arte[spazio]parola, Vol. 2015, n. 5 (Ottobre 2015 – Marzo 2016)
LA DOPPIA VESTE CHE UNISCE.
STORIE DAL BASSO DI UN CIVILE E DI UN FANTE
DURANTE LA GRANDE GUERRA1
Marco Donadon
Questo contributo mira a raccontare le storie di due vittime della
Grande Guerra: il fante semplice e il civile. Si tratta di due figure
che solitamente non ebbero voce in capitolo né durante il primo
conflitto mondiale né successivamente in campo storiografico. Si
cominciò a dare maggiore spazio questi soggetti storici solo egli
ultimi 30 anni anche grazie all’analisi di testi letterari come le
lettere dal fronte, i diari di guerra o i romanzi biografici pubblicati
successivamente al 1918. Proprio su due romanzi s’incentra
questo contributo il quale, attraverso l’analisi comparata delle
opere Trincee. Confidenze di un fante (1924) di Carlo Salsa e
Storia di Tönle (1978) di Mario Rigoni Stern, si prefigge di
raccontare molti aspetti del fronte italiano con un filtro soggettivo
proveniente dal basso.
The contribution aims to tell the stories of two victims of the
World War I: the foot soldier and the civilian. These are two
figures that usually had not an important role neither during the
1 Ricevuto: 26/12/2015 – Accettato: 14/1/2016Marco Donadon, Dept. Of Humanities, Ca' Foscari University of Venice, [email protected]
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World War I or later in the history studies. The historiography
gave attention to these historical subjects only in the last 30
years, thanks to the analysis of literary texts such as letters from
the front, war diaries or biographical novels published after 1918.
This contribution is based on the comparative analysis of two
novels: Trincee. Confidenze di un fante (1924) by Carlo Salsa and
Storia di Tönle (1978) by Mario Rigoni Stern and it aims to tell
several aspects of the Italian front, with a subjective perspective
from grassroots.
Introduzione
Come gran parte della storiografia sostiene, la Grande Guerra
rappresentò un punto di cesura nella Storia, una vera e propria
periodizzazione, come ci indica Hobsbawn nel Il Secolo breve, di
un futuro prossimo già in partenza segnato, nel quale molti degli
equilibri sociali sui quali si poggiava gran parte dell’umanità
vennero sovvertiti o in ogni caso portati ad una condizione di
estrema tensione. Per caratterizzare un evento di tale portata,
infatti, da sempre si è soliti nominare la prima guerra mondiale
come una guerra “totale”, un termine che descrive non una
dimensione compatta bensì un insieme di aspetti inediti in grado
di coinvolgere l’intera realtà. Fra questi occorre, ai fini del nostro
contributo, ricordane due: la guerra di massa e il fronte interno.
Per quanto riguarda la prima specificità, ci si riferisce alla
composizione sociale dell’esercito. Ad entrare nelle trincee, infatti,
furono membri delle classi più disparate, un’eterogeneità sociale
che mise in evidenza una vera e propria discrasia fra la
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soggettività della truppa e la visione anacronistica dell’esercito
stesso improntata dagli alti quadri della società, volta a far
coincidere la figura del soldato semplice con quella del contadino.
In questo senso, traendo origine da un processo di mistificazione
portato avanti sin dal tempo delle prime migrazioni verso l’estero,
vennero accentuati i caratteri arcadici del contadino in modo tale
da poter identificare il proletariato rurale con un «atteggiamento
di quieta, assoluta, fatalistica subordinazione».2
Una sovrapposizione estremamente tendenziosa poiché,
propagandando incessantemente il mito della subordinazione
contadina, si voleva da un lato porre in ombra quel proletariato
urbano etichettato, anche in questo caso su basi stereotipate e
mitizzate, come un agente corrosivo e eversivo all’interno della
società, e dall’altro sottolineare come l’esercito italiano fosse una
struttura organicamente compatta e pronta ad eseguire gli ordini3.
La seconda sfaccettatura della guerra “totale” della quale ci
serviamo in questo contributo, il fronte interno, ci introduce ad un
tema peculiare del primo conflitto mondiale: il coinvolgimento
della popolazione civile, una parte della società che fino ad allora
2M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, 2007, p. 325. In questi termini la figura del contadino viene raffigurata in tonalità idealizzanti che sottacciano una suddivisione più complessa. Basti pensare le divisioni fra fittavoli, mezzadri e braccianti.
3Un altro metodo utilizzato dalla propaganda di guerra per indebolire ancor più la classe operaia e per esacerbare la divisione fra il soldato-contadino e l’operaio, fu l’introduzione del termine “imboscato” per delineare colui che lavorava nella “sicura” fabbrica invece di combattere al fronte; cfr., M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, pp. 325-27.
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mai aveva ricoperto un ruolo centrale all’interno di una logica di
guerra che dal 1914 cominciò a militarizzare luoghi di lavoro ed
interi territori. Oltre alla conversione industriale per fini bellici e al
conseguente disciplinamento in senso militare di molti operai ed
operaie, gli agglomerati urbani ubicati nelle zone liminali o di
retrovia rispetto alle trincee subirono un mutamento fisico e
sociale poiché diventarono aree militari a tutti gli effetti nelle quali
era permesso lo scorrazzamento a più riprese di battaglioni di
soldati nazionali e alleati stranieri. Inoltre le esigenze belliche
provocheranno trasferimenti di ingenti flussi di profughi
provenienti dalle aree di confine, uno sradicamento forzato dalla
propria terra che condurrà queste popolazioni ad inserirsi in realtà
totalmente differenti.4
In ogni caso la guerra di massa e il fronte interno rappresentano
soltanto delle tendenze generali utili a contestualizzare le due
storie trattate in questo contributo, quella personale di Carlo
Salsa in Trincee. Confidenze di un fante e quella di Tönle Birtain,
per mano di Mario Rigoni Stern, in Storia di Tönle; due
testimonianze in grado di portare alla luce delle realtà
estremamente complesse e sconosciute attraverso un punto di
vista sulla Storia proveniente dal basso, da chi in altre parole subì
maggiormente l’incedere del conflitto: la vittima senza divisa. Si è
voluto allargare il significato di questa espressione al fine di
comprendere tutte quelle storie personali che per qualche ragione
4Cfr., M. Isnenghi, La grande guerra, 1995, pp. 64-67. Nonostante non portassero la divisa, si conteranno al termine della guerra circa 300.000 civili tra feriti e morti, cfr., M. T Caprile – F. De Nicola, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra, 2014, p. 201.
