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Pensare il reale

Date post: 30-Nov-2023
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SGUARDI INCROCIATI Cinema, testimonianza, memoria nel lavoro teorico di Marco Dinoi

a cura di Dimitri Chimenti, Massimiliano Coviello, Francesco Zucconi

In copertina: Flags of Our Fathers (2006) di Clint Eastwood

ISBN 978-88-85095-62-5 Copyright 2011 by Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo™

Fondazione Ente dello Spettacolo Via G. Palombini, 6 - 00165 Roma Tel. 06.96519200 - e-mail: [email protected]

Redazione: Chiara Supplizi

Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia

Indice

Premessa

Introduzione. Lo sguardo, l'evento e il debito di testimonianza delle immagini Pietro Montani

I. Teorie alla prova del reale

Il visivo, l'immagine e la responsabilità dello sguardo. Una lettura de Lo sguardo e l'evento di Marco Dinoi Luca Venzi

Pensare il reale: lo sguardo semiotico di Marco Dinoi Maria Cristina Addis

Lo sguardo del testimone. Etica, estetica e politica dell'immagine contemporanea Stefano Jacoviello

II. Il film come oggetto di teoria

Restituire l'evento allo sguardo. Su Valzer con Bashir di Ari Folman Angela Mengoni

La memoria, la Storia, le immagini. Un'analisi di Level Five di Chris Marker Gabriele Biotti

Immagini (ri)vedute e montaggio obbligato Edoardo Becattini

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" 43

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Pensare il reale: lo sguardo semiotico di Marco Dinoi M<1'tia Cristina Addis

«Fin dall'infanzia ci hanno abituato a pensare che una

cosa la si definisce mediante ciò che si suppone che

essa è in sé e non mediante la sua relazione con le altre

cose».

(G. Bateson, Mente e natura)

Il rapporto fra la teoria semiotica e le controverse nozioni di realtà e reale non è immediato né diretto. Una delle conquiste epi­stemologiche che la semiotica di stampo strutturale rivendica è infatti quella di aver slegato lo studio della significazione da defini­zioni di tipo ontologico. Piuttosto che "negare il reale" - cosa di cui è spesso stata accusata - la semiotica strutturale rifiuta il ricorso a un' ontologia per spiegare i processi e i sistemi di significazione, scindendo i fenomeni in sé, accessibili (e indagati) da molteplici punti di vista, e la significazione che essi manifestano, gli effetti di senso di cui sono responsabili.

L'oggetto di indagine semiotica è quindi allo stesso tempo tra­sversale e distinto rispetto a quello delle discipline che riflettono direttamente o indirettamente sul concetto di reale, quali ad esempio la storiografia, la filosofia, la critica letteraria o cinematografica. C'è però un aspetto legato a tali nozioni, su cui ruotano posizioni epi­stemologiche molto diverse e per certi versi antitetiche, che è di estrema attualità nonché di specifica pertinenza semiotica: il ruolo che, a seconda di come si pensa e concepisce" il reale", si riconosce ai linguaggi e in generale ai sistemi di significazione.

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La funzione costruttiva dei linguaggi

Nelle prime pagine della raccolta Semiotica in nuce, Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone segnalano una sorta di "oblio generalizzato" della principale conquista epistemologica della tradizione cosiddetta post-strutturalista: l'interrogazione sugli a-priori attraverso cui ogni scienza umana e sociale "ritaglia" il proprio oggetto di conoscenza:

«oggi ci troviamo in una situazione culturale e intellettuale dove si è tornati a credere che da un lato ci sono i fatti (studiati dalla Scienza) e dall'altro i valori (di pertinenza dello Spirito), da un lato la Natura e dall' altro l'Uomo, da un lato la Ragione e dall'altro la Storia. Si professano così due tipi di tendenze teoriche che, a ben guardare, sono due facce della stessa medaglia, due poli di un unico sistema di idee: da un lato il cognitivismo, che porta avanti un programma di ricerca sostanzialmente naturalistico, dall' altro lo storicismo, che riformula ogni desiderio di conoscenza nei termini del magistero dell' esperienza umana» 1.

In maniera provocatoria, i due autori ricordano che dimenticare, o semplicemente relegare in secondo piano, il carattere locale e costruito dei concetti, compresi quelli di Natura e Uomo, Ragione e Storia, comporta il rischio di occultare il punto di vista, individuale o collettivo, esplicito o irriflesso, attraverso cui ogni sistema di conoscenze "forgia" in modo peculiare il proprio oggetto. Eviden­temente, l'acquisizione del carattere soggettivo e parziale di ogni accesso al reale è assunto comune di qualunque scienza o disciplina. C'è però uno scarto sostanziale fra due "macro-posizioni" che, a rischio di semplificare brutalmente, possiamo riassumere in questi termini: dire che ogni discorso comporta un punto di vista che influisce sul proprio oggetto può leggersi in due modi distinti. Nel primo caso, ci riferiamo da punti di vista distinti alla stessa cosa (il

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P. Fabbri - G. Marrone (a cura di), Semiotica in nuce Val. I, Meltemi, Roma 2000, p.7.

