pertanto probabile che il palo infissovi fosse

destinato a sorreggere elementi di arredo, in quanto non

appartiene ad un allineamento, ma rimane isolato (così

come isolato rimarrà il palo messo in opera nella fase

successiva, quando il primo venne sostituito per vetustà)69

Il livello della pavimentazione tende a salire verso l’area

absidale seguendo il naturale andamento del terreno

vergine. Sempre nella navata, all’incirca lungo l’asse

mediano, è stata individuata una sepoltura in fossa

terragna (T. 4), per la quale, andato distrutto il rapporto

stratigrafico all’interno della successione dei vari

pavimenti, non è certa l’attribuzione alla prima fase.

Vanno assegnate ad una seconda fase dell’edificio (prima

metà del XI – XII secolo) significative modifiche strutturali,

che implicano innovazioni nel rapporto tra la chiesa, il

territorio e la referente comunità religiosa.

69 IANNELLI 1993-1994, p. 190.

40

Venne rimpostata l’architettura dell’atrio: le luci aperte sul

versante meridionale vennero tamponate (US 37b) e si

creò un muro continuo addossato alla chiesa, che ingloba,

dimensionandolo allo spessore del nuovo perimetrale, il

pilastro US 37; gli altri due muri, US 80 e US 26, vengono

parzialmente demoliti. L’accesso risulta così in asse con

l’ingresso principale della chiesa. Con questo spostamento

la struttura US 26, costruita nella prima fase, venne

ispessita con una muratura in parte addossata all’US 76 ed

in parte sovrapposta all’US 27. Un tratto di fondazione

divenne la soglia del nuovo ingresso.

I corsi più bassi della demolita US 80 vennero inglobati nel

nuovo alzato US 32, adattato, in lunghezza, al

contemporaneo muro US 27, con l’aggiunta di un cantonale

in pietra di Faiano. Nell’atrio così ricostruito, lo spessore

della facciata risultò sovradimensionato, come se dovesse,

su questo fronte, reggere un sovrastante alzato, il cui

carico sarebbe stato meglio distribuito su un paio di pilastri

(US 22 e US 25) che tripartirono l’atrio.

Risulta comunque difficile sostenere questa ipotesi, poiché

ogni ulteriore sopraelevazione, per quanto parziale,

avrebbe ad interferire con la facciata della chiesa70.

La pavimentazione della chiesa consiste in un battuto di

malta molto friabile e mal conservato, oggetto di restauri,

come attesterebbe un tratto che si differenzia per l’impiego

70 IANNELLI 1993-1994, p. 192-193.

41

di una malta bianca di maggiore consistenza.

In questa fase l’edificio fu oggetto di interventi che non

comporta innovazioni volumetriche: persistette l’uso del

primo muretto presbiteriale, ma mentre nel corso della

utilizzazione precedente, il livello pavimentale era unico,

ora si segnalano bassi dislivelli in corrispondenza sia

dell’arco del catino absidale sia del suo podio. In particolare

il gradino dell’abside risulta marcato da un allineamento di

tegole spezzate. Conseguente è il rifacimento, nell’area

presbiteriale, del pavimento, ricostruito con uno strato di

cocciopesto dallo spessore di circa 9 cm.

La buca per il palo ligneo (US 86) venne obliterata e chiusa

con un blocco di pietra sistemato in verticale; accanto fu

praticata una nuova buca (US 88) poco profonda, che

utilizzava come fondo il piano del vespaio. Il nuovo palo

ebbe un diametro più piccolo del precedente e fu rinforzato

da pietre e spezzoni di laterizio sistemati di taglio.

È probabile che sorreggesse lucerne o lampade, per

garantire, col supporto di ulteriori punti-luce,

l’illuminazione della chiesa, sia di giorno sia di notte.

Nel riempimento interno del buco di palo obliterato (US 87)

si è raccolto un frammento di vetro informe, di colore

paglierino71 (fig. 26).

Nel corso di questa fase avvenne il primo cedimento della

facciata, a seguito del quale si intervenne in fondazione

con due contrafforti (US 16 e US 15), cercando di

71 IANNELLI 1993-1994, p. 194-195.

42

rispettare le preesistenti sepolture; poiché il contrafforte

US 16, però, avrebbe obliterato inevitabilmente la T. 2,

prima di costruirlo si provvide ad aprirla ed a rimuoverne

il contenuto, per riseppellirlo in un luogo idoneo. Nell’atrio,

tra il muro US 32 ed il pilastro US 25, fin sopra la T. 15,

venne scavato un piccolo ossario collettivo (US 82)

verosimilmente destinato alla collocazione degli inumati

disturbati dalle operazioni costruttive in atto.

Questa ristrutturazione venne, con molta probabilità,

accompagnata da un nuovo ciclo pittorico, sovrapposto

direttamente al primo nell’area absidale e, verosimilmente

anche in quella presbiteriale, come lascerebbero supporre

alcuni piccoli lacerti pittorici ancora in situ.

Sebbene la chiesa abbia visto nella terza fase

l’allungamento della navata, il livello tecnico espresso dalle

maestranze e l’impegno finanziario assunto per la

ristrutturazione furono modesti, tanto che la decorazione

della facciata crollata venne sostituita, nella nuova, da

semplice intonaco bianco. La decorazione pittorica più

antica aveva già manifestato punti di cedimento nel corso

della seconda fase:

lo proverebbero i frammenti pittorici con decoro lineare e

con i girali in pittura rossa raccolti dal riempimento

dell’ossario US 82. Nonostante ciò il partito decorativo

originario è abbastanza ben conservato e perfettamente

leggibile.

La sostituzione, quindi, fu dettata non da uno stato di

43

degrado, segnalabile solo sulla facciata, ma da una precisa

esigenza di rinnovamento liturgico.

Dal rapporto stratigrafico tra le tombe ed i contrafforti è

possibile tracciare una loro sequenza relativa. Precedenti

al rafforzamento statico della facciata sono la T. 6 e, forse,

la T. 10. Risultano posteriori, perché si addossano ai

contrafforti utilizzandoli come fiancata della cassa, la T. 8

e la T. 3. Si intensifica l’utilizzazione cimiteriale dell’area

esterna; sul podio absidale si costruirà la T. 5.

Le sepolture terragne, sottoposte alla casa colonica,

vennero completamente sconvolte nel corso della sua

costruzione;

Ne sono rimaste tre, mal conservate (T. 9, T. 12, T. 13).

Di queste, la T. 12 risulta contestuale alla ristrutturazione

dell’atrio, mentre la T. 13 fu forse di poco posteriore.

La terza fase (scorcio del XII – XVI secolo) è relativa

all’ultimo assetto della chiesa al periodo medievale.

L’impianto del primitivo edificio di culto venne

sostanzialmente rivisto, in seguito al crollo definitivo della

facciata che venne ricostruita in posizione avanzata,

occupando circa la metà dell’atrio, a ridosso dei pilastri US

22 e US 25. Presenta tre ingressi ad arco che

sembrerebbero voltati alla stessa quota. Alle nuove

strutture viene data una semplice intonacatura bianca. Con

l’allungamento della navata si costruisce un nuovo recinto

presbiteriale, definito da un divisorio in muratura (US 3 e

US 4), realizzato con tecnica di mediocre livello, che

44

attacca a filo dell’ingresso laterale trasformato, così, in

accesso diretto al presbiterio. Nello spazio ampliato di

quest’ultimo troverà posto un piccolo pulpito (US 7 e US

8). Il pavimento venne rialzato e portato a livello del podio

absidale: si tratta di un suolo allestito con una gettata di

malta molto dura (US 1 e US 2), che fa corpo con il

sottostante letto di posa, costituito da ciottoli di media

pezzatura e da frammenti di laterizio. Un tratto di esso (US

43) è stato individuato sotto la scala moderna (US 36),

nell’area di ampliamento sottratta all’atrio.

Il nartece antistante alla chiesa che corrisponde alla

porzione di atrio non interessata all’ampliamento della

navata, venne pavimentato da un selciato (US 63),

costruito con pietre di media pezzatura, poste di piatto e

non perfettamente combacianti.

Nonostante l’ampliamento dell’edificio di culto, modesta

qualità dell’impegno costruttivo adottato lascia pensare ad

una piena ruralizzazione del contesto di inserimento e

prelude al ruolo sempre più marginale svolto dalla chiesa72.

La quarta fase (post XVI – XIX secolo) si riferisce al periodo

moderno della pieve.

Venuto meno l’uso religioso, si avviò il lento degrado delle

strutture, la cui rioccupazione coincise con un

cambiamento di destinazione d’uso. Una famiglia di

contadini si insediò su questo fondo e costruì la propria

72 IANNELLI 1993-1994, pp. 198-199.

45

casa a ridosso del nartece. La parte di essa più

propriamente legata all’uso abitativo venne edificata ex

novo, mentre la parte di servizio venne ricavata con il riuso

delle strutture preesistenti, chiesa compresa. L’edificio, ad

Ovest dell’allineamento delle arcature US 34, US 33 e US

50, aveva un piano sopraelevato, ricalcando, forse, una

conformazione precedente.

Gli archi di passaggio vennero tamponati. Il pilastro US 22

fu tagliato a livello di un gradino, aggettante dalla

tamponatura US 28, per consentire l’appoggio di un

ballatoio ligneo. Di fronte, ispessendo il pilastro US 25, si

costruì una sorta di vasca, con piano di malta dura (US

54), ed una bassa balaustra ricavata con un monolite di

pietra di Faiano di rimpiego. In un primo tempo il piano

terraneo della zona abitativa e di questa parte di deposito

erano intercomunicanti attraverso il preesistente ingresso

dell’atrio. Successivamente il passaggio venne ostruito e

forse i locali descritti erano raggiungibili dall’interno, per

mezzo di una scala di legno.

Su un unico piano si situano, invece, i locali adibiti a

deposito nella zona ad Ovest dell’allineamento di arcature.

Una volta tamponate le luci degli archi USS 34, 33 e 50, si

aprì a sud un nuovo passaggio, servito da una scala interna

(US 36). Sul lato opposto si costruì una greppia (US 30), il

cui piano di posa utilizzò parte del lastrone di copertura

della sottoposta T. 3. A questa fase la Iannelli assegna la

costruzione dei banconi in muratura (US 5 e US 6), che,

46

insieme alle basi del pulpito, a suo parere fungevano da

piano di appoggi per le botti73.

Questa fu l’ultima utilizzazione del complesso.

Abbandonata la casa colonica, incominciò il processo di

degrado e l’edificio venne presto invaso della vegetazione

spontanea.

II.3.2. Le sepolture

Per quanto concerne le strutture tombali, queste hanno

subito nel tempo notevoli rimaneggiamenti per l’attività

clandestina e per il susseguirsi delle ristrutturazioni.

