+ All Categories
Home > Documents > L'impresa subfornitrice: redditività, produttività e divari territoriali

L'impresa subfornitrice: redditività, produttività e divari territoriali

Date post: 17-Jan-2023
Category:
Upload: uniroma3
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
38
Working Paper n° , 2007 ROMA TRE
Transcript

Working Paper n° , 2007

ROMATRE

g4/1
COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
g4/1
76
g4/1
L'IMPRESA SUBFORNITRICE: REDDITIVITÀ, PRODUTTIVITÀ E DIVARI TERRITORIALI
g4/1
g4/1
g4/1
Anna Giunta Domenico Scalera

- I “Working Papers” del Dipartimento di Economia svolgono la funzione di divulgaretempestivamente, in forma definitiva o provvisoria, i risultati di ricerche scientificheoriginali. La loro pubblicazione è soggetta all’approvazione del Comitato Scientifico.

- Per ciascuna pubblicazione vengono soddisfatti gli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L.31.8.1945, n. 660 e successive modifiche.

- Copie della presente pubblicazione possono essere richieste alla Redazione.

REDAZIONE:Dipartimento di EconomiaUniversità degli Studi Roma TreVia Silvio D'Amico, 77 - 00145 RomaTel. +39-0657114655 - Fax +39-0657114771 e-mail:[email protected]

*Dipartimento di Economia, Università degli Studi “Roma Tre” ** Università del Sannio

Comitato Scientifico:

ROMATRE

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA

g4/1
L'IMPRESA SUBFORNITRICE: REDDITIVITÀ, PRODUTTIVITÀ E DIVARI TERRITORIALI
g4/1
Anna Giunta* Domenico Scalera**
g4/1
Proff. Paolo Leon Giovanni Scarano
g4/1

Il lavoro ha per oggetto l’evoluzione del modello di divisione del lavoro fra

le imprese nell’industria italiana negli anni ’90. Utilizziamo i dati della

“Indagine sulle imprese manifatturiere” condotta periodicamente da

Capitalia, che fanno riferimento rispettivamente ai trienni 1994-97 e 1998-

2000. L’analisi econometrica mostra che nel periodo analizzato le imprese

subfornitrici hanno beneficiato di migliori performance, in termini di

maggiore produttività dei fattori, più alti salari e più elevato rendimento per

il capitale investito. Tuttavia, nel processo di crescente ricorso al mercato, il

dualismo della struttura industriale italiana si è fortemente riproposto.

Parole chiave: Divisione del lavoro; Subfornitura; Mezzogiorno d’Italia.

Classificazione JEL: L200, L220

L’impresa subfornitrice: redditività, produttività e divari territoriali∗

Anna Giunta Domenico Scalera (Università di Roma Tre) (Università del Sannio)

∗ Gli autori ringraziano la Funzione Studi del gruppo bancario Capitalia per aver gentilmente concesso l’accesso ai dati e due anonimi referee per gli utili suggerimenti. Un ringraziamento per i commenti a versioni precedenti del lavoro va ad Alessandro Arrighetti, Alfredo Del Monte, Adriano Giannola, Andrea Ginzburg, Alberto Zazzaro nonché ai partecipanti ai convegni “Capitale umano, sviluppo e occupazione nei mezzogiorni d’Europa”, tenutosi a Benevento nei giorni 2-3/12/2004; “Riforme istituzionali e mutamento strutturale in un sistema dualistico. Mercato imprese ed istituzioni”, tenutosi a Roma il 29/9/2005; “Lo sviluppo delle medie imprese in Italia. Nuove evidenze empiriche ed ipotesi interpretative”, tenutosi a Parma il 16/6/2006. Come sempre, la responsabilità di eventuali errori ricade esclusivamente sugli autori.

2

1.Introduzione Negli ultimi quindici anni, la maggiore integrazione commerciale tra i paesi si è accompagnata ad un processo di crescente frammentazione della produzione, realizzatasi con l’esternalizzazione di segmenti significativi del processo produttivo ad altre imprese, spesso localizzate oltre i confini nazionali, in paesi con costi del lavoro più bassi. L’insieme delle sequenze di fasi e di attività per la realizzazione di un bene finale è andata così organizzandosi secondo una catena del valore ad estensione globale1. Rispetto a quanto si è manifestato negli altri paesi, il ricorso alla delocalizzazione internazionale ha coinvolto l’industria italiana tardivamente, intorno alla seconda metà degli anni ’90. Ciò non sorprende dal momento che l’Italia è stato il paese, insieme al Giappone, in cui negli anni precedenti larga parte del vantaggio competitivo si è fondato proprio sulla natura “localizzata” e domestica degli scambi, in genere caratterizzati da un alto grado di autocontenimento territoriale. In questo quadro, la letteratura economica si è occupata di diverse questioni legate ai processi in atto. Alcuni autori hanno evidenziato i rapporti tra mutamenti organizzativi, integrazione verticale e sviluppo della tecnologia, in considerazione delle innovazioni nelle tecnologie della informazione e della comunicazione. Un altro approccio si è concentrato sugli effetti della maggiore apertura internazionale e dei crescenti flussi di investimenti diretti esteri sull’outsourcing e la divisione internazionale del lavoro. Altri autori, infine, hanno teso a spiegare la dinamica dell’integrazione verticale nei diversi paesi in riferimento alla evoluzione dei costi del mercato e delle relazioni contrattuali2. Il nostro lavoro ha per oggetto l’evoluzione del modello di divisione del lavoro fra le imprese nell’industria italiana negli anni ’90 ed in particolare il processo di infittimento delle relazioni di committenza e 1 Con il termine catena del valore (value chain) ci si riferisce all’insieme di attività per la produzione finale e successiva vendita di un bene. Quando la suddivisione delle attività richiede il contributo di imprese localizzate in parti differenti del mondo, la catena del valore si dice avere estensione globale. Un altro termini utilizzato di frequente è outsourcing internazionale. 2 Solo a titolo di esempio, si possono richiamare i lavori di Acemoglu et al. (2004), Grossman ed Helpman (2003) e Acemoglu et al. (2005) rispettivamente per ciascuno dei tre filoni di ricerca menzionati.

3

subfornitura che ha avuto luogo in tale periodo. Tale processo ha contribuito a rafforzare e prolungare la tendenza alla riduzione della dimensione media aziendale e del grado di integrazione verticale che si era già manifestata a partire dalla metà degli anni ’70. Gli aspetti che intendiamo trattare in maggior dettaglio riguardano la natura di questa evoluzione e l’esistenza di eventuali difformità nell’impatto delle trasformazioni in atto nel Mezzogiorno e nel resto del paese. Come vedremo, la spinta verso una più accentuata divisione del lavoro è stata certamente motivata da una necessità di adattamento alle mutate condizioni del quadro competitivo ma non per questo sempre passivamente subita dalle imprese; al contrario, essa si è accompagnata spesso ad un miglioramento della performance di produttività e redditività dell’impresa subfornitrice che è andata gradualmente perdendo il carattere di impresa marginale, spesso rivestito in passato, per assumere un tratto evoluto di partner di elevata specializzazione, flessibilità e propensione ad innovare. In secondo luogo, il nostro interesse si concentra sugli aspetti territoriali: in riferimento allo storico dualismo dell’economia italiana, intendiamo verificare se il legame virtuoso che, come vedremo, sembra emergere fra subfornitura e produttività e redditività, riguardi l’intero paese o piuttosto solo una parte di esso. Le risposte che forniamo alle domande poste si basano soprattutto sui risultati di una indagine econometrica che ha l’obiettivo di valutare l’impatto della intensità di subfornitura su alcuni indicatori di produttività e redditività dei fattori, per il complesso del paese e separatamente per il Mezzogiorno ed il resto dell’Italia. La ricerca si basa sui dati della VII ed VIII edizione della “Indagine sulle imprese manifatturiere” condotta periodicamente da Capitalia, che fanno riferimento rispettivamente ai trienni 1994-97 e 1998-2000. Il lavoro è articolato come segue. Dopo questa introduzione, la sezione 2 ripercorre l’evoluzione del modello di divisione del lavoro tra le imprese industriali italiane. La sezione 3 richiama alcuni aspetti relativi alla difformità organizzativa delle imprese meridionali che, solo con gli inizi degli anni ’90, avviano rilevanti processi di divisione del lavoro. La sezione 4 presenta l’indagine empirica ed i dati, la sezione 5 dà conto dei risultati econometrica e la sezione 6 raccoglie le principali conclusioni.