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sono state dimenticate oppure che non hanno avuto un adeguato
spazio nella memoria storica e storiografica successiva alla prima
guerra mondiale. Ne è un esempio la figura del fante.
Carlo Salsa e la sua testimonianza proveniente dal fango
Il nome di Carlo Salsa (1893 Milano - 1962 Milano)5 nel panorama
letterario italiano compreso fra le due guerre non ricopre una
posizione di rilievo in grado di avvicinarsi alla notorietà di
“scrittori in trincea” ben più conclamati.6 Parte del merito, o del
demerito a seconda dei punti di vista, lo si può attribuire al fatto
che la sua opera più nota, per l’appunto Trincee. Confidenze di un
fante, destò sdegno rispetto ai suoi contemporanei poiché quando
venne pubblicato per la prima volta nel 1924, per la casa editrice
Sonzogno, i tempi non erano ancora maturi per una versione di
una guerra, ancora fresca nella memoria, che demistificasse e
infrangesse quella retorica trionfalistica e sciovinista di
derivazione tardo-risorgimentale, ripresa anche dal fascismo, che
raccontava la prima guerra mondiale con toni enfatici e
celebrativi. Un paradigma culturale, quello interventista, che
appassionava anche il cuore dello stesso autore e protagonista di
Trincee alla vigilia di sopraggiungere al fronte, quel luogo nel
5Iniziò a scrivere novelle e poesie fin da giovanissimo per riviste come “L’Oceano” e “Gazzetta del popolo”.
6Basti pensare ad esempio a scrittori come Giovanni Commisso, Giuseppe Antonio Borgese e Gianni Stuparich nelle loro opere sul Carso.
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quale moltissimi giovani arruolati nel Regio esercito sognavano di
rendere la propria generazione eroica:
Non abbiamo ancora un senso netto di ciò che ci attende: abbiamo vissuto fin qui la vita mediocre, tra un impeto ed uno sbadiglio […]. Abbiamo ancora l’anima ingombra di romanticherie e di letteratura, di cose dei buoni tempi, raccontate dai nonni o frugate nei libri polverosi del solaio: baruffe eroiche, inni, bandiere, fanfare, ritorni col braccio al collo e la medaglia sul cuore, sventolii di fazzoletti, belle ragazze protese a finestre gocciolanti di gerani. Ed ora la nostra natura s’inebria di libertà.7
Nessuna ragazza stette ad aspettare i soldati e nessuna libertà
invase il loro cuore. La guerra si rivelò qualcosa di totalmente
differente, qualcosa che strideva con le moltissime storie
pubblicate nel primo dopoguerra e con i moltissimi culti agli eroi
caduti che riempivano di cenotafi le piazze di ogni paese. Di
fronte a questo processo di revisionismo storico, Carlo Salsa si
decise di pubblicare il suo “libretto” per raccontare la verità, una
missione proposta fin dall’Introduzione:
D’altra parte, è utile che si sappia da tutti cos’è la guerra. Abbiamo visto che una guerra non si fa per ragioni idealistiche. Gli idealismi servono soprattutto a guadagnare delle alleanze e a cacciare innanzi i soldati.8
7C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, 2015, p. 26. Questo slancio “romantico” è imputabile, molto probabilmente, al contesto famigliare nel quale Salsa visse. Infatti la sua famiglia rappresentava uno dei lignaggi più importanti nel periodo risorgimentale.
8Ivi, p. 16.
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Come è possibile intuire dal passo appena riportato, Trincee
riesce a farci «vivere la prima guerra mondiale»9 per utilizzare
l’espressione utilizzata dallo scrittore milanese Luigi Santucci
(1918-1999) nella prefazione alla prima edizione Mursia (1982),
lasciando che l’orrore e lo sgomento, di cui ogni singola pagina è
intrisa, invadano la nostra mente in ricostruzioni infernali. Una
novità e un attacco eversivo innocente (Salsa non mostrò mai
grande dissenso nei confronti del fascismo) derivanti da una
narrativa asciutta, incisiva, rapsodica e senza retorica che non
lascia spazio alla commiserazione.10 Per queste caratteristiche
Carlo Salsa verrà definito lo scrittore “anti-eroe”, cioè colui che
tramite la sua testimonianza personale ci ha consegnato una
visione della guerra antitetica rispetto a quella riportata da altri
scrittori troppo spesso influenzati dalla loro stessa cultura elitaria
e romantica oppure dalla censura fascista.
In ogni modo, il romanzo, se così può essere classificato, racconta
l’esperienza al fronte dello stesso Salsa, un sottotenente di
completamento chiamato sul Carso nel novembre del 1915. La
storia parte da una Palmanova militarizzata che, come gran parte
delle retrovie, era teatro d’incontro fra coloro pronti per partire in
direzione del fronte e chi da quest’ultimo tornava. Si tratta di un
primo assaggio di ciò che li aspetterà, di un’ombra su dei sorrisi
9L. Santucci, Trincee, p. V.
10Cfr., F. Todero, “Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee”, in F. Senardi (ed.), Scrittori in trincea. La letteratura e la grande guerra, 2008, pp. 137-38.
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ancora sfavillanti: Salsa con alcuni suoi amici sottotenenti
s’imbatterono, nello stesso tavolo di una trattoria, in un ufficiale
bendato intento a masticare lentamente «senza sorridere del loro
riso, senza animarsi mai, senza intendere».11 Sembrerebbe un
incontro profetico, uno specchio capace di riflettere un futuro
terribile di ciò che sarebbero diventati i ragazzi, i quali poco a
poco cominciarono a smorzare le loro risa finendo per tacere
davanti a questo fantasma proveniente dal fronte. Come è
possibile desumere, si prospetta fin dall’inizio uno dei fili rossi del
racconto: il senso di morte che pervase ogni luogo percorso e
ogni persona incontrata dall’autore, una sensazione sinistra che si
svelerà totalmente una volta giunti al fronte.
