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La Federazione delle cantine sociali di Cagliari dalle carte della Prefettura di Cagliari

Date post: 11-Dec-2023
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN STORIA E SOCIETA’ La Federazione delle cantine sociali di Cagliari dalle carte della Prefettura di Cagliari Relatore: Tesi di Laurea di: Prof. sa Maria Luisa Di Felice Giovanni Solla Anno accademico 2014-2015
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA IN STORIA E SOCIETA’

La Federazione delle cantine sociali di Cagliari

dalle carte della Prefettura di Cagliari

Relatore: Tesi di Laurea di:

Prof. sa Maria Luisa Di Felice Giovanni Solla

Anno accademico 2014-2015

Grazie

A coloro che durante il corso di studi mi hanno sostenuto con consigli,

opinioni, incoraggiamenti,

in particolare a

Andrea

Claudia C.

Claudia M.

Elsa

Laura

Maria Grazia

PierLuigi

1

Indice

Introduzione 3

1. Economia in Sardegna dall’età giolittiana al fascismo 5

2. La solidarietà tra i lavoratori in Sardegna: dalle Società di

Mutuo Soccorso alle Cooperative 25

2.1. Le Società di Mutuo Soccorso 26

2.2. Le cooperative: inizi e affermazione nei principali stati

europei 32

2.3. La cooperazione in Italia 37

2.4. La cooperazione in Sardegna 49

2.4.1. Caseifici, latterie e allevamento 58

2.4.2. Mutue bestiame 69

2.4.3. Società molitorie 70

2.4.4. Casse rurali, Monti granatici e frumentari,

Cooperative di credito agrario 73

2.4.5. Le cooperative di consumo 78

3. Le cantine sociali 81

3.1. Le Cantine Sociali in Sardegna dall’età giolittiana

al periodo fascista 82

3.2. La Federazione delle Cantine Sociali e le Cantine di

Monserrato, Quartu Sant’Elena e Sestu negli anni Trenta:

la crisi del settore vitivinicolo e i contrasti interni 95

3.2.1. Crisi economica e crisi finanziaria (1930-1933) 96

3.2.2. I tecnici: Grignano, Cettolini, Arnaldi 109

3.2.3. I contrasti tra le cantine e la Federazione

2

Commercianti 121

3.2.4. Il nuovo statuto della Cantina di Monserrato 124

3.2.5. Le cantine negli anni della guerra 130

Bibliografia 135

3

Introduzione

La tesi si apre con un quadro storico della Sardegna, di carattere socio-economico

che va dalla seconda metà del XIX secolo quando nell’isola erano prevalenti le

attività agricolo-pastorali, praticate, in genere, con tecniche piuttosto arcaiche fino

al periodo della dittatura fascista quando l’attività agricola s’avvantaggiò in

alcune zone dei miglioramenti dovuti alle bonifiche e alle opere idrauliche.

Rispetto a questo quadro economico e sociale il lavoro ha inteso privilegiare lo

studio delle cooperative nate in tutta Europa, in Italia e anche in Sardegna durante

l’Ottocento. L’analisi ha tenuto conto della nascita delle prime organizzazioni si

proposero di soccorrere i lavoratori sottoposti ai rigori del mondo industriale-

capitalistico. Partendo quindi dalle Società di mutuo soccorso si è passati ad

illustrare la storia della cooperazione, dalle prime manifestazioni nell’Inghilterra

del Settecento fino alle esperienze, condizionate dal regime, nell’Italia fascista. Lo

studio ha tenuto conto dei significativi inizi, avviati in vari Paesi europei, quali

Francia e Danimarca, per poi proporre la storia della cooperazione in Italia fin

dalle origini, a metà Ottocento, quando anche nella penisola prendete forma il

moderno processo d’industrializzazione. Il quadro dell’esperienze cooperative in

Sardegna ha tenuto conto delle prime iniziative avviate fin dalla seconda metà del

XIX secolo, esperienze di breve durata, ridotte nel numero rispetto a quelle di

molte altre zone d’Italia nel Novecento, ma assai interessanti, anche perché

nell’isola erano fiorenti le attività minerarie, concentrate nelle zone del Sulcis e

dell’Iglesiente e sottoposte alla grande industria italiana e straniera.

Tra le esperienze cooperative della prima metà del XX secolo ho puntato

l’attenzione sull’attività delle cantine sociali dall’età giolittiana agli anni del

periodo fascista. I documenti del Gabinetto del Fondo della Prefettura di Cagliari

hanno offerto un buon numero di documenti concernenti i problemi dell’area

agricola del Campidano di Cagliari, quasi totalmente votata alla viticoltura e

hanno reso possibile indagare sulla storia delle cantine sociali del Campidano di

Cagliari. Tra le carte è stato reperito lo Statuto del Sindacato Nazionale

Produttori Vini di Monserrato che secondo i dettami voluti dal governo fascista,

4

fu costituito per regolare gli enti cooperativi. Ma sono soprattutto presenti i

documenti sulla Federazione della Cantine Sociali di Cagliari, nata per volere

politico, che cerca di estromettere la Cantina di Monserrato, la più importante

espressione cooperativa della zona, limitandone il potere e la leadership che ebbe

e che conservò anche quando nacquero nella stessa area agricola le Cantine sociali

di Quartu Sant’Elena e Sestu, quest’ultima dalla vita breve e miserabile.

Il quadro che si evince da queste carte è quanto mai interessante in quanto

consente di illustrare la vita di un settore tra i più rilevanti nell’economia agricola

sarda e di tracciare, pur tra notevoli difficoltà, dovute alla presenza di una serie

non interrotta di documenti, alcune delle fasi salienti della storia della

cooperazione agricola nella Sardegna meridionale e delle vicende della

Federazione delle cantine di cui sino a oggi si è assai poco trattato.

5

1. Economia e società in Sardegna dall’età giolittiana al fascismo

<<Nella seconda metà dell'Ottocento la Sardegna si presenta come una regione

con un economia a forte caratterizzazione agricola e pastorale, anche se debole e

con tassi di sviluppo e di presenza di popolazione attiva inferire a quella delle

altre regioni>>.1

Prevalgono la coltura estensiva e le aree dedicate al pascolo sulle colture intensive

e specializzate.

Forse il problema maggiore è l'estremo frazionamento degli appezzamenti.

Accanto al frazionamento della proprietà vi erano altri elementi che

ostacolavano l'agricoltura sarda e lo sviluppo delle colture intensive, ed

erano cause atmosferiche, come i forti venti e la scarsità delle piogge, la

malaria, le imposte troppo elevate, superiori alle possibilità del sistema

agricolo sardo nel suo complesso, che penalizzavano e scoraggiavano le

iniziative dei piccoli proprietari, come documentano le espropriazioni per

debito di imposta sempre più numerose, i sistemi di coltivazione, l'utilizzo di

strumenti agricoli inadeguati, come il tradizionale aratro sardo, inadatto e

insufficiente ad una buona lavorazione del terreno, la ridotta possibilità

finanziaria dei contadini di acquistare concimi chimici, maggiormente

necessari per l'insufficiente produzione di concimi organici dovuta alla

predominanza dell'allevamento brado; elementi tutti, che uniti all'eccessivo

frazionamento della proprietà, ostacolavano l'introduzione di nuove

macchine e strumenti e il rinnovamento dei metodi di coltivazione.2

La provincia di Cagliari è caratterizzata dalla fertile pianura del Campidano di

Cagliari e Oristano. La parte interna della pianura è coltivata prevalentemente a

grano ed è la zona col maggior raccolto cerealicolo dell'intera isola, la parte più

vicina alle coste e quella attorno ai principali centri, e in particolare l’area di

Cagliari, vedono una notevole prevalenza della coltivazione della vite.

Con la metà dell'Ottocento diventa rilevante la coltivazione della vite, che

conosce un notevole incremento ed occupa nel quinquennio 1879-83, prima

dell'invasione della fillossera, una superficie complessiva di oltre 65.000

ettari, inferiore soltanto alla superficie coltivata a grano. La coltivazione

1 F. Atzeni, Riformismo e modernizzazione, Classe dirigente e questione sarda tra Ottocento e Novecento, Milano, 2000, pag. 13.

2 Ivi, pag. 17.

6

della vite diventa predominante nel basso Campidano, nel circondario di

Cagliari.3

Nell’ultimo ventennio del XIX secolo lente trasformazioni interessano la coltura

della vite e dell'ulivo, la produzione dei vini e degli oli. Ciò è possibile grazie ai

comizi agrari, istituiti dal Regio Decreto n. 3452 del 23 dicembre 1866, che

dovevano aver sede in ogni capoluogo di circondario, mantenendosi con i

contributi dei soci e l'aiuto delle pubbliche istituzioni. La loro opera a favore delle

nuove tecniche di coltivazione e dell’uso di strumenti moderni si diffonde

estesamente in tutta la Sardegna.

Man mano che le colture specializzate guadagnano spazi sempre più ampi, i

terreni adatti a questo utilizzo diventano ghiotte occasioni d’affari anche per gli

imprenditori venuti dal continente poiché si possono acquistare a prezzi molto

convenienti.

Tra questi pionieri dell’industria enologica, Giovanni Battista Capra, che a metà

del secolo mette in funzione una piccola cantina a Quartu Sant'Elena; suo figlio

Amsicora che con lo zio Francesco fonda poi nel I887 la Capra & Capra; Josias

Pennis che è tra i fondatori della Camera di Commercio di Cagliari; Francesco

Zedda Piras che fonda la Ditta “Zedda Piras”, che ha successo fin da subito anche

grazie ai consigli del suo grande amico, Sante Cettolini; gli svizzeri Rizzi e

Clavot.

Questi imprenditori producono vini che vengono apprezzati in Italia e all’estero.

Per le insistenti richieste provenienti dalla borghesia più intraprendente e dai

proprietari terrieri più avveduti, negli ultimi anni del secolo vennero creati

alcuni istituti per la formazione di tecnici nei settori dell'agricoltura e

dell'industria legata al settore primario. Il primo, costituito a Nulvi nel I882,

venne soppresso dopo un decennio perché scarsamente frequentato; i

successivi ebbero invece maggiore fortuna perché, fatto tesoro della negativa

esperienza vissuta dalla scuola nulvese, orientarono la loro attività tenendo

conto della pratica, oltre che della teoria. Queste scuole, nonostante le

richieste partite da Alghero, furono costituite nei due centri principali

3 Ivi, pag. 19.

7

dell'isola: a Cagliari, nel I885, venne aperta, per volere di Ottone Bacaredda,

sindaco di Cagliari, e di Francesco Cocco Ortu, ministro di Agricoltura,

Industria e Commercio, la Regia scuola di viticoltura ed enologia; a Sassari

venne fondata, nel I894, la Scuola pratica d'Agricoltura.4

Entrambi gli istituti oltre che preparare giovani esperti si occupano di far

conoscere agli adulti le pratiche basate sulle conoscenze scientifiche.

Le campagne abbandonate e deserte, i bestiami in gran parte distrutti, interi

villaggi, anzi la maggior parte dell'Isola, in preda alla miseria ed alla fame, la

quale fece nell'anno scorso e minaccia di fare nel presente vittime numerose;

e la popolazione, che non conosce altra industria, non può ormai attendere ai

necessari lavori di agricoltura, avendo dovuto spogliarsi dei buoi da lavoro e

degli strumenti di campagna, e se non delle terre, solo perché la comune

miseria fa che non si trovino compratori. 5

Con queste parole Baudi di Vesme nel I847 descrive lo stato delle campagne

sarde.

L'unificazione del mercato della Sardegna con quelli degli Stati di Terraferma

produce dei segni di ripresa, ma non sufficienti per raggiungere lo sviluppo,

auspicato da Cavour, e dai fautori della fusione perfetta.

La delusione e lo scontento provocati dalla mancata inclusione della Sardegna nei

provvedimenti legislativi di cui erano stati oggetto il Meridione e la Sicilia con le

leggi del I867 e I875, portano gli elettori sardi a non appoggiare più la Destra che

governava l’Italia. I deputati sardi sono infatti tra i sostenitori della cosiddetta

rivoluzione parlamentare che nel I876 porta la Sinistra all’esecutivo.

Nel marzo I877 il governo presieduto da Agostino Depretis, promulgava la legge

<<per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola>>, nota come

Inchiesta Jacini.

4 Cfr. M .L. Di Felice, La storia economica dalla <<fusione perfetta>> alla legislazione speciale, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 369.

5 C. Baudi Di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Torino, 1848, ora in Sorgia, (a cura di), La Sardegna nel 1848. La polemica sulla << fusione>> (testi e documenti per la Storia della questione sarda), Cagliari, 1968, pag.79.

8

Il desiderio di conoscere lo stato della produzione e degli agricoltori era maturato

alla fine degli anni Sessanta nel ministero di Agricoltura affidato a Marco

Minghetti, ed era sostenuto dai Comizi agrari, dalla Società degli Agricoltori

Italiani, dai proprietari terrieri e dagli industriali, auspicando che un indagine ad

hoc facesse capire le necessità del settore e favorisse l’adozione di interventi

capaci di promuovere il miglioramento delle campagne sarde.

Nella relazione che Francesco Salaris elabora, nell'ambito dell'inchiesta Jacini,

vengono messi in rilievo, tra l'altro, le <<infelicissime>> condizioni idrografiche

dell'isola.

La viticoltura, che con l'allevamento del bestiame costituiva uno dei due

rami in attivo dell'economia agricola isolana, la fase espansiva venne

ridimensionata nei primi anni ottanta. Gli oltre 65.000 ettari (37.559 in

provincia di Cagliari e 27.452 in quella di Sassari) coltivate a vite davano nel

quinquennio 1879-1883 complessivamente 1.179.300 ettolitri di vino, di cui

una quantità rilevante veniva esportata in Francia, con la quale era stata

instaurata una fitta rete di scambi. Questa situazione commerciale

favorevole, che aveva spinto molti agricoltori ad estendere la coltivazione

della vite, si interruppe bruscamente tra il 1883 e il 1900 per il

sopraggiungere della fillossera e, dal 1888, della peronospera, che colpirono

dapprima i vigneti della parte settentrionale dell'isola, per poi estendersi a

quella

meridionale, e soprattutto per la guerra commerciale con la Francia.6

Negli anni Ottanta crolla il sistema creditizio isolano col fallimento delle

principali banche sarde, Fondate in un breve lasso di tempo, anche sulla scia della

legge del giugno 1869 che istituiva il credito agrario, esse si trovano in difficoltà

perché le loro attività speculative hanno esito negativo. La chiusura degli istituti

di credito sardi si rivela dannoso per gli agricoltori che a loro si erano rivolti,

spingendoli nuovamente verso l’usura.

Nel maggio 1888 i deputati sardi inviano un memoriale al presidente del

consiglio, Francesco Crispi, in cui parlano delle misere condizioni che

attanagliano la Sardegna. Qualche iniziativa era stata intrapresa dal governo nei

6 Atzeni, Riformismo e modernizzazione, cit., pagg. 34-35.

9

confronti del territorio sardo, ma non erano sufficienti per portare la Sardegna

sulla via di un costante sviluppo.

Crispi risponde che la situazione della Sardegna è simile al resto d’Italia ed è

dovuta alla crisi che ha colpito la nazione e pertanto non sono utili interventi

specifici per la regione.

Negli anni Novanta intellettuali, politici, giornalisti propongo misure che cambino

in modo positivo la problematica situazione della Sardegna. La proposta che viene

fatta più sovente è quella delle bonifiche e della sistemazione delle acque per

favorire un miglioramento igienico ed economico. Viene richiesta al governo

centrale una legislazione speciale perché la Sardegna presenta una realtà specifica

che non viene favorita dalle leggi nazionali.

Nel dicembre 1896 matura un progetto, accettato dal governo, che diviene il punto

di partenza per la prima legge speciale per la Sardegna. La proposta di legge

prevede il miglioramento dell’agricoltura sarda grazie alla concessione del credito

agrario e alla sistemazione idraulica.

La prima legge speciale per la Sardegna viene finalmente approvata nel 1897. Tra

i punti più rilevanti, per favorire il miglioramento agrario, l’istituzione della Cassa

ademprivile con il compito di fare anticipazioni in denaro ai monti frumentari e

agli enfiteuti, per la costruzione di case coloniche o di gruppi di case o di stalle

razionali, per i rimboschimenti e per gli acquisti di strumenti di lavoro e di scorte,

con preferenza per gli enfiteuti più poveri e per le società cooperative. Vengono

stanziati otto milioni di lire per i lavori di regolazione dei corsi d’acqua, per le

bonifiche e per i rimboschimenti. Ancora viene concessa l’esenzione fiscale

sull’alcool distillato dal vino e dalle vinacce purché consumato nell’isola; se

esportato fuori dall’isola sarà invece assoggettato alla tassa di fabbricazione.

Approvata grazie alla grande azione congiunta delle forze politiche e sociali sarde,

la prima legge speciale del 1897 viene vista come un primo provvedimento per

permettere che la Sardegna si rissolevi dalla sua miserevole situazione. Tra le

misure che vengono ritenute necessarie c’è lo sgravio dell’imposta fondiaria, la

rifondazione di banche che elargiscano crediti per mettere i proprietari rurali in

10

condizione di non doversi più rivolgere agli usurai.

Un interessante analisi di questa legge viene espressa dal veneto Sante Cettolini,

che a quei tempi è il direttore della scuola di enologia e viticoltura di Cagliari,

tecnico di grande valore e di riconosciuta competenza, nell’opera intitolata La

questione sarda ed i provvedimenti governativi a favore dell’isola, pubblicata nel

1898. Cettolini afferma che i prevedimenti previsti nella legge del 1897 sono

programmanti in un vasto arco di tempo, mentre invece, secondo lui, alla

Sardegna occorrono iniziative che si devono concludere in tempi rapidi. Cettolini

ritiene che una delle due vere ricchezze dei Campidani è la vite. Propugna una

legge che imponga in certi casi l’obbligo di vendita o di permuta di terreni agricoli

per permettere la creazione di poderi sui quali costruire l’abitazione del contadino

e della sua famiglia.

Purtroppo questa legge non produce che pochi risultati poiché solo dopo un una

anno vengono istituiti i primi regolamenti e i vari finanziamenti previsti si

rivelano insufficienti.

Una nuova legge, approvata nel 1902 con lo scopo di correggere i limiti emersi

nella precedente, contiene anche nuove disposizioni come l’uso dell’acqua

raccolta nei bacini per produrre energia elettrica.

Nel 1906 viene approvata la legge n.383, nota come <<Provvedimenti per le

provincie meridionali, per la Sicilia e la Sardegna>>, che presenta, tra l’altro, la

riduzione del 30 per cento dell’imposta fondiaria.

I moti popolari che scoppiano nel maggio del 1906, preceduti dagli scioperi dei

minatori nel biennio 1903-1904, sono frutto dell’aumento del costo della vita

provocato dalle trasformazioni dell’economia sarda. Queste manifestazioni si

rivolgono contro le strutture che vengono ritenute causa della crisi, contro i

vagoni della “Tramvia del Campidano” che trasportano i prodotti nei comuni

limitrofi a Cagliari, attività fino ad allora svolta dai “carrettoneris”.

Presentato dal ministro dell’agricoltura, Francesco Cocco Ortu, il 22 dicembre del

1906, il progetto di legge che prevede modifiche e aggiunte rispetto alle leggi del

1897 e del 1902, una volta pubblicato provoca vivaci proteste nell’isola,

11

soprattutto in provincia di Sassari perché si ritiene sfavorevole lo stanziamento dei

fondi per la sistemazione delle acque e per eseguire le bonifiche, sputanti a questa

provincia rispetto a quelli previsti per quella di Cagliari.

In un articolo apparso nel 1906 su “La Nuova Sardegna”. si afferma che <<la

cooperazione agraria era quasi totalmente assente>>, nell’isola.

In un lungo intervento di risposta ai deputati sardi, che mettono in evidenza i

limiti del progetto che diverrà la legge del 1907 per la Sardegna, Francesco Cocco

Ortu, ministro dell’agricoltura, elenca i provvedimenti che tengono conto dei

limiti ricontratti nell’attuazione delle leggi precedenti. La legge dovrebbe

diffondere nell’isola quello spirito di associazionismo, preparando e formando

l’ambiente agrario alla penetrazione e alla diffusione delle varie istituzioni agrarie,

dei consorzi e delle cooperative.

La legge viene approvata dalla Camera il 26 giugno 1907 e dal Senato il 9 luglio

1907. La Nuova legge sui provvedimenti per la Sardegna, approvata con Regio

Decreto 14 luglio 1907, n.562, è divisa in sette titoli ed è composta da 63 articoli.

Il titolo primo stabilisce al primo capitolo che la Cassa ademprivile istituita nelle

province di Cagliari e di Sassari assuma la funzione di Cassa provinciale di

credito agrario. Tra gli scopi, fare anticipazioni agli enfiteuti e alle società

cooperative agrarie riconosciute. Sulle somme concesse si applicherà un interesse

non superiore al 4 per cento. Dalla Cassa ademprivile (secondo quanto stabilito al

quarto capitolo), possono ottenere anticipazioni anche i consorzi agrari costituiti

fra agricoltori nella forma di società cooperative. Nel 1913 risultano costituite in

provincia di Cagliari tre associazioni cooperative agrarie di produzione e lavoro

(due cantine sociali e una latteria sociale).

L’uso di più moderni metodi e strumenti di coltivazione permettono aumenti delle

varie produzioni agricole. Notevole, ad esempio, è l’incremento della coltivazione

della vite, che si estende oltre i limiti delle sue tradizionali zone di coltivazione.

La produzione media di vino, che negli anni 1870-74 era inferiore ai 500.000

ettolitri, divenuta di oltre un milione di ettolitri tra il 1879 e il 1883, raggiunge nel

quinquennio 1901-1905 i 2.165.000 ettolitri, di cui ben 300.000 nel Campidano

12

<<vitato>>, nel circondario di Cagliari: l’impianto dei vigneti era stato un potente

stimolo alla trasformazione e al progresso economico e culturale. Lo sviluppo

della viticoltura era stato accompagnato dal progresso tecnico nella coltivazione e

dal perfezionamento delle tecniche di vinificazione e da un incremento delle rese

per ettaro da 15-20 ettolitri a 30-40, facendo di esso uno dei comparti più

remunerativi dell’agricoltura dell’intera Sardegna.. <<La superficie coltivata a

vite veniva stimata nel 1909-1914 in 48.200 ettari, in prevalenza in provincia di

Cagliari>>.7

Il nascente processo d’industrializzazione dell’isola interessa anche la

trasformazione dei prodotti agricoli sempre più esportati. L’industria vinicola, si

sviluppa soprattutto nel Campidano di Cagliari, alimentando una rilevante

corrente di esportazione di vini e di distillati. Un ruolo importante nella

produzione dei mosti, del vino e degli alcoli viene svolta da imprenditori locali.

<<Tra le società impegnate nel commercio e nella lavorazione dei vini emerge la

Vinacol fondata nel 1911; si assiste contemporaneamente anche

all’organizzazione di gruppi di produttori, che nel 1908 costituiscono una cantina

sociale a Monserrato, che contribuisce a dare un grande impulso alla produzione e

a sottrarli al condizionamento dei commercianti e dei gruppi industriali operanti

nel settore>>.8

Il complessivo momento di crescita dell’economia agricola isolana è

anche legato a un certo progresso delle tecniche di lavorazione, a

metodi più razionali di coltivazione, ad un processo di trasformazione

che investe la piccola e media proprietà, soprattutto laddove i

contadini erano riusciti ad acquistare maggiore competenza e

professionalità; è questo il caso dei viticoltori del Campidano di

Cagliari.9

7 Ivi, pagg. 208.

8 Ivi, pag. 210.

9 Ivi, pag. 213.

13

La cooperazione nei primi quindici anni del XX secolo è uno strumento che

spinge all’innovazione le piccole e medie imprese agricole della Sardegna.

Accanto a questi piccoli successi permane il problema dell’usura che riguarda

soprattutto gli strati economicamente più deboli, a cui si affianca l’emigrazione,

che pur non costituita da grandi numeri come avviene nelle regioni del sud Italia,

rappresenta un fenomeno assai rilevante per una regione che ha una bassa densità

di popolazione.

Grazie alla legge n.985 dell’11 luglio 1913, approvata nonostante le

preoccupazioni dei piccoli proprietari terrieri che possono subire l’espropriazione

del loro terreno se non irrigato da parte della società concessionaria, nel 1918

iniziano i lavori per la costruzione della diga sul fiume Tirso. I lavori portano ad

inaugurare il 28 aprile del 1924 il lago Omodeo, il più grande di tipo artificiale

d’Europa, che prende il nome dell’ingegnere che aveva realizzato il progetto. In

seguito viene realizzato un invaso sul Coghinas.

Nello stesso periodo inizia la bonifica della piana di Terralba, che culminerà con il

ripopolamento di quell’area con famiglie, in modo preponderante originarie del

Veneto e la creazione di un nuovo comune, Mussolinia di Sardegna, che con il

crollo del regime fascista viene rinominato Arborea.

A Cagliari nell’aprile 1913 si tiene il primo convegno provinciale delle

cooperative agrarie; a quella data risultano esistenti 69 casse rurali, 4 consorzi

agrari cooperativi e 10 cooperative di credito e di produzione.

Nel dicembre dello stesso anno si svolge al Oristano il primo congresso regionale

delle cooperative e mutue agrarie, a tale evento risultano create in Sardegna 144

cooperative.

Anche la Sardegna viene coinvolta nel clima interventista che scuote l’Italia.

Nella seconda metà del mese di gennaio del 1915 vengono istituiti i due

reggimenti che costituiscono la “Brigata Sassari”: il 151° a Sinnai e il 152° a

Tempio. I due quotidiani sposano le idee interventiste.

<<L’Unione sarda>> che proprio in quei mesi veniva acquista da un

gruppo nel quale di lì a poco sarebbe rimasto proprietario quasi

incontrastato l'ex deputato Carboni Boy, passò abbastanza

14

rapidamente da un periodo di <<agnosticismo>> a un aperto sostegno

del movimento interventista, in parallelo con l'evoluzione politica del

suo direttore-ombra, Jago Siotto, che pure era stato, nel decennio

d'inizio secolo, uno degli animatori del socialismo cagliaritano; <<La

Nuova Sardegna>>, il cui direttore era su posizioni nazionaliste,

faceva propria la posizione degli interventisti democratici cresciuti

all'ombra del gruppo garavettiano.10

Diverse manifestazioni interventiste avvengono a Cagliari. Il 16 marzo degli

studenti vanno a fischiare sotto le finestre dei locali consolati di Germania e

d'Austria. Il 29 aprile la laurea di Emilio Lussu, colui che si è definito il leader

degli interventisti presenti nell’Università di Cagliari, diventa occasione di

dimostrazioni prima nell’Aula Magna e poi in piazza. Infine una grande

manifestazione si tiene il 14 maggio. Anche a Sassari si manifesta contro Giolitti.

Nel complesso in Sardegna, come avviene in molte parti d’Italia, il volere

interventista è espresso solo dagli intellettuali e da coloro che sono politicamente

impegnati.

La storia della prima guerra mondiale è, in Sardegna, soprattutto la

Storia della brigata Sassari: per il grande numero di morti, per i

sanguinosi combattimenti in cui fu impegnata, per il <<mito>> che ne

crearono gli inviati speciali dei giornali e gli addetti alla propaganda, a

cominciare dagli stessi alti comandi.11

La Sardegna paga, in rapporto al basso indice di popolamento, un grande tributo

di morti e feriti alla causa patria.

A partire dal dicembre 1915 la Brigata Sassari è, senza tener presenti gli alpini,

l’unica formazione militare italiana costituita da elementi che provengono da una

sola regione, rompendo l’usanza vigente dall’Unità d’Italia di comporre anche i

più piccoli gruppi militari con uomini provenienti da diverse aree del territorio

nazionale nel tentativo di “fare” gli italiani. Questa iniziativa porta

10 M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 575.

11 Ivi, pag. 577.

15

all’equiparazione tra la “Brigata” e la Sardegna che è presente sia a livello

nazionale che regionale. La vita di trincea porta gli uomini al fronte a scoprire

quella comunanza di radici, che insieme al problema dei crediti che la Sardegna

vanta nei confronti dell’Italia sono al centro delle conversazioni tra commilitoni e

dei discorsi degli ufficiali con i loro sottoposti. Da questi fatti nasce un

“sardismo” in nuce che esploderà nel dopoguerra.

Purtroppo la “Brigata” viene impiegata dopo la fine del primo conflitto mondiale

come forza di polizia per reprimere dimostrazioni popolari e operaie.

Durante gli anni di guerra la Sardegna soffre tutti i disaggi del resto del territorio

nazionale, aggravati dalla sua condizione di insularità.

Umberto Cao, nel maggio del 1918, pubblica, sotto pseudonimo, “Per

l’autonomia”. L’opera segna l’inizio della rivendicazione “politica”

dell'autonomia della Sardegna. Cao traduce in una proposta politica un sentimento

largamente presente nell'inconscio e nell'immaginario collettivo sardo. Le radici si

rifanno addirittura alla <<bella età dei Nuraghi>>, quando i sardi erano persone

libere, padrone del proprio territorio.

<<Il sardismo è il fuoco che cova sotto la cenere>>, dirà Lussu, esprimendo

l’idea di un sentimento che è di tutti i sardi.

Giuseppe Fiori ha chiarito il carattere interclassista del sentimento “sardista”,

individuando un “sardismo di destra”, che è l‘aspetto più usato per i propri

interessi dalle classi dirigenti sarde.

Alle elezioni politiche del 1919 gli ex combattenti riscuotono un rilevante

successo con la lista aperta anche a non ex combattenti per volontà di Lussu, capo

carismatico del movimento. Questo exploit è, assieme al crollo dei voti raccolti da

Partito socialista e all’insuccesso del Partito polare di Don Sturzo rispetto alla

media nazionale, il segno che il movimento combattentistico esprime il

sentimento popolare molto più che il movimento socialista.

Dopo un intenso dibattito interno i combattenti si presentano alle elezioni

amministrative del 1920 con il simbolo del futuro partito, i quattro mori bendati.

Il I7 aprile 1921, la vigilia delle nuove elezioni politiche, è il giorno in cui

16

ufficialmente nasce il Partito sardo d'Azione.

Mentre la “Voce”, giornale del neo partito, esalta il successo sardista, su

“L’Unione Sarda”, diventata di proprietà dell’ industriale Sorcinelli, sempre più

orientata a destra, Pasquale Marica scrive con senso profetico: <<Il liberismo con

queste ultime elezioni vive la sua ultima ora>>.

In verità l primo episodio dell’azione dei fascisti è già avvenuto ad Iglesias con la

distruzione della casa e del laboratorio del sarto Sebastiano Baldino, nella quale

erano conservate le firme che dovrebbero servire per presentare la lista del

neonato Partito comunista d'Italia. I locali rappresentanti vengono perseguiti

anche dal nuovo sottoprefetto che propugna l’uso della polizia contro il

movimento operaio.

Bisogna evidenziare che nei primi quattro anni del dopoguerra la Sardegna è

sconvolta da diverse crisi agrarie, presenta un bassissimo tasso di crescita della

popolazione, e la forza lavoro è costretta a trovare rifugio nell'agricoltura dopo la

diminuzione dei posti di lavoro nell'industria.

In questo quadro s’inseriscono i disordini, le agitazioni, le violenze verso i

minatori (la violenza squadrista ha ad Iglesias il suo centro più importante)12

.... si può ragionevolmente ipotizzare, forse, che nell'isola il

<<reducismo>>, che costruiva una delle radici del fascismo, fu in gran

parte incanalato nel Psd'A, e dunque anche depurato di tutti gli

elementi di violenza che portò invece con sé nel fascismo. Gruppi di

fascisti (non solo intellettuali, ma certamente nella gran parte

borghesi, anche giovanissimi) nacquero gradatamente in tutta l'isola:

in parte sulla spinta delle condizioni <<tipiche>> cui fa riferimento

Sogtiu [dì attacco della - o per conto della - borghesia alle

rivendicazioni delle classi lavoratrici], in parte per un semplice effetto

di trascinamento della propaganda dell'ideologia del Pnf in ambienti

disponibili a sentirla come propria.

