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Pensare la folla. Appunti per la ricostruzione di un itinerario terminologico e concettuale

Date post: 25-Jan-2023
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«Teoria politica» XX, n. 3, 2004, pp. 15-53 PENSARE LA FOLLA. APPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DI UN ITINERARIO TERMINOLOGICO E CONCETTUALE di Damiano Palano 1. La psicologia delle masse La psicologia delle masse non è soltanto la somma degli atteggiamenti individuali, e questa non è un’opinione personale ma un postulato fondamentale della psicodinamica sociale. Non si conoscono eccezioni. È il principio dell’azione di massa, la legge della folla scatenata ben nota ai capi militari, politici e religiosi, a pubblicitari e propagandisti di ogni specie, ai Profeti, agli agitatori e ai capibanda: tutta gente che conosce questa regola da secoli prima che venisse formulata in termini matematici. Funzionava allora, funziona adesso 1 . Pur collocate in un futuro piuttosto remoto — al principio di Methuselah’s Chil- dren, un classico della science fiction nordamericana degli anni Quaranta — le espres- sioni con cui Robert Heinlein accennava al « postulato fondamentale della psicodina- mica sociale » riecheggiavano da vicino le formule utilizzate da Gustave Le Bon nella Pyschologie des foules mezzo secolo prima. Fissando in una serie di tecniche e precetti (presentati come scientificamente fondati) l’arte di trascinare e condurre le moltitudi- ni, era stato proprio il pamphlet di Le Bon a rendere popolare — tra la fine dell’Otto- cento e l’inizio del XX secolo — l’idea che una psicologia del comportamento collet- tivo fosse non solo un traguardo possibile, ma soprattutto uno strumento indispensa- bile per impedire che l’irrompere delle masse sulla scena politica degenerasse nel caos di una catastrofe irrimediabile. Il motivo al cuore della Psychologie des foules — un motivo tanto efficace da essere declinato in una serie quasi interminabile di varianti — era infatti che l’umanità, negli ultimi decenni del XIX secolo, avesse fatto ingresso in una nuova stagione della sua storia, l’« era delle folle », in cui proprio la forza del numero pareva destinata a sancire, insieme al trionfo delle moltitudini, l’irreversibile tramonto della civiltà occidentale. L’unica alternativa alla decadenza, secondo Le Bon, era offerta dall’esplorazione del « terreno vergine » della psicologia collettiva, che avrebbe consentito di scoprire e formulare scientificamente quelle leggi, alla base del volubile comportamento delle folle, di cui i « dominatori del mondo, i fondatori di religioni o di imperi, gli apostoli di tutte le fedi, gli uomini di Stato eminenti, e, in una sfera più modesta, i semplici capi di piccole collettività umane », avevano sempre
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«Teoria politica» XX, n. 3, 2004, pp. 15-53

PENSARE LA FOLLA.APPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DI UN ITINERARIO

TERMINOLOGICO E CONCETTUALE

di Damiano Palano

1. La psicologia delle masse

La psicologia delle masse non è soltanto la somma degli atteggiamenti individuali, e questanon è un’opinione personale ma un postulato fondamentale della psicodinamica sociale. Non siconoscono eccezioni. È il principio dell’azione di massa, la legge della folla scatenata ben notaai capi militari, politici e religiosi, a pubblicitari e propagandisti di ogni specie, ai Profeti, agliagitatori e ai capibanda: tutta gente che conosce questa regola da secoli prima che venisseformulata in termini matematici. Funzionava allora, funziona adesso1.