Anche nel caso di tombe non disturbate (T. 4, T. 6, T. 15)

lo stato di conservazione degli inumati ha egualmente

impedito di definire la posizione assunta dal defunto nel

seppellimento. I pochi frammenti ossei, però, hanno

permesso di risalire al loro orientamento. A tal fine è stata

anche d’aiuto la forma del loculo, nei casi in cui presentava

una delle terminazioni rastremate. Ne tentavo di ottenere

una seriazione, le tombe sono state analizzate in relazione

alla loro sequenza relativa: nella prima fase sono state

tagliate, partendo dal piano dell’humus antico, nel terreno

vergine, ad eccezione della T. 11, che, posizionata nella

fascia settentrionale più vicina al Rienna, ha incontrato

depositi di tipo alluvionale. Impossibile, poi, assumere la

contestualità, già da questa fase, dell’area cimiteriale

73IANNELLI 1993-1994, p. 200. Cfr. supra per diversa interpretazione.

47

esterna alla chiesa e destinata alle sepolture in semplici

fosse terragne. Le tombe assegnabili con certezza alla

prima fase sono tutte in muratura (T. 1, T. 2, T. 7, T. 11,

T. 15).

Tagliata nel terreno vergine è anche la T. 4, del tipo a

fossa, l’unica ad essere ospitata all’interno dell’aula di culto

ed ipoteticamente inserita nella prima fase.

In percentuale si ha che il 32% delle tombe è di tipo a

cassa, l’1% è della tipologia alla cappuccina, il 66% è a

semplice fossa terragna, l’1% è a fossa rivestita di pietre.

Le strutture tombali a cassa più antiche sono le tombe T.

2 e T. 7, con muretti perimetrali in materiale misto, rari

blocchetti di tufo grigio, pietra di Faiano e frammenti di

laterizio. L’abbinamento non risponde a regole fisse, ma

sembra casuale. Nella T. 7, ad esempio, in uno dei due lati

lunghi solo gli ultimi due filari sono in frammenti di

laterizio, mentre nell’altro un filare in pietra si alterna ad

uno in laterizio. In entrambe il piano di deposizione e la

copertura utilizzano tegole. La copertura di tipo piano

incassava le tegole, leggermente sovrapposte, nell’incavo

ritagliato sul bordo della tomba. La cassa era rivestita

d’uno spesso strato di buona malta, lisciata a mo’ di

intonaco.

Nella tomba di bambino (T. 2), il piano di deposizione, in

lieve pendenza, presentava un accenno di cuscino cefalico

in malta. Una copertura piana con mattoni (spessore 6,5

cm) presentava anche la T. 11. L’incavo per l’incastro è

48

ritagliato solo sulle testate formate da tegole inquadrate

da pietre di Faiano. I muretti sono costruiti in filari di

blocchi di pietra della stessa provenienza ed il piano di

deposizione è in tegole. All’interno della tipologia a cassa,

la più recente è la T. 2, che funge da cerniera con le

strutture posteriori. In comune con le tombe della seconda

fase ha l’uso esclusivo di materiale litico locale ed il piano

di deposizione in nuda terra, mentre conserva

l’intonacatura interna con malta lisciata delle strutture più

antiche. La T. 15 è del tipo alla cappuccina, con fondo e

muretti laterali in laterizio intonacati internamente,

caratteristica tecnica, quest’ultima, che si rivela una

costante della fase più antica. Sul colmo del tetto poggiano

coppi frammentari, a sezione lunata, sovrapposti.

Le tegole impiegate sono di due tipi, lavorate con la

medesima argilla di colore rosso, o, per irregolarità di

cottura, con sezione a sandwich di colore rosso-giallastro,

ricca di dimagrante74. Vi è la tegola classica di forma

rastremata sovrapponibile, con bordo piatto (larghezza

massima 36,5 cm; minima 33 cm; spessore 2,5 cm), e la

tegola rettangolare con alette sui lati maggiori e con

manubrio perfettamente ad incastro con la corrispondente

chiave, ritagliata su una seconda tegola della stessa

tipologia.

Tecnicamente va sottolineata la diversità di trattamento e

di lavorazione tra le due tegole della T. 11, in argilla

74 Un tipo di argilla triturata più o meno grossolanamente, con calcite e sabbia.

49

raffinata e ben cotta, e quelle della T. 15, con impasto

molto grossolano e poroso, cotto a bassa temperatura,

caratteristiche tipiche dei mattoni. Le tegole della T. 11,

sono squadrate con tagli netti e raccordano le alette al

piano della tegola con una profonda solcatura.

Per quanto riguarda l’orientamento dei corpi, la posizione

del cranio ad Ovest è per lo più rispettato, con due sole

eccezioni, che possono trovare una motivazione, nel fatto

che la T. 4 è l’unica interna all’aula di culto, mentre la T. 2

era destinata all’inumazione di un bambino.

Nella fase successiva troverà sviluppo il tipo tombale in

muratura, la cui comparsa sul finire della prima fase è

accertata con l’esempio della T. 1. La sua cassa si presenta

poco profonda, e consiste in una perimetrazione del loculo

con due o tre filari di ciottoli legati da malta, tanto che nel

caso della T. 6, per la peculiare forma ovoidale del loculo,

si potrebbe piuttosto parlare di una sepoltura con fossa

rivestita di ciottoli. Le tombe T. 3, T. 8 e T. 10 utilizzano

come perimetrali gli elementi strutturali preesistenti ai

quali si addossano. Nel caso della T. 10 viene utilizzata

come testa la base litica del buco di palo (US 71), che,

probabilmente, svolgeva ancora un ruolo portante.

La copertura – la quale doveva essere visibile, come

lascerebbero pensare i perimetrali della tomba a filo del

battuto di calpestio – era forse in lastre di pietra, come

nell’esempio della T. 375. Il rinvenimento, nel riempimento

75 IANNELLI 1993-1994, p. 203.

50

interno di T.3 di un frammento di laterizio con

sovrimpressa una serie di lettere, non perfettamente

leggibili, ha fatto ipotizzare una copertura originaria in

laterizio con iscrizione onomastica76.

Strutture tombali esterne all’aula sono costruite a ridosso

del perimetro: la T. 5 è una sorta di ‘sarcofago litico’

addossato alla risega dell’abside. Anche la T. 12,

fortemente disturbata dagli interventi di età moderna, era

forse in origine una tomba a cassa. Addossata al muro US

27, la tomba presenta un unico perimetrale, predisposto

nel corso della messa in opera di suddetto muro, come se

quel punto avesse ricevuto una sua precisa assegnazione

già in fase di progetto. L’orientamento del defunto è

sempre sull’asse est-ovest con il cranio rivolto ad Ovest,

ad eccezione degli inumati esterni e delle sepolture a fossa

semplice. La T. 9 è orientata con il cranio ad Est. La T. 13

ha un orientamento sull’asse nord-sud con il cranio rivolto

a sud, condizionato, come nella T. 12, dal perimetrale della

chiesa. Quest’ultima durante la sua ultima fase di luogo

officiato, non accolse più sepolture all’interno, il che

sembrerebbe avvalorare lo sviluppo, con successivi

livellamenti, dell’area cimiteriale esterna con semplici fosse

terragne, alcune delle quali orientate con il cranio ad Est.

Le sepolture non hanno restituito corredi, neppure sotto

forma di oggetti personali; il dato, però, è inficiato

dall’essere la gran parte delle tombe violate.

76 IANNELLI 1993-1994, p. 204. Interpretazione che andrebbe tuttavia meglio verificata.

51

Alla frequentazione della chiesa si riferiscono con certezza

alcuni frammenti ceramici, smarriti sul più antico livello

d’uso, ed oggetti dell’arredo di culto, in particolare lucerne

di vetro.

Un livello di riporto (US 21) interno all’atrio ha restituito

anche frammenti di pentole da fuoco, di bacini, boccaletti,

brocche ed anforacei. In questo caso potrebbe trattarsi

tanto di indicatori dell’attività insediativa, contestuale alla

frequentazione della chiesa, quanto di una provenienza più

vasta ed eterogena e tornare utili, dunque, ai soli fini

cronologici (fig. 27).

Dalle USS 17, 21, 69 (riempimento della T. 10), US 77, US

83 (riempimento dell’ossario US 82) e dall’ US 87

(riempimento della buca di palo US 86) sono stati raccolti

quindici frammenti di vetro. Di questi, dodici sono

classificabili come lampade a sospensione, ed uno come

lucerna a piattino. Le lampade sospese, in vetro incolore,

presentano una piccola ansa semicircolare che fa corpo con

una pasticca applicata alla base dell’innesto inferiore.

L’innesto superiore è uncinato o ripiegato all’esterno.

Il fondo era rientrante. La tipologia sembra collocarsi nella

linea evolutiva delle lampade tardo antiche ed

altomedievali con confronti più stretti tra gli esemplari

databili ai secoli XIII e XIV, e pertanto riferibili alla fase di

ampliamento strutturale della chiesa (la terza fase)77.

77 IANNELLI 1993-1994, pp. 206-207.

52

L’esemplare a piattino in vetro lattiginoso (US 83)

appartiene, per il contesto di ritrovamento, alla seconda

fase. La tipologia a piattino è molto comune nella più

ordinaria produzione fittile, invetriata o smaltata.

Gli ultimi due frammenti appartengono a forme potorie,

per la precisione a calici: uno con stelo pieno ritorto color

verde smeraldo, l’altro con lo stelo vuoto, particolare che

si riscontra in esemplari datati al XII – XIII secolo.

Il vasellame restituito dalla frequentazione diretta della

chiesa è occasionale, pur tuttavia consente di precisare la

sequenza cronologica delle fasi individuate.

Nell’atrio, dal riempimento della trincea di fondazione del

muro perimetrale nord – US 80 – si rinvenne un frammento

di forma chiusa con vetrina pesante, del tipo databile alla

fine del IX secolo e la prima metà del XI.

Un boccaletto frammentario, sempre decorato con una

vetrina pesante, si rinvenne nella US 56, a contatto del

pavimento in uso durante la seconda fase. Nell’aula, sul

pavimento US 62, schiacciati dal vespaio della successiva

pavimentazione, sono stati raccolti tra bordi relativi a due

piatti invetriati.

Prodotto di importazione dall’area bizantina è un

frammento di impressed ware con vetrina gialla; sulla

breve tesa sono applicate strisce verticali di colore rosso e

manganese, che proseguono all’esterno del vaso, in

associazione ad un sovrapposto intervento decorativo ad

incisione. La classe è datata al X – XI secolo (fig. 28).

53

Al secolo XII si datano i frammenti della tipologia più

recente della cosiddetta vetrina verde-giallo brillante.

Per il vasellame d’uso corrente, acromo e decorato a

bande, gli esemplari morfologicamente più significativi

vengono dall’US 56 (appartenenti alla seconda fase) e, in

giacitura secondaria, dall’ US 21. Funzionale alla pratica

del culto era, forse, la borraccia con gocciolature di pittura

rossa, raccolta nella US 21, dall’impasto rosato, farinoso,

sottoposto evidentemente ad una bassa cottura.