Reale, il Referente), e il linguaggio è pensato come una forma di mediazione - più o meno fedele o al contrario diversamente misti­ficante - fra soggetto e mondo, Essere e Pensiero. Nel secondo, che è poi 1'opzione strutturale, ognuno di questi punti di vista costruisce il proprio oggetto, in forme e modalità che non pre-esistono alla "presa" linguistica e semiptica. In questa seconda accezione, illin­guaggio è il luogo della costituzione di un Reale che si frammenta in tante realtà, più o meno convergenti o divergenti, dall' estensione più o meno locale, quanti sono i discorsi che le prendono in carico.

Quest'ultima posizione diventa ancor meno evidente se usciamo dal linguaggio verbale e prendiamo in considerazione il dominio delle immagini. Tarcisio Lancioni, in una sorta di archeologia del­l'approccio semiotico al visiv02, individua due pregiudizi "filosofici" che storicamente hanno inibito lo studio delle immagini in quanto linguaggio a pieno titolo: una concezione idealistica -l'opera d'arte come espressione diretta dell'Idea, dello Spirito - e una concezione mimetica, per cui l'arte figurativa consisterebbe sostanzialmente nel­l'imitazione della natura. Posizione, quest'ultima, particolarmente persistente, che sopravvive in tutte quelle ricerche contemporanee che, in maniera più o meno esplicita, assumono l'idea di una pecu­liarità delle immagini in quanto capaci di riferirsi al mondo in modo immediato e naturale.

Controcorrente rispetto a tali dominanti nella riflessione filoso­fica, Lancioni rintraccia le coordinate di un pensiero costruttivista - in particolare a partire dalle riflessioni dei teorici della cosiddetta Teoria della visibilità pura e della Teoria formale dell'arte prima, della Filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer successiva­mente - che apre la strada a uno studio strutturale di tutte le forme di espressione, ivi comprese quelle visive.

Tralasciando il discorso specifico sull' arte, è proprio a partire dalla teoria gnoseologica di Cassirer che questa posizione generale

T. Lancioni, Il senso e la forma. Il linguaggio delle immagini fra teoria dell'arte e semiotica, Esculapio, Bologna 2001.

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può essere illustrata. Secondo Cassirer la conoscenza dipende dai mezzi concettuali che determinano la descrizione: a una diversità di questi mezzi risponderanno oggetti diversi. Con "mezzi concet­tuali" il filosofo non intende né il solo linguaggio verbale, né tanto­meno un corpus di concetti meta-linguistici come quelli filosofici o scientifici, ma quelle che egli definisce le forme simboliche, ovvero, in termini attuali, le diverse forme semiotiche attraverso cui una cul­tura "pensa" il reale, comprese quelle del mito e dell'arte. Ognuna di queste forme, a pari diritto, corrisponde a distinte forme di cono­scenza: non perché comunichino un contenuto già formato, ma in quanto condizioni di esistenza stesse di quel dato contenuto. Come osserva Lancioni:

«Dire che ogni attività spirituale è un modo diverso di costruire la realtà significa dire che per l'uomo non esiste una realtà ma tante realtà quante sono le sue attività spirituali: c'è una realtà linguistica, c'è una realtà scien­tifica, c'è una realtà artistica, e non una realtà unica che assume forme diverse a seconda degli abiti che la ricoprono [ ... ]. La realtà, l'Essere, non è più una sostanza unitaria che si nasconde dietro gli schermi opachi dei linguaggi, o almeno non è più concepibile in quanto tale: la sua unica essenza è fenomenica, è nell'apparenza in quanto tale. Ma anche questa non è una materia semplice fornitaci dai sensi e in sé sussistente, in quanto anch' essa può darsi solo dopo che sia stata formata, e la sua formazione si ha solo con i linguaggi: dietro di essi sussistono solo i fumi della metafisica, idealistica o positivistica che sia, poiché la cosa in sé, ideale o materiale, è oggetto non di conoscenza ma solo di fede»3.

Il "rovesciamento" nella concezione del rapporto fra linguaggio e realtà, che Lancioni rintraccia nel pensiero del filosofo tedesco e che costituisce il presupposto epistemologico della ricerca semiotica, consente di ripensare questo stesso rapporto in termini di produ­zione: non solo il linguaggio verbale, ma l'insieme delle pratiche cul-

Ivi, pp. 98-99, corsivo mio.

