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La doppia veste che unisce. Storie dal basso di un civile e di un fante durante la Grande Guerra

Date post: 21-Nov-2023
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arte[spazio]parola, Vol. 2015, n. 5 (Ottobre 2015 – Marzo 2016) LA DOPPIA VESTE CHE UNISCE. STORIE DAL BASSO DI UN CIVILE E DI UN FANTE DURANTE LA GRANDE GUERRA 1 Marco Donadon Questo contributo mira a raccontare le storie di due vittime della Grande Guerra: il fante semplice e il civile. Si tratta di due figure che solitamente non ebbero voce in capitolo né durante il primo conflitto mondiale né successivamente in campo storiografico. Si cominciò a dare maggiore spazio questi soggetti storici solo egli ultimi 30 anni anche grazie all’analisi di testi letterari come le lettere dal fronte, i diari di guerra o i romanzi biografici pubblicati successivamente al 1918. Proprio su due romanzi s’incentra questo contributo il quale, attraverso l’analisi comparata delle opere Trincee. Confidenze di un fante (1924) di Carlo Salsa e Storia di Tönle (1978) di Mario Rigoni Stern, si prefigge di raccontare molti aspetti del fronte italiano con un filtro soggettivo proveniente dal basso. The contribution aims to tell the stories of two victims of the World War I: the foot soldier and the civilian. These are two figures that usually had not an important role neither during the 1 Ricevuto: 26/12/2015 – Accettato: 14/1/2016 Marco Donadon, Dept. Of Humanities, Ca' Foscari University of Venice, [email protected]
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arte[spazio]parola, Vol. 2015, n. 5 (Ottobre 2015 – Marzo 2016)

LA DOPPIA VESTE CHE UNISCE.

STORIE DAL BASSO DI UN CIVILE E DI UN FANTE

DURANTE LA GRANDE GUERRA1

Marco Donadon

Questo contributo mira a raccontare le storie di due vittime della

Grande Guerra: il fante semplice e il civile. Si tratta di due figure

che solitamente non ebbero voce in capitolo né durante il primo

conflitto mondiale né successivamente in campo storiografico. Si

cominciò a dare maggiore spazio questi soggetti storici solo egli

ultimi 30 anni anche grazie all’analisi di testi letterari come le

lettere dal fronte, i diari di guerra o i romanzi biografici pubblicati

successivamente al 1918. Proprio su due romanzi s’incentra

questo contributo il quale, attraverso l’analisi comparata delle

opere Trincee. Confidenze di un fante (1924) di Carlo Salsa e

Storia di Tönle (1978) di Mario Rigoni Stern, si prefigge di

raccontare molti aspetti del fronte italiano con un filtro soggettivo

proveniente dal basso.

The contribution aims to tell the stories of two victims of the

World War I: the foot soldier and the civilian. These are two

figures that usually had not an important role neither during the

1 Ricevuto: 26/12/2015 – Accettato: 14/1/2016Marco Donadon, Dept. Of Humanities, Ca' Foscari University of Venice, [email protected]

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World War I or later in the history studies. The historiography

gave attention to these historical subjects only in the last 30

years, thanks to the analysis of literary texts such as letters from

the front, war diaries or biographical novels published after 1918.

This contribution is based on the comparative analysis of two

novels: Trincee. Confidenze di un fante (1924) by Carlo Salsa and

Storia di Tönle (1978) by Mario Rigoni Stern and it aims to tell

several aspects of the Italian front, with a subjective perspective

from grassroots.

Introduzione

Come gran parte della storiografia sostiene, la Grande Guerra

rappresentò un punto di cesura nella Storia, una vera e propria

periodizzazione, come ci indica Hobsbawn nel Il Secolo breve, di

un futuro prossimo già in partenza segnato, nel quale molti degli

equilibri sociali sui quali si poggiava gran parte dell’umanità

vennero sovvertiti o in ogni caso portati ad una condizione di

estrema tensione. Per caratterizzare un evento di tale portata,

infatti, da sempre si è soliti nominare la prima guerra mondiale

come una guerra “totale”, un termine che descrive non una

dimensione compatta bensì un insieme di aspetti inediti in grado

di coinvolgere l’intera realtà. Fra questi occorre, ai fini del nostro

contributo, ricordane due: la guerra di massa e il fronte interno.

Per quanto riguarda la prima specificità, ci si riferisce alla

composizione sociale dell’esercito. Ad entrare nelle trincee, infatti,

furono membri delle classi più disparate, un’eterogeneità sociale

che mise in evidenza una vera e propria discrasia fra la

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soggettività della truppa e la visione anacronistica dell’esercito

stesso improntata dagli alti quadri della società, volta a far

coincidere la figura del soldato semplice con quella del contadino.

In questo senso, traendo origine da un processo di mistificazione

portato avanti sin dal tempo delle prime migrazioni verso l’estero,

vennero accentuati i caratteri arcadici del contadino in modo tale

da poter identificare il proletariato rurale con un «atteggiamento

di quieta, assoluta, fatalistica subordinazione».2

Una sovrapposizione estremamente tendenziosa poiché,

propagandando incessantemente il mito della subordinazione

contadina, si voleva da un lato porre in ombra quel proletariato

urbano etichettato, anche in questo caso su basi stereotipate e

mitizzate, come un agente corrosivo e eversivo all’interno della

società, e dall’altro sottolineare come l’esercito italiano fosse una

struttura organicamente compatta e pronta ad eseguire gli ordini3.

La seconda sfaccettatura della guerra “totale” della quale ci

serviamo in questo contributo, il fronte interno, ci introduce ad un

tema peculiare del primo conflitto mondiale: il coinvolgimento

della popolazione civile, una parte della società che fino ad allora

2M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, 2007, p. 325. In questi termini la figura del contadino viene raffigurata in tonalità idealizzanti che sottacciano una suddivisione più complessa. Basti pensare le divisioni fra fittavoli, mezzadri e braccianti.

3Un altro metodo utilizzato dalla propaganda di guerra per indebolire ancor più la classe operaia e per esacerbare la divisione fra il soldato-contadino e l’operaio, fu l’introduzione del termine “imboscato” per delineare colui che lavorava nella “sicura” fabbrica invece di combattere al fronte; cfr., M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, pp. 325-27.