Dopo Palmanova, la marcia di avvicinamento alle trincee proseguì
per Chiopris dove «non passano, di qui, che combattenti. Tornano
dal fronte interminabili carovane di fanti imbottiti di cenci,
inzaccherati, sfiniti, come dinastie di zingari».12 In attesa di un
ordine che indicasse quale fosse la destinazione definitiva da
raggiungere, il gruppo di amici sottotenenti si diresse verso
Sdraussina, ultima terra sicura prima delle trincee del San Michele
da dove sarebbe sceso, all’indomani, il battaglione al quale
sarebbero stati assegnati. Nonostante la vicinanza permettesse di
osservare ad occhio nudo la prossima destinazione, a velare lo
sguardo da quel teatro di morte ci si mise la nebbia. Si giunse
così al fronte, un luogo che «i racconti creano nello spirito
11C. Salsa, Trincee, p. 21. Corsivo mio.
12Ivi, p. 27.
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un’atmosfera di fiaba. L’infinito parlottare di soldati rivela e
nasconde, oscuramente, qualcosa di tragico, che nessuno sa
misurare ed esprimere»,13 di notte per non essere visti dai
cecchini austriaci. Subito, dai primi passi mossi nei collegamenti
s’intuisce come lo stesso protagonista, in questo nuovo contesto
dove i vivi dormivano sui morti, si faccia già più tetro e
indifferente davanti alle prime notizie sul numero dei primi caduti
del proprio plotone: «la contabilità è abolita per ora: conteremo
quando torneremo giù […] quelli che non rispondono all’appello,
son morti; pace all’anima loro».14 L’impatto, dunque, con la nuova
realtà fu devastante. I giorni non passavano mai poiché i soldati
semplici erano «dannati all’immobilità»15 in quei budelli poco
profondi, le trincee, nelle quali ogni minimo movimento veniva
puntualmente punito dai formidabili cecchini austriaci, sempre
pronti a colpire strategicamente le corvée destinate alle prime
linee, quasi come se «gli austriaci sentissero l’odore di barbera»,16
il vino che poche volte, insieme al pane e altre varietà di cibo,
arrivava a destinazione.
Proprio il San Michele rappresenta l’essenza della testimonianza
del sottotenente di completamento, il capitolo dell’esperienza
13Ivi, p. 41.
14Ivi, p. 51
15Ivi, p. 58
16Ivi, p. 59. Corsivo mio.
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bellica d’impatto maggiore, quello che infranse qualsiasi sogno di
gloria di Salsa catapultandolo in un mondo nel quale non esisteva
alcuna differenza fra la vita e la morte, abrogando di fatto
qualsiasi ritualità funebre:
E su, più in alto, tra i morti insepolti, i sepolti vivi: le nostre buche imbottite di fanti, minuscole ampolle di vita in quel cimitero senza nome […]. Durante tutto il giorno nessuno può muoversi: si cerca di sonnecchiare nelle ore di calma il budello che sale sembra il corridoio di un museo di mummie e di cariatidi.17
Questo passo appena riportato coglie appieno l’amarezza di Salsa
nel constatare lo scarto sussistente fra le aspettative, e le
speranze, della vigilia e la terribile realtà nella quale dovette
sopravvivere; una nozione di scarto, quindi, che si traduce in quel
sentimento chiamato da Eric Leed, nella sua opera Terra di
Nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima
guerra mondiale (Il Mulino, Bologna 1985), «disillusione».18 Se da
un lato questa presa di coscienza si tramutò in un atteggiamento
di rassegnazione; dall’altro dipanò la realtà dalle perduranti
menzogne costruite dalla stampa e dalla censura, rischiarando sui
disequilibri dei rapporti in trincea e sulle ingiustizie che si
perpetuarono in essi, come confessa un fante al sottotenente:
17Ivi, p. 67.
18Cfr., F. Todero, Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee, p. 136-37.
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Morire! Morire non conta: si sa che una volta o l’altra la pelle bisognerà rimettercela, no? Ma quello che avvilisce, che demoralizza, che abbatte è di veder morire così, inutilmente, senza scopo. Oh, non si muore per la patria, così; si muore per l’imbecillità di certi ordini e la vigliaccheria di certi comandanti.19
Un’invettiva diretta agli alti quadri dell’esercito che ci introduce ad
un altro filo rosso dell’opera: la critica incessante e il disprezzo
rivolto, per bocca dello stesso Salsa o delegata ai borbottamenti
della truppa, alle decisioni scellerate e senza alcun senso prese
dai comandanti, coloro che al fronte non si vedevano mai e in
ogni caso fecero incetta di medaglie al valore. Infatti,
identificandosi con la truppa, l’autore ci propone un punto di vista
particolare capace di cogliere l’umore, i pensieri e i profili di chi
dovette sopportare ogni giorno le strategie matematiche
provenienti dall’alto. Anche se nel biennio 1915-1916 si trattava
ancora di un’insubordinazione silenziosa e controllabile, iniziò a
intravedersi ed a delinearsi quello che Isnenghi definisce
«l’enuclearsi d’una identità collettiva che si allontana da quella
tradizionale caratterizzata dalla passiva sopportazione» nelle
masse militari stimolata dalla «disgiunzione tra truppe e ufficiali,
da capitano in su».20 Un processo di distaccamento, dunque,
analizzato e messo in evidenza in tutto il decorso di Trincee: sia
dalle «esercitazioni quotidiane di sfottimento»21 a San Martino del
Carso, per passare agli estenuanti lavori inutili di rinforzo delle
19C. Salsa, Trincee, pp. 62-63.
20M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, p. 351.
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trincee a Santa Maria e le fucilazioni per codardia volute da «quei
signori che giudicano e condannano […] tra un banchetto e una
critica strategica al caffe»22 nel Merzli, fino a quegli accesi
interventisti rimasti dietro le scrivanie a Milano, un’oasi di pace
vissuta con astio da Salsa come vedremo successivamente. Dopo
il ritorno repentino dalla licenza, Salsa venne inviato ancora una
volta sul Carso, a Jamiano, da dove si sarebbe condotta
un’offensiva per prendere le trincee austriache poste sull’Hermada
(Monte Ermada): il suo battaglione avrebbe dovuto partecipare
alla prima ondata. Nonostante «sulle carte topografiche le
offensive si conducano fermamente a buon punto»,23 l’azione fu
un fallimento e il sottotenente cadde prigioniero nel maggio del
1917. Da qui comincia un’altra storia, un’esperienza vissuta anche
da un’altra vittima bianca di questo conflitto: Tönle Birtain.