Gli altri utensili, boccaletti, anforacei, bacini, rispondono ad

esigenze quotidiane della conservazione, del trasporto e

del consumo delle derrate alimentari, liquide e solide.

Sempre da una giacitura secondaria (US 17), provengono

gli unici frammenti ceramici databili alla fine del XIII – inizi

XIV: una coppetta con invetriatura verde e un boccaletto

di maiolica78 (fig. 27).

Sul piano della documentazione materiale si registra uno

iato tra il secolo XIV ed il secolo XIX, sul quale fornisce

lumi la documentazione scritta, che orienta l’abbandono

della chiesa, e quindi la chiusura della terza fase, verso il

1580.

Il riutilizzo delle strutture religiose nell’impianto colonico

(quarta fase) non sembra avvenire prima del XIX secolo.

La relativa frequentazione ha restituito materiale

circoscrivibile entro tale secolo: maiolica bianca, pentole e

tegami da fuoco con orlo invetriato, vasellame da tavola

78 IANNELLI 1993-1994, pp. 212-213.

54

policromo di produzione vietrese: piatti, giare, boccali.

Quest’ultima forma di insediamento stabile venne

abbandonato a causa, si suppone, di un’alluvione che

investì la zona sullo scorcio dell’Ottocento79.

Secondo la Iannelli, gli elementi a favore d’una fondazione

a carattere privato vengono direttamente dall’esplorazione

archeologica. Ha constatato, ad esempio, che alla chiesa,

nel corso della prima fase, si accedeva dall’atrio antistante,

dotato di un accesso laterale che non rispettava l’assialità,

ma si uniformava, evidentemente, ad una viabilità minore,

al servizio della proprietà su cui insisteva l’edificio

religioso. L’atrio sembra appositamente costruito per

chiudere e definire uno spazio da destinare a sepolture

familiari: le strutture tombali nella prima fase, infatti, non

sono numerose e si concentrano tutte, con l’unica

eccezione della T. 11, all’interno dell’atrio.

La chiesa sarebbe stata concepita, pertanto come un

oratorio privato interno ad una corte, senza escludere che

avesse costruita anche lo scopo di dotare la famiglia dei

fondatori di una propria necropoli.

Con la seconda fase, entro la prima metà del XI secolo, si

assiste all’obliterazione dell’accesso laterale dell’atrio,

riproposto in asse con la porta principale della chiesa. Si

recupera, pertanto, la visione frontale dell’intero

79 Presso le famiglie residenti nella contrada è ancora vivo il ricordo – tramandato di padre in figlio – di questa alluvione, causa di una leggera deviazione del corso delle acque.

55

complesso, visione che si accompagna evidentemente ad

una apertura culturale di carattere pubblico.

L’esecuzione tecnica della ristrutturazione, inferiore a

quella espressa dalle maestranze che intervennero in fase

di fondazione, fa pensare al concorso della stessa comunità

di fedeli, interessata alla funzionalità della struttura e

pertanto obbligata a contribuire con la propria manodopera

ai restauri necessari. Si potrebbe correlare questa

accresciuta fruizione ad un afflusso maggiore di utenza,

tanto per un reale incremento dell’insediamento nel

territorio circostante quanto per la caduta in rovina di

cappelle viciniori, per il trasferimento o divisione di

proprietà, con conseguente riversarsi altrove dei fedeli. Lo

sviluppo delle funzioni che si accompagna al rinnovamento

architettonico investe l’officiatura ed il diritto di sepoltura.

La crescita dell’area cimiteriale, in particolare sul versante

meridionale esterno dell’atrio, è conseguenza diretta del

nuovo ruolo svolto nella cura d’anime e dell’avvenuto

annullamento della vecchia strada d’accesso, non più

rispondente alla rinnovata fruizione dell’edificio. Mentre

l’ampliarsi dello ius coemeterii trova la sua evidenza

materiale nell’incremento delle sepolture, la pratica e la

frequenza dell’aula di culto per l’officiatura non

comportano una espansione nella zona destinata ai fedeli.

Tale dato potrebbe attestare ancor di più un uso pubblico

della chiesa prettamente curtense ed un interesse della

collettività ad acquisire essenzialmente uno spazio

56

consacrato per i propri defunti. Le donazioni alla Curia

salernitana faciliteranno il programma di ristrutturazione

ecclesiastica delle campagne, avviatosi con l’arcivescovo

Alfano di Salerno (XVI secolo), che porterà alla creazione

di distretti arcipresbiteriali.

Secondo la Iannelli, il nuovo impianto assunto dalla chiesa

di Sant’Ambrogio con la terza fase è da inserirsi, con molta

probabiltà all’interno delle trasformazioni indotte da questo

nuovo indirizzo. Svolgerà con questa fase un ruolo

dichiaratamente pubblico: da qui la necessità di rivedere

l’assetto della navata, con un prolungamento che

determinò quasi il raddoppiamento dell’area destinata ai

fedeli.

57

III. Le pitture murarie

III.1. Descrizione

Le evidenze pittoriche superstiti sono concentrate nel catino

absidale, che accoglie, affrescata in posizione centrale la

Theotokos (Maria-madre di Dio in trono con Bambino), ai cui

lati sono raffigurati a sinistra Sant’Ambrogio e a destra San

Simpliciano. Ai lati di questi ultimi compaiono, seppur in

cattivo stato di conservazione, i santi Protasio e Gervasio

(fig. 29). I nomi dei Santi, disposti in modo da delineare una

croce all’altezza delle aureole e del trono, si caratterizzano

per la sequenza di lettere bianche tracciate sul fondo azzurro

della conca dell’abside. La figura appena leggibile di Gervasio

non è più accompagnata del nome e viene identificata per la

presenza del gemello Protasio80. Alla base della decorazione

absidale, a metà altezza si ha l’imitazione pittorica di tarsie

marmoree. Trattasi di motivi a mensole resi con

ombreggiature che creano un ricco effetto illusionistico di

chiara derivazione romana e tardoantica81.

Sulla zoccolatura dell’abside è presente un velarium82 (fig.

30), che contiene, negli spazi di risulta, un disegno reiterato

di melograni rossi stilizzati e da motivi fitomorfi e merlati83.

Inoltre si può riconoscere nel motivo del velum una croce

decussata, ossia ad “X”, i cui angoli sono occupati dai

80 ORABONA 2006, p. 14. 81 DELL’ACQUA BOYVADAOĞLU 2008, p. 84. 82 Il velarium è una decorazione in finte stoffe preziose largamente utilizzato dalla cultura romana e tardo-antica. 83 DELL’ACQUA BOYVADAOĞLU 2008, p. 84.

58

melograni84.

Nelle due nicchie laterali della zona absidale sono presenti

due croci gemmate. Su una di esse, quella di destra, è stata

in una seconda fase pittorica, sovrapposta una figura ora

acefala, riccamente vestita, la quale con una mano

impugnava un oggetto di cui non rimane, tuttavia, traccia.

Sulla zoccolatura delle nicchie sono presenti finti pannelli

marmorei dipinti ad imitazione delle venature ondulate del

marmo che, Francesca Dell’Acqua riconosce imitante il

marmo proconnesio85: le linee ondulate, che tra loro

differiscono per spessore e colore, sono tracciate su fondo

bianco e ripetute più volte in sequenze di chevrons dritte e

capovolte86.

Altre evidenze pittoriche ad affresco sono presenti sulle

pareti laterali della navata unica: decorazioni di tipo

geometrico (rettangoli, cerchi, rombi, croci), volte a

riprodurre ed imitare pannelli marmorei policromi (fig. 31).

Lugi Volpe, in un suo articolo, asserisce che in aggiunta al

ciclo pittorico sopracitato, nel catino absidale, era presente,

in una parte di esso non esplicitata, la raffigurazione della

Parusia di Cristo87, purtroppo andata perduta prima dei

restauri del 1992, e certamente non nota a Nunzio di Rienzo,

il quale fu uno dei primi “riscopritori” dell’edificio sullo scorcio

degli anni ’80 del secolo scorso.

84 EAD. cds. 85 EAD. cds. 86 VISENTIN 2000–2001, p. 172. 87 VOLPE (a cura di), in Parco Letterario di Montecorvino Rovella, http://www.montecorvino.it/cennistorici/parcoletterario.htm.

59

La presenza della Parusia è sostenuta anche da Geremia

Paraggio (possibile fonte diretta di Luigi Volpe) il quale, in

aggiunta alla fonte sopracitata colloca la realizzazione al

periodo normanno (XII secolo d.C.)88.

Maria come madre di Dio generatrice-Theotokos, è la figura

centrale dell’intero ciclo pittorico.

È raffigurata al centro del catino absidale, posta su di un

trono ricolmo di gemme e perle, vestita con un ricco

maphorion color porpora. Il suo capo è circondato da

un’ampia aureola, la più grande, seppur di poco, dell’intero

ciclo. È ritratta come regina, la quale “offre” simbolicamente

ai fedeli Gesù bambino che tiene in grembo89.

Benché Ella appaia chiaramente come regina del cielo, gli

attributi di regalità, quali il colore del manto e il trono

gemmato, non sono accompagnati dalla corona, come

nell’iconografia mariana attestata a Roma già tra tarda

Antichità e Medioevo90 e nella Cripta di Epifanio a San

Vincenzo a Volturno.

Il trono della Vergine è di tipo bizantino, ricolmo di pietre

preziose, con la cui spalliera caratterizzata da una profusione

di perle e pietre incastonate in forme circolari e rettangolari.

La zona inferiore non presenta la stessa ricchezza di

particolari bensì un ampio e gonfio cuscino, che curva sotto

il peso della Vergine e del Bambino91.

88 PARAGGIO 1989, pp. 20–21. 89 DELL’ACQUA BOYVADAOĞLU 2008, p. 84 90 EAD. cds. 91 ORABONA 2006, p. 16.

60

Quest’ultimo è raffigurato in grembo alla Madre e regge tra

le mani il rotolo che simboleggia il Verbo trasmesso dalle

Sacre Scritture. Inoltre è contraddistinto da un’aureola

crucifera92

Su entrambe le aureole, quelle di Maria e del Bambino,

perfettamente in asse fra loro, si diffonde, dall’alto, un raggio

luminoso proveniente dalla Mano di Dio, che è posta in alto

del catino absidale93. Il maphorion della Vergine da un lato

nasconde la volumetria del corpo, dall’altro contrasta il

chiarore delle lunghe mani affusolate che appaiono fragili e

delicate. Per quanto concerne il viso semplici, stilemi grafici

solcano la curva del naso, definiscono le labbra e delineano

le palpebre e le sopracciglia. Rispetto alla “spigolosità” delle

raffigurazioni degli altri Santi, qui è sottolineata e resa la

rotondità del viso di Maria e del Bambino.

Quest’ultimo si distingue per la testa riccioluta e per

l’assenza della linea bruna di contorno che induce ad

osservare le grandi pupille rotonde.