Quello che conta è che forse, senza la preventiva conquista dello

stato, il fascismo non avrebbe avuto vita facile nell'isola, a onta della

crescente aggressività messa in campo nella seconda metà del I922,

supportata anche dal responsabili dell'ordine pubblico e dagli stessi

12 Cfr. Ivi, pagg. 586-620.

17

prefetti. Ma fu solo dopo la marcia su Roma che il fascismo impose in

Sardegna le sue leggi, fece le sue vittime (una guerra civile dopo la

fine della guerra civile sulla penisola), cercò e trovò alleati.13

Il fascismo mette radici in Sardegna solo all'indomani della marcia su

Roma, sotto la spinta del prefetto Asclepia Gandolfo che, inviato da

Mussolini a Cagliari alla fine del 1922, nel giro di pochi mesi riesce a

far confluire nel Pnf una parte molto consistente del Partito sardo

d'azione.14

Le elezioni politiche del 1924 segnano una omologazione solo parziale della

Sardegna al resto dell’Italia poiché il Pnf sardo riesce a far eleggere tutti i suoi

otto candidati ma ottiene solo il 61 per cento dei voti, contro circa il 65 per cento

raggiunto dal “listone” governativo a livello nazionale e a percentuali nettamente

più alte (anche superiori all'80 per cento) nelle altre regioni meridionali. Nel

campo dell'opposizione, resiste il Partito sardo d'azione che riesce a raccogliere il

16 per cento dei voti e a mandare alla Camera due deputati, Emilio Lussu e Pietro

Mastino.

Gli eletti della lista governativa votati nella provincia di Cagliari sono tutti e tre

di provenienza sardista. Giovanni Cao di San Marco, cagliaritano, colui che

aderisce al Pnf sin dal febbraio del 1923, prima che avvenga la “fusione” vera e

propria. Paolo Pili e Antonio Putzolu, invece, confluiscono solo nell'aprile di

quello stesso anno. Entrambi vedono l'adesione al Pnf come un mezzo per

realizzare gli obiettivi del sardismo.

Noi entriamo nel fascismo con piena coscienza - affermava Paolo

Pili all'indomani della <<fusione>>. - Nell'interno del partito

lotteremo per fare ottenere alla Sardegna quelle provvidenze che il

Partito sardo d'Azione ha sempre propugnato e siamo sicuri che la

nostra voce verrà ascoltata, perché il fascismo dimostra come noi di

13 Ivi, pag. 629

14 Cfr. L. Marrocu, Il ventennio fascista, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia . Le regioni dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 631.

18

volere la distruzione delle consorterie, l'elevazione del popolo, la

rinascita delle forze economiche e sociali del paese, la giustizia per

tutte le regioni e quindi anche per la Sardegna. Noi abbiamo

lungamente patteggiato: spiritualmente siamo con Voi dall'immediato

dopo guerra, anzi dall'intervento. Solo questioni locali ci hanno finora

diviso. Domani tra le tre correnti che compongono il fascismo sardo,

non vi dovrà più essere nessuna differenza, tutti insieme dovremo

combattere per il bene dell'Isola e dovremo stroncare ogni tentativo

begaiolo che tenti di affacciarsi alla già sepolta questione delle origini.

Noi quindi entriamo nel fascismo senza porre condizioni e vi

vogliamo pieno diritto di cittadinanza.

Menzionando <<tre correnti del fascismo sardo>>, Pili vuole indicare, oltre a

quelli che hanno aderito al fascismo prima della “fusione”, i nazionalisti,anch'essi

confluiti in quei mesi nel Pnf, e gli ex sardisti. In effetti, gli organi dirigenti

sembrano riflettere in un primo tempo un preciso equilibrio fra le tre componenti:

una sorta di triunvirato, che tuttavia nulla ha a che fare con i seguaci di

Sorcinelli,.chiamato a reggere il partito nella provincia di Cagliari all'indomani

della “fusione”, di cui fanno parte, con Paolo Pili, Antonello Caprino, il

rappresentante dei nazionalisti e il generale Augusto Zirano, un vecchio iscritto al

partito. Si tratta, tuttavia, di una soluzione provvisoria e nel giugno del 1923 il

generale Gandolfo impone Paolo Pili alla testa della segreteria federale di

Cagliari, mentre Putzolu mantiene il suo posto nel direttorio provinciale e poco

dopo diventa il segretario politico di Oristano.

Pili e Putzolu presentano molte caratteristiche comuni, non ultimo il fatto di

essere originari dallo stesso paese, Seneghe, situato a nord di Oristano, che è

composto da 2500 abitanti. La vicenda politica è preceduta fino ad ora in maniera

assolutamente parallela, a cominciare dalle prime prove nel loro paese

nell’immediato dopoguerra. Appartengono ambedue, per la storia delle loro

19

famiglie, alla ristretta cerchia dei notabili di Seneghe, combattono per

estromettere dal potere che esercita l’estremamente influente sindaco del paese.15

Pili e Putzolu sono i rappresentanti di vertice dell’esperienza “sardofascista”. Gli

danno idee e, soprattutto Pili, incisività. Ci sono fra i due differenze di formazione

e di temperamento. Pili, smessa la divisa, ma non ha mai combattuto in prima

linea, va ad insegnare Scienze nelle scuole superiori della città di Oristano. Ha alle

spalle una formazione da agronomo che lo ha messo in contatto con Sante

Cettolini, vero e proprio ”apostolo” della modernizzazione agraria nella Sardegna

d’inizio novecento. Putzolu ha fatto studi di giurisprudenza e vive durante il

primo conflitto mondiale l’epopea della Brigata Sassari. Mentre Pili mostra da

subito le qualità dell’organizzatore politico e del trascinatore di folle, Putzolu è

invece una persona quasi schiva, con i tratti dell’intellettuale.

Già negli anni della appartenenza al Partito sardista Pili e Putzolu mettono a

punto una variante dell’idea dell’ autonomia dell’isola basata sul primato

dell’economia sulla politica. <<L’autonomia va realizzata nel campo economico,

prima che nel campo politico medesimo>>, ha scritto nel 1922 Antonio Putzolu.

Ciò significa impedire all’<<industrialismo settentrionale>>, che <<protende i

suoi mille tentacoli sull’Isola>>, di continuare la sua opera di spoliazione della

Sardegna. Il linguaggio è, quello del liberismo meridionalista, con una particolare

enfasi sul fatto che solo quando le sue <<classi produttrici>> si saranno liberate

dall’abbraccio soffocante dei monopoli la Sardegna potrà compiere il suo

cammino verso l’autonomia. Prima di allora <<si potrà avere una forma, cioè una

struttura autonomistica, non mai l’autonomia, che significa capacità di fare, di

governarsi da sé in libertà, cioè senza soggezioni o schiavitù opprimenti e

pericolose>>.

Affermazioni di questo tipo vengono riprese da Pili e Putzolu nel corso della loro

scalata ai vertici del Pnf. Affermazioni che sono il marchio di fabbrica della

15 Ivi, pagg. 645-646.

20

retorica “sardofascista”. Non pare dunque di poco rilievo il fatto che la più

importante iniziativa presa da Pili nei suoi tre anni e mezzo come “federale” di

Cagliari consista appunto in un tentativo di riorganizzare dal basso l’attività delle

“classi produttrici” sarde. È anche vero che la vicenda della Fedlac (Federazione

delle latterie cooperative sociali della Sardegna) – sino alla conclusione, con la

sconfitta personale di Paolo Pili – si svolge tutta all’insegna del primato della

politica.16

Paolo Pili viene costretto alle dimissioni da segretario federale il 14 novembre del

1927, per essere pochi giorni dopo sospeso dal partito e poi esserne espulso nel

1930. Il suo, insomma, non è un graduale scivolare dietro le quinte ma un crollo

repentino. Nel frattempo la Fedlac e la Sylos stanno dando evidenti segnali di

crisi, sia perché subiscono i primi effetti della scelta deflazionistica del governo

sia perché sottoposte all'offensiva dei nemici di Pili. Questa offensiva dal 1927

inizia a manifestarsi anche legalmente e amministrativamente.

Inquadrabile nel processo di normalizzazione che investe tutto il paese, e che si

sostanzia nella marginalizzazione dei capi, in quanto espressione dei partiti

“locali”, quella di Pili appare come la sconfitta, in fondo prevedibile, di un leader

politico troppo dinamico e intraprendente per risultare adatto alla nuova fase. Su

un piano regionale, tuttavia assume significati ancora più profondi, in quanto

mette brutalmente fine all'esperienza del sardofascimo. In questo contesto, la

forma drammatica dell'estromissione del “federale” risponde allo scopo di

sottolineare la discontinuità rispetto al recente passato del fascismo cagliaritano,

così alla sua matrice sardista come alle sue velleità riformiste. La più grave accusa

che si muove a Pili, e a cui altri ex sardisti riescono abilmente a sottrarsi, è in

fondo quella di costituire un simbolo troppo visibile e ingombrante di quel

passato. È quanto nota, con il solito acume Antonio Gramsci, che dopo aver

guardato con estremo interesse alla nascita della Fedlac, ne segue ora, dal carcere,

16 Ivi, pagg. 647-648.

21

la crisi che la sta conducendo alla sua fine:

Quando c'è un contrasto profondo di interessi materiali - scrive al fratello

Carlo nel marzo 1929 - nessuno dei due contendenti proclama di lottare per

un interesse materiale: cerca delle bandiere il più possibile disinteressate, dei

principi astratti sulla civiltà sul popolo, sull'avvenire della storia, eccetera,

eccetera (...) Così immagino sarà avvenuto tra Pili e Putzolu, se tra loro c'è

stata una polemica pubblica. Il fatto è che io, [che] non potevo seguire questi

avvenimenti, all'ingrosso li ho indovinati, perché mi basavo su ciò che

rappresentava Pili e sulle ripercussioni che la sua attività avrebbe avuto e

sulla colossale forza che gli si opponeva, che certamente non poteva

rimanere inerte a contemplare la sua progressiva rovina. Mi pare che la

sconfitta di Pili sia la sconfitta decisiva del Psd'A, che Pili cercava di

acclimatare nelle nuove forme politiche attualmente dominanti: cosa di cui

non ho mai dubitato.17

Sì conclude con la “conquista” dell’Unione Sarda il lungo periodo di dinamica

turbolenza della stampa cagliaritana, iniziato nel 1920 con l'acquisto di quello

stesso giornale da parte di Ferruccio Sorcinelli. Strappando “L'Unione” alla

sonnacchiosa e pluridecennale routine di <<primo elettore di Cocco Ortu>>,

Sorcinelli aveva intaccato in un punto strategico i tradizionali equilibri politici

cittadini. Ne era uscita ulteriormente rafforzata la leggenda nera di Sorcinelli

quale avventuroso affarista, teso alla conquista di posizioni di forza dalle quali

ottenere indebiti vantaggi per le sue iniziative imprenditoriali. In realtà, nella sua

multiforme attività di finanziere-imprenditore, di editore e di uomo politico,

Sorcinelli aveva interpretato, con particolare disinvoltura, una tendenza generale

dei gruppi finanziari a intervenire più direttamente nei luoghi di formazione

dell'opinione pubblica.

Indicativa a questo riguardo la vicenda del giornale dei social-riformisti sardi, “Il

Risveglio dell'Isola”, che nell'immediato dopoguerra, prima ancora di essere

oggetto delle attenzioni di Sorcinelli, era finito sotto il controllo di un gruppo di

imprenditori facenti capo alla Banca Commerciante Italiana. E in parte lo stesso

gruppo (con l'aggiunta di alcuni nomi di spicco dell'imprenditoria e del

17 In G. Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la Questione sarda, Cagliari, 1975, pagg. 258-259.

22

commercio cagliaritani: Dino Devoto, Sabatino Signorello, Natale Ilario) che

ritroviamo tra i finanziatori del “Giornale di Sardegna”, l'organo di stampa voluto

da Gandolfo e Pili per contrastare “L'Unione Sarda” all'epoca in cui il quotidiano

cagliaritano si è fatto portavoce della dissidenza sorcinelliana. A presiedere il

consiglio di amministrazione del “Giornale di Sardegna” - che si presenta come

organo ufficiale della federazione fascista ed è diretto da Paolo Pili - viene

chiamato l'avvocato Antonio Pierazzuoli, già direttore della Cassa ademprivile di

Cagliari e <<nittiano sfegatato>> come lui stesso sino a poco tempo prima ha

amato definirsi, ma ancora più notevole è il fatto che dietro Pierazzuoli (così come

dietro altri due finanziatori del quotidiano, gli ingegneri Dionigi e Stanislao

Scano) vi sia Giulio Dolcetta.

Dolcetta è un ingegnere veneto, arrivato a Cagliari nel 1917 per assumere la

diretta conduzione delle due imprese, la Società Elettrica Sarda e la Società per le

Imprese idrauliche ed elettriche del Tirso, a cui Commerciale e Bastogi affidano,

da quando fra il 1912 e il 1913 le hanno costituite, i loro progetti d'intervento

nell'isola. L'interesse della holding elettrofinanziaria a investimenti in Sardegna

nel campo delle costruzioni idrauliche e della produzione e distribuzione

dell'energia elettrica è stimolato dai larghi finanziamenti pubblici a cui la

legislazione speciale d'anteguerra dà accesso. Giulio Dolcetta, che gode di un

mandato molto ampio da parte dei vertici della Comit, si applica al suo compito

con un preciso disegno strategico. Progetta di dar vita a una serie di grandi opere

che facciano fare un decisivo passo in avanti alle infrastrutture dell'isola. Così

nasce nel 1918 la Società Bonifiche Sarde, alla cui iniziativa si dovrà negli anni

successivi la bonifica dello stagno di Sassu e la nascita di Mussolinia. Ad essa

fanno seguito nel 1920 la Fabbrica Cementi Portland e la Società Sarda di

Costruzioni. Se si tiene presente che il gruppo ha da tempo il controllo della

Ferrovie Complementari Sarde, sarà chiaro come Dolcetta si trovi al centro di

un'amplissima rete di attività e di interessi che, muovendo dal settore idroelettrico,

si dirama verso le costruzioni, i trasporti, l'agricoltura.

Il problema che Dolcetta tenta di risolvere è quello dell'utilizzazione della grande

23

quantità di energia elettrica che il completamento della diga sul Tirso mette a

disposizione. Così non solo la Tirso cede alla consorella Elettrica Sarda tutta

l'energia prodotta, ma le affida la relativa attività di distribuzione e trasporto. A

valle dell'iniziativa madre prende vita tutta una serie di intraprese, fra cui a

Cagliari lo stabilimento cementifero di Santa Gilla, che fa capo alla Cementi

Portand e si avvale di un forno rotante azionato elettricamente capace di produrre

80 tonnellate di cemento al giorno. Frutto dell'attivismo di Dolcetta (anche se la

proprietà sarà per due terzi della Montecatini) è, nel 1924, la Società Sarda

Ammonia e Prodotti Nitrici il cui stabilimento di Oschiri posto a valle del nuovo

impianto elettrico del Coghinas è attrezzato per la produzione di ammoniaca

sintetica. Dolcetta coinvolge la Montecatini anche nella Società Anonima

Industrie Minerarie Sarde, che ha come scopo il trattamento dei minerali piombo-

zinciferi.

Rappresentante di un potere finanziario del tutto esterno alla Sardegna, Dolcetta è

perfettamente conscio dei pericoli che possono venire alla sua attività dall'ostilità'

dell'ambiente sardo: fa quindi di tutto per coinvolgere nei suoi progetti la parte più

dinamica e ricettiva dell'imprenditoria locale. Gli facilitano il compito alcune

figure chiave dell'ambiente finanziario cagliaritano (Gracco Tronci, i fratelli

Dionigi e Stanislao Scano) che già nell'anteguerra hanno fatto da battistrada

all'ingresso della Banca Commerciale nell'isola. Dolcetta non si limita ad affidare

ai suoi interlocutori cagliaritani importanti compiti di progettazione, per esempio

allo studio d'ingegneria che fa capo a Dionigi Scano toccano quelli relativi alla

bonifica dello stagno di Sassu, ma li chiama a far parte dei consigli

d'amministrazione delle società che controlla. Se gli industriali cagliaritani sono

presi, in questi primi anni Venti, da un inusuale fervore di idee e progetti, molto si

deve all'attivismo di Dolcetta. Il fatto che nel 1925 venga chiamato alla presidenza

della neocostituita Unione provinciale degli industriali costituisce la sanzione

ufficiale del ruolo dominante del <<Gruppo Tirso>> (come viene chiamato

l'insieme delle società controllate da Dolcetta), ma anche il sintomo del suo

perfetto acclimatamento nell'ambiente imprenditoriale cagliaritano.

24

Quanto alle relazioni che intrattiene con le gerarchie del Pnf, lo troviamo tra i

finanziatori del “Littore sardo” e presente, più tardi, nel consiglio

d'amministrazione del “Giornale di Sardegna”. Fonti interne al Pnf parlano di

Dolcetta come di un finanziatore occulto di Paolo Pili, ma da ciò non deriva un

suo reale coinvolgimento nelle lotte interne al fascismo. Nelle concitate vicende di

questi anni, in effetti, non mostra una particolare simpatia né per i sorcinelliani né

per il “sardofascimo”. L'atteggiamento del Gruppo Tirso è espresso perfettamente

da uno dei cagliaritani più vicini a Dolcetta, Dionigi Scano, quando auspica

<<che, data la gravità del momento, il grande partito liberale modificato possa

fare risorgere rinnovato romanamente nei Fasci>>.18

18 Marrocu, Il ventennio, cit., pagg. 655-657.

25

2. La solidarietà tra i lavoratori in Sardegna: dalle Società di

Mutuo Soccorso alle Cooperative

26

2. 1 Le Società di Mutuo Soccorso

Tra il Settecento e l’Ottocento assistiamo alla nascita e allo sviluppo dei processi

d’industrializzazione, che portano a uno sconvolgimento dell’assetto economico e

sociale esistente.

Le nuove strutture economiche e sociali, il fenomeno dell’inurbamento, i bassi

livelli salariali rendono impossibili e inadeguate le tradizionali forme di

assistenza. Non esistendo una legislazione sociale che superi questi inconvenienti,

si consente all’impresa industriale di acquisire la forza lavoro necessaria al prezzo

più basso, senza alcun obbligo di tutela verso gli operai.

Lo Stato, adottando una politica di un liberismo economico assoluto, è di fatto

uno stato assenteista, uno Stato che si limita a riconoscere l’uguaglianza giuridica

formale degli individui, senza mettere in campo alcun intervento volto ad

eliminare le disuguaglianze sociali esistenti. I governanti ritengono che a regolare

la vita economica e sociale siano sufficienti le leggi economiche e di mercato e

che i lavoratori debbano provvedere da sé a risolvere i propri problemi. In tale

contesto la solidarietà tra i lavoratori assume caratteristiche diverse rispetto a

quelle precedenti, strutturate intorno alle corporazioni, e le prime forme

associative della classe operaia sono le Società di Mutuo Soccorso che nascono

con funzione previdenziale.

Si tratta di organizzazioni volontarie di lavoratori, quasi sempre appartenenti ad

una stessa categoria, che si tassano di una piccola quota mensile, con la quale

costituiscono un fondo comune da cui attingere per concedere aiuti di vario tipo, a

seconda degli scopi sociali previsti negli statuti. Si vuole così eliminare il rischio

della fame e della miseria in caso di disoccupazione, malattia, infortunio,

invalidità e vecchiaia. Inoltre in caso di decesso alle famiglie vengono elargiti

aiuti per le far fronte alle spese funebri.

In Sardegna il problema di garantire la mutua e reciproca assistenza tra gli operai

si pone più tardi rispetto resto d’Italia; molto più lenta è infatti la trasformazione

dell’economia dalla forma rurale e artigianale a quella industriale.

27

Fino alla metà dell’Ottocento, infatti, l’assistenza degli indigenti e degli infermi è,

almeno in parte, garantita dalle numerosa presenza di Confraternite ed

Arciconfraternite. Buona parte di esse provvedono, oltre che al culto ed esercizio

di particolari pratiche pie, anche all’assistenza dei confratelli infermi, delle

vedove e degli orfani dei defunti.

I lavoratori sono a loro volta riuniti negli antichi Gremi o corporazioni di arti e

mestieri. I gremi sono allo stesso tempo associazioni religiose e corporazioni per

la difesa degli interessi di una categoria di lavoratori, e leghe di mutua assistenza

e previdenza fra i loro componenti.

Presenti in un primo momento solo nelle città più popolose, nascono

spontaneamente fra coloro che esercitano un mestiere o mestieri simili. Il gremio

impone regole severe per poter svolgere un’ attività artigianale, controllando la

qualità del prodotto e stabilendone il prezzo. Il mestiere si può esercitare solo

dopo un lungo periodo di apprendistato presso un maestro e il superamento di un

difficile esame.

Gli artigiani che non seguono le norme stabilite dal Gremio sono soggetti a

sanzioni pecuniarie di rilevante entità. Una severità esercitata per difendere la

categoria dei lavoratori che l’organizzazione rappresenta.

Il gremio concede l’assistenza, in caso di necessità, ai soci e alle loro vedove e ai

loro figli e garantisce una dignitosa sepoltura nella tomba dell’associazione ai

propri defunti.

Nei loro statuti sono indicati spesso precise norme che impongono impegni e

doveri di mutua e reciproca assistenza tra gli iscritti e speciali interventi in favore

dei soci infermi, o che si trovano in particolari situazioni di bisogno.

Come già detto i gremi presentano anche un carattere religioso e gli associati

devono attenersi scrupolosamente ai principi cristiani nel condurre la loro

esistenza. Di particolare importanza sono le regole dettate per i comportamenti

all’interno della famiglia e verso gli altri associati; è dovere dei soci partecipare

alle solennità religiose, alla festa del Santo Patrono, alla cura della cappella dove

vengono sepolte le salme dei membri delle corporazioni e dei loro familiari.

28

Il sistema in cui agiscono i gremi entra in crisi con il diffondersi delle idee di

libertà sostenute dalla rivoluzione francese.

Bisognerà tuttavia attendere il 1844 perché siano abolite le funzioni

monopolistiche delle corporazioni e stabilita la volontà da parte dei lavoratori di

far parte del Gremio o di esserne esentati, (la sopravvivenza delle corporazioni

viene prorogata a condizione che queste si trasformino in confraternite

devozionali, limitate a servizi di religiosità, di carità, di beneficenza).

Quell’anno entra in vigore lo Statuto Albertino che all’art.32 concede la libertà di

associazione, lasciando aperte altre vie che consentono lo strumento della

solidarietà tra i lavoratori.

La fine all’esistenza di queste organizzazioni è stabilita dalla legge del 29 maggio

1864, con la quale si decreta la soppressione definitiva delle corporazioni e dei

gremi.

Anche in Sardegna i lavoratori vengono così affrancati dai vincoli corporativistici,

anche se, per contraltare, perdono la possibilità del soccorso vicendevole.

In alternativa viene seguito l’esempio degli artigiani e dagli operai del continente

che si sono riuniti in Società di Mutuo Soccorso, le quali hanno per statuto

l’unione, la fratellanza, l’assistenza e come fine il benessere morale e materiale

dei soci .

La prima Società di Mutuo Soccorso in Sardegna è fondata a Sassari il 25 maggio

del 1851.19

Qualche anno più tardi un’altra società viene costituita a Cagliari.20

Tra il 1851 e il 1861 ne vengono fondate quattro, costituenti meno dell’1 per

cento di quelle sorte fino al 1862 nel territorio del nascente regno d’Italia.

19 Cfr. C. Ferrai (a cura di), La Società di mutuo soccorso tra passato e presente. Impegno e ruolo delle SMS sarde nel contesto dell’evoluzione sociale in Italia, in Sardegna, in Europa, Cagliari, 2002,pagg. 41-45.

20 Ivi, pag. 57.

29

Nonostante il loro limitato numero, queste società riescono a liberare gli operai

dall’asfissiante tutela delle corporazioni e da quella delle varie autorità

ecclesiastiche.21

Le società di Mutuo Soccorso sarde si danno un’organizzazione su base

territoriale e, solo nei centri più popolosi, si differenziarono per categorie

professionali.

Sul piano strettamente mutualistico ai soci vengono garantiti diversi vantaggi: il

socio che si ammala ha diritto al medico, alle medicine e ad un sussidio

giornaliero per inabilità; in quasi tutti gli statuti sono inoltre stabiliti contribuiti

per le spese funebri e sussidi straordinari per i soci che cadono in stato di

necessità.

Se l’ente possiede una tomba sociale gli aderenti hanno il diritto di esservi sepolti,

e il defunto è accompagnato alla sua ultima dimora dagli associati.

Ai soci “non morosi e di indubbia moralità” viene concessa la possibilità di

ottenere dei prestiti.

Molte Società rivolgono particolare attenzione al settore dell’istruzione; vengono

retribuiti degli insegnanti, si tengono conferenze e dibattiti organizzati dai soci

onorari o da illustri personaggi.

Le entrate delle Società di Mutuo Soccorso sono costituite essenzialmente dalle

contribuzioni dei soci, in misura minima invece beneficiano delle liberalità di

filantropi. Altri proventi derivano dagli interessi sul capitale prestato ai soci e,

seppure in misura minore, dagli interessi su depositi bancari.

È prevista una tassa di ammissione, che varia da un minimo di tre a un massimo di

cinque lire. Le Società più accorte differenziano le tasse di ammissione e i

contributi a seconda dell’età: più si è anziani, maggiore è la somma da versare.

21 G. Tore, Dai germi alle società di mutuo soccorso (1848 – 1870), in A. Mattone (a cura di), Corporazioni, Gremi e Artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel medioevo e nell’età moderna (XIX – XIX secolo), Cagliari, 2000, pagg. 691-692.

30

Le principali voci di spesa sono costituite dall’assistenza medica e dagli stipendi

al personale.

Nella Società di Sassari il medico viene nominato per la prima volta il 12

Settembre 1853, insieme ad un medico chirurgo ed ad un farmacista. La nomina

segue una procedura particolare, nella quale prima il medico propone il proprio

progetto di lavoro alla società, contenuto in una busta chiusa e sigillata, che poi

viene aperta e letta dal segretario della società. Sulla base di tale progetto il

medico viene o meno eletto dall’assemblea della questione in merito –ovvero

sulla nomina di un medico sociale, di un chirurgo e di un farmacista- assentita

dall’assemblea, il Presidente esibisce le sommissioni fatte alla società dal Dott.

Medico collegiale Sig. Pasquale Umana, dal Dott. Chirurgo Sig. Diego Sassu,

debitamente chiuse e sigillate, dopo vengono aperte e poi lette dal segretario,

quindi vengono messe ai voti e infine eletti all’unanimità di suffragio con

assegnazione di un assegno di 150 lire da pagarsi per ogni semestre esercitato..

Le decisioni vengono prese dalla società costituita in assemblea generale e

presieduta dal presidente o da uno dei due vicepresidenti, che sono eletti dalla

stessa assemblea.

Il consiglio d’amministrazione composto in genere dai consiglieri effettivi e 2

supplenti, affianca il presidente nella propria attività.

Negli Statuti è in genere prevista la nomina di una commissione di probiviri e di

un comitato di sindaci.

La commissione di probiviri ha il compito di esaminare e

risolvere in via conciliativa qualunque vertenza si presenti nella società e di

stabilire le espulsione dei soci. Le sue decisioni sono indiscutibili.

I soci si dividono in soci effettivi, soci benefattori e soci onorari; i soci effettivi

sono generalmente di sesso maschile; con un’età tra i 18 e i 50 anni e devono

esercitare un’ottima condotta morale e civile ed essere dichiarati di sana e robusta

costituzione fisica quando vengono visitati dal medico sociale.

Le Società di Mutuo Soccorso nascono in gran numero alla fine dell’Ottocento,

costituendo un primo strumento di previdenza sociale.

31

La maggior parte di queste subiscono una battuta d’arresto nel ventennio fascista.

Molte vengono commissariate, le loro sedi diventano oggetto d’ordini di rilascio

da parte delle amministrazioni comunali22.

22 La Società, cit., pagg. 48-50.

32

2.2 Le cooperative: inizi e affermazione nei principali stati europei

Il movimento cooperativo in Italia nasce sulla base dei modelli europei, come

organizzazione imprenditoriale alternativa all’impresa privata, nella quale gli

scopi di natura “sociale” sono strettamente collegati a quelli produttivi.

L’idea originaria della cooperazione si basa sull’unione delle forze per il

raggiungimento di comuni obiettivi di promozione economica e sociale, sulla

responsabilità di gruppo nei confronti del lavoro, sul senso di dignità e dell’azione

civile, sul vantaggio dell’impresa cooperativa rispetto ad altre forme di impresa

per certi tipi di prodotti e servizi.23.

Nel corso della prima metà dell’Ottocento, in diverse aree e paesi dell’Europa,

iniziano a svilupparsi alcune importanti esperienze cooperative che assumono in

breve le caratteristiche di veri e propri modelli organizzativi, ciascuno dei quali è

imperniato su di un determinato settore della vita economica. A quelle esperienze

il movimento cooperativo italiano, consolidatosi successivamente, si ispirò in

misura diversa.

La cooperazione, come forma di autogoverno economico e sociale da parte dei

lavoratori, per il perseguimento e la realizzazione di comuni aspirazioni ed

obiettivi, nasce in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo. L’impatto sociale

delle grandi trasformazioni economiche connesse all’industrializzazione sulle

classi lavoratrici inglesi si manifesta in modo drammatico in certe aree del paese,

in particolare nel Lancashire, il principale distretto cotoniero dell’Inghilterra.

Manchester, il capoluogo del Lancashire, per effetto della presenza sul territorio di

numerose industrie tessili e meccaniche ha conosciuto una crescita demografica

rapidissima: da 25.000 abitanti, alla metà del Settecento, la sua popolazione

raggiunge le 300.000 unità solo un secolo dopo. Questa enorme e drammatica

espansione è avvenuta in assenza di un’ appropriata regolamentazione ed ha finito

23 M. Fornasari e V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia – Un profilo storico-economico (1854-1992), Firenze, 1997, pag. 5.

33

per compromettere le condizioni igenico-sanitarie di gran parte della popolazione

urbana, che presenta tassi di mortalità elevatissimi. Anche alcune categorie di

lavoratori, più legate al tradizionale modo di produrre, subiscono i contraccolpi

della meccanizzazione del processo di produzione. I tessitori a mano in particolare

rappresentano una categoria di lavoratori destinata a ridursi drasticamente con la

diffusione dei telai meccanici: è stato calcolato che alla metà del secolo i loro

salari avevano già subito una contrazione del 25% rispetto ai primi dell’Ottocento.

Non è un caso che proprio da tale categoria di lavoratori prende avvio il tentativo

di dar vita alla prima associazione cooperativa di consumo. Protagonisti

dell’iniziativa sono 28 tessitori di Rochdale, un importante e popoloso centro

agricolo e industriale a nord di Manchester, che nel 1854 fondano uno spaccio

cooperativo. La caratteristica dello spaccio, la cui creazione rappresenta uno solo

degli obiettivi del più ampio programma che i cooperatori inglesi hanno realizzato

e intendono attuare, consiste nella vendita ai soci di generi di prima necessità a

prezzi di mercato; gli eventuali utili dell’attività distributiva saranno distribuiti tra

gli stessi, in proporzione all’entità degli acquisti operati. I soci hanno inoltre il

diritto di esprimere un unico voto individuale per l’elezione dell’organismo

amministrativo della cooperativa.