Pur collocate in un futuro piuttosto remoto — al principio di Methuselah’s Chil-dren, un classico della science fiction nordamericana degli anni Quaranta — le espres-sioni con cui Robert Heinlein accennava al « postulato fondamentale della psicodina-mica sociale » riecheggiavano da vicino le formule utilizzate da Gustave Le Bon nellaPyschologie des foules mezzo secolo prima. Fissando in una serie di tecniche e precetti(presentati come scientificamente fondati) l’arte di trascinare e condurre le moltitudi-ni, era stato proprio il pamphlet di Le Bon a rendere popolare — tra la fine dell’Otto-cento e l’inizio del XX secolo — l’idea che una psicologia del comportamento collet-tivo fosse non solo un traguardo possibile, ma soprattutto uno strumento indispensa-bile per impedire che l’irrompere delle masse sulla scena politica degenerasse nel caosdi una catastrofe irrimediabile. Il motivo al cuore della Psychologie des foules — unmotivo tanto efficace da essere declinato in una serie quasi interminabile di varianti —era infatti che l’umanità, negli ultimi decenni del XIX secolo, avesse fatto ingresso inuna nuova stagione della sua storia, l’« era delle folle », in cui proprio la forza delnumero pareva destinata a sancire, insieme al trionfo delle moltitudini, l’irreversibiletramonto della civiltà occidentale. L’unica alternativa alla decadenza, secondo LeBon, era offerta dall’esplorazione del « terreno vergine» della psicologia collettiva,che avrebbe consentito di scoprire e formulare scientificamente quelle leggi, alla basedel volubile comportamento delle folle, di cui i « dominatori del mondo, i fondatori direligioni o di imperi, gli apostoli di tutte le fedi, gli uomini di Stato eminenti, e, in unasfera più modesta, i semplici capi di piccole collettività umane », avevano sempre

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avuto una « conoscenza istintiva». La « conoscenza della psicologia delle folle», inquesto senso, come scriveva lo stesso Le Bon, avrebbe fornito uno strumento decisivoall’«uomo di Stato » che, pur senza poter governare effettivamente le moltitudini, nonsi fosse ancora rassegnato a « essere governato troppo completamente da esse » 2.

Che uno scrittore americano di science fiction, all’inizio degli anni Quaranta, sirichiamasse, pur in termini piuttosto vaghi, al vecchio sogno di Le Bon, non era infondo singolare, perché, sbarcando sull’altra sponda dell’Atlantico, il volumetto delpubblicista francese aveva trovato non solo un’accoglienza per alcuni aspetti trionfa-le 3, ma persino estimatori celebri come Theodor Roosvelt 4. Nelle pagine del proprioromanzo, d’altronde, Heinlein riprendeva alcune delle più note ipotesi formulate piùo meno organicamente, tra Otto e Novecento, dai cultori della giovane disciplina: oltreall’idea che l’unione degli individui non determinasse la somma degli atteggiamentiindividuali, ma desse origine a una realtà psicologica differente (tendenzialmenteincline all’isteria collettiva ed utilizzabile da leader politici e religiosi), riproponevainfatti persino le ipotesi che le dinamiche psicologiche fossero soggette a una « cresci-ta per lievitazione », e, più in generale, che le tendenze psico-sociali e le loro combi-nazioni potessero essere ridotte a formule matematiche 5. Nel suo romanzo non man-cavano però allusioni anche a eventi più recenti, che avevano contribuito a ridefinirenotevolmente l’immagine che della massa e della folla avevano dipinto gli psicologidi fine Ottocento. Da un lato, la stessa trama del romanzo, intessuta sul motivo di ungruppo di ultracentenari in fuga dalla Terra per scampare all’odio e alle persecuzionimesse in atto da una maggioranza in preda a un’epidemia di isteria collettiva, nonpoteva infatti non richiamare quanto avveniva allora in Europa — e perciò un’imma-gine ben precisa della « massa» ferocemente manipolata dai regimi totalitari — men-tre, dall’altro, l’incontro con la realtà del « Piccolo popolo », capace di vincere lamorte grazie alla dissoluzione dei singoli ego in un «io collettivo», doveva probabil-mente alludere allo spettro di una «massificazione» totalitaria, se possibile, ancor piùinsidiosa: una « massificazione » potenzialmente in grado di annullare l’irripetibileunicità di ciascuno e di cancellare così proprio quell’individualismo di fondo chesecondo Heinlein risultava essere il più prezioso patrimonio del genere umano.