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turali che caratterizzano la nostra cultura - cinema, media, lettera­tura - sono colti in quest'ottica come strumenti che concorrono a costruire il panorama di ciò che noi consideriamo "il reale". Questo, ci sembra, è anche l'implicito punto di partenza teorico a partire dal quale Maurizio Grande, in un saggio ampiamente ripreso dallo stesso Dinoi4, imposta l~ riflessione sulla relazione fra cinema e realtà.

Grande non pone il problema in termini di riflesso, rappresen­tazione o mimesis. Definendo il "campo del reale" in termini di «costrutto semiotico e orizzonte semiotico di una cultura», il rap­porto fra il reale messo in scena dal cinema e il reale extra-cinema­tografico è pensato in primo luogo come relazione fra linguaggi. Il "referente" che il cinema è suscettibile di prendere in carico e met­tere in scena, traducendolo nei suoi linguaggi specifici, non è con­cepito come dato oggettivo e univoco, ma come la risultante, dina­mica, negoziale e storicamente situata, dell'azione costruttiva dei linguaggi e delle pratiche attive in una cultura data:

«Si tratta di un universo di riferimento non "bruto", "materiale" e "intatto", vale a dire inattaccato dal linguaggio e dalla semiosi, ma un uni­verso del reale semiotizzato che non è "esterno" in quanto alieno o estra­neo al linguaggio e alla testualità; si tratta di un universo implicato comun­que nel "linguaggio in generale", consegnato alla dimensione costruttiva della sernio si, la quale "garantisce" la dimensione extra-linguistica come sfera da cui si origina il senso testualizzabile e il discorso ad esso coordi­nabile mediante il linguaggio e mediante le possibilità semiotiche e sim­boliche di costruire la società mentre si costruisce il "dimensionamento del reale" in quanto spazio sociale testualizzabile e comunicabile»5.

Nonostante Grande si soffermi a lungo sulla specificità dell'imma-

M. Grande, Lo spazio del reale nel cinema italiano, in Id., La commedia all'italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003, pp. 5-25. Ivi, p. 9.

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gin e cinematografica in quanto segno iconico peculiare6, l'allarga­

mento dello "spazio del reale" ascritto al cinema neorealista italiano non ha niente a che vedere con le "proprietà iconiche" dell'imma­gine. Riguarda invece la capacità del cinema di accogliere e prendere in carico attraverso i propri linguaggi e stili specifici le nuove salienze - in termini di tema ti che, soggetti sociali, passioni collettive - che l'azione della cultura ha reso cogenti, e in questo senso testua­lizzabili. Si tratta quindi di un nuovo riassetto della relazione "tra­duttiva", in termini 10tmaniani7

, fra i codici cinematografici e la più ampia cultura entro cui lavorano e che concorrono a definire, e non la marca di una relazione di referenza al reale che verrebbe meno nei testi non realisti ci. Ciò che Grande definisce testualizzazione del reale è infatti «inerente a qualsiasi ordine di testualità»: concerne cioè non i temi affrontati o le forze sociali messe in scena dal rac­conto cinematografico ma è caratteristica del cinema in quanto lin­guaggio, che reca inscritta quella dimensione culturale - in termini di conoscenze, credenze, valori - che sono i linguaggi a stabilire e delineare. E proprio in quanto linguaggio, il cinema stesso concorre a costruire il panorama o orizzonte di riferimento che una cultura percepisce in quanto reale:

«[l'immagine cinematografica] è alla base dei codici della cultura e delle

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La complessa definizione data da Grande di icona cinematografica comprende e articola tanto le modalità di produzione dell'immagine cinematografica che il suo funzionamento semiotico. A questo proposito si rimanda, oltre che all'articolo citato, a M. Grande, L'icona cinematografica, in «Artibus et historiae», 2, 1980, pp. 143-165. Nella teoria lotmaniana, il meccanismo traduttivo è una delle fonti più potenti di trasformazione della cultura. Ogni fenomeno culturale, a qualunque livello di estensione (lingue nazionali, gerghi locali, pratiche artistiche, "stili" autoriali) pre­senta soglie di specificità che ne determinano la chiusura: quando entra in relazione con elementi ad esso esterni, li ingloba e li dota di senso attraverso il filtro dei pro­pri codici specifici. Questa operazione trasforma tanto il "mondo semiotico" che traduce, che nella tensione a esprimere nuovi contenuti arricchisce e modifica il proprio linguaggio, quanto quello tradotto, su cui la traduzione dischiude nuove potenzialità di senso e ne inibisce altre.

attività di linguaggio che consentono la costituzione del reale come una sorta di "risultato", come il prodotto dell'operatività sociale e culturale [ ... ] inteso come sintesi della attività formatrice della cultura e dei suoi linguaggi" 8.