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mai aveva ricoperto un ruolo centrale all’interno di una logica di

guerra che dal 1914 cominciò a militarizzare luoghi di lavoro ed

interi territori. Oltre alla conversione industriale per fini bellici e al

conseguente disciplinamento in senso militare di molti operai ed

operaie, gli agglomerati urbani ubicati nelle zone liminali o di

retrovia rispetto alle trincee subirono un mutamento fisico e

sociale poiché diventarono aree militari a tutti gli effetti nelle quali

era permesso lo scorrazzamento a più riprese di battaglioni di

soldati nazionali e alleati stranieri. Inoltre le esigenze belliche

provocheranno trasferimenti di ingenti flussi di profughi

provenienti dalle aree di confine, uno sradicamento forzato dalla

propria terra che condurrà queste popolazioni ad inserirsi in realtà

totalmente differenti.4

In ogni caso la guerra di massa e il fronte interno rappresentano

soltanto delle tendenze generali utili a contestualizzare le due

storie trattate in questo contributo, quella personale di Carlo

Salsa in Trincee. Confidenze di un fante e quella di Tönle Birtain,

per mano di Mario Rigoni Stern, in Storia di Tönle; due

testimonianze in grado di portare alla luce delle realtà

estremamente complesse e sconosciute attraverso un punto di

vista sulla Storia proveniente dal basso, da chi in altre parole subì

maggiormente l’incedere del conflitto: la vittima senza divisa. Si è

voluto allargare il significato di questa espressione al fine di

comprendere tutte quelle storie personali che per qualche ragione

4Cfr., M. Isnenghi, La grande guerra, 1995, pp. 64-67. Nonostante non portassero la divisa, si conteranno al termine della guerra circa 300.000 civili tra feriti e morti, cfr., M. T Caprile – F. De Nicola, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra, 2014, p. 201.

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sono state dimenticate oppure che non hanno avuto un adeguato

spazio nella memoria storica e storiografica successiva alla prima

guerra mondiale. Ne è un esempio la figura del fante.

Carlo Salsa e la sua testimonianza proveniente dal fango

Il nome di Carlo Salsa (1893 Milano - 1962 Milano)5 nel panorama

letterario italiano compreso fra le due guerre non ricopre una

posizione di rilievo in grado di avvicinarsi alla notorietà di

“scrittori in trincea” ben più conclamati.6 Parte del merito, o del

demerito a seconda dei punti di vista, lo si può attribuire al fatto

che la sua opera più nota, per l’appunto Trincee. Confidenze di un

fante, destò sdegno rispetto ai suoi contemporanei poiché quando

venne pubblicato per la prima volta nel 1924, per la casa editrice

Sonzogno, i tempi non erano ancora maturi per una versione di

una guerra, ancora fresca nella memoria, che demistificasse e

infrangesse quella retorica trionfalistica e sciovinista di

derivazione tardo-risorgimentale, ripresa anche dal fascismo, che

raccontava la prima guerra mondiale con toni enfatici e

celebrativi. Un paradigma culturale, quello interventista, che

appassionava anche il cuore dello stesso autore e protagonista di

Trincee alla vigilia di sopraggiungere al fronte, quel luogo nel

5Iniziò a scrivere novelle e poesie fin da giovanissimo per riviste come “L’Oceano” e “Gazzetta del popolo”.

6Basti pensare ad esempio a scrittori come Giovanni Commisso, Giuseppe Antonio Borgese e Gianni Stuparich nelle loro opere sul Carso.

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quale moltissimi giovani arruolati nel Regio esercito sognavano di

rendere la propria generazione eroica:

Non abbiamo ancora un senso netto di ciò che ci attende: abbiamo vissuto fin qui la vita mediocre, tra un impeto ed uno sbadiglio […]. Abbiamo ancora l’anima ingombra di romanticherie e di letteratura, di cose dei buoni tempi, raccontate dai nonni o frugate nei libri polverosi del solaio: baruffe eroiche, inni, bandiere, fanfare, ritorni col braccio al collo e la medaglia sul cuore, sventolii di fazzoletti, belle ragazze protese a finestre gocciolanti di gerani. Ed ora la nostra natura s’inebria di libertà.7

Nessuna ragazza stette ad aspettare i soldati e nessuna libertà

invase il loro cuore. La guerra si rivelò qualcosa di totalmente

differente, qualcosa che strideva con le moltissime storie

pubblicate nel primo dopoguerra e con i moltissimi culti agli eroi

caduti che riempivano di cenotafi le piazze di ogni paese. Di

fronte a questo processo di revisionismo storico, Carlo Salsa si

decise di pubblicare il suo “libretto” per raccontare la verità, una

missione proposta fin dall’Introduzione:

D’altra parte, è utile che si sappia da tutti cos’è la guerra. Abbiamo visto che una guerra non si fa per ragioni idealistiche. Gli idealismi servono soprattutto a guadagnare delle alleanze e a cacciare innanzi i soldati.8

7C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, 2015, p. 26. Questo slancio “romantico” è imputabile, molto probabilmente, al contesto famigliare nel quale Salsa visse. Infatti la sua famiglia rappresentava uno dei lignaggi più importanti nel periodo risorgimentale.

8Ivi, p. 16.

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Come è possibile intuire dal passo appena riportato, Trincee

riesce a farci «vivere la prima guerra mondiale»9 per utilizzare

l’espressione utilizzata dallo scrittore milanese Luigi Santucci

(1918-1999) nella prefazione alla prima edizione Mursia (1982),

lasciando che l’orrore e lo sgomento, di cui ogni singola pagina è

intrisa, invadano la nostra mente in ricostruzioni infernali. Una

novità e un attacco eversivo innocente (Salsa non mostrò mai

grande dissenso nei confronti del fascismo) derivanti da una

narrativa asciutta, incisiva, rapsodica e senza retorica che non

lascia spazio alla commiserazione.10 Per queste caratteristiche

Carlo Salsa verrà definito lo scrittore “anti-eroe”, cioè colui che

tramite la sua testimonianza personale ci ha consegnato una

visione della guerra antitetica rispetto a quella riportata da altri

scrittori troppo spesso influenzati dalla loro stessa cultura elitaria

e romantica oppure dalla censura fascista.

In ogni modo, il romanzo, se così può essere classificato, racconta

l’esperienza al fronte dello stesso Salsa, un sottotenente di

completamento chiamato sul Carso nel novembre del 1915. La

storia parte da una Palmanova militarizzata che, come gran parte

delle retrovie, era teatro d’incontro fra coloro pronti per partire in

direzione del fronte e chi da quest’ultimo tornava. Si tratta di un

primo assaggio di ciò che li aspetterà, di un’ombra su dei sorrisi

9L. Santucci, Trincee, p. V.