La fragilità dell’immutabile nella prosa di Mario Rigoni Stern
Come per Trincee, anche il romanzo Storia di Tönle, pubblicato
nel 1978 per Einaudi, deve essere ritenuto il racconto di una
testimonianza personale. L’unica differenza tra le due opere
sussiste nel fatto che l’autore, Mario Rigoni Stern (1921 Asiago –
2008 Asiago), in quest’opera non ha riportato la sua storia
personale, anche se molti sono i riferimenti autobiografici, bensì
21C. Salsa, Trincee, p. 107.
22Ivi, p. 194.
23Ivi, p. 217
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la vita del contadino originario dell’Altopiano di Asiago le cui
vicissitudini colgono e giudicano, in un processo induttivo, i
macroeventi storici che si susseguirono dall’annessione del Veneto
all’Italia dopo la fine della terza guerra d’indipendenza fino alle
soglie della conclusione della Grande Guerra. Una visione della
Storia (con la s maiuscola) che risente, quindi, della soggettività
dello stesso protagonista; un filtro utile a Rigoni Stern per far
conoscere ai lettori la memoria di una subcultura comunitaria e
contadina estintasi in seguito alla guerra. Per raggiungere questo
obiettivo, l’autore ha compiuto una vera e propria «operazione di
archeologia sociale e linguistica»24 appoggiandosi ad alcune
testimonianze orali tramandate di generazione in generazione e ai
documenti consultati negli archivi e nelle biblioteche.25 Un
percorso a ritroso che ha condotto Rigoni Stern alla riscoperta
della storia della propria terra, della propria lingua (il dialetto
cimbro) e della propria tradizione ricavandone un romanzo
antropologico originale quanto mai vicino al reale e in grado di
toccare quei temi tipici della bibliografia dello scrittore asiaghese.
Tra questi vi è sicuramente la riflessione sul rapporto inestricabile
fra la casa e la terra, un punto di riferimento per l’uomo senza il
quale si smarrirebbe perché senza radici solide non si può vivere.
Un monito che l’autore ingegnosamente riporta fin dall’inizio del
racconto:
24M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, 1985, p. 83.
25Cfr., Ivi, p. 82-83. Rigoni Stern viene a conoscenza di Tönle grazie all’incontro fortuito avuto con il nipote del contadino, un manovale che stava costruendo la casa dello scrittore durante i primi anni ’70.
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La sua casa aveva un albero sul tetto: un ciliegio selvaggio. Il nocciolo dal quale era nato l’aveva posato lassù un tordo sassello tanti anni prima espellendolo in volo e l’umore di una primavera l’aveva fatto germogliare perché un suo avo, per difendere l’abitazione dalla pioggia e dalle nevi, aveva steso sopra la copertura altra paglia, sicché quella sotto era diventata humus e quasi zolla. Così il ciliegio era cresciuto [...] d’autunno il rosso pastello delle foglie si notava anche dalla cima del Moor, come un orifiamma che ingentiliva e distingueva tra le altre la povera casa.26
Per poi riprenderlo alla fine quando Tönle, appoggiato al tronco di
un ulivo, spirò:
Si sedette sotto un ulivo, ricaricò l’orologio […]; accese la pipa, si appoggiò al tronco dicendo a voce alta “Sembra una giornata di primavera” e si ricordò quella di tanti anni prima quando dal margine del bosco aspettava che l’ombra della notte facesse svanire il ciliegio sul tetto per rientrare a casa.27
La consequenzialità dei due passi è fondamentale per capire come
quel legame così viscerale e quell’equilibro apparentemente
immutabile fra l’identità della persona (la casa) e la sua cultura
(terra) si fosse rotto, sepolto in seguito all’omicidio culturale il cui
mandate ha un solo nome: la guerra. Per comprendere, però,
come il conflitto sconvolse il paesaggio “fisico” e “mentale” delle
26M. Rigoni Stern, Storia di Tönle – L’anno della vittoria, 2014, p. 5. La figura dell’albero (il ciliegio in questo caso) rappresenta un’immagine onnipresente nella narrativa di Rigoni Stern. Si pensi al tiglio nel racconto Vecchia America (1960), l’unico elemento rimasto immutato al ritorno dei due emigranti.
27 Ivi, pp. 106-07.
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retrovie, occorre fare un passo indietro descrivendo le dinamiche
e le fondamenta su le quali poggiava gran parte della cultura delle
popolazioni ubicate nelle zone montuose. Un passo a ritroso
inevitabile, che lo stesso Rigoni Stern compie partendo
volutamente da un evento simbolico, capace di documentare
come l’irrigidimento dei confini settentrionali, dopo la terza guerra
d’indipendenza, erose fin da subito una delle consuetudini proprie
delle comunità pedemontane: l’istinto di migrare.28 Solo in questo
senso si può capire la scelta, da parte dell’autore, di collocare la
colluttazione avvenuta fra Tönle e la regia guardia di finanza
mentre il contadino, come ogni settimana, scendeva dal Platabech
con della merce contrabbandata oltre al confine. Un commercio,
quest’ultimo, da sempre tollerato e che nel 1966 iniziò ad essere
considerato reato. In ogni caso, Tönle riuscì a sfuggire, colpendo
involontariamente la testa della guardia, e a correre verso casa
per spiegare l’accaduto alla moglie, al padre e al figlio maggiore
Petar prima di nascondersi nel bosco in attesa di notizie. Il giorno
seguente la moglie si recò dall’avvocato del paese, Bischofar,29
sperando di risolvere in qualche maniera la faccenda, ma
l’avvocato le consigliò di far si che suo marito, per non passare
28Solitamente le migrazioni temporanee che interessavano le popolazione dell’alto vicentino, l’altro trevigiano e il bellunese da metà Settecento vengono chiamate “randagie” per sottolineare il carattere autonomo e consuetudinario di questo fenomeno.
29La figura dell’avvocato Bischofar rappresenta il primo di una serie di cenni autobiografici inseriti dall’autore. Infatti, l’avvocato era il bisnonno di Rigoni Stern e la bambina che ad un certo punto entra nel suo studio è la madre. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, pp. 80-81.