Se da un lato il cinema - in/orme peculiari ai livelli dei codici e stili specifici che esso articola - è informato delle categorie e ideologie attraverso cui la cultura in cui si inscrive "pensa" il mondo e lo dota di senso, allo stesso tempo concorre a forgiare e trasformare quelle stesse categorie e ideologie: è a partire da questa doppia dialettica che vorremmo rileggere alcune delle dense e numerose riflessioni che Dinoi dedica all' evento 11 settembre, soffermandoci in partico­lare sulle analisi parallele che l'autore conduce della copertura mediale dell' evento e delle ridefinizioni che ne propongono alcuni dei registi che hanno contribuito all' opera collettiva Il '09"01 - Sep­tember Il (2002; Il settembre 2001).

L'annichilimento dello sguardo: ideologia della trasparenza e natu­ralizzazione del punto di vista

Nel tentativo di delineare il quadro critico che ha accompagnato le reazioni del mondo occidentale all'attacco al World Trade Center dell'l 1 settembre 2001, Dinoi riprende e mette a confronto le oppo­ste posizioni di Adriano Sofri9 e Jean Baudrillard lO

• Il primo, che si sofferma principalmente sul trauma collettivo suscitato dall' evento, vi legge un drastico ritorno di realtà per una società assuefatta al "primato del linguaggio", la cui violenza ha squarciato il velo degli

M. Grande, Lo spazio del reale nel cinema italiano, in Id., La commedia all'italiana, a cura di O. Caldiron, cito p.S. A. Sofri, Il mondo che torna con i piedi per terra, in «La Repubblica», 29 dicembre 2001.

IO J. Baudrillard, L'esprit du terrorisme, in «Le Monde», 3 novembre 2001; tI'. it., Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, pp. 41-42.

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universi virtuali, in primo luogo mediatici, svelandone il carattere fragile e fittizio. Il secondo, che riflette esse~zial~ente sulle mod~­lità cognitive con cui l'evento è stato recepIto, VI vede al contrano il culmine di una graduale perdita del "principio di realtà" a favore delle logiche finzionali e spettacolari. Il reale ha vinto sulla finzione mediale, o al contrario è lo spettacolo ad aver ingoiato per sempre la percezione di realtà? Il problema, secondo Dinoi, è mal posto. Entrambe le posizioni manifestano in primo luogo, più che la scom­parsa di uno dei due termini in gioco, un' impasse che affetta persino gli intellettuali più accorti, una carenza di strumenti critici in grado di esplicitare un groviglio di questioni di ordine percettivo e cogni­tivo che le macro-categorie di Realtà e Finzione occultano piuttosto che delucidare, rincorrendosi tautologicamente in un circolo VIZlOS0.

Nonostante lo stesso Dinoi avanzi un giudizio di valore rispetto al sistema mass-mediatico, la differenza di approccio è sostanziale: mentre sia Sofri che Baudrillard sembrano entrambi fare economia del ruolo dei linguaggi nel dar forma tanto a ciò che percepiamo come reale che a ciò che interpretiamo come finzionale, l'autore parte invece dall'analisi delle modalità attraverso cui i media hanno costruito l'evento, rilevando alcune proprietà strutturali che accomu­nano trasversalmente - naturalmente in via generica e tendenziale -il racconto televisivo e molto cinema di matrice hollywoodiana.

In primo luogo, la degenerazione del concetto di realismo in un'ideologia della trasparenza dell'immagine al mondo, con la con­seguente riduzione dell'idea di reale al mero dato percettivo offerto dall'immagine stessa. Dal punto di vista semiotico, l'effetto di tra­sparenza segnalato da Dinoi corrisponde a una strategia discorsiva che si fonda principalmente sulla cancellazione delle tracce della propria costruzione: del punto di vista, percettivo e cognitivo, a par­tire dal quale gli eventi messi in scena sono colti, dei criteri di sele­zione che ne orientano le scelte, dei sistemi di valori che ne decidono la rilevanza. Cancellazione che concorre a un effetto di auto-evi­denza, di equivalenza fra l'immagine e la "cosa" rappresentata: celando l'azione del proprio sguardo, questo tipo di racconto ini-

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bisce per lo spettatore la possibilità di averne uno critico e auto­nomo, in quanto si auto-presenta come l'unico sguardo possibile. In questo senso Dinoi denuncia un diffuso annichilimento dello sguardo: non perché i media dicano il falso, e non solo per la sele­zione spesso discutibile dei contenuti, ma per la tendenza a un' enun­ciazione che si presenta cpme "dato" da acquisire e non come discorso rispetto al quale assumere una posizione.