10Cfr., F. Todero, “Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee”, in F. Senardi (ed.), Scrittori in trincea. La letteratura e la grande guerra, 2008, pp. 137-38.

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ancora sfavillanti: Salsa con alcuni suoi amici sottotenenti

s’imbatterono, nello stesso tavolo di una trattoria, in un ufficiale

bendato intento a masticare lentamente «senza sorridere del loro

riso, senza animarsi mai, senza intendere».11 Sembrerebbe un

incontro profetico, uno specchio capace di riflettere un futuro

terribile di ciò che sarebbero diventati i ragazzi, i quali poco a

poco cominciarono a smorzare le loro risa finendo per tacere

davanti a questo fantasma proveniente dal fronte. Come è

possibile desumere, si prospetta fin dall’inizio uno dei fili rossi del

racconto: il senso di morte che pervase ogni luogo percorso e

ogni persona incontrata dall’autore, una sensazione sinistra che si

svelerà totalmente una volta giunti al fronte.

Dopo Palmanova, la marcia di avvicinamento alle trincee proseguì

per Chiopris dove «non passano, di qui, che combattenti. Tornano

dal fronte interminabili carovane di fanti imbottiti di cenci,

inzaccherati, sfiniti, come dinastie di zingari».12 In attesa di un

ordine che indicasse quale fosse la destinazione definitiva da

raggiungere, il gruppo di amici sottotenenti si diresse verso

Sdraussina, ultima terra sicura prima delle trincee del San Michele

da dove sarebbe sceso, all’indomani, il battaglione al quale

sarebbero stati assegnati. Nonostante la vicinanza permettesse di

osservare ad occhio nudo la prossima destinazione, a velare lo

sguardo da quel teatro di morte ci si mise la nebbia. Si giunse

così al fronte, un luogo che «i racconti creano nello spirito

11C. Salsa, Trincee, p. 21. Corsivo mio.

12Ivi, p. 27.

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un’atmosfera di fiaba. L’infinito parlottare di soldati rivela e

nasconde, oscuramente, qualcosa di tragico, che nessuno sa

misurare ed esprimere»,13 di notte per non essere visti dai

cecchini austriaci. Subito, dai primi passi mossi nei collegamenti

s’intuisce come lo stesso protagonista, in questo nuovo contesto

dove i vivi dormivano sui morti, si faccia già più tetro e

indifferente davanti alle prime notizie sul numero dei primi caduti

del proprio plotone: «la contabilità è abolita per ora: conteremo

quando torneremo giù […] quelli che non rispondono all’appello,

son morti; pace all’anima loro».14 L’impatto, dunque, con la nuova

realtà fu devastante. I giorni non passavano mai poiché i soldati

semplici erano «dannati all’immobilità»15 in quei budelli poco

profondi, le trincee, nelle quali ogni minimo movimento veniva

puntualmente punito dai formidabili cecchini austriaci, sempre

pronti a colpire strategicamente le corvée destinate alle prime

linee, quasi come se «gli austriaci sentissero l’odore di barbera»,16

il vino che poche volte, insieme al pane e altre varietà di cibo,

arrivava a destinazione.

Proprio il San Michele rappresenta l’essenza della testimonianza

del sottotenente di completamento, il capitolo dell’esperienza

13Ivi, p. 41.

14Ivi, p. 51

15Ivi, p. 58

16Ivi, p. 59. Corsivo mio.

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bellica d’impatto maggiore, quello che infranse qualsiasi sogno di

gloria di Salsa catapultandolo in un mondo nel quale non esisteva

alcuna differenza fra la vita e la morte, abrogando di fatto

qualsiasi ritualità funebre:

E su, più in alto, tra i morti insepolti, i sepolti vivi: le nostre buche imbottite di fanti, minuscole ampolle di vita in quel cimitero senza nome […]. Durante tutto il giorno nessuno può muoversi: si cerca di sonnecchiare nelle ore di calma il budello che sale sembra il corridoio di un museo di mummie e di cariatidi.17

Questo passo appena riportato coglie appieno l’amarezza di Salsa

nel constatare lo scarto sussistente fra le aspettative, e le

speranze, della vigilia e la terribile realtà nella quale dovette

sopravvivere; una nozione di scarto, quindi, che si traduce in quel

sentimento chiamato da Eric Leed, nella sua opera Terra di

Nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima

guerra mondiale (Il Mulino, Bologna 1985), «disillusione».18 Se da

un lato questa presa di coscienza si tramutò in un atteggiamento

di rassegnazione; dall’altro dipanò la realtà dalle perduranti

menzogne costruite dalla stampa e dalla censura, rischiarando sui

disequilibri dei rapporti in trincea e sulle ingiustizie che si

perpetuarono in essi, come confessa un fante al sottotenente:

17Ivi, p. 67.

18Cfr., F. Todero, Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee, p. 136-37.

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Morire! Morire non conta: si sa che una volta o l’altra la pelle bisognerà rimettercela, no? Ma quello che avvilisce, che demoralizza, che abbatte è di veder morire così, inutilmente, senza scopo. Oh, non si muore per la patria, così; si muore per l’imbecillità di certi ordini e la vigliaccheria di certi comandanti.19

Un’invettiva diretta agli alti quadri dell’esercito che ci introduce ad

un altro filo rosso dell’opera: la critica incessante e il disprezzo

rivolto, per bocca dello stesso Salsa o delegata ai borbottamenti

della truppa, alle decisioni scellerate e senza alcun senso prese

dai comandanti, coloro che al fronte non si vedevano mai e in

ogni caso fecero incetta di medaglie al valore. Infatti,

identificandosi con la truppa, l’autore ci propone un punto di vista

particolare capace di cogliere l’umore, i pensieri e i profili di chi

dovette sopportare ogni giorno le strategie matematiche

provenienti dall’alto. Anche se nel biennio 1915-1916 si trattava

ancora di un’insubordinazione silenziosa e controllabile, iniziò a

intravedersi ed a delinearsi quello che Isnenghi definisce

«l’enuclearsi d’una identità collettiva che si allontana da quella

tradizionale caratterizzata dalla passiva sopportazione» nelle

masse militari stimolata dalla «disgiunzione tra truppe e ufficiali,

da capitano in su».20 Un processo di distaccamento, dunque,

analizzato e messo in evidenza in tutto il decorso di Trincee: sia

dalle «esercitazioni quotidiane di sfottimento»21 a San Martino del

Carso, per passare agli estenuanti lavori inutili di rinforzo delle

19C. Salsa, Trincee, pp. 62-63.