L’iniziativa dei “Probi pionieri di Rochdale”, come vennero successivamente

chiamati nella letteratura cooperativa internazionale i 28 cooperatori inglesi, si

inserisce in un contesto caratterizzato da mutamenti economici e sociali epocali,

cui non fu facile in un primo momento da parte delle classi lavoratrici reagire

costruttivamente. A partire dall’inizio del secolo fra le prime organizzazioni di

autodifesa dei lavoratori vanno annoverate le Friendly Societies, embrionali

società di mutuo soccorso tra i lavoratori. Da esse nascono in un secondo

momento le associazioni cooperative; in molti casi questo rapporto di filiazione

risulta evidenziato dalla denominazione di queste ultime, in cui continuava a

34

comparire il termine friendly.24

Se L’Inghilterra può considerarsi la patria della cooperazione di consumo, pur con

alcune cautele, si può affermare che in Francia nascono invece le cooperative di

produzione. Forme di collaborazione tra capitale e lavoro vengono

originariamente sostenute dal conte di Saint-Simon, del quale è noto l’entusiasmo

con cui si fa paladino dello sviluppo industriale come mezzo di elevazione delle

classi povere, influenzando il pensiero e l’azione di molti pensatori, anche al di

fuori dei confini francesi. Saint-Simon dedica particolare cura anche alle

istituzioni sociali il cui scopo principale è l’accrescimento del benessere dei

lavoratori. Tra queste istituzioni egli ritiene decisivo il ruolo svolto da forme di

associazione e cooperazione tra i ceti produttori, tramite le quali i nuovi ceti

avrebbero prevalso definitivamente sui vecchi ceti sociali legati alla rendita

agraria e finanziaria, creando nel contempo un argine al disordine del primo

capitalismo.

Critico nei confronti del produttivismo del conte di Saint-Simon, Charles Fourier,

noto come l’ideatore del falansterio, una sorta di organismo comunitario

autarchico, ne riprende tuttavia i concetti di armonia e conciliazione. Nell’ambito

di tale riflessione, egli formulò il progetto di creazione di comptoirs commanaux,

casse comuni costituite tra gli agricoltori, che devono distribuire ai soci i mezzi di

produzione necessari, fornirli di eventuali anticipi sulle vendite dei prodotti e

conservare questi ultimi in appositi magazzini. Si tratta di istituti confacenti alla

struttura economica della Francia, caratterizzata dalla larghissima diffusione della

piccola proprietà terriera a conduzione diretta, che opera spesso in condizioni di

arretratezza tecnica.25

Casse rurali e banche popolari che presentano una diffusione pressoché

universale, vengono sperimentati per la prima volta nella Confederazione

24 Ivi, pagg. 9-12.

25 Ivi, pagg. 13-14.

35

germanica. Nel 1840, il tedesco Friedrich Wilhelm Raiffeisen dà vita ad

Anhausen, un piccolo comune della valle del Reno, alla prima forma di Società

cooperativa di Credito rurale, istituendo una cassa rurale con caratteristiche

peculiari che si sarebbero conservate nel tempo: la ristretta sfera d’azione

dell’istituto, estesa al massimo ad un paio di villaggi; la responsabilità illimitata

dei soci, i soli a beneficiare dell’attività di credito; i tenui tassi di interesse

praticati; il carattere popolare dell’azionariato. Queste caratteristiche riflettono le

prevalenti condizioni agrarie di molte regioni tedesche, in particolare di quelle ad

ovest del fiume Elba, dove più diffusa è la piccola e media proprietà contadina,

alla quale i nuovi istituti di credito intendono fornire un supporto economico.26

Benché meno nota rispetto alle esperienze che connotarono lo sviluppo del

movimento cooperativo in Gran Bretagna, Francia e Germania, verso la fine

dell’Ottocento si diffonde in Danimarca una peculiare forma di impresa

cooperativa, legata alla trasformazione dei prodotti dell’allevamento zootecnico,

che non solo ha una rapidissima diffusione, ma contribuisce in modo determinante

alla crescita economica del piccolo paese scandinavo.27

Il seme della cooperazione viene gettato dal teologo e vescovo luterano N.F.S.

Gründtvigts (1783-1872) - personalità di spicco nella storia della chiesa

protestante di Danimarca e autore dell’inno nazionale – il quale sollecita gli

agricoltori della sua diocesi alla promozione di cooperative agricole e di scuole

popolari. La formazione di capitale umano, decisiva nel processo di sviluppo

economico di un paese, è enormemente agevolata dalla diffusione di tali istituti:

insieme all’attività di formazione svolta dalle scuole professionali superiori, che

sensibilizzano i giovani agricoltori al progresso e alle innovazioni tecniche, essi

26 Ivi, pag. 17.

27 Ivi, pag. 19.

36

permettono alla Danimarca di ottenere un’imprevedibile successo economico, che

fa di essa la <<fattoria d’Europa>>.28

28 Ivi, pag. 20.

37

2.3 La cooperazione in Italia

Il movimento cooperativo italiano muove i primi passi nel Regno di Sardegna

durante gli anni Cinquanta del XIX secolo. Nel 1854 viene infatti creata a Torino,

per iniziativa dell’Associazione generale degli operai della città, la prima

cooperativa di consumo, sotto forma di un <<comitato di previdenza>>. Due anni

più tardi, nel 1856, ad Altare, un piccolo centro in provincia di Savona, sorge la

prima cooperativa di produzione tra i lavoratori dell’arte vetraria. Come era

avvenuto in Inghilterra, la nuova forma di associazionismo popolare risulta

strettamente collegata alle società di mutuo soccorso. Nel primo caso il magazzino

di previdenza nasce dal seno dell’Associazione dei lavoratori torinesi, costituitasi

nel 1850 tra le diverse società operaie della capitale del regno sabaudo; nel

secondo, è la stessa cooperativa di Altare a dare vita, in un successivo momento,

ad una società di mutuo soccorso tra i lavoratori vetrai.

Questa localizzazione geografica dipende da numerose circostanze, a partire dalla

più favorevole legislazione vigente nel Regno piemontese. Lo Statuto albertino,

emanato nel marzo del 1848 e rimasto in vigore anche dopo il fallimento dei

rivolgimenti di quell’anno, concede, in base all’articolo 32, la libertà di

associazione e di riunione.

L’assenza di una legislazione sociale, l’indebolimento del tradizionale apparato

ecclesiastico, colpito dalle leggi Siccardi del marzo del 1850, l’avvio di

trasformazioni economiche aperte ai nuovi sviluppi industriali e le conseguenti

difficoltà delle lavorazioni e dei mestieri tradizionali, sono elementi che

contribuiscono al consistente sviluppo delle società operaie di mutuo soccorso

durante il decennio pre-unitario.29

Il nuovo Codice di commercio, approvato nel 1882 dopo una lunga gestazione,

riserva alle imprese cooperative la VII sezione del titolo IX del I libro. Se per i

principali adempimenti societari – dalla formalizzazione degli atti fondativi alla

29 Ivi, pag. 21.

38

redazione dei bilanci e così via - il Codice si limita ad assimilare le società

cooperative a quelle anonime, riserva loro tuttavia un trattamento particolare in

relazione al mantenimento di una effettiva uguaglianza tra i soci e alla

pubblicazione degli atti societari. Nel primo caso la nuova normativa commerciale

attribuisce ai soci un voto a ciascuno, impedisce la vendita delle azioni senza

l’approvazione dell’assemblea e impone precisi limiti al possesso di azioni

individuali; nel secondo il Codice stabilisce l’esenzione delle società cooperative

dal pagamento delle tasse di registro e di bollo. Sebbene sottoposta a numerose

critiche, tra le quali quella di non aver attribuito un rilievo autonomo alle società

cooperative, disconoscendone in sede giuridica la specificità dei valori costitutivi,

la nuova legislazione commerciale stabilisce la presenza nella società italiana

dell’associazionismo economico, divenuto ormai un fatto irreversibile.30

In Italia si afferma definitivamente il movimento cooperativo durante i due

decenni che separano l’avvio della crisi agraria, - iniziata in Europa sin dal 1873,

e in Italia a partire dai primi anni Ottanta, - dal tentativo illiberale di fine secolo di

soppressione delle garanzie costituzionali intrapreso dal di Rudinì. Durante quel

ventennio s’assiste allo sviluppo del fenomeno cooperativo in tutti i settori della

vita economica, al nascita di un’organizzazione centrale delle cooperative, con

l’ideale di eseguire un’azione di ordinamento a livello nazionale fra tutte le

società aderenti, e, infine, all’inclusione del movimento cattolico nella

cooperazione, con proprie specifiche organizzazioni.31

Non tutte le cooperative riescono ad aggiudicarsi appalti di lavori pubblici per

grandi somme sebbene l’importante provvedimento legislativo, approvato l’11

luglio 1889, tenda a favorire le cooperative di produzione e lavoro, alle quali

permette l’assegnazione di lavori pubblici, sino a un importo di 100.000 lire. In

particolare è l’articolo 4 del nuovo dispositivo legislativo a permettere di stipulare

30 Ivi, pag. 39.

31 Ivi, pag. 41.

39

a licitazione e a trattative private contratti per l’appalto di lavori con associazioni

cooperative di produzione e lavoro, legalmente costituite tra operai, purché il

lavoro non superi le lire 100.000 di valore, e riguardi appalti nei quali il valore

della mano d’opera fosse la voce più rilevante fra tutte quelle del capitolato..

Ma spesso è la difficoltà di mettere insieme il capitale di partenza a risultare di

difficile realizzazione per i soci, spesso provenienti dai ceti sociali più bassi,

cosicché quella che sulla carta sembra come un provvedimento a favore delle

cooperative produce risultati inizialmente minimi.32

I consorzi agrari, nascono con lo scopo di acquistare in comune sementi, piante

foraggere e attrezzature agricole. La loro istituzione fu anticipata dalle

associazioni agrarie e dalle unioni di agricoltori, costituitesi sin dagli anni

successivi all’unificazione. I primi Consorzi nascono in Valpadana sul finire degli

anni Ottanta: la loro formazione, sostenuta dai grandi, ma anche dai medi e piccoli

proprietari fondiari, è legata in particolare all’utilizzo dei concimi chimici, che

possono essere di rilevante utilità per il progresso agricolo. Dall’iniziale attività di

acquisto in comune di prodotti e macchinari utilizzati per le aziende agrarie, i

Consorzi, che già nel 1892 nel corso del congresso svoltosi a Piacenza danno vita

ad una Federazione unitaria a livello nazionale, passano alla vendita dei prodotti,

all’esercizio del credito agrario, alla formazione di magazzini generali, alla

promozione dell’istruzione professionale e ad altre svariate attività a sostegno

dell’agricoltura.33

Il fervore di iniziative nei diversi settori della cooperazione che caratterizza gli

anni Ottanta si accompagna da un lato ad un crescente interesse da parte di alcuni

ambienti culturali e accademici verso il fenomeno cooperativo e dall’altro culmina

nella costituzione, avvenuta nel 1886, della Federazione nazionale delle

32 Ivi, pag. 47.

33 Ivi, pag. 49.

40

cooperative, che cinque anni più tardi, nel 1893, sarebbe diventata la Lega

nazionale delle società cooperative italiane.34

Grazie alla Lega, il movimento cooperativo italiano continua a tessere intensi

rapporti con le organizzazioni cooperative europee, delle quali intende imitare le

principali esperienze organizzative. Tali rapporti culminano nell’importante

contributo offerto dai suoi dirigenti alla fondazione dell’Alleanza cooperativa

internazionale che si realizza a Londra nell’agosto del 1895. Ad eccezione della

componente cattolica, il movimento cooperativo italiano si presenta unitariamente

ad un appuntamento che doveva risultare decisivo per l’avvenire della

cooperazione mondiale

La nuova Alleanza rappresenta la definitiva consacrazione dell’internalizzazione

del “fatto cooperativo”, la cui capacità di intervento nelle singole economie

nazionali era ormai un dato di fatto.

A cavallo degli anni Ottanta e Novanta anche i cattolici, ai quali il non expedit di

Pio IX impediva la partecipazione alla vita politica del paese, avviano un più

ampio ed incisivo intervento nella sfera sociale. Esso dipende in parte dal

tentativo di contrastare la crescente influenza esercitata dai socialisti sul

proletariato rurale e urbano, ma soprattutto dall’aspirazione a far emergere il

proprio specifico orientamento di pensiero e di programma nei riguardi di quella

che i contemporanei consideravano la questione del secolo: la “questione

sociale”.35

L’associazionismo e il solidarismo cattolici trovano un fertile terreno di fioritura

soprattutto nel settore del credito, mediante la promozione delle Casse rurali. Lo

scopo di questi istituti, che inizialmente non si caratterizza in senso confessionale,

consiste infatti nella concessione di prestiti sia a breve che a lungo termine ai

piccoli agricoltori (proprietari, affittuari e mezzadri), la cui posizione economica

34 Ivi, pag. 54.

35 Ivi, pag. 63.

41

risulta allora minacciata da molteplici fattori, congiunturali e strutturali – crisi

agraria, pressione fiscale, rafforzamento della grande proprietà,

ridimensionamento dei Monti frumentari -, nonché dall’attiva presenza nelle

campagne di usurai, che concedevano prestiti ai contadini indebitati a tassi anche

del 100%. 36

Il processo di crescita della cooperazione di credito cattolica, pur accompagnato

da una frammentazione delle strutture cooperative legata alla stessa natura delle

Casse rurali, si abbina ad un primo tentativo di costituzione di un organismo

federativo nazionale in grado di coordinare le attività istituzionali. La Cassa

centrale per le Casse rurali cattoliche d’Italia, fondata a Parma nel 1896, si

propone di svolgere la funzione di organismo bancario centrale a favore delle

cooperative di credito, con compiti di finanziamento e coordinamento delle

molteplici esperienze cooperative locali.37

Nonostante il prevalente orientamento verso il settore del credito, i cattolici si

impegnano attivamente anche nella costituzione di cooperative agricole e di

lavoro, di latterie e di cantine sociali: sempre più in ambiente rurale che non

urbano, sempre più al Nord che non al Centro o nelle regioni del Sud. La

cooperazione agricola di matrice cattolica, che solo nel primo decennio del

Novecento assume una certa consistenza quantitativa, si indirizza in particolare

sulla diffusione di un caratteristico tipo di affitto agrario: l’affittanza collettiva a

conduzione divisa. Essa prevede che un certo numero di agricoltori, riuniti in una

società cooperativa, prenda in locazione da un proprietario, o da un ente, un’ampia

tenuta, che viene successivamente suddivisa in poderi di ampiezza variabile

assegnati in conduzione ai singoli soci.

Lo sviluppo di cooperative agricole cattoliche, ma anche di latterie e cantine

sociali, per quanto non assuma un andamento impetuoso, pone tuttavia anche in

36 Ivi, pagg. 65-66.

37 Ivi, pag. 67.

42

tale settore l’esigenza di coordinamento, sfociata, a livelli territoriali più

circoscritti, nella formazione di Unioni agricole e, a livello nazionale, nella

realizzazione della Federazione delle unioni cattoliche cooperative agricole, nata

nel 1898.38

Nel corso del primo quindicennio del XX secolo, noto come età giolittiana, per la

forte impronta ad esso conferita dall’azione di governo di Giovanni Giolitti, più

volte presidente del Consiglio di ministri, si pongono le basi della moderna Italia

industriale. Traendo impulso dalla favorevole congiuntura internazionale,

contrassegnata da un nuovo ciclo di innovazioni tecnologiche e dal sensibile

rialzo dei prezzi, dalla ristrutturazione del sistema bancario operata negli anni

Novanta dell’Ottocento, dal ruolo dello Stato in qualità di committente, dalla

nuova politica industriale imposta dal ceto dirigente liberale, l’economia italiana

manifesta segni di grande dinamismo.

Il più favorevole clima economico, riflesso anche nelle mutate condizioni

politiche ed istituzionali introdotte da Giolitti, nel tentativo di coinvolgere nella

politica governativa una parte del movimento operaio, porta al rafforzamento della

cooperazione. Uno dei principali aspetti della sua storia durante quel periodo è

infatti dato dalla grande crescita numerica delle società cooperative, favorita

anche da una legislazione ad esse più favorevole. Tra il 1904 e il 1910 vengono

infatti emanati ben dodici provvedimenti legislativi volti ad aiutare in modo più o

meno diretto la cooperazione. Un numero così elevato di leggi, in un arco di

tempo molto breve, chiarisce una delle principali caratteristiche che segnano le

vicende del movimento cooperativo italiano nel primo quindicennio del XX

secolo: una sorta di scambio reciproco tra il governo e la cooperazione in base al

quale il primo cerca di attirare ed integrare nell’ambito dello Stato liberale il

movimento dei lavoratori nei suoi diversi aspetti, la seconda di attenuare il

38 Ivi, pagg. 70-71.

43

contenuto di classe delle istituzioni liberali, rendendole, per quanto possibile, più

sensibili alle istanze sociali ed economiche dei ceti più umili.39

L’avvento del fascismo, porta la fine delle attività di numerose cooperative in tutti

i settori economici, con conseguente diminuzione del numero delle Casse rurali,

scese a 834 nel 1923, che quelle cooperative avevano largamente alimentato, e

successivamente sulla stessa Banca del lavoro e della cooperazione, che cessa

l’attività nel 1923.

In quel periodo tutto il movimento cooperativo è ormai avviato a una fase di

ridimensionamento se non di vero e proprio smantellamento. In principio sono

numerose ragioni economiche a incidere sulla sua esistenza. La caduta dei prezzi,

conseguenza della grande recessione economica mondiale, comporta gravi

ripercussioni sulle cooperative di consumo, le quali vedono perdere di valore

monetario le scorte accumulate in abbondanza in precedenza, e, mentre le

depresse condizioni della domanda riducono sensibilmente le vendite, la definitiva

liquidazione della politica annonaria bellica e il ritorno ad un regime di

liberalizzazione degli scambi interni accentuano in particolare le difficoltà delle

cooperative di consumo, sorte nel precedente clima di protezione statale. Dal

canto loro, le cooperative di produzione e lavoro, ugualmente penalizzate dal

ribasso dei prezzi, risentono di due fattori che rendono incerta e precaria la

situazione economica dell’intero paese. Le crescenti difficoltà della finanza

pubblica, gravata da un elevato deficit di bilancio, rendono incapace

l’amministrazione dello Stato di sostenere le cooperative con regolari flussi di

spesa, mentre la crisi di riconversione produttiva, che interessa l’industria pesante,

non risparmia quelle imprese cooperative operanti nei settori metallurgico,

meccanico e cantieristico. La crisi della cooperazione si ripercuote

inevitabilmente sul settore del credito cooperativo, sia ai vertici, dove l’Istituto

nazionale di credito denuncia una crescente mancanza di mezzi finanziari, sia alla

39 Ivi, pagg. 79-80.

44

base, dove, il numero delle Casse rurali si avvia ad una progressiva diminuzione.

In questo caso la crisi opera in due modi: il cattivo funzionamento delle

cooperative di consumo e agricole rende impossibile la restituzione dei prestiti

concessi dalle casse rurali, nel momento in cui anche il flusso di depositi si va

assottigliando a causa delle difficoltà dei cooperatori.

Al clima di grave incertezza economica si affianca un’aggressiva campagna di

stampa contro la cooperazione, accusata di parassitismo ai danni della finanza

pubblica; ad essa si intrecciano sia la crescente crisi di legittimità politica del

vecchio ceto dirigente liberale, che ha sostenuto la cooperazione, sia le ripetute,

violente aggressioni delle squadre fasciste alle cooperative socialiste e cattoliche,

che comportano la distruzione di spacci, negozi e sedi cooperative. In questo malo

modo il nascente movimento fascista irrompe nel mondo della cooperazione. Ben

presto, d’altro canto, il fascismo manifesta l’intenzione di costruire una propria

organizzazione autonoma. E proprio nel 1921, nell’anno che segna la nascita a

Roma del Partito nazionale fascista, si costituisce a Milano il Sindacato italiano

delle cooperative, <<organo centrale direttivo della cooperazione nazionale>>.

Una prima base di massa al nuovo organismo è data dalle cooperative tra ex-

combattenti, già aderenti al Sindacato nazionale delle cooperative, scioltosi nel

dicembre del 1922. Qualche mese più tardi le cooperative aderenti al Sindacato

sono già 1846, con 348.270 soci. In realtà, nel successivo biennio, il Sindacato

fascista può consolidarsi grazie al convergere di due circostanze del tutto

eccezionali. Da un lato continua l’azione di aggressione nei confronti delle

cooperative socialiste, cattoliche ed anche autonome, spesso culminata nella

drastica sostituzione degli originari gruppi dirigenti con elementi fascisti e la loro

obbligata adesione al Sindacato italiano delle Cooperative. L’azione, oltreché

perseguita con la violenza, viene propugnata da specifiche norme di legge le quali

autorizzano i prefetti allo scioglimento e al commissariamento delle associazioni

cooperative “sospettate” di illegalità, preludio al loro passaggio all’organizzazione

fascista. Dall’altro lato il Sindacato italiano delle cooperative, forte dell’appoggio

fascista, inserisce propri rappresentanti ai vertici dei principali istituti legati alla

45

cooperazione, mentre alcuni provvedimenti legislativi, emanati dopo la marcia su

Roma e la formazione del primo governo Mussolini, stabiliscono elementi di

maggiore controllo istituzionale sulle società cooperative, diminuendone al

contempo le agevolazioni economiche, così da minarne i bilanci e di conseguenza

le capacità di operare nel contesto economico.

Un esempio pregnante del primo tipo fu la sostituzione alla presidenza della

Federazione nazionale delle cooperative di produzione e lavoro del vecchio

socialista Nello Baldini col fascista Giuseppe Bottai, insieme con l’intero

consiglio di amministrazione. Nel secondo caso l’avvenimento forse più

importante è costituito dalla riforma dell’Istituto nazionale di credito alla

cooperazione, realizzata nel 1923. Se da un lato essa esclude i rappresentanti del

movimento operativo dal consiglio di amministrazione dell’Istituto, dall’altro

promuove ai suoi vertici quegli uomini che maggiormente hanno contribuito alla

creazione dell’organismo cooperativo fascista, a partire dal nuovo direttore

generale, Paolo Terruzzi, uomo di fiducia di Mussolini. D’altra parte la soluzione

data alla crisi dell’Istituto contribuisce a trasformare l’originaria connotazione di

banca cooperativa in quella di istituto di credito ordinario. Ciò viene

definitivamente stabilito nel 1929, quando viene ribattezzata Banca nazionale del

lavoro e posta sotto la direzione di Arturo Osio, senza che questo impedisca, nel

frattempo, un largo sostegno economico alle cooperative inquadrate nel Sindacato

italiano.40

Alla metà degli anni Venti, per ammissione del suo commissario straordinario,

Dino Alfieri, il numero di queste ultime è cresciuto in modo esponenziale,

parallelamente all’indebolimento delle società cooperative aderenti alla Lega,

ridotte nel 1925 a sole 600 unità, preludio al suo scioglimento, che viene deciso

dal prefetto di Milano nel novembre di quell’anno. La medesima sorte tocca da lì

a poco anche alla centrale cooperativa cattolica: la cosiddetta fascistizzazione del

40 M. Fornasari e V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia, cit., pagg.116-118.

46

movimento cooperativo si avvia al suo compimento, contemporaneamente al

passaggio alla fase autoritaria e dittatoriale del regime mussoliniano.41

Il ceto dirigente fascista avvia una profonda ristrutturazione del settore

cooperativo, trasformandolo in un organismo di quel regime reazionario di massa

che secondo alcuni studiosi rappresenta la novità storica del fascismo, la cui

relativa longevità si basa non solo sul ricorso ad istituzioni illiberali e

antidemocratiche, ma anche sulla ricerca e l’organizzazione del consenso. Questa

trasformazione avviene tramite l’inserimento del movimento cooperativo nelle

strutture dello Stato corporativo fascista. La definizione dell’ordinamento

corporativo viene stabilita nella Carta del lavoro approvata nel 1927, la quale

assegna alle corporazioni, organi di raccordo tra i sindacati dei datori di lavoro e

dei lavoratori, la funzione di coordinamento dei diversi aspetti della produzione.

Tale coordinamento avrebbe dovuto realizzare il principio fondamentale del

corporativismo: la collaborazione tra capitale e lavoro, che deve compiersi in un

quadro di forte subordinazione allo Stato.

Da questo punto di vista il 1926 rappresenta l’anno zero della cooperazione

fascista. Nel corso di quell’anno vengono infatti licenziati i principali

provvedimenti legislativi per la ridefinizione del ruolo della cooperazione, la

quale, secondo Mussolini, doveva corrispondere ai tre criteri della <<supremazia

dello Stato>>, dell’efficienza aziendale e del volontarismo. Il primo di tali

provvedimenti fu il regio decreto n.563 sull’ordinamento sindacale, approvato il 3

aprile del 1926 e convertito in legge il 1° luglio. La legge, che riconosce soltanto

due confederazioni sindacali, una per gli industriali e una per i lavoratori,

costringe, con l’articolo 34, le associazioni cooperative all’adesione agli

organismi sindacali <<di grado superiore, sia di datori di lavoro, sia di lavoratori,

secondo la loro natura e il loro funzionamento>>.

41 Ivi, pag. 119.

47

A quel provvedimento fanno seguito i due decreti regi del 9 maggio e del 13

agosto che stabiliscono, rispettivamente, lo scioglimento delle cooperative edilizie

sovvenzionate dallo Stato, i cui consigli amministrativi fossero composti da

elementi sospettati di antifascismo, e la liquidazione dei consorzi e delle

associazioni cooperative, divenuti inutili dal momento che è lo stesso Stato a

decidere a quali cooperative affidare l’esecuzione dei lavori pubblici. Questa

intensa attività legislativa culmina nel regio decreto legge 30 dicembre 1926, il

n.2288. Il provvedimento autorizza la nascita ufficiale dell’Ente nazionale fascista

della cooperazione, cui vengono affidati i compiti dell’assistenza, dello sviluppo e

del ordinamento delle società e degli altri enti cooperativi, e fissa la sua

dipendenza dal Ministero dell’economia nazionale. A quest’ultimo sarebbe

spettata la redazione dello statuto dell’Ente, e il potere di disporre ispezioni ed

inchieste sulle società cooperative, prevedendone anche l’eventuale

commissariamento. Dalla sorveglianza del Ministero restano escluse le

cooperative di credito, che la legge del 3 aprile 1926 ha inglobato nella

Confederazione fascista delle aziende di credito e delle assicurazioni e sottoposto

alla vigilanza del Ministero delle finanze e della Banca d’Italia.

Il provvedimento del 30 dicembre 1926 viene completato dal decreto del 21 aprile

dell’anno successivo, che vuole accelerare l’inquadramento della cooperazione

nell’ordinamento corporativo, attraverso il riconoscimento giuridico delle diverse

Federazioni di settore (di consumo, di produzione e lavoro, agricola e edilizia) e la

loro adesione alle Confederazioni nazionali sindacali, limitata tuttavia ai soli

<<effetti della disciplina giuridica del contratto di lavoro>>. La precisazione

contenuta nel provvedimento giustifica una sia pur debole chance di autonomia

organizzativa della cooperazione, secondo quanto sostenuto da coloro che,

dall’interno della cooperazione fascista, si erano battuti affinché le società

48

cooperative conservassero un certo grado di indipendenza, cercando di impedirne

il destino di crescente burocratizzazione.42

I decreti n. 324 del 2 marzo 1931 e n. 1302 del 28 agosto 1931 limitano ancora di

più la libera cooperazione. Il primo stabilisce la trasformazione dell’Ente

nazionale della cooperazione in istituto di diritto pubblico, costituito tra le

federazioni nazionali di categoria, e non più tra le singole cooperative, con la

principale conseguenza che la sua attività viene profondamente influenzata dalle

Confederazioni nazionali sindacali. Il secondo approvava lo statuto dell’Ente, che

passa dalla dipendenza dal Ministero dell’economia nazionale a quella dal

Ministero per le corporazioni. Oltre a stabilirne in dettaglio le funzioni –

l’assistenza contabile ed amministrativa delle federazioni nazionali di imprese

cooperative, il loro ordinamento e sorveglianza -, lo statuto stabilisce i suoi organi

dirigenti; il consiglio nazionale, il comitato direttivo, il presidente, il collegio

sindacale. Sono chiamati a far parte del primo i presidenti e i delegati delle

federazioni aderenti, i presidenti e i delegati delle federazioni aderenti, i presidenti

e i rappresentanti delle Confederazioni sindacali, dell’associazione delle casse

rurali, delle banche popolari e delle imprese d’assicurazione, un membro del

Partito fascista, i rappresentanti dell’Associazione combattenti e mutilati ed

invalidi di guerra. L’ampia rappresentanza di categorie ed organismi estranei alla

cooperazione in seno al consiglio nazionale dell’Ente conferma il suo definitivo

inquadramento nella struttura piramidale dello stato corporativo e ne stabilisce la

dipendenza dagli interessi economici più forti della nazione. 43

42 Ivi, pagg. 121-124.

43 Ivi, pagg. 126-127.

49

2.4 La cooperazione in Sardegna

Nonostante i primi tentativi della seconda metà dell’Ottocento, al principio del

Novecento lo sviluppo della cooperazione nell’Isola è ancora lento e incerto.

Nel 1901 nascono ad Alghero la “Società cooperativa agricola di San Narciso” e a

Cagliari la “Società Anonima Cooperativa di Credito fra gli Operi e le Operaie

Dipendenti dallo Stato Residenti in Cagliari”.

Nel 1902 si costituiscono, a Bosa la “Società Mutuo Cooperativa fra gli Operai

Conciatori”, a Cagliari il “Credito Popolare Agrario Sardo”, ad Orani la “Cassa

Agraria Cooperativa di Depositi e Prestiti di Orani, a Sassari una cooperativa di

calzolai, un consorzio agrario e a Nuoro un altro consorzio.

Nel 1903 sorgono a Sassari la “Società Anonima Cooperativa Agricola Sassarese”

e una cooperativa di muratori e ad Ozieri una grande cooperativa molitoria , la

prima nel settore che cerchi di ostacolare il monopolio degli industriali e degli

speculatori.

A Monserrato, nel 1904, si segnala una cooperativa di viticultori. L’anno seguente

nascono a Buddusò la “ Unione Mutua Assicuratrice, Agricola e di Consumo”, a

Florinas la Società Anonima Cooperativa a Capitale Illimitato “Il Risveglio

Agricolo” e a Cagliari la “Unione Cooperativa di Consumo” .

Nel 1906 risulta costituita una “Cooperativa vinicola dei viticultori” a Calasetta,

oltre che un “Consorzio agrario cooperativo” a Pozzomaggiore, una cooperativa di

credito a Bonorva e un “Consorzio agrari cooperativo” a Jerzu.44

Nel 1907 si registrano due episodi di rilievo che annunciano una fase nuova e più

ricca del movimento cooperativo in Sardegna: nascono la “Latteria sociale

cooperativa” di Bortigali e la “Cantina sociale” di Monserrato.45

Nel 1908 la diffusione delle cooperative in Sardegna continua ad essere scarsa.

44 Cfr. G. G. Ortu, L’età Giolittiana, in G. Sotgiu (a cura di), Storia della cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pagg. 113-115.

45 Ivi, pag. 116.

50

I dati riportati dalla Federazione delle cooperative e mutue agrarie della Sardegna

nella Statistica delle cooperative agrarie al 31 dicembre 1913 segnalano un

grande sviluppo della cooperazione nel settore del credito agrario non

accompagnato in egual misura negli altri campi: produzione, lavoro, commercio e

consumo.

Le cooperative commerciali e di produzione, costituite in forma anonima per

azioni sono solo otto. Due di esse sono dedite all’impianto e alla coltivazione dei

vigneti, la “Vigna cooperativa” di Oliena e la “Vigna sociale cooperativa” di

Dorgali. Due si occupano di vinificazione e di commercializzazione dei vini: la

“Cantina sociale” di Monserrato, che però è in via di liquidazione volontaria e che

si riformerà sotto altra veste nel 1924, e la “Cooperativa vinicola dei viticultori” di

Calasetta, che purtroppo si trova con l’acqua alla gola perché registra una

rilevante perdita di esercizio causata dal deprezzamento dei suoi vini. Due latterie

sociali si costituiscono: la già citata struttura di Bortigali e l’appena nata “Latteria

sociale cooperativa “Sa Spendula” di Villacidro. Due cooperative di lavoro e

produzione, sono la “Società cooperativa agricola” di Ballao, formatasi nel 1911 e

che dispone di una trebbiatrice a vapore e di una mietitrice-legatrice, e la “Società

cooperativa agricola” di Quartu Sant’Elena, anch’essa nata nel 1911, che possiede

una trebbiatrice a vapore.46

Oltre l’ambito dell’agricoltura e del contesto contadino la situazione è deficitaria.

