L'ASSISTENZA SPIRITUALE
Devi capire il tutto della vita,Non solo una piccola parte di essa.
Per questo devi leggere,Per questo tu devi guardare il cielo
Per questo devi cantare e danzare, e scrivere poemi, e soffrire, e capirePerchè tutto questo è vita.
Jiddu Krishnamurti
Che cosa mi spaventa, quando penso alla mia morte? Mi vengono in mente diverse possibilità, diverse
sfaccettature del dolore.
Quella che salta subito alla mente è la paura del dolore fisico. È il primo timore che mi coglie,
pensare di trovarmi in un periodo più o meno prolungato di lancinante dolore, senza sapere se avrò la
possibilità di non sentirlo, magari ricorrendo ad antidolorifici di vario tipo, oppure no.
Un'altra paura, che si riallaccia a quella del dolore fisico è il non essere autosufficiente, ma
dover far affidamento su altre persone, per portare avanti i compiti basilari della vita quotidiana. E già
da questo livello incominciano ad entrare in gioco fattori più complessi e sfumati. Sarà un'invalidità
puramente fisica o coinvolgerà anche le capacità intellettive? Sarò totalmente dipendente, o avrò
qualche grado di autonomia? Chi saranno le persone che si occuperanno di me? Saranno persone fidate
o sarò totalmente nelle mani di estranei, che non mi considerano in quanto soggetto, ma mi vedono
come un oggetto del loro lavoro? Dovranno solo occuparsi di aspetti minimi della mia esistenza, come
il fare la spesa, cucinare, etc., o, nel caso fossi totalmente invalido, dovranno curarsi anche degli aspetti
più intimi e banali, come accompagnarmi in bagno o vestirmi, etc?
E poi che ne sarà del mio ruolo sociale, cosa succederà a quelli che resteranno? I miei cari
riusciranno a fare a meno di me, riusciranno a cavarsela da soli, riusciranno a riprendersi dal dolore per
la mia morte?
Quanto soffrirò nell'abbandonare le mie attività, le mie abitudini? Se penso alla morte, penso al
vuoto, penso a legami che si slacciano e si annullano; la mia persona, il mio concetto, non sarà più
presente in nessuna di queste cose, è un nulla totale, forse resterà il mio ricordo, ma anche quello,
tempo una o più generazioni, sarà probabilmente sparito.
A corollario di tutto c'è poi la paura per il confronto che dovrò inevitabilmente avere con la mia
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vita. Ho vissuto una vita degna? Ho dei rimpianti? Ho dei rimorsi? Ho fatto quello che avrei voluto?
Quanto tempo ho buttato via? E se mi accorgessi di non aver vissuto veramente? Se mi accorgessi di
aver sprecato la mia vita?
Questi sono tanti interrogativi, a cui non v'è risposta univoca od oggettiva. Può essere solo
soggettiva, e non è detto che vi sia. Molte domande, dai secoli dei secoli, sono senza risposta. Ma forse
dovremmo capire che non sempre le risposte sono importanti, anzi molte volte è proprio la domanda
che conta e che guida. Non esistono risposte oggettive, o meglio, le risposte che si pretendono oggettive
e assolute sono sterili, non portano a niente, rischiano di causare solo traumi e problemi. Una domanda
ben posta scava in profondità, non ti indica la soluzione, ma la direzione, delimita il campo però senza
tagliare fuori a priori elementi a esso connessi. Delimita e include allo stesso tempo, mantiene dei
confini, ma indefiniti, sfumati, che possono essere valicati. La domanda indica dove lavorare, lasciando
a te il come.
L'assistenza spirituale ai morenti, si pone come un tentativo di risposta a queste domande (e a
tante altre possibili).
L'accompagnamento ai morenti è già di per se un fatto molto delicato e complicato, sia pure
solo al livello tecnico di cui si occupano infermieri e medici. Anche i dottori e gli operatori sanitari
avrebbero bisogno di una più ampia e articolata preparazione per rapportarsi con un malato terminale.
La sola abilità tecnica in questo ambito non basta, vi è bisogno di un di più che prenda in
considerazione anche il lato emotivo, sociale, psicologico, spirituale del paziente e dell'operatore stesso.
È molto importante tenere in considerazione anche l'operatore che assite i morenti, perchè tra coloro
che hanno a che fare con chi sta morendo è molto frequente il burnout*.
4.1 Il Dolore totale e i cinque stadi del morire
Quindi perché non basta il tipico approccio medico occidentale? Perché quando pensiamo alla morte,
forse la parte fisica è in realtà quella che ci spaventa di meno?
È utile a questo proposito analizzare la situazione che il paziente terminale si trova ad affrontare
e che è stata definita da Dame Cicely Saunders, pioniera delle cure palliative e degli hospice, una
condizione di dolore totale.
Questo tipo di dolore viene definito totale perché rapportato a tre aree, tra loro interconnesse,
* Generalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che rischia di manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate. Nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite. Tutto ciò può portare a esaurimento, cinismo, inefficienza.
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che riuniscono in se l'insieme delle dimensioni di coscienza esperibili da un essere umano, che sono
state articolate dalla Saunders nelle seguenti tre aree:
• FISICA
• PSICOLOGICA/EMOTIVA
• SPIRITUALE
La prima e più evidente è chiaramente la parte fisica. Anche questo dolore fisico può essere in
realtà accentuato dalla paura che genera dolore aggiuntivo, oltre a quello fisiologico.
Dal punto di vista psicologico, in successione o contemporaneamente al dolore fisico, il più
delle volte la persona è oppressa da paura, pensieri e sentimenti depressivi legati alla perdita della
propria identità così come è stata vissuta fino a quel momento. Si genera cioè una sorta di frattura
esistenziale, e si riscontra un abbandono della progettualità.
Dal punto di vista spirituale è un rendersi conto di non aver più tempo e, magari, di averne perso
tanto in attività insignificanti e spesso si è dominati da sentimenti di rancore, rabbia, odio, sfiducia etc.
L'intensità percepita di questo dolore può variare a seconda di due fattori, legati alla vita
dell'individuo:
• La personalità del soggetto.
• L'ambiente con cui la persona si relaziona.
I sintomi del dolore totale che si manifestano sono:
• Profondo senso di paura e di stress.
• Vissuto di sconvolgimento del progetto esistenziale con la perdita della proiezione nel futuro.
• Caduta della propria immagine.
• Alterazione del vissuto corporeo.
• Angoscia di disgregazione.
• Severe modificazioni dello stile di vita.
• Perdita del ruolo familiare e sociale.
• Riduzione / azzeramento delle capacità lavorative.
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E questi sintomi provocano:
• Dubbi sulla capacità di mantenere un ruolo attivo nei legami affettivi.
• Senso di perdita del gruppo di appartenenza sociale.