Da questa prospettiva, l'evento 11 settembre, lungi da "smasche­rare" il velo dei linguaggi, come vorrebbe Sofri, avrebbe al contrario portato in luce le dinamiche standard attraverso cui i media costrui­scono il proprio racconto, i filtri - in senso lotmaniano - attraverso cui traducono la "realtà extra-televisiva" nel proprio universo ll :

«Il totale dell'orizzonte di Manhattan che diventava il centro di gravita­zione unico dello sguardo occidentale, per via dell'importanza che l'evento non poteva non assumere, ha fatto sì che quell'immagine venisse percepita come se non fosse ripresa da alcun punto di vista; a questo si deve aggiun­gere la conseguente assenza di fuoricampo, perché tutto sembrava essere contenuto nei limiti della sequenza e nulla di comparabile poteva esserci al di là di essa [ ... J tutti questi fattori hanno determinato ciò che appariva come massima aderenza dell'immagine all'oggetto: il reale combaciava con l'immagine che vedevamo senza lasciare scarti o vuoti in cui il nostro sguardo potesse giocare alcun ruolo [ ... J»12.

Il In tale plesso teorico, ci sembra che Dinoi sviluppi fecondamente le linee indivi­duate da Maurizio Grande nel saggio sopra citato a proposito del cinema come "produttore di realtà". Come osserva Federico Montanari, la proposta di Grande è ancora attuale e densa di interesse per la ricerca semiotica nella misura in cui mette in luce come «il cinema, in particolare, e le altre forme spettacolari e artistiche ci forniscono i quadri di senso atti, si badi bene, non solo a percepire il "reale", non solo a categorizzarlo e "inquadrarlo" ma a interagire attivamente con la sua pro­duzione. Filtrare è costruire e ricostruire». (F. Montanari, Il campo intrecciato del reale, in R. Guerrini - G. Tagliani F. Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Recco-Genova 2009, p. 19).

12 M. Dinoi, Lo sguardo e l'evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 40-41, corsivo nostro.

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Questo tipo di critica, che verte non tanto sui contenuti veicolati dai media, ma sulle modalità attraverso cui essi costruiscono il pro­prio discorso, apre la riflessione sul ruolo del sistema mass-media­tico nel costruire l'orizzonte che noi percepiamo come reale alla luce di alcuni assunti della semiotica della cultura.

Una delle dinamiche fondanti, secondo Jurij Michajlovic Lot­man13

, della cultura in quanto sistema semiotico è la tensione fra sta­bilità e trasformazione. Per sua natura, in quanto abitata da codici e sotto-sistemi distinti che "viaggiano a velocità diverse", la cultura tende a trasformarsi, in un costante lavorio di traduzione e ridefi­nizione che ne aumenta l'eterogeneità interna e di conseguenza l'in­determinatezza. D'altro canto, in quanto sistema che si auto-orga­nizza, essa tende a descrivere se stessa come qualcosa di prevedibile in modo univoco e rigidamente organizzato: a questo livello, al di sopra dell'irregolarità di quella che Lotman definisce la carta semio­tica reale si eleva il piano della sua unità ideale, che argina la tra­sformazione e tende alla stabilità.

Nei momenti di crisi o di trasformazione molto rapida, la ten­sione all'unità ideale si acuisce: più l'orizzonte culturale si fa inde­terminato, incerto, passibile di interpretazioni molteplici, più i valori su cui una cultura si fonda rischiano di dissolversi, più le metadescrizioni tendono a irrigidirsi e cristallizzarsi in forme rigide e semplificanti che fungono da "dispositivo coesivo" per arginare la crisi di senso originata dai cambiamenti troppo repentini per essere "metabolizzati" attraverso un riassetto organico dei sistemi di conoscenze, credenze o costumi. Proprio perché la cultura è un sistema intrinsecamente irregolare e eterogeneo, non tutti i "sotto­sistemi" che la abitano raggiungono il livello dell'unità ideale, ma

Il Questa tesi è diffusa nell'intera produzione lotmaniana. Si vedano in particolare J.M. Lotman - B. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1973, e I.M. Lotman, La semiosfera, Marsilio, Venezia 1985.

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solo quelli grammaticalizzati14, ovvero quelli che per grado di coe­

sione, pervasività e legittimità sociale acquisiscono il potere di pro­durre meta-linguaggi - ovvero sistemi di regole - attraverso cui descrivono se stessi e i sistemi circostanti.