4

2. L’evoluzione della divisione del lavoro nell’industria italiana La crisi della grande impresa, che ha inizio intorno alla metà degli anni ’70, per un complesso di fattori concomitanti a fondo analizzati dalla letteratura (Traù, 1999), ha tra i suoi effetti un profondo mutamento nella struttura organizzativa delle imprese e, in particolare, un significativo ampliamento dei rapporti di scambio tra le imprese. Il fenomeno, che riguarda in misura diversa tutti i paesi industrializzati, si presenta particolarmente forte in Italia, dove si accompagna ad una marcata flessione del grado di integrazione verticale delle imprese3. A sua volta, la deverticalizzazione comporta la caduta delle dimensioni medie delle imprese manifatturiere italiane che, secondo diversi studiosi (Contini, 1988; Traù, 1999; Trento, 2003), ha origine proprio in questo periodo e procede almeno fino alla fine del secolo4. Questa tendenza, comune a tutti i paesi avanzati, è particolarmente intensa in Italia che, peraltro, già negli anni ’60 segnalava, insieme al Giappone, una dimensione media di impresa più bassa rispetto ai valori prevalenti nell’industria manifatturiera degli altri paesi. Inizialmente, la riorganizzazione del modello di divisione del lavoro si realizza soprattutto attraverso il cosiddetto “decentramento produttivo”, con cui le grandi imprese distaccano fasi di lavorazione tecnicamente scomponibili presso imprese esterne, spesso di piccole dimensioni ma localizzate prevalentemente all’interno dei confini nazionali. Questo ha una evidente conseguenza sul ruolo del

3 La seconda metà degli anni ’70 costituisce inoltre un periodo di significativa discontinuità teorica. Fino ad allora è egemone l'impresa manageriale di Chandler (1977), le economie di scala modellano la struttura industriale, il grado di integrazione verticale è alto, lo spazio per i rapporti tra le imprese è esiguo e confinato a transazioni occasionali. Con l’eccezione delle straordinarie intuizioni di Coase (1937), i contributi della teoria si muovono all’interno dell’approccio neoclassico che, in sostanza, identifica la natura dell’impresa con una funzione di produzione. Bisognerà aspettare la seconda metà degli anni ’70 perché il tema delle relazioni tra imprese cominci a suscitare l’interesse della comunità scientifica, in singolare rispondenza e sincronia con quanto va maturando, nello stesso periodo, negli assetti organizzativi delle imprese. 4 La dimensione media delle unità locali nell’industria manifatturiera passa da 10 addetti del 1971 a 8,3 nel 2001. La caduta delle dimensioni di impresa è particolarmente significativa nei settori di operatività tipici della grande impresa. Alcuni esempi: nella fabbricazione di autoveicoli si passa da 167,6 addetti nel 1971 a 77,6 del 2001, nella produzione di metalli da 59,2 del 1971 a 35 del 2001.

5

subfornitore e sui rapporti con l’impresa committente: l’impresa subfornitrice è dominata dal committente, spesso monopsonista, e la sua ragion d’essere, ossia il motivo per il quale il committente lo ammette a partecipare alla catena del valore, non è in un vantaggio in termini di produttività ma solo nella sua maggiore capacità di comprimere certi costi (in primis, i costi del lavoro) 5. Con gli anni ’80, il ricorso alla subfornitura presenta tratti caratteristici profondamente differenti da quelli prevalenti negli anni ’70. I mutamenti più significativi non riguardano la localizzazione – la divisione del lavoro tra le imprese italiane rimane perlopiù confinata al territorio nazionale almeno per tutto il decennio successivo – né la crescita quantitativa, che pure è significativa (Arrighetti, 1999; Traù 1999) . Il tratto distintivo di maggiore rilevanza è qualitativo. L’evoluzione successiva nei rapporti tra imprese è infatti governata dall’adozione delle nuove tecnologie, dall’impatto dell’automazione flessibile, dal differente peso che le economie di scala e di varietà rivestono nel dimensionare la scala operativa efficiente. Analogamente a quanto avviene nell’industria giapponese, i cui assetti organizzativi vengono assunti come paradigma di configurazioni efficienti (Mariotti, 1994), si affermano in Italia rapporti di collaborazione tra le imprese grazie ai quali si esaltano i vantaggi della divisione del lavoro. Il fenomeno del decentramento, legato ad una strategia meramente difensiva e mirato a realizzare immediate economie di costo, si riduce sensibilmente. Impresa subfornitrice non equivale più a impresa marginale, la figura del subfornitore tradizionale, captive supplier, tende a scomparire per fare spazio ad una nuova tipologia, che si fa carico di “forniture complesse”, è meno condizionata dai rischi di hold up, che si corrono quando si effettuano investimenti specifici, si tutela attraverso le relazioni ripetute e le soluzioni cooperative, la forza della reputazione, il restringimento delle transazioni ad un insieme selezionato di giocatori6.

5 Modelli di decentramento simili, con piccole imprese captive suppliers della grande impresa, sono presenti anche in altri paesi, ad esempio la Francia (Sallez, 1977) e il Giappone (Kimura, 2002). 6 Come è noto, grazie ai contributi di Klein et al. (1978) e successivamente di Grossman e Hart (1986) e Hart e Moore (1990), gli investimenti specifici ed i problemi di hold-up che ne conseguono sono stati, negli ultimi venti anni, la categoria analitica “più robusta” per spiegare la convenienza ad internalizzare una transazione.

6

Con la seconda metà degli anni ‘90, il contesto di operatività delle imprese italiane si trasforma nuovamente, spingendo le imprese a modificare sia gli assetti proprietari che le modalità organizzative. I fattori di mutamento riguardano, in primo luogo, la maggiore integrazione commerciale dei mercati e la conseguente crescente pressione concorrenziale, prima di tutto da parte dei paesi asiatici, che colpisce severamente la prevalente specializzazione nel “made in Italy”; in secondo luogo, la nuova e rigida disciplina del cambio, imposta, a partire dal 1995, in vista dell’adesione all’Unione Monetaria che priva le imprese italiane, perlopiù esportatrici sui mercati europei, di una leva potente come la svalutazione. La sofferenza delle imprese si traduce in un progressivo calo della produttività e nella perdita di quote di mercato estero7. Come strategia reattiva, si mettono in moto imponenti forze centrifughe, sospinte dai differenziali salariali e agevolate dall’utilizzo delle nuove tecnologie che attenuano la “frizione dello spazio”. Al contrario di quanto avveniva nella seconda metà degli anni ’70, la delocalizzazione della produzione si sposta oltre i confini nazionali, dove la ricerca di costi del lavoro più bassi ha maggiori probabilità di successo. Questo processo trasmette un nuovo impulso alle relazioni tra imprese sia con riferimento alla riorganizzazione spaziale delle stesse che alla struttura di governance che caratterizza la filiera produttiva dei diversi beni. Come documentato ormai da una mole corposa di studi, in questi anni le reti internazionali di produzione si diffondono rapidamente.8. Il fenomeno assume inoltre tutte le caratteristiche di un mutamento strutturale e destinato a perdurare perché produce un effetto di “ispessimento del mercato”: la crescente integrazione tra le economie sembra favorire la nascita e la crescita di più produttori specializzati

7Dal 1994 al 2005, la crescita media della produttività del lavoro è pari allo 0,5% all’anno. La quota di prodotti italiani sul mercato mondiale passa dal 4.5% della seconda metà degli anni ’90 al 2.9% del 2004 . 8 Il fenomeno è tuttavia di difficile misurazione. Si possono utilizzare i dati sul commercio internazionale, dal momento che la frammentazione provoca un incremento nello scambio di beni intermedi. Si può, in alternativa, fare ricorso alle tabelle input-output per calcolare la quota di input importati sul totale degli input utilizzati nella produzione . Un’altra possibilità è l’analisi del traffico di perfezionamento passivo. A livello di dati micro, sono necessarie le informazioni sulla percentuale del fatturato che deriva da lavorazioni in subfornitura, sul portafoglio dei committenti e sulla localizzazione geografica degli stessi.

7

con il risultato di abbassare sensibilmente i costi di uso del mercato, in particolare quella categoria di costi sopportati dalle imprese che effettuano investimenti specifici. Secondo McLaren (2000), la presenza di più opzioni di scelta offerte dal mercato globale, riducendo i rischi di hold-up, renderebbe le relazioni tra le imprese la soluzione più efficiente, con la conseguenza che i sistemi di approvvigionamento dei singoli paesi tenderebbero a convergere via via che aumenta l’integrazione commerciale. In questa fase di globalizzazione dei mercati dei beni intermedi, la peculiarità e l’interesse del caso italiano originano da una molteplicità di fattori: in primo luogo, dal fatto che il coinvolgimento al processo di frammentazione su scala internazionale della produzione è relativamente recente; secondariamente, dal fatto che la spinta alla delocalizzazione assume una forza tale da investire persino le imprese distrettuali, vale a dire quegli agenti che avevano puntato, più di ogni altra tipologia di impresa, sul radicamento e autocontenimento territoriale della produzione e dunque sulla natura domestica delle relazioni come fonte di vantaggio competitivo per l’affermazione sui mercati nazionali e internazionali9; in terzo luogo, dallo storico dualismo dell’economia italiana, e in particolare dal divario di organizzazione e di efficienza dell’industria meridionale rispetto a quella del Centro-Nord. Questo ultimo aspetto è oggetto della sezione successiva. 3. L’evoluzione della divisione del lavoro nel Mezzogiorno Il processo di crescente approfondimento nelle relazioni tra le imprese, di cui abbiamo discusso nella sezione precedente, presenta tuttavia significative differenze territoriali. Alla metà degli anni ’70, nel triangolo industriale (Milano-Torino-Genova) la forma prevalente delle relazioni è di tipo gerarchico, con mercati organizzati dalle grandi imprese (Enrietti, 1983 e 1987). Nella Terza Italia (le regioni del Nord-Est e del Centro) dei distretti industriali si sviluppano, invece, modelli di efficienza collettiva (Schmitz, 1995), dove il blending di cooperazione e competizione tra le imprese consente di

9 E’ parimenti rilevante il fatto che il fenomeno della delocalizzazione, principalmente verso i paesi di nuova industrializzazione, interessi anche le imprese giapponesi, negli anni precedenti “territorialmente” chiuse (Hemmert, 1999).