• Senso di frustrazione e depressione più o meno profonda per il senso di perdita.
• Ostilità e aggressività verso l'ambiente circostante.
• Senso di colpa, di invidia, di ingiustizia.
• Senso di ineluttabilità della morte, senso di impotenza.
• Uso regressivo dei meccanismi di difesa della negazione e della rimozione.
(Caravello)
Un'altra pioniera delle cure palliative, la psicologa Elisabeth Kübler-Ross, parla di cinque stadi
che il paziente affronta dal momento della comunicazione della diagnosi terminale (Kübler-Ross,
1969). Questi stadi non sono sempre riscontrabili, il passaggio dall'uno all'altro non annulla il
precedente, potrebbero in realtà essere compresenti e non apparire nell'ordine dato.
Il primo stadio è quello del Denial-Isolation (Negazione e Isolamento). Il rifiuto e l'isolamento
sono la diretta conseguenza della prognosi infausta. In questa fase la persona non accetta la propria
morte, si trova a dire: “Non può essere vero, io no.” Da qui poi potrà sorgere la convinzione che le
analisi siano sbagliate, potranno iniziare i cosiddetti viaggi della speranza da un medico all'altro, da uno
specialista all'altro, con la speranza appunto di trovare qualcuno che rassicuri, che dica che va tutto
bene, oppure si potrà far finta di niente ed andare avanti senza considerare il problema fino a che non
sarà troppo tardi, chiudersi totalmente in se stessi e non comunicare la situazione a parenti e amici, non
andare più al lavoro e, in casi estremi, rinchiudersi in casa.
Questa fase può caratterizzarsi come una sorta di “cuscinetto”, che permette alla persona di
distaccarsi dalla diagnosi per prendere tempo e trovare in se stessa l'energia per attivare difese e
individuare strategie utili per affrontare ciò che seguirà, ma se lo shock non viene sufficientemente
elaborato e superato, può comportare gravissime e disperate sofferenze interiori.
Il secondo stadio è quello di Anger (Rabbia). In questa fase la domanda che si pone con più
insistenza alla mente è “Perchè proprio io?” e il sentimento della rabbia, scaturito dalla propria
condizione, domina la persona, che la esprimerà in modi diversi. La rabbia verso Dio, l'invidia verso gli
altri, che non stanno morendo, il proiettare la rabbia su un ambiente definito, i familiari, il personale
ospedaliero, etc. In realtà sotto la rabbia vi è la paura, quella per la morte e di essere abbandonato. Tutto
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ciò può costituire un modo per richiamare l'attenzione degli altri, oltre che una reazione di fronte alla
frustrazione dell'inevitabilità della propria morte.
Il terzo stadio è quello del Bargaining (Contrattazione). In tale stadio la persona pensa di poter
in qualche modo ritardare o evitare la sua morte. Questa è una fase difficile da descrivere a livello
scientifico in quanto entrano in gioco le componenti dell'individuo più irrazionali, come il rapporto con
Dio o con il destino. Allora la persona dice: “Fammi vivere finché i miei figli non saranno in grado di
cavarsela da soli” oppure “Se pregherò regolarmente e andrò in chiesa il mio cancro sparirà”. Si va dal
posporre al proporre un vero e proprio scambio. In sostanza, generalmente, tutto ciò rappresenta un
ulteriore tentativo di fuga dalla realtà.
Il quarto stadio è quello della Depression (Depressione). “Sto per morire, allora che cosa me ne
importa del resto?” “Perderò i miei cari, perchè andare avanti?”. A questo punto la persona ha compreso
che la morte è inevitabile. A causa di ciò comincerà a distaccarsi dalle cose che prima la interessavano e
dagli affetti. Si tratta di una fase importante sulla via dell'accettazione finale, in quanto mostra che si è
entrati nel processo di riconoscimento della realtà, ma tuttavia è anche molto delicata perchè si rischia
seriamente di non uscirne, rimanendo intrappolati nelle oscure spire della depressione.
Il quinto stadio è quello dell'Acceptance (Accettazione). “Non posso evitarlo, quindi tanto vale
accettarlo”. Questo non è uno stadio “felice” e implica che la persona abbia accettato definitivamente e
senza mezzi termini l'evidenza dei fatti. Di conseguenza ci si lascia andare all'inevitabilità della morte e
si rinuncia a combattere inutilmente. Non è necessariamente un sentirsi bene, bensì un accettare
comunque l'inevitabile. È quasi un vuoto di sentimenti, è come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia
finita e venga il tempo per il riposo prima del passaggio finale.
Un aspetto molto importante in quasi tutti gli stadi, è la speranza. Essa inizialmente è d'aiuto nel
superare le varie fasi critiche, ma è nel momento in cui viene abbandonata che inizia l'accettazione
definitiva: quando si lascia andare anche il desiderio di vivere si è veramente pronti a morire.
Questo schema è, per l'appunto, tale e quindi non è da prendere in maniera assoluta, non tutte le
persone e le situazioni vi rientreranno, ma come traccia, come aiuto per la comprensione, ha la sua
validità. È interessante notare come detto schema si possa applicare non solo al morire, ma anche ad
ogni evento tragico della vita, come la perdita del lavoro, di un familiare etc., e ad ogni avvenimento
che segni un cambiamento che comporti anche significative rinunce.
Il paziente con malattia incurabile sa, così come le persone a lui più vicine, che in un tempo più
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o meno lungo sarà destinato a morire. Cosa si può fare per rendere sopportabile e migliore la qualità del
tempo che gli rimane? Come si può meglio aiutare un essere umano in un così delicato frangente della
vita?
Tutte le consuete strategie saltano di fronte a questa situazione, non si può fare leva sulla
progettualità, non si può proporre al paziente una modalità d'azione rivolta a ottenere un miglioramento
o un risultato nel futuro più o meno prossimo, il paziente terminale è, in definitiva, un soggetto senza
futuro, quantomeno nell'ambito della comune esperienza terrestre. Un morente è forse più di ogni altro
una persona che vive in un eterno presente. Una persona che da un momento all'altro sa di poter morire
si trova, volente o nolente, a vedere e vivere il mondo in maniera diversa. La dimensione del futuro è
stata spazzata via, il passato è un fiume in piena che rischia di rompere l'argine, e il presente è questo
argine, che si fa giorno dopo giorno sempre più sottile, fino al momento in cui il fiume del passato
inonderà il campo del futuro trasformando il mondo (interiore ed esteriore) del soggetto in un magma
primordiale indefinito e caotico, annullando barriere spaziali e temporali, abbattendo i confini,
mischiando e unendo ciò che prima era separato, contraendo le dimensioni temporali in un unico,
accecante, intenso e fugace satori, la morte. “La morte è un rinnovamento, un mutamento in cui il
pensiero non interviene poiché il pensiero è vecchio; quando c'è morte c'è qualcosa di completamente
nuovo. La libertà dal conosciuto è morte e allora vivete.” (Krishnamurti, 1969)
Riprendendo la metafora di cui sopra, la morte corrisponde al momento in cui l'argine si rompe.