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cinque anni in prigione, si fosse dato alla macchia per qualche
tempo in attesa di qualche tipo di amnistia. Cominciò da qui un
lungo periodo di peregrinazione per Tönle che lo portò in Austria,
in Germania, in Ungheria e in Cecoslovacchia. Per guadagnarsi da
vivere, per sé e per la sua famiglia, s’ingegnò in mille lavori: dal
venditore ambulante di stampe nelle fiere e nei mercati, al
boscaiolo, al custode di cavalli in Ungheria fino ad essere anche
assunto come giardiniere nel castello di Hradcany a Praga. Il
girovagare per l’Europa servì a Tönle per «conoscere gusti e
tradizioni, e proporre gli acquisti ai singoli clienti secondo il sesso
e l’età, la fede religiosa, il mestiere esercitato e le passioni»,30
un’esperienza antropologica esercitata sul campo che marcò
ancor più quella dimensione internazionalista del contadino
insofferente ad ogni privatizzazione ambientale e mentale; un
«comunismo innato primitivo»,31 per utilizzare l’espressione di
Michele Buzzi, influenzato dalle prime idee socialiste circolanti in
Europa e apprese da Tönle in Germania nel 1890 quando lavorava
nelle miniere di Hayngen, un bagaglio ideologico trasportato dal
migrante al suo paese natale.
La libertà di pensiero di Tönle, però, si innestava su uno sfondo
culturale intimamente radicato. Come il ciliegio fioriva e si
mostrava come un’orifiamma durante i mesi più caldi per poi
riposarsi con l’arrivo del freddo, anche il protagonista del racconto
ai primi fiocchi di neve tornava a casa sua spinto da una forte
30M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 15.
31M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 81
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nostalgia per la famiglia e per le abitudini del paese alle quali
poteva aggregarsi facendo attenzione a non essere visto da
nessuno tranne che dai propri affetti famigliari. A questa vita
precaria si pose fine nel 1904, quando un’amnistia, concessa dal
re Vittorio Emanuele III per celebrare la nascita del principe
ereditario (il futuro Umberto II), permise a Tönle di restare ad
Asiago; ma ormai era vecchio per viaggiare anche se non troppo
per continuare a lavorare e con i risparmi di una vita, infatti, si
comprò un gregge con il quale passava intere giornate fra i
pascoli comuni. In quello stesso anno tre dei suoi figli
parteciparono ai lavori, indetti dal Genio militare, di costruzione e
restauro delle fortificazioni che lo Stato italiano, così come
l’Impero dall’altra parte del confine, stava allestendo.32 Una prima
avvertenza del clima di tensione che via via si stava forgiando;
una polveriera che esplose il 28 giugno 1914 con le «prime
pistolettate di Sarajevo», una notizia che «a Tönle la portò un
carbonaio più di un mese dopo il fatto»33 quasi come l’eco di
questa informazione non volesse arrivare all’orecchio del
contadino senza frontiere il quale, dall’alto della sua esperienza,
preannunciò uno scenario apocalittico allo stesso carbonaio:
32I lavori di costruzione si concentrarono sulla caserma difensiva dell’Hinterknotto e sulle fortificazioni del Rasta e della Laita, quelli di restauro intervennero sui grandi forti del Lisser, del Verena e del Campolongo. Per compiere questi lavori venivano convogliati coloro che solitamente emigravano stagionalmente. Per una approfondimento cfr., M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Il Mulino, Bologna 2005.
33M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 40.
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Sarà l’Austria-Ungheria che avrà dichiarato guerra alla Serbia, e così la Russia per la questione balcanica avrà dichiarato guerra all’Austria-Ungheria; allora la Germania farà guerra alla Russia e la Francia alla Germania.34
Una conoscenza basica degli equilibri geopolitici europei che gli
permise di osservare il susseguirsi degli accadimenti in un vasto
panorama storico e di cogliere dei segnali premonitori su quale
sarebbe stata la scelta dell’Italia una volta che fosse uscita dalla
neutralità: attaccare l’Impero Austro-Ungarico. Già all’indomani
dell’inizio delle ostilità Tönle, durante i suoi lunghi pascoli, si
accorse che a compiere delle esercitazioni sulle sue montagne
non c’erano solo gli alpini del battaglione Bassano, tra cui i suoi
figli Petar e Matio, ma anche contingenti di “napoletani” (un
termine con il quale si definiva tutti coloro che provenivano dalla
Toscana in giù) i quali con il loro stanziamento cominciarono a
modificare il carattere fisico e comunitario di quella terra:
Ai margini dei boschi sorgevano accampamenti, fumavano cucine da campo […]. Ma a fare legna o a lavorare nei campetti le donne e le ragazze andavano sempre in gruppo perché, dicevano, i soldati napoletani erano piuttosto aggressivi. Ma è anche vero che tutto il mondo è paese e così c’erano pure alcune che, di sera, gli accampamenti andavano a cercarli. Giravano anche molti soldi […], si era creata un’euforia generale, sicchè le osterie, gli alberghi con suoneria elettrica, il cinema teatro Eden erano sempre affollati.35
34Ivi, pp. 40-41.
35Ivi, p. 42. Corsivo mio.
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Fu una scossa elettrica, la guerra, che pervase ogni singola fibra
del tessuto sociale del paese travolgendo ogni singola tradizione e
morale in vigore, e catalizzando su di sé tutta l’attenzione
attraverso la circolazione frenetica di notizie sugli sviluppi bellici.
Questa fibrillazione salì a livelli vertiginosi alla vigilia dell’entrata
in guerra dell’Italia nella primavera del 1915; un’azione che
sarebbe servita, secondo i giornali, a liberare i fratelli italiani di
Trento e Trieste che si trovavano al di là di quelle montagne verso
le quali Tönle rivolgeva ogni giorno il proprio sguardo sperando di
cogliere il motivo di un tale spargimento di sangue per delle
lingue di terra che come l’acqua e l’aria dovrebbero essere libere
perché per lui e per quelli come lui, «non erano poi tanto pochi
come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli uomini, i
confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o
gendarmi da evitare».36
L’attesa era finita. In seguito alla deposizione della dichiarazione
di guerra da parte dell’ambasciatore del re Vittorio Emanuele III
alla cancelleria dell’imperatore Francesco Giuseppe, nella notte
del 23 maggio del 1915 il tenente generale Pasquale Oro,37 al
quale venne affidato il comando della 34a Divisione degli alpini,
inviò un proclama a tutta la popolazione dell’Altopiano nel quale
chiese che da quel preciso momento fosse data totale
collaborazione all’esercito. In quella stessa notte la gente restò
sulla strada cercando di intravedere i primi bagliori bellici tra le
36Ivi, p. 59.