20M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, p. 351.

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trincee a Santa Maria e le fucilazioni per codardia volute da «quei

signori che giudicano e condannano […] tra un banchetto e una

critica strategica al caffe»22 nel Merzli, fino a quegli accesi

interventisti rimasti dietro le scrivanie a Milano, un’oasi di pace

vissuta con astio da Salsa come vedremo successivamente. Dopo

il ritorno repentino dalla licenza, Salsa venne inviato ancora una

volta sul Carso, a Jamiano, da dove si sarebbe condotta

un’offensiva per prendere le trincee austriache poste sull’Hermada

(Monte Ermada): il suo battaglione avrebbe dovuto partecipare

alla prima ondata. Nonostante «sulle carte topografiche le

offensive si conducano fermamente a buon punto»,23 l’azione fu

un fallimento e il sottotenente cadde prigioniero nel maggio del

1917. Da qui comincia un’altra storia, un’esperienza vissuta anche

da un’altra vittima bianca di questo conflitto: Tönle Birtain.

La fragilità dell’immutabile nella prosa di Mario Rigoni Stern

Come per Trincee, anche il romanzo Storia di Tönle, pubblicato

nel 1978 per Einaudi, deve essere ritenuto il racconto di una

testimonianza personale. L’unica differenza tra le due opere

sussiste nel fatto che l’autore, Mario Rigoni Stern (1921 Asiago –

2008 Asiago), in quest’opera non ha riportato la sua storia

personale, anche se molti sono i riferimenti autobiografici, bensì

21C. Salsa, Trincee, p. 107.

22Ivi, p. 194.

23Ivi, p. 217

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la vita del contadino originario dell’Altopiano di Asiago le cui

vicissitudini colgono e giudicano, in un processo induttivo, i

macroeventi storici che si susseguirono dall’annessione del Veneto

all’Italia dopo la fine della terza guerra d’indipendenza fino alle

soglie della conclusione della Grande Guerra. Una visione della

Storia (con la s maiuscola) che risente, quindi, della soggettività

dello stesso protagonista; un filtro utile a Rigoni Stern per far

conoscere ai lettori la memoria di una subcultura comunitaria e

contadina estintasi in seguito alla guerra. Per raggiungere questo

obiettivo, l’autore ha compiuto una vera e propria «operazione di

archeologia sociale e linguistica»24 appoggiandosi ad alcune

testimonianze orali tramandate di generazione in generazione e ai

documenti consultati negli archivi e nelle biblioteche.25 Un

percorso a ritroso che ha condotto Rigoni Stern alla riscoperta

della storia della propria terra, della propria lingua (il dialetto

cimbro) e della propria tradizione ricavandone un romanzo

antropologico originale quanto mai vicino al reale e in grado di

toccare quei temi tipici della bibliografia dello scrittore asiaghese.

Tra questi vi è sicuramente la riflessione sul rapporto inestricabile

fra la casa e la terra, un punto di riferimento per l’uomo senza il

quale si smarrirebbe perché senza radici solide non si può vivere.

Un monito che l’autore ingegnosamente riporta fin dall’inizio del

racconto:

24M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, 1985, p. 83.

25Cfr., Ivi, p. 82-83. Rigoni Stern viene a conoscenza di Tönle grazie all’incontro fortuito avuto con il nipote del contadino, un manovale che stava costruendo la casa dello scrittore durante i primi anni ’70.

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La sua casa aveva un albero sul tetto: un ciliegio selvaggio. Il nocciolo dal quale era nato l’aveva posato lassù un tordo sassello tanti anni prima espellendolo in volo e l’umore di una primavera l’aveva fatto germogliare perché un suo avo, per difendere l’abitazione dalla pioggia e dalle nevi, aveva steso sopra la copertura altra paglia, sicché quella sotto era diventata humus e quasi zolla. Così il ciliegio era cresciuto [...] d’autunno il rosso pastello delle foglie si notava anche dalla cima del Moor, come un orifiamma che ingentiliva e distingueva tra le altre la povera casa.26

Per poi riprenderlo alla fine quando Tönle, appoggiato al tronco di

un ulivo, spirò:

Si sedette sotto un ulivo, ricaricò l’orologio […]; accese la pipa, si appoggiò al tronco dicendo a voce alta “Sembra una giornata di primavera” e si ricordò quella di tanti anni prima quando dal margine del bosco aspettava che l’ombra della notte facesse svanire il ciliegio sul tetto per rientrare a casa.27

La consequenzialità dei due passi è fondamentale per capire come

quel legame così viscerale e quell’equilibro apparentemente

immutabile fra l’identità della persona (la casa) e la sua cultura

(terra) si fosse rotto, sepolto in seguito all’omicidio culturale il cui

mandate ha un solo nome: la guerra. Per comprendere, però,

come il conflitto sconvolse il paesaggio “fisico” e “mentale” delle

26M. Rigoni Stern, Storia di Tönle – L’anno della vittoria, 2014, p. 5. La figura dell’albero (il ciliegio in questo caso) rappresenta un’immagine onnipresente nella narrativa di Rigoni Stern. Si pensi al tiglio nel racconto Vecchia America (1960), l’unico elemento rimasto immutato al ritorno dei due emigranti.