Nelle pagine dello scrittore americano si trovavano perciò riassunti, in una sorta dicompendio fantascientifico, i diversi — e talvolta persino contraddittori — « voltidella folla» dipinti dalla psicologia collettiva nel corso della sua storia. Come hanotato Michela Nacci, durante le tre distinte tappe della sua evoluzione, questa disci-plina — dallo statuto scientifico piuttosto incerto, ma al tempo stesso estremamentesuggestiva — avrebbe infatti attribuito alla «folla» connotati fortemente eterogenei:nella prima fase sarebbe risultato dominante «l’esempio delle folle in rivolta», con ilricordo della Rivoluzione francese, nella seconda le folle si sarebbero collocate a« metà fra le masse oceaniche dei totalitarismi e l’immagine del piccolo-borgheseconformista », mentre nell’ultima sarebbe emersa la nuova figura «del consumatore,perfetto esempio di un prodotto della società del benessere » 6. Benché questa scansio-ne temporale sia fondata e per molti versi condivisibile, in realtà — come d’altrondeammette anche Nacci — individuare un netto confine tra l’una e l’altra stagione, e,dunque, tra l’orda ribelle delle origini, la «massa » passiva della seconda stagione e la«folla solitaria » degli anni Cinquanta e Sessanta, risulta estremamente complesso.

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Che l’incubo della « massa» assumesse nelle pagine di Heinlein contorni piuttostoindefiniti non costituiva in effetti una circostanza eccezionale, perché una continua«sovrapposizione» concettuale era evidente anche in molte delle opere fondative del-la psicologia collettiva, e termini come « folla», « massa» e persino « moltitudine»non solo venivano assunti nelle pagine di Le Bon, Gabriel Tarde o Scipio Sighelecome sinonimi, ma erano utilizzati anche per indicare fenomeni tra loro sostanzial-mente eterogenei, come i rumorosi assembramenti nelle piazze del mercato, le volu-bili platee dei teatri o le disciplinate schiere di soldati marcianti. Se questa « confusio-ne» terminologica e concettuale può oggi essere considerata come una ulteriore con-ferma dello scarso rigore scientifico e argomentativo di molti dei cultori della scienzapositiva di fine Ottocento, sarebbe riduttivo intenderla soltanto come il prodotto di un«ritardo » o di una deleteria distorsione teorica. Per quanto la rifondazione metodolo-gica dello studio dei movimenti sociali e dei comportamenti collettivi abbia dovutonecessariamente passare da una ridefinizione dell’oggetto di studio, conseguita pergran parte grazie a una netta rottura con i pionieristici lavori di Le Bon e dei suoicontemporanei, proprio nell’ambiguità della folla fin de siècle e nelle sue sfaccettaterappresentazioni si nasconde forse il più profondo significato di una impresa teoricaben più rilevante di quanto spesso si riconosca.

L’eterogeneità di significati celata sotto l’inquietante figura della massa costituivainfatti uno dei tratti principali della «scoperta» della folla compiuta nel corso dell’Ot-tocento. Una « scoperta » che era al tempo stesso il prodotto del contatto con la nuovadimensione metropolitana e con una nuova condizione psicologica, ma anche una«scoperta» che, riannodando in un ordito per larga parte originale le trame di un’ico-nografia sedimentata dai secoli, dava forma a un nuovo « nemico », non più provenien-te dall’esterno dei confini dello Stato, ma dalle profondità della psiche di ciascunindividuo, dagli abissi dell’inconscio collettivo della specie e della razza7. La « sco-perta» della folla — sotto le cui ambigue fattezze si trovavano affastellati tutti gliincubi della società di fine secolo — può essere perciò letta come una tappa di quel-l’itinerario teorico destinato — in una sconcertante e paradossale convergenza —tanto a dar forma alle regioni sconosciute e «inconsce » della mente umana, quanto aricollocare il confine tra «interno» ed «esterno», tra «amico» e «nemico», tra «civile»e «barbaro», nelle più oscure profondità della psiche individuale.

Prendendo le mosse da questa lettura, nelle pagine che seguono vengono offertialcuni frammentari contributi alla ricostruzione dell’itinerario terminologico e con-cettuale che, nel corso dell’Ottocento e dei primi decenni del XX secolo, condussedapprima alla definizione teorica della «folla», come oggetto di studio della psicolo-gia collettiva, e, in seguito, alla sua graduale rielaborazione. In questo senso, l’atten-zione si soffermerà innanzitutto sui diversi filoni che contribuirono alla sedimentazio-ne di un’iconografia estremamente eterogenea, concentrata di volta in volta sulla con-dizione sociale e psicologica prodotta dalla nuova dimensione metropolitana, sui com-portamenti devianti delle folle rivoluzionarie e sulla « naturale » disposizione dellegrandi masse a essere « mesmerizzate» dai meneurs (§ 2 e § 3). Successivamente, laricostruzione si soffermerà sulla trasformazione della « folla » ottocentesca in un greg-ge di «uomini massa», di cui sono considerati come episodi cruciali le letture proposteprima da Le Bon e in seguito dalla Massenpsychologie di Sigmund Freud (§ 4 e § 5).