Il naso e la piccola bocca completano la definizione del volto.

Il corpo del Bambino si contraddistingue da quello della

Madre per una maggiore consistenza fisica, per la veste

bianca e trasparente e per le mani che stringono con forza il

rotolo94.

Sul lato sinistro della Vergine è ritratto in posizione

gerarchica (rispetto a San Protasio che gli è accanto)

92 Compresenza esplicita dei concetti teologici di Nascita, Morte, Resurrezione per grazia divina. 93 EAD. cds. 94 ORABONA R. 2006, p. 16.

61

Sant’Ambrogio (fig. 32), riconosciuto Padre della Chiesa.

Il Santo presenta, all’interno dell’ampia aureola raggiata da

fasci di luce chiara, il volto emaciato incorniciato da una

spessa linea bruna che prosegue dall’alta attaccatura dei

capelli fino al mento. La capigliatura è caratterizzata da una

piccola goccia di colore bruno al centro dell’ampia e spaziosa

fronte e mentre la barba è definita attraverso una serie di

corpose virgole di ugual colore rendendo le guance ancora

più scavate; i lunghi baffi, orientati verso il basso,

incorniciano la bocca e il mento. Il volto è riccamente

particolareggiato, attento alla puntuale iconografia del

Santo. Le labbra sono piccole, carnose e saldamente serrate.

Una pennellata breve e sottile traccia il profilo del naso,

modellato in lunghezza da una linea bianca, e definisce le

sottili curve delle sopracciglia, incorniciate da lumeggiature

bianche che illuminano e circoscrivono lo sguardo.

Il corpo, ricoperto da una tunica di colore bruno, non

presenta un evidente spessore, tuttavia la stola chiara e il

voluminoso libro in prospettiva conferiscono vivacità alla

figura, insieme alla gamba tesa in avanti che lascia apparire

la veste chiara sottostante.

A destra della Vergine Maria è raffigurato San Simpliciano

(fig. 33), successore di Sant’Ambrogio al soglio vescovile di

Milano. Di dimensioni leggermente superiori alle altre figure,

San Simpliciano è nondimeno simile ad esse per la

definizione dei particolari anatomici. A differenza di

Sant’Ambrogio, la testa del Santo occupa gran parte del

62

campo dorato dell’aureola. Ulteriore differenza fra i due è il

minore contrasto cromatico tra la capigliatura e la barba,

leggermente bianco, e il volto, tanto da rendere più evidente

il colore bruno degli occhi e delle labbra. Di bruno sono inoltre

i sottili tratteggi paralleli che solcano le guance e le brevi

linee che disegnano la cornice riccioluta dei capelli.

Il disegno degli occhi del Santo, simile a quello della Vergine,

si distingue per la linea allungata. Le carnose labbra

appaiono sigillate dalla linea che allunga gli angoli della

bocca. San Simpliciano condivide con Sant’Ambrogio lo

stesso schema compositivo, pur con piccole differenze, come

ad esempio nella posizione della mano che indica il libro,

posizionata ad un’altezza diversa in Sant’Ambrogio, mentre

in San Simpliciano è maggiormente evidente con le lunghe

dita affusolate sulla tunica bruna95.

Dei due gemelli martiri, i Santi Protasio (sulla sinistra di

Sant’Ambrogio) e Gervasio (sulla destra di San Simpliciano)

rimane un’immagine frammentaria e lacunosa.

Fortunatamente di San Protasio, oltre che parte del disegno

circolare dell’aureola e l’impressione del profilo del volto con

brevi tracce dell’occhio e del labbro inferiore, si conserva

l’iscrizione del nome collocata a destra e permette di

identificare anche l’identità di San Gervasio96.

95 ORABONA 2006, p. 15. 96 ORABONA 2006, p. 14.

63

III.2. Analisi critica

Il tema più importante dell’intera raffigurazione è tuttavia la

Theotokos.

L’anno 843 d.C. aveva visto il trionfo dell’Ortodossia, che

concludeva con una svolta iconofila la lunga controversia

sulla produzione e sul culto delle immagini sacre. Nel periodo

dell’Iconoclasmo, prima in Oriente e poi in Occidente, cruciali

erano stati gli sviluppi della teologia e dell’iconografia

mariana, in quanto il tema dell’Incarnazione, e Maria che ne

era stata il tramite, erano stati il fulcro degli argomenti a

favore della visualizzazione di Dio, della sua

rappresentazione, e quindi della venerazione delle sue

immagini97. A Costantinopoli dopo il periodo iconoclasta, il

programma pittorico bizantino “tipo” era la collocazione del

Pantocratore nella cupola e della Vergine Orante o della

Madonna con Bambino nell’abside. Temi che sono

intimamente legati fra loro. In Italia i temi privilegiati

saranno la Deisis o l’Ascensione, mentre è raro trovare la

Madonna con il Bambino ad una data così alta, come quella

proposta per la chiesa di Sant’Ambrogio.

L’iconografia della Madonna Regina era già diffusa in Oriente

e in Occidente nel VI sec. d.C.; in Oriente i temi iconografici

della Vergine Orante e della Madonna con il Bambino si

diffusero particolarmente dopo la fine della lotta

iconoclastica. Dopo questo periodo turbolento, ci fu una

rinascita del culto della Vergine. La sua persona è legata al

97 EAD. cds.

64

dogma dell’incarnazione ed occuperà un posto preminente

nelle rappresentazioni98. L’importanza della Theotokos nei

programmi decorativi delle chiese risiedeva nel mostrare

l’Incarnazione quale strumento di redenzione dell’umanità.

Più che oggetto di culto ufficiale, essa attirava una devozione

privata. Negli stessi secoli si era sviluppata anche

l’iconografia di Maria Regina, assisa in trono e ornata di

corona e altri attributi regali. Il “filo rosso” che lega queste

dottrine a San Vincenzo a Volturno e, infine a Sant’Ambrogio

di Montecorvino è la figura di Ambrogio Autperto, abate del

cenobio volturnense dal 777 al 778 d.C. Autperto fu tra i

primi autori occidentali di omelie per le feste mariane, e la

cornice teologica che egli costruisce intorno a Maria lo ha

fatto riconoscere come il primo mariologo dell’Occidente

medievale.

A Montecorvino la scelta di presentare in posizione

preminente una Theotokos affiancata da autorevoli Santi

pare vada inquadrata nella risposta formulata alla crisi

iconoclastica dal monachesimo dell’Italia centrale, in stretto

dialogo con il papato. Qui il trono di Maria, con un’imponente

spalliera, è incrostato di perle e gemme, anch’esse

simbolicamente associate alle qualità morali della Vergine:

come la conchiglia dà quale frutto una perla senza difetto,

così il grembo virginale di Maria generò Cristo senza peccato.

Le perle simbolizzano quindi la natura paradossale di Maria,

una vergine che diventa madre. Basandosi sulla tradizione

98 ORABONA 2006, p. 21.

65

esegetica cristiana che vedeva in Maria una perla, Giovanni

Damasceno aveva costruito un’immagine letteraria di Maria

come tempio-scrigno risplendente adorno di un’unica

splendida perla, ossia il Cristo. Autperto spinge i propri

confratelli – ma in senso lato tutti i cristiani – a rivolgersi a

Maria per implorarne l’intercessione.

Nell’abbazia San Vincenzo al Volturno dell’epoca di Epifanio

l’eredità spirituale di Autperto appare viva nelle pitture della

‘cripta’. Nell’abside della pieve di Sant’Ambrogio la funzione-

chiave di Maria nell’Incarnazione è palesata in modo più

esplicito mediante l’imponente Theotokos alla quale si

affiancano i Santi.

Tale scelta si potrebbe anche attribuire alla presenza di un

pubblico più raffinato ed educato nella ‘cripta’ del cenobio

volturnense rispetto alla pieve rurale di Sant’Ambrogio, dove

il messaggio appare diretto e inequivocabile99.

La Vergine Maria, dunque, rappresenta l’Incarnazione ed è

principio di salvezza. A lei vanno senza intermediari le

preghiere e le richieste di intercessione, essendo Ambrogio,

Simpliciano, Gervasio e Protasio, solo testimoni dello

straordinario e paradossale evento del Dio fatto uomo.

La Theotokos è quindi qui gnomon, perché orienta il

programma iconografico; orienta la scansione dello spazio

sacro, in quanto ne anima il fulcro absidale, manifestando al

contempo nella sua stessa persona, la soglia tra il mondo

99 EAD. cds.

66

terrestre e quello celeste; orienta il pensiero e la

devozione100.

I confronti iconografici e artistici che emergono dall’analisi

degli affreschi nel loro complesso legano la pieve di

Sant’Ambrogio di Montecorvino alla pittura “beneventana” e

la collegano indubbiamente al cenobio di San Vincenzo a

Volturno.

Gran parte degli studiosi che si sono occupati del complesso

campano nella sua universalità, soprattutto della sua

fondazione, lo legano al monastero volturnense e alla

corrente artistica della “beneventana” (metà del IX sec. d.C.)

grazie alla presenza delle pitture murarie.

Il significativo ruolo svolto da Sant’Ambrogio svela il legame

tra i santi di Montecorvino Rovella.

Fu proprio lui, nel corso del IV secolo d. C, a promuovere uno

scavo nel 386 d.C., nei pressi della basilica cimiteriale dei

Santi Nabore e Felice, dal quale conseguì il ritrovamento dei

corpi dei Santi Gervasio e Protasio e la traslazione delle

reliquie nella basilica Martyrum, che Ambrogio aveva da poco

ultimato a Milano, per sua stessa volontà, nel luogo

predisposto come sua tomba al di sotto dell’altare maggiore.

Il culto dei gemelli martiri è attestato nel meridione presso

la catacomba di San Severo a Napoli, dove è conservato un

cubicolo con all’interno la più antica immagine di Protasio,

che in origine doveva affiancare quella di Gervasio.

Inoltre non è improbabile che questo cubicolo dovesse

100 EAD. cds.

67

ospitare le reliquie dai Santi lombardi. La presenza di un loro

culto presso la città di Napoli è giustificabile perché il vescovo

di Napoli, Severo (363-409 d.C.) intratteneva con Ambrogio

un rapporto epistolare, oltre ad aver avuto modo di

incontrarlo in occasione di diversi concili di quegli anni.

Con l’incontro tra Ambrogio e Paolino vescovo di Nola (353-

431 d.C.) avvenuto nei pressi di Firenze, dove quest’ultimo

entra a far parte del clero milanese, entra, forse, in

quell’occasione in possesso delle le reliquie dei Santi

lombardi.

Fondamentale per la successiva ripresa del culto dei Santi

ambrosiani è stato il ruolo svolto dall’episcopato milanese di

Angilberto II (824-859 d.C.) e da Autsperto (873-881 d.C.).

Si datano in questo periodo gli interventi di restauro della

basilica ambrosiana Martyrum, che portarono al

ritrovamento dei corpi di Sant’Ambrogio e dei Santi Gervasio

e Protasio. Ciò favorirà la rinascita del culto di Sant’Ambrogio

e dei Santi lombardi all’interno della cultura religiosa

carolingia.