27 Ivi, pp. 106-07.

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retrovie, occorre fare un passo indietro descrivendo le dinamiche

e le fondamenta su le quali poggiava gran parte della cultura delle

popolazioni ubicate nelle zone montuose. Un passo a ritroso

inevitabile, che lo stesso Rigoni Stern compie partendo

volutamente da un evento simbolico, capace di documentare

come l’irrigidimento dei confini settentrionali, dopo la terza guerra

d’indipendenza, erose fin da subito una delle consuetudini proprie

delle comunità pedemontane: l’istinto di migrare.28 Solo in questo

senso si può capire la scelta, da parte dell’autore, di collocare la

colluttazione avvenuta fra Tönle e la regia guardia di finanza

mentre il contadino, come ogni settimana, scendeva dal Platabech

con della merce contrabbandata oltre al confine. Un commercio,

quest’ultimo, da sempre tollerato e che nel 1966 iniziò ad essere

considerato reato. In ogni caso, Tönle riuscì a sfuggire, colpendo

involontariamente la testa della guardia, e a correre verso casa

per spiegare l’accaduto alla moglie, al padre e al figlio maggiore

Petar prima di nascondersi nel bosco in attesa di notizie. Il giorno

seguente la moglie si recò dall’avvocato del paese, Bischofar,29

sperando di risolvere in qualche maniera la faccenda, ma

l’avvocato le consigliò di far si che suo marito, per non passare

28Solitamente le migrazioni temporanee che interessavano le popolazione dell’alto vicentino, l’altro trevigiano e il bellunese da metà Settecento vengono chiamate “randagie” per sottolineare il carattere autonomo e consuetudinario di questo fenomeno.

29La figura dell’avvocato Bischofar rappresenta il primo di una serie di cenni autobiografici inseriti dall’autore. Infatti, l’avvocato era il bisnonno di Rigoni Stern e la bambina che ad un certo punto entra nel suo studio è la madre. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, pp. 80-81.

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cinque anni in prigione, si fosse dato alla macchia per qualche

tempo in attesa di qualche tipo di amnistia. Cominciò da qui un

lungo periodo di peregrinazione per Tönle che lo portò in Austria,

in Germania, in Ungheria e in Cecoslovacchia. Per guadagnarsi da

vivere, per sé e per la sua famiglia, s’ingegnò in mille lavori: dal

venditore ambulante di stampe nelle fiere e nei mercati, al

boscaiolo, al custode di cavalli in Ungheria fino ad essere anche

assunto come giardiniere nel castello di Hradcany a Praga. Il

girovagare per l’Europa servì a Tönle per «conoscere gusti e

tradizioni, e proporre gli acquisti ai singoli clienti secondo il sesso

e l’età, la fede religiosa, il mestiere esercitato e le passioni»,30

un’esperienza antropologica esercitata sul campo che marcò

ancor più quella dimensione internazionalista del contadino

insofferente ad ogni privatizzazione ambientale e mentale; un

«comunismo innato primitivo»,31 per utilizzare l’espressione di

Michele Buzzi, influenzato dalle prime idee socialiste circolanti in

Europa e apprese da Tönle in Germania nel 1890 quando lavorava

nelle miniere di Hayngen, un bagaglio ideologico trasportato dal

migrante al suo paese natale.

La libertà di pensiero di Tönle, però, si innestava su uno sfondo

culturale intimamente radicato. Come il ciliegio fioriva e si

mostrava come un’orifiamma durante i mesi più caldi per poi

riposarsi con l’arrivo del freddo, anche il protagonista del racconto

ai primi fiocchi di neve tornava a casa sua spinto da una forte

30M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 15.

31M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 81

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nostalgia per la famiglia e per le abitudini del paese alle quali

poteva aggregarsi facendo attenzione a non essere visto da

nessuno tranne che dai propri affetti famigliari. A questa vita

precaria si pose fine nel 1904, quando un’amnistia, concessa dal

re Vittorio Emanuele III per celebrare la nascita del principe

ereditario (il futuro Umberto II), permise a Tönle di restare ad

Asiago; ma ormai era vecchio per viaggiare anche se non troppo

per continuare a lavorare e con i risparmi di una vita, infatti, si

comprò un gregge con il quale passava intere giornate fra i

pascoli comuni. In quello stesso anno tre dei suoi figli

parteciparono ai lavori, indetti dal Genio militare, di costruzione e

restauro delle fortificazioni che lo Stato italiano, così come

l’Impero dall’altra parte del confine, stava allestendo.32 Una prima

avvertenza del clima di tensione che via via si stava forgiando;

una polveriera che esplose il 28 giugno 1914 con le «prime

pistolettate di Sarajevo», una notizia che «a Tönle la portò un

carbonaio più di un mese dopo il fatto»33 quasi come l’eco di

questa informazione non volesse arrivare all’orecchio del

contadino senza frontiere il quale, dall’alto della sua esperienza,

preannunciò uno scenario apocalittico allo stesso carbonaio:

32I lavori di costruzione si concentrarono sulla caserma difensiva dell’Hinterknotto e sulle fortificazioni del Rasta e della Laita, quelli di restauro intervennero sui grandi forti del Lisser, del Verena e del Campolongo. Per compiere questi lavori venivano convogliati coloro che solitamente emigravano stagionalmente. Per una approfondimento cfr., M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Il Mulino, Bologna 2005.

33M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 40.

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Sarà l’Austria-Ungheria che avrà dichiarato guerra alla Serbia, e così la Russia per la questione balcanica avrà dichiarato guerra all’Austria-Ungheria; allora la Germania farà guerra alla Russia e la Francia alla Germania.34

Una conoscenza basica degli equilibri geopolitici europei che gli

permise di osservare il susseguirsi degli accadimenti in un vasto

panorama storico e di cogliere dei segnali premonitori su quale

sarebbe stata la scelta dell’Italia una volta che fosse uscita dalla

neutralità: attaccare l’Impero Austro-Ungarico. Già all’indomani

dell’inizio delle ostilità Tönle, durante i suoi lunghi pascoli, si

accorse che a compiere delle esercitazioni sulle sue montagne

non c’erano solo gli alpini del battaglione Bassano, tra cui i suoi

figli Petar e Matio, ma anche contingenti di “napoletani” (un

termine con il quale si definiva tutti coloro che provenivano dalla

Toscana in giù) i quali con il loro stanziamento cominciarono a

modificare il carattere fisico e comunitario di quella terra:

Ai margini dei boschi sorgevano accampamenti, fumavano cucine da campo […]. Ma a fare legna o a lavorare nei campetti le donne e le ragazze andavano sempre in gruppo perché, dicevano, i soldati napoletani erano piuttosto aggressivi. Ma è anche vero che tutto il mondo è paese e così c’erano pure alcune che, di sera, gli accampamenti andavano a cercarli. Giravano anche molti soldi […], si era creata un’euforia generale, sicchè le osterie, gli alberghi con suoneria elettrica, il cinema teatro Eden erano sempre affollati.35

34Ivi, pp. 40-41.

35Ivi, p. 42. Corsivo mio.