Esistono però vari modi in cui l'argine si può mettere da parte. Può essere un evento catastrofico, un
novello Vajont individuale, e in questo caso la persona si troverà in una brutta e triste situazione, sarà
travolta, soffocata, sommersa, dal fiume, improvvisamente, senza via di scampo. La morte sarà difficile
e brutale, porterà tanta sofferenza all'individuo e ai suoi affetti, alle persone che gli stanno vicino.
Oppure l'argine può essere usato per agevolare lo scorrimento del fiume, per incanalare l'acqua e farla
scorrere in maniera più controllata, e il campo può essere preparato ad accoglierla.
L'assistenza spirituale ai morenti dovrebbe svolgere proprio questa funzione, di preparazione
alla morte. “Benché ogni uomo cerchi di posporre a suo modo il problema della morte, sia quella
personale, che dei familiari e degli amici, fino a quando non sia costretto ad affrontarli, egli potrà
cambiare le cose solo se comincerà a prendere coscienza della sua morte personale. Questo non si può
fare a livello di massa: deve essere fatto da ogni essere umano individualmente.” (Kubler Ross, 1969)
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4.2 Spiritualità e religione
Tutte (o quasi) le religioni contemplano un qualche cosa dopo la morte. Può essere un altro mondo, un
altro stato dell'esistenza, il reincarnarsi in un altro essere vivente... Molte poi prevedono un qualche
processo che valuti il bene e il male compiuti dal defunto in vita. In base alle percentuali di bene e di
male si avrà un trattamento piuttosto che un altro.
Tutte le religioni, in sostanza, si sono sempre confrontate con la morte e hanno cercato di
rispondere alle domande che essa pone. L'essere umano è il solo animale, per quanto ne sappiamo, ad
essere consapevole di dover morire. Probabilmente il confronto con la morte è una delle cause
principali della nascita delle religioni. Questo ha luogo da tempi immemorabili e ha forse contribuito al
grande sviluppo del pensiero simbolico nell'homo sapiens: “La mia ipotesi è che tutte le religioni
ebbero la loro origine nell'evoluzione delle credenze intorno alle cause, che a sua volta ebbe origine
nell'uso degli strumenti. Trovare delle risposte intorno alle cause era naturale per chi si interrogava sul
perché della vita e della morte. L'abilità mentale che sviluppò la ricerca delle cause, a partire dai nostri
progenitori, determinò per via genetica la formazione di appropriati circuiti, tanto da domandarci se la
religione non sia in parte nei nostri geni.” (Wolpert, 2006)
Ma, a questo punto, occorre chiarire che assistenza spirituale non è assistenza religiosa.
Spiritualità non è sinonimo di religione. Certo i due termini sono collegati ma non sono la stessa cosa.
Molte persone vedono spiritualità e religione come termini intercambiabili, e identificano una persona
come “spirituale” se è molto attiva nelle attività di una delle fedi religiose istituzionalizzate. Ma in
realtà una persona può essere molto spirituale anche senza essere religiosa. Wolpert invece sembra
cadere nell'equivoco opposto, usa il termine religione per indicare un qualcosa di innato presente nei
nostri geni. In realtà “while religion may inform and offer direction to an individual's spirituality, the
two concepts are not the same. In terms of analogy, hydrogen and oxygen combine to make water
although each brings its own defining characteristics to balance the chemical equation. Thus, there may
be a synergy and symbiosis between religion and spirituality but the essence of each remains unique;
indeed, a person's spirituality can thrive irrespective of religious creed – orthodox or otherwise.”
(Kendrick, Robinson, 2000, p. 701)
Vediamo allora in che cosa si differenziano i due termini, cercando di dare una definizione
chiara di entrambi.
Essendo una parte molto intima di ogni individuo, vi sono tante esperienze della spiritualità,
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tante quante sono le persone sulla terra. Ma ciò non impedisce di riscontrare dei tratti comuni e di darne
una definizione, per quanto generica.
A livello linguistico il termine spiritualità come lo intendiamo oggi affonda le sue radici nella
Francia del XVII secolo, riferito a una forma di contemplazione suggerita dalla mistica Jeanne-Marie
Guyon e da quello che divenne il movimento quietista*. “By the 19th century, the term had come to be
associated with mysticism and the practice of piety, before finally passing into today common parlance.
Dictionary definitions outline current usage by relating spirituality to its root – spirit – locating it
thereby within the non-physical aspects of humankind: in profound thoughts and emotions; the part of a
person thought to live on after death; a person's character or temperament; and will to survive. These
descriptions resonate with the notion of spirit as ruach – breath or life force – within the Judaeo-
Christian tradition.” (Wright, 2001, p. 144)
Una definizione più complessiva viene data da Wig: “The central theme in a spiritual approach
to life is that there is an essential mystery at the heart of all things. This mystery cannot be understood
but has to be experienced. From the experience of this mystery we get this urge for trascendence, which
is the essential feature of all spiritual approaches. In the past, mythic images in all cultures partly
fulfilled this human need. One sad thing in our times is the slow erosion of our mythologies and their
place in our lives.” (Wig, 1999, p. 96)
Quasi tutte le definizioni sembrano sottindere, o comunque richiamano, la presenza di un
qualche cosa di “altro”, che sia uno stato d'esistenza o un essere superiore, rischiando di confondere la
definizione di spiritualità, che si configura piuttosto come un bisogno, con la credenza, o facendola
derivare dalla credenza. Ma il termine spiritualità copre molti ambiti, non solo quello delle credenze,
ambiti che comunque si configurano sempre come non misurabili, non materiali, non ben definibili. Un
anziano aborigeno, Eddie Kneebone, mostra un altro modo di intenderla, quando parla della spiritualità
aborigena: “The belief and the feeling within yourself that allows you to become part of the whole
environment around you, not the built environment, but the natural environment. Aboriginal spirituality
is the belief that the soul or spirit will continue after the physical form has passed through death”
(Mudrooroo, 1995, p. 34)
Vi sono tante visioni della spiritualità, ma si può tentare di darne una definizione sintetica,
* I quietisti si focalizzano essenzialmente sul raccoglimento personale, sulla loro interiorità. La tecnica più caratteristica di questo movimento per entrare in contatto con il divino è la c.d. contemplazione di quiete, da cui il termine quietismo. Quando si raggiunge la perfetta quiete e l'attenzione dello spirito è concentrata in Dio, con assoluta indifferenza rispetto ai propri interessi e ai successi della vita, si arriva al totale abbandono in Dio. Il quietismo è stato accusato dalla chiesa di essere una “mistica eretica”.