8

conseguire obiettivi di efficienza statica e dinamica per lungo tempo, almeno fino a quando il deprezzamento della lira garantisce una facile penetrazione dei mercati internazionali (Becattini, 1979 e 1987; Bellandi 1982; Brusco e Paba, 1997; Dei Ottati, 1995). Ad un Centro-Nord-Est, dotato di un tessuto industriale “spesso”, si contrappone invece un Mezzogiorno dove, parafrasando Coase, “tutto si svolge in un’unica impresa”. Infatti, le imprese meridionali presentano, in media, un più altro grado di integrazione verticale, un minore livello di specializzazione derivante da scarsi rapporti di interazione reciproca, sia contrattuali che di mercato. Si rileva inoltre che le imprese meridionali anche quando operano in aree a forte specializzazione produttiva (un caso esemplare al riguardo è l’industria delle calzature pugliese, ISVE, 1993) e, dunque, potenzialmente facilitate negli scambi dalla contiguità geografica, optano per una forma organizzativa ad alta integrazione verticale, precludendosi i vantaggi derivanti dalla specializzazione del lavoro. Questo peculiare assetto organizzativo viene stigmatizzato e ritenuto (Del Monte, 1983; Del Monte e Martinelli, 1988) uno dei fattori che più incidono, negli anni ’80, sui significativi differenziali di produttività del lavoro e del capitale esistenti tra le imprese del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno e che maggiormente spiegano il risultato carente del valore aggiunto, frenato dagli elevati costi di uso del mercato, da una “difficoltà ambientale” tipica di un’area arretrata10. Secondo questo filone interpretativo, dunque, alla radice della dinamica sfavorevole della produttività e della performance ci sarebbe una profonda difformità organizzativa dell’impresa meridionale: “le imprese combinano i fattori seguendo logiche organizzative significativamente diverse al Nord e al Sud senza che per ciò si possa dire che l’impresa meridionale violi necessariamente il criterio di efficienza” (Del Monte e Giannola, 1991, 5)11. Tuttavia, a partire dagli anni ’90, si evidenziano segnali significativi di mutamento negli assetti organizzativi delle imprese meridionali. Infatti, similmente a quanto era già accaduto nel resto del Paese, le imprese meridionali avviano rilevanti processi di divisione del lavoro, 10 Khanna e Palepu (2000), in riferimento all’esperienza di un gruppo di paesi emergenti, mostrano che la maggiore integrazione verticale rispetto a realtà più sviluppate è legata soprattutto al costo delle relazioni di mercato. 11 Si rimanda a Sarno, 2002, per una stima dell’influenza delle “variabili ambientali” sui differenziali di produttività tra le imprese del Centro-Nord e quelle meridionali.

9

che conducono, nel corso di un decennio, ad una lenta convergenza dei livelli di integrazione e della intensità del ricorso alla subfornitura. L’indicatore di integrazione verticale relativa delle imprese meridionali (fatto pari a 100 il valore del Centro-Nord), calcolato sul campione di imprese rilevato da Capitalia (1998 e 2001), diminuisce da 101.63 (1994) a 96.74 (2000). Allo stesso modo, i valori del rapporto tra subfornitura e fatturato, calcolato su dati della stessa fonte, tendono ad allinearsi, e la differenza con le imprese del Centro-Nord passa dai 5.2 punti percentuali del triennio 1995-97 ai 4.7 punti del triennio 1998-2000. Su un versante più qualitativo, diversi casi di studio testimoniano del crescente utilizzo del mercato, che implica soprattutto maggiore ricorso al “mercato locale”, con il conseguente e auspicato ispessimento del tessuto produttivo legato all’infittirsi della trama relazionale. Il maggiore utilizzo del mercato si accompagna ad un miglioramento della redditività della impresa meridionale e a un parziale recupero di produttività (Sarno, 2002).

Secondo alcuni autori (Cersosimo e Donzelli, 2000; Viesti, 2000), questa evoluzione testimonia la tendenza a replicare nel Mezzogiorno il modello distrettuale della Terza Italia: in molte aree meridionali12 vengono così individuati “distretti industriali, protodistretti, aree-sistema e sistemi produttivi locali”. In aggiunta, altri studiosi sottolineano il dispiegarsi di meccanismi di induzione messi in moto dalle grandi imprese localizzate nelle regioni meridionali. La capacità di queste di “fare sistema” potrebbe avere contribuito, seppure con ritardo, all’uniformarsi del modello di divisione del lavoro rispetto a quello delle regioni centro-settentrionali. Le ricerche empiriche sul tema documentano di diverse aree geografiche in cui la divisione del lavoro tra le imprese appare guidata dalla “mano visibile” della grande impresa e sensibilmente ancorata al territorio (Giunta, 2002). Per citare solo alcuni tra i casi più noti: nell’industria ad alta tecnologia il polo aeronautico campano e quello microelettronico di Catania, entrambi dominati dalla presenza di imprese pubbliche, come l’Alenia e la Stmicroelectronics; nell’industria ad economie di scala, la Fiat a Melfi; nell’industria leggera dell’arredamento, il polo Natuzzi in provincia di Matera. Infine, secondo un’interpretazione meno

12 Un ulteriore sebbene indiretto indicatore della crescente diffusione della divisione del lavoro tra le imprese nel Mezzogiorno è costituito dall’incremento del numero dei distretti che erano pari a 15 nel 1991 e diventano 26 nel 2001 (ISTAT, 2005)

10

ottimistica (Giannola, 2001; Scalera, 2001) la frammentazione della produzione avviatasi nel Mezzogiorno negli anni ’90 può essere almeno in parte spiegata con una maggiore integrazione dell’industria meridionale con il resto del Paese e dell’Europa, funzionale ai processi di decentramento di alcune fasi dell’attività produttiva ad aree periferiche con costi del lavoro più contenuti. Più in generale, si può ritenere che le profonde trasformazioni del contesto di operatività abbiano prodotto diverse rilevanti conseguenze sulle imprese subfornitrici meridionali. In primo luogo, l’inasprimento delle condizioni competitive ha comportato una severa selezione: l’apertura del mercato dei beni intermedi a concorrenti che beneficiano di costi del lavoro sensibilmente più bassi ha estromesso dal mercato gli operatori più deboli oppure li ha indotti a ridimensionare significativamente la scala di attività13. In alcuni casi può essersi sviluppato invece un effetto di upgrading (Humphrey e Schmitz, 2000), grazie al quale l’impresa subfornitrice, sulla spinta delle nuove sollecitazioni, potrebbe essersi posizionata su livelli più elevati della catena del valore o modificando la sua posizione relativa (per esempio da produttore di bene finale in un segmento medio di mercato diventa subfornitore di un produttore collocato in un segmento più alto, come fine o di lusso) o spostandosi su segmenti a più alta redditività, grazie ad un investimento in funzioni aziendali a più elevato valore aggiunto14. Questo esito virtuoso pare essersi prodotto in alcuni casi nelle regioni centro-settentrionali, per esempio per le imprese calzaturiere nel Brenta (Amighini e Rabellotti, 2003) e nelle Marche (Corò e Grandinetti, 1999). Non esiste evidenza in tal senso per le imprese meridionali. Considerando la rilevanza dei mutamenti in corso, ci si chiede quale sia attualmente “la natura della subfornitura” in Italia e nelle regioni meridionali? L’impresa subfornitrice è in qualche misura ancora marginale o è piuttosto una componente essenziale della catena del valore, nella quale è inserita in virtù della capacità di coprire segmenti del processo produttivo in condizioni di elevata produttività? L’obiettivo principale delle successive sezioni è quello di dare una risposta a queste domande, attraverso l’analisi della produttività e

13 Questo effetto di cleansing è stato evidenziato per esempio da Giannola (2001). 14 Humphrey e Schmitz (2000) distinguono quattro tipologie di upgrading: di prodotto, di processo, di funzioni e di settore.