Sarà il monastero di San Vincenzo al Volturno, in quegli anni

nell’orbita carolingia, a promuovere il culto dei Santi milanesi

nel meridione d’Italia.

Ciò motiverà e giustificherà la presenza di agionimi

milanesi101 nel locus Tuscianus (quale, ad esempio, la vicina

101 In Campania la presenza di agionimi milanesi si attestano in luoghi particolarmente strategici per i Longobardi. Ad esempio: San Vittore nella valle di Conza (AV), le chiese di Sant’Ambrogio, Vittore e Nazario nella diocesi di Caiazzo (CE), le tre chiese scomparse di San Vittore a Giffoni (SA), di San Nazario a Montecorvino Rovella (SA) e di San Nazario nel castro Cuculi, e le due chiese oggi esistenti dei Santi Nazario e Celso a Bracigliano (SA), e a Sant’Ambrogio di Montecorvino Rovella. In questa zona si

68

Santa Tecla di Montecorvino Pugliano), come conseguenza

dei rapporti di questo territorio con il cenobio volturnense,

ipotesi avvalorata dalle numerose dipendenze nel territorio

in questione102.

Come riporta Daniela Mauro, le maestranze che hanno

lavorato a Sant’Ambrogio si rifanno ad uno specifico ambito

culturale, apportando delle proprie varianti: una netta

semplificazione del panneggio, della volumetria, della

ricchezza dei tessuti degli abiti (fatta eccezione per il trono

della Madonna, del velario e delle incrostazioni marmoree

delle pareti dell’aula), ai quali, le maestranze, conferiscono

una caratterizzazione di piattezza coloristica e volumetrica,

esaltando l’immediatezza comunicativa e la solennità delle

figure103.

Da un punto di vista artistico, le pitture murarie di

Sant’Ambrogio di Montecorvino Rovella si inseriscono

all’interno della cosiddetta cultura artistica “beneventana”

(VIII – X sec. d.C.), il cui background culturale è ricco di

influenze bizantine, longobarde e non ultime, carolinge. Un

ruolo chiave per la propagazione di questo particolare stile

pittorico è, svolto da Santa Sofia di Benevento con i suoi

affreschi di epoca arechiana. Un filo rosso collega Santa Sofia

con Santa Maria de lama a Salerno, gli affreschi di San

Vincenzo a Volturno in particolare quelli della cripta di

Epifanio, il tempietto di Seppannibale (BR), la decorazione

concentra il maggior numero di agionimi milanesi di forte influenza longobarda. (ORABONA R. 2006, p. 18). 102 ORABONA 2006, p. 17. 103 MAURO 1990, p. 21-22.

69

della cripta del Peccato Originale (MT), ma anche la

decorazione pittorica di Santa Maria Assunta di Pernosano

(AV), in parte lo stesso antro micaelico di Olevano sul

Tusciano e la decorazione absidale della chiesa di San Vito di

Montecorvino Pugliano a poca distanza da Sant’Ambrogio.

La semplice osservazione dell’affresco di Sant’Ambrogio a

Montecorvino, ci suggerisce immediati rinvii per lo stile

pittorico, agli affreschi di San Vincenzo a Volturno.

Per questo motivo è possibile proporre una datazione al IX

secolo104. È possibile confrontare l’assenza della resa

volumetrica e la frontalità dei santi di Montecorvino con il

ciclo pittorico del Tempietto di Seppannibale (BR).

Le affinità stilistiche emergono nei busti dei Santi, dalle

bocche piccole e carnose e da spalancati occhi grandi.

Anche qui i busti dei Santi erano accompagnati dai tituli.

In Sant’Ambrogio le iscrizioni dei nomi disposti a forma di

croce sono di più alta qualità e rimandano ad alcuni

manoscritti cassinesi. Le affinità stilistiche sono ravvisabili,

inoltre, anche con il codice bizantino del IX secolo, una copia

della Topografia Cristiana di Cosma Indicopleuste.

Protagonista di questo codice è la monumentalità delle

figure, le quali sono contraddistinte da un fare pittorico

leggero e da una linea priva di aridità e asprezza calligrafica.

Le figure, si sviluppano in una struttura compositiva pacata

e limpida, dove sono evidenti le pieghe dei panneggi, le

abbondanti lumeggiature e le leggere ombre trasparenti, la

104 ORABONA 2006, p. 18.

70

definizione dei volti ottenuta con pochi tratti del pennello,

tuttavia non raggiunge l’alta spiritualità dei Santi milanesi di

Montecorvino105.

Legame diretto con il ciclo pittorico di Sant’Ambrogio è quello

con la cripta di Epifanio a San Vincenzo a Volturno (824-42

d.C.): lo stesso maphorion purpureo indossato dalla Vergine,

si riscontra nella scena della Natività all’interno della cripta.

Nell’area absidale di quest’ultima, Maria è ritratta come

Madonna Regina. Queste figure mostrano lo stesso disegno

dei particolari del viso e la stessa stesura delle ombre e delle

lumeggiature nei volti dei personaggi milanesi.

Stesso discorso per la semplificazione e stilizzazione formale

delle mani affusolate106. Individuato il modello comune sul

quale furono apportate varianti, si possono citare anche altri

esempi quali il frammento pittorico presente nell’abside

dell’Annunziata di Prata in Principato Ultra, databile fra l’VIII

e il IX secolo d.C., che riprende ancora una volta le

caratteristiche qui riferite. Tale tipologia è presente, inoltre,

nella chiesa dei SS. Rufo e Carponio o nella cripta di S.

Michele a Capua, dove risalta la resa schematica dei tratti, in

particolare il tratto d’unione fra sopracciglia e naso; come

cronologia le opere oscillano fra IX e X sec. d.C. e

relativamente a quest’ultimo periodo vanno analizzati gli

affreschi di Cimitile nella basilica di S. Calionio con le

immagini del Santo omonimo e di S. Paolino. Quest’ultimo

105 ORABONA 2006, p. 19. 106 EAD., ibid., p. 21.

71

ha, nella resa dei riccioli, punti di contatto con il San

Simpliciano di Montecorvino Rovella107.

Un altro dato significativo, scrive la Mauro, è offerto dalla

forma del trono della Vergine: quello di Montecorvino Rovella

presenta il dorsale ed il cuscino ed è a forma di lira.

In altri esempi campani coevi, solo quelli di Castellammare,

Olevano e Salerno presentano la raffigurazione del dorsale

come elemento costitutivo del trono, la cui forma è piuttosto

varia. Nella stragrande maggioranza dei casi (Napoli, Calvi,

Sasso, Faicchio, Capua, Amalfi, Carinaro, Riardo, San

Vincenzo a Volturno, Ventaroli, Rongolise), la Madonna è

ritratta su di un sedile con cuscini privo della spalliera.

Nei tre casi in cui è presente non si ha, come a Montecorvino,

una decorazione imitante il legno, ma si vuole rappresentare

una stoffa stesa fra elementi verticali del trono stesso108.

Elemento di confronto, continua la Mauro, e di ispirazione,

per quanto concerne la forma del trono e le decorazioni, lo si

ritrova in quello della parete palinsesto di S. Maria Antiqua a

Roma, dove, la Madonna, però, è sontuosamente abbigliata

e ha sul capo un ricco diadema, a differenza della Vergine

montecorvinese. Un altro esempio, simile al trono di

Montecorvino si ritrova a Cipro, nel mosaico della Panaghia

Kanakarià, raffigurante la Madonna con Bambino in una

mandorla, anch’esso ascrivibile al VI secolo d.C..

Gli esempi romani di seggio con dorsale e cuscino non sono

numerosi in epoca altomedievale dal momento che tale

107 MAURO 1990, p. 21. 108 EAD., ibid., p. 29.

72

tipologia ebbe fortuna nel Basso Medioevo109;

altrettanto può dirsi per la Basilicata e la Calabria, dove nel

periodo coevo a S. Ambrogio, prevalgono i troni di tipo

“bizantino”, senza dorsale110.

La studiosa prosegue affermando che “l’opera ambrosiana”

si colloca in un ambito cronologico particolare, visto che nel

nell’orizzonte culturale bizantino questa tematica è per lo più

resa con la Vergine su un trono senza dorsale.

Il presunto distacco dalla cultura occidentale verrebbe

negato dall’assenza di diademi o particolari elementi

decorativi posti sul capo di Maria, dato, quest’ultimo, diffuso

in ambito occidentale ma non a Bisanzio, dove si predilige

l’uso del semplice maphorion.

Le pitture murarie montecorvinesi mostrerebbero una

mistione fra elementi bizantini (il maphorion) ed occidentali

(il tipo particolare del trono), che indicherebbe una certa

libertà esecutiva da parte delle maestranze111.

Non è possibile definire tout court come orientali o occidentali

le rappresentazioni della pieve.

Esse si collocano in ambito specificatamente “beneventano”,

per quanto concerne i tratti somatici del volto; rielabora

elementi artistici diversi e geograficamente lontani.

È una conferma che nel mondo altomedievale le esperienze

circolino liberamente, dando origini a prodotti e forme

109 MATTHIAE 1966, Pittura cit., passiam. 110 ROTILI 1980, passiam. 111 MAURO 1990, p. 29.

73

particolari112.

Per quanto riguarda la datazione delle pitture, le finte tarsie

marmoree e i pannelli di finto marmo ritrovati nella “Sala dei

Profeti” a San Vincenzo a Volturno, vengono datate al primo

ventennio del IX sec. a.C., negli anni dell’abbaziato di Giosuè

(792-817).

In Sant’Ambrogio, sia la decorazione sia i volti dei Santi

testimoniano i contatti stilistici con l’abbazia di San Vincenzo.

Il modo con cui viene dipinta la barba del profeta di San

Vincenzo, con piccole linee parallele che ne marcano

l’attaccatura all’ovale del volto rinvia a santi pugliesi, a San

Zaccaria in Santa Sofia a Benevento, e anche a

Sant’Ambrogio e Simpliciano di Montecorvino113. Nella stessa

“Sala dei Profeti”, nella cripta anulare del San Vincenzo

Maggiore, nel muro sud della chiesa di S. Vincenzo Minore e

nel pulpito del refettorio dei monaci troviamo confronti

immediati con le zoccolature di finti pannelli di marmo delle

pareti, nei motivi geometrici e nelle finte specchiature

marmoree che decorano Sant’Ambrogio di Montecorvino. Il

genere decorativo pittorico richiama le specchiature

marmoree dell’opus sectile romano. Il richiamo a questo

aureo passato, presente sia a San Vincenzo a Volturno che a

Montecorvino (anche se in forma semplificata rispetto alla

casa-madre), è testimonianza chiara della volontà di

“importare” modelli di “rinascita” della casa madre ai centri

periferici, per palesare anche in territori non propriamente

112 MAURO 1990, p. 31. 113 ORABONA 2006, p. 20.

74

franchi riflessi della grandiosità insita nelle manifestazioni

dell’ideologia imperiale114. Alcuni pannelli dipinti del celebre

monastero copto di Bawit raffigurano complesse decorazioni

geometriche, le quali richiamano soluzioni adottate a San

Vincenzo a Volturno, in particolare (perché vicino al motivo

decorativo di Sant’Ambrogio) quello del rombo con uno o più

cerchi iscritti al suo interno, che ha confronti anche con altre

realtà meridionali. Questo repertorio decorativo è un’abile,

raffinata elaborazione dell’Italia longobarda115.