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Nella conclusione verranno infine proposte alcune ipotesi interpretative che punteran-no a collocare l’itinerario della psicologia della folla e della massa nel quadro di un piùampio contesto, nel quale la trasformazione delle rappresentazioni della psiche, inter-venuta a partire dall’età moderna, viene affiancata alla modificazione dei modellidottrinali della sovranità e ai meccanismi teorici di neutralizzazione del conflitto (§ 6).

2. Il « fiume umano»

La folla di Parigi, è dovunque impressionabile alla stessa guisa: tra i diversi gruppi che lacompongono si stabilisce sino dai primi momenti una specie di promiscuità, alla quale è impos-sibile sottrarsi, e d’onde nasce istantaneo un contagio che si comunica anche ai membri più sani.Dal momento che vi trovate avvolto nella folla, cessate di appartenere a voi; la vostra personanon è che un fiotto di più, il quale obbedisce alle spinte dell’onda, e partecipate, senza poterveneliberare, ai disordini ed alle violenze di questo fiume umano8.

In un romanzo popolare di un certo successo, pubblicato nel 1877, Pierre Zacconemuoveva dall’espediente di un uomo dallo sguardo impenetrabile, intravisto nel foltodel pubblico di uno straripante teatro parigino e poi seguito in una sfrenata corsa neiboulevard e nei più riposti vicoli della capitale. Ben più dell’improbabile intreccio —imbastito sulla vicenda di uno sdoppiamento di personalità — erano significative leparole con cui Zaccone descriveva la travolgente folla parigina, contrassegnata dallostesso moto inarrestabile e dal medesimo potere ipnotico che Edgar Allan Poe, qua-rant’anni prima, aveva attribuito alla cupa massa londinese in un celebre e fulminanteracconto (di cui l’autore francese si dichiarava peraltro esplicitamente debitore). Sep-pure fosse stata prodotta — come avrebbe notato Walter Benjamin — da una « fantasiaconsapevolmente deformante » 9, il ritratto della folla londinese abbozzato da Poe erarisultato però straordinariamente efficace, perché lo scrittore, considerando i «pas-santi in quanto masse » e «correndo col pensiero solo ai loro rapporti collettivi»,aveva dato corpo all’incubo di un individuo imperscrutabile, travolto da una mareaumana in cui cercava paradossalmente l’oblio, e allo spettro di quella « folla senzavolto », vittima delle seduzioni del consumo e del potere della stampa, di cui più omeno contemporaneamente Tocqueville avrebbe annunciato l’avvento nella Demo-crazia in America:

Per la maggior parte erano persone dall’aria convinta propria agli uomini di affari, e pare-vano preoccupati soltanto di aprirsi un varco nella ressa. Con le sopracciglia aggrottate muove-vano gli occhi vivacemente, e se qualcuno li urtava, senza manifestare impazienza di sorta siaggiustavano i panni e tiravano via. Altri, in gran numero anch’essi, procedevano con un fareinquieto, rossi in volto, e parlavan tra sé gesticolando come se pel fatto stesso di quella molti-tudine infinita che li circondava si sentissero soli. Se accadeva loro di doversi fermare perqualche impedimento cessavano di borbottare ma raddoppiavano i gesti e, con sulla faccia unsorriso distratto, esagerato, aspettavano che gli altri, nel cammino dei quali s’erano intralciati,fossero passati via. Se poi venivano urtati si profondevano, tutti confusi, in saluti ed inchini 10.

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Tuttora evocativa, l’immagine dipinta da Poe doveva apparire estremamente sug-gestiva anche a molti contemporanei, che videro nell’incubo della marea umana assie-pata nelle vie di Londra — « tetra e confusa come la luce a gas in cui si muove » 11 —un’efficacissima rappresentazione non solo della caotica vita delle nuove metropoli,ma anche del disagio che l’irruzione della modernità doveva fatalmente produrre sullastabilità psichica di ciascun individuo. D’altra parte, lo stesso accostamento ossimo-rico ravvisabile nel titolo che Poe aveva assegnato al proprio racconto doveva suonarequasi come l’annuncio di uno scontro fatale con la massa, da cui il singolo parevadestinato a uscire sconfitto, soggiogato dalla prorompente forza del numero.