Nell’allevamento si segnala solo la formazione, nel 1911 a Buddusò della

“Società Pastori Pecorai di San Giovanni Battista”.

Nel 1905 nasce a Ghilarza la “Società Anonima Cooperativa di Consumo” e

cinque anni dopo ad Oristano si costituisce la “Società Anonima Cattolica

Cooperativa di Consumo e Prestiti Circolo San Simaco”.

Tra le cooperative di consumo nel 1911 prende piede a Scano Montiferro la

“Società cooperativa San Giuseppe”.

46 Federazione delle Cooperative e Mutue Agrarie della Sardegna, Statistica delle Cooperative agrarie al 31 dicembre 1913, Cagliari, 1914.

51

Nel 1913 si registra la nascita della “Cooperativa Pescatori” a Stintino, della

“Società Tipografica Sarda” a Cagliari e della società “ Cooperazione e lavoro” a

Silanus.

In campo agricolo ricorrono alla cooperazione produttiva solo i contadini senza

terra e i piccolissimi proprietari per affrontare il maggiore investimento di lavoro

e di mezzi che occorrono per l’impianto dei vigneti, in un periodo in cui per

sconfiggere la piaga della fillossera si vanno sostituendo gli impianti storicamente

utilizzati nell’isola con quelli di vitigno americano. Rispetto a quanto avveniva

solitamente, quando per impiantare una nuova vigna si faceva affidamento

all’aiuto di familiari, parenti, compari e amici senza ricorrere a una struttura

cooperativa, già durante la seconda metà del XIX secolo, gli intraprendenti

viticultori di Monserrato danno vita con successo a forme para-cooperative di

associazione di capitale e lavoro, per estendere alla via nuove zone nelle

campagne del Campidano di Cagliari e del Parteolla.47

Certe volte la cooperazione si rivela utile per l’acquisto di una macchina agricola,

specialmente la trebbiatrice, che in parte serve le aziende dei soci, in parte invece

viene data in uso a terzi, per permettere alla cooperativa di recuperare in breve

tempo il capitale impiegato.

La cooperazione, negli aspetti in cui si manifesta, nella Sardegna dell’età

giolittiana è anche una risposta agli stimoli dati dallo sviluppo economico e civile.

È un fattore e un vettore di modernizzazione,:non è minacciosa, come altrove, nei

confronti del capitale privato e dei ceti che dominano la proprietà terriera, la

finanza, il commercio e l’imprenditoria, morde, tuttavia, se non altro sulla scorza

dura dei modi d’essere non all’altezza dei modi nuovi proposti dalla società

produttiva e civile.48

47 F. Asquer, Le condizioni economico-sociali di una zona rurale nella Provincia di Cagliari, Cagliari, 1909, pagg. 24 e segg.

48 Ivi, pag. 164.

52

Il 10 maggio del 19I4, nella sala dei congressi di Castel Sant'Angelo si apre il I

Congresso regionale sardo, un’affollata riunione alla quale partecipano alte

personalità ed esponenti di spicco del mondo politico ed economico chiamati a

fare il punto sulle condizioni dell’isola dopo il varo e l’attuazione della

legislazione speciale.49

Una delle numerose relazioni proposte è incentrata sulla colonizzazione, sulla

protezione delle piccole proprietà e sull'emigrazione: si chiedono leggi e

stanziamenti per colonie penali, colonie militari, e colonie agricole giovanili come

quelle aperte a Bosa e a Cagliari da <<povere suore francesi>> che hanno raccolto

<<in breve numerosi orfani ai quali impartiscono istruzioni pratiche di

orticoltori>>; la difesa della piccola proprietà, minacciata dell'usura e ostacolata

dalla diffidenza dei sardi verso le forme associative, era l'unico freno

all'emigrazione; la trasformazione agricola e industriale dell'isola avrebbe

arrestato il fenomeno migratorio, nel cui corso pure i sardi avevano, in diverse

parti del mondo, data così buona prova di sé.

La relazione del dottor Armando Mereu, medico e direttore della Federazione

delle Casse rurali sarde, e di Giuseppe Dessy è invece imperniata sul credito

agrario nell'isola, in cui - proprio in ordine alle disposizioni della legislazione

speciale - vengono sottolineate le <<tappe gloriose>> che negli ultimi anni hanno

caratterizzato, in Sardegna, la cooperazione agraria. Nel maggio del I907 si erano

formati due consorzi agrari cooperativi in provincia di Cagliari ed erano nate la

Latteria sociale di Bortigali <<fra quei proprietari di bestiame>> per la

produzione di formaggio, in particolare vaccino, e la Cantina sociale di Calasetta.

Nell'agosto del I909 si sono costituite nelle due province le prime Casse rurali in

nome collettivo; nell'aprile del I9I3, durante il I Convegno delle Cooperative

agrarie della provincia di Cagliari, si contano 69 Casse rurali, 4 Consorzi agrari

49 Cfr. Atti del primo Congresso regionale sardo tenuto in Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 maggio 1914, promosso e organizzato dall’Associazione i Sardi in Roma, Roma, 1914.

53

cooperativi e ancora I0 cooperative di credito e di produzione. Al 23 dicembre del

I9I3 in Sardegna si annoverano I44 cooperative, di cui I00 in attive in provincia di

Cagliari e 44 in provincia di Sassari, e 116 mutue di assicurazione bestiame, con

oltre 30 000 soci: nello stesso dicembre, in occasione del I Congresso regionale

delle Cooperative e mutue agrarie nasce la Federazione delle Cooperative e Mutue

agrarie della Sardegna, ne fanno parte 40 società cooperative e mutue delle due

province, divenute 54 quando si tiene il congresso. C'e purtroppo un aspetto

negativo: i fondi delle Casse ademprivili sono assolutamente insufficienti ai

bisogni, tanto da rendere inattive le 43 casse rurali, sicché, oltre a chiedere una

nuova legge di riordinamento si propone che il credito agrario di esercizio venga

concesso solo per <<mezzo degli Enti intermedi>>, e si ritiene che servano per

questo obiettivo almeno I0 milioni.

In realtà come indicato nella relazione su credito e usura, proposta da Federico

Chessa, noto per una serie di studi molto precisi sull'argomento50 - <<il credito

nell'isola non esiste o è limitato a una piccolissima parte della popolazione>>.

Non solo la Banca d'Italia e gli <<stabilimenti>> del Banco di Napoli erogavano

prestiti quasi esclusivamente al settore industriale e commerciale, ma la stessa

Società Bancaria Sarda, che nel suo programma sostiene di voler <<promuovere

lo svolgimento dei monti frumentari, dei comizi e consorzi agrari, delle

Cooperative e Società agricole>>, in realtà ha come clienti favoriti non i piccoli

proprietari, ma <<commercianti e piccoli industriali locali, sicché non corrisponde

allo scopo per cui venne creata>>. Gli stessi Monti frumentari vengono criticati,

perché la composizione degli organismi di direzione è tale che <<il partito

imperante>> finisce per detenervi la maggioranza: <<da questa deriva – sostiene

Chessa - che il prestito viene generalmente concesso non già a coloro che hanno

effettivamente bisogno del credito, ma agli amici o parenti degli amministratori, i

50 Cfr. F. Chessa, Credito e usura in Sardegna, relazione in Atti del primo congresso regionale fra agricoltori ed economisti sardi, Cagliari, 1898, e ID. Usura sue forme nella provincia di Sassari, in Archivio giuridico Serafini, serie 3, vol. V, marzo-aprile 1906, fasc. 2, pagg. 177-290.

54

quali poi cedono ad usura il grano che hanno avuto a prestito>>.

L’usuario in Sardegna è <<un'istituzione economica>>, penetrando <<là dove il

credito onesto non penetra>> e trovando la garanzia <<là dove questo non la

trova>>. L'usura viene esercitata in forme diversissime, ma tutte caratterizzate da

saggi di interesse che soprattutto nella Sardegna interna <<sorpassano ogni senso

di umanità>>: ad esempio, nel Campidano di Cagliari il 5 per cento a settimana,

cioè il 2I0 annuo. Conseguenze: <<assorbimento della piccola proprietà e della

grande proprietà da parte degli usurai che prestano ad usura col patto di riscatto;

prevalenza della cultura estensiva e limitata applicazione dei metodi moderni di

coltura; poco sviluppo del commercio, specie del piccolo; aumento

dell'emigrazione>>.51

La politicizzazione del movimento cooperativo in Sardegna si manifesta alla fine

della prima guerra mondiale, fino ad allora, salvo qualche eccezione, non sono

presenti contrapposizioni ideologiche e nette divisioni di orientamento politico in

istituzioni che esprimono motivazioni di carattere economico.52

L’associazionismo di matrice cattolica registra un incremento nel primo

dopoguerra.

Il processo di organizzazione della produzione e del lavoro è caratterizzato

dall’accentuazione dei contenuti ideologici; ma la concorrenza mossa dal

movimento dei combattenti toglie ai cattolici quella base costituita dai piccoli

proprietari verso cui si concentrano le loro attenzioni.

Tra le azioni più importanti intraprese dai cattolici si segnala la nascita nel

gennaio 1919 della “Unione del lavoro” della provincia di Cagliari che come tutte

le cooperative cattoliche, che operano in Sardegna, aderisce alla “Confederazione

cooperativa italiana” ed alla “Unione nazionale cooperativa di produzione e

51 Cfr. M. Brigaglia, La Sardegna, cit., pagg. 555-561.

52 Cfr. L. Pisano, Associazionismo e cooperazione tra le due guerre (1918-1940), in G. Sotgiu (a cura di), Storia della cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pag. 171.

55

lavoro”, per sottolineare la propria autonomia nei confronti della “Lega delle

cooperative”.

Nel 1922 la struttura entra in crisi a causa dell’esaurimento della spinta

organizzativa, ma soprattutto in ragione dell’opera da parte del fascismo di

intimidazione, di esautoramento e infine di inglobamento perseguita nei confronti

di tutto il movimento sindacale e cooperativo.53

Il movimento dei combattenti, che nell’isola nel 1921 si trasforma in Partito sardo

d’azione, esalta il valore dell’organizzazione cooperativa della produzione e del

lavoro visto come strumento per riorganizzare economicamente la Sardegna,

arrivando a un autonomia produttiva dell’isola che unitamente all’autonomia

politica e amministrativa, costituisca la fine della dipendenza dall’economia

continentale.

Pur dando l’impressione di concezione utopica questa teoria presenta un aspetto di

novità ed originalità.

I combattenti danno vita soprattutto a cooperative di consumo.

L’idea di riformare il mercato capitalistico su ideali libero-concorrenziali, basati

sull’operato delle cooperative, è sconfitta, oltre che dall’azione distruttrice delle

squadre fasciste, dalla resistenza dei grandi poteri privati e pubblici.54

Poche sono le cooperative che nascono in Sardegna nel dopoguerra che affermano

di rifarsi agli ideali socialisti.

I pochi esempi di organizzazione economica cooperativa di ispirazione socialista

che si costituiscono nell’isola, si dimostrano alquanto deboli, senz’altro più deboli

di quelli espressione del cattolicesimo e degli ex-combattenti.55

Attraverso la cooperazione, sia pure in misura minore rispetto ad altre forme

associative, il fascismo cerca di conseguire quel consenso di massa che gli occorre

53 Ivi, pagg. 171-177.

54 Ivi, Pagg. 177-186.

55 Ivi, pagg. 186-191.

56

per esercitare il potere. La cooperazione deve muoversi con nuove modalità. Un

esempio è dato dal regio decreto del 24 gennaio 1924, n.64, con il quale,

affidando al prefetto il potere discrezionale di procedere allo scioglimento delle

associazioni, si stabilisce in pratica la condanna a morte degli organismi

rappresentativi della cooperazione che non sono allineati con il regime.56

Il tentativo degli ex sardisti di inserire il fascismo nel solco di una tradizionale

linea rivendicativa, legata ai temi della questione sarda, fallisce totalmente e

consegna interamente al fascismo la possibilità di esercitare il totale e

incondizionato potere sull’associazionismo e il cooperativismo. Dopo questi

avvenimenti la cooperazione di produzione e consumo conosce una situazione di

grave stallo, se non proprio di crisi, che permane fino alla guerra.

Nelle campagne sarde nascono agli inizi degli anni Trenta, i consorzi di bonifica,

consorzi di proprietari con il compito di realizzare le opere di bonifica integrale,

che delle cooperative avevano poco o nulla. Considerati anch’essi sopravivenze

dello Stato liberale, il fascismo si preoccupa di procedere a una radicale

sistemazione dei consorzi agrari, costituiti fin dal 1892 in libere cooperative, e

trasformati ora in enti morali gestiti dal regime, senza alcun collegamento con gli

agricoltori.57

Gli anni Trenta chiudono un periodo denso di avvenimenti per il movimento

cooperativo sardo che, particolarmente tra il 1918-1928, aveva trovato grande

adesione tra i produttori sardi. A questo quadro di generale ripiegamento del

movimento cooperativo e di snaturamento della funzione dei consorzi, si

aggiungono le norme sul riconoscimento del credito agrario (legge 5 luglio 1928,

n. 1760) che contribuiscono a distruggere l’autonomia di quella vasta rete di

Casse rurali, enti intermedi per l’esercizio del credito agrario, Monti frumentari,

Casse comunali, esistenti prima della guerra in Sardegna: tutti questi organismi,

56 Ivi, pag. 198.

57 Ivi, p ag. 206.

57

che avrebbero potuto evolversi istituzionalmente in senso cooperativo, creando

così quel fenomeno che ha determinato lo sviluppo di vaste regioni europee,

vengono invece sottoposti alla rigorosa vigilanza dall’ Istituto regionale di credito

agrario, che impedisce la loro evoluzione in senso autonomista cooperativo.58

58 Ivi, pag. 209.

58

2.4.1 Caseifici, latterie e allevamento

Nella prima metà dell’Ottocento si registrano i primi tentativi della produzione di

formaggi vaccini. Lo scopo è valorizzare il latte di vacca, precedentemente poco

sfruttato perché si preferiva dedicarsi prevalentemente alla più redditizia vendita

delle carni bovine, ormai in crisi per la chiusura dei mercati francesi. Un primo

esempio è dato dall’iniziativa del parroco di Orune, il teologo Satta-Musio,

fondatore del locale Comitato di agricoltura, che nel 1840 invita due casari

svizzeri perché insegnino ai pastori locali la produzione del gruviera. Altro

esempio è fornito dal corso tenuto ad Ozieri nel 1879 dall’agronomo Giacomo

Maffei, che propone la fabbricazione di burro e di diversi formaggi quali il

parmigiano, il gruviera e l’olandese. Tra il 1880 e il 1884 l’azienda agraria che era

attiva nel territorio di Surigheddu, nella zona di Alghero, oltre a confezionare

provoloni, gorgonzola, burro e crescenza, produce del gruviera, usando il latte di

pecora, che riscuote un certo successo sulla piazza commerciale di Milano. Ma

l’iniziativa più importante è data dalla serie lezioni tenute dal Professor

Bochicchio in diversi centri della Sardegna del nord.59

Il primo caseificio cooperativo della Sardegna sorge ad Ozieri, negli anni Settanta

dell’Ottocento. Questo avvenimento è spiegabile col fatto che quella zona

dell’isola costituiva il centro dell’allevamento bovino della regione, con un gran

numero di capi vivi esportati in Francia, tanto da portare alla realizzazione della

linea ferroviaria, Chilivani-Porto Torres.

Il caseificio di Ozieri è nel 1881 in grado di reggere il paragone con i migliori

produttori della Lombardia. L’anno seguente conquista la medaglia d’oro al

59 Cfr. F. Cherchi Paba, Evoluzione storica dell’attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, vol. IV, Cagliari, 1977, pag. pagg. 403-410.

59

Concorso agrario regionale sardo per la qualità del suo formaggio grana e per la

sua collezione di attrezzi per realizzare i vari derivati del latte.60

Nel 1892 inizia l’attività della Cooperativa agricola italiana, realizzata con capitali

provenienti dalla Lombardia. L’ente possiede una caldaia, capace di lavorare in

un’ora e mezzo una quantità di formaggio che col sistema tradizionale isolano si

realizza con l’impiego di ben due giornate di lavoro.61

La società prende in affitto la tenuta del tedesco Alfredo Tirpitz con l’intesa di

acquistarla in futuro. Oltre ad utilizzare gli edifici preesistenti, essa fa costruire

una stalla capace di ospitare 200 bovini, un grande magazzino, alloggi e case

coloniche per gli operai-coloni. Si allevano cavalli che non soltanto servono per le

attività della tenuta, ma sono anche fonte di guadagno. Il bestiame bovino è di

razza sarda incrociato con quella svizzera grazie a un piccolo toro, omaggio del

Ministero dell’Agricoltura. Le vacche vengono nutrite con foraggio, mais, paglia

e trifoglio prodotti nella tenuta. Le pecore e le capre pascolano nelle zone non

idonee all’allevamento del bestiame di grossa taglia e alle pratiche agricole. I suini

vengono allevanti usando i residui della lavorazione del latte e poi venduti con

buoni risultati.

Nell’azienda operano il direttore, il fattore, il casaro e alcuni braccianti sardi e

continentali. La maggior parte di costoro vivono nella tenuta dove si esercita la

panificazione razionale, si utilizza l’acqua potabile e si provvede all’educazione

delle famiglie coloniche. Agli addetti vengono garantiti gratuitamente la casa, un

orto, gli attrezzi agricoli e le cure mediche. Essi ricevono anche un salario ed

hanno una cointeressenza del 10 per cento sul prodotto lordo. Tra il 1891 e il 1893

l’azienda produce solamente formaggi molli e semicotti destinati al mercato

sardo. Nel 1894 entra in funzione la nuova struttura, equipaggiata di attrezzature

60 Cfr. S. Ruju, I caseifici cooperativi nella Sardegna del Novecento, in A. Mattone e P. F. Simbula, La pastorizia mediterranea – Storia e diritto (secoli XI –XX), Roma, 2011, pag. 994.

61 Ivi, pag. 996.

60

razionali quali una cucina con fornello e caldaia mobile di tipo svizzero. Grazie

all’uso di tali strumenti si possono lavorare tutti i sottoprodotti del latte con

conseguente aumento dei guadagni. Viene utilizzato il latte vacino per produrre il

formaggio tipo emmenthal confezionato in forme del peso di 8-10 chilogrammi

che vengono inviate a Milano dove vengono comprate dall’Unione cooperativa di

consumo, garantendo un discreto guadagno. Nel 1900 è stimata tra le attività

operanti nel settore cooperativo la più importante realtà agricola d’Italia. La

positiva esperienza della cooperativa milanese che opera nell’isola sarda risulta

conosciuta solamente dai tecnici e dai funzionari del Ministero dell’agricoltura,

ma è del tutto ignota ai pastori e contadini sardi. A livello nazionale, dove i

tentativi di bonifica e colonizzazione, utilizzando la cooperazione avevano avuto

esito negativo, l’interesse per tale esperimento è invece notevole.62

Alla fine del XIX secolo la produzione dei formaggi vaccini è poco praticata in

Sardegna, soprattutto nel sud dell’isola, dove non si è soliti mungere le vacche.63

Nell’età giolittiana la fondazione dei caseifici da parte degli imprenditori arrivati

dal continente, pur creando diversi problemi, spinge i produttori locali a conoscere

le tecniche moderne per la produzione del formaggio in proprio o associandosi

con altri allevatori.

L’Istituto ippico di Ozieri organizza diverse stazioni di monta in tutta la Sardegna

settentrionale.

La latteria di Bortigali nasce nel 1907 come risposta al cartello che gli industriali

provenienti dal Lazio avevano creato dopo la loro venuta in Sardegna, iniziata sul

finire dell’Ottocento. La latteria in questione si costituisce grazie a un

provvedimento del governo emanato l’anno precedente per favorire la diffusione

62 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione (1860-1900), in G. Sotgiu (a cura di), Storia della Cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pagg. 91-94.

63 Cfr. M. L. Di Felice, La “Rivoluzione“ del pecorino romano, in A. Mattone e P .F. Simbula, La pastorizia mediterranea – Storia e diritto (secoli XI – XX), Roma, 2011, pagg. 967-968.

61

di società cooperative. Promotore della realizzazione della latteria è il dottor

Pietro Solinas, seguace a livello locale degli insegnamenti del direttore della

Regia scuola agraria di Sassari, il professor Nicolò Pellegrini, uno dei primi

esperti che in Sardegna propugna l’innovazione in campo agricolo.64

Tra il 1908 e il 1910 la latteria riesce a raccogliere 1.186.544 litri di latte per un

valore commerciale di poco inferiore alle 200.000 lire, e a commercializzare 1695

quintali di prodotti caseari, realizzando un ricavo di 180.000 lire. In un paese con

una popolazione di solo tre mila abitanti si tratta di una sfida coraggiosa che si

rivela vincente verso lo strapotere degli industriali caseari.65

Paolo Pili è l’esponente del Partito Sardo d’Azione che s’interessa dei problemi

della cooperazione in Sardegna, e in particolare della situazione lattiero-casearia.

La buona conoscenza dei problemi agrari dell’isola, l’opera maturata presso la

Regia Scuola di viticoltura e di enologia di Cagliari, dove si era diplomato, allievo

di Sante Cettolini.

Nel 1924 propone per la prima volta di costituire tra i pastori sardi una

federazione delle latterie sociali. Il primo incontro, convocato ad Oristano,

fallisce: <<a causa di divergenze di vedute in seno ai convenuti: elementi con

intendimenti speculativi e anticooperativistici si erano infiltrati, ragione per cui è

stato necessario per il momento sospendere il lavoro>>66 . Nei mesi successivi Pili

si impegna intensamente in una personale campagna che porta a maturazione il

progetto; il 1° ottobre lancia un invito ai presidenti delle latterie sociali per

costituire la Federazione.

La FEDLAC (Federazione delle latterie Sociali e Cooperative della Sardegna),

nasce ad Ozieri il 25 ottobre 1924, durante l’assemblea costitutiva a cui

intervengono le più alte autorità fasciste della Sardegna (la presiede l’onorevole

64 Ruju, I caseifici, cit., pag. 997.

65 Ortu, L’età Giolittiana, cit., pag.117.

66 Carte Paolo Pili, Ostano, Memoria dattiloscritta attribuita a Salvatore Manconi, pag. 7.

62

Pietro Lissia, uno dei maggiori rappresentanti del fascismo sardo di quel periodo;

sono presenti i deputati Leoni, Caprino, Putzolu, Cao di San Marco e Siotto, il

prefetto di Cagliari, partecipano i presidenti di venti latterie sociali: Abbasanta,

Aidomaggiore, Berchidda, Bitti, Cabras, Ghilarza, Isili, Macomer, Norbello,

Nuoro, Ozieri, Pattada, Paulilatino, Pozzomaggiore, Santulussurgiu, Seneghe,

Silanus, Sindia, Siurgus Donigala ed Uras. Il consiglio di amministrazione della

federazione viene eletto il 14 novembre dello stesso anno. Ne fanno parte Pili, che

ne è il presidente, Antonio Arru Bartoli, dirigente della latteria di Pozzomaggiore,

tra le meglio attrezzate e più produttive, Gavino Cattina, presidente della latteria

di Ozieri, Salvatore Manconi, che è il direttore della Federazione, Antonio

Campus, Salvatore Doneddu, Salvatore Falchi e Salvatore Siotto. Il consiglio è in

maggioranza costituito da uomini che fanno capo a Pili, alcuni fin dagli inizi della

sua militanza sardista. La FEDLAC è il maggior esempio di quel progetto che la

parte di origine sardista propugna in quegli anni all’interno del fascismo sardo.

Tentativo, come scrive Antonio Gramsci nel 1926, di <<realizzare alcune

rivendicazioni del programma tradizionale del sardismo>> all’interno delle

strutture del fascismo.67 La costituzione della FEDLAC è vista dai suoi sostenitori

come un mezzo per riformare l’economia sarda.

Il bilancio dei primi mesi di attività della FEDLAC è sicuramente positivo, grazie

all’apertura di credito verso la federazione e all’opera di Pili, appoggiato dal

partito. Pili decide di incrementare le esigue risorse finanziarie della Cassa

Provinciale di Credito Agrario di Cagliari, diretta da uno dei suoi fedelissimi, il

ragioniere Nino Serra, facendo arrivare nei depositi dell’ente i fondi dei Comuni,

delle Opere pie, di diversi enti locali ed istituti pubblici; anche i risparmi di molti

privati, spinti dalla propaganda della segreteria provinciale del Partito Nazionale

Fascista, finiscono nella disponibilità della Cassa. Inoltre lo Stato eroga un

contributo di cinque milioni di lire ed autorizza l’emissione di assegni di conto

67 Cfr. A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista, Torino, 1977, pagg. 528-530.

63

corrente e circolari. Grazie al consolidamento finanziario la cassa provinciale si

può rafforzare anche nell’aspetto organizzativo istituendo numerose Casse

comunali di credito agrario, che assorbono i Monti frumentari.

Durante il 1926 numerose latterie aderiscono alla federazione; nel mese di

febbraio entrano quelle di Ales, Borore, Massama, Mogoro, Samugheo, Sedilo,

Sorradile e Serdiana; in luglio quella di Samassi; in settembre quelle di

Bonarcado, Bonorva, Flussio, Fordongianus, Narbolia, Ortueri, San Basilio, Soddì

e Villamassargia; in novembre Busachi, Cuglieri, Macomer, Nurri, San Vero

Milis, Orroli, Sorgono, Tortolì, Tuili, Uta e Villaspeciosa. Praticamente alla

federazione aderiscono le latterie di quasi tutte le zone della provincia di Cagliari

e buona parte di quella di Sassari (tenendo presente che quelle di Giba, Laconi e

Simaxis possono ritenersi già aderenti alla federazione, pur non ancora

ufficialmente ammesse per problemi burocratici).

La FEDLAC vuole superare l’improvvisazione e la frammentazione che

interessano il settore lattiero-caseario sardo; pertanto i dirigenti della federazione

per razionalizzare la situazione decidono: di unificare le tecniche di produzione; di

curare particolarmente la selezione del latte (di quest’ultimo compito si occupa

una commissione composta da Arru Bartoli, Cattina, Manconi, che è il direttore

della latteria di Pattada, e da Aniello Parmigiano, che è invece l’agente della

Federazione per il mercato di Castellamare di Stabia); di centralizzare la

spedizione, realizzando un punto di imballo a Chilivani; di promuovere l’utilizzo

dei sottoprodotti del latte, affinché le latterie siano operative anche d’estate; per il

rifornimento degli attrezzi viene creato un magazzino unico ad Oristano; usare un

unico canale per cercare i finanziamenti.

Ma la decisione più importante è quella di stabilire rapporti diretti con i grandi

importatori americani. Per fare ciò, Pili, con Cattina, si reca negli Stati Uniti nel

marzo del 1926. Pur criticato in Italia e negli USA Pili, firma un contratto con la

ditta svizzera che ha sede a New York, S. Galle & C., specializzata

nell’importazione di formaggi prodotti con latte vacino in Europa. Il rapporto con

la S. Galle & C. parte positivamente. Due suoi dirigenti arrivano in Sardegna per

64

consolidare l’intesa e, in quell’occasione, aprono una linea di credito presso una

banca di Oristano che permette di pagare il formaggio con la sola presentazione

della fattura doganale, cioè prima che il prodotto si materialmente a New York.

Per attuare i progetti di un maggiore sfruttamento del prodotto si realizza una

cremeria sociale a Macomer. In questo modo si vuole affrontare il tradizionale

problema dell’utilizzo totale dei sottoprodotti del latte (molte volte il siero andava

perduto per l’impossibilità di conservarlo e lavorarlo). Il grande edificio che

ospita le più moderne macchine per l’industria burriera, messa a disposizione

dall’industria europea specializzata, viene realizzato in pochi mesi. Per favorire

l’operazione la Cassa di Credito di Cagliari elargisce un premio

d’incoraggiamento di 10.000 lire.

La FEDELAC persegue il miglioramento tecnologico non solo nelle strutture

centrali della federazione, ma anche presso le varie latterie aderenti. La

Federazione propugna la costruzione di moderni fabbricati, per superare il fatto

che nel 1925 solo le latterie di Aidomaggiore, Norbello, Ozieri, Pozzomaggiore,

Santulussurgiu e Seneghe hanno locali di proprietà per la confezione, salatura e

stagionatura del formaggio. A Seneghe si costruisce una seconda caciara; una

viene aperta a Santu Lussurgiu; nuovi locali vengono eretti anche ad Abbasanta, a

Borore e a San Vero Milis. A Bonorva si riutilizzano vecchi locali costruiti da un

industriale napoletano che non ha retto la concorrenza degli altri monopolisti.

L’uso della caldaia svizzera (a fornello fisso e fuoco mobile), invece, di quella

romana, aumenta la produttività. Scrematrici moderne vengono impiantate ad

Ales, Cabras, Ozieri, Sedilo e Seneghe.

Nel 1927 il prezzo del latte per uso industriale sale rispetto all’anno precedente:

La stragrande parte delle latterie paga ai pastori il latte più di quanto facciano gli

industriali.

In questo clima si apre, sia sulla stampa locale che su quella nazionale, una

violenta campagna contro la FEDLAC e i suoi dirigenti, a cui i piliani rispondono

con lo stesso tono. Nello stesso tempo inizia l’azione di resistenza alla federazione

65

in diverse latterie, come quella di Nuoro che è controllata da industriali e gerarchi

locali.

Il piano dei monopolisti si basa sull’aumento del prezzo del latte pagato ai pastori,

per dimostrare l’inutilità della FEDELAC.

Sono i giorni delle voci allarmistiche sul tracollo della Federazione e della lotta

per il potere dentro il fascismo sardo e quello cagliaritano in particolare, tra Pili e

del suo antico sodale Putzolu.

Nell’agosto 1927 Putzolu, forse facendosi rappresentante di interessi diversi di

quelli eminentemente politici, lancia un violento attacco a Pili e alla Federazione

in un memoriale indirizzato alla direzione del Partito Nazionale Fascista. Subito

dopo si costruisce un’alleanza con il fascismo sassarese e con il suo gerarca più

rappresentativo, Lare Marghinotti, da sempre contro il progetto cooperativistico.

Il progetto FEDLAC gode fino all’estate del 1927 l’appoggio del PNF, sia della

federazione cagliaritana che del governo. Ma poi gli oppositori di Pili conseguono

i primi risultati quando Pili finisce sotto la scure del governo di Roma e dei

dirigenti nazionali fascisti. A sorpresa, durante l’assemblea annuale del 1927, Pili

si dimette dalla carica di Presidente della Federazione, forse per salvare la

FEDLAC dallo scontro che dilania il partito.

Nello stesso periodo la cremeria di Macomer, uno dei fiori all’occhiello della

Federazione, viene costretta alla sospensione dell’operatività, quando vengono

scoperte alcune frodi nei suoi confronti e falsificazioni nella sua contabilità.

L’esportazione diventa difficile a causa della decisione del governo di aumentare i

dazi e dal progetto di Mussolini di rivalutare la lira fino a raggiungere il cambio di

90 lire per una sterlina inglese. Problemi si hanno anche nel mercato nazionale in

conseguenza dell’introduzione di ribassi e calmieri.