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Fu una scossa elettrica, la guerra, che pervase ogni singola fibra

del tessuto sociale del paese travolgendo ogni singola tradizione e

morale in vigore, e catalizzando su di sé tutta l’attenzione

attraverso la circolazione frenetica di notizie sugli sviluppi bellici.

Questa fibrillazione salì a livelli vertiginosi alla vigilia dell’entrata

in guerra dell’Italia nella primavera del 1915; un’azione che

sarebbe servita, secondo i giornali, a liberare i fratelli italiani di

Trento e Trieste che si trovavano al di là di quelle montagne verso

le quali Tönle rivolgeva ogni giorno il proprio sguardo sperando di

cogliere il motivo di un tale spargimento di sangue per delle

lingue di terra che come l’acqua e l’aria dovrebbero essere libere

perché per lui e per quelli come lui, «non erano poi tanto pochi

come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli uomini, i

confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o

gendarmi da evitare».36

L’attesa era finita. In seguito alla deposizione della dichiarazione

di guerra da parte dell’ambasciatore del re Vittorio Emanuele III

alla cancelleria dell’imperatore Francesco Giuseppe, nella notte

del 23 maggio del 1915 il tenente generale Pasquale Oro,37 al

quale venne affidato il comando della 34a Divisione degli alpini,

inviò un proclama a tutta la popolazione dell’Altopiano nel quale

chiese che da quel preciso momento fosse data totale

collaborazione all’esercito. In quella stessa notte la gente restò

sulla strada cercando di intravedere i primi bagliori bellici tra le

36Ivi, p. 59.

37Pasquale Oro (1849 – 1924).

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montagne che rischiararono il cielo a mezzanotte col primo colpo

di cannone sparato dal Forte Verena; dopodiché tutti rientrarono a

casa «rinchiudendo le porte, anche se era usanza nella loro

piccola patria che le porte restassero aperte».38

Da quel momento l’altopiano di Asiago diventò a tutti gli effetti

una “zona di guerra”: il territorio venne diviso in “zone di

operazioni”, dove sostanzialmente erano state scavate le trincee,

e “zona di retrovia”, una fascia di terra profonda 10-40 km che

accoglieva le truppe a riposo, i servizi logistici e quelli sanitari. In

altre parole, il paese nella quale si trovava la casa con il ciliegio

sul tetto fu costretto a sottostare ad un potente processo di

militarizzazione del quale gli aspetti maggiormente evidenti

furono la mobilitazione di soldati ed “operai borghesi”, «civili

militarizzati reclutati nelle regioni centro-meridionali, per eseguire

lavori logistici al fronte»,39 l’ampliamento delle infrastrutture

legate alla viabilità ferroviaria, fluviale e stradale che andarono a

modificare gli equilibri e la conformazione delle aree montane e,

infine, l’applicazione in queste zone della legislazione militare la

quale dispose direttive, come l’introduzione del coprifuoco ad

esempio, e divieti, come quelli di riunione, che regolarono la

mobilità interna incidendo fortemente sulla quotidianità delle

persone.40 In questo perpetuarsi della guerra totale anche

all’interno delle consuete dinamiche sociali, l’unico che poteva

38Ivi, p. 54. Corsivo mio.

39M. Ermacora, “Guerra e genti di retrovia”, in M. Isnenghi - D. Ceschin (eds.), La Grande Guerra, vol. 2, 2008, p. 656.

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ancora ritenersi al di fuori di questa situazione fu proprio Tönle

perchè non poteva, per anzianità, essere richiamato alle armi

(curiosamente prima del 1966 era stato soldato scelto nella

landwerh, in Boemia, ai comandi del maggiore di origini italiane

von Fabini e, con il cambio del governo, aveva marciato agli ordini

del colonnello del Regio esercito italiano di origini austriache

Heusch cavalier Nicola) oppure essere ingaggiato come operaio al

fronte. Pertanto, con due figli alpini e gli altri tre emigrati in

America, dovette incaricarsi dell’onere di curare il gregge da solo

per poter sfamare i suoi nipotini e la madre di quest’ultimi.

In seguito all’attacco austriaco condotto dal generale Conrad41 il

15 maggio del 1916, la cosidetta Strafexpedition,42 la sua famiglia

e l’intera popolazione dell’Altopiano fu costretta a trasferirsi in

pianura. Nonostante la gravità della situazione, l’invernatore (la

traduzione italiano del termine cimbrico Birtain) decise, dopo aver

caricato i membri della sua famiglia sui carretti messi a

disposizione per il trasferimento dei profughi, di rimanere a casa

con le sue pecore opportunamente nascoste in una zona boschiva

conosciuta solo dagli ex contrabbandieri. Ora più che mai a Tönle

«toccava di partecipare alla solitudine» in quel paese vuoto e

abbandonato anche dai sacrifici degli antenati e dal lento tempo

contadino:

40Cfr., Ivi, p. 656-58.

41Franz Conrad von Hötzendorf (1852 – 1925).

42Per una sintesi si veda L. Malatesta, Altipiani di fuoco. La Strafexpedition austriaca del maggio – giugno 1916, Istrit, Treviso, 2009.

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Nel pomeriggio Tönle uscì in una radura - di notte dormiva tra i boschi per non farsi scoprire dai carabinieri in cerca degli ultimi profughi - e vide laggiù che anche il campanile bruciava. Forse una bomba incendiaria aveva colpito la cella campanaria […], allora con rabbia e accoramento gridò: Alle Inzòart! Tutto è finito. E si mise a battere con il bastone contro un cespuglio. Quando si calmò ritornò a guardare il campanile ricordando come tanti anni prima anche sua madre e sua nonna avessero dato i loro orecchini d’oro per farli fondere nel bronzo delle campane.43

Un profondo scoramento pervase il protagonista, ma, nonostante

la perdita di alcuni tra i suoi più importanti punti di riferimento,

reagì dimostrando ancora una volta una forza vetusta ed

incrollabile: si pose come il custode del suo paese, del quale

desiderava conservare una parvenza di normalità, e come simbolo

di “una vita pacifica contro la violenza” in una condanna viscerale

alla guerra le cui logiche risultavano completamente sorde a

questa resistenza ultima di un vecchio che mai aveva chiesto di

essere italiano o austriaco, ma al quale bastava solo la terra.

Come preannunciato nella sezione dedicata a Trincee, anche

Tönle subì l’esperienza della prigionia prima di ritornare

sull’Altopiano dove scoprì di aver perso anche l’ultima memoria: il

ciliegio.