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descrivendola come quell'elemento intangibile dell'esistenza umana che ha bisogno e cerca di dare un
senso alla vita, all'esserci nel mondo. Questo elemento non può essere capito a un mero livello
intellettuale, ma deve essere esperienziato e interiorizzato. La spiritualità ci guida verso la
comprensione di noi stessi e delle nostre interrelazioni con gli altri e con il mondo, mette in
collegamento, non a fini strumentali, l'interno con l'esterno, il pensiero e l'azione. È quel qualcosa che
ci permette di identificarci con una persona mai incontrata prima, di entrare in relazione con i fenomeni
esterni, con la natura, con gli altri esseri viventi, con il tutto. “Non si tratta di relazioni reali nel vero
significato della parola, come ne esistono per esempio tra gli oggetti esterni e le percezioni. Le relazioni
reali implicano uno scambio e una pluralità, e queste sono modalità essenzialmente opposte alla natura
dello spirito.” (Eliade, 1954, p. 39) Che cosa ha in comune l'uomo con, per esempio, un albero? Da
molto prima che la nostra scienza ci fornisse la risposta in stile chimico-fisico, tanti uomini e tante
culture avevano proposto molte risposte soddisfacenti e calzanti, senza bisogno degli strumenti e delle
teorie delle hard sciences. La spiritualità è legata allo stupore, alla meraviglia, al lasciarsi dietro il
bisogno di spiegare e controllare le varie esperienze, è uno spazio aperto di incontro e consapevolezza.
Un altro aspetto fondamentale della spiritualità è la sua funzione di sostegno nei momenti
difficili, di crisi, quando drammi e imprevisti di vario tipo mettono a rischio il senso della nostra vita e
il nostro esserci nel mondo. Porta ad attribuire un significato superiore, a vedere un “oltre” nei fatti,
nelle cose e nelle persone, crea analogie e collegamenti impensati, analogie e collegamenti che servono
sempre a dare un senso all'esperienza. Porta il nostro intelletto a chiederci chi siamo, dove andiamo,
perché siamo nati, perché proprio qui etc. Sono domande ataviche, senza risposta, o comunque senza
una risposta chiara e sicura. È qualcosa che va oltre il livello psicologico e cognitivo, ma nonostante ciò
è influenzata da, e a sua volta influenza, queste due dimensioni. “La conoscenza è un semplice risveglio
che svela l'essenza del Sé, dello spirito. La conoscenza non produce nulla – essa rivela immediatamente
la realtà. Questa conoscenza vera e assoluta – che non si deve confondere con l'attività intellettuale, di
natura psicologica – non si ottiene con l'esperienza, ma per rivelazione. Nulla di divino interviene a
questo punto. […] La rivelazione si fonda sulla conoscenza della realtà ultima, cioè sul risveglio in cui
l'oggetto si identifica completamente col soggetto. (Il sé si contempla da sé; non si pensa, poichè il
pensiero è esso stesso una esperienza e come tale appartiene alla prakrti*).” (ibid, p. 41)
Spiro definisce così la religione: “Basandomi sull'assunto che la religione è una istituzione
* Materia, sostanza, natura.
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culturale, e che tutte le istituzioni (anche se non tutte le loro caratteristiche) sono mezzi strumentali per
la soddisfazione di bisogni, definirò così la 'religione': una istituzione costituita da interazioni,
culturalmente modellate, con esseri superumani culturalmente postulati”. (Spiro, 1998)
Riprendendo Wolpert, deriva sì da qualcosa che è nei nostri geni, ma quello che oggi
comunemente si intende con il termine religione, ne è l'espressione culturale, e come tale suscettibile di
infinite variazioni a livello interculturale e soggetta a una standardizzazione a livello sociale. Partendo
da un bisogno comune, che possiamo individuare nella spiritualità, la religione è un sistema di teorie e
pratiche atto ad esprimere questa necessità universale a livello sociale e culturale. In tale processo è
bene notare però che la religione finisce anche per avere un effetto retroattivo, influenzando e
modellando a sua volta il bisogno da cui è scaturita, tratto, questo, comune a tutte le istituzioni.
“Ogni sistema religioso consiste in primo luogo in un sistema cognitivo; consiste cioè in un
insieme di proposizioni esplicite ed implicite, assunte come vere, riguardanti il mondo super-umano e
le sue relazioni con l'uomo.” (ibid.) Ogni religione si fonda su un patrimonio mitico e un insieme di riti,
costituendo questi ultimi modelli comportamentali formalizzati, attraverso cui un gruppo umano
rappresenta e presentifica, riattualizza, eventi narrati nei miti, facendo in modo che l'ordine cosmico
venga riaffermato, riempendo la realtà di senso. I miti sono un sistema di narrazioni su eventi
considerati fondanti, su come sia nato l'universo e sulle leggi che lo governano, su come sia stata
fondata la cultura e le sue istituzioni. Storie che rispondono al nostro bisogno di significare il mondo e
il nostro esserci, agli interrogativi sulla nascita e sulla morte. “I sistemi di credenze religiose forniscono
ai membri della società una serie di significati e spiegazioni per fenomeni che resterebbero altrimenti
inesplicabili e privi di senso. Il termine “significato”, naturalmente, è spesso usato in due sensi. Da un
lato, in un senso esclusivamente cognitivo, come quando si chiede il significato di un fenomeno
naturale, di un evento storico, di un fatto sociologico. Così connotato, il termine vale per “spiegazione”,
secondo l'uso tipico di questa parola. Ma dall'altro lato “significato” è usato anche in senso semantico-
affettivo, come quando si chiede il significato della parzialità del destino, della frustrazione, della
morte.” (ibid.)
La credenza in esseri super-umani è un tratto distintivo che accomuna tutte le religioni, anche
quelle che a prima vista sembrano prive di divinità ed esseri soprannaturali. “La religione, se
considerata come sistema, può esser distinta da altre istituzioni culturalmente costituite solo per il suo
riferimento a esseri super-umani.” (ibid.) Infatti tutte le religioni sono fatte risalire a, e contengono al
loro interno, figure con caratteristiche sovrumane, ma ciò non vuol dire che il comportamento religioso
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sia assorbito totalmente da queste. “Sebbene la caratteristica distintiva della religione sia la credenza in
esseri super-umani, non ne segue che questi esseri siano necessariamente il supremo oggetto di
interesse” (ibid.), ed è bene notare che “la credenza in esseri super-umani, l'ultramondanità e i valori
spirituali sono variabili indipendenti” (ibid.).