Altri punti di contatto si riscontrano nel volto di S.

Simpliciano di Montecorvino e quello di San Lorenzo,

raffigurato nella nicchia del muro orientale nel braccio nord

della cripta volturnense e di uno degli angeli della parete

sinistra.

Le affinità riguardano l’esecuzione dei dati fisionomici: gli

stessi occhi fissi e rotondi, il naso aquilino, la bocca a cuore,

i riccioli sulla fronte realizzati secondo una tipologia “a

chioccioletta”116. La presenza dei melograni stilizzati nel

velarium è un retaggio dell’iconografia di Hera che ben si

adatta a quella di Maria-madre. In più, come scrive la

Dell’Acqua, nell’immaginario cristiano tal frutto divenne

presto associato alla maternità di Maria. La trasformazione

del culto di Hera Argiva, il cui principale attributo era appunto

la melagrana, in quello della Madonna del Granato è

attestata anche non molto lontano da Montecorvino Rovella,

114 VISENTIN 2000–2001, p. 175. 115 ORABONA 2006, p. 20. 116 VISENTIN 2000–2001, p. 173.

75

nel paese di Capaccio Vecchia, sulle colline che sovrastano

l’antica Paestum-Poseidonia117.

Le croci gemmate, nelle nicchie laterali, rappresentano nel

programma iconografico il sacrificio del Cristo, sacrificio

necessario per la Redenzione dell’umanità118.

Se, come più volte detto, la testimonianza di Lugi Volpe si

rivelasse fondata, accanto al ciclo pittorico mariano, si

inserisce all’interno della teologia autpertiana di

Incarnazione nel grembo della Vergine e Redenzione

attraverso il sacrificio sulla croce, in un rapporto duale,

paritario, tra Gesù e Maria, ebbene, la raffigurazione della

Parusia di Cristo, ossia il suo ritorno alla fine dei tempi,

conferma ed arricchisce il programma iconografico della

chiesa di Sant’Ambrogio.119

III.2.a. Secondo ciclo pittorico

L’edificio del XI secolo d. C. subì alcune modifiche e

rifacimenti nel corso del secolo successivo, probabilmente

verso la fine del X sec. Assistiamo a delle scelte iconografiche

diverse con la seconda stagione decorativa del catino

absidale. Nei decenni successivi si decise di obliterale il primo

e più antico “santorale lombardo” con un nuovo ciclo

pittorico. Direttamente sull’intonaco dipinto di IX sec. fu

stesa una nuova pellicola pittorica, di cui si conservano alcuni

117 EAD. cds. 118 DELL’ACQUA BOYVADAOĞLU 2008, p. 84. 119 ORABONA 2006, p. 20.

76

lacerti, con l’intento di cancellare definitivamente le tracce di

quella precedente. I nuovi dipinti, a loro volta, si iscrivevano

pienamente nel solco della pittura campana coeva.

Questa seconda stagione pittorica comprendeva anche il

rinnovamento della decorazione delle nicchie, andando ad

obliterare le grandi croci gemmate del IX sec..

Nella nicchia di destra si conserva un ampio brano pertinente

ad un busto, acefalo, coperto da una clamide rossa percorsa

da sottili pieghe orizzontali nere, geometrizzate,

preziosamente decorata; si è conservata anche una mano

che stringe un oggetto di cui non si conserva traccia.

Quest’ultimo oggetto è possibile identificarlo sulla base di

uno stringente (e a giudizio di chi scrive fondato) confronto

con un dipinto murale conservato nella chiesa dell’Angelo ad

Olevano sul Tusciano, a breve distanza da Montecorvino, di

cui parleremo a breve. Bisogna sottolineare, che al momento

della stesura del nuovo ciclo di affreschi i volti dei Santi e

della Madonna con Bambino sono stati accuratamente

preservati e risparmiati dalle numerose picchettature per

preparare il nuovo strato d’intonaco. Nel catino absidale fu

dipinta un’Ascensione, che fino a pochi anni fa scrive M. Falla

Castelfranchi era ancora leggibile.

Oggi se ne scorgono solo pochi frammenti pertinenti alla

mandorla e all’arcobaleno, ottenuto con motivo a zig-zag dai

diversi colori (fig. 34).

Il tema dell’Ascensione è particolarmente diffuso nelle chiese

medievali campane e più in generale dell’Italia meridionale e

77

della Sicilia accanto alla Deisis, quest’ultima di matrice

culturale bizantina120. Per un confronto diretto non si può non

citare la chiesa di San Vito presso Montecorvino Pugliano (X

sec.) a poca distanza da Sant’Ambrogio.

L’abside è decorata con una pregevole Ascensione, poggiante

direttamente sull’intonaco della struttura muraria antica. Il

Cristo che ascende in maestà occupa la parte alta della

calotta absidale ed è raffigurato chiuso in una mandorla

delimitata da una spessa linea di colore rossa, che ne riempie

anche l’interno con piccoli segmenti perpendicolari, dando

vita a un ricco gioco coloristico. Alla stessa modo è realizzato

l’arcobaleno ottenuto anch’esso con un motivo a zig-zag di

tre colori diversi121 (medesimo stilema iconografico del

secondo strato pittorico di Sant’Ambrogio) su cui siede il

Cristo, secondo la visione profetica di Ezechiele, ed il

perimetro del globo terrestre su cui il Pantocrator poggia i

piedi. Quattro angeli, di cui due ancora visibili, nella funzione

di sorreggere la mandorla, sono raffigurati nella zona

sottostante 122 (fig. 35).

L’Influsso culturale volturnense, di retaggio bizantino, si

riscontra anche nella presenza nell’abside di San Vito, al di

sotto dell’Ascensione, della Vergine Orante, posta in asse con

la figura del Cristo.

Bisogna sottolineare il forte legame che il ciclo pittorico della

chiesa di San Vito ha con alcune pitture della chiesa

120 FALLA CASTELFRANCHI 2006, p.28. 121 FALLA CASTELFRANCHI 2006, p.28 122 VISENTIN 2000–2001, p.166.

78

dell’Angelo di Olevano sul Tusciano. La Falla Castelfranchi

asserisce che attraverso l’ausilio di vecchie fotografie è

possibile accostare l’Ascensione della chiesa di San Vito a

quella della chiesa di Sant’Ambrogio. Ambedue le Ascensioni

presentano analogie cronologiche, formali e iconografiche

con il dipinto murale, dipinto nel catino del c.d. tempio della

Tosse a Tivoli (convertito in chiesa nel 956 d.C.) e ad altre

pitture campane coeve.

Ritornando alla figura acefala nella nicchia di destra della

chiesa di Sant’Ambrogio, la studiosa sostiene che è possibile

identificare questa immagine con un santo locale molto

venerato in Campania, ma in generale in tutto il Meridione

d’Italia, ossia San Vito, che la tradizione orale vuole sia stato

martirizzato sul fiume Sele. La sua raffigurazione presso

Sant’Ambrogio, nel secondo ciclo pittorico, è avvalorata dal

confronto con il ritratto dello stesso Santo dipinto in una

nicchia della chiesa dell’Angelo ad Olevano sul Tusciano, i cui

affreschi sono stati datati alla seconda metà del X sec. d.C.

(fig. 36). La nicchia in questione sembra dedicata al culto di

San Vito. In aggiunta alla sua immagine, sulla parete interna

ad essa, si sviluppa un microciclo del suo martirio, che è

raramente rappresentato. Il ritratto affrescato nella nicchia

raffigura il santo in sontuosi abiti indossati dai militari a

corte, con clamide allacciata da una fibula circolare sulla

spalla destra, sotto la quale si vede una tunica.

La clamide mostra un panneggio ricamato, il tablion, che

orna la clamide degli imperatori e dei militari. Il Santo strige

79

nella mano destra una croce, nella sinistra una croce

gemmata, attributi del suo martirio. L’immagine è racchiusa

tra due palme stilizzate allusive del Paradiso. Sovrapponendo

il frammento superstite della nicchia di Sant’Ambrogio (fig.

37) alla figura di San Vito ad Olevano emerge una forte

affinità fra le due immagini, indizio che induce a pensare che

sia stato realizzato dallo stesso artista.

Poco più di un secolo dopo la costruzione e la decorazione

dell’invaso del catino absidale di Sant’Ambrogio, con le figure

di santi allogeni, la loro presenza doveva apparire estranea

e lontana agli occhi del clero e forse della stessa popolazione

locale123. In concomitanza legata con il declino del cenobio

volturnense, soprattutto dopo la distruzione del monastero

operata dai saraceni nell’881 d.C., si ebbe una

destabilizzazione che portò ad una graduale perdita e presa

dei possedimenti esterni e a una concentrazione delle risorse

per ricostruire il cenobio. Come giustamente asserisce la

Falla Castelfranchi, stravolgere il primitivo impianto

iconografico dell’abside e delle absidiole della chiesa

montecorvinese significava operare una cesura, mutarne

radicalmente i messaggi. Evidentemente dunque, si

venivano ad allentare gli antichi e forti legami con l’abbazia

di San Vincenzo a Volturno, con il passaggio ideologico di

Sant’Ambrogio nel circuito iconografico campano.

La vicinanza con la chiesa di San Vito a Montecorvino

Pugliano e in particolare con il santuario micaelico di Olevano

123 FALLA CASTELFRANCHI 2006, p.30.

80

sul Tusciano, siti strettamente legati tra loro da una fitta rete

di strade, oltre che con il luogo del martirio del santo (sul

Sele), possono aver avuto il ruolo di “sinecismo religioso”

nella risemantizzazione del secondo ciclo pittorico.

La studiosa sostiene inoltre che il precedente binomio tra la

figura della Vergine con Bambino e i Santi milanesi sembrava

riassumere in sé due diverse istanze, l’una collegata

all’approfondimento della sua figura da parte dell’abate

Ambrogio Autperto, come si è detto a più riprese, l’altra alla

tradizione bizantina che registra, dopo il periodo

posticonoclasta, la presenza costante della Vergine con

Bambino, intesa come mezzo per l’Incarnazione, nel catino

absidale. La scelta di sostituirla con l’Ascensione (perenne

teofania, tema che sintetizza tutta la storia della salvazione

con significativi risvolti liturgici) venne a modificare

radicalmente i messaggi espressi dall’immagine.