Soffermandosi proprio sulle conseguenze della centralità conquistata dalla « folla»dopo la Rivoluzione di Luglio, Walter Benjamin, nei suoi frammenti su Parigi capi-tale del XIX secolo, notava che «nessun altro oggetto si era imposto più autorevolmen-te ai letterati dell’Ottocento »: la folla, scriveva Benjamin, « cominciava — in larghistrati per cui la lettura era diventata abitudine — a organizzarsi come pubblico »,«assurgeva al ruolo di committente», pretendendo di “ ritrovarsi nel romanzo contem-poraneo, come i fondatori nei quadri del Medioevo ” » 12. Benché nelle pagine dei suoilavori Victor Hugo sfruttasse l’intera gamma semantica del termine foule — utilizzan-dolo di volta in volta per indicare la massa dei diseredati, gli abitanti dei bassifondi,i rivoltosi sulle barricate o l’intera popolazione parigina13 — ai suoi occhi, la folla erasoprattutto, «quasi in senso antico, la folla dei clienti, del pubblico » 14. In questaprospettiva, non erano perciò casuali né il successo di un romanzo come I misteri diParigi, in cui Eugène Sue aveva collocato a protagonista indiscusso il popolino dellacapitale, né la fortuna di Hugo, conformatosi tanto rigorosamente alle esigenze delnuovo committente da rivolgersi alla folla persino nel titolo dei suoi romanzi. L’autoreche più di chiunque altro era riuscito a calarsi nella nuova condizione urbana, secondoBenjamin, era stato però Baudelaire, che, nei Fiori del male, pur senza mai fornire unadescrizione diretta della calca parigina, aveva attribuito alla «folla” il ruolo di unosfondo umano costante e decisivo. « La massa» diventava così « il velo fluttuanteattraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi » 15, come ad esempio nella poesia A unapassante, dove il semplice riferimento alla «via assordante » 16, in cui si affacciavafuggevolmente il volto di una vedova, forniva lo schema di uno choc comprensibilesolo all’interno della nuova dimensione metropolitana: «l’apparizione che affascinal’abitante della metropoli — lungi dall’avere nella folla solo la sua antitesi, solo unelemento ostile — gli è arrecata solo dalla folla», nel senso che «l’estasi del cittadinoè un amore non tanto al primo quanto all’ultimo sguardo », «un congedo per sempre,che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto » 17.

Ormai avviate a mutare il loro volto per effetto della costruzione delle grandi arte-rie di comunicazione, nei decenni attorno alla metà dell’Ottocento soprattutto Parigie Londra iniziavano in effetti ad apparire come città « affollate» da una nuova, infor-me e caotica massa umana, presa in un vortice apparentemente irrefrenabile e sedottadalle merci esposte nelle vetrine delle grandi vie del centro18. Se fino a quel momentonelle figure della « massa» e della «folla» erano andate a depositarsi confusamente leraffigurazioni più consolidate della plebe dei marginali e della «feccia» sediziosa (dicui le trasformazioni capitalistiche sottolineavano i tratti, senza però alterare l’origi-naria sostanza) 19, la percezione che l’avvento delle metropoli andasse a incidere non

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solo sui costumi, ma persino sulla più profonda costituzione psicologica dell’indivi-duo, proponeva un quadro destinato a sedimentarsi rapidamente nell’immaginariocomune. La folla diventava così anche quell’informe e volubile aggregato di uominie donne, che, nelle grandi strade aperte proprio in quegli anni a Londra e Parigi,rincorreva senza posa le più effimere mode, infiammandosi per il successo di attori ecantanti condannati a essere dimenticati nel rapido volgere di pochi mesi, o indirizzan-do al pubblico ludibrio le opere di autori ingegnosi e originali.