37Pasquale Oro (1849 – 1924).
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montagne che rischiararono il cielo a mezzanotte col primo colpo
di cannone sparato dal Forte Verena; dopodiché tutti rientrarono a
casa «rinchiudendo le porte, anche se era usanza nella loro
piccola patria che le porte restassero aperte».38
Da quel momento l’altopiano di Asiago diventò a tutti gli effetti
una “zona di guerra”: il territorio venne diviso in “zone di
operazioni”, dove sostanzialmente erano state scavate le trincee,
e “zona di retrovia”, una fascia di terra profonda 10-40 km che
accoglieva le truppe a riposo, i servizi logistici e quelli sanitari. In
altre parole, il paese nella quale si trovava la casa con il ciliegio
sul tetto fu costretto a sottostare ad un potente processo di
militarizzazione del quale gli aspetti maggiormente evidenti
furono la mobilitazione di soldati ed “operai borghesi”, «civili
militarizzati reclutati nelle regioni centro-meridionali, per eseguire
lavori logistici al fronte»,39 l’ampliamento delle infrastrutture
legate alla viabilità ferroviaria, fluviale e stradale che andarono a
modificare gli equilibri e la conformazione delle aree montane e,
infine, l’applicazione in queste zone della legislazione militare la
quale dispose direttive, come l’introduzione del coprifuoco ad
esempio, e divieti, come quelli di riunione, che regolarono la
mobilità interna incidendo fortemente sulla quotidianità delle
persone.40 In questo perpetuarsi della guerra totale anche
all’interno delle consuete dinamiche sociali, l’unico che poteva
38Ivi, p. 54. Corsivo mio.
39M. Ermacora, “Guerra e genti di retrovia”, in M. Isnenghi - D. Ceschin (eds.), La Grande Guerra, vol. 2, 2008, p. 656.
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ancora ritenersi al di fuori di questa situazione fu proprio Tönle
perchè non poteva, per anzianità, essere richiamato alle armi
(curiosamente prima del 1966 era stato soldato scelto nella
landwerh, in Boemia, ai comandi del maggiore di origini italiane
von Fabini e, con il cambio del governo, aveva marciato agli ordini
del colonnello del Regio esercito italiano di origini austriache
Heusch cavalier Nicola) oppure essere ingaggiato come operaio al
fronte. Pertanto, con due figli alpini e gli altri tre emigrati in
America, dovette incaricarsi dell’onere di curare il gregge da solo
per poter sfamare i suoi nipotini e la madre di quest’ultimi.
In seguito all’attacco austriaco condotto dal generale Conrad41 il
15 maggio del 1916, la cosidetta Strafexpedition,42 la sua famiglia
e l’intera popolazione dell’Altopiano fu costretta a trasferirsi in
pianura. Nonostante la gravità della situazione, l’invernatore (la
traduzione italiano del termine cimbrico Birtain) decise, dopo aver
caricato i membri della sua famiglia sui carretti messi a
disposizione per il trasferimento dei profughi, di rimanere a casa
con le sue pecore opportunamente nascoste in una zona boschiva
conosciuta solo dagli ex contrabbandieri. Ora più che mai a Tönle
«toccava di partecipare alla solitudine» in quel paese vuoto e
abbandonato anche dai sacrifici degli antenati e dal lento tempo
contadino:
40Cfr., Ivi, p. 656-58.
41Franz Conrad von Hötzendorf (1852 – 1925).
42Per una sintesi si veda L. Malatesta, Altipiani di fuoco. La Strafexpedition austriaca del maggio – giugno 1916, Istrit, Treviso, 2009.
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Nel pomeriggio Tönle uscì in una radura - di notte dormiva tra i boschi per non farsi scoprire dai carabinieri in cerca degli ultimi profughi - e vide laggiù che anche il campanile bruciava. Forse una bomba incendiaria aveva colpito la cella campanaria […], allora con rabbia e accoramento gridò: Alle Inzòart! Tutto è finito. E si mise a battere con il bastone contro un cespuglio. Quando si calmò ritornò a guardare il campanile ricordando come tanti anni prima anche sua madre e sua nonna avessero dato i loro orecchini d’oro per farli fondere nel bronzo delle campane.43
Un profondo scoramento pervase il protagonista, ma, nonostante
la perdita di alcuni tra i suoi più importanti punti di riferimento,
reagì dimostrando ancora una volta una forza vetusta ed
incrollabile: si pose come il custode del suo paese, del quale
desiderava conservare una parvenza di normalità, e come simbolo
di “una vita pacifica contro la violenza” in una condanna viscerale
alla guerra le cui logiche risultavano completamente sorde a
questa resistenza ultima di un vecchio che mai aveva chiesto di
essere italiano o austriaco, ma al quale bastava solo la terra.
Come preannunciato nella sezione dedicata a Trincee, anche
Tönle subì l’esperienza della prigionia prima di ritornare
sull’Altopiano dove scoprì di aver perso anche l’ultima memoria: il
ciliegio.
Il sottotenente si fece spiegare bene qual era la sua casa e gli puntò sopra il periscopio invitandolo a guardare attraverso gli oculari. Subito Tönle vide che non c’era un ciliegio sul tetto, e nemmeno un tetto, e i muri sbrecciati e anneriti, e l’orto sul davanti sconvolto da profonde
43M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, p. 69.
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buche che in superficie al posto della terra nera e grassa avevano riportato i sassi bianchi come ossa. 44
Ma come in Trincee la guerra non ha sentimenti, sono le fredde
logiche matematiche a guidarla:
Il sottotenente che osservava con il binocolo vide le quattro nuvolette e i soldati e con un bracciò scostò il vecchio, si chinò al telefono, chiamò il comando di batteria, diede i dati di tiro. Subito dopo lì vicino quattro cannoni spararono […] e le bombe andarono a scoppiare attorno alla casa e sul prato dietro.45
Aspetti condivisi e temi comuni
Abbiamo già accennato nell’introduzione al motivo principale che
lega questi due racconti, queste due figure: il civile e il soldato
semplice. Ciò che li accomuna, infatti, risiede nella presa di
coscienza di un’alienazione totale, «un unico marchio di
sofferenza che cancella i segni individuali»,46 rispetto alle decisioni
prese dai quadri ufficiali ed alle dinamiche della guerra che
seguirono. Un atteggiamento che non bisogna tradurre in termini
di passività bensì in una forma di dissenso ravvisabile in piccole
ma significative azioni personali, le quali molte volte sono sfuggite
al grande occhio della storiografia:
44Ivi, p. 104.