81

IV. Prospettive di studio124

IV. 1. Archeologia

Data la rilevanza storico-culturale, storico-artistica ed

archeologica della chiesa di Sant’Ambrogio a Montecorvino

Rovella, varie Istituzioni si stanno impegnando in un

progetto di studio, recupero e valorizzazione del sito.

Le indicazioni che seguono si intendono come linee

programmatiche di interventi ritenuti prioritari.

Partendo dal reperimento della documentazione prodotta

al tempo dello scavo, si dovrà verificare la congruenza dei

rilievi eseguiti in quella occasione con le strutture

superstiti. La pianta necessita infatti di essere rifatta

mediante l'uso di strumenti di precisione; mentre per gli

alzati (i disegni editi paiono poco più che 'schizzi' di

cantiere) sarà necessario eseguire riprese

fotogrammetriche o con il laser-scanner.

Tale lavoro si prospetta di particolare utilità soprattutto

per il portico in facciata: esso non è stato oggetto di

restauro e, per quanto versi in stato di notevole degrado,

sembra conservare almeno alcuni tratti dell'elevato

originario.

Il rilievo di dettaglio, le riprese fotografiche e le restituzioni

metriche potranno consentire una lettura attenta delle

124 Per la stesura di questa sezione ci si è avvalsi principalmente delle linee programmatiche dei progetti di ricerca FARB 2015 delle Prof.sse F. Dell’Acqua e C. Lambert (Università degli Studi di Salerno) e della proposta operativa di indagini sugli intonaci e sui dipinti murali del dott. V. Gheroldi (Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Brescia, Cremona e Mantova - Ditta KOS ARTEINDAGINE).

82

tessiture murarie e l'individuazione dei diversi materiali

messi in opera (lapidei, laterizi, malte leganti e di supporto

per intonaci di rivestimento o dipinti). Queste operazioni

potranno consentire di valutare un'eventuale sincronia di

interventi con le murature dell'abside – non intaccate da

interventi di restauro, a differenza della facciata – e con le

pitture.

Sul piano propriamente architettonico, si intende

riesaminare le strutture superstiti e verificarne la relazione

con le presunte “tre fasi” assegnate alla 'prima fase’ di cui

si parla nella pubblicazione125: potrebbe rivelare la

presenza di un battistero o comunque di strutture legate

alla “cura animarum”.

Successivamente si potrà proporre una restituzione in 3D

dei volumi, che permetterà anche una comparazione con

esempi coevi di altri contesti, come ad esempio il portico

della Chiesa di Santa Maria 'foris portas' di Castelseprio, di

recente ristudiata ricorrendo ad aggiornate applicazioni

archeometriche e alla comparazione sistematica dei

risultati.

Il progetto dovrà prevedere inoltre una campagna di

raccolte di superficie a medio raggio, per individuare la

presenza di tracce insediative o strutture coeve/precedenti

all'edificio di culto. Per verificare l'estensione dell'area

funeraria a Sud dell'edificio, di cui si fa cenno nel paragrafo

125 IANNELLI 1993-1994, pp. 185-223.

83

relativo allo scavo, si intende procedere ad una serie di

indagini geognostiche, da praticare in tutta l'area intorno

all'edificio, entro i limiti naturali o di proprietà (fiume;

strada di accesso; proprietà private) e all'interno

dell'edificio.

Le prospezioni geofisiche possono essere di valido aiuto

per l’individuazione e nella definizione geometrica di

strutture archeologiche sepolte; esse consistono nella

misura di grandezze fisiche (campo gravitazionale, campo

magnetico, campo elettrico ed elettromagnetico, velocità

delle onde sismiche ecc.), a loro volta strettamente

collegate alle proprietà fisiche delle strutture stesse e del

terreno circostante (densità, suscettibilità magnetica,

resistività elettrica, moduli elastici ecc.). I risultati più

soddisfacenti delle prospezioni geofisiche si ottengono

quando esistono rilevanti contrasti di una o più

caratteristiche fisiche dei materiali costituenti il

sottosuolo; da ciò dipende la scelta del metodo o dei

metodi di misura più appropriati.

Rispetto alle normali tecniche di indagine e scavo

archeologico, le prospezioni geofisiche presentano il

vantaggio di consistere esclusivamente in misure

effettuate dalla superficie del terreno e successivamente

elaborate ed interpretate; i risultati ottenuti, peraltro,

sono meno puntuali ed hanno minore grado di certezza,

indicando, in genere, solo la possibilità dell’esistenza di

una determinata struttura sepolta. Nelle zone

84

archeologiche la presenza di anomalie magnetiche è

essenzialmente legata alla trasformazione chimica e

mineralogica che avviene nell’argilla durante la cottura, in

conseguenza della quale i prodotti della cottura (laterizi,

terrecotte) risultano più intensivamente magnetizzabili

dall’argilla ordinaria e, in genere, dei normali terreni di

natura sedimentaria (come quelli del Sant’Ambrogio).

In base agli esiti, si potrà proporre l'eventuale rimozione

dall'abside del battuto cementizio pavimentale, al fine di

ricercare le tracce dell'altare, che si ha motivo di ritenere

contenesse reliquie dei Santi effigiati e la cui venerazione

potrebbe essere stata enfatizzata, nel loro 'dies festus',

dalla penetrazione di una lama di luce dall'unica monofora

dell'abside, che presenta un'anomala asimmetria, forse

giustificabile con la necessità di far coincidere il raggio

solare con l'altare nel giorno solstiziale126.

IV. 2. Storia dell’arte

Sotto il profilo storico-artistico, fondamentale appare

chiarire i rapporti delle pitture della pieve di

Sant’Ambrogio con i principali cantieri pittorici dell’Italia

longobarda, contestualizzandone in un preciso quadro

storico, attraverso indagini, che ne accertino il contesto

culturale, il messaggio teologico e la probabile

committenza.

126 DELL'ACQUA cds.

85

Attraverso indagini tecnico-scientifiche non invasive,

andranno chiarite le tecniche esecutive e la natura dei

pigmenti127; tramite l’analisi archeometriche dovranno

essere rintracciati gli elementi di cronologia relativa

assoluta128.

Tali metodiche potranno confermare eventuali rapporti con

i cantieri dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno e di altri

centri-chiave della cultura altomedievale, come

Castelseprio.

La differenza sostanziale nella datazione offerta dagli

archeologi e dagli storici dell’arte (IX o X secolo d.C.129),

testimonia la necessità di uno studio complessivo del

monumento.

Un altro aspetto da approfondire è quello della posizione

della pieve. Infatti, recenti indagini sui monumenti

medievali occidentali e bizantini hanno rivelato che

l’orientamento degli edifici sacri, come del resto già spesso

nell’antichità, era dettato dal sole: gli edifici erano costruiti

orientandone l’asse longitudinale verso uno specifico

punto dell’orizzonte, dove il sole sorgeva agli equinozi o ai

solstizi o nel giorno di particolari feste religiose come nel

caso dei Santi eponimi.

Per quanto riguarda gli intonaci aniconici di finitura e i

dipinti murari interni, si sono già presi accordi di massima

127 A conclusione del presente capitolo si allega la breve relazione tecnica sull’intervento di restauro eseguito sugli affreschi nel 1985 dallo studio “Raffella Spirito. Conservazione e restauro d’arte”, sul quale cfr. inoltre Dopo la polvere 1994, pp. 477-479. 128 Cfr. infra le note relative al programma di lavoro del dott. V. Gheroldi. 129 MAURO 1990; DELL’ACQUA 2009; CASTELFRANCHI 2006; ORABONA 2006; DELL’ACQUA cds.

86

per un intervento da parte del dott. Vincenzo Gheroldi, che

ha ottenuto di recente, indagini, rivelatesi risolutive in

ordine alla cronologia per Castelseprio e Brescia-San

Salvatore.

Con analoga finalità, il suo intervento prevede di articolare

lo studio in situ in tre fasi: (a) esami dei rapporti

stratigrafici, (b) indagini multispettrali, (c) analisi di

microcampioni e comparazioni tecniche;

L’esame dei rapporti stratigrafici è indispensabile per

ricostruire la cronologia relativa e distinguere - quando

possibile - le fasi esecutive. Lo studio si basa anzitutto

sull’osservazione dei rapporti diretti. Tuttavia, nel caso

specifico, caratterizzato da lacune che creano discontinuità

stratigrafiche, è stato previsto anche l’inserimento di dati

ricavati da analisi puntuali delle superfici (per classificare

le tecniche di trattamento e l’eventuale impronta di

strumenti di lavorazione) e quindi dallo studio delle

composizioni delle malte (condotto in microscopia a

contatto da 40x a 100x per il riconoscimento morfologico

e geologico delle cariche e del rapporto percentuale fra

carica e legante). Tutti i dati raccolti saranno quindi inseriti

su basi di fotopiano e tradotti in grafici.

In particolare, il programma prevede la realizzazione di:

riprese fotografiche ad alta risoluzione a luce diffusa e

radente delle superfici murarie che conservano resti degli

intonaci aniconici e dipinti. Collocazione di scala

87

centimetrica e crocini di riferimento per consentire la

ricostruzione fotogrammetrica e la restituzione grafica;

l’individuazione dei rapporti stratigrafici e ricostruzione

della cronologia relativa e la trasposizione grafica dei dati;

l’inserimento dei dati ricavati dallo studio microscopico

degli impasti, l’identificazione degli inerti e la

classificazione delle tecniche di lavorazione superficiale

delle malte e degli intonaci; in ultimo, la realizzazione di

tavole relative alle sequenze stratigrafiche.

Il progetto proseguirà con le indagini con tecniche

multispettrali condotte su ampie superfici, con il prelievo

di significativi campioni di inerti e prelievi stratigrafici.

Si tratta di indagini non invasive condotte con particolari

tecniche fotografiche in grado di registrare risposte non

percepibili nel visibile. In particolare consentono di

individuare differenze chimiche a causa della diversa

risposta delle diverse componenti dei dipinti murali

all’infrarosso e alla radiazione ultravioletta e di osservare

materiali sottostanti le stesure superficiali grazie alla

trasparenza all’infrarosso di alcune sostanze.

Le indagini multispettrali permettono inoltre di comporre

mappe di discontinuità dei materiali costitutivi con la

ripresa di particolari lunghezze d’onda registrate con le

tecniche di ripresa dell’infrarosso falso-colore e

dell’ultravioletto falso colore. Infine queste tecniche di

indagine identificano buona parte delle superfetazioni e dei

restauri moderni, permettendo così di distinguere fra i

88

diversi materiali originali del dipinto murale e i materiali

non originali.

Le tecniche di indagine multispettrale, che si applicano a

grandi superfici dipinte, a piccole porzioni a prelievi e a

campioni microscopici, servono per indagare, oltre alle

stesure pittoriche, anche gli intonaci e i loro componenti.

Queste indagini costituiscono un importante metodo di

studio e di comparazione nel caso di dipinti murali come

quelli di Montecorvino Rovella che presentano lacerti non

sempre dotati di continuità stratigrafica.