L'informazione istituzionalizzata, in particolare quella televisiva, può essere considerata una, delle strutture grammaticalizzate per eccellenza della contemporaneità: per formati, moduli, criteri di selezione e messa in discorso, l'informazione televisiva risponde a codici particolarmente rigidi e statici. Da questo punto di vista, uno dei risvolti delI'analisi di Dinoi è la messa in luce di alcuni limiti intrinseci del dispositivo televisivo: la standardizzazione, la perva­sività e legittimità sociale, se da un lato conferiscono ai mass-media un potere dominante nel restituirci un'immagine del mondo, dal­l'altro tendono a sclerotizzare la complessità dei fenomeni che pren­dono in carico nelle forme uniche dei propri codici e formati. Scle­rosi tanto più tendenziosa quando tende a presentarsi come traspa­rente, come accesso non mediato agli eventi che ci racconta.

In questo senso, possiamo rileggere le derive stereotipanti delle interpretazioni più immediate e diffuse dell'evento, a partire dal­l'enorme successo della celebre tesi di Samuel P. Huntington sullo "scontro di civiltà", anche come un "effetto sistemico" di risposta alla crisi di senso originata dall'imprevedibilità e portata politico­culturale dell' attacco, laddove la macchina mediale, in particolare

14 Una delle macrodistinzioni attraverso cui Lotman traccia una tipologia delle cul­ture è quella fra culture grammaticalizzate e culture testualizzate. Nel primo tipo di cultura, i sistemi di regole che soggiacciono alla produzione di testi sono più valorizzati dei testi stessi: gli elementi che vi si producono - comportamenti sociali, oggetti artistici, pratiche culturali - tendono ad essere rigidamente codificati. Nel secondo tipo, al contrario, la grammaticalizzazione non esiste o è del tutto secon­daria, e i testi si riproducono a partire da tradizioni, costumi o abitudini che non sono stati oggetto di grammaticalizzazione esplicita. Questa stessa opposizione si ritrova all'interno di una singola cultura, come tensione fra un centro in cui risie­dono le strutture più grammaticalizzate - in particolare le istituzioni politiche, reli­giose e culturali - e una periferia in cui l'influenza delle regole è più flebile e si pro­ducono testi liberi rispetto alle grammatiche stabilite dal centro.

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quella televisiva, si è rivelata strutturalmente incapace, o insuffi­ciente, di un discorso che consentisse di inscrivere il singolo evento nel nostro orizzonte di credenze e aspettative, eventualmente ride­finendone i contorni e i parametri.

Unità ideale vs carta reale: per una contro-storia dell'evento

Nonostante l'interazione attiva fra carta reale e unità ideale sia uno degli elementi alla base dei processi dinamici della semiosfera, sono le metadescrizioni - sotto forma ad esempio delle regole giu­ridiche, dei paradigmi teorici, delle cronache ufficiali - che tendono a permanere nel tempo: esse si inscrivono nel vivo del processo sto­rico «come le grammatiche nella storia della lingua» e esercitano un'azione inversa rispetto al suo sviluppo, orientandone la perce­zione e l'interpretazione. In questo senso, Lotman segnala il rischio, per lo storico della cultura come per lo storico tout court, di identi­ficare queste metadescrizioni col reale tessuto della cultura, mentre di per sé costituiscono solo uno dei poli della sua dialettica interna, che assolve alla funzione di riordinare in modo rigido ciò che ad un livello profondo ha ricevuto un'indeterminatezza eccessiva:

«Si pensa che un processo storico, osservato da un punto di vista provvi­denzialistico o finalistico, tenda verso un punto determinato, noto al ricer­catore. Non è ammessa l'ipotesi che esso possa avere in sé possibilità di un altro tipo rimaste irrealizzate; [ ... ] le metadescrizioni della cultura non sono di per se stesse lo scheletro, l'ossatura fondamentale, ma uno dei poli strutturali e non costituiscono per lo storico una soluzione già pronta, ma materiale di studio, ovvero uno dei meccanismi della cultura in continuo conflitto con gli altri meccanismi,,15.

Da una prospettiva attenta all'azione della semiosi nella defini-

15 J.M. Lotman, La semiosfera, cit., p. 127.

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~i~ne della m~m~ria cult~rale, gli eventi in sé sono passibili di inde­fllllte conneSSIOlll e valonzzazioni: l'accesso di questi eventi alla Sto­r~a dip.ende dai criteri di valorizzazione e prima ancora di pertinen­t~zZazIOne dell.a cultura a partire dalla quale vengono letti, e in par­t~col.a:e da~le lmgue attraverso cui gli eventi vengono filtrati e resi siglllflcantl. Il racconto mt;diale dell' evento 11 settembre nono­stante si in~criva nel vivo della contemporaneità, non sfugg~ a que­sto ~~c,calllsmo: pur prom~lgando un discorso improntato sull' og­gettlvlta e la trasparenza, dipende anch'esso dal punto di vista col­lettivo e per lo più irriflesso, a partire dal quale l'evento è ~tato dotato di senso.