Il 10 novembre 1927 inizia la sconfitta politica di Paolo Pili nel PFN quando è

costretto a lasciare la direzione dell’Unione sarda, quotidiano da lui usato come

strumento di pressione e propaganda. Quattro giorni dopo viene destituito dalla

segreteria provinciale di Cagliari del PFN e sostituito con un commissario

straordinario, Carlo Romagnoli, inviato dalla sede centrale di Roma; che assume

66

anche la direzione dell’Unione sarda. Tra i provvedimenti che Romagnoli prende

e che vanno contro Pili, c’è il reintegro nel PFN di Giovanni Turnu, vicino alle

idee che va sostenendo Putzolu. Inoltre viene revocata la tessera, anche se per solo

sei mesi, al presidente della Federazione Torriggia, che è sostituito anche nella

carica di segretario politico del fascio di Ghilarza con Lucrezio Dalmasso,

industriale caseario ostile alla cooperazione. Ancora Manconi viene minacciato di

espulsione e sono colpiti i presidenti di San Basilio e di Tuili, sostenitori degli

ideali piliani. A Nuoro il prefetto Ottavio Dinale, ex sindacalista rivoluzionario e

fascista della prima ora, vicino alle posizioni dei caseari, scioglie nel ottobre del

1927 il consiglio d’amministrazione della latteria di Macomer. Inoltre il

trasferimento degli uffici centrali della Federazione da Oristano a Macomer, segno

di un ripiegamento organizzativo e di una riduzione della spinta espansiva, pone

la FEDLAC sotto il controllo di Dinale.

Nell’assemblea generale della Federazione che si tiene nell’aprile del 1928, pur

contestati dai rappresentanti di alcune latterie periferiche, i dirigenti di fede

piliana riescono a mantenere il potere grazie alla presentazione di utile d’esercizio

di 74.455,96 lire.

La crisi dell’ente matura con la deflazione, frutto della politica della <<quota

novanta>>, che porta al ribasso dei generi alimentari, e innanzitutto del

formaggio, danneggiando in modo grave la produzione casearia della Sardegna

nel periodo in cui la Federazione è impegnata ad affrontare i problemi finanziari

della cremeria di Macomer.

Si arriva alla rottura del rapporto tra la Federazione e il suo agente a Castellamare,

che arriva a trattare con le singole latterie adenti alla Federazione. Le latterie si

dimostrano sempre più insofferenti ai regolamenti della FEDLAC e preferiscono

il rapporto diretto con gli acquirenti, mentre le maggiori ditte casearie si mostrano

unite e ben coordinate.

Il 28 dicembre 1928 viene approvato il piano di ristrutturazione basato su un

nuovo contributo dell’Istituto di Credito Agrario e su sacrifici che ricadranno sulle

latterie.

67

Diverse tra queste entrano in crisi: alcune non lavorano il latte dei soci, altre si

sciolgono, altre ancora affermano che l’anno seguente non continueranno

l’operato, altre, infine, ottengono di poter vendere in proprio la produzione

dell’anno successivo. Il 29 marzo 1929 viene approvato il bilancio del 1928 che è

in grave perdita, ma, nonostante la situazione disastrosa, l’assemblea conferma il

vecchio consiglio d’amministrazione.

L’inverno del 1928-29 è caratterizzato dalla lotta tra la FEDLAC e la Federazione

Agricoltori, che riunisce gli industriali caseari. Questi ultimi iniziano la battaglia

stabilendo il prezzo del latte tra i più bassi degli ultimi anni. La FEDLAC rende

nota la quotazione del formaggio venduto sulla piazza di New York, ciò fa risalire

il prezzo del latte. Gli industriali rispondono gonfiando il prezzo del latte per

mettere in difficoltà la Federazione e offrendo regali ai maggiori produttori. È la

fine della FEDLAC; gli industriali caseari, sono ridiventati i padroni del mercato

sardo.

Il Consiglio d’amministrazione della FEDLAC chiede aiuto alle autorità fasciste

(Pili si dimette dalla carica di presidente onorario della Federazione nella speranza

di favorirne la salvezza), ma un decreto del governo centrale del 15 maggio 1929

stabilisce la nomina di un commissario ministeriale e lo scioglimento del

consiglio d’amministrazione.

Il commissariamento termina nell’aprile del 1930 quando viene eletto un nuovo

consiglio che deve gestire la liquidazione della FEDLAC.68

Nel 1930 termina anche l’attività della “Latteria sociale di Bortigali” ceduta alla

famiglia Bozzano, che già possiede un caseificio a Macomer.

La fine dell’esperienza cooperativa, coinvolta nella lotta interna scoppiata nel

PNF, è segnata dalla spietata concorrenza degli industriali caseari, dalla mancanza

68 Cfr. F. Manconi – G. Melis, Sardofascimo e cooperazione: il caso della FEDLAC (1924-1930), in “Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico”, 1977, n° 8/10, dicembre 1977.

68

di capitali, dai debiti contratti presso i privati, dai prezzi troppo alti pagati per il

latte e l’affitto dei pascoli.69

69 Cfr. L. Pisano, Associazionismo e cooperazione, cit., pagg. 191-198.

69

2.4.2 Le mutue bestiame

Per rispondere al dilagare della violenza nelle campagne della Sardegna e

campagne della Sardegna proteggere il bestiame si istituiscono delle cooperative

di muta assicurazione. La prima nasce nel 1877 a Dorgali per volere di alcuni

proprietari, ma dal 1894 se ne formano numerose. La maggior parte delle mutue

estende la sua opera sul territorio di un solo comune, a vantaggio dei grandi

proprietari, dei piccoli allevatori e degli agricoltori, e funziona con successo

sopratutto nelle zone in cui l’ordine pubblico è sufficientemente garantito, mentre

nel Nuorese, dove imperversano furti e danneggiamenti, la loro vita è più difficile.

La formazione delle mutue bestiame spinge molti contadini ad allevare del

bestiame da lavoro, dopo che a causa dei numerosi furti subiti, avevano

rinunciato.70

Difficile si rivela la vita delle assicurazioni del bestiame che prevedono il

pagamento di una quota associativa, in base alla quale si provvede la ripartizione

del danno accertato e delle spese di amministrazione tra i singoli associati.

L’esazione delle quote per il risarcimento dei danni subiti risulta spesso

complicata, e ne deriva un contenzioso cronico che porta alla chiusura della

società e a lasciare irrisolte numerose pendenze economiche. Esempio ci viene

fornito dalla società cagliaritana “La previdente” che, nata nel 1904, ha vita breve

sommersa dai contenziosi. Per superare tali problemi la “Assicuratrice Sarda” che

sorge a Cagliari nel 1907, stabilisce di applicare ai diversi rami d’assicurazione

del bestiame il sistema utilizzato da tutte le compagnie assicuratrici, disponendo il

pagamento di un premio fisso, stabilito calcolando la probabilità dei danni, per

ogni cento lire di capitale assicurato.71

70 Cfr. G. G. Ortu, L’età giolittiana, cit., pagg. 94-97.

71 Ivi, pagg. pagg. 117-120.

70

2.4.3 Società molitorie

Lo stringente controllo sul commercio del grano esercitato dalle società molitorie

grazie a una fitta rete di intermediari locali, e la mancanza di enti e strutture che

favoriscano l’associazionismo dei piccoli e medi proprietari, fa permanere anche

nel settore della lavorazione e commercializzazione delle farine condizioni che

rendono difficile lo sviluppo della cooperazione. L’unica iniziativa che si registra

nella seconda metà del XIX secolo è quella animata da Andrea Passino a Cuglieri

nel 1891. Nel 1900 Passino tuttavia dopo quest’ultima non si erano formate altre

società analoghe perché le <<persone colte>> e le <<classi dirigenti>> - secondo

Passino - si interessano <<di politica, di questioni personali e di partito>>, ma non

di economia. Mancano nell’isola quei pionieri e apostoli della cooperazione che in

altre zone d’Italia <<hanno scosso l’apatia delle masse, hanno insegnato cosa sia

la cooperazione hanno formato i cooperatori>>.72

Secondo Passino bisognava spiegare ai contadini con parole semplici i vantaggi

dell’associazionismo. Tenendo presenti tali propositi egli fonda a Cuglieri una

cooperativa in cui soci versano il valore delle azioni non in denaro, bensì in grano,

perché l’agricoltore sardo <<si adatta più volentieri a concorrere con qualche

ettolitro di grano all’acquisto di una azione anziché versare una somma

qualsiasi>>.73 Passino vede con favore le cooperative, piuttosto che i Monti

frumentari, perché, pur basati sullo stesso meccanismo, nelle prime il capitale

sociale è versato spontaneamente dai soci che, per tutelarlo, partecipano alle

assemblee e godono dell’elettorato attivo e passivo, mentre nei Monti la

contribuzione è obbligatoria, l’amministrazione è nelle mani degli enti locali e gli

interessi dei prestiti sono destinati solo alle finanze del monte. Per sostenere la sua

tesi Passino cita i risultati della società da lui diretta che accresce il capitale dei

soci, favorisce la vendita delle granaglie e, in nove anni, è arrivata ad avere un

72 Cfr. A. Passino, Le associazioni cooperative nell’agricoltura sarda, Cagliari, 1900.

73 Cfr. Società cooperativa agricola in Cuglieri. Statuto, Bosa, 1891.

71

giro di cassa di 90 mila lire, funzionando da sindacato agrario per acquistare

attrezzi e concimi, iniziando l’attività con 15 ettolitri di grano e dieci lire,.

L’iniziativa di Passino non viene emulata in nessuna zona della Sardegna.74

La situazione migliora durante l’età giolittiana. La nascita di un grande impianto

capace di lavorare 300 mila quintali di grano realizzato della “Società Molini Alta

Italia” suscita la concorrenza dei tradizionali monopolisti del mercato sardo,

facendo incrementare i prezzi e concedendo maggiori possibilità di contrattazione

ai contadini.

Altra rilevante esperienza positiva è quella della “Società Logudoro”, attiva nel

settore della macinazione del grano, che ad Ozieri riesce anche ad ottenere la

concessione della fornitura dell’energia elettrica per il centro del Logudoro,

unendo fra loro due attività molto significative per la storia della cooperazione e

dello sviluppo tecnologico.

La SYLOS, società cooperativa impegnata nel settore cerealicolo, voluta da Paolo

Pili, nasce a Cagliari nell’ottobre del 1925 con lo scopo (come recita l’articolo 2

del suo statuto), di <<raccogliere ed agevolare lo smercio del grano prodotto in

provincia>>75

Il motivo che porta il gruppo dirigente fascista di Cagliari ( da notare che il primo

consiglio di amministrazione è composto quasi all’unanimità da quanti siedono in

componenti di quello della FEDLAC), a creare la SYLOS è la volontà di

contrastare il monopolio che la Società Esercizio Molini di Genova esercita nel

commercio cerealicolo in provincia di Cagliari. La società genovese dei fratelli

Merello fin dalla fine dell’Ottocento sfrutta la debolezza dei piccoli e piccolissimi

proprietari per imporgli prezzi molto più bassi di quelli vigenti nel mercato

italiano. Pili vuole superare tale situazione offrendo un prezzo maggiore ai

74 Cfr. “La Sardegna Cattolica” 12, 27 agosto e 9, 11 , 16, 31 dicembre 1896.

75 Costituzione della Cooperativa Sylos e del Consorzio per la Motoaratura, in <<L’Agricoltura sarda>>, 1° novembre 1925, pagg. 357 ss.

72

coltivatori e allo stesso tempo contribuire al successo della battaglia del grano,

voluta da Mussolini per eliminare l’importazione dall’estero del cereale. Pili

intende inoltre spingere a un maggiore sfruttamento della terra grazie all’uso di

macchine agricole e di concimi chimici e ad aumentare le superfici coltivate a

grano.

Riceve un finanziamento da parte della Cassa Provinciale di Credito agrario utile

per dare delle anticipazioni agli agricoltori e per fare compravenda di grano con

finalità dimostrative ma sufficiente per migliorare la situazione dei produttori. Tra

il 1925 e il 1927, la SYLOS commercia appena 20.000 quintali di grano, mentre

la produzione della provincia di Cagliari è di ben un milione all’anno, dei quali

350.000 destinati all’esportazione. Ma i risultati sono nonostante ciò rilevanti

poiché, nel 1926, il prezzo del grano sulla piazza di Cagliari è ormai simile a

quelli dei mercuriali nazionali. I fratelli Merello reagiscono con la serrata che

spinge la SYLOS ad acquistare grandi quantità di grano rimasto invenduto, ma il

prezzo del grano diminuisce, anche a causa della politica deflazionistica del

governo.

La decisione del regime di rivalutare la lira, portano nel 1927 la SYLOS a subire

una perdita di ben circa 250.000 lire del valore del grano immagazzinato. A

livello nazionale il prezzo del grano crolla. Scopia la crisi dell’ente cooperativo:

questioni interne, probabilmente collegate ai dilemmi che attanagliano il fascismo

cagliaritano, ed esterne, tra cui le manovre degli incettatori di grano del resto

d’Italia, portano ad alcune verifiche che mettono in luce delle irregolarità, che

sono usate per colpire i dirigenti della SYLOS. Viene dichiarato il fallimento della

cooperativa, e Pili, pur non avendo responsabilità oggettive nella gestione, deve

subire un giudizio civile per danni.

73

2.4.4 Casse rurali, Monti granatici e frumentari, Cooperative di

credito agrario

Sul finire del XIX secolo la formazione delle Casse rurali, molto travagliata in

Sardegna, vede in primo piano l’impegno dei parroci che tuttavia dinanzi a loro

trovano notevoli ostacoli. Sono in primo luogo gli stessi promotori ad avere delle

difficoltà nell’istituzione di questi istituti, che, erroneamente, assimilano ai Monti

granatici,76 nonostante l’impegno l’unica cassa rurale che il mondo cattolico

riesce a costituire è quella che sorge a Cagliar: pur dotata di un piccolo capitale e

di pochi affiliati, essa risponde ai bisogni di credito dei lavoratori della città, ma

non a quelli dei contadini.77

È bene ricordare comunque che a causa della crisi economica, della mancanza di

esperienza, e soprattutto della diffidenza verso le cooperative, l’azione dei

cattolici nella cooperazione agraria in Sardegna se non del tutto marginale,78 viene

ostacolata, proprio a Cagliari da un gruppo di nobili e proprietari, che componenti

del Comizio agrario, allo scopo di procurarsi capitali a modesto tasso d’interesse,

costituiscono una Cooperativa di credito agrario, facendo venir meno ai cattolici

la possibilità di raccogliere adesioni tra la mobilità fondiaria e il nobilitato rurale,

che abitano nel centro principale dell’isola.79

La legislazione speciale sulla Sardegna stabilisce, tra l’altro, la ricostituzione dei

Monti frumentari e la fondazione di una Cassa ademprivile che, con un capitale di

tre milioni di lire, anticipato dalle due Casse depositi e prestiti delle provincie

della Sardegna, devono concedere crediti e finanziamenti ai soli enfiteuti e

acquirenti dei beni demaniali. La legge n. 334 del 7 luglio 1901, che autorizza il

76 Cfr. “La Sardegna cattolica” 2, 4, 5, 15, 18 gennaio 1896; 23, 26 settembre 1896; 17 novembre e 6 dicembre 1896.

77 Cfr. F. Atzeni, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915, Cagliari, 1984, pag. 81.

78 Ivi, pag. 82.

79 Cfr. Società Cooperativa agricola per l’esercizio del credito agrario cooperativo, Cagliari, 1895.

74

Banco di Napoli ad esercitare il credito agrario in tutto il Mezzogiorno d’Italia,

accettando le cambiali agricole garantite dai Monti frumentari, in Sardegna porta

alla nascita di due Casse rurali: quella di Tempio e quella di Pozzomaggiore.

La prima legge sulle Casse ademprivili non ha successo fino all’approvazione di

una nuova, la n. 562 del 14 luglio 1907 che estende a tutti gli agricoltori le

disposizioni delle Casse, favorendo così lo sviluppo dell’associazionismo agrario

cooperativo.80

Nel 1909 si costituiscono le Casse rurali di Quartu Sant’Elena e di Sestu, mentre

a Monserrato viene istituita solo nel 1913.

Le Casse rurali, fra l’altro, fanno prestiti ai soci a breve termine per acquistare

sementi, concimi e sostanze anticrittogamiche, curative o insetticide, per dotare i

fondi di macchine ed attrezzi agricoli, di arnesi per manipolare e conservare i

prodotti rurali e quanto può essere utile all’attività agricola. Il prestito può essere

al massimo di mille lire, esteso a tre mila per il bestiame grosso e le macchine.

In alternativa sono le stesse Casse ad acquistare per conto dei soci, per poi

distribuirli ai medesimi, semi, concimi, sostanze anticrittogamiche, bestiame,

macchine, attrezzi e ogni altra cosa necessaria alla conduzione agricola; possono

inoltre vendere i prodotti agricoli dei soci, aprendo anche specifici magazzini di

deposito e spaccio, o trasferendo in magazzini comuni i prodotti stessi, e nel

frattempo anticipare parte del valore ai soci committenti.

Funzionano inoltre da enti intermedi con la Cassa ademprivile, elargendo prestiti a

breve termine.

Possono far ottenere ai soci prestiti a lungo termine dalla Cassa ademprivile,

destinati ai miglioramenti fondiari.

Secondo Gian Giacomo Ortu in età giolittiana il processo di innovazione culturale

e produttiva della piccola e media azienda agricola sarda si sviluppa soprattutto

grazie alle cooperative di credito. La diffidenza del contadino sardo viene superata

80 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione, cit., pagg. 98-102.

75

dagli effetti semplificatori e diffusivi dell’associazionismo. Un esempio è dato dal

grande aumento del consumo di concimi chimici che si registra tra il 1908 e il

1913.

Il cooperativismo permette di immettere importanti capitali nella povera

agricoltura sarda.

Più lento rispetto all’utilizzo dei concimi risulta l’acquisto delle machine agricole

assai costose. Per sfuggire al monopolio che vanno creando i primi intraprendenti

acquirenti, in alcuni casi le cooperative di credito sono spinte all’acquisto delle

machine, come fa la Cassa rurale di Siurgus che, già al momento della sua

fondazione, si fornisce di una trebbiatrice a vapore.81

Il destino delle Casse di risparmio ordinarie, dei Monti di pietà, degli istituti

ordinari e cooperativi di credito (oltre che di istituzioni quali i comizi agrari e le

associazioni agrarie legalmente riconosciute), è stato segnato dal Testo Unico in

materia di credito agrario licenziato nell’aprile del 1922.82 Una legge del maggio

1924 trasforma i Monti in Casse comunali di credito agrario, stabilendo che in

esse dovessero confluire tutti gli enti morali che esercitavano il credito agrario in

un comune, (ma in pratica ciò avviene solamente nel 1927 con l’’approvazione

della legge sul credito agrario). Le vittime principali di questa norma sono le

Casse rurali.

Come detto nel 1927 entra in vigore la nuova legge su credito agrario, che

presenta molti aspetti nuovi rispetto alla legge precedente. L’organizzazione

prevede un ente centrale, il Consorzio nazionale di credito di miglioramento, e

dieci istituti regionali, originati da strutture pre-esistenti. In Sardegna le due Casse

ex ademprivili, diventate, nel frattempo, provinciali, di Cagliari e Sassari,

vengono fuse nel Istituto di Credito Agrario per la Sardegna (Icas) che deve <<

81 Ivi, pagg. 129-135.

82 A. Lenza, Le istituzioni creditizie locali in Sardegna, Sassari, 1995, pag. 155.

76

coordinare, indirizzare ed integrare l’azione creditizia degli enti ed istituti locali a

favore dell’agricoltura>>,83 munito di un capitale iniziale di 22,4 milioni di lire.

L’Icas inaugura la sua attività nel febbraio del 1928 quando viene convocato il

Collegio commissariale nominato dal ministero dell’Economia nazionale per

organizzare il suo ordinamento e l’inizio della sua attività. I primi tempi sono

caratterizzati da difficoltà organizzative e dalle grandi sofferenze presenti nelle

due Casse provinciali.

I crediti di difficile realizzo, presenti nel bilancio del 1929 per un totale di 8

milioni di lire, sono costituiti dai finanziamenti dati alle latterie sociali, soprattutto

a quella di Macomer e alla Federazione delle latterie e, in misura più contenuta

(un milione e 300 mila lire a ciascuna) alle Cantine Sociali di Monserrato e di

Quartu Sant’Elena.84

Nel decennio successivo l’Istituto, superata le difficoltà, accresce la propria

posizione patrimoniale, accantonando nella sua riserva gli utili di esercizio. Nel

1938 capitale e riserve raggiungono gli 83 milioni di lire; piccola entità rispetto al

patrimonio delle grandi banche nazionali, ma grande se confrontata con quelli

degli istituti bancari sardi che l’avevano preceduto. L’Icas non riesce ad

affermarsi sul mercato della raccolta dei depositi fiduciari, che diminuiscono nel

decennio preso in considerazione. Per ovviare a ciò deve rivolgersi al riscontro

agevolato della Banca d’Italia e, soprattutto, alle anticipazioni concesse dal

Consorzio di credito agrario di miglioramento per il finanziamento degli ammassi

granari. Dal 1935 le operazioni (ammassi granari, della lana e dell’olio),

conseguenze della politica autarchica costituiscono la voce di gran lunga più

importante dell’Icas, sia all’attivo sia al passivo, diventando una rilevante partita

di giro. L’istituto contribuisce a migliorare la situazione dell’agricoltura in

83 R. D. L. 29 luglio 1927, n. 1509, art. 7.

84 Cfr. L. Conte, Dai Monti frumentari al Banco di Sardegna, in G. Toniolo (a cura di), Storia del Baco di Sardegna – Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, Roma-Bari, 1995, pag. 197.

77

Sardegna soprattutto con misure di tipo qualitativo, sia dal punto di vista tecnico

che organizzativo: forma personale; rende operativamente più unita la ramificata

rete delle Casse comunali; introduce metodi di gestione meno approssimativi.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale i sardi continuano ad affidare i loro

risparmi, agli uffici postali. Pertanto <<una parte considerevole del risparmio

sardo [va] a fecondare intraprese fuori dalla nostra isola>>85. Scrive ancora Alvia.

<<L’evoluzione industriale è in Sardegna, come quella agricola, più lenta della

formazione del risparmio: Tuttavia il problema del credito alle industrie sorgerà

non appena l’aumento della popolazione e l’istruzione tecnica avranno creato le

condizioni favorevoli al loro sorgere. Gli stessi bisogni cui oggi si cerca di

soddisfare gli istituti speciali di credito per l’agricoltura sorgeranno per

l’industria>>.86

85 G. Alvia, Fattori naturali e storia economica della Sardegna, Sassari, 1934, pag. 418.

86 Ivi, pagg. 420-421.

Cfr. G. Toniolo, Credito, istituzioni, sviluppo: il caso della Sardegna, in G. Toniolo (a cura di) G. Toniolo, Storia del Banco di Sardegna – Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, Roma-Bari, 1995, pagg. 83-86.

78

2.4.5 Le cooperative di consumo

Le cooperative di consumo riescono a raggiungere molti dei loro obbiettivi

nell’isola solo nell’Iglesiente, l’unica zona che presenta una popolazione con

numeri rilevanti che richiede tale tipo di servizi.

Nel 1883 nasce la “Società Cooperativa di Iglesias” che però inizia a funzionare

l’anno dopo. Creata dalla società Monteponi per rispondere al malcontento degli

operai locali, contrastando il carovita, si propone di fornire ai soci a prezzi

contenuti non solo gli oggetti di consumo e di uso domestico ma anche quelli

necessari all’attività mineraria, di concedere sussidi in caso di malattia o di

morte, di costituire una cassa per la vecchiaia e di sostenere l’educazione dei figli

dei soci. Teoricamente tutti possono diventarne soci, ma in realtà una serie di

clausole tendono a porre un freno alle iscrizioni e ad impedire che la società

Monteponi ne perda il controllo. La “Monteponi” acquista, alla nascita dell’ente

ben il 70 per cento delle quote sociali in modo che nessun gruppo di opposizione,

per quanto forte, la possa mettere in discussione. La società mineraria usa la

cooperativa come uno strumento per realizzare la propria politica sociale a favore

dei minatori ma anche di controllo e di ricatto degli operai più vivaci a cui spesso

nega i vantaggi previsti nello statuto dell’ente cooperativo. La “Monteponi” si

dimostra realmente interessata, per evitare disordini nei suoi siti, a tutelare il

potere d’acquisto della paga del minatore, purtroppo degli impiegati e dei dirigenti

della cooperativa cercano di trarne un utile personale che a volte diventa una

piccola fortuna. La cooperativa garantisce ai minatori di poter acquistare le merci

a prezzi più bassi di quelli praticati nei negozi di Iglesias e di pagare il mese

successivo senza interessi.

Tolte le spese di amministrazione, quasi la metà dell’utile viene annualmente

erogato in opere di assistenza e beneficenza.87

87 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione, cit., pagg. 64-70.

79

Tra il 1904 e il 1906 l’utilizzazione strumentale della cooperativa mostra

definitivamente come la società Monteponi vede la cooperativa come mezzo per

vincere le battaglie contrattuali bloccando il pagamento dei salari, svuotando i

magazzini della cooperativa, provocando artificiose crisi annonarie e obbligando i

soci ad acquistare in contanti.88

Altre cooperative di consumo nascono nello stesso periodo forse per l’influsso

della suddetta Cooperativa voluta dalla “Monteponi”. Nello stesso anno, 1883,

che viene fondata la cooperativa di Iglesias, sorge anche la “Cooperativa di

consumo fra gli operai della miniera di Masua”, voluta dalla direzione. Un'altra

cooperativa viene fondata a Bugerru riservata agli operai che lavorano per la

Società Malfidano.

Quest’ultima ha subito un grande successo perché gli abitanti del villaggio

vogliono sfuggire alle grinfie dei cantinieri e dei piccoli impresari che gli

strozzano e dopo cinque anni presenta un giro d’affari superiore a quella di

Iglesias. I tentanti di alcuni affaristi di prenderne il controllo vanno a vuoto, ma

segnano l’inizio di un periodo turbolento che termina solo con l’arrivo dall’Emilia

di un esperto militante socialista.

Vengono creati dei macelli cooperativi a Bugerru e a Carloforte.89

Le cooperative di consumo non produttivo non hanno successo in campagna

perché la maggior parte dei beni di sussistenza è prodotta e consumata nella stessa

azienda familiare o avviene per consuetudine con lo scambio in natura tra parenti

e conoscenti, sia normalmente o in caso di eventi. Sarebbero utili i negozi o gli

spacci cooperativi in città per reagire all’aumento dei prezzi e alle manovre degli

speculatori che hanno provocato grandi tensioni; ma anche nei centri urbani

regnano la diffidenza cronica e il debole spirito associativo, provocando una vita

dura a quelle poche che nascono.

88 Ivi, pag. 76.

89 Ivi, pagg. 77-82.

80

Esempio è dato dalla “Unione cooperativa di consumo di Cagliari”, sorta nel

1905, che pur contando un buon numero di aderenti nel 1908 finisce in perdita

perché i soci non comprano regolarmente nel negozio sociale. Sempre nella più

grande città dell’isola sorge nel 1909 una “Cooperativa case e alloggi che sostenta

dall’amministrazione comunale concentra le sue attenzioni soprattutto agli

impiegati.90

90 Ortu, L’età giolittiana, cit., pagg. 135-140.

81

3. Le cantine sociali

82

3.1. Le Cantine Sociali in Sardegna dall’età giolittiana al periodo

fascista

Sul finire del XIX secolo durante una conferenza tenuta a Quartu Sant’Elena si

nota che la Sardegna è tra le regioni d’Italia solamente l’undicesima per terreni

impiantati a vigneto, ma è tra le zone con la miglior resa.91

Alle favorevoli condizioni climatiche e di resa purtroppo non corrisponde la

capacità dei produttori sardi di lavorare il mosto in modo eccelso. Tra i motivi che

determinano questa situazione Scano rileva l’assenza di moderne attrezzature,

inoltre risulta negativa la pratica d’impiantare, nello stesso terreno, diverse qualità

di vitigni che non consentono di proporre un vino tipico sardo. Per superare questi

impedimenti Scano propugna la nascita di cantine sociali dove trattare in modo

razionale la materia prima e realizzare prodotti di qualità.

Nel patrocinare la nascita delle cantine sociali si era distinto tra i primi Sante

Cettolini, pioniere della viticoltura moderna in Sardegna.

L’associazione o la cooperativa di produzione non sarà probabilmente

la panacea universale, ma io fermamente credo che in essa e per essa

che la Sardegna possa trovare il modo di avere un qualche conforto e

guardare all’avvenire con animo meno travagliato e dubbioso. Né mi

si dica che l’egoismo individuale qui sia sentito con maggiore

violenza che altrove e che qui più che altrove sia malagevole il dar

forma e sostanza alle cooperative. Attualmente è vero, si sentono

ancora tutte le diffidenze cagionate dalle imprese fallite in un passato

vicino, dei disastri finanziari di cui l’eco dolorosa ancora non tace; ma

non bisogna asserire in modo assoluto che il sardo non inclini alla

comunità del lavoro ed alla associazione degli intenti. E cosa erano i

monti frumentari di un tempo se non una forma di cooperazione? Ed il

barracellato? 92

Il tecnico ha da poco avviato, presso la Regia scuola di viticoltura e di enologia di

Cagliari, un piccolo stabilimento enologico, costruito con l’aiuto del Comune e

91 Cfr. G. Scano, Cantine sociali in Sardegna, Cagliari, 1896, pag. 10.

92 S. Cettolini, Le cantine sociali in Sardegna. Considerazioni e schema di statuto per una cantina sociale in Cagliari Cagliari, 1895, pagg. 14-15.

83

della provincia di Cagliari, oltre che del ministero dell’Agricoltura, che dispone di

una capacità lavorativa di circa 3.000 ettolitri, garantendo ai primi 11 soci

conferenti risultati soddisfacenti. Fondata nel 1893 resta in attività per due anni,

garantendo maggiori guadagni ai soci rispetto ai coltivatori che vendono il loro

prodotto sulla piazza.93 Ma questo risultato positivo anziché spingere alla

costituzione di altre cooperative nel settore vinicolo, porta molti di coloro che

hanno partecipato all’esperimento di Cettolini, ad affrontare in proprio il mercato,

convinti di ricavarne maggiori guadagni.

Cettolini si oppone all’idea di adottare in Sardegna una forma di cantina sociale

dove i soci conferiscono non solo l’uva, ma anche parte del fustame e del

macchinario; preferisce rifarsi agli esempi tedeschi, dove esistono molteplici

cantine comunali, costruite e sostenute dai municipi, e del Trentino, dove la Dieta

provinciale concede incentivi alle prime cooperative vinicole.

Nell’isola, d’altra parte, la maggioranza dei viticoltori produce di norma più

mosto di quello che può trasformare nella cantina di famiglia (questa ricorrente

sovraproduzione spiega perché in Sardegna il prezzo medio del vino non ha

superato nel decennio precedente le 10 lire ad ettolitro) e comunque non dispone

generalmente delle attrezzature necessarie per conservare in maniera corretta il

prodotto. Inoltre ormai sono quasi sempre i viticoltori a dover cercare il

compratore per riuscire a spuntare <<prezzi meno vili>> di quelli offertigli dagli

intermediari, mentre un tempo i produttori potevano <<permettersi il lusso di

attendere il compratore>>.

Tra gli avversari dell’idea cooperativa vi sono ovviamente coloro che speculano

sulle necessità dei piccoli possidenti, anticipando qualche soldo al momento del

più urgente bisogno; viceversa le cantine sarebbero particolarmente utili ai

proprietari “deboli” dal punto di vista economico. La struttura cooperativistica

ipotizzata è di tipo misto; prevede infatti, accanto ai soci produttori, l’intervento di

93 Cfr. S. Cettolini, Le cantine sociali in Sardegna, cit., pag. 4.

84

capitalisti privati, disposti a garantire, in cambio di un piccolo interesse, un ristoro

ai coltivatori nei momenti cruciali dell’attività.