11

della redditività relative delle imprese subfornitrici italiane e, in particolare, meridionali. 4. L’indagine empirica. I dati. L’indagine empirica svolta in questa sezione si concentra sulla seconda metà degli anni ’90 per analizzare alcuni aspetti dell’evoluzione delle relazioni di subfornitura, con particolare riferimento alle peculiarità delle imprese meridionali. Essa ha due obiettivi prioritari. In primo luogo, si propone di valutare se e quanto nell’industria italiana le relazioni di committenza-subfornitura si siano nel periodo considerato effettivamente intensificate e, soprattutto, se tale tendenza abbia condotto ad (o quanto meno sia stato accompagnato da) un miglioramento della performance aziendale, in particolare per quanto riguarda produttività e redditività dei fattori della produzione. In secondo luogo, concentrandoci sugli aspetti territoriali, la ricerca intende verificare se il legame virtuoso che, come vedremo, sembra emergere fra subfornitura e produttività e redditività, riguardi l’intero paese o piuttosto solo una parte di esso. Prima di commentare i risultati dell’indagine econometrica, di cui si dà conto nella successiva sezione 5, illustriamo nel seguito alcune caratteristiche rilevanti delle imprese oggetto dell’analisi. Il nostro studio è basato su un insieme di dati, relativi ad un numero piuttosto elevato di variabili, tratti dalla VII e VIII edizione della “Indagine sulle imprese manifatturiere” condotta periodicamente da Capitalia15, che fanno riferimento rispettivamente ai trienni 1994-97 e 1998-2000. Delle complessive 9177 osservazioni disponibili, 4497 attengono alla VII edizione e 4680 alla VIII edizione; 1299 imprese sono censite in entrambe le rilevazioni. Una sintetica descrizione delle variabili considerate, insieme alle principali statistiche descrittive, è contenuta nella tabella 1.

15 In particolare, le statistiche descrittive riportate nelle tabelle 1, 2, 3 e 4 sono nostre elaborazioni su dati Capitalia (1998) e (2001), mentre le tabelle 5 e 6 illustrano i risultati di stime econometriche realizzate a partire sempre da dati della stessa fonte. Quando necessario, i dati sono stati resi comparabili deflazionando opportunamente quelli relativi alla rilevazione più recente.

12

Tabella 1 Le variabili considerate Descrizione Obs Mean Max Min SD ADD Numero addetti 9163 103.85 12630 11 369.18 ADVA Valore aggiunto* 7690 8.92 1674.53 0 38.70

CONS

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa dichiara di far parte di un consorzio

9157 0.10 1 0 0.30

EXPO

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa dichiara di esportare

9134 0.69 1 0 0.46

FATT Valore del fatturato* 9134 41.30 8645.71 0 221.30

FINA

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa dichiara di aver utilizzato strumenti finanziari innovativi

9060 0.04 1 0 0.20

HUMAN

Quota lavoratori con istruzione superiore alla scuola dell’obbligo

8149 0.40 1 0 0.26

ICT

Valore spesa per investimenti in informatica e comunicazioni*

6715 0.48 277.00 0 4.41

KAP Valore capitale investito* 7721 32.06 6202.79 0.32 166.29

PAV1

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa appartiene ad un settore Pavitt 1

9167 0.47 1 0 0.50

PAV3-4

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa appartiene ad un settore Pavitt 3 oppure Pavitt 4

9167 0.30 1 0 0.46

QSUB Quota del fatturato 9107 0.48 1 0 0.47

13

realizzato su subfornitura

SUBSUD

Dicotomica. Uguale a QSUB per le imprese meridionali e a 0 altrimenti

9107 0.06 1 0 0.23

RED

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa dichiara di aver realizzato spese per ricerca e sviluppo

9093 0.35 1 0 0.48

ROI Valore dell’indice di bilancio ROI* 7721 0.20 55.17 0 7.14

SUD

Dicotomica. Vale 1 se l’impresa è in una regione meridionale

9177 0.13 1 0 0.34

TIME Dicotomica. Vale 1 per le osservazioni della VIII Indagine

9177 0.51 1 0 0.50

WAGE Retribuzione media corrisposta dall’impresa**

7713 38.74 146.36 0 30.23

Il numero di osservazioni utilizzate per ciascuna stima varia in ragione del diverso numero di risposte valide fornite dalle imprese a ciascuna domanda posta nel questionario. Con un asterisco si indicano valori espressi in miliardi di lire; con due asterischi valori espressi in milioni di lire.

La distribuzione delle imprese secondo la localizzazione, la dimensione e la caratteristica di essere subfornitore e/o committente16 è mostrata, per ciascuna delle due rilevazioni, nella tabella 2. Ad ogni casella della tabella corrisponde una coppia di dati che, in riferimento rispettivamente alla VII e alla VIII edizione dell’Indagine Capitalia, riportano il numero di imprese in possesso della coppia di caratteristiche indicata nella riga e nella colonna corrispondenti. Ad esempio, il numero di grandi imprese localizzate nel Centro-Nord è riportato nella casella corrispondente alla terza riga e prima colonna,

16 Definiamo un’impresa subfornitrice e/o committente quando una quota sufficientemente elevata rispettivamente del fatturato e/o degli acquisti è realizzata su commessa, come lavorazioni in conto terzi (vedi anche nota 17). Nelle tabelle 2 e 4 consideriamo come possibili soglie il 10% e il 50%.

14

dove si può vedere che queste erano 137 nella VII Indagine (1995-97) e 157 nella VIII Indagine (1998-00). Di conseguenza, le caselle poste sulla diagonale principale riportano il numero totale di imprese che presentano una certa caratteristica. Nelle ultime due righe della tabella si leggono solo i dati relativi al periodo 1995-97 dal momento che la VIII Indagine non contiene purtroppo il quesito relativo alla committenza. Questa circostanza peraltro ci costringe a rinunciare ad un esame più dettagliato del ruolo svolto dalla committenza e a limitare la successiva analisi econometrica alla sola subfornitura. Tabella 2

Distribuzione territoriale e dimensionale delle imprese

Centro-Nord

Mezzogiorno

Gra-ndi

Medie

Picco le

Sub fornitrici

Com mittenti

Centro-Nord 3925 4018

Mezzogiorno – –

572 662

Grandi (più 500 add.)

137 157

17 17

154 174

Medie (101-500 add.)

497 537

74 88

– –

571 625

Piccole (fino 100 add.)

3286 3318

480 555

– –

– –

3766 3873

Subfornitrici (almeno 50%)

1131 2846

129 424

46 53

182 265

1032 2952

1260 3270

Subfornitrici (almeno 10%)

1412 3068

163 468

54 69

202 293

1319 3174

1575 3536

Committenti (almeno 50%)

567 –

88 –

20 –

97 –

538 –

344 –

655 –

Committenti (almeno 10%)

1246 –

143 –

47 –

184 –

1158 –

751 –

1389

Dall’esame della tabella 2 è possibile evincere alcune rilevanti informazioni. Anzitutto, si nota che il campione è composto in misura prevalente (intorno all’83%) da imprese di piccola e media

15

dimensione (da 11 a 100 addetti), quindi da imprese medio-grandi (101-500 addetti) per una quota che oscilla dal 12,7% (1995-97) al 13,4% (1998-2000) e infine per meno del 4% da grandi imprese. Le imprese risultano essere localizzate per circa l’87% nelle regioni del Centro-Nord. Nella VII Indagine, le grandi imprese rappresentano il 3,5% del totale al Centro-Nord e il 3% nel Mezzogiorno; le medie sono rispettivamente il 12,7% del totale nel Centro-Nord e il 12,9% nel Mezzogiorno; nella VIII Indagine le grandi salgono al 3,9% del totale al Centro-Nord e scendono al 2,6% nel Sud, mentre le medie sono al 13,4% nel Centro-Nord e al 13,3% nel Mezzogiorno. In secondo luogo, per quanto riguardo la distribuzione dei caratteri della subfornitura e della committenza tra le imprese italiane, la tabella 2 evidenzia che le imprese subfornitrici risultano essere di piccola o media dimensione nell’88% dei casi (sia considerando la soglia del 50% che del 10% delle vendite su commessa), medio-grandi per una quota del 10% e grandi per il restante 2%. Esse sono localizzate nel Centro-Nord per il 90% dei casi nella VII Indagine e per l’87% dei casi nell’VIII Indagine. La distribuzione dimensionale e territoriale delle imprese committenti è abbastanza simile: sono di piccola o media dimensione nell’82% dei casi (83% se la soglia delle vendite su commessa è del 10%) e di dimensione medio-grande nel 15% (13%) dei casi; per quanto riguarda la localizzazione, l’87% (90%) di esse si trova nelle regioni centro-settentrionali. Le imprese centro-settentrionali, almeno nella VII Indagine, risultano più propense ad essere subfornitrici o committenti rispetto alle imprese localizzate nel Mezzogiorno; nella VIII Indagine, per la quale abbiamo dati solo sulla subfornitura, questa differenza risulta più sfumata. In terzo luogo, il confronto fra i dati relativi alle due indagini permette di apprezzare la rapida evoluzione del fenomeno subfornitura nell’arco del periodo considerato. In effetti, il confronto dei dati della VII ed VIII edizione dell’Indagine Capitalia rivela che la quota di imprese che definiamo subfornitrici è marcatamente aumentata, passando dal 29% (oppure dal 36%, se si considerano subfornitrici le imprese con almeno il 10% delle vendite su commessa) al 71% (76%) del totale nel Centro-Nord e dal 23% (28%) al 64% (71%) nel Mezzogiorno17. Dal punto di vista dimensionale, l’evoluzione 17 Un incremento così forte potrebbe in qualche parte essere dovuto ad un problema di sample selection. Non riteniamo invece verosimile che le imprese abbiano