A questo proposito, risultano particolarmente efficaci le osser­vazioni di Boris Uspenskij16, il quale individua un'analogia fra il fenom~no d~lla semiosi nella storia e un fenomeno che appartiene alla pSic?logia. del s?gno. L'esempio del semiologo russo, ripreso d~lle teSi estetiche di Pavel Florenskij, è il seguente: immaginiamo di sognare e di venire inseguiti da una persona armata, che a un certo punto spara un colpo di pistola. Il rumore ci sveglia, e ci rendiamo conto. che ciò che in sogno abbiamo percepito come uno sparo è st~to 11 r~more prodotto d~llo sbattere di una porta. Da una parte, gli eventi che precedono nsultano provocati dal finale' dall' altra n~lla co~posiz~one narrativa da noi sognata, il finale è collegato co~ gli avvelllmenti che lo precedono da una relazione di causa-effetto. L'ipotesi di Florenskij p~r r~solvere il paradosso è che il tempo del sogno e quello della veglia Siano caratterizzati da direzioni diverse: nel ~ogno il tempo sco:rerebbe in direzione inversa a quella della veglia, e per questa ragIOne la fine della visione corrisponderebbe con l'inizio della veglia.

~iversa è invece l'interpretazione di Uspenskij. Secondo il s~mIOlogo russo lo "~paro/sbattere di porta" non è un punto d'ar­nvo o partenza \funzi?ne c~e de~ermina il paradosso di Florenskij), ma un fattore di pertznenttzzazwne della produzione onirica pre-

16 B. Uspenskij, Storia e semiotica, Bompiani, Milano 1988.

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cedente, per sua natura eterogenea, che ne seleziona una serie suscet­tibile di essere messa in relazione temporale e causale: in altri ter­mini, percepiamo l'evento come significante, e questa percezione diventa la dominante semantica che d'un tratto illumina gli avveni­menti precedenti, rimasti nella nostra memoria, e ne determina la lettura, cioè li collega mediante nessi di causa-effetto e li intreccia in una serie narrativa. Questa interpretazione finale imposta il punto di vista, la prospettiva in cui sono visti gli avvenimenti. Secondo Uspenskij è lecito supporre che la situazione sia la stessa per la per­cezione della Storia: basta che un avvenimento venga percepito come rilevante, perché noi siamo indotti a vedere in questa prospet­tiva gli avvenimenti precedenti come se fossero collegati fra loro (mentre prima potevano anche non essere interpretati in questo modo). In quest'ottica, l'esperienza storica non si identifica con le reali conoscenze sedimentatesi gradualmente nel tempo man mano che gli eventi si presentano nel movimento progressivo della Storia, ma consiste nelle relazioni di causa ed effetto individuate dal punto di vista sincronico, attuale in un certo momento.

La denuncia di Dinoi alla "Storia ufficiale" che i media ci hanno tramandato è quella di una costruzione che ha cristallizzato il carat­tere variabile, negoziale, situato, sempre suscettibile di nuovi accessi e nuove riformulazioni, di ciò che comunemente definiamo "il reale", in un'unica Storia possibile, laddove la costruzione discorsiva incentrata sull' evidenza delle immagini ha concorso a occultare l'azione di pertinentizzazione, nei termini di Lotman e Uspenskij, che ha orientato la definizione di connessioni causali univoche e semplificanti, di cui gli opposti slogan" attacco all'Occidente" e "rivalsa dei diseredati contro l'impero americano" ben condensano la logica triviale e riduttiva. Significativamente, a proposito dei cineasti che hanno contribuito all' opera collettiva Il settembre 2001, l'autore parla di poetica della dislocazione, rintracciando all'interno di alcuni testi filmici - anche, o soprattutto, in quanto prodotti al di fuori delle rigide grammatiche formali, semantiche e valoriali che soggiacciono al racconto mediale - la riapertura della storia del­l'evento a partire da nuovi accessi e angolazioni:

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«Per molti degli autori che si confrontano con l'evento 11 settembre sem­bra che il tessuto diegetico debba tendere a ricostruire le condizioni di possibilità della percezione che ne abbiamo avuto, la molteplicità di effetti a cui la sua onda d'urto dà luogo, i sommovimenti o le scosse intimamente telluriche che ne derivano e che non cessano di provocare conseguenze attraverso serie di concatenazipni più o meno dirette; [ ... ] l'evento infatti non accade nel vuoto, il suo m~vimento si inserisce in altri movimenti che lo precedono o si verificano simultaneamente, e che vengono da essi modi­ficati, ma che possono anche retro agire sull' evento scatenante, o più pre­cisamente sulla nostra percezione di esso, sulla narrazione storica che di esso viene fatta» 17.