Questi progetti pioneristici trovano peraltro non poche difficoltà a diffondersi. In

una nota sull’associazionismo cooperativistico scritta qualche anno dopo, Andrea

Passino, un altro studioso del mondo agricolo, osserva in modo sconsolato come

tra i contadini sardi il concetto stesso di cooperazione sia ancora sconosciuto nel

1900.94 Dopo aver citato alcune cooperative modello, già realizzate nel comparto

vitivinicolo a livello nazionale (la Vinicola di Brindisi, la Cantina sociale di

Oleggio e l’Unione enologica di Ripartesone), l’autore rileva l’esistenza, in

provincia di Cagliari, di aziende vitivinicole <<grandiose e belle>>, fornite di

tutti i moderni macchinari, le aziende Pernis, Zedda e Capra, e aggiunge che il

visitatore sarebbe rimasto ancor più sorpreso se quelle cantine avessero

rappresentato il prodotto di parecchie centinaia di piccoli produttori associati, i

quali avrebbero potuto usufruire di un agio che andava invece a favore degli

intermediari, interessati solo ai loro profitti, mentre i cooperatori avrebbero potuto

<<aver di mira l’interesse di tutti>>.95

In età giolittiana, grazie all’assistenza tecnica della Regia Scuola di viticoltura ed

Enologia e delle Cattedre ambulanti di agricoltura, i piccoli proprietari, che col

progressivo reimpianto con viti americane sconfiggono la filossera, iniziano a far

uso di concimi, lavorano il vino in modo razionale e comprendono l’utilità dei

sevizi che offre l’associazionismo.

In quegli anni, comunque, sull’onda dei processi di modernizzazione in atto,

anche nell’isola si registra una rilevante crescita della cooperazione nel mondo

agricolo, pur se rivolta prevalentemente alle attività di credito agrario, con le casse

rurali, e alle mutue di assicurazione del bestiame. Le cooperative di produzione

sono ancora invece pochissime e tra queste spiccano, la Cantina sociale a

94 A. Passino, Le associazioni cooperative nell’agricoltura sarda, Cagliari, 1900, pag. 7

95 Ivi, pag. 24

85

Monserrato e la Cooperativa vinicola di viticultori di Calasetta, mentre a Oliena e

Dorgali si costituiscono cooperative per l’impianto e la coltivazione di vigneti. La

Cantina sociale di Monserrato, nata con un capitale di 100 mila lire e con 450

soci, dimostra in un solo anno che essa è, per i piccoli produttori, uno strumento

capace di sfuggire alla morsa speculativa dei grandi commercianti e dei proprietari

delle maggiori cantine private.

Gian Giacomo Ortu ha sottolineato che, nonostante il rapido fallimento di queste

prime iniziative, l’esperienza di Monserrato ebbe comunque <<un valore

sintomatico e prefigurativo>>, e ha rimarcato come, per far fronte alle difficoltà

causate dalla filossera, i viticoltori della zona fossero ricorsi alle antiche

consuetudini di aiuto reciproco per il rimpianto delle vigne.96

La grave crisi produttiva che colpisce la viticoltura sarda nei primi decenni del

secolo limita queste prime forme cooperativistiche. Tra il 1905 e il 1910, quando

l’epidemia fillosserica arriva ad estendersi alla provincia di Cagliari, la

produzione di uva si riduce di due terzi, subendo poi un crollo maggiore con

l’entrata in guerra dell’Italia. Nel 1912 sono ormai perduti circa i 3/5 delle aree

coltivate a vite presenti nel 1880; mentre nel 1909-13 la produzione media della

Sardegna è stimata in 743.000 ettolitri (di cui 626.000 in provincia di Cagliari),

una cifra che costituisce l’1,6% della produzione nazionale.97

Durante quel decennio le esportazioni di vino dalla Sardegna segnano un calo

rilevante, tanto che nel 1920 superano di poco i 110.000 ettolitri.98 Inoltre agli

96 Cfr. Ortu, L’età, cit., pag. 135..

97 Cfr. Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Ufficio di Statistica agraria, Il vino in Italia. Produzione, commercio con l’estero, prezzi, Roma, 1914, pag. 20.

98 Cfr. G.M. Lei Spano, La questione sarda, Torino, 1922, pag. 333.

86

inizi degli anni Venti il valore delle importazioni di vino in Sardegna, circa 33

milioni di lire, arriva a superare quello delle esportazioni, poco più di 27 milioni.99

Fu in quel periodo che Cesare Testa, un esperto di tecnica commerciale che faceva

parte del consiglio direttivo dell’Istituto sardo di Milano, rivolge sulle colonne del

“Bollettino degli Interessi Sardi”, periodico della Camera di commercio di

Sassari, un nuovo accorato appello ai produttori di vino della Sardegna perché

costituiscano una grande organizzazione che unisca <<le differenti energie>> e

protegga <<l’azione dei singoli>>.100

La proposta nasce dalla constatazione dell’esistenza <<di qualche cosa di

anormale nel mercato vitivinicolo sardo>>, dal momento che la pochezza dei

raccolti e gli acquisti anticipati, nel caso di probabile aumento dei prezzi non sono

sufficienti a spiegare <<l’enorme e costante squilibrio dei prezzi dei vini sui

mercati sardi rispetto a quelli sui mercati nel resto d’Italia, specialmente dell’Italia

settentrionale>>. Per le loro qualità peculiari i vini sardi assomigliavano in vario

modo a quelli spagnoli e <<debitamente presentati e conciati secondo le esigenze

dei consumatori>> hanno tutte le potenzialità <<per essere introdotti nelle mense

signorili e nei grandi alberghi>>. Non a caso i grossisti spagnoli e francesi, che

riescono ad accaparrarsi in ottobre i vini sardi ancora grezzi, specialmente quelli

della zona del sud dell’isola, ad appena 135 lire all’ettolitro, riescono a

commercializzarli, preparati in modo positivo, realizzando prezzi che oscillano tra

le 10 le 20 lire a bottiglia.

La creazione di cantine sociali cooperative assume un rilievo significativo nel

programma economico del sardofascimo. A differenza del comparto lattiero-

99 Cfr. La bilancia commerciale della Sardegna, in “Bollettino degli interessi sardi”, I, n. 3 (16 giugno 1923), pag. 2.

100 C. Testa, L’organizzazione dell’industria e del commercio vinicoli in Sardegna, in “Bollettino degli interessi sardi”. I, n. 8 (1° settembre 1923), pag. 1.

87

caseario, quello vitivinicolo sfugge sostanzialmente a forme di controllo

monopolistico.101

Nel settore vinicolo, Pili si adopera per la costituzione di cantine sociali

cooperative per dare <<un nuovo indirizzo alla produzione vinicola, (…) creare

tipi di vino uniformi e costanti capaci di conquistare i mercati di consumo>>. Per

questo motivo nel 1925 viene istituita la Federazione delle cantine sociali

cooperative, con capitali forniti dalla Cassa provinciale di Credito Agrario di

Cagliari e poi dalla Banca Nazionale del lavoro, che rimane in vita durante il

fascismo, nonostante i vari tentativi di sostituirla con i consorzi di cantine

sociali.102

Poco dopo, sorgono altre importanti cooperative di produzione, come quella di

Jerzu nel 1929: la cooperazione vitivinicola comincia dunque ad affiancarsi e a

competere con l’industria privata in una fase nella quale, come risulta dal

Censimento industriale del 1927, operano nell’isola 24 stabilimenti enologici con

un totale di 103 addetti.

Nel complesso gli anni Venti fanno registrare una graduale ripresa nella

produzione, come conseguenza di un certo incremento della superficie vitata che,

prima della istituzione della nuova provincia di Nuoro, avvenuta nel 1928, è

localizzata per più dell’85% nella provincia di Cagliari.

La Sardegna – scriveva Giovanni Dettori sul finire del decennio – è

buona produttrice di celebri vini. Ma la vite, che pure ha alimentato

forti iniziative industriali , ha avuto il suo acerrimo nemico: la

filossera ed è ancora in corso la battaglia per debellarla. Pur tuttavia la

media della produzione poco si discosta da quella del Regno.103

101 Cfr. P. Pili, Grande cronaca minima storia, Cagliari, pag. 249.

102 Ortu, L’età giolittiane, cit. pag. 202.

103 G. Dettori, Sardegna in marcia, Roma, 1929, p.22.

88

Il rapporto tra superficie vitata e superficie agraria nel quinquennio 1924-28 resta

comunque ancora molto basso: appena l’1,7% contro il 15,1% della media del

Regno, dove peraltro è molto consistente la quota di vigneti a coltura

promiscua.104 L’aumento della produzione spinge un nuovo flusso di esportazione

dalla Sardegna di vino in fusti.105

Per rispondere alla crisi determinata dall’invasione fillosserica i piccoli produttori,

non solo si riuniscono in cooperative, ma cercano anche di migliorare i vini che

riscuotono il maggior successo, come il nuragus, e si spingono a tentare

l’esportazione in America. Si ottiene qualche successo, ma la crisi internazionale

del 1929 crea ulteriori difficoltà. La battaglia del grano, cavallo di battaglia del

fascismo, porta a un’ ulteriore diminuzione della superficie vitata e a una

conseguente contrazione della produzione vinicola.106

Va inoltre ricordato che, come ha giustamente osservato Luciano Marrocu, il

settore vitivinicolo paga un costituente tributo anche alla politica di

stabilizzazione monetaria decisa dal governo fascista. La piccola proprietà

contadina che si era indebitata negli anni immediatamente precedenti per

ristrutturare i vigneti, subisce le drastiche conseguenze dovute al crollo del prezzo

del vino, precipitato in poco tempo da 250 ad appena 60 lire ad ettolitro. Non a

caso nel dicembre del 1930 i viticoltori di Monserrato, riunitisi presso la sede del

locale fascio, organizzano una manifestazione di protesta che, però viene

duramente repressa.107

104 G. Alivia, Economia e popolazione nel Nord Sardegna, Sassari, 1931, pag. 99.

105 Ivi, pag. 303.

106 Cfr. M. L. Di Felice, Vite e vino tra Ottocento e Novecento. La memoria della tradizione, le promesse della modernità (1847-1940), in Il vino in Sardegna – 3000 anni di storia, cultura, tradizione e innovazione, Nuoro, 2010, pagg. 109-110.

107 Cfr. L. Marrocu, Il ventennio, cit. pag. 692.

89

L’organizzazione del I Convegno vitivinicolo sardo, che si tiene a Cagliari nel

1933, è da considerarsi un evidente tentativo del regime di rispondere, con

un’iniziativa di ampio respiro propagandistico, al malessere diffuso tra i viticoltori

oltre che, più in generale, tra i ceti agricoli.108

L’ampia e documentata relazione introduttiva di Sante Cettolini mostra un quadro

completo delle potenzialità della viticoltura sarda.109 A caratterizzare la

produzione vinicola isolana sono soprattutto i bianchi, distinti tra gli asciutti e i

liquorosi dolci.

Al primo gruppo appartengono il semidano, il nuragus, la malvasia e la vernaccia.

Nonostante fosse ormai <<quasi del tutto abbandonato>>, il semidano è secondo

Cettolini, <<un vino eccellente, di moderata gradazione alcolica, di un bel colore

paglierino, di sapore netto, balsamico; di profumo caratteristico, delicato e

insieme pronunciato; ottimo vino da pesce>>.110 Il nuragus, invece, che un tempo,

a causa dei sistemi di vinificazione tradizionale, era <<una gemma avvolta nella

ganga>>, è ormai riuscito ad imporsi presso i buongustai e, come ha saputo

dimostrare intelligentemente il tecnico della Federazione delle Cantine sociali del

Campidano, può dar vita a tre tipi di vino: non solo due prodotti ad alcoolicità

variabile tra i 12 e i 14 gradi, ma anche un vino liquoroso semidolce, paragonabile

al madera, specialità della Cantina Sociale di Monserrato.111

Cettolini afferma inoltre che la Regia Scuola di enologia è riuscita a realizzare

dalla malvasia due prodotti differenti: al tipo classico ne affianca un altro,

denominato Cagliari secco (che è <<un magnifico vino che non sfigurava accanto

108 Cfr. Comitato regionale vitivinicolo presso il Consiglio provinciale dell’economia corporativa di Cagliari, Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, Cagliari, 1933.

109 Cfr. S. Cettolini, Vini tipici sardi e Consorzi relativi, in Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, cit.

110 Ivi, pag. 17.

111 Ivi, pag. 18.

90

a quello del Reno, quando veniva bevuto col pesce>>),112 mentre la malvasia

asciutta, ottenuta con l’uva leggermente appassita, viene consigliata <<agli

ammalati d’influenza o ai convalescenti, ma anche dopo un lavoro estenuante ed

una partita di caccia faticosa>>.113

Qualità medicamentose, soprattutto – si dice - per prevenire la malaria, sono

attribuite anche alla vernaccia, un altro vino ad alta gradazione alcoolica, di colore

<<più o meno ambrato, un profumo penetrante ed etereo, e un sapore delicato che

lascia un ricordo evanescente di mandorla che si assimila magnificamente agli

amaretti, un’altra specialità di Oristano>>.114

Ricordando poi come il Gemelli avesse definito nel 1776 il moscato <<il re dei

vini liquorosi dolci>>, Cettolini spiega che la migliore qualità di questo vino,

<<adattissimo per le signore e da mescere alla fine del pranzo coi dolci>>, si

ottiene grazie all’uso di uve leggermente appassite; circa il nasco, riporta la

positiva valutazione che era stata formulata sul finire dell’Ottocento dagli enologi

austriaci che lo avevano paragonato <<al famoso tokay, orgoglio dell’enologia

ungherese>>.115 Si rammarica invece che non sia altro che un prezioso ricordo il

torbato di Alghero <<vino veramente aristocratico e tipico, superbo nella sua

delicata dolcezza, nella giusta alcoolicità, come vino liquoroso>>.116

Dopo aver riassunto le indicazioni contenute nella legge n. 30 dell’11 gennaio

1930, che stabilisce regole precise per la produzione e la commercializzazione dei

vini tipici e sulla formazione dei consorzi, l’enologo esprime i suoi dubbi sulla

possibilità che nelle specifiche condizioni <<della possidenza agricola e

112 Ivi, pag. 19.

113 Ivi, pag. 20.

114 Ivi, pag. 23.

115 Ivi, pag. 26.

116 Ivi, pag. 14.

91

dell’organizzazione commerciale sarda>> nell’isola si possa realizzare un

Consorzio dei vini tipici. Suggerisce perciò di puntare piuttosto che su <<Enopoli

di ammassamento del vino>>, su <<Cantine sociali accentratrici di produzione

viticola>>, da collegare in consorzi specializzati, ai quali possano partecipare

anche i maggiori negozianti del settore. Infine propugna la creazione di un grande

Enopolio consorziale, facente capo alle cantine sociali esistenti, ma capace di

attrarre anche quei produttori ancora legati alla consuetudine di vinificare da soli

la propria uva e di <<popolarizzare, oltre il vino tipo Campidano, anche quello del

nuragus e degli altri vini tipici della zona>>.117

Durante lo stesso consesso Michele Arnaldi, commissario governativo per la

Federazione delle cantine sociali, evidenzia alcune criticità relative alle vicende

relative della principale cantina sociale del Cagliaritano. Ricorda infatti che la

Cantina di Sestu è fallita, mentre quella di Quartu continua ad essere in vita

soltanto perché uno statuto ferreo costringe i soci a conferire comunque l’uva ad

un prezzo inferiore rispetto a quello offerto dal mercato; quella di Monserrato

invece ha dovuto ridurre di un quarto il suo capitale <<per far fronte all’onere di

lire 99.483 che per interessi passivi e spese di cambiali>> gravando l’esercizio

del 1932118

Coraggiosamente e sinceramente – affermava sconsolato – bisogna

riconoscere che la propaganda cooperativistica pro cantine sociali non

ha dato i frutti che si aspettavano, che esse con i mezzi di cui

dispongono non sono in grado di sostenere il mercato vinicolo, e che

bisogna perciò studiare se convenga battere un’altra strada includendo

nello studio anche il problema della utilizzazione dei sottoprodotti,

ormai pacifica riconosciuto da tutti come il mezzo più efficace per

ridurre il costo di produzione.119

117 Ivi, pag. 33.

118 Ivi, pag, 98.

119 Ibidem.

92

Per Arnaldi la produzione di vino della Sardegna, <<superiore a quella richiesta

dal fabbisogno delle popolazioni isolane sobrie ed abituate ad un modesto tenore

di vita>>, non è di quantità tale <<da incoraggiare un’adeguata organizzazione

privata del commercio di esportazione>>, per cui le ditte che commerciano col

continente sono poco più che intermediarie di grossisti che finanziano

accaparramenti ed hanno quindi l’interesse <<a deprimere il mercato per

aumentare la quantità dei loro affari>>.120

Il nodo degli sbocchi commerciali viene affrontato con un’altra angolazione da

Renato Zedda, presidente del Consorzio per la viticoltura, il quale, dopo aver fatto

presente che il commerciante all’ingrosso anticipa sia il valore del prodotto, sia il

fustame e tutte le spese di trasporto, e paga l’uva o il vino al produttore per

contanti, chiede che si impongano regole precise perché siano commercializzati

fuori dall’isola solo vini scelti, esenti da ogni e qualsiasi difetto e perfettamente

lavorati.121

Dopo il Convegno del 1933 non mancano in Sardegna alcune iniziative tese a

trovare nuovi spazi di mercato. Si migliora qualitativamente un vino largamente

diffuso come il nuragus, che ottiene un buon successo a livello nazionale;122

mentre le prime partite di vini fini mandate negli Stati Uniti d’America

sembrarono incontrare <<il massimo favore dei consumatori>>.123 Tuttavia nella

media degli anni 1934-36 la produzione globale è la metà di quella degli inizi del

120 M. Arnaldi, Proposte di un ente vinicolo sardo, in Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, cit. , pag. 97

121 Ivi, pag. 82.

122 Cfr. M. Zucchini, I vini tipici della provincia di Cagliari all’Esposizione nazionale di Siena, Siena, 1935.

123 Cfr. Archivio di Stato di Cagliari, Prefettura, Relazioni 1934, cart. n. 30, gennaio, Rapporto del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa.

93

decennio, essendo di poco più di 300.000 ettolitri.124 Sul finire di quel decennio le

cantine sociali operanti nell’isola dispongono di una capacità complessiva di

lavorazione di 310.000 ettolitri.125

Nell’analizzare la realtà della viticoltura sarda sul finire degli anni Trenta, il

geografo francese Maurice Le Lannou sottolinea il ruolo nevralgico della regione

sud-orientale del Campidano di Cagliari, circa 7.000 ettari di vigneti, in una

campagna che alterna spesso la coltura della vite a terreni seminativi, che si

estende da Pirri e Monserrato fino a Soleminis e Dolianova.126 Nettamente

preponderante risulta sempre la piccola e piccolissima proprietà: molti di questi

viticoltori svolgono anche qualche lavoro complementare (chi fa il saliniere, chi il

carrettiere, chi il bracciante stagionale). Ancora più caratteristica sul piano sociale

è la viticoltura diffusa nelle isole di San Pietro e Sant’Antioco con la prospiciente

fascia litoranea del Sulcis, dove agisce in modo vitale la singolare figura del

pescatore-vignaiolo: nella sola San Pietro su 1.784 capifamiglia se ne possono

contare più di 1.600.127 Rilevanti per la coltivazione dell’uva sono anche i territori

di Alghero e di Sorso, nel nord-ovest della Sardegna, e, sul versante orientale,

l’Ogliastra, definita per le sue colline e la contestuale presenza di ampi oliveti, una

“Toscana in miniatura”.

Dopo aver descritto la formazione relativamente recente di queste zone viticole, -

risalenti agli anni che seguirono all’editto delle chiudende -, Le Lannou spiega

con la mancanza di una lunga tradizione il fatto che i viticoltori del Cagliaritano,

124 Cfr. Confederazione fascista degli industriali, Federazione nazionale fascista degli industriali di vini e liquori, Annuario dell’industria italiana dei vini, liquori e affini, Milano, 1938, pag. 43.

125 A. Mori, Sardegna, Torino, 1966, pag. 389.

126 M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, tradotto e presentato da M. Brigaglia, Cagliari, 1979, pag. 238.

127 Ivi, pag. 242.

94

benché molto operosi, siano dei pessimi vinificatori, e anche perciò propone una

valutazione del tutto positiva sul ruolo delle cantine sociali.

Questa fortunata espropriazione – scrive il geografo francese – è stata

realizzata con la creazione di due Cantine cooperative, quella di

Monserrato, nata nel 1924, e quella di Quartu sant’Elena, nata nel

1928. La prima ha 465 soci, la seconda 270. I viticoltori vi portano la

loro uva, oppure del vino non completamente lavorato che la Cantina

trasforma e rifinisce. Ogni anno i piccoli carretti trainati da asini vi

trasportano fino a 27.000 quintali d’uva e, qualche settimana più

tardi, 20.000 ettolitri di vino ancora da lavorare. Il proprietario

percepisce immediatamente, per ogni quintale d’uva o per ogni

ettolitro di vino, un prezzo che è di poco inferiore al prezzo medio

offerto dalla piazza; e riceve un’altra quota parte quando la vendita del

prodotto (anch’essa a carico della Cantina) è, stata completata. Questa

organizzazione cooperativa, analoga a quella dei frutticoltori del

Giura, ha ottenuto risultati particolarmente felici. Capace di sostenere

durante la vendemmia i prezzi dell’uva, remunera in maniera

soddisfacente il lavoro del produttore: prima dell’istituzione delle

Cantine, i prezzi erano tenuti molto bassi dall’azione concertata dei

commercianti non esportatori, che esercitavano un vero e proprio

monopolio nella fornitura del vino all’interno dell’isola. Il secondo

elemento di progresso è di ordine tecnico: ben attrezzate, le Cantine

danno dei vini uniformi dai tipi ormai ben definiti, ed hanno già

condotto il Nuragus ad essere classificato tra i vini più quotati del

Regno.128

128 Ivi, pag. 241.

Cfr. S. Ruju, Le cantine sociali sarde nel Novecento, in M. L. Di Felice e A. Mattone ( a cura di), Storia della vite e del vino in Sardegna, Roma-Bari, 1999, pagg. 306-312.

95

3.2. La Federazione delle Cantine Sociali e le Cantine di

Monserrato, Quartu Sant’Elena e Sestu negli anni Trenta: la crisi

del settore vitivinicolo e i contrasti interni.

96

3.2.1 Crisi economica e Crisi finanziaria (1930-1933)

A est del Campidano, le formazioni mioceniche, plasmate a colline, si

frappongono tra la pianura e alture centrali, ma queste si elevano

energicamente: i monti del Sarrabus formano uno sfondo maestoso ai

bassi vigneti di Quartu Sant’Elena, sobborgo di Cagliari, e più a nord,

c’è solo una decina di chilometri tra i campi ben coltivati di

Dolianova, a meno di 200 metri di altitudine, e il massiccio granitico

di Punta Serpeddì, che culmina a 1.069 metri.129

Il predominio della cultura della vite nel Campidano di Cagliari, come riportato in

tanti saggi, è testimoniato anche in diversi documenti conservati nel Fondo della

Prefettura di Cagliari.

Si veda ad esempio il documento che il prefetto di Cagliari scrive il 26 febbraio

I933 a Mussolini nel quale l’alto funzionario, evidenziate le ricchezze di questa

parte dell’isola ne sottolinea, tuttavia, le attuali, gravi, condizioni, nel pieno della

crisi economica scoppiata nei primi anni Trenta. Il Campidano di Cagliari –

ricorda il prefetto -

costituisce la zona più intensamente coltivata e popolata dell'Isola e

nella sua piccola superficie concentra un terzo della produzione

viticola sarda, sono coltivati esclusivamente a vite circa I0.000 ettari

di terreno, che danno una produzione media annua di 300.000 ettolitri

di vino, due terzi bianco ed uno nero, dei quali circa 20.000 presso le

Cantine Sociali di Monserrato (Cagliari).

Tale prodotto, che, fino a qualche anno fa, ha rappresentato per il

Campidano una ricchezza cospicua, dato l'elevato prezzo del vino, che

aveva superato anche la quotazione all'ingrosso di lire I50 l'ettolitro,

oggi costituisce un ingombro nei magazzini, o si vende al prezzo

meno che redditizio di L. 50.

Le condizioni economiche del Campidano, attrezzato in regime

esclusivo di monocultura, sono pertanto direttamente connesse al

valore del vino ed hanno subito alterne vicende di prosperità e di crisi

a seconda delle variabili quotazioni del prodotto, interessando

direttamente un nucleo di popolazione di circa 60.000 abitanti, ripartiti

nei Comuni di Quartu Sant'Elena, Sestu, Sinnai, Dolianova ed Elmas e

129 Cfr. M. Le Lannou, Pastori e Contadini, Il Prefetto di Cagliari, Cagliari, 1979.

97

nelle frazioni rurali di Monserrato, Pirri, Selargius e Quartucciu, sulla

Città di Cagliari.130

Lo stato di grave crisi che colpiva il sud della Sardegna si legava a quello del

comparto vitivinicolo, evidente già dalla fine degli anni venti, come indica la

lettera che il 5 febbraio 1930 la Federazione Provinciale fascista dei commercianti

di Cagliari indirizza allo stesso Prefetto per sollecitare i necessari interventi:

La crisi economica in cui versa oggi il Campidano di Cagliari devesi

ascrivere principalmente all'unicità' della sua produzione =solo vino=

ed alla universale crisi del vino con produzione enormemente

aumentata (Il Sud America, l'Australia, il Sud Africa e la Russia sono

nuovi formidabili viticultori che oggi esportano in concorrenza anche

sui mercati Europei; e gli Stati Uniti d'America ci hanno chiuso le

porte).131

Ed è proprio la Federazione delle Cantine sociali a sollecitare il Prefetto, il 22

aprile 1930, in merito alla grave situazione della popolazione di questa parte della

regione a cui non solo manca il lavoro ma anche il pane, tanto la propria

sopravvivenza è dipendente dalla coltivazione viticola:

Le condizioni economiche del Campidano di Cagliari già note

a Vostra Eccellenza diventato ogni giorno più precarie in conseguenza

dell'acutizzarsi della crisi sul commercio del vino, ed è per questo che

in qualità di Presidente della Federazione Cantine Sociali alla quale

sono affidate le sorti di mille produttori di vino, -sentito il parere delle

autorità locali -mi azzardo a presentare all'Eccellenza Vostra il

presente memoriale perché Ella possa trarne dal contenuto di esso il

convincimento della grave posizione della nostra popolazione

130 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 376, Il Prefetto di Cagliari di Cagliari al Capo del Governo, Cagliari 26 febbraio 1933.

131 Ivi, La Federazione Provinciale fascista dei commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari 5 febbraio 1930.

98

eminentemente viticola, che è oggi priva non solo dei mezzi necessari

per la coltivazione dei vigneti, ma perfino manca del pane.132

La crisi vinicola travaglia tutta la Provincia di Cagliari – ricorda sempre il prefetto

- che è tra le primissime in questo genere di produzione agricola. Ma, in modo

speciale, si riflette sulle condizioni economiche delle frazioni di Cagliari e dei

Comuni di Quartu Sant'Elena e Sestu specialmente, per il fatto che l'unica

produzione locale è costituita dal vino: <<la coltura della vite e la produzione del

vino procura i mezzi di vita alla gran maggioranza delle popolazioni e costituisce

il principale cespite di attività intorno a cui fioriscono tutti gli altri; per modo che,

caduto il commercio del vino, è venuta meno ogni qualunque risorsa per le

popolazioni che abitano nella pianura circostante la Città di Cagliari.>>.133 Anche

altre regioni della penisola si trovano nelle medesime condizioni, ma in Sardegna

gli effetti della crisi sono aggravati però <<dalla distanza di notevoli mercati

d'esito e dall'assoluta impossibilità da parte dell'interno dell'Isola di assorbire il

prodotto esuberante del Campidano di Cagliari.>>134

Una lettera di Arturo Marescalchi, sottosegretario all’Agricoltura e Foreste,

sempre in maggio a Giovanni Cao di S. Marco, sottosegretario di Stato per le

Comunicazioni, testimonia l’interesse dei politici sardi a livello governativo

perché le Cantine sociali del cagliaritano ricevano aiuti finanziari durante la crisi:

In relazione al vivo, interessamento da te spiegato in merito alla

crisi vinicola in atto nella provincia di Cagliari, mi è gradito informarti

che con lettera odierna ho impartito istruzioni all'Istituto di Credito

Agrario per la Sardegna affinché alle Cantine Sociali della provincia

predetta, debitrici per prestiti di esercizio impiegati nell'attrezzare

impianti enologici, siano concessi corrispondenti mutui agrari di

132 Ivi, La Federazione delle Cantine sociali di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 22 aprile 1930.

133 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero Agricoltura e foreste, Cagliari, 6 maggio 1930.

134 Ibidem.

99

miglioramento, da emettere al beneficio del concorso statale negli

interessi.

In attesa che possano concludersi tali operazioni, ho parimenti

inviato l'Istituto predetto a sospendere la riscossione dei prestiti di

esercizio sopra ricordati scaduti o di imminente scadenza. 135

Sono diverse le lettere che testimoniano l’iniziativa del Sottosegretario del

Ministero dell'Agricoltura e Foreste in Roma per sollecitare le Ditte della penisola

ad acquistare il vino delle cantine sociali sarde, come quella di risposta spedita

<<dagli stabilimenti enologici dei Fratelli Folonari>> di Brescia allo stesso

Marescalchi:

Abbiamo ricevuto le di Lei comunicazioni in merito alle pietose

condizioni in cui si trovano i viticultori del Campidano.

Sinceramente noi in questo momento non abbiamo necessità di

acquisto; il consumo, purtroppo, come V. E. sa', attraversa un

periodo di forte crisi ed è in continua riduzione. Non vogliamo

lamentarci non essendo questa la ns/ abitudine; ma certamente però la

attuale imposta, non lieve, e sopratutto l'eccessivo fiscalismo con la

quale essa viene applicata, non è favorevole alla ns/ industria e di

conseguenza, oltre a noi ne risentono i viticultori.

Cercheremo ad ogni modo di venire incontro al desiderio dell'E. V.

espressoci, ed abbiamo già scritto alle Cantine del Monserrato per

avere campioni e quotazioni e se appena ci sarà dato di fare qualche

cosa, lo faremo ben volentieri onde fare all'E.V. cosa gradita136

Interessante la lettera di risposta della Ditta Ralph Pacor al biglietto urgente di

servizio di Marescalchi:

Purtroppo questi ottimi vini, che conosco benissimo, non possono

venire presi in considerazione per il commercio d'esportazione via

Trieste, il quale è costretto a concentrare i suoi acquisti in quelle

regioni che offrono oltre il vantaggio delle spese di trasporto minime,

la possibilità del rifornimento si può dire immediato, fattori

importantissimi nella situazione odierna.

135 Ivi, Sottosegretario all’Agricoltura e Foreste al Sottosegretario di Stato per le Comunicazioni, Cagliari, 14 maggio 1930.

136 Ivi, Fratelli Colonari ad Arturo Marescalchi, Brescia , 16 maggio 1930.

100

A mio modo di vedere, l'unica via di uscita sarebbe il tentativo di

smerciare tale vino in Isvizzera, ove appunto si smerciano delle

qualità a 13 gradi. Però in questo caso, il nostro porto non potrebbe

venire preso in considerazione, mentre sarebbe più indicato quello di

Genova che trovandosi molti più vicino in rispetto tanto alla Sardegna

quanto alla Svizzera, offrirebbe maggiori vantaggi.137

La crisi vinicola poteva anche costituire motivo di “azione perturbatrice”

dell’ordine pubblico, secondo quanto scritto dalla Prefettura di Cagliari al

Questore di Cagliari:

Prego la S.V. di fare eseguire da oggi la più rigorosa e continua

vigilanza sullo spirito pubblico in relazione alla crisi vinicola e ad

un'eventuale azione perturbatrice che da sconsigliati si sia o si voglia

tentare per il Comune di Sestu e per la frazione di Monserrato.