16

riguarda soprattutto il sottoinsieme delle piccole imprese (fino a 100 addetti), nel quale le subfornitrici passano dal 27% al 76% del totale; la quota di medie imprese subfornitrici aumenta dal 32% al 42% mentre quella delle grandi imprese (più di 500 addetti) rimane sostanzialmente inalterata intorno al 30%. A verifica della tendenza descritta, la tabella 3 riporta la dinamica di due indicatori tipici dell’integrazione verticale in riferimento allo stesso arco temporale. Le prime tre colonne riportano l’andamento dei valori medi del rapporto valore aggiunto/fatturato, il quale declina sia nel Centro-Nord che, più sensibilmente, nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda il rapporto subfornitura/fatturato, le ultime tre colonne della tabella evidenziano forti incrementi, più accentuati nelle regioni meridionali. Nel complesso, i dati sembrano mostrare per la seconda metà degli anni ’90 un intenso processo di deverticalizzazione, che riguarda soprattutto le piccole imprese ed è diffuso su tutto il territorio nazionale. A conferma di quanto evidenziato in precedenza, anche nelle imprese del Mezzogiorno i modelli organizzativi sembrano quindi tendenzialmente uniformarsi a quelli che si affermano nelle altre regioni italiane. Tabella 3 Indicatori di ricorso al mercato per macro-aree geografiche, anni diversi

Valore agg. / Fatturato Subfornitura / Fatturato

1994 1997 2000 1995-97 1998-00 1995-00

Centro-Nord 30.7 29.2 27.6 28.7 68.2 48.7

Mezzogiorno 31.2 30.5 26.7 22.5 63.4 43.3

Italia 30.8 29.3 27.5 27.9 67.3 48.0

attribuito, tra le due rilevazioni, un significato diverso al quesito sulla subfornitura solo perché nella VII Indagine si parla di “fatturato in subfornitura (conto terzi – vendite su commessa)” e nella VIII di “vendite di beni prodotti su commessa”. In ogni caso, se, come pare sensato, si interpretasse la prima dicitura come maggiormente comprensiva, il dato relativo al periodo 1998-2000 sarebbe sottovalutato (e non sopravvalutato).

17

L’analisi descrittiva può essere completata esaminando le informazioni fornite dalla tabella 4. Le prime tre colonne riportano la distribuzione percentuale delle imprese per settori alla Pavitt18, (1984) evidenziando la specializzazione relativa del Mezzogiorno nei settori tradizionali e quella del Centro-Nord nei settori specializzati e ad elevata tecnologia. Da un punto di vista dimensionale, sono le medie imprese a risultare relativamente più presenti nei settori specializzati e ad elevata tecnologia. Le imprese subfornitrici operano prevalentemente nei settori tradizionali. Le ultime quattro colonne della tabella 4 mostrano la quota di imprese che dichiarano di far parte di un consorzio, di aver effettuato spese per attività di ricerca e sviluppo, di aver esportato almeno parte del prodotto e di aver fatto ricorso a strumenti finanziari innovativi. Rispetto a queste variabili, si delineano marcate differenze fra imprese operanti nel Centro-Nord e nel Sud del Paese. Queste ultime si mostrano meno propense all’esportazione e alla ricerca e relativamente più inclini a consorziarsi. Anche per quanto riguarda la classe dimensionale, emergono le consuete differenze: le piccole imprese appaiono più orientate a partecipare a consorzi mentre le grandi effettuano un ammontare più elevato di spese in ricerca, esportano di più e utilizzano più intensamente strumenti finanziari innovativi. Nel complesso, il profilo delle imprese subfornitrici sembra collocarsi in una posizione intermedia fra quelli della piccola e della grande impresa e, allo stesso modo, fra quelli delle imprese meridionali e centro-settentrionali, con la sola peculiare caratteristica di un modesto livello di esportazioni. La scarsa presenza delle imprese subfornitrici sui mercati esteri è in parte dovuta al fatto che in molte industrie (aeronautica, automobile, elettronica), queste ultime operano piuttosto come “esportatrici indirette” in quanto alimentano “utilizzatori a valle”. Questo risultato è coerente con quanto prima argomentato e con l’ evidenza recente secondo la quale. nell’ultimo decennio. le aree di mercato della subfornitura sono rimaste prevalentemente nazionali (Subfor, annate varie, stima la quota di fatturato relativa all’estero ancora inferiore al 7%).

18 Come è noto, la tassonomia di Pavitt include nel settore 1 le industrie tradizionali, nel settore 2 le industrie ad economia di scala (scale intensiv)e, nel settore 3 le industrie specializzate (specialised suppliers) e nel settore 4 le industrie cioè ad elevato contenuto tecnologico (science based).

18

Tabella 4 Caratteristiche delle imprese

Settori Pavitt 1

Settori Pavitt 2

Settori Pavitt 3 e 4

Consorzi R&D Export Innova_ zione fin.ria

Centro-Nord 45.4 22.7 31.9 9.5 37.1 72.0 3.8 Mezzogiorno 57.9 23.7 18.4 14.0 25.0 52.4 5.4 Grandi 46.3 19.6 34.1 10.1 41.6 72.0 7.9 Medie 41.0 19.1 39.9 9.4 36.0 68.5 7.0 Piccole 48.2 23.4 28.4 10.2 35.2 70.5 3.4 Subfornitrici (50%) 47.8 21.2 31.0 9.2 33.4 63.3 3.6

Subfornitrici (10%) 47.9 21.4 30.7 9.7 34.4 64.7 4.3

Totale 47.1 22.8 30.1 10.1 35.5 69.4 4.0 5. L’indagine empirica. I risultati dell’analisi econometrica. L’analisi econometrica consiste essenzialmente nella stima di due gruppi di quattro equazioni del tipo:

itj

jitjitit uxQSUBy ∑ +++= βγβ 10 (1)

e it

jjitjitititit uxSUBSUDSUDQSUBy ∑ +++++= βγγγβ 3210 (2)

dove i è l’impresa, t=1,2 la rilevazione, è una variabile rappresentativa della produttività e redditività dei fattori (vengono usate di volta in volta il valore aggiunto per addetto ADVA/ADD, il valore aggiunto per unità di capitale ADVA/KAP, il salario WAGE e l’indicatore di bilancio ROI) e le

y

x sono un gruppo di variabili esplicative di controllo, comuni a tutte le regressioni: fatturato FAT, rapporto capitale per addetto INTKAP, rapporto valore aggiunto su fatturato ADVA/FAT, capitale umano HUMAN, settore Pavitt PAV1, partecipazione a consorzi CONS e rilevazione TIME. Le variabili esplicative di specifico interesse sono: nelle equazioni (1) la sola QSUB, ossia la quota di fatturato realizzato dall’impresa su commessa; nelle equazioni (2) la stessa QSUB più le dicotomiche SUD (una dummy additiva, che assume valore 1 se l’impresa è localizzata nelle regioni meridionali) e SUBSUD≡QSUB×SUD, una

19

dummy moltiplicativa, introdotta allo scopo di verificare l’ipotesi che la relazione fra subfornitura ed indicatori di performance sia diversa nelle due aree territoriali. La definizione esatta delle variabili è contenuta nella tabella 1. La dimensione aziendale è rappresentata dal fatturato. Il rapporto capitale per addetto viene usato come misura dell’intensità di capitale, in modo da tener conto dell’eterogeneità delle tecniche produttive. Il grado di integrazione verticale delle imprese è approssimato dal rapporto fra valore aggiunto e fatturato. Vengono inoltre considerate le possibili differenze nell’impiego di capitale umano e l’appartenenza a diversi settori produttivi. La partecipazione a consorzi ha lo scopo di approssimare l’attitudine dell’impresa alle relazioni interaziendali e infine si controlla per i diversi periodi di rilevazione (1995-97 ovvero 1998-00) cui l’osservazione si riferisce. Per quanto riguarda la scelta del metodo di stima, vi sono almeno due problemi che occorre preliminarmente affrontare. In primo luogo, va sottolineato che si è preferito trattare i dati come un pool piuttosto che come un panel, nonostante la presenza nel campione di imprese per le quali sono disponibili due osservazioni. Ciò per diversi motivi: anzitutto, il numero delle imprese con due osservazioni è di poco superiore al 25% dei casi, il che avrebbe imposto alternativamente l’utilizzo di un panel molto sbilanciato, con un vantaggio informativo rispetto a dati pooled presumibilmente assai modesto, oppure l’eliminazione di un grande numero di osservazioni e della quasi totalità delle osservazioni riguardanti le imprese meridionali. In secondo luogo, l’adozione di un panel avrebbe escluso dall’analisi (almeno nel caso di una specificazione ad effetti fissi) le numerose dicotomiche non variabili nel tempo che consideriamo e che, come vedremo, in molti casi hanno un notevole potere esplicativo. Il terzo motivo è che il ridottissimo numero di osservazioni (al massimo due) relative ad ogni impresa non avrebbe comunque consentito una stima con coefficienti random, che poteva essere particolarmente rilevante per rispondere al quesito di fondo in merito alla omogeneità della relazione tra subfornitura e produttività-redditività nelle imprese meridionali e centro-settentrionali. Il secondo problema concerne la possibile endogenità della variabile QSUB. È infatti del tutto evidente che, così come la subfornitura può essere considerata una possibile determinante di produttività e redditività, queste ultime a loro volta possano concorrere a determinare le scelte delle imprese in merito alla struttura