45Ivi, p. 104.
46C. Salsa, Trincee, p. 28.
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Giunge un altro ferito, portato a braccia, che si lamenta con una cantilena musulmana […]. Lo faccio posare a terra […] in breve, il posto dove è collocato si trasforma in una pozzanghera di sangue. Improvvisamente il ferito si leva sui gomiti faticando e urla “Se trovo chi grida ancora Viva la guerra! … “. […] “Viva la guerra!”. Deliria […] Il tenente colonello sbuca dalla trincea e s’accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia. “Viva la guerra!” grida ancora il morente. Poi d’un colpo s’accascia e resta lì di schianto. […] Il tenente colonello si inalbera e dice: “E’ morto da eroe, gridando viva la guerra”.47
Una situazione tragicomica, quella riportata in quest’ultimo passo,
che riflette in primo luogo il fallimento di qualsiasi interazione fra
le due anime della società, quella che comanda e quella che
esegue, e in secondo luogo una condanna trasversale alla guerra.
Quest’ultimo messaggio fuoriesce dalle pagine di Trincee e di
Storia di Tönle in maniera dirompente raggiungendo, in questa
maniera, appieno il proprio fine grazie ad una prosa, in entrambi
gli autori, asciutta senza sbavature retoriche, ad uno stile
semplice ma allo stesso tempo incisivo e all’introduzione di
formule vernacolari indispensabili per caratterizzare maggiormente
quella soggettività dei protagonisti che rappresentano degli
affidabili interlocutori capaci di raccontare con estremo realismo il
susseguirsi degli avvenimenti senza distorsioni viziose che ne
possano alterare il quadro. In altre parole, dall’alto, o dal basso,
della loro nomea di letterati d’occasione, Carlo Salsa48 e Mario
Rigoni Stern49 riescono con estremo successo nell’intento di
lasciare parlare i fatti.
47Ivi, p. 181-82.
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Se lo stile narrativo e il momentaneo capovolgimento del punto di
vista della Storia accomunano questi due autori, lo stesso non si
può dire per quanto riguarda quei temi di fronte ai quali le
disavventure comuni ma non condivise segnarono due diverse
visioni.
Un primo argomento consiste nella tematica del confine,
un’esperienza vissuta dai due protagonisti in maniera totalmente
antitetica. Infatti, da una parte Carlo Salsa si trovò impegnato in
prima persona al fronte, una dimensione che diventò in breve
tempo la sua casa dalla quale, anche in seguito alla guerra, non si
staccherà mai del tutto;50 dall’altra parte Tönle, una figura che
pare in eterna fuga dalla logica delle frontiere e dalle strutture
nazionali. Una libertà, quest’ultima, che poggiava su un bagaglio
culturale ed esperienziale più pesante e differente rispetto a
48In Trincee, i momenti descritti dal protagonista son molto “tipici”, nel senso che temi tra i quali la descrizione delle retrovie o quella delle aspettative degli ufficiali alla vigilia della guerra riprendono strutture già ampiamente utilizzate nei romanzi di guerra. La novità la si riscontra nel ripensamento di queste categorie, una riflessione che spesso si oppone a quella fin lì imposta. Anche per questo motivo Salsa verrà chiamato dal regista Mario Monicelli a supportare, con la sua esperienza, i sceneggiatori del film La grande guerra (1959). Cfr., F. Todero, Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee, pp. 138-39.
49Davanti alle opere di Mario Rigoni Stern la critica, quasi all’unanimità, lo reputa non uno scrittore di vocazione, ma di occasione poiché probabilmente non sarebbe stato capace di scrivere di cose che non gli fossero accadute. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 95.
50Successivamente alla guerra e al fascismo, Carlo Salsa verrà considerato all’unanimità l’esperto della prima guerra mondiale per eccellenza, un titolo ufficioso che gli permise di scrivere e condividere le sue sensazioni in molti articoli di giornale.
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quello portato sul Carso dal giovane sottotenente. Nonostante
questa differenza “anagrafica”, per utilizzare un termine inclusivo
di tutte quelle sfumature che hanno portato a maturare due
modelli di vita opposti, Salsa riconobbe attraverso il filtro della
sua disillusione come anche dall’altra parte del fronte ci fossero
persone, molti dei quali tra l’altro ex compagni di lavori nelle
maestranze stagionali compiute oltre le Alpi:
Cecchinare così a freddo, senza necessità immediata, cacciare l’uomo, attendere che si scopre per ghermirlo con una specie di gioia sanguinaria […]. Eppure anche quel tipo che affiora ogni tanto dietro lo spalto con la sua pala per ributtare la terra, sarà un povero cristo come noi. Lo avran tolto dalla sua greppia senza che sapesse niente,lo avranno infagottato nella divisa appioppandogli un fucile tra le mani, lo avran conficcato là in trincea […] con la consegna: ammazzare. E si ammazza così a freddo, perché tutto ciò che non giunge nella sfera della nostra vita pare che non esista […]. Se io sapessi qualcosa di quel poveraccio, se lo sentissi parlare una volta, se gli leggessi le lettere che tiene accartocciate sul cuore, solo allora mi parrebbe di compiere un delitto uccidendolo così.51
In ogni caso, lo scarto esperienziale e la differenza situazionale
sul quale si fonda la relazione fra Salsa e Tönle risulta
fondamentale anche per spiegare le posizioni assunte dai due
protagonisti di fronte agli altri due argomenti comuni rimasti: la
casa e la donna. Per quanto riguarda il primo tema, la casa viene
paragonata da Rigoni Stern alle radici verso le quali si faceva
ritorno ad ogni inverno per riscoprirne il caldo tepore. D’altro
canto, Carlo Salsa riporta il suo sentimento di astio nelle pagine
51C. Salsa, Trincee, p. 111.