A soffermarsi su questo aspetto della vita cittadina era stato già Charles Mackayall’inizio degli anni Quaranta, in un volumetto dal notevole successo in cui avevapreso di mira le « grandi illusioni collettive» e la « pazzia delle folle ». Per quanto i casiconsiderati da Mackay risalissero ai secoli precedenti, emergeva dal suo discorsoun’immagine della psicologia delle folle piuttosto vicina a quella che si sarebbe affer-mata nell’immaginario dei decenni successivi, e, non casualmente, il racconto piùefficace compreso nel volumetto ricordava l’euforia collettiva che, nella Francia delprincipio del Settecento, aveva preceduto il colossale disastro finanziario del progettodel Mississipi, ideato e organizzato da John Law con il sostegno dell’amministrazionedel Regno. Proprio ricostruendo i contorni della febbre che aveva sconvolto la capita-le, Mackay forniva in effetti una descrizione della Place Vendôme in cui le autenticheprotagoniste erano la « folla » e l’«ubriacatura collettiva » di quei giorni:

Quella grande piazza divenne ben presto affollata come Rue de Quincampoix: dalla mattinaalla sera sembrava vi fosse in corso una fiera. Si eressero tende e baracconi per le transazionid’affari e per la vendita di rinfreschi e i giocatori d’azzardo, con i loro tavoli da roulette,stazionavano al centro della piazza e mietevano tra la folla messi d’oro o, meglio, di cartamo-neta. I boulevard e i giardini pubblici erano deserti: feste e festanti prendevano la strada di PlaceVendôme, che diventò allo stesso tempo salotto alla moda per i perdigiorno e luogo di ritrovoper gli uomini d’affari. […] I colori, i nastri e gli striscioni sgargianti che ondeggiavano alvento, la massa di gente indaffarata che usciva ed entrava in continuazione, l’incessante brusio,il rumore, la musica, e la strana mescolanza di affari e piacere sui volti della folla, tutto concorsenel conferire al luogo un’aria di magia che estasiò i parigini 20.

Se Victor Hugo era stato — secondo la lettura di Benjamin — lo scrittore che inmodo più conseguente aveva preso atto della nuova rilevanza della « folla » all’internodel mercato editoriale, furono però soprattutto i romanzi di Émile Zola a fornire leraffigurazioni più efficaci delle nuove «folle » urbane, in tutte le loro differenti econtraddittorie manifestazioni. Applicando i canoni del realismo e allestendo il pro-prio monumentale affresco della «storia naturale di una famiglia » nella Francia delSecondo Impero, Zola non poté infatti evitare di confrontarsi con quella che parevaessere una nuova condizione umana, e così, lungi dall’attribuire alla « folla» una sem-plice funzione «scenografica », le affidò spesso un ruolo decisivo, talvolta persino daprotagonista. La polivalenza semantica del termine foule, che aveva caratterizzato iromanzi di Hugo, non era risolta neppure nei testi di Zola, il quale, puntando sempresu un implicito accostamento tra la folla e la società, sperimentò ampiamente tutta lagamma dei possibili significati di quell’espressione.