Spiritualità e religione sono quindi differenti anche se simili, differenti innanzitutto per il fatto
che l'una è un bisogno e l'altra un'istituzione, l'una è una domanda e l'altra una risposta, una risposta
connotata culturalmente e socialmente costituita, quindi una risposta che non si adatta bene alla
situazione presente in ambito sanitario. Oggi come oggi si ha a che fare con persone di tante fedi
differenti, sempre maggiore è il numero di coloro che si dichiarano atei o agnostici e sempre di più sono
le persone che costruiscono la propria spiritualità attingendo a tante fonti diverse, in una sorta di
bricolage religioso, non riconoscendosi in nessuna religione istituzionalizzata. Per questo è necessario
che, per chi si trovi ad affrontare il processo del morire, sia fruibile un'assistenza che si occupi della
parte spirituale in maniera neutra e universale, e non un'assistenza di tipo religioso, che ridurrebbe la
fruibilità del servizio soltanto a coloro che si riconoscono nella specifica fede. Le religioni
istituzionalizzate e i loro metodi di accompagnamento sono solo uno dei mezzi possibili per lavorare
sulla parte spirituale che, nel caso di assistenza ai morenti, si dimostrano utili se la persona è fortemente
credente, ma si rivelano altamente controproducenti in tutti gli altri casi.
4.3 Paradigmi e pratiche di assistenza spirituale
Passiamo ora a considerare alcune delle tecniche e dei modelli d'assistenza che vengono utilizzati
nell'ambito dell'accompagnamento dei morenti. In riferimento a questi modelli mi baserò
principalmente su tre fonti scritte e una esperienza personale di sei mesi circa di corso di formazione
per volontario in hospice, tenuto nel 2011 dall'associazione Dare Protezione Roma. I testi utilizzati
sono: le dispense di un master universitario per assistenti spirituali dell'università del Queensland,
Australia; un libro di Frank Ostaseski, fondatore dello Zen Hospice di San Francisco, che si occupa dal
1987 di assistenza ai morenti, in particolare quelli in situazione svantaggiata come senzatetto e
tossicodipendenti; un volume di Sogyal Rinpoche, monaco buddhista tibetano, in cui la tradizione
tibetana viene rielaborata per fornire una guida all'accompagnamento ai morenti. Nonostante la
lontananza sia geografica che culturale delle varie fonti, è interessante notare come queste concordino
su molti punti fondamentali, sebbene, per forza di cose, l'esperienza di vita dei vari autori sia ben
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diversa l'una dall'altra.
Possiamo iniziare partendo dal cosiddetto biopsychosocial-spiritual model, così come viene
formulato da Sulmasy, e che si fonda sull'assunto che la malattia annulla l'equilibrio omeostatico della
persona, distruggendo le relazioni che essa aveva intessuto, al suo interno a al suo esterno:
“relationships were defined as both intrapersonal and extrapersonal” (Murray, Wilson, 2007, mod. 3 p.
32). Le relazioni intrapersonali sono quelle che il soggetto ha con il proprio corpo, le relazioni fra le
varie parti del corpo, il rapporto corpo-mente, il quale collega stati d'animo, sensazioni, idee, modi di
vedere il mondo, allo stato fisico. Le relazioni extrapersonali sono quelle che il soggetto intesse con
l'ambiente in cui vive, con le persone che lo abitano a loro volta e con l'oltre, ciò che trascende, l'altro
dall'ordinario.
Nella seguente tabella (ibid, mod. 4 p. 22) viene fornito un esempio pratico di tale modello:
MODEL If EXAMPLES OF CAREINTRAPERSONAL
Physical Relief from pain, nausea, dyspepsia, fatigueMind-body Relief from anxiety and depression;
Recognition of the messages of fear and distress seen in the body such as increased muscle tension, nausea, pain unexplained by physical illness; Recognition of the exisistential pain
EXTRAPERSONALPhysical environment Providing physical comfort; Providing a
balance of quietness and company as required day and night; Patient and family choice environment
Relationships with others Reconciliation with family and friends; To experience love; To be understood as valuable even when no longer economically productive; To accept the role of teacher, to pass on wisdom; To have fear understood and accepted; To have it understood that one can be weak and strong in the same moment; To be a person with faults not to be idealized or objectified or seen as childlike; To be engaged with decision-making as much or as little as desired
Relationships with the transcendent To address questions about existence, meaning, value, and relationships; To feel a sense of attachment and presence and confidence in beliefs; To have acknowledged
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that doubts can arise or the relationship change; To have others 'know' without words
Secondo questo modello la cura comporta la “restoration of right relationships” (Sulmasy, 2002, p. 26).
Ma ricreare le giuste relazioni per una persona in punto di morte è molto diverso che ricrearle per una
persona afflitta da una patologia ben guaribile. Quando si entra nel campo della morte, si entra in
un'area totalmente sconosciuta e terrificante, in cui tutto si fa più tenue, in cui le relazioni, le cause e gli
effetti assumono la consistenza dei fantasmi. “What would a right relationship be between a person and
a dying body, between a person and an environment confined day on day to four walls, to a
transcendence, a God, whose reality you may or may not be a part of soon?”(Murray, J., Wilson, T.,
mod. 3 p. 33) Perciò l'obiettivo di questo modello è risanare la giusta relazione hic et nunc, e non nel
futuro. Per far questo è necessario che l'operatore riesca a entrare nei panni di un morente, che
comprenda appieno la situazione, e che abbia la volontà e la preparazione sufficiente per affrontarla
affrontarla. “Non potete aiutare i morenti finché non vi siete resi conto che la loro paura vi turba e porta
a galla i vostri timori più angoscianti. Lavorare con loro è come guardare nello specchio limpido e
impietoso della nostra stessa realtà, dove si può veder riflessa la nuda faccia del nostro panico e del
nostro terrore del dolore. Se volete imparare ad aiutare chi muore, dovete esaminare ogni vostra
reazione. Guardare apertamente le vostre paure vi aiuterà inoltre nel cammino verso la maturità.”
(Rinpoche, 1994, p. 172)
L'assistente spirituale differisce grandemente da tutte le altre figure professionali che operano
nell'ambiente sanitario e negli hospice. Innanzi tutto per il suo ruolo particolare, che non è né quello di
aiutare, né quello di provvedere, ma è quello di servire. Servire non è aiutare, perchè l'aiuto implica un
rapporto di disuguaglianza, una delle due parti è svantaggiata e questa disuguaglianza è ben visibile.