Vorrà accertare anche gli autori della notizia che il Podestà di Sestu

ha dichiarato di essere stata diffusa, circa un'eventuale riaffermazione

del Lussismo.138

Nel giugno del 1930, presso il Gabinetto del Prefetto,.si riuniscono tutte le

personalità della zona, tra cui, L’Onorevole Tredici, il Segretario Federale, il

presedente della Provincia, i Podestà di Cagliari e Sestu e i Delegati Podestarili di

Monserrato, Selargius e Quartucciu, il Presidente della Federazione Cantine

sociali e i Presidenti delle Cantine Sociali di Quartu Sant’Elena e di Sestu,

l’Ingegnere Contivecchi delle omonime saline, l’Ingegnere Marchi che è il

Direttore delle Saline di Stato e l’Ingegnere Custer del Genio Civile. Viene allora

esaminato un memoriale presentato dal Sarigu, Presidente della Federazione

Cantine Sociali, sulle necessità di ogni singola cantina aderente alla Federazione e

della Federazione stessa allo scopo di ottenere un finanziamento di circa

5.000.000 di lire. Nel documento si afferma quanto segue:

137 Ivi. Ditta Ralph Pacor ad Arturo Marescalchi, Trieste, 17 maggio 1930.

138 Ivi, Prefetto di Cagliari al Questore di Cagliari, 19 maggio 1930.

101

La produzione totale vinicola del Campidano si aggira sui 170 mila

ettolitri di vino. Al presente alla Federazione fanno capo un migliaio

circa di associati che rappresentano una produzione totale di circa 100

mila ettolitri. Di questi le tre Cantine hanno lavorato quest'anno in

complesso 33.000 ettolitri. Col piano di sviluppo praticato si vorrebbe

portare la capacità della Federazione a 70.000 Ettolitri. Si vorrebbe

cioè completare l'attrezzatura delle Cantine di Quartu e di Monserrato

e impiantare quella di Sestu che attualmente è priva di macchinari;

oltre a ciò si dovrebbe istituire uno stabilimento enologico federale per

le miscele, per la lavorazione dei mosti, distilleria e sfruttamento di

sottoprodotti. È stata riconosciuta la necessità di appoggiare

l'iniziativa dando ad essa uno sviluppo graduale e ciò anche allo scopo

di non turbare l'assetto economico attuale. 139

Il Prefetto appoggia a livello ministeriale il memoriale dì cui allega una copia, per

chiedere il finanziamento di 802.360 lire al fine di completare l'attrezzatura degli

stabilimenti:

La somma non appare eccessiva se si considera che deve andare

ripartita fra lo stabilimento Federale e le tre Cantine dipendenti di

Quartu Sant'Elena, Sestu e Monserrato, e che importa l'acquisto di un

nuovo stabilimento federale e la costruire di tre magazzini e reparti

nuovi per le tre cantine dipendenti. Dalla migliorata attività della

Federazione trarrebbero indubbi ed immediati vantaggi non soltanto i

duemila soci delle Cantine, ma la maggior parte dei coltivatori dei

13.000 ettari di terreno vitato del Campidano di Cagliari e

specialmente i piccoli e medi proprietari, che sono proprio i più

duramente colpiti dalla crisi, come ho già avuto occasione di segnalare

in precedenza. La Federazione confida che la predetta somma possa

essere erogata, a titolo di su sussidio straordinario sui fondi che

potranno essere a disposizione dell'E.V. per tali scopi.

Ove la concessione del sussidio straordinario predetto non fosse

possibile, la Federazione domanda che la somma venga concessa

almeno come mutuo a lunga scadenza con interessi di favore da porsi

a carico dello Stato, almeno in parte. Aggiungo infine che la

Federazione si è dichiarata pronta ad esibire o preparare tutti i progetti

139 Ivi, Verbale della Riunione presso il Gabinetto del Prefetto di Cagliari sulla Situazione economica del Campidano di Cagliari, Cagliari, 11 giugno 1930.

102

concreti e i programmi tecnici che saranno ritenuti necessari dall'E.V.

quando si tratterà di definire la pratica.140

Il suddetto memoriale firmato da Francesco Sarigu Congiu, Presidente dalla

Federazione delle Cantine Sociali, definisce la richiesta di sovvenzione

<<puramente indispensabile perché la Federazione delle Cantine Sociali possa per

lo meno funzionare con una certa larghezza di mezzi tecnici adatti ad

immagazzinare un quantitativo maggiore di vino>>.141

Il memoriale poi passa a descrivere la situazione e i bisogni di ogni singola

cantina.

Per la Cantina Sociale di Monserrato <<è urgentissima del magazzino

vendemmia>>142, e sono forniti i costi per costruirlo e per i tini necessari per

renderlo funzionale..

Per la Cantina Sociale di Quartu Sant'Elena quello che è <<assolutamente

indispensabile è la costruzione del reparto vendemmia>>143. La spesa

approssimativa per questa costruzione e l'acquisto di un'altro torchio è calcolato in

150.000 lire.

Infine è descritta la triste situazione della Cantina di Sestu:

E veniamo ora alla Cantina Sociale di Sestu. -Questa non ha alcun

stabilimento bensì delle cantinette prese a prestito dagli stessi soci e

sono delle vere e proprie topaie. Non dispone di fustame né di

macchinario e in simili condizioni non può assolutamente reggersi.

Detta Cantina Sociale ha acquistato a suo tempo un'area di terreno

fabbricabile all'ingresso del paese, non si tratta, quindi, che di

140 Ivi, Il prefetto di Cagliari al Ministero dell’Agricoltura, Memoriale della Federazione, Cagliari, 20 giugno 1930.

141 Ivi, Relazione tecnica della Federazione delle Cantine sociali di Cagliari, Monserrato, 26 giugno 1930.

142 Ibidem.

143 Ibidem.

103

costruire il magazzino per una capacità di almeno 6.000 ettolitri

anziché di 10.000 come si era progettato. 144

Il Prefetto espone delle osservazioni critiche circa il progetto presentato:

La produzione vinicola del Campidano di Cagliari, ove

agiscono le Cantine Sociali, è calcolata in 170.000 ettolitri di vino di

cui 3/4 bianco e 1/ 4 rosso. Al presente la Federazione accentrata

circa 1/ 5 di questa produzione (33.000 ettolitri). I soci però

rappresentano la produzione di oltre la metà ( cioè 100.000 ettolitri).

Di questi si vorrebbe, ampliando le Cantine, lavorarne 70.000, pari ai

2/ 5 circa della produzione totale di quella zona.

Una volta creato un organismo tecnicamente efficiente, occorrerà

porsi il problema commerciale che molto spesso, e particolarmente in

periodo di crisi = quando cioè più efficace deve svolgersi l'azione

della Federazione, = è preponderante su quello industriale.

La relazione tratta invece la questione solo dal lato tecnico, ed ha

accenni molto generici sull'impianto di una distilleria e sullo

sfruttamento dei sottoprodotti. Queste due parti meritano invece di

essere sviluppate particolarmente nella parte riguardante l'utilità

economica delle due iniziative. Molto spesso ciò che è possibile in

teoria in realtà conduce a risultati dannosi . La Cremeria Sociale di

Macomer se rispondeva a criteri tecnici, mandò invece in rovina la

Federazione delle Latterie Sociali.

Sarà opportuno anche esaminare la convenienza o meno di porre in

attuazione in unico momento del piano progettato o se convenga

dargli una gradualità. Data infatti il volume della produzione che è

destinato a far capo alla Federazione ed il gran numero d'importanti

aziende private che da anni agiscono in quella zona, è da prevedersi

una ripercussione notevole che può riuscir dannosa alla stessa

Federazione ove non si consenta un graduale assestamento in un piano

organico di sviluppo.

L'elemento locali è in grado di dare uomini capaci ad assumere la

responsabilità di un capitale investito in impianti di oltre 6 milioni di

lire con un raggiro annuale di fondi per diversi milioni? I

144 Ibidem.

104

tentennamenti e le cantonate prese quest'anno e negli anni precedenti

giustificano queste domande. 145

<<La coltivazione della vite si può considerare l'unico cespite di sostentamento

dei numerosi agricoltori del Campidano di Cagliari,>>, ribadisce ancora la

Federazione delle Cantine Sociali di Monserrato, che si attrezza a stilare una

relazione tecnica per redigere un piano di sviluppo per le Cantine e la Federazione

con un mutuo di cinque milioni da chiedere al Governo (la relazione risale a fine

giugno). La relazione indicava la ripartizione in ettari dei terreni coltivati a vite

nella area di Cagliari.

Comune di Quartu Sant'Elena ha..............1389.28.35

" " Cagliari " ..............2896.29.62

" " Monserrato " .............. 626.72.75

" " Selargius " .............1415.10.07

" " Quartuccio " ............... 597.51.40

" " Sinnai " ............... 228.38.40

" " Settimo " ............... 267.02.25

" " Mara " ............. 657.29.75

" " Sestu " ............. 1503.83.70

" " Soleminis " ............ 150.91.80

" " Elmas " ............ 586.93.07

Totale ettari. ........7679.93.07

145 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Governo, Cagliari, 9 luglio 1930.

105

La produzione dei Comuni sopra detti si aggira intorno ai 170 mila

ettolitri di vino dei quali 3/4 bianco 1/4 rosso.146

Nella lettera del 9 luglio 1930 il prefetto afferma che in quel periodo fanno

riferimento alla Federazione, tre Cantine con 966 soci che producono circa

centomila ettolitri di prodotto all’anno

I soci sono così divisi:

Monserrato, N. 500 per 50 mila attolitri

Quartu 271 per 30 " "

Sestu 195 " 20 " "

Con il piano tecnico di ampliamento e di attrezzatura si vorrebbe

portare la capacità totale delle tre Cantine a 70.000 Ettolitri, e

precisamente:

Monserrato 30.000 Ettolitri

Quartu 30.000 "

Sestu 10.000 " .147

Alla crisi economica si univa l’inadeguatezza delle attrezzature non in grado di

lavorare tutta la produzione dei soci delle Cantine sociali e tantomeno la

produzione dei coltivatori dei comuni vicini.

Anche il Sottosegretario di Stato per le Comunicazioni, Cao di San Marco,

esprime al Prefetto di Cagliari la sua preoccupazione circa la situazione delle

cantine. <<Occorre trovare il modo di far superare alle Cantine Sociali la crisi

presente, ciò non tanto per salvare il principio cooperativo (la forma associativa

potrà essere mutata), quanto per conservare in vita un organismo associativo di

viticultori che vinificano il loro prodotto creandone un tipo ed essi stessi lo

commerciano eliminando così una serie di intermediari e riducendo il costo di

produzione nonché aumentando il reddito dei produttori con beneficio anche del

146 Ivi, Relazione tecnica della Federazione delle Cantine sociali di Cagliari, Monserrato, 26 giugno 1930.

147 Ivi, Prefetto di Cagliari al Governo, Cagliari 9 luglio 1930.

106

consumatore>>.148 Inoltre propugna un’urgente sistemazione finanziaria, grazie

anche all'opera dell'ottimo Avocato Solinas e dei Membri del Consiglio

d'Amministrazione dell'Istituto Regionale di Credito Agrario.

Nell’ ottobre dello stesso 1930 il Prefetto scrive al Ministero delle Corporazioni, e

per conoscenza al Gabinetto del Ministero Interni, per informare che l'Istituto

Regionale di Credito Agrario, principale sovventore delle Cantine Sociali, ha

subito stabilito di elevare da lire 500.000 a 700.000 la somma da considerarsi data

a prestito di miglioramento, anziché di esercizio, ed allo stesso tempo ha

deliberato un ulteriore contributo di 700.000 lire da ripartire per 400.000 lire a

favore della cantina di Monserrato e per 300.000 lire per quella di Quartu. Tale

intervento è subordinato agli accordi da stabilirsi con la Banca Nazionale del

Lavoro riguardo alla rateizzazione del suo credito verso le Cantine Sociali, ma

non vi è dubbio che anche tale Banca dia l'invocato appoggio.149

Nel Febbraio I932 il Podestà di Quartu, Alfonso Curreli, scrive al Prefetto della

Provincia di Cagliari, un <<Promemoria sulle situazioni della Cantina Sociale di

Quartu Sant'Elena>> 150 rispondendo all’invito fattogli dal Prefetto.

Tre giorni dopo il Prefetto invia al Ministero dell’Agricoltura e Foreste il

<<rapporto riservato col quale il Podestà di Quartu mi riferisce circa la disastrosa

condizione in cui trovasi anche la Cantina Sociale di Quartu.>>151

Circa un anno e mezzo dopo il Ministro delle Corporazioni scrive al Prefetto di

Cagliari sulle Cantine Sociali, rispondendo così :

148 Ivi, Cao di San Marco, Sottosegretario di Stato per le comunicazioni al Prefetto di Cagliari, 22 settembre 1930.

149 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero delle Corporazioni, Cagliari, 11 ottobre 1930.

150 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n.425, il Podestà di Quartu Sant’Elena al Prefetto di Cagliari, 23 febbraio 1932.

151 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero dell’Agricoltura e foreste, Cagliari, 26 febbraio 1932.

107

dai rapporti sulle ispezioni si rileva che quella di Sestu è fallita

recentemente e quelle di Quartu e Monserrato versano in difficili

condizioni patrimoniali che rendono necessario un intervento

straordinario di ordine finanziario, se se ne vuole impedire il sicuro

dissesto.152

Si prospetta di nominare un commissario governativo per la cantina di Monserrato

e alla Federazione delle cantine Sociali, anche essa con sede in Monserrato, per un

possibile riordino degli enti. Tale provvedimento non viene invocato per quella di

Quartu perché la presenza degli attuali amministratori, legati da responsabilità

personale derivante da avalli e fideiussioni prestati, è garanzia sufficiente perché

gli stessi si preoccupino degli interessi dell' azienda.

La situazione negli anni successivi non migliorò come dimostra una lettera di

protesta del 30 Luglio 1935, inviata dall’Unione Provinciale di Cagliari della

Confederazione Fascista degli Agricoltori al Prefetto di Cagliari:

La Cantina Sociale di Quartu S. Elena, in data 10 Febbraio 1934,

inoltrava all'On. Ministero dell'Agricoltura e Foreste, domanda per

ottenere il contributo "Agricoltori Benemeriti" di cui al R.D. 22/7/932

n.1069.-

Tale domanda veniva respinta, mentre analoga richiesta inoltrata

dalla Cantina Sociale di Monserrato soltanto pochi giorni prima

veniva accordata, concedendosi alla predetta un contributo di L.

16.000 annue per 25 anni.

La mancata concessione di tale contributo alla Cantina Sociale di

Quartu S. Elena ha destato a nostro avviso, le giuste e in certo qual

senso legittime apprensioni degli Amministratori di quell'Ente, che

vedevano in tale concessione la possibilità di una definitiva

sistemazione delle non floride condizioni finanziarie. Si è perciò che

nell'interesse dell'economia locale ci permettiamo rivolgerci all'E.V.

perché voglia interporre i suoi autorevoli uffici presso il Ministero

dell'Agricoltura per la concessione del contributo richiesto.

Ci corre l'obbligo di far presente all'E.V. che non vediamo le

ragioni per le quali si è voluto stabilire una disparità di trattamento fra

le due cantine che, sorte insieme, sono state veramente utili

all'economia delle zone interessate particolarmente in occasione della

152 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 376, Ministro delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 23 giugno 1932.

108

ultima crisi vinicola.153

Ancora a fine decennio, la Segreteria Provinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale

Fascista della Cooperazione si rivolge al Prefetto per chiedere aiuto:

Mi permetto di inviare a

Vostra Eccellenza la copia di una lettera da me inviata alla Presidenza

dell'Istituto di Credito Agrario per la Sardegna, nella quale è messa in

coincidenza la piena responsabilità dell'Istituto stesso per le difficoltà

gravissime in cui versano i viticoltori di Quartu S.Elena.

È ormai assodato che una

notevole parte (quasi un quinto) del prodotto si è infracidita.

. Un'ulteriore ritardo

nel finanziamento della Cantina Sociale Cooperativa, o dell'eventuale

Enopolio che potrebbe essere istituito di fortuna ove l'Istituto

insistesse a non voler finanziare la Cantina, danneggerà ancor più la

produzione vinicola.

. Non vogliamo

definire l'atteggiamento dell'Istituto che è in stridente contrasto con le

direttive di marcia dell'agricoltura italiana.

Mi permetto invece

di chiedere l'autorevole intervento dell'Eccellenza Vostra affinché la

Presidenza dell'Istituto di Credito Agrario sia richiamata a provvedere

immediatamente in modo che gli interessi degli agricoltori di Quartu

non subiscano ulteriori danni. 154

153 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 425, L’Unione Provinciale di Cagliari della Confederazione Fascista degli Agricoltori al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 30 luglio 1935.

154 Ivi, Segreteria Provinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 5 ottobre 1939.

109

3.2.2 I tecnici: Grignano, Cettolini, Arnaldi

Il medesimo difficile quadro socio-economico emerge anche in occasione

dell'assemblea generale dei soci del Sindacato Nazionale Produttori Vini di

Monserrato tenutasi il 1° settembre 1932 e della missiva, che i soci indirizzano

direttamente a Mussolini, per denunciare la pesante situazione economica e le

aggravate condizioni in cui si trova a operare lo stesso Sindacato. I soci

sostengono di non voler porre fine all’ente che loro stessi hanno fondato e che

ritengono <<necessarissimo>> per proteggere i loro interessi e per l'economia

viticola della zona, ma sentono <<imperioso il dovere - specie in questo momento

in cui tutti gli sforzi del Regime e di tutti gli onesti cittadini sono tesi verso la

risoluzione dei problemi economici che travagliano la Nazione - di richiamare

l'attenzione delle massime Gerarchie del Regime sulla nostra situazione

economica che investe gli interessi di tutta una regione prevalentemente viticola

come quella del Campidano di Cagliari>>155.

Nella lettera si traccia la storia del Sindacato Nazionale Produttori Vini, fondato

nel 1923 a Monserrato, per sfuggire alla speculazione dei negozianti locali che

praticavano il ribasso dei prezzi anche quando non si registrava una contrazione

nel commercio del vino. Il Sindacato aveva come obiettivi la lavorazione in

comune delle uve per la creazione dei vini tipici e la tutela del commercio del vino

contro ogni tipo di frode. Ben presto la sua azione ha successo e la sua utilità

viene riconosciuta dai viticultori e dalle autorità locali, tanto che la Federazione

Provinciale Fascista nel I926 si fa sostenitrice della necessità di riunire tutti i

viticultori del Campidano di Cagliari nel fiorente Sindacato. Presto nascono e

vengono incorporate nell’ente di Monserrato le cantine sociali di Quartu S.Elena e

di Sestu. Per motivi di coordinamento le tre cantine vengono riunite alle

155 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n.326, Sindacato Nazionale Produttori Vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932

110

dipendenze della "Federazione Cantine Sociali", il cui consiglio di

amministrazione è composto dal presidente e da un consigliere d'amministrazione

di ciascuna cantina sociale e l'assemblea dall'intero consiglio d'amministrazione

delle tre cantine federate. Nel I926 viene assunto come Direttore tecnico Giuseppe

Grignano, la cui attività nella Federazione diventa per i soci del Sindacato di

Monserrato la causa principale delle condizioni disastrose registrate

successivamente.

Compito della Federazione è dare un indirizzo commerciale comune alle tre

Cantine federate, controllare l'andamento generale delle singole amministrazioni,

trattare gli affari con gli istituti sovventori e con i clienti; alle amministrazioni di

ciascuna cantina restano tutte le altre attribuzioni conferite loro dallo Statuto

Sociale. La Federazione delle cantine sociali diventa in poco tempo un potente

organismo economico con circa mille soci, e con una produzione per un valore

complessivo intorno ai dieci milioni. Il futuro appare radioso: quello che era il

sogno dei promotori si appresta a diventare rapidamente realtà: l'unione di tutti i

viticultori attraverso le Cantine Sociali.

Nei primi mesi del I929 cominciano però a farsi sentire i primi sintomi

dell'imminente crisi vinicola, e come se ciò non fosse sufficiente a rendere grave il

compito dei dirigenti, sorsero alcune ostilità, quando maggiormente era necessario

sostenere il giovane organismo con tutte le forze. Il dissidio fra i tre presidenti

culmina con le dimissioni dell'allora presidente della Federazione contro il quale

si concentrano le critiche degli altri due favorevoli all'autonomia delle Cantine di

Quartu e di Sestu e alla conseguente ripartizione del patrimonio fino ad allora

amministrato dalla Cantina di Monserrato, la più “antica” e l'unica attrezzata. Da

allora le cantine sociali, in gran parte per l'acuirsi della crisi, in parte per

l'ingerenza di persone estranee all'organizzazione, combattevano contro mille

difficoltà d'ordine finanziario, tecnico e commerciale senza che le autorità tutorie

fossero intervenute per evitare il peggio.

Nel maggio I929 in seguito alle dimissioni del presidente della Federazione delle

Cantine Sociali. - sollecitate dal rappresentante dell'Ente Regionale della

111

Cooperazione - viene nominato commissario prefettizio della Federazione Cantine

Sociali e del Sindacato di Monserrato il suocero del Direttore Tecnico, il

professore Sante Cettolini, dopo lo scioglimento della Federazione da parte del

prefetto156.

Il Prefetto giustifica tale decisione in questo modo:

Vedute le dimissioni presentate dal Consiglio d'Amministrazione delle

Cantine Sociali di Monserrato;

Ritenuto che tale determinazione crea in quella organizzazione un

grave disagio, tenuto conto della crisi in cui in questo momento è

travagliata l'industria vinicola e degli impegni finanziari, prossimi a

scadere, assunti dalla Federazione;

Ritenuta le necessità di assicurare la vita a amministrativa di quella

organizzazione;

Ritenuto che lungi dal costituire il nuovo Consiglio di

amministrazione per la nomina del nuovo Presidente è il caso dello

scioglimento del Consiglio allo scopo di fare esaminare da persona

indipendente e al di sopra delle competizioni locali e dei dissidi tra gli

organi federati tutta la gestione amministrativa ed economica della

Federazione e la opportunità di modificare lo Statuto al fine di

troncare per l'avvenire ogni possibile causa di divergenza tra gli enti

federati.157

La nomina di Cettolini viene vista dai soci dell’ente di Monserrato come un atto

<<apertamente immorale>> giacché si mette il Direttore, Giuseppe Grignano,

<<alle dirette dipendenze del suocero>>158. La nomina provoca nei soci lo sdegno

e la sfiducia completa nell’ente, perché ai loro occhi diventa chiaro ciò di cui già

dubitavano e cioè la protezione anche da parte delle autorità tutorie del direttore

già colpevole, a loro avviso, di avere cercato di danneggiare l'istituto con pretese a

156 Ibidem.

157 Ivi, Decreto del Prefetto di Cagliari, Cagliari, 31 maggio 1929.

158 Ivi, Sindacato Nazionale Produttori Vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932

112

suo favore, tanto che il consiglio di amministrazione, prima ancora di essere

sciolto d'autorità, aveva deciso la disdetta del suo contratto di impiego. I soci nella

lettera sostengono che la sostituzione del regolare consiglio di amministrazione

con il Commissario Cettolini ha prodotto in sei mesi il peggioramento degli affari

delle cantine sociali. A loro avviso Cettolini non si è preoccupato in alcun modo

di dare uno sviluppo commerciale alla Federazione delle Cantine Sociali come

dimostrerebbe la diminuzione delle vendite. Il rappresentante delle cantine sociali,

che aveva la vendita esclusiva nella Piazza di Cagliari dei prodotti della

Federazione delle Cantine sociali, non poteva vendere più di mille litri al giorno, a

causa della pessima organizzazione commerciale e sopratutto perché i prodotti

inviati al suo deposito non erano esenti da difetti. Secondo i soci Cettolini non

curava in alcun modo gli interessi delle cantine sociali perché quando egli era

stato nominato commissario il debito del rappresentante verso la Federazione

delle Cantine era appena di quarantamila lire mentre, mentre, per inadempienze,

sarebbe presto aumentato a centosessantamila lire. Né meno gravi erano i maneggi

messi in atto da Cettolini per far restare il genero Grignano come Direttore

Tecnico della Cantina. Benché fosse già stato disdetto il suo contratto Grignano

fu riconfermato e dopo poco tempo Cettolini accoglie la domanda del genero

tendente ad ottenere un aumento di stipendio (da 1500 lire a 2000 mensili) e una

provvigione di due lire per ogni ettolitro di vino venduto. La domanda è inoltrata

al professor Arcidiacono, delegato Regionale dell'Ente Nazionale della

Cooperazione, il quale anziché preoccuparsi della grave situazione finanziaria

delle cantine sociali, appoggia la richiesta del Direttore Tecnico - sollecitato

naturalmente dal Commissario Cettolini - presso il Segretario Federale. Se non si

concede il richiesto aumento il Direttore lascerà il posto per andare a dirigere lo

stabilimento vinicolo d’ una società privata "La Vinacool" con il lauto stipendio di

cinquantamila lire annue, e con grave danno per le cantine sociali. Della questione

viene coinvolto il Segretario Federale Dottor Usai il quale ritenne opportuno

convocare nella sede del Fascio, il podestà, l'onorevole Tredici, i segretari politici

di Monserrato e Quartu S.Elena e il presidente della Cantina di Quartu S.Elena per

113

decidere sul da farsi. Quest'ultimo si oppone fermamente a qualsiasi forma di

aumento di stipendio, considerata la grave situazione economica delle cantine. La

decisione sembrava quindi evitata, ma pochi mesi dopo la prefettura di Cagliari,

con decreto del settembre I929, nomina un altro commissario prefettizio nella

persona del Commendatore Orrù, il quale come suo primo ed unico atto concede

l'aumento al Direttore Grignano159.

La questione coinvolse le più alte cariche del PFN, mentre la crisi vinicola si

acuiva ulteriormente, il crollo dei prezzi del vino provocava una perdita notevole

al bilancio economico delle cantine, aggravato anche dalle pretese economiche del

commissariato Cettolini che si autoelargisce per sei mesi di attività ben dodici

mila lire. Dopo di lui viene nominato commissario, un socio dell’ente, Francesco

Sarigu di Monserrato, il quale dopo un mese convoca l'assemblea generale dei

soci per la nomina dell'amministrazione regolare. Sarigu diviene così presidente

del Sindacato Produttori Vini di Monserrato e della Federazione Cantine Sociali.

L'amministrazione Sarigu cerca subito di porre rimedio alla grave situazione

finanziaria ereditata, ma deve lottare contro le imposizioni degli istituti sovventori

e il delegato regionale dell'Ente Nazionale della Cooperazione. Infatti l'Istituto di

Credito Agrario, al quale sono vincolati i beni e i prodotti del Sindacato Nazionale

Produttori Vini di Monserrato a garanzia delle sovvenzioni ricevute, nomina come

suo fiduciario Grignano, creando in questo modo una posizione di superiorità del

Direttore rispetto agli amministratori e allo stesso presidente della Federazione160.

Durante l'amministrazione Sarigu, la Federazione delle Cantine Sociali si

sostituisce, per desiderio dell'Istituto di Credito Agrario e del delegato regionale

dell'Ente Nazionale della Cooperazione, ai consigli di amministrazione delle

cantine sociali ormai ridotte a due per l'avvenuto fallimento della Cantina di

Sestu. Senza una deliberazione delle assemblee dei soci delle cantine federate, fa

159 Ibidem.

160 Ibidem.

114

approvare dal consiglio della Federazione il suo Statuto; controlla il patrimonio

delle singole cantine; trasferisce la sede da Monserrato a Cagliari; impone nuovi

oneri alle cantine ed esautora completamente i consigli di amministrazione delle

cantine, ma allo stesso tempo li ritiene responsabili dei debiti contratti dalla

Federazione, obbligandoli alla firma delle cambiali e alla garanzia in proprio, con

iscrizione ipotecaria sui propri beni a favore dell'Istituto sovventore, come se non

bastasse la responsabilità in solido dei soci stabilita dallo Statuto Sociale.

Naturalmente questa forma di garanzia provoca nei soci grande preoccupazione,

ragione per cui nessuno vuole più accettare la carica di amministratore, cosicché

nell'ultima assemblea vengono confermarti gli stessi amministratori i quali, ormai

legati con l'iscrizione ipotecaria dei propri beni alle sorti delle cantine, non

possono rifiutare la nomina. In questa situazione, sempre secondo i soci del

Sindacato di Monserrato, senza che nessuno si accorga dell'andamento rovinoso

delle cantine sociali, vengono commesse le più gravi illegalità a danno degli

amministratori e dei soci161.

Nei giorni in cui la Federazione diviene l'organo amministrativo assoluto delle

cantine, viene concessa al presidente della Federazione una remunerazione di

ottocento lire mensili, ridotta in seguito a cinquecento lire, senza che l'assemblea

deliberi nulla in merito essendo la carica di presidente gratuita per Statuto. Nel

novembre I929, quando il Governo Fascista stabilisce la riduzione dei salari e

degli stipendi a tutto il personale dipendente dall'amministrazione statale,

(deliberato che viene generalizzato ed applicato in tutte le aziende private), anche

al personale delle cantine sociali viene ridotto il salario e al Direttore lo stipendio

del 12%. Ma nell'agosto I93I, Grignano pretende nuovamente un aumento e la

concessione di una provvigione sulla lavorazione dei prodotti destinati alla

vendita. L'amministrazione della Federazione è costretta ad accettare questa

nuova richiesta e a concedere una provvigione di cinquanta centesimi per ogni

161 Ibidem.

115

quintale di uva lavorata nello stabilimento e per ogni ettolitro di vino acquistato

dai soci e rivenduto, per disposizione dell'Istituto di Credito Agrario di Cagliari

che teme l’uscita di scena di Grignano a vantaggio di un nuovo stabilimento

vinicolo nato con i capitali del professore Cettolini162.

Il Direttore tecnico riesce in questo modo a farsi aumentare gli emolumenti fino a

raggiungere la somma di circa cinquantamila lire annue. Ancora i soci dell’Ente

vinicolo di Monserrato affermano che le pretese di Grignano si sono manifestate

fin dal primo anno di assunzione quando il consiglio di amministrazione di allora

stabilì di assegnarli a titolo di gratifica la somma di lire tremila. Grignano,

insoddisfatto, pretese che gli fossero pagate le ore di straordinario che il Consiglio

di Amministrazione liquida con duemila lire, benché egli come dirigente non

avesse diritto al compenso delle ore di straordinario. Il Consiglio di

Amministrazione si dimostra impotente a fronteggiare questa situazione. I Soci

del Sindacato nella missiva si chiedono: <<Come deve essere giudicato

l'enotecnico Sig. Grignano, se servendosi della sua amicizia con il delegato

regionale dell'Ente Nazionale della Cooperazione e dell'ingerenza del suocero

Prof. Cettolini viene a sottomettere al suo volere il Consiglio di

Amministrazione?>>163 A loro avviso Grignano ha dimostrato con il suo operato

una mancanza assoluta di gratitudine verso l'Ente che lo aveva tratto da una

condizione economica disagiata – era infatti disoccupato in Sicilia - e sopratutto

l’insensibilità per un trattamento economico così lauto in un periodo di attività

limitatissima per le Cantine Sociali. I soci del sindacato, quindi, criticano

aspramente Grignano e il carattere ingiustificato del trattamento economico a lui

riservati, in virtù anche delle sue scarse competenze, del suo poco impegno e

dell’assenteismo di cui si macchia.

162 Ibidem.

163 Ibidem.

116

Gli errori commessi anche in campo tecnico e commerciale hanno danneggiato

enormemente l'ente. La Federazione delle Cantine Sociali pensò di istituire a

Cagliari un deposito con diverse rivendite in città e con servizio a domicilio. Ne

affidò la rappresentanza al Signor Gigi Picciau. In quattro anni a Cagliari il

deposito della Federazione non riuscì a vendere più di millecinquecento litri al

giorno per la negligenza del direttore che non si è mai preoccupato del vino

mandato a Cagliari per la vendita. Dai registri contabili del Picciau, regolarmente

vistati dalla Federazione delle Cantine Sociali risulta come più volte delle partite

di vino furono dichiarate dall'Ufficio Igiene di Cagliari invendibili perché

guaste.164

L’invettiva dei soci si allargò anche al piano personale riportando un fatto che

mostra l'imperizia del direttore, la questione delle vinacce lavorate in ritardo.165 I

soci riportano diversi esempi di quanto fosse stata deleteria per le Cantine Sociali

la permanenza del direttore tecnico che non aveva mai tutelato gli interessi della

società e anzi gli aveva danneggiati con la sua incompetenza anche in campo

commerciale. Grignano, qualche tempo prima aveva avuto un diverbio per ragioni

personali nella sede del Sindacato di Monserrato con un socio, il Signor Cesare

Contu. Grignano, pur sapendo di trovarsi in presenza di altri numerosi soci del

Sindacato, pronunciò parole irriverenti contro tutti offendendo i soci ai quali egli

disse: "che da quando egli è venuto al S.N.P.V. di Monserrato avrebbe tolto i

pidocchi d'addosso a tutti i soci"166.