L’immagine dell’orda dei minatori di Germinal, che, irrompendo dal sottosuolo,

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scagliavano il loro furore primordiale contro la società borghese, rimane probabil-mente il più noto esempio della « folla» zoliana, ma — per quanto quella raffigurazio-ne fosse destinata a ottenere un clamoroso e duraturo successo e persino a essereconsiderata dalla psicologia collettiva di fine Ottocento come un inoppugnabile docu-mento « scientifico» — il romanziere francese abbozzò in altre occasioni ritratti altret-tanto convincenti. Confermando l’estrema versatilità con cui il termine poteva essereutilizzato persino dal medesimo autore, la «folla » si scorgeva già nei brulicanti padi-glioni delle Halles descritte nel Ventre de Paris, nelle sale fumose in cui l’acquavitebruciava il destino della Gervaise dell’Assommoir, sotto le spoglie del pubblico oraadorante e docile, ora feroce e ignorante, che acclamava le fortune non solo teatrali diNanà, o che derideva senza rispetto gli esiti dell’estro dirompente e innovatore delClaude Lantier dell’Oevre, in una scena che doveva riprodurre piuttosto fedelmentel’impietosa accoglienza riservata all’esordio pubblico degli Impressionisti. Ed eraancora la «folla » ad assiepare i saloni del Bonheur des Dames, a fornire l’ordito sulquale le vicende di Jean Macquart e Maurice Levasseur, passando attraverso la trage-dia della guerra franco-prussiana, sarebbero arrivate a consumarsi nello scontro fataledel 1871 sulle barricate della Comune, e, infine, a dare sostanza — ben più di ognialtro protagonista — alla fulminea e drammatica parabola di Aristide Saccard, capace,nell’Argent, di accendere l’intera Francia promettendo il sogno di una ricchezza im-provvisa e di precipitare se stesso e una massa di piccoli anonimi investitori in unirrimediabile disastro finanziario. Proprio in quest’ultimo romanzo, rivisitando untema analogo a quello che aveva ispirato a Mackay il volume sulla «pazzia dellefolle », Zola forniva un ritratto delle « folle mondiali » che nei giorni dell’Esposizioneuniversale «invadevano le strade » inebriando Parigi « in un sogno d’inesauribile ric-chezza, e di dominazione sovrana», che faceva presagire l’imminente dissoluzionedell’Impero 21. La « folla » cui alludeva Zola non era evidentemente solo il simbolo diuna città assediata dai turisti e dai visitatori dell’Esposizione: collocata al cuore del-l’impalcatura del ciclo dei Rougon-Maquart, essa andava a raffigurare il corpo di unanazione facile alla suggestione della gloria e della ricchezza ma ormai logorata nelprofondo, incapace di disciplina morale e incamminata in modo irreversibile sullachina della dissoluzione. In questo senso, la «vertigine » da cui la folla veniva coltaalla notizia del progetto di Saccard, faceva trapelare proprio l’idea di una degenerazio-ne irreparabile, destinata a condurre rapidamente al tracollo:

La notizia accendeva le immaginazioni, gettando la prima scintilla di quell’ebbrezza, diquella passione, che doveva col tempo ingigantire, e distruggere ogni discernimento. Il terrenoera già preparato, terriccio imperiale, fatto di frantumi in fermento, riscaldato da appetiti esa-sperati, estremamente propizio a quei folli balzi della speculazione, che ogni dieci o quindicianni bloccano o avvelenano la Borsa, lasciando dietro di sé soltanto sangue e rovine. […] E,nella vertigine da cui era colta la folla, nella baraonda degli altri buoni affari che si offrivano suimarciapiedi, l’Universale finalmente s’incamminava, macchina potente destinata a sconvolge-re tutto, a schiacciare tutto, mentre mani violente ne alimentavano oltre misura la fiamma, finoall’esplosione 22.

Se l’idea della folla, alla metà del XIX secolo, risultava già fortemente associata

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alla percezione di una nuova condizione che andava a sconvolgere l’equilibrio men-tale degli abitanti delle grandi città, Zola arricchiva notevolmente quest’iconografia,secondo modalità che per molti versi segnalavano un mutamento ben più generale.Le pagine di Zola, in altri termini, testimoniavano come le vecchie immagini dellaplebe e della canaglia sediziosa dei quartieri popolari andassero a confluire proprionella nuova iconografia della folla, fondendosi però — in modo spesso inestricabile— con l’idea di una instabilità psichica provocata dalle condizioni frenetiche dellavita delle grandi città. Il disordine urbano e il disordine politico apparivano, in que-sta nuova prospettiva, come due aspetti strettamente connessi l’uno all’altro, che tro-vavano il loro legame nell’idea della fragilità mentale che avrebbe caratterizzato l’uo-mo della metropoli. E, sotto questo profilo, non è troppo difficile cogliere il collega-mento tra questa immagine della folla urbana e l’idea dell’instabile fondamento psi-cologico dell’uomo della metropoli, di cui Georg Simmel, nella sua celebre confe-renza del 1903, avrebbe indicato la causa nell’incremento della dimensione nervosadell’esistenza 23.

3. L’«opera delle folle»

I barbari, che furono le grandi folle dell’antichità, come gli operai sono le grandi folle deinostri giorni — non avrebbero certo costrutto l’edificio della civiltà romana, — ma quandol’edificio fu barcollante, occorrevano i barbari per atterrarlo e render possibile la costruzioned’una civiltà nuova cogli avanzi del vecchio. È allora che appare l’opera delle folle, e che, perun istante, la filosofia del numero diventa la sola filosofia della storia 24.

Allontanandosi solo per alcuni accenti dalle formule utilizzate da Le Bon, il crimi-nologo italiano Scipio Sighele, nel 1897, rivisitava un’immagine della folla rivoluzio-naria fortemente radicata nell’immaginario fin de siècle. L’idea che le masse sociali-ste, conquistando un ruolo politico decisivo, fossero destinate ad abbattere le istituzio-ni della società europea, era, infatti, un vero e proprio luogo comune, una sorta diincubo condiviso, ereditato dall’Ottantanove e in seguito vivificato dal trauma dellaComune. Nell’immagine dei barbari in marcia verso la distruzione non andavano peròa rifluire soltanto lo sgomento per l’avanzata del movimento operaio e l’atterrito ricor-do delle «petroliere » parigine, perché in effetti la percezione del pericolo rivoluzio-nario si confondeva con la rappresentazione di una condizione di generale «dissolu-zione» di cui le grandi e caotiche metropoli europee erano il simbolo paradigmatico.

In questo senso, nella sua accurata indagine sulle rappresentazioni della folla nellaFrancia di fine Ottocento, Susanna Barrows ha messo in luce come molte delle « visio-ni» del periodo fossero ben lontane dal fornire una realistica descrizione della realtà.Parlando della folla, gli intellettuali fin de siècle intendevano riferirsi principalmenteall’irruzione sulla scena politica del movimento operaio, ma — costruendo un’imma-gine di cui la ferocia delle masse e la patologia del comportamento collettivo costitu-ivano temi invariabilmente presenti — «fondevano» all’interno di una medesimafigura gran parte degli incubi della società del tempo. Secondo una procedura analogaa quella definita da Freud come « lavoro onirico » 25, gli interpreti del periodo avreb-

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bero cioè «condensato» all’interno dell’immagine della folla anche fenomeni deltutto differenti, come la diffusione dell’alcolismo o la crisi dell’ordine patriarcale,che, percepiti come l’annuncio dell’imminente cataclisma sociale, potevano essereassociati — senza sostanziale distinzione — alla rappresentazione delle orde sociali-ste. Per quanto possa apparire come notevolmente lontana dallo spettro di una molti-tudine in rivolta, per effetto di questa lettura « distorcente » anche l’immagine dellafrenetica marea umana travolta dal vortice inarrestabile che Poe aveva collocato alcentro del proprio memorabile racconto, sarebbe perciò andata a depositarsi, insiemea molti altri frammenti, nella nuova figura della folla costruita dagli intellettuali di fineOttocento.

Già alla fine del Settecento, Edmund Burke aveva fatto ricorso alla vecchia imma-gine della moltitudine — presente, seppure con una caratterizzazione quasi diametral-mente opposta, nelle pagine di Hobbes e Spinoza — per descrivere i crimini efferatie la composizione sociale delle masse sediziose della Rivoluzione. Nelle sue celebriReflexions, aveva infatti raffigurato la folla rivoluzionaria come una «banda di scel-lerati e assassini» 26, che, grondando sangue, trascinava i prigionieri reali « tra gridaorride ed urla acute, danze frenetiche, infami insulti e tutti gli indicibili abominevolieccessi delle furie dell’inferno sotto la solita forma di donne immonde » 27. Burkeaveva inoltre inteso la «moltitudine » come un soggetto passivo, del tutto privo diqualsiasi volontà politica, costituito dalla popolazione povera e destinatario privile-giato delle attenzioni delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche 28, ma, soprattutto,aveva raffigurato la sedizione come la causa dell’irrompere delle più sfrenate passioniindividuali, non più controllate e guidate dalla ragione e dalla morale costituita. Già lamoltitudine descritta da Burke presentava dunque, almeno in nuce, quei caratteri diistintualità irriducibile e ferina che Taine, Le Bon e Sighele avrebbero in seguitoassegnato alle « folle» sediziose, e perciò non era affatto casuale che, riferendosi aglieffetti disastrosi prodotti dall’Illuminismo sulla stabilità del clero e dell’aristocrazia,colonne portanti della civiltà europea, il pensatore inglese prevedesse che anche il«sapere» — celebrato dagli intellettuali di fine Settecento come l’unico pilastro su cuiedificare la nuova società