Gli esami multispettrali, che permettono di esaminare

aspetti materiali non percepibili all’occhio umano,

consentono infatti il confronto fra le parti rimaste in situ, i

frammenti rimasti in situ ma senza continuità stratigrafica

e i frammenti erratici come i resti di dipinti murali

provenienti da crolli. Le indagini multispettrali saranno

eseguite con le seguenti tecniche sugli intonaci aniconici, i

dipinti murali, i prelievi e gli inerti contenuti negli intonaci.

Le analisi comparate condotte su microcampioni

costituiscono una strategia di studio particolarmente

indicata nei contesti che presentano le caratteristiche

osservate nel caso degli intonaci di finitura e dei dipinti

murali della chiesa di Sant’Ambrogio di Montecorvino

Rovella. In seguito all’esame dei rapporti stratigrafici (a) e

alle indagini multispettrali (b), saranno individuati i punti

di prelievo di microcampioni. I campioni prelevati - di

dimensione variabile, a seconda dei casi, da 1 a 5 mm2 -

89

verranno quindi sottoposti ad analisi microscopica a luce

visibile e a luce ultravioletta, inglobati in resina

trasparente e sezionati, al fine di individuare la struttura

stratigrafica, il rapporto quantitativo legante/carica, la

dimensione, la morfologia e la natura geologica dei

componenti della carica. I risultati di questi esami saranno

documentati in microfotografia ad alta risoluzione

corredate di scala di misura micron o millimetrica e

verranno presentati in tabelle utili alle comparazioni.

Questo tipo di studio, condotto su più campioni, permette

comparazioni tecniche precise basate su più evidenze, e

ha la finalità di contribuire alla ricostruzione delle tecniche

di lavorazione degli intonaci, individuare i bacini di raccolta

e le tecniche di selezione delle cariche, e consentire la

comparazione fra aree d’intonaco non continue,

frammentarie, e fra parti in situ e frammenti di crollo.

Le metodiche di studio qui indicate, andranno applicate

con il consenso dell’ente proprietario – la Curia

Arcivescovile di Salerno-Acerno-Campagna – e le

competenti Soprintendenze (Archeologia della Campania,

Belle Arti e Paesaggio per le province di Salerno e Avellino). Il

recupero e la valorizzazione del Sant’Ambrogio si inseriscono

pienamente ne programma denominato “Longobards ways

across Europe”, finalizzato a collegare in un viaggio “ideale” e

turistico le varie regioni d’Europa toccate dalla migrazione e

dallo spostamento delle popolazioni longobarde.

90

Conclusioni

Il presente lavoro, costituisce la tappa iniziale di un più

ampio progetto multidisciplinare finalizzato alla

valorizzazione della pieve di Sant’Ambrogio di Montecorvino

Rovella, coordinato dalle prof.sse F. Dell’Acqua e C. Lambert

dell’Università degli studi di Salerno, di concerto con le

istituzioni e gli Enti locali competenti. La ricerca ha portato

al materiale storico-documentario relativo alle prime

attestazioni della chiesa. Attraverso alcune ricerche presso

l’Archivio di stato di Salerno e l’Archivio Diocesano di

Salerno, la ricerca ha portato all’acquisizione di materiale

storico-documentario relativo alle prime attestazioni della

chiesa. Sono stati reperiti ed analizzati criticamente i

contributi dei vari autori che si sono occupati della pieve, e

più in generale del contesto territoriale di riferimento (Cap.

I), al fine di chiarire, il più possibile, il quadro storico,

toponomastico e agiotoponomastico, storico-artistico e

archeologico.

Sono state avviate le pratiche di acquisizione e consultazione

del dossier relativo al restauro dell’edificio (1992), e lo stesso

per la documentazione dello scavo condotto dalla

Soprintendenza ai B.A.A.A.S., ora Soprintendenza Belle Arti

e Paesaggio per le Provincie di Salerno e Avellino e dalla

Soprintendenza Archeologia della Campania.

I dati esposti costituiscono una prima sistemazione organica

della documentazione disponibile, con l’indicazione delle

91

principali linee di sviluppo che i coordinatori intendono

imprimere alla ricerca.

Il capitolo dedicato alle prospettive di studio (Cap. IV) tiene

conto dei progetti FARB/2015 delle prof.sse Dell’Acqua e

Lambert, nonché di un programma di interventi sulle pitture

murarie e gli intonaci redatto dal dott. V. Gheroldi

In ultimo, sono state acquisite le linee guida del programma

dell’itinerario culturale europeo LWAE (Longobards ways

across Europe). Il S. Ambrogio verrà inserito in tale percorso

turistico-culturale, finalizzato alla valorizzazione del

monumento in sé e ne suo contesto, nonché in relazione con

le più vaste realtà territoriali dell’area picentina e del

Salernitano, che costituisce il punto focale della 4a Macroarea

del Programma.

92

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95

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157-182.

97

ALLEGATI FOTOGRAFICI

98

Fig. 1. Localizzazione del comune di Montecorvino Rovella (SA) nell’area dei Monti Picentini (foto satellitare da Google Earth).

99

Fig. 2. IGM - Carta Topografica D'Italia scala 1:50.000 - Foglio n. 467,

Salerno.

100

Fig. 3. Localizzazione della pieve di Sant’Ambrogio, nel comune di

Montecorvino Rovella (SA) (stralcio da IGM - Carta Topografica

D'Italia scala 1:50.000 - Foglio n. 467, Salerno).

101

Fig. 4. Tracciato della Via antiqua e della Via Popilia nel territorio

compreso tra Salerno e il locus Tuscianus (da DI MURO 2012).

102

Fig. 5. Possedimenti dell’Abbazia di San Vicenzo a Volturno nell’alto

Medioevo (da Wickham in DI MURO 2012).

103

Fig. 6. Localizzazione della cella di San Vincenzo sul Picentino e della

pieve di Sant’Ambrogio sul torrente Rienna (da DI MURO 2012).

104

Fig. 7. La stratificazione dei toponimi nello «Stato di Montecorvino» nel Medioevo e la distribuzione dei toponimi coevi (SCARPIELLO– VASSALLO – D’ARMINIO – VASSO 2001).

105

Fig. 8. Localizzazione della chiesa di Sant’Ambrogio nella località di Occiano (in SCARPIELLO – VASSALLO –

D’ARMINIO – VASSO 2001).

106

Fig. 9. Montecorvino Rovella (SA), localizzazione del

Sant’Ambrogio in rapporto con la località di Occiano e il Castello Nebulano (in SCARPIELLO – VASSALLO –

D’ARMINIO – VASSO 2001).

107

Fig. 10. Stralcio della mappa di Impianto del Comune di

Montecorvino Rovella di fine ‘800, Foglio VIII, in scala 1:2000: in evidenza il lotto 95 (Sant’Ambrogio) indicato

come ‘fabbricato rurale’ e il lotto 96 (curtis?) indicato come ‘incolto sterile’130.

130 Immagine gentilmente concessa dal geometra D’Arminio.

108

Fig. 11. Veduta dell’interno dell’edificio prima dei lavori di restauro (ante 1992). Particolare del foro di incasso della

trave di colmo (da PEDUTO 1990).

109

Fig. 12. Veduta da Sud della pieve prima dei restauri.

Sullo sfondo Giffoni Vallepiana e, in alto a destra, il borgo medievale di Terravecchia.

110

Fig. 13. Veduta dell’interno dell’edifico durante i lavori di consolidamento e pulitura delle pitture murarie del 1985 (da “Dopo

la polvere” 1994).

111

Fig. 14. Veduta da Est.

112

Fig. 15. Veduta degli ingressi fontale e meridionale.

113

Fig. 16. Veduta dell’Atrio e della facciata.

114

Fig. 17. Veduta complessiva dell’Atrio da Nord.

115

Fig. 18. Sepoltura in blocchetti litici addossata alla risega

dell’abside.

116

Fig. 19. Veduta dell’edificio da Nord.

117

Fig. 20. Monofore lato Nord (particolare).

118

Fig. 21. Parete absidale.

119

Fig. 22. Lato Nord, in evidenza: il subsellinum sulla sinistra, il recinto presbiteriale al centro e sulla destra il pulpito.

120

Fig. 23. Lato Sud, in evidenza: sulla sinistra l’ingresso meridionale, il recinto presbiteriale al centro e il subsellinum

sula destra.

121

Fig. 24. Planimetria generale con i ritrovamenti archeologici

(da IANNELLI 1993-1994).

Fig. 25. Suddivisione cronologica delle fasi dell’edificio: prima fase, giallo; seconda fase, arancione; terza fase,

verde; quarta fase, rosso.

122

Fig. 26. Frammenti virei: nn. 1-2 calici; nn. 3-8 lucerne (da

IANNELLI 1993-1994).

123

Fig. 27. Frammenti di ceramica: n.1 c. decorata con pittura

rossa; n.2 pentolame da fuoco; n. 3-4 c. acroma; nella pagina di destra, contenitori: n.1 c. con decorazione a bande

rosse; n.2 c. con decorazione a cannellures (da IANNELLI

1993-1994).

124

Fig. 28. Frammenti di ceramica: n.1 vetrina pesante; nn. 2-3

c. monocroma verde; nella pagina di destra: n.1 c. impressed ware; n.2 vetrina giallo-verde brillante; n.3 c. monocroma

verde; n.4 maiolica (da IANNELLI 1993-1994).

125

Fig. 29. Montecorvino Rovella (SA), chiesa di Sant’Ambrogio. Parete absidale, particolare del catino con le raffigurazioni della

Vergine in trono-Madre di Dio (Theotokos), San Protasio e Sant’Ambrogio sulla sinistra, San Gervasio e San Simpliciano sulla

destra.

126

Fig. 30. Parte inferiore dell’abside. Particolare del velarium.

127

Fig. 31. Decorazioni di tipo geometrico e finte tarsie marmoree

nella zona absidale (particolare).

128

Fig. 32. Catino absidale (particolare), raffigurazione di Sant’Ambrogio alla sinistra della Vergine.

129

Fig. 33. Catino absidale (particolare, raffigurazione di San

Simpliciano alla destra della Vergine.

130

Fig. 34. Catino absidale, secondo ciclo pittorico. Frammenti pertinenti alla mandorla e all’arcobaleno, ottenuto con un

motivo a zig-zag.

131

Fig. 35. Montecorvino Pugliano, Chiesa di San Vito, catino

absidale, scena raffigurante l’Ascensione di Cristo (XI secolo d.C.).

132

Fig. 36. Olevano sul Tusciano (SA), grotta di San Michele, Chiesa dell’Angelo, raffigurazione di San Vito (X secolo d.C.).

133

Fig. 37. Montecorvino Rovella, Chiesa di Sant’Ambrogio, nicchia laterale destra dell’abside, raffigurazione della croce

gemmata di IX sec. sovrapposta ad una figura acefala (San Vito?) di X sec.


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