Più che rintracciare in queste opere la messa in scena di un reale più "vero", più vicino all'effettivo svolgersi delle cose, l'autore indi­vidua in primo luogo la capacità del testo filmico di assumere posi­~ioni teoriche sui modi possibili di percepire e interpretare l'evento. E una teoria dell'immagine, della sua costruzione e dei suoi limiti, delle forme di mediazione e opacità costitutive del mezzo, che Dinoi rintraccia ad esempio nelle opere di Alejandro Gonzalez Iiiarritu e di Idrissa Ouedraogo. È una teoria della Storia quella individuata nell'opera di Ken Loach, che restituisce l'evento alla memoria col­lettiva, individuando analogie rimosse fra il colpo di stato contro Salvador Allende dell'l 1 settembre 1973 e gli attentati contro il World Trade Center, come è una riflessione sulle molteplici forme di ricezione dell' evento in relazione al vissuto personale del singolo che l'autore riscontra negli episodi di Claude Lelouch e Sean Penn.

Scardinando definitivamente il dualismo realtà/finzione, inutile in quanto categoria esplicativa, e tendenzioso se associato alle tipo­logie discorsive del racconto documentale da un lato e del discorso finzionale dall'altro, l'autore riconosce agli oggetti filmici lo statuto di strumenti di pensiero e quindi di conoscenza, anche se nei modi sincretici e condensati dell'immagine e della relazione fra immagini.

17 M. Dinoi, Lo sguardo e l'evento. I media, la memoria, il cinema, cit., pp. 95-96.

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Osserva a questo proposito Gianfranco Marrone, nell'incipit al suo lavoro su Arancia meccanica:

«Di qualsiasi esperienza - corporea e non - possiamo avere contezza, e quindi controllo, solo tramite un racconto; il quale, se affidato all'estro narrativo di ciascuno di noi, risulterà con buona probabilità molto meno ricco e complesso, e dunque molto meno carico di potenzialità concettuali, di quello di due maestri della narrazione come sono stati senz'altro il romanziere Burgess e il regista Kubrick. [ ... ] se l'analisi testuale può essere preferibile, o quanto meno avere un medesimo valore dimostrativo, delle sperimentazioni scientifiche è dunque perché le opere che essa sottopone ad esame, a differenza degli esperimenti in laboratorio, non sono state pro­dotte per essere analizzate: esistono nel mondo, e nella semiosfera, a pre­scindere dai semiologi che, per i loro interessi teorici comunque da espli­citare, un giorno possono decidere di analizzarli»18.

Da questo punto di vista, l'analisi testuale rivela una portata ben più ampia delI'esplicitazione della maestria stilistica e retorica dei singoli autori, e più sottile della riaffermazione del datato antago­nismo fra "arte alta" e "intrattenimento popolare". Proprio perché il reale non si dà come" oggetto" da restituire ma come "possibile" da forgiare e definire in modi mai del tutto dati in partenza, l'atten­zione alle singole opere è fondamentale per recuperare le diverse "teorie del reale" che i testi, in questo caso filmici, contengono e immettono nella semiosfera. In questo senso, lo sguardo semiotico può risultare strumento efficace per superare il dato più manifesto attraverso cui distinguiamo le tipologie discorsive in macrogeneri e indagare in immanenza forme e strategie peculiari attraverso cui ogni testo" costruisce il reale". N ella relazione fra codici e linguaggi che innerva la semiosfera, nemmeno l'apporto critico è neutro o innocente: in questo senso, l'incremento di intelligibilità ermeneu-

18 G. Marrone, La Cura Ludovico. Sofferenze e beatitudini di un corpo sociale, Einaudi, Torino 2005, pp. X-XI.

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delle opere a partire dalle analisi è uno dei modi di ergere le teo­rie condensate nei testi estetici a metadescrizioni, nel senso che Lot­man conferisce alle" descrizioni ufficiali", ovvero di orientare e retro agire sulla percezione che una cultura ha di se stessa. Se è vero, come ricorda Marrone, che descrivere è già valorizzare, l'analisi testuale è una delle forme di esplicitazione e valorizzazione dello statut~ linguistico, nel senIo di costruttivo, del linguaggio cinema­tografIco, che può concorrere ad arricchire il dibattito culturale della pluralità di sguardi di cui i singoli testi sono portatori. La focaliz­zazione sui singoli oggetti filmici consente di portare alla luce le relazioni fra soggetto e mondo che essi propongono o mettono in discussione, con modalità che spesso si pongono in alternativa e in controcanto rispetto a quelle che ci tramandano i canali istituzio­nalmente deput~ti all'informazione, in una dialettica fra linguaggi che concorre a nformulare e ridefinire i modi di pensare e dare senso alle esperienze che circolano nella cultura.

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