Il sottotenente si fece spiegare bene qual era la sua casa e gli puntò sopra il periscopio invitandolo a guardare attraverso gli oculari. Subito Tönle vide che non c’era un ciliegio sul tetto, e nemmeno un tetto, e i muri sbrecciati e anneriti, e l’orto sul davanti sconvolto da profonde

43M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 69.

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buche che in superficie al posto della terra nera e grassa avevano riportato i sassi bianchi come ossa. 44

Ma come in Trincee la guerra non ha sentimenti, sono le fredde

logiche matematiche a guidarla:

Il sottotenente che osservava con il binocolo vide le quattro nuvolette e i soldati e con un bracciò scostò il vecchio, si chinò al telefono, chiamò il comando di batteria, diede i dati di tiro. Subito dopo lì vicino quattro cannoni spararono […] e le bombe andarono a scoppiare attorno alla casa e sul prato dietro.45

Aspetti condivisi e temi comuni

Abbiamo già accennato nell’introduzione al motivo principale che

lega questi due racconti, queste due figure: il civile e il soldato

semplice. Ciò che li accomuna, infatti, risiede nella presa di

coscienza di un’alienazione totale, «un unico marchio di

sofferenza che cancella i segni individuali»,46 rispetto alle decisioni

prese dai quadri ufficiali ed alle dinamiche della guerra che

seguirono. Un atteggiamento che non bisogna tradurre in termini

di passività bensì in una forma di dissenso ravvisabile in piccole

ma significative azioni personali, le quali molte volte sono sfuggite

al grande occhio della storiografia:

44Ivi, p. 104.

45Ivi, p. 104.

46C. Salsa, Trincee, p. 28.

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Giunge un altro ferito, portato a braccia, che si lamenta con una cantilena musulmana […]. Lo faccio posare a terra […] in breve, il posto dove è collocato si trasforma in una pozzanghera di sangue. Improvvisamente il ferito si leva sui gomiti faticando e urla “Se trovo chi grida ancora Viva la guerra! … “. […] “Viva la guerra!”. Deliria […] Il tenente colonello sbuca dalla trincea e s’accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia. “Viva la guerra!” grida ancora il morente. Poi d’un colpo s’accascia e resta lì di schianto. […] Il tenente colonello si inalbera e dice: “E’ morto da eroe, gridando viva la guerra”.47

Una situazione tragicomica, quella riportata in quest’ultimo passo,

che riflette in primo luogo il fallimento di qualsiasi interazione fra

le due anime della società, quella che comanda e quella che

esegue, e in secondo luogo una condanna trasversale alla guerra.

Quest’ultimo messaggio fuoriesce dalle pagine di Trincee e di

Storia di Tönle in maniera dirompente raggiungendo, in questa

maniera, appieno il proprio fine grazie ad una prosa, in entrambi

gli autori, asciutta senza sbavature retoriche, ad uno stile

semplice ma allo stesso tempo incisivo e all’introduzione di

formule vernacolari indispensabili per caratterizzare maggiormente

quella soggettività dei protagonisti che rappresentano degli

affidabili interlocutori capaci di raccontare con estremo realismo il

susseguirsi degli avvenimenti senza distorsioni viziose che ne

possano alterare il quadro. In altre parole, dall’alto, o dal basso,

della loro nomea di letterati d’occasione, Carlo Salsa48 e Mario

Rigoni Stern49 riescono con estremo successo nell’intento di

lasciare parlare i fatti.

47Ivi, p. 181-82.

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Se lo stile narrativo e il momentaneo capovolgimento del punto di

vista della Storia accomunano questi due autori, lo stesso non si

può dire per quanto riguarda quei temi di fronte ai quali le

disavventure comuni ma non condivise segnarono due diverse

visioni.

Un primo argomento consiste nella tematica del confine,

un’esperienza vissuta dai due protagonisti in maniera totalmente

antitetica. Infatti, da una parte Carlo Salsa si trovò impegnato in

prima persona al fronte, una dimensione che diventò in breve

tempo la sua casa dalla quale, anche in seguito alla guerra, non si

staccherà mai del tutto;50 dall’altra parte Tönle, una figura che

pare in eterna fuga dalla logica delle frontiere e dalle strutture

nazionali. Una libertà, quest’ultima, che poggiava su un bagaglio

culturale ed esperienziale più pesante e differente rispetto a

48In Trincee, i momenti descritti dal protagonista son molto “tipici”, nel senso che temi tra i quali la descrizione delle retrovie o quella delle aspettative degli ufficiali alla vigilia della guerra riprendono strutture già ampiamente utilizzate nei romanzi di guerra. La novità la si riscontra nel ripensamento di queste categorie, una riflessione che spesso si oppone a quella fin lì imposta. Anche per questo motivo Salsa verrà chiamato dal regista Mario Monicelli a supportare, con la sua esperienza, i sceneggiatori del film La grande guerra (1959). Cfr., F. Todero, Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee, pp. 138-39.

49Davanti alle opere di Mario Rigoni Stern la critica, quasi all’unanimità, lo reputa non uno scrittore di vocazione, ma di occasione poiché probabilmente non sarebbe stato capace di scrivere di cose che non gli fossero accadute. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 95.

50Successivamente alla guerra e al fascismo, Carlo Salsa verrà considerato all’unanimità l’esperto della prima guerra mondiale per eccellenza, un titolo ufficioso che gli permise di scrivere e condividere le sue sensazioni in molti articoli di giornale.