20

organizzativa e all’intensità di subfornitura19. Per questo motivo, dopo la presentazione delle stime OLS, che, come è noto, nel caso di endogenità sono affette da inconsistenza, abbiamo proceduto a stimare le equazioni (1) e (2) con il metodo GMM, utilizzando come strumenti altre variabili rilevate nell’indagine Capitalia. In particolare, le variabili strumentali utilizzate in aggiunta alle altre esplicative (tranne ovviamente QSUB) sono20: il rapporto fra investimenti in tecnologie dell’informazione e comunicazione e stock di capitale ICT/KAP, una proxy per l’innovazione finanziaria FINA, una per l’attitudine ad esportare EXPO ed una per le spese in ricerca e sviluppo RED. L’insieme di strumenti impiegato nelle stime presentate nella tabella 6 si segnala rispetto ad altri testati perché permette nella maggior parte dei casi di non respingere l’ipotesi di validità dei vincoli di sovraidentificazione. La validità degli strumenti utilizzati viene anche confermata regredendo la variabile sospettata di endogenità QSUB sugli strumenti (comprese le altre variabili esplicative) e verificando la significatività statistica della dipendenza21. Infine, il test Wu-Hausman permette quasi sempre di respingere ad un elevato livello di significatività l’ipotesi di assenza di endogenità della variabile QSUB, confermando la preferibilità delle stime GMM rispetto a quelle OLS. I risultati dell’indagine econometrica sono riassunti nelle tabelle 5 e 6, nelle quali, per ciascuna variabile dipendente, sono riportate due stime, relative rispettivamente alle equazioni (1) e (2). Nella tabella 5, che presenta le stime OLS22, il coefficiente di determinazione R2 mostri valori piuttosto elevati (con l’eccezione delle regressioni relative al ROI); il test RESET e la statistica Jarque-Bera segnalano però possibili problemi di specificazione e di non linearità dei residui. Rispetto a tali stime, sono stati eseguito alcuni controlli di robustezza. In primo luogo, come proxy della dimensione aziendale, in alternativa 19 Gli studi di Görg e Hanley (2004) e Deardorff e Djankov (2000) hanno affrontato esplicitamente il problema del “verso” del nesso di causalità fra produttività (o redditività) ed attitudine delle imprese ad essere committenti e subfornitrici. Una tassonomia della letteratura empirica sulla base dell’utilizzo delle variabili come dipendenti o esplicative è contenuta in Görg e Hanley (2004). 20 La natura dei dati non ha consentito l’usuale ricorso alle variabili esplicative ritardate come possibili strumenti. 21 Questo metodo è stato recentemente suggerito da Zivot e Wang (2006). 22 La possibile presenza di eteroschedasticità ha indotto a fare uso della correzione suggerita da White (1980). Va inoltre segnalato che in tutte le stime riportate si è adoperata la trasformazione logaritmica delle variabili dipendenti e delle esplicative FAT e ADVA/FAT.

21

al fatturato, si è utilizzato il (logaritmo del) numero di addetti. In questo caso, la significatività della specifica variabile esplicativa si riduce senza che però ciò modifichi in maniera rilevante il legame tra subfornitura e produttività o redditività. Inoltre, le stime sono state ripetute eliminando la variabile CONS (che risulta non significativa in due delle otto regressioni) e quindi a turno una delle altre variabili di controllo, senza avere mai rilevanti modifiche nelle stime dei coefficienti di QSUB, SUD e SUBSUD. Anche con l’utilizzo del metodo dei momenti generalizzato GMM, giustificato dalla necessità di tenere conto dei problemi di endogenità e di non normalità dei residui di cui si è detto, i risultati dell’indagine, riportati sinteticamente nella tabella 6, non si modificano in maniera apprezzabile. Controlli di robustezza analoghi a quelli fatti per le regressioni OLS mostrano una sostanziale stabilità nelle stime dei coefficienti di QSUB, SUD e SUBSUD.

Tabella 5

Produttività e redditività delle imprese subfornitrici. Stime OLS.

ADVA/ADD ADVA/KAP WAGE ROI

QSUB 0.0199** (0.0093)

0.0205*** (0.0102)

0.0821*** (0.0133)

0.0766*** (0.0131)

0.0245** (0.0074)

0.0245*** (0.0073)

0.2083*** (0.0336)

0.1929*** (0.0348)

SUBSUD – -0.0727** (0.0275) – -0.0436***

(0.0130) – -0.0598*** (0.0216) – -0.0493*

(0.0281)

SUD – -0.1829*** (0.0180) – -0.2256***

(0.0237) – -0.1451*** (0.0137) – -0.4847***

(0.0586)

FAT 0.1263*** (0.0061)

0.1200*** (0.0061)

0.0478*** (0.0110)

0.0414*** (0.0109)

0.0866*** (0.0031)

0.0816*** (0.0031)

-0.1505*** (0.0148)

-0.1621*** (0.0146)

ADVA/FAT 0.4228*** (0.0216)

0.4222*** (0.0216)

0.4761*** (0.0285)

0.4741*** (0.0284)

0.1272*** (0.0073)

0.1277*** (0.0074)

0.0904*** (0.0271)

0.0903*** (0.0270)

INTKAP 0.4507*** (0.0108)

0.4597*** (0.0108)

-0.0008*** (0.0002)

-0.0008*** (0.001)

0.0002*** (0.29E(-4))

0.0002*** (0.30E(-4))

-0.005*** (0.99E(-4))

-0.0005*** (0.91E(-4))

HUMAN 0.0337** (0.0162)

0.0401** (0.0158)

0.0615** (0.0249)

0.0535** (0.0242)

0.0578*** (0.0124)

0.0632** (0.0120)

0.2096*** (0.0577)

0.2226*** (0.0571)

PAV1 -0.0485*** (0.0084)

-0.0365*** (0.0083)

-0.0536*** (0.0114)

-0.0401*** (0.0111)

-0.0796*** (0.0062)

-0.0708*** (0.0060)

-0.2172*** (0.0289)

-0.1889*** (0.0286)

CONS -0.0485*** (0.0130)

-0.0366*** (0.0125)

-0.0541*** (0.0163)

-0.0409*** (0.0158)

-0.0195* (0.0099)

-0.0099 (0.0096)

-0.1999*** (0.0444)

-0.1747*** (0.0434)

TIME -0.1713*** (0.0212)

-0.1645*** (0.0210)

0.1839*** (0.0283)

-0.1886*** (0.0279)

-0.3745*** (0.0131)

-0.3680*** (0.0099)

0.0972** (0.0390)

0.1111*** (0.0385)

23

Costante 1.3509***

(0.0532) 1.3782*** (0.0521)

-0.7236*** (0.0910)

-0.6498*** (0.0909)

3.1345*** (0.0294)

3.1868*** (0.0293)

-0.2078 (0.1318)

-0.0696 (0.1304)

Osservazioni 6784 6784 6784 6784 6679 6679 6215 6215

F 2753.9*** 2365.7*** 804.7*** 703.2*** 1280.6*** 1128.4*** 77.3*** 78.4***

AdjR2 0.7645 0.7771 0.4866 0.5087 0.6052 0.6280 0.0895 0.1107

RESET 159.0*** 159.8*** 500.0*** 501.0*** 22.6*** 31.8*** 32.7*** 36.7***

Jarque-Bera 170.42*** 192.21*** 752.75*** 739.94*** 57.37*** 38.85*** 62.36*** 62.25*** In parentesi la deviazione standard. La presenza di uno, due o tre asterischi indica rispettivamente un livello di significatività pari almeno al 10%, al 5% e all’1%. Il test RESET è condotto con 432 ˆeˆ,ˆ ; il valore riportato è la statistica F per l’ipotesi che i coefficienti di tali termini siano tutti nulli. Per la statistica di Jarque-Bera l’ipotesi nulla è che l’errore abbia distribuzione normale.

yyy

Venendo all’interpretazione economica dei risultati, va anzitutto evidenziato che le variabili di controllo mostrano in quasi tutti i casi un legame con gli indicatori di produttività e di redditività dei fattori di segno corrispondente a quello atteso e statisticamente significativo. In particolare, le imprese di più ampie dimensioni evidenziano una produttività più elevata sia del lavoro che del capitale e pagano salari mediamente più elevati. Non significativo (almeno nelle stime GMM) risulta invece il legame fra dimensione e ROI. Le imprese più integrate (ossia con valori più alti dell’indice valore aggiunto / fatturato) vantano performance mediamente migliori che permettono loro di retribuire meglio il lavoro. Anche il grado di istruzione degli addetti mostra un effetto di segno positivo, in linea con le attese, e sempre statisticamente significativo. Coerentemente con la formulazione tradizionale della funzione di produzione, la produttività del capitale ed il ROI risultano più bassi, e la produttività del lavoro ed il salario medio più alti, laddove l’intensità di capitale è maggiore. La dicotomica TIME mostra segno negativo statisticamente significativo sia per la produttività dei fattori capitale e lavoro che per il salario, in accordo con altra recente evidenza empirica riscontrata da numerosi lavori che hanno rilevato un tasso di crescita molto basso o addirittura negativo della produttività del lavoro per l’ultimo decennio (Ciocca, 2004; Rossi, 2006). La dipendenza fra ROI e TIME è positiva per le stime OLS e negativa (ma non significativa per l’equazione (2)) per le stime GMM. Inoltre, queste ultime attribuiscono all’appartenenza ad un certo settore industriale e all’adesione ad un consorzio un ruolo meno importante nella determinazione di produttività e redditività dei fattori (le due variabili non risultano significative rispettivamente in ¼ e in ¾ dei casi) rispetto a quanto emerge nelle stime OLS.