L'aiutare crea quindi un debito, l'altra persona sente di doverci qualcosa. “Ponendoci nell'ottica
dell'aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all'altro più di quanto gli diamo, indebolirne il senso di
dignità e l'autostima.” (Ostaseski, 2006, p. 37) Il servire differisce anche dal provvedere: “Quando
cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell'altro qualcosa che non va. È un giudizio implicito, che mi
separa dall'altro e crea una distanza” (ibid, p. 37). Il servizio si pone come uno scambio reciproco, ben
diverso quindi dall'aiutare e dal provvedere che, anche se implicitamente, sottintendono entrambi
rapporti gerarchici e di forza. “ Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono
modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci
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sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo
consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.”(ibid, p. 38) Questo servire non è un
servire a senso unico, nel momento in cui mi metto al servizio della persona morente, servo anche me
stesso. È un servire diverso da quello del maggiordomo, il quale è rivolto a un cliente o a un padrone, e
nel quale il servizio si instaura su una base gerarchica che si attua attraverso lo scambio salario-lavoro.
“È un processo nel corso del quale si arriva a capire che accudendo l'altro ci si prende invariabilmente
cura di se stessi, e che porta a scoprire come si può essere compagni compassionevoli, per usare
un'espressione per me pregnante. La parola compassione significa letteralmente soffrire con gli altri, ed
è quel 'con' che sta nel mezzo ciò che conta di più.”(ibid, p. 36)
Ostaseski paragona il momento in cui si entra nella camera di un morente al dokusan, il
colloquio formale fra maestro e discepolo nella pratica zen. Quando l'allievo attende al di fuori della
stanza “non ha idea di cosa lo attenda dietro quella porta, di cosa potrebbe chiedergli il maestro. Quindi
all'allievo si richiede apertura, flessibilità, disponibilità a varcare la soglia senza aspettative. Entrare
nella camera di un malato terminale è come presentarsi a un dokusan”(ibid, p. 36). Quando entriamo in
presenza di un morente, cosa ci si presenterà davanti, con chi avremo a che fare? I malati terminali e i
morenti si trovano in una condizione di estrema vulnerabilità e sensibilità, sono estremamente percettivi
e da loro a volte fuoriesce una aggressività improvvisa, di cui chiunque può essere il bersaglio. Ma non
è una rabbia mirata, personale, è quel tipo di rabbia che descrive Kubler-Ross nel suo schema, un'ira
improvvisa e in qualche modo casuale verso un qualsiasi componente dell'ambiente esterno.
Rapportarsi con questo tipo di rabbia non è facile, ma il primo passo da compiere è quello di
comprendere che questo sentimento negativo non è diretto personalmente a voi e, “comprendendo che
la causa è il dolore e la paura, non reagirete in modi negativi per il rapporto”(Rinpoche, 1994, p. 168).
Ciò che veramente è importante, essenziale, per l'accompagnamento del morente è la qualità
della propria presenza, la capacità di essere onesti, con noi stessi e con l'altro, di essere non invasivi, di
saper stare bene nel silenzio, l'avere una mente aperta e sgombra da preconcetti e schemi rigidi. “Spesso
una persona morente è riservata e insicura, ignara delle vostre intenzioni quando andate a trovarla per la
prima volta. Perciò non sperate che accada qualcosa di straordinario. Siate naturali e rilassati, siate voi
stessi.”(Rinpoche, 1994, p. 167) Una volta che l'atmosfera si sarà rilassata, instaurare una relazione di
fiducia verrà più facile. Pensare di cavarsela attenendosi a un ruolo e alle sue specifiche è di nessun
aiuto in questo caso, anzi ha un effetto molto dannoso. Assumendo un ruolo cerchiamo in realtà,
consciamente o inconsciamente, di rafforzare la nostra identità, e cerchiamo di ridurre a conosciuto, e
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quindi controllabile, ciò che abbiamo davanti. Ma tutto questo stride con la condizione particolare del
morente perchè, volente o nolente, “la persona che muore ha lasciato cadere le maschere e le apparenze
di tutti i giorni e, perciò, è molto più aperta e sensibile. Si accorge subito delle finzioni. Ricordo un
malato che una volta mi disse: 'No, niente letture. Voglio solo ciò che hai nella mente e nel
cuore'”(Saunders, 1988). Assumere un ruolo atto a raggiungere un obiettivo specifico “è il modo più
sicuro per esaurirsi e per rischiare di cadere in una dinamica di controllo, in quanto ci si sente spinti a
voler cambiare le condizioni in vista del risultato voluto invece di lasciarsi guidare dalla situazione del
momento”(Ostaseski, 2006, p. 36). Inutile far finta di non aver paura, di non essere a disagio, il cercare
di avere tutto sotto controllo. È necessario non nascondere le proprie debolezze e le proprie sensazioni,
anche se sgradevoli. Bisogna prima essere onesti con se stessi, individuare la sensazione che ci sta
attraversando, e non respingerla, ma accettarla per quello che è, e infine lasciarla andare: “Dobbiamo
mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all'intera gamma delle nostre esperienze. Servono
anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l'interezza
dell'altro e l'interezza della vita.” (ibid, p. 37)
Il compito dell'assistente spirituale è quello di accompagnare il morente nella ricerca della sua
via verso la morte, e non quello di sceglierla o crearla lui stesso. “Spiritual care is to devote the essence
of ourselves as people to that of those for whom we care as a means of encouraging them to find what
matters to them, their purpose, their meaning, their connection, and their existence, not matter how
limited.”( Murray, Wilson, mod. 4 p. 25) Un bravo assistente spirituale incoraggia la persona di cui si
prende cura a scoprire quella immensa forza indefinita che si nasconde nelle profondità di ogni essere
umano, si voglia chiamarla fiducia, fede, spiritualità o in qualsiasi altro modo, nel tentativo di darle una
definizione. Bisogna prepararsi a essere un compagno di viaggio non invadente ma sempre presente e
pronto ad ascoltare, anche se in silenzio o inattivo. “Mi ha sempre commosso la possibilità di aiutare le
persone ad aiutarsi aiutandole a scoprire la loro verità; una verità la cui ricchezza, dolcezza e
profondità forse non hanno mai sospettato. La fonte della guarigione e della consapevolezza è sepolta
in profondità dentro di noi, e il vostro compito non è mai, in nessuna situazione, quello di imporre le
vostre credenze ma di permettere agli altri di scoprire le proprie.”(Rinpoche, 1994, p. 199)
Per instaurare un dialogo sincero e aperto, non bisogna rapportarsi al morente come un
entomologo si rapporta ai suoi insetti, o un dottore ai suoi pazienti. È necessario vedere e accettare la
persona che si ha davanti in tutta la sua storia, in tutta la sua individualità e diversità, e non incasellarla
in gruppi, in schemi, non astrarla dal contesto per renderla un dato su cui si possa intervenire secondo
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una procedura standard: “Le persone muoiono così come hanno vissuto, come sono. Per stabilire una
vera comunicazione dovete sforzarvi risolutamente di collocare il morente nel quadro della sua vita, del
suo carattere, del suo retroterra e della sua storia, per accettarlo senza riserve. Non angosciatevi se la
vostra assistenza non sembra produrre effetti, e se il morente non risponde. Non possiamo sapere quali
saranno i risultati più profondi delle nostre attenzioni” (ibid, p 168). Allora le cure spirituali saranno
quelle che si prendono cura dello spirito della persona in qualsiasi modo esso sia definito, e che per ciò
hanno come soggetto infinite varianti individuali di una stessa essenza. “More appropriately, it is the
care of the spirit as that is perceived and described by the person for whom we care. Hence it will be
different for each and every person as would be the manner in which care of spirit is achieved for
each”( Murray, Wilson, mod. 4 p. 25).