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quello portato sul Carso dal giovane sottotenente. Nonostante

questa differenza “anagrafica”, per utilizzare un termine inclusivo

di tutte quelle sfumature che hanno portato a maturare due

modelli di vita opposti, Salsa riconobbe attraverso il filtro della

sua disillusione come anche dall’altra parte del fronte ci fossero

persone, molti dei quali tra l’altro ex compagni di lavori nelle

maestranze stagionali compiute oltre le Alpi:

Cecchinare così a freddo, senza necessità immediata, cacciare l’uomo, attendere che si scopre per ghermirlo con una specie di gioia sanguinaria […]. Eppure anche quel tipo che affiora ogni tanto dietro lo spalto con la sua pala per ributtare la terra, sarà un povero cristo come noi. Lo avran tolto dalla sua greppia senza che sapesse niente,lo avranno infagottato nella divisa appioppandogli un fucile tra le mani, lo avran conficcato là in trincea […] con la consegna: ammazzare. E si ammazza così a freddo, perché tutto ciò che non giunge nella sfera della nostra vita pare che non esista […]. Se io sapessi qualcosa di quel poveraccio, se lo sentissi parlare una volta, se gli leggessi le lettere che tiene accartocciate sul cuore, solo allora mi parrebbe di compiere un delitto uccidendolo così.51

In ogni caso, lo scarto esperienziale e la differenza situazionale

sul quale si fonda la relazione fra Salsa e Tönle risulta

fondamentale anche per spiegare le posizioni assunte dai due

protagonisti di fronte agli altri due argomenti comuni rimasti: la

casa e la donna. Per quanto riguarda il primo tema, la casa viene

paragonata da Rigoni Stern alle radici verso le quali si faceva

ritorno ad ogni inverno per riscoprirne il caldo tepore. D’altro

canto, Carlo Salsa riporta il suo sentimento di astio nelle pagine

51C. Salsa, Trincee, p. 111.

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che descrivono una Milano piena di interventisti da scrivania e di

“imboscati”, una città che non rispecchiava più quella casa

costruita oramai dalla guerra laggiù in prima linea. Sempre

all’interno del microcosmo famigliare è possibile scorgere una

sfaccettatura tenuta nascosta inconsciamente: il ruolo della

donna, una figura che, nonostante sia relegata ai margini in

entrambe le testimonianze, ricopre tra le righe due funzioni

totalmente differenti. La moglie di Tönle, infatti, viene

rappresentata dall’autore come una venere di Willendorf, quella

forza creatrice che, come la casa e l’albero, s’impone come punto

di riferimento per tutto l’universo famigliare senza il quale (non a

caso la morte della moglie avvenne alla vigilia del conflitto) ci si

perderebbe nel caos.52 In Trincee, invece, non si riscontra niente

di tutto questo poiché la donna ha il compito di porre in berlina

una maturità sessuale ancora da raggiungere da parte del giovane

soldato, il quale si rende conto di come la guerra gli abbia fatto

perdere la giovinezza e inaridito qualsiasi sentimento53.

Un ultimo tema da esplorare è quello riguardante la prigionia,

un’esperienza condivisa non solo dai due protagonisti, ma anche

da Rigoni Stern durante la seconda guerra mondiale54. In questo

intreccio così fitto dove si è venuto ad inserire anche la

52La donna, in tutta la narrativa di Rigoni Stern, verrà posta sempre ai margini dei racconti con il compito, però, di incarnare la funzione espressa nel testo. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 93.

53Si vedano i discorsi intrattenuti da Salsa con la ragazza conosciuta a Milano, nel periodo di licenza, e la giovane straniera conosciuta una volta uscito di prigione, cfr., C. Salsa, Trincee, pp. 206-08 e pp. 249-53.

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soggettività di un terzo elemento, occorre fin da subito ricorrere

alla logica del conflitto, la quale imponeva un trattamento simile

fra i prigionieri civili che malauguratamente vivevano nelle zone di

confine e quelli in divisa. Quando venne scoperto nella propria

abitazione dagli austriaci il 9 giugno del 1916,55 Tönle Birtain fu

accompagnato al Petareitle, retrovia austriaca, poiché lo si

riteneva una spia. Era pratica comune, sia da parte del Regio

esercito italiano sia da parte di quello imperiale austriaco,

considerare coloro che vivevano nelle zone di operazioni dei veri e

propri traditori verso i quali, molte volte, si conducevano

internamenti extragiudiziali e sfollamenti coatti.56 A causa di

questo stereotipo, nonostante la veneranda età, Tönle venne

internato nel campo di concentramento di Katzenau senza più

niente (anche il gregge aveva dovuto cedere all’esercito) a parte

quell’orologio57 preso in Germania anni addietro dal quale non

riuscì a staccarsi neanche in cambio del tanto desiderato tabacco

54Venne catturato dai tedeschi l’8 settembre del 1943 e portato in un primo momento nel campo di concentramento di Innsbruck per poi essere trasferito numerose altre volte.

55Il 28 maggio gli austriaci occuparono anche asiago, altro obiettivo della “spedizione punitiva”.

56I soldati italiani li chiamavano spregiativamente “austriacanti”. Cfr., M. Ermacora, Guerra e genti di retrovia, p. 657.

57Nel quadrante del tabacco vi era raffigurato due operai al lavoro sopra i quali era incisa la scritta “otto ore di lavoro”. Si tratta di un altro riferimento autobiografico di Rigoni Stern, il quale effettivamente deteneva quel orologio. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 80.

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per la pipa. In questa situazione di monotona precarietà, il

periodo di prigionia, ci finì l’anno seguente anche Carlo Salsa in

seguito all’attacco fallito sul monte Ermada. “C’est la guerre”

disse un ufficiale austriaco stringendo la mano allo sfortunato

sottotenente, il quale fu immediatamente trasferito a

Sigmundsherberg dove erano rinchiusi altri ufficiali italiani

«superstiti delle più disperate mischie del Carso, quando si faceva

la guerra con i pugni e con i denti».58 In questa nuova esperienza

valse lo stesso obiettivo perseguito quotidianamente in trincea,

ossia non morire. Anche in questo caso la colpa dei molti decessi

all’interno del campo non era da attribuire agli austriaci, i quali

trattavano i prigionieri con rispetto al contrario di quanto

facessero con i disertori, ma bensì agli alti quadri dell’esercito

italiano incapaci di inviare provviste ai propri internati.

Un ultimo tema collega i due protagonisti che ci hanno

accompagnato lungo il costituirsi di questo contributo: il rientro a

casa. I due riuscirono ad uscire dalla prigione grazie ad uno

scambio di prigionieri, nel caso di Tönle, o al sopraggiungere della

fine della guerra, nel caso di Salsa. In ogni modo il rientro non fu

felice perché era inevitabile che non lo fosse dopo la catastrofe

causata dal conflitto: l’asiaghese senza confini prima di morire si

abbandonò ai propri ricordi piuttosto che soffermarsi su una realtà

che non riconosceva più; Carlo Salsa, invece, una volta giunto a

Padova, dopo aver abbracciato i compagni di viaggio al grido ‘viva

l’Italia’, si vide negato dalle baionette di altri soldati di scendere

dal treno.

58C. Salsa, Trincee, p. 224.

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BIBLIOGRAFIA

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