Tabella 6 Produttività e redditività delle imprese subfornitrici. Stime GMM (White Covariance).

ADVA/ADD ADVA/KAP WAGE ROI

QSUB 0.7449*** (0.1838)

0.4061** (0.1517)

1.5826*** (0.3041)

1.2164*** (0.2485)

0.8929*** (0.1687)

0.4186*** (0.1144)

1.9713*** (0.4782)

0.7755** (0.3267)

SUBSUD – -0.3982*** (0.1287) – -1.0113***

(0.1998) – -0.3761*** (0.0957) – -0.5968**

(0.2556)

SUD – -0.0539*** (0.0068) – 0.3695

(0.3071) – -0.0253** (0.0123) – -0.1914**

(0.0917)

FAT 0.1793*** (0.0111)

0.1526*** (0.0112)

0.1489*** (0.0172)

0.1431*** (0.0171)

0.1109*** (0.0079)

0.0945*** (0.0057)

-0.1034 (0.2455)

-0.1428 (0.2278)

ADVA/FAT 0.2834*** (0.0248)

0.3281*** (0.0249)

0.3131*** (0.0394)

0.3705*** (0.0354)

0.0541** (0.0192)

0.1028*** (0.0116)

-0.0332 (0.0500)

0.0651 (0.0395)

INTKAP 0.0011*** (0.0001)

0.0013*** (0.0001)

-0.0018*** (0.0002)

-0.0020*** (0.0002)

0.0003*** (0.575E-4)

0.0003*** (0.398E-4)

-0.0003*** (1.03E-4)

-0.0004** (1.08E-4)

HUMAN 0.1516*** (0.0321)

0.1118*** (0.0267)

0.1284** (0.0519)

0.1158 (0.0426)

0.1360*** (0.0296)

0.1048*** (0.0192)

0.3427*** (0.0973)

0.2367*** (0.0822)

PAV1 -0.0569*** (0.0151)

-0.0566*** (0.0126)

-0.0055 (0.0240)

-0.0040 (0.0195)

-0.0815*** (0.0130)

-0.0747*** (0.0084)

-0.2324*** (0.0410)

-0.2023*** (0.0347)

CONS -0.0138 (0.0222)

-0.0020 (0.0182)

-0.0262 (0.0352)

-0.0275 (0.0286)

0.0183 (0.0210)

0.0083 (0.0135)

-0.1403** (0.0633)

-0.1429*** (0.0528)

TIME -0.6445*** (0.0804)

-0.4413*** (0.0628)

-0.6138*** (0.1329)

-0.3848*** (0.1013)

-0.7530*** (0.0768)

-0.5169*** (0.0463)

-0.6846*** (0.2153)

-0.1221 (0.1691)

26

4448

0.1761

Costante 2.5277***

(0.1508) 2.9000*** (0.1461)

-2.1601*** (0.2405)

-1.9089*** (0.2283)

2.4920*** (0.1371)

2.8745*** (0.0983)

-1.4261*** (0.3992)

-0.4868 (0.3682)

Osservazioni 4798 4798 4771 4771 4731 4731 4448

Wald 2χ 4660.9*** 7184.6*** 569.9*** 838.2*** 2409.9*** 5873.9*** 334.0*** 505.6***

nJ 6.52 9.02* 10.99** 7.02 42.48*** 5.68 16.35*** 4.63 Wu-Hausman 0.0000 0.0153 0.0000 0.0000 0.0000 0.0000 0.0000

In parentesi la deviazione standard. La presenza di uno, due o tre asterischi indica rispettivamente un livello di significatività pari almeno al 10%, al 5% e all’1%. Il test di Wald è condotto sull’ipotesi di nullità di tutti i coefficienti. La statistica nJ di Newey e West (1987) per la validità delle restrizioni sovraidentificanti si distribuisce come un 2χ con gradi di libertà pari a 4 (numero di strumenti meno numero di parametri da stimare). Il test di Wu-Hausman riporta il livello di significatività al quale si può respingere l’ipotesi che i residui della regressione ausiliaria di QSUB sugli strumenti non abbiano effetto sulla variabile dipendente.

Le stime OLS e GMM producono risultati assai simili anche per quanto riguarda l’impatto della subfornitura su produttività e redditività. In tutti i casi infatti si evidenzia chiaramente una relazione positiva e statisticamente fortemente significativa fra intensità di subfornitura (cioè quota di fatturato in subfornitura) ed indicatori di produttività e redditività dei fattori23, sia nella specificazione (1), che incorpora la restrizione che la localizzazione dell’impresa non abbia effetto sulla produttività e redditività dei fattori né sulla relazione fra questi e l’intensità di subfornitura24, che nella specificazione (2). Quest’ultima specificazione permette di evidenziare gli effetti della localizzazione delle imprese. In primo luogo, le imprese meridionali si caratterizzano non sorprendentemente per una minore produttività e redditività dei fattori, come mostra il segno sempre negativo della dicotomica SUD, a conferma del noto divario negativo di produttività rispetto alle imprese centro-settentrionali (Sarno, 2002). In secondo luogo, la relazione fra subfornitura e produttività (o redditività) risulta significativamente alterata, sempre nel senso di un indebolimento del legame virtuoso sopra evidenziato, come mostra il fatto che la stima del coefficiente della dummy moltiplicativa SUBSUD è sempre negativa e statisticamente significativa (appena sopra il 5% solo nel caso del ROI per le stime OLS). Più in generale i risultati della tabelle 5 e 6 consentono di trarre la conclusione che mentre le imprese subfornitrici localizzate nelle regioni centro-settentrionali hanno conseguito, nell’arco del periodo considerato, una maggiore produttività e redditività dei fattori rispetto alle imprese non subfornitrici, altrettanto non si può dire nel caso delle imprese meridionali. In effetti, considerando che, come è noto, la dipendenza degli indicatori di produttività e redditività dall’intensità di subfornitura è misurata per le imprese meridionali dalla somma dei coefficienti di QSUB e SUBSUD, si può affermare che per quanto riguarda produttività del capitale e ROI il legame positivo con la subfornitura è significativamente ridotto, mentre per la produttività del 23 Questo risultato è coerente con le conclusioni dei pochissimi lavori che si occupano di studiare gli effetti della subfornitura, ossia Innocenti (2003), che individua un legame positivo (per il periodo 1994-97) fra subfornitura e indicatori di performance (ROE e ROI) e Mazzola e Bruni (2000) che sostengono che le imprese subfornitrici hanno una maggiore probabilità di sopravvivenza. 24 Tale restrizione, sottoposta al test di stabilità di Chow sui due sottocampioni relativi ad imprese del Centro-Nord e del Mezzogiorno, è stata sempre respinta ad un livello di significatività del 5%.

28

lavoro ed il salario tale legame risulta (almeno per le stime OLS) addirittura invertito. In sostanza, nella parte più evoluta del paese, la scelta a favore di un maggiore ricorso al mercato e il conseguente infittimento delle relazioni interaziendali realizzatisi negli anni ’90 sembrano realizzarsi in un quadro sostanzialmente virtuoso, dove la relazione di subfornitura implica, nella maggior parte dei casi, migliori performance per le imprese ed una più efficiente divisione del lavoro fra esse. Nel Mezzogiorno, invece, il legame fra intensità della subfornitura e indicatori di produttività e redditività è molto attenuato o perfino invertito: in particolare, l’impresa subfornitrice meridionale, si caratterizza per livelli di produttività del lavoro minori e retribuzioni medie più basse rispetto a quelle che non fanno subfornitura (o la fanno in misura inferiore). 6. Considerazioni conclusive L’indagine svolta nella sezione precedente consente di trarre alcune conclusioni di particolare interesse. In Italia, come in molti altri paesi, è proseguito e si è accentuato negli anni ’90 un processo di profonda modifica di carattere sia quantitativo che qualitativo nel modello di divisione del lavoro fra le imprese. In particolare, questo ha significato da una parte l’infittimento delle relazioni verticali interaziendali e dall’altra una significativa emancipazione del subfornitore dal ruolo di captive supplier ad agente in grado di instaurare relazioni di complementarità con l’impresa committente, fino alla costituzione di veri e propri network produttivi. In questo contesto virtuoso, le imprese subfornitrici hanno beneficiato di migliori performance, in termini di maggiore produttività dei fattori, più alti salari e più elevato rendimento per il capitale investito. Tuttavia, nel processo di crescente ricorso al mercato, il dualismo della struttura industriale italiana si è fortemente riproposto. Il Mezzogiorno ha certamente vissuto una fase di intenso approfondimento delle relazioni tra le imprese, quantitativamente paragonabile a quella del resto del paese ma ciò nonostante non pare che nelle regioni meridionali si sia significativamente modificata la “natura” della subfornitura. Le imprese subfornitrici meridionali hanno, infatti, realizzato performance di produttività e redditività spesso più modeste delle altre imprese, e ciò sembra segnalare l’esistenza di condizioni di relativa

29

marginalità ed arretratezza e sostanziale subalternità rispetto ai committenti locali, nazionali ed esteri. Rimane oggetto di futura ricerca una verifica della tenuta di questi risultati rispetto ad un “dettaglio territoriale” più fine di quello da noi utilizzato, per esempio al livello dei sistemi locali del lavoro, distinguendo fra aree distrettuali e aree polarizzate dalla grande impresa25. Tale disaggregazione consentirebbe una migliore qualificazione delle argomentazioni svolte sulla natura della subfornitura nel Mezzogiorno e, in particolare, permetterebbe di verificare se la produttività e la redditività di un’impresa subfornitrice meridionale sia significativamente differente – e si ipotizza superiore – di quella media da noi rilevata, a seconda del sottoinsieme socio-economico nel quale è inserita, a seconda, cioè, della circostanza che l’impresa subfornitrice possa avvalersi nella sua operatività di economie esterne, siano esse frutto del consolidamento di distretti meridionali o un portato dell’azione della mano visibile della grande impresa e dei processi di governance che ne scaturiscono.