Nonostante ci siano tante definizioni e concezioni su cosa sia “spirito”, non si può essere
impreparati e non si può del tutto improvvisare, per assistere è comunque necessaria una base, un
canovaccio, generale e flessibile, una qualche bussola con cui trovare la direzione. Ostaseski nel suo
libro descrive cinque precetti che vengono seguiti allo zen hospice nell'accompagnamento ai morenti.
Questi precetti sono presi dalla tradizione buddhista zen, ma sono non specifici e privi di riferimenti
dottrinari e in essi troviamo ben sintetizzati concetti che vengono in genere quasi sempre considerati
elementi essenziali nell'ambito dell'assistenza spirituale.
Accogli tutto, non respingere nulla. Aprirsi pienamente all'esperienza, non rifiutare nulla di
quello che incontriamo. Nel contatto con il morente bisogna essere aperti a tutto, ed essere pronti ad
affrontarlo apertamente, per interferire il meno possibile con l'esperienza dell'altro e aiutarlo a trovare
la serenità. “Accogliere ogni cosa non significa che tutto quello che incontriamo ci debba piacere.
Approvare o disapprovare non rientra nei nostri compiti. Il nostro compito è dare fiducia, ascolto e
un'attenzione puntuale ai bisogni mutevoli dell'altro. Per fare questo ci vuole coraggio. A un livello
profondo, richiede di mettere in campo una sorta di ricettività senza paura. Il primo passo è osservare
come ci aggrappiamo al benessere e prendiamo le distanze dalla sofferenza.” (Ostaseski, 2006, p. 19)
Porta nell'esperienza tutto te stesso. Per poter essere veramente d'aiuto a qualcuno dobbiamo
essere presenti con tutto noi stessi, non si può servire assumendo una distanza, anche se di tipo
professionale. Conoscersi e accettarsi per quello che si è, con tutti i pregi e i difetti, le debolezze e i
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punti di forza che ci fanno essere quello che siamo. Spesso si crede che per servire gli altri sia
necessario essere forti e sicuri di sé, e per far questo si tende a costruire una maschera o un
personaggio, che rimanda l'immagine di noi che riteniamo più appropriata per il contesto. Ma fare ciò è
un errore che non permette di svolgere pienamente l'esperienza che stiamo vivendo, e che porta anche
disagi interiori perché essere impassibili davanti a certe situazioni è molto difficile, se non impossibile.
“Per essere una presenza benefica, dobbiamo portare al capezzale del malato la nostra passione e la
nostra paura. Per poter trovare un punto di incontro con l'altro dobbiamo attingere alla nostra forza e
alla nostra impotenza, alle nostre ferite e alla nostra gioia. Tutto è chiamato a partecipare.” (ibid, p. 23)
Non aspettare. Ciò non significa essere impazienti, bensì non preoccuparsi di ciò che potrebbe
accadere nel futuro, per non perdere nulla di quello che è già disponibile, qui e ora. Se si resta
inchiodati pensando alla morte futura, propria o altrui, si perdono tanti preziosi e unici momenti di vita.
“Lasciate che la precarietà della vita insegni cosa veramente conta, in questo momento, poi fatelo.
Fatelo senza riserve. Non aspettate.”(ibid, p 23)
Impara a riposare nel pieno dell'attività. Il riposo solitamente viene inteso come uno spazio
altro dalla routine quotidiana, un momento in cui stacchiamo dal lavoro e dalle incombenze della vita di
tutti i giorni ma “quando si accompagna qualcuno che muore, a volte si deve imparare a riposare in
mezzo al caos. È un riposo che si scopre quando si porta tutta l'attenzione, senza distrazione, al
momento presente, all'attività che si svolge” (ibid, p. 24).
Coltiva una mente che non sa. Questo è uno dei punti fondamentali, e anche uno di quelli più
difficili da comprendere, spiegare e mettere in pratica. Una mente che non sa è una mente aperta e
ricettiva, non limitata. Essere aperti a tutto, non lasciarsi influenzare da idee preconcette, da aspettative
e obiettivi prestabiliti. Vivere il momento presente e farci guidare da esso. “Quando non sappiamo,
dobbiamo restare quanto più possibile aderenti all'esperienza. Dobbiamo lasciare che le nostre azioni
scaturiscano dalla situazione in cui ci troviamo.” (ibid, p. 26) Come spiega con un bel esempio Bruce
Lee (2000), parlando del concetto di vuoto nelle filosofie orientali, l'utilità di una tazza sta nella sua
cavità, nel suo essere vuota dentro. Solo grazie a questo vuoto essa può accogliere e dare forma
all'acqua che viene versata al suo interno. “In certe circostanze, la disponibilità a non sapere è la risorsa
più importante. La capacità di essere realmente di aiuto agli altri è proporzionale alla capacità di vivere
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il presente come qualcosa di sempre nuovo. Coltiva una mente che non sa.” (ibid, p. 28)
4.4 L'amore come cura
Come abbiamo visto in precedenza, la paura è un aspetto primario dell'esistenza umana, un sentimento
con cui l'uomo, nel corso della sua vita, avrà più volte a che fare. La paura condiziona profondamente il
nostro stato psicofisico, influendo anche sulla nostra percezione del dolore. Nel momento di
incamminarsi verso la propria morte la difficoltà più grande sta proprio nel venire a patti con la paura,
nel riuscire a non farsi ingabbiare da essa e nel farla evolvere in maniera positiva. Per molte persone
l'antidoto alla paura si trova nell'amore. “Throughout history, in doctrines of religion, literature, and
philosophy, fear and love have been inextricably linked. For many, love has been deemed the opposite
of fear, and fear the absence of love. While many may dispute this, it cannot be denied that the
association between the two has been powerfull.”(Murray, Wilson, 2007, mod. 4 p. 6)
Solo negli ultimi anni alcuni scienziati hanno cominciato a esplorare i collegamenti tra l'amore e
la paura, prima era un campo in cui la facevano da padroni mistici e poeti. Gli scienziati hanno creduto
di indivduare la sede dell'amore nel sistema limbico, proprio dove nasce anche la paura. E proprio come
la paura anche l'amore fa sentire i suoi effetti nel corpo attraverso il sistema nervoso e ormonale, “in
fact, it has become recognized that it is through the limbic system that most of our experiences of the
body and mind are channeled”(ibid, mod. 4 p. 8). Quindi amore inteso non come un obiettivo o uno
stato da raggiungere, ma come una forza già presente dentro di noi: “From birth to death, love is not
just the focus of human experience but also the life force of the mind, determining our moods,
stabilizing our bodily rhythms, and changing the structure of our brains. The body's physiology ensures
that relationships determine and fix our identities. Love makes us who we are, and who we can
become.” (Lewis, Amini, Lennon, 2000, p. vii)
Per molti di coloro che si trovano ad affrontare una terribile paura, come può essere quella della
morte, la capacità di amare può essere molto difficile da trovare. In queste situazioni solitamente la
paura prende il sopravvento, spazzando via tutto il resto, e il rischio che si corre è quello di non riuscire
a liberarsi da questo stato di terrore. “Similarly, when you constantly live in fear it can become the
predominant way in which any event or relationship is interpreted and experienced.”(Murray, Wilson,
2007, mod. 4 p. 9) Quando ciò accade è necessario un grande sforzo, un amore senza paura, per uscire
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da tale stato, molte volte non si riuscirà a scacciare la paura, ma solo ad arginarla, e molte altre volte
non si riuscirà a ottenere nemmeno questo, ma ciò non vuol dire che compiere questo sforzo non valga
la pena perché “if love is an effective antidote to fear, and fear is part of the primary emotional response
to dying, then perhaps we should learn more about how we can harness the power of love in our
practice” (ibid, mod. 4 p. 10).