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che descrivono una Milano piena di interventisti da scrivania e di
“imboscati”, una città che non rispecchiava più quella casa
costruita oramai dalla guerra laggiù in prima linea. Sempre
all’interno del microcosmo famigliare è possibile scorgere una
sfaccettatura tenuta nascosta inconsciamente: il ruolo della
donna, una figura che, nonostante sia relegata ai margini in
entrambe le testimonianze, ricopre tra le righe due funzioni
totalmente differenti. La moglie di Tönle, infatti, viene
rappresentata dall’autore come una venere di Willendorf, quella
forza creatrice che, come la casa e l’albero, s’impone come punto
di riferimento per tutto l’universo famigliare senza il quale (non a
caso la morte della moglie avvenne alla vigilia del conflitto) ci si
perderebbe nel caos.52 In Trincee, invece, non si riscontra niente
di tutto questo poiché la donna ha il compito di porre in berlina
una maturità sessuale ancora da raggiungere da parte del giovane
soldato, il quale si rende conto di come la guerra gli abbia fatto
perdere la giovinezza e inaridito qualsiasi sentimento53.
Un ultimo tema da esplorare è quello riguardante la prigionia,
un’esperienza condivisa non solo dai due protagonisti, ma anche
da Rigoni Stern durante la seconda guerra mondiale54. In questo
intreccio così fitto dove si è venuto ad inserire anche la
52La donna, in tutta la narrativa di Rigoni Stern, verrà posta sempre ai margini dei racconti con il compito, però, di incarnare la funzione espressa nel testo. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 93.
53Si vedano i discorsi intrattenuti da Salsa con la ragazza conosciuta a Milano, nel periodo di licenza, e la giovane straniera conosciuta una volta uscito di prigione, cfr., C. Salsa, Trincee, pp. 206-08 e pp. 249-53.
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soggettività di un terzo elemento, occorre fin da subito ricorrere
alla logica del conflitto, la quale imponeva un trattamento simile
fra i prigionieri civili che malauguratamente vivevano nelle zone di
confine e quelli in divisa. Quando venne scoperto nella propria
abitazione dagli austriaci il 9 giugno del 1916,55 Tönle Birtain fu
accompagnato al Petareitle, retrovia austriaca, poiché lo si
riteneva una spia. Era pratica comune, sia da parte del Regio
esercito italiano sia da parte di quello imperiale austriaco,
considerare coloro che vivevano nelle zone di operazioni dei veri e
propri traditori verso i quali, molte volte, si conducevano
internamenti extragiudiziali e sfollamenti coatti.56 A causa di
questo stereotipo, nonostante la veneranda età, Tönle venne
internato nel campo di concentramento di Katzenau senza più
niente (anche il gregge aveva dovuto cedere all’esercito) a parte
quell’orologio57 preso in Germania anni addietro dal quale non
riuscì a staccarsi neanche in cambio del tanto desiderato tabacco
54Venne catturato dai tedeschi l’8 settembre del 1943 e portato in un primo momento nel campo di concentramento di Innsbruck per poi essere trasferito numerose altre volte.
55Il 28 maggio gli austriaci occuparono anche asiago, altro obiettivo della “spedizione punitiva”.
56I soldati italiani li chiamavano spregiativamente “austriacanti”. Cfr., M. Ermacora, Guerra e genti di retrovia, p. 657.
57Nel quadrante del tabacco vi era raffigurato due operai al lavoro sopra i quali era incisa la scritta “otto ore di lavoro”. Si tratta di un altro riferimento autobiografico di Rigoni Stern, il quale effettivamente deteneva quel orologio. Cfr., M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, p. 80.
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per la pipa. In questa situazione di monotona precarietà, il
periodo di prigionia, ci finì l’anno seguente anche Carlo Salsa in
seguito all’attacco fallito sul monte Ermada. “C’est la guerre”
disse un ufficiale austriaco stringendo la mano allo sfortunato
sottotenente, il quale fu immediatamente trasferito a
Sigmundsherberg dove erano rinchiusi altri ufficiali italiani
«superstiti delle più disperate mischie del Carso, quando si faceva
la guerra con i pugni e con i denti».58 In questa nuova esperienza
valse lo stesso obiettivo perseguito quotidianamente in trincea,
ossia non morire. Anche in questo caso la colpa dei molti decessi
all’interno del campo non era da attribuire agli austriaci, i quali
trattavano i prigionieri con rispetto al contrario di quanto
facessero con i disertori, ma bensì agli alti quadri dell’esercito
italiano incapaci di inviare provviste ai propri internati.
Un ultimo tema collega i due protagonisti che ci hanno
accompagnato lungo il costituirsi di questo contributo: il rientro a
casa. I due riuscirono ad uscire dalla prigione grazie ad uno
scambio di prigionieri, nel caso di Tönle, o al sopraggiungere della
fine della guerra, nel caso di Salsa. In ogni modo il rientro non fu
felice perché era inevitabile che non lo fosse dopo la catastrofe
causata dal conflitto: l’asiaghese senza confini prima di morire si
abbandonò ai propri ricordi piuttosto che soffermarsi su una realtà
che non riconosceva più; Carlo Salsa, invece, una volta giunto a
Padova, dopo aver abbracciato i compagni di viaggio al grido ‘viva
l’Italia’, si vide negato dalle baionette di altri soldati di scendere
dal treno.
58C. Salsa, Trincee, p. 224.
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BIBLIOGRAFIA
Buzzi M., Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, Milano, Mursia, 1985
Ermacora M., “Guerra e genti di retrovia”, in M. Isnenghi, D. Ceschin (Eds.), La Grande Guerra, vol. 2, Verona, Utet,2008, pp. 656-661
Isnenghi M., Il mito della grande guerra, Bologna, Il mulino, 2007
Isnenghi M., La grande guerra, Firenze, Giunti,1995
Rigoni Stern M., Storia di Tönle – L’anno della vittoria, Torino, Einaudi, 2014
Salsa C., Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 2015
Scardigli M., Viaggio nella terra dei morti. La vita dei soldati nelle trincee della Grande Guerra, Torino, Utet,2014
Teresa Caprile M. T., De Nicola F., Gli scrittori italiani e la Grande Guerra, Formia, Ghenomena, 2014
Todero F., “Confidenze di un disilluso: Carlo Salsa e le sue trincee”, in F. Senardi (ed.), Scrittori in trincea. La letteratura e la grande guerra, Roma, Carrocci, 2008, pp. 135-143