25 Si veda per una recente applicazione, Becattini e Coltorti (2004).

30

Riferimenti bibliografici Acemoglu D., Aghion P., Griffith R. e Zilibotti F., 2004, Vertical integration and technology: Theory and evidence, Institute for fiscal studies, Working paper W04/34. Acemoglu D., Johnson S. e Mitton T., 2005, Determinants of vertical integration: finance, contracts and regulation, NBER Working Paper 11424. Amighini A. e Rabellotti R., 2003, The Effects of Globalisation on Industrial Districts in Italy: Evidence from the Footwear Sector, lavoro presentato alla conferenza “L’internazionalizzazione dei distretti industriali”, Roma, 21 marzo. Arrighetti A., 1999, Integrazione verticale in Italia e in Europa: tendenze e ipotesi interpretative, in F. Traù (a cura di), La “questione dimensionale” nell'industria italiana, Il Mulino, Bologna. Becattini G., 1979, Dal settore industriale al “distretto” industriale. Alcune considerazioni sull’unità di indagine dell’economia industriale, Rivista di economia e politica industriale, 1, 7-21. Becattini G., 1987, (a cura di) Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino, Bologna. Becattini G. e Coltorti F., 2004, Aree di grande impresa ed aree distrettuali nello sviluppo post-bellico dell’Italia: un’esplorazione preliminare, Rivista Italiana degli Economisti, 1 (supplemento) 61-102. Bellandi M., 1982, Il distretto industriale in Marshall, L’Industria, 3, 355-376. Brusco S. e Paba S., 1997, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni ’90, in F. Barca (a cura di) Storia del capitalismo italiano, Donzelli, Roma.

Capitalia, 1998, VII Indagine sulle imprese manifatturiere, Roma.

31

Capitalia, 2001, VIII Indagine sulle imprese manifatturiere, Roma. Cersosimo D. e Donzelli C., 2000, Mezzo giorno. Realtà e rappresentazioni delle tendenze del cambiamento territoriale, Donzelli, Roma. Chandler A.D., 1977, The Visible Hand. The Managerial Revolution in American Business, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge. Coase R. H., 1937, The Nature of the Firm, Economica, 4, 386-405. Ciocca P., 2004, L’economia italiana: un problema di crescita, Rivista Italiana degli Economisti, 1 (supplemento) 7-28. Contini B., 1988, Grandi e piccole imprese industriali in Italia: dinamica e performance negli anni ’80 a confronto, Moneta e credito, 163, 331-361. Corò G. e Grandinetti R., 1999, Strategie di delocalizzazione e processi evolutivi nei distretti industriali italiani, L'Industria, 4, 897-924. Deardorff A.V. e Djankov S., 2000, Knowledge transfer under subcontracting: Evidence from Czech firms, World Development, 28(10), 1837-1847. Dei Ottati G., 1995, Tra mercato e comunità: aspetti concettuali e ricerche empiriche sul distretto industriale, Franco Angeli, Milano. Del Monte A., 1983, Il processo di divisione del lavoro e la crescita dimensionale delle imprese nell’economia meridionale, Rassegna Economica, 6, 1391-1403. Del Monte A. e Martinelli F., 1988, Gli ostacoli alla divisione tecnica e sociale del lavoro nelle aree depresse: il caso delle piccole imprese elettroniche in Italia, L’Industria, 3, 471-507.

32

Enrietti A., 1983, Industria automobilistica: la “quasi integrazione” verticale come modello interpretativo dei rapporti tra imprese, Economia e politica industriale, 38, 39-74. Enrietti A., 1987, La dinamica dell'integrazione verticale alla FIAT Auto Spa, Economia e politica industriale, 55, 113-145. Giannola A., 2001, Le imprese meridionali negli anni Novanta, in M.R. Carillo e A. Zazzaro (a cura di) Istituzioni, capitale umano e sviluppo del Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Giunta A., 2002, Grandi imprese e Mezzogiorno: attualità del pensiero di Salvatore Cafiero, La Questione Agraria 2, 17-44. Görg H. e A. Hanley, 2004, Does outsourcing increase profitability?, Economic and Social Review, 35 (3), 367-387. Grossman S. e O. Hart, 1986, The costs and benefits of ownership: a theory of lateral and vertical integration, Journal of Political Economy, 94, 691-719. Grossman S. e Helpman E., 2003, Outsourcing versus FDI in industry equilibrium, Journal of the European Economic Association, 1(2-3), 317-327. Hemmert M., 1999, “Intermediate organization” revisited: a framework for the vertical division of labor in manufacturing and the case of the Japanese assembly industries, Industrial and Corporate Change, 8 (3), 487-517. Hart O. e Moore J., 1990, Property rights and the nature of the firm, Journal of Political Economy, 98, 1119-1158. Humphrey J. e Schmitz H., 2000, Governance and Upgrading: Linking Industrial Cluster and Global Value Chain Research. Institute of Development Studies Working Paper 120, University of Sussex. Innocenti A., 2003, Production outsourcing in Italian manufacturing industry, in M. Di Matteo e P. Piacentini (a cura di.), The Italian economy at the dawn of the 21st century, Ashgate.

33

ISTAT, 2005, I distretti industriali, Roma ISVE, 1993, La proiezione internazionale del Mezzogiorno, Il Sole24 Ore Libri, Milano. Khanna T. e Palepu K., 2000, Is group affiliation profitable in emerging markets? An analysis of diversified business groups, Journal of Finance, 55, 867-891. Kimura F., 2002, Subcontracting and the performance of small and medium firms in Japan, Small Business Economics, 18, 163-175. Klein B., Crawford R.G. e Alchian A.A., 1978, Vertical Integration, Appropriable Rents and the Competitive Contracting Process, Journal of Law and Economics, 21, 297-326. Mariotti S., 1994, Rapporti verticali fra imprese, mercati organizzati ed economia della cooperazione: una rassegna critica, in G. Dioguardi (a cura di) Sistemi di imprese, ETAS libri. Mazzola F. e Bruni S., 2000, The role of linkages in firm performance: evidence from Southern Italy, Journal of Economic Behaviour and Organization, 43, 199-221. McLaren J., 2000, Globalization and Vertical Structure, American Economic Review, 90 (5), 1239-1254. Newey W. e K. West, 1987, Hypothesis testing with efficient method of moments estimation” International Economic Review, 28, 777-787. Pavitt K., 1984, Patterns of Technological Change: toward a Taxonomy and a Theory, Research Policy, 13, 343-373.

Prosperetti L. e F. Varetto, 1991, I differenziali di produttività Nord-Sud nel settore manifatturiero, Il Mulino, Bologna. Rossi S., 2006, La regina e il cavallo, Quattro mosse contro il declino, Laterza, Roma.

34

Sallez A., 1977, De l’analyse structurelle de la firme à la division spatiale du travail, Economie appliquée, 32-50. Sarno D., 2002, Le piccole e medie imprese nel Mezzogiorno, Rubbettino, Soneria Mannelli. Scalera D., 2001, Integrazione europea e localizzazione industriale: uno studio sulle regioni del Mezzogiorno italiano, Studi Economici, 75 (3), 75-100. Schmitz H., 1995, Collective efficiency: Growth Path for Small-Scale Industry, Journal of Development Studies, 31 (9), 1627-1650. Subfor (annate varie), Osservatorio subfornitura, consultabile sul sito www.subfor.net Traù F., 1999, La discontinuità del pattern di sviluppo dimensionale delle imprese nei paesi industriali: fattori endogeni ed esogeni di mutamento dell’”ambiente competitivo”, Centro Studi Confindustria Working Paper n. 19. Trento S., 2003, Stagnazione e frammentazione produttiva, Il Mulino, 6, 1093-1102. Viesti G., 2000, Mezzogiorno dei distretti, Donzelli, Roma. White H., 1980, A heteroskedasticity consistent covariance matrix estimator and a direct test of heteroskedasticity, Econometrica, 48, 817-838. Zivot E.e Wang J., 2006, Modelling financial time series with s-plus, Second edition, Springer Verlag.


Recommended