A questo punto è bene cercare di specificare quale sia il tipo di amore funzionale all'assistenza
spirituale, poiché vi sono in realtà tante tipologie d'amore, e in particolare ai giorni nostri assistiamo a
un ampio uso e abuso di questa parola. L'amore non è un concetto astratto e slegato dall'esperienza
terrena, in quanto esso non è mai indipendente dalla persona che lo dona o che lo riceve. Per la sua
particolare natura il concetto di amore è in realtà molto difficile da delineare e definire, infatti l'amore
non sempre è piacevole, e molte volte appare illogico, irrazionale, imprevedibile. In ogni caso
recentemente l'influenza dell'amore sulla salute è stata individuata da più parti: “If I told patients to
raise their blood levels of immune globulins or killer T cells, no one would know how. But if I can
teach them to love themselves and others fully, the same change happens automatically. The truth is:
Love heals” (Siegel, 1986, p. 181)
Il tipo di amore che emerge nella pratica dell'accompagnamento ai morenti è ben diverso da
quello di senso comune. In greco antico abbiamo tre termini per indicare l'amore: eros, riferito
all'amore carnale, philia, l'amore dell'amicizia, e agape, l'amore spirituale. Dei tre quello più adatto al
contesto di cura è quello di agape, che fa riferimento a un amore non erotico che non pretende nulla in
cambio, che è privo di sé, e contiene qualcosa di altruistico, qualcosa che ci permette di prenderci cura
anche di un perfetto sconosciuto. Il concetto di agape ha molte affinità con quelli buddhisti di
compassione genuina e gentilezza amorevole e in ambito clinico con quello che è stato definito
detached engagement. Ciò che differenzia questi dagli altri tipi d'amore è la qualità dei legami che essi
sviluppano: “Il morente ha bisogno che gli si mostri amore incondizionato, libero da aspettative. Non
crediate di dover essere degli 'esperti'. Siate naturali, siate voi stessi, amici veri, e il morente sentirà che
gli siete davvero vicini, che comunicate con lui con sincerità e in assoluta uguaglianza, come un essere
umano verso un'altro essere umano”(Rinpoche, 1994, p. 169). Questo genere di amore è privo di
attaccamento e desiderio, ci rende coscienti del fatto che tutti gli esseri umani, proprio come noi,
vogliono essere amati ed essere felici. “Vorrei suggerirvi due semplici modi per esprimere l'amore che
avete dentro di voi. […] Primo, considerate la persona che vi sta di fronte come un altro voi stesso […].
Se ci riuscite, scoprirete che il vostro cuore si aprirà e che tra voi ci sarà amore. Il secondo modo,
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ancora più efficace, è mettervi risolutamente e realisticamente al suo posto. […] Se fate queste due
pratiche, scoprirete che la persona morente vuole esattamente ciò che voi volete: essere amati e
accettati. Ho anche imparato che i malati gravi desiderano essere toccati, vogliono essere trattati come
persone vive e non come infermi. […] Il corpo ha un suo linguaggio d'amore: usatelo senza paura e
scoprirete di dare conforto e consolazione.”( ibid, p. 169) Partendo dalla consapevolezza di questa
uguaglianza si sviluppa un senso di vicinanza e affinità con le altre persone, si riconosce che gli altri
amano e soffrono proprio come facciamo noi, e che, proprio come vorremmo fosse fatto per noi,
devono essere lasciati liberi di vivere le proprie esperienze a modo loro. “Those of us more with a
clinical language have even spoken of perhaps exactly the same care offered as agape love or genuine
compassion. We have called it detached engagement.”(Murray, Wilson, 2007, mod 4 p 16). Con il
termine detached engagement si intende l'abilità di rimanere separati da se stessi in modo da poter
offrire all'altro una concentrazione e una connessione totali al momento dell'incontro. “Detached
engagement allows us to respect the journey of another, to walk alongside that person for as long as
they find value in our company. But it also suggests being able to take leave of their company at a fork
in the road knowing it is indeed their own journey and their right to make it as seems best to them for
them.”(ibid, mod. 4 p. 17) Per sviluppare questa capacità bisogna innanzi tutto rispettare l'individualità
di ogni persona e credere fortemente che questa abbia in se la forza necessaria per affrontare il viaggio
finale: “When we truly believe that, we can be less inclined to be panicked by any of their reactions and
more inclined to be able to sit with them by the fireside on their journey gently tending to the wounds
that the rough road may have inflicted”(ibid, mod. 4 p. 17).
È molto importante in ambito di assistenza ai morenti fare attenzione alla qualità delle relazioni
ed essere ben consapevoli di cosa sta accadendo dentro se stessi perché “to suggest deeply emotional,
even spiritual ties, to each and every person we encounter may not be the best care that could be offered
another anyway. It can risk imposing on, or even negating, the strenghts or emerging strenghts of
exisisting relationships in the lives of ill people or it can risk setting up unreal expectations or
dependency among people at very vulnerable times in their lives”(ibid, mod. 4 p. 15).
Adottare questo approccio amorevole, oltre ad avere un effetto benefico sulla salute fisica, offre
l'opportunità di supportare la crescita e lo sviluppo della persona malata nel confronto con il dolore, la
malattia e la morte.
È dunque l'amore una parte fondamentale della cura? A molti potrà sembrare un'affermazione
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