Altro fatto riportato dai soci fu l’opposizione di Grignano alla nomina, a turno, di

un consigliere di servizio addetto alla graduazione del vino destinato al deposito

di Cagliari, che risultava più bassa di quella minima del vino dello stabilimento di

164 Ibidem.

165 Ibidem.

166 Ibidem.

117

Monserrato. Evidentemente il controllo della graduazione del vino in partenza

dallo stabilimento poteva servire a scoprire degli abusi che si commettevano.167

Considerati questi fatti e altri qui non riportati, l'Assemblea Generale dei Soci,

tenutasi il 28 marzo nei locali della Cantina Sociale di Monserrato sotto la

presidenza del Signor Sarigu, alla presenza dei Sindaci Professor Todde e Dottor

Olla aveva deliberato in base allo Statuto di disdire il contratto con Grignano che

sarebbe scaduto il 31 luglio e di bandire il concorso per il posto di direttore

tecnico.168 Ma il direttore tecnico, corse ai ripari e 0subito dopo la deliberazione

dell'assemblea giunse da Roma alla fine di aprile un ispettore, il Professore

Commendatore Arnaldi. Questi fece sospendere l’esecuzione della deliberazione

dell'assemblea e la disdetta per la decadenza del contratto con il direttore, che il

Presidente della Federazione avrebbe dovuto dargli e chiamate le due parti

contraenti fece rinnovare il contratto d'impiego provvisoriamente per un mese

prima, per due mesi dopo in attesa di provvedimenti.169

La nomina di Arnaldi può essere vista come l’espressione del controllo esercitato

da Roma verso le cantine del Regno. D’altra parte, nella lettera che il Ministro

delle Corporazioni invia al Prefetto di Cagliari con data 23 giugno 1932 si

riferisce la situazione delle Cantine sociali della zona di Cagliari: dai rapporti

sulle ispezioni si rileva che quella di Sestu è fallita recentemente e quelle di

Quartu e Monserrato versano in difficili condizioni patrimoniali che rendono

necessario un intervento straordinario di ordine finanziario, se se ne vuole

impedire il sicuro dissesto.

Da questo punto di vista la nomina di Arnaldi è vista come la soluzione per

salvare la Federazione e la Cantina di Monserrato. Tale provvedimento non viene

invocato per la cantina di Quartu perché la presenza degli attuali amministratori,

167 Ibidem

168 Ibidem.

169 Ibidem.

118

legati da responsabilità personale derivante da avalli e fideiussioni prestati, è

considerata garanzia sufficiente affinché gli stessi amministratori si preoccupino

degli interessi dell' azienda.170

L'azione dell'ispettore sfiduciò completamente i soci dell’Ente e ancor più quando

improvvisamente il primo agosto appresero che lo stesso Professor Arnaldi era

stato nominato commissario dal Sindacato Produttori Vini di Monserrato e della

Federazione, mentre era rimasta in carica l'amministrazione della Cantina Sociale

di Quartu S.Elena. Lo scioglimento del Consiglio della Federazione sarebbe stato

ammissibile qualora fosse stato sciolto anche il Consiglio della Cantina di Quartu

S. Elena, che come quello di Monserrato era stato esautorato dalla Federazione;

un provvedimento così completo sarebbe stato bene accetto dai soci perché

giustificato da ragioni di indole amministrativa. Lo scioglimento del Consiglio del

Sindacato di Monserrato fece però supporre ai Soci che si volesse colpire

esclusivamente quel sindacato perché aveva votato l'allontanamento del direttore.

Questa supposizione divenne nostra ferma convinzione quando

quarantaquattro giorni dopo il commissario Prof. Arnaldi ci ha fatto

sapere di aver riconfermato il direttore per un altro anno.

Non vogliamo giudicare l'operato del commissario governativo, ma

noi soci, che siamo in fin dei conti coloro i quali dovranno ereditare la

situazione che ci lascerà in questi quattro o cinque mesi il

commissario, abbiamo ragione di ritenere che il provvedimento di

riconferma del direttore per un anno sia stato quanto mai inopportuno

perché tutto al più poteva riconfermarlo, sebbene con uno stipendio

ridotto per il periodo di sua permanenza, specialmente alla vigilia

della vendemmia, lasciando alla futura amministrazione regolare la

risoluzione definitiva della questione. Un provvedimento simile

sarebbe stato accolto non diciamo con entusiasmo dalla massa dei soci

ma con piena fiducia.171

170 Ivi, Ministro delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 23 giugno 1932.

171 Ivi, Sindacato Nazionale Produttori vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932.

119

I soci si chiedono: << Il Comm. Prof. Arnaldi avrà la competenza commerciale

amministrativa e tecnica da poter assestare e instradare le Cantine Sociali verso

un'organizzazione commerciale che possa di giorno in giorno progredire?>>172

I soci spingevano per il miglioramento dell’organizzazione commerciale

soprattutto per la vendita a Cagliari. Se nella città di Cagliari si bevono in un

giorno 30.000 litri di vino si deve ritenere che quello dev’essere il maggior centro

di smercio della Cantina di Monserrato, dove in quel momento riescono a

collocare solamente mille litri, mentre non è esagerato dire che sulla piazza di

Cagliari le Cantine Sociali dovrebbero giornalmente vendere non meno di 10.000

litri di vino.173

Si auspicava inoltre che gli enti di credito e in particolare l'Istituto di Credito

Agrario e la Banca del Lavoro avessero fiducia nell'Ente rappresentante gli

interessi di mille famiglie. In poche righe venivano sintetizzati vent’anni di attività

vitivinicola dei contadini sardi che avevano dovuto combattere per poter

conservare la loro fonte di sostentamento, dopo aver combattuto con le armi per la

propria “Patria” in guerra:

Alle Autorità costituite spetta il dovere di risolvere il problema delle

Cantine Sociali per venire incontro ai bisogni di una regione che da

oltre venti anni lotta tenacemente per l'esistenza. I viticultori del

Campidano di Cagliari sono veramente degni di essere annoverati fra i

migliori lavoratori della terra quando si pensi che essi ebbero in pochi

anni, e prima della guerra, distrutti dalla fillossera i vigneti.

Adempiuto in guerra al dovere verso la Patria, nel modo come hanno

saputo fare i Sardi, questi viticultori temprati a tutti i sacrifici, si sono

dedicati dopo la guerra alla ricostruzione dei vigneti su ceppo

americano impegnando tutti i loro risparmi, a costo di enormi sacrifici

dando lavoro a migliaia di contadini.

172 Ibidem.

173 Ibidem.

120

Non era ancora finita la lotta per la ricostruzione dei vitigni ecco che

comincia ad abbattersi in questa classe benemerita la crisi vinicola che

fin dal I928 perdura sempre più acuta mettendo a dura prova questi

tenaci lavoratori che non cedono convinti, come sono, che sotto il

Fascio littorio risorgeranno ancora le loro speranze. 174

174 Ibidem.

121

3.2.3 I contrasti tra le cantine e la Federazione Commercianti

Nei documenti consultati risalta spesso l’influenza delle corporazioni economiche

locali sulla vita della Federazione e delle singole cantine.

Nel febbraio 1930 la Federazione provinciale Fascista dei commercianti di

Cagliari scrisse al prefetto, per smentire l’affermazione <<fatta dai dirigenti della

Federazione Cantine Sociali i quali assicuravano essere i prezzi delle uve troppo

bassi in relazione a quelli praticati nelle altre piazze d'Italia.>>175

Nel fascicolo “Cantine Sociali 1933-1946” sono presenti anche missive che il

Questore spedisce al Prefetto. Un esempio è dato dallo scritto della fine del 1930

che il Questore Laudadio invia al Prefetto in cui afferma che non è vero che a

Cagliari esista un monopolio nelle vendite delle licenze per il vino. Per il Questore

Piludu, le cantine non sanno adattarsi a vedere ridotte le proprie entrate per effetto

del diminuito valore del prodotto. <<Le cantine non sono chiamate a fare atti di

commercio perché le porterà ad essere al più presto distrutte, cosa che da buon

cittadino e fascista degenero.>>.176

La stessa federazione dei Commercianti riscrisse al Prefetto difendendo l’attività

dei rivenditori di vino a Cagliari:

Volendo accertare quanto ci fosse di vero nell'accusa mossa al

grosso commercio enologico d'aver monopolizzato la vendita di vino

al minuto in questa Città, ho esaminato l'elenco delle licenze di P.S.

per vendita di vino, elenco tratto dalla R.Questura a fine gennaio dello

scorso anno.

A tale epoca =e le eventuali successive variazioni non possono

essere considerevoli= le licenze per vendita di vino rilasciate per la

Città di Cagliari (escluse le frazioni) erano 241, delle quali 203 (oltre

l'84%) sono intestate ad altrettanti rivenditori che non esercitano il

commercio all'ingrosso e le rimanenti 38 (meno del 16%) alle seguenti

175 Ivi, Federazione Provinciale Fascista dei commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 5 febbraio 1930..

176 Ivi, Questore di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 31 dicembre 1930.

122

Ditte esercenti anche il commercio all'ingrosso e nella proporzione

rispettivamente indicata:

Ditta D'Atri Silverio licenze n. 8

" D'Atri Antonio " " 3

" Ebau Efisio " " 4

" Marci Tigellio " " 2

" Orrù Antonio " " 3

" Podda Efisio " " 2

" Podda Luigi " " 5

" Ruggeri Giorgio " " 9

" Trudu Cesello " " 2

Totale n. 38

Questa essendo la realtà, che alla E.V. è agevole controllare, è

evidente che non esiste alcun monopolio delle rivendite di vino.177

Un ennesimo esempio è costituito dalla lettera del 14 febbraio 1931 del questore

Laudadio al Prefetto di Cagliari sullo sfruttamento dello stato di disagio in cui si

trovano da qualche anno i viticultori del Campidano di Cagliari, da parte dei

dirigenti la Federazione delle Cantine Sociali e delle Cantine Sociali di Quartu e

Sestu, che da tempo hanno sferrato una offensiva a base di calunniose

affermazioni contro i commercianti in vini e grossisti, la cui azione nella

economia nazionale si è voluta presentare come sfruttamento. Il questore afferma

che già nel suo rapporto del 31 dicembre 1930 aveva prospettato la affermata

inettitudine e la incomprensione dei dirigenti la Federazione in atti di commercio.

Il rapporto presenta le condizioni delle cantine di Quartu e Sestu. Secondo il

questore gli scopi delle cantine non sono stati raggiunti, ma esse hanno permesso

177 Ivi, Federazione Provinciale Fascista dei Commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 6 febbraio 1930.

123

a poche famiglie di affermarsi: tre a Monserrato, una a Quartu e una a Sestu.

Esempi di azioni di odio verso i commercianti ed i grossisti. Conclude che è

necessario intervenire in tempo per realizzare gli scopi per cui furono create.178

178 Ivi, Questore di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 14 febbraio 1931.

124

3.2.4 Il nuovo statuto della Cantina di Monserrato

Nel marzo 1933 si tenne l’assemblea ordinaria e straordinaria allo scopo di

adeguare lo statuto dell’ente alle nuove disposizioni fasciste.179

Il Commissario Governativo Arnaldi afferma che lo Statuto del 1924 era stato

ideato per regolare una situazione diversa da quella del 1933, <<quando il vostro

era veramente un Sindacato per la vendita del vino prodotto da ciascun socio nella

sua Cantina, non esistendo ancora uno stabilimento sociale.>>180

Poiché nel frattempo è stato eretto lo stabilimento sociale, Arnaldi sostiene che

anche se una disposizione di legge non vietasse l’uso del termine Sindacato, ,

questa definizione <<non conviene più alla vostra Società che attraverso ad una

serie più o meno felice di vicende è diventata cantina cooperativa, mentre nello

Statuto sono appena accennate o non completamente regolate quelle che devono

essere le norme fondamentali della attività di una Cantina Cooperativa. >>181

Nel nuovo primo articolo dello Statuto è stabilito che quella che era la Società

Anonima Cooperativa “Sindacato Nazionale Produttori Vini Monserrato” assume

il nome di “ Società Anonima Cooperativa Cantina Sociale di Monserrato”.182

Il nuovo articolo 6 recita che il Consiglio di Amministrazione per l'incremento

della Società e per concedere gli anticipi di cui parla l'articolo 14 bis può contrarre

mutui e prestiti cambiari e concedere ipoteche e privilegi all'Istituto mutuante:

Inoltre può delegare la vendita dei prodotti della Cantina ad Enti, organi o persone

179 Ivi, Convocazione dell’Assemblea ordinaria e straordinaria della Cantina di Monserrato del 26 marzo 1933 promossa dal Commissario Governativo Arnaldi, Monserrato, 2 marzo 1933.

180 Ibidem.

181 Ibidem.

182 Ibidem.

125

che siano autorizzati <<a versare il netto ricavo della vendita all’Istituto

mutuante>>.183

Il nuovo articolo 8 dice che le domande di iscrizione alla Società devono essere

presentate in forma scritta al Consiglio di Amministrazione specificando il

numero di azioni che si vuole sottoscrivere e impegnandosi a sottostare agli

obblighi prescritti nello Statuto <<dai regolamenti e dalle deliberazioni

sociali>>.184 La domanda deve essere sottoscritta da due soci che garantiscono

l’onorabilità del richiedente. La stessa domanda deve essere fatta anche da coloro

che vogliono acquistare nuove azioni.

Il nuovo articolo 9 prescrive che il valore delle azioni può essere versato anche

con il conferimento di uva, vino e mosto, ed in cinque annualità dello stesso

importo non oltre l’ultimo giorno dell’anno, tranne la prima rata che deve essere

versata al momento dell’iscrizione. Inoltre il Consiglio può autorizzare il

pagamento in venti annualità di uguale valore per le azioni che vengono

sottoscritte oltre a quelle già possedute.

Importante è la soppressione dell’ articolo 9 ter del vecchio Statuto <<I soci

rispondono in solido e tra di loro in proporzione delle azioni sottoscritte, di tutte le

operazioni sociali legalmente assunte.>>185

L’articolo 10 stabilisce che possono diventare soci solo i produttori d’uva, non

importa se siano proprietari o fittavoli o coloni, purché s’impegnino a conferire

ogni anno agli stabilimenti della Società per ogni azione sottoscritta la quantità

d’uva che sarà decisa dal Consiglio di Amministrazione in modo da consentire il

pieno funzionamento degli stabilimenti della Società. Inoltre può essere consentito

di sostituire all’uva, mosto o vino da liquidare a prezzo d’uva, << ragguagliando

183 Ibidem.

184 Ibidem.

185 Ibidem.

126

ad un quintale d'uva 75 Kg. di mosto o 60 Kg. di vino>>.186 Non possono far

parte della Società le persone interdette, inabilitate, fallite e quelle che abbiano

compiuto atti contrari agli interessi della Società. Se queste persone entrano in

possesso di azioni della Società grazie a eredità o per via giudiziaria hanno diritto

solamente a partecipare agli utili sociali. Gli azionisti che in certo anno non

producono uva non hanno l’obbligo di conferire il prodotto, però devono farne

segnalazione, prima del tempo della vendemmia, al Consiglio di Amministrazione

che provvede a rilasciare una ricevuta scritta. Se non viene fatta la suddetta

segnalazione il socio viene considerato inadempiente e soggetto alle penalità

previste per coloro che ricadono in quello stato.

Il nuovo articolo 14 stabilisce che chi non porta uva e mosto alla Cantina sociale

nella misura stabilita dall’Amministrazione è tenuto a pagare una penalità il cui

valore, che non può essere inferiore alle 10 lire per azione posseduta, viene

stabilito ogni anno dal Consiglio di Amministrazione. Contro quest’ultima

decisione si può opporre ricorso al Comitato dei Probiviri.

Il nuovo articolo 14 bis contiene le regole per la liquidazione dei prodotti raccolti

per la lavorazione in comune: si elargiscono anticipi del valore di circa quattro

quinti del prezzo di piazza al termine della vendemmia o in seguito secondo

quanto stabilisce il Consiglio di Amministrazione in base alla quantità e grado dei

prodotti conferiti; l’apporto di mosto viene equiparato a quello di uva nella misura

di 75 chilogrammi di mosto o 60 di vino per un quintale di uva; la liquidazione

definitiva è fatta in sede di bilancio che deve consentire il pagamento delle spese

quali tasse e salari, l’interesse delle spese sociali, la quota di ammortamento dei

debiti a lunga scadenza, la diminuzione dei prestiti di miglioramento o per

passività registrati nei bilanci di esercizi precedenti, l'accantonamento di una

somma che assieme a quella spesa nell'esercizio per nuovi acquisti e riparazioni

raggiunga il 10 per cento del valore dei mobili, degli attrezzi e dei visi vinari, la

186 Ibidem.

127

corresponsione di non oltre il 5 per cento come dividendo delle azioni, quando la

liquidazione finale dei prodotti superi il valore dei mercuriali dell’anno e si

aumenta il fondo di riserva; quando il valore della liquidazione definitiva si rileva

inferiore al prezzo dell’anticipo già riscosso dal socio si provvede

immediatamente ad addebitare la differenza sul conto come debito liquido e

fruttifero.

L’articolo 14 ter serve per regolamentare in modo esaustivo la liquidazione dei

prodotti che la Società non acquista ma lavora per conto dei soci con lo scopo di

far realizzare ai soci il maggior utile possibile. L’articolo prescrive che sul vino

consegnato si elargisca un anticipo corrispondente a circa quatto quinti del prezzo

di piazza. La liquidazione finale è fatta in sede di bilancio secondo il prezzo

medio di vendita diminuito delle relative spese quali trasporto e lavorazione e di

un contributo, non superiore ai 50 centesimi a grado, per le spese sostenute dalla

Cantina.

Il nuovo articolo 15 stabilisce che un socio non può recedere dalla Società senza

l’autorizzazione del Consiglio di Amministrazione che emette solo in presenza di

giustificato motivo: l’ubicazione dei vigneti in una località molto distante dagli

stabilimenti della Società da rendere l’apporto dell’uva non conveniente dal punto

di vista economico. È possibile cedere le azioni possedute ad un altro socio o ad

un nuovo socio che abbia i requisiti, indicati nell’articolo 10, per diventarlo. Le

azioni dei soci rinunciatari vengono acquisite dalla Società per aumentare la

consistenza del fondo di riserva.

Il nuovo articolo 25 recita che la convocazione dell’Assemblea si deve fare con la

pubblicazione dell’ordine del giorno, indicando data, ora e luogo della

convocazione, per una sola volta su “L’Unione Sarda”, o, se il giornale dovesse

interrompere le pubblicazioni, su un altro quotidiano di Cagliari. Il Presidente

può, se lo reputa necessario usare altri mezzi. Per l’estensore del nuovo

regolamento in questo modo si riduce la spesa per fare la convocazione ritenuta

troppo onerosa.

128

Il nuovo articolo 26 stabilisce che l’Assemblea ordinaria nomini tre Sindaci

effettivi e due supplenti che possono essere soci o persone non facenti parte della

Società. L’articolo seguente specifica che i Sindaci restano in carica un anno e

svolgono tutte le funzioni stabilite per quel ruolo dal Codice di Commercio.

Il nuovo articolo 41 elenca i poteri del Consiglio di Amministrazione: accettare

nuovi soci, permettere l’ammissione o la rinuncia delle azioni e il passaggio delle

azioni secondo quanto è stabilito dall’articolo 15; assumere e licenziare impiegati

a tempo determinato e sottoporre all’assemblea la nomina e il licenziamento di

quelli a tempo indeterminato; aprire agenzie, depositi e rivendite al minuto;

stabilire la misura e il modo di elargire la liquidazione provvisoria dei prodotti

raccolti dai soci secondo quanto stabilito dall’articolo 2; stanziare le spese di

amministrazione; compilare i bilanci; stabilire la misura degli interessi attivi e

passivi; formare i regolamenti; aprire conti correnti e contrarre mutui con o senza

garanzia del patrimonio sociale; comprare con l’aiuto del direttore tecnico

macchine, strumenti, attrezzi, vasi vinari e attrezzature tecniche; transigere conti e

giudizi della Società; ordinare i bilanci e gli inventari da proporre all’assemblea;

presentare agli azionisti in occasione dell’Assemblea ordinaria una relazione sullo

stato della Società, il bilancio annuale, gli inventari e gli elementi necessari alla

liquidazione definitiva dei prodotti portati dai soci; presentare all’assemblea le

modificazioni allo Statuto ritenute utili per lo sviluppo della Società; svolgere tutti

gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che non siano riservati

all’assemblea o ad altro organo amministrativo; fare proposte di nuovi acquisti e

di nuovi impianti per un valore superiore alle otto mila lire; in caso d’urgenza

assumere i poteri dell’assemblea che viene informata dall’iniziativa assunta nella

prima convocazione utile. Inoltre l’articolo in questione stabilisce che il Consiglio

di amministrazione per la trattazione degli affari dell’Ente può delegare i suoi

poteri a uno o più dei suoi membri, a commissioni formate da soci, al Direttore o a

un procuratore speciale.

Il Commissario Arnaldi afferma che bisogna modificare gli articoli 43 e 46 che

indicano i compiti del direttore tecnico che erano adeguati quando l’Ente era un

129

Sindacato <<mentre in una Cantina Cooperativa il Direttore non può essere che

consigliere ed esecutore di ordini.>>187

Il nuovo articolo 43 indica gli attributi del direttore tecnico: egli deve svolgere gli

incarichi che gli vengono assegnati dal Direttore o dal Consiglio di

Amministrazione; organizzare il movimento interno della Cantina, il lavoro delle

macchine e dei filtri e di tutto ciò che serve per una buona lavorazione del

prodotto; esprimere il suo parere sul prezzo delle uve e dei mosti, classificare i

prodotti versati dai soci, determinare gli elementi per valutarli secondo i criteri

stabiliti dal Consiglio, concludere contrati per comprare vino, materiale enologico

e attrezzi per la Cantina secondo i limiti imposti dal Presidente.

Il nuovo articolo 46 recita che in caso di disaccordo tra un socio e il Direttore

tecnico nello stabilire il prezzo o la classificazione ritirato da esso per conto della

Società, decide un Collegio di Arbitri che viene costituito ogni vota che sia

necessario da tre membri che sono il Presidente del Consiglio di Amministrazione

o un suo delegato e due membri scelti dal socio in un elenco di esperti formato dal

Consiglio. Il Collegio decide senza spese, senza formalità e senza alcun vincolo di

procedura.188

187 Ibidem.

188 Ibidem.

130

3.2.5 Le cantine negli anni della guerra

Negli anni della seconda guerra mondiale soprattutto per merito del commissario

governativo Siro Riccadonna le condizioni dell’attività vinicola registrarono un

miglioramento, riguardo soprattutto la Cantina di Quartu.

In seguito a queste circostanze il ministero delle Corporazioni decide di attribuire

al Riccadonna un compenso mensile.

Il 27 dicembre 1941 la Direzione Generale del Commercio del Ministero delle

Corporazioni inviò pertanto al Prefetto di Cagliari (e per conoscenza all’Ente

Nazionale Fascista della Cooperazione) la seguente lettera di risposta:

Questo Ministero ha esaminato la relazione del Commissario

sull'andamento della gestione straordinaria della Cooperativa in

oggetto ed ha preso atto del lavoro proficuo da lui finora svolto per la

sistemazione dell'azienda.

Per quanto concerne la Vostra proposta, intesa a

corrispondere al Comm.Riccadonna un compenso di lire I.500

mensili, si fa presente che questo Ministero è venuto nella

determinazione di massima di fissare i compensi dovuti ai Commissari

soltanto al termine della loro gestione.

Tuttavia, in via assolutamente eccezionale, questo

Ministero può consentire la corresponsione di modesti anticipi,

sopratutto nei casi in cui i Commissari debbano fronteggiare spese di

viaggio e di soggiorno fuori sede.

Ciò premesso, Vi si prega, ove lo crediate opportuno, di

voler formulare concrete proposte nei riguardi del suddetto

Commissario.189

Il Commissario Governativo Siro Riccadonna nella Relazione che presentò

all’Assemblea straordinaria del 28 dicembre 1941 offriva un quadro ormai

rassicurante, superate, quindi, le maggiori difficoltà riscontrate negli anni

precedenti, e trovato vantaggio dalle difficoltà in cui si trovavano, invece, gli

stabilimenti della penisola:

189 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, fascicolo n’425, Direzione Generale del Commercio del Ministero delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 27 dicembre 1941.

131

Dopo i buoni risultati ottenuti nei primi cinque mesi di esercizio

(Marzo=Luglio I94I) e che sono stati resi noti all'Assemblea

Ordinaria dei Soci del 5 Ottobre scorso, la nostra 0opera non ha subito

soste anzi abbiamo intensificato il ritmo del nostro lavoro al fine di

procurare alla Cantina con ampio respiro lo sfruttamento massimo del

suo potenziale.

Rientrata in pieno la fiducia dei più importanti clienti del Continente e

sopratutto quella dell'Istituto di Credito per la Sardegna, l'acquisto e

confezione dei prodotti si sono sviluppati con larghezza di mezzi in

una atmosfera serena e lontana da ogni preoccupazione consetendoci

la lavorazione di Qli 4.640 di materia prima presso il nostro

Stabilimento e per conto nostro sul posto di produzione.

I vini bianchi sono tutti venduti e da consegnare in Continente, questi

da soli consentiranno la liquidazione di un utile cospicuo.

I vini rossi, dei quali il mercato sardo difetta fortemente, potrebbero

essere subito venduti ma, per misura di prudenza e per i bisogni dei

nostri clienti consumatori, sono stati risparmiati per intero poiché,

consentendoci la maggiorazione legale, daranno utili di molto

superiori alla vendita al prezzo di blocco.

La situazione della Cantina è oggi la seguente:

Dal 3I Luglio ad oggi si sono quindi realizzati utili lordi per L. 750

mila circa e con l'aggiunta dei profitti che darà il previsto importante

lavoro di giro I° Gennaio 3I Luglio I942 si raggiungerà con sicurezza

quella base solida ed indispensabile che dovrà servire come punto di

partenza per l'attività che dovrà svolgere la nuova amministrazione

che il sottoscritto, d'intesa con l'Ente Nazionale della Cooperazione,

proporrà di ricostruire.190

I buoni risultati ottenuti dal Riccadonna consentivano alla cantina di Quartu di

avvantaggiarsi della sua attività anche nel 1942.

Il 24 febbraio 1942 il Ministro Segretario di Stato per le Corporazioni scrive:

Visto il decreto commissariale in data 4 febbraio 194I-XIX con il

quale venne nominato Commissario della Soc.An.Cooop.Cantina

Sociale Cooperativa, con sede in Quartu S.Elena il sig. Siro

Riccadonna, in sostituzione del sig. Luigi Cao;

Vista la relazione rimessa dal Prefetto di Cagliari con lettera in

190 Ivi, Commissario Governativo Siro Riccadonna, Relazione all’Assemblea straordinaria della Cantina di Quartu Sant’Elena, 28 dicembre 1941.

132

data 13 febbraio 1942-XX;

Ritenuta la necessità di prorogare ulteriormente il periodo di

straordinaria gestione della predetta Società per dar modo al

Commissario di condurre a termine l'incarico affidatogli;

d e c r e t a :

I poteri conferiti al Sig. Comm. Siro Riccadonna, Commissario

della Soc. An. Coop Cantina Sociale Cooperativa, con sede in Quartu

S.Elena, sono prorogati dal 16 febbraio 1942-XX al 15 maggio 1942.191

È quindi di grande interesse ricavare dalle note dello stesso Riccadonna il quadro

economico della cantina quartese nel 1942 attraverso la lettera che Siro

Riccadonna inviò il 30 Aprile I942 alla Segreteria Interprovinciale di Cagliari

dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione i:

La Cantina Sociale di Quartu S.Elena confeziona una media di

vini liquorosi e speciali ( Malvasia - Nasco - Moscato - Cannonao -

Monica - Nuragus - ecc.) per un quantitativo annuo base di Qli 3.000.

Prepara inoltre, con i vini bianchi di sua produzione e di maggior

gradazione, Vermut per un quantitativo di I.000 quintali.192

Nello stabilimento si producono:

vini pregiati e di normale consumo che nel l'annata I94I / 1942 sorpassa i 20 mila

quintali. Infatti la nostra Cantina che fu sempre la maggiore esportatrice di vino

sardo e che ha conquistato per la prima i mercati di maggiore consumo del

continente come:

Genova = Milano = Livorno = Spezia e Roma;

ha assunto con il prodotto vinificato nell'ultima vendemmia, impegni

con le seguenti ditte:

Cav. Dante Lomazzi - Milano Qli. 6.000

Ditta G. Calissano & Figli - Roma " 3.000

" G. R. Bisso - Livorno( Via S. Marco 6 ) " 6.000

" Emanuele Reta - Genova ( Via del Campo I2 ) “ 6.000

191 Ivi, Decreto del Ministro Segretario di Stato per le Corporazioni, Roma, 24 febbraio 1942.

192 Ivi, Commissario Governativo Siro Riccadonna alla Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione, Cagliari, 30 aprile 1942. .

133

" Zecchini - La Spezia “ I.000193

Dopo il risanamento ottenuto dal commissario, nell’ottobre 1942 poté essere

finalmente nominato un nuovo consiglio di amministrazione. È quanto si legge

lettera inviata al Prefetto di Cagliari il 9 ottobre 1942:

Il Consiglio di Amministrazione eletto all'unanimità in

Assemblea ordinaria tenutasi il giorno 4 ct. sostituisce il Commissario

Governativo che cessa dalla carica.

Si rende noto che, da oggi, la firma della Società a sensi

dell'articolo 36 dello Statuto Sociale spetta al Sig. Giuseppe Curreli

nominato Presidente del Consiglio in seduta 6 corr.194

Nella lettera, datata I3 Ottobre I942, anche questa, inviata al Prefetto, da parte

della Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della

Cooperazione, si informa il Prefetto che si era tenuta l’Assemblea generale

ordinaria in cui:

sono stati eletti i nuovi Amministratori, in sostituzione dell'uscente

Commissario Governativo Comm. Siro Riccadonna, nelle persone dei

fascisti:

I) Lai Prof. Efisio

2) Curreli Dr. Giuseppe - Presidente

3) Sanna Vincenzo

4) Cocco Dr. Pietro

5) Ibba Ennas Efisio. 195

Con queste nomine si chiude un periodo nel quale la cantina quartese era stata

commissariata.

Il 4 novembre 1942 la Direzione Generale del Commercio del Ministero delle

Corporazioni rende noto al Prefetto di Cagliari e per conoscenza all’Ente

193 Ibidem.

194 Ivi, Cantina Sociale di Quartu Sant’Elena al Prefetto di Cagliari, Quartu Sant’Elena, 9 ottobre 1942.

195 Ivi, Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 13 ottobre 1942 .

134

Nazionale Fascista della Cooperazione le competenze spretanti al meritevole

commissario:

OGGETTO : Soc. An. Coop. Cantina Sociale di Quartu S. Elena.-

Questo Ministero ha esaminato la relazione del commissario

ed ha preso atto, con compiacimento, dei vantaggi che la cooperativa

in oggetto ha conseguito, mercé l'opera impiegata dal commissario

stesso.

Per quanto riguarda il compenso spettante al commissario,

lo scrivente, tenuto conto della proposta formulata da codesta

Prefettura con il foglio cui si risponde, lo determina nella misura

complessiva di L. 20.000 - (ventimila-----) da far carico al bilancio

della società, a termini dell'art. 6 del R. D. legge 11 dicembre 1930, n.

1882.196

196 Ivi, Direzione Generale del Commercio del Ministero delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 4 novembre 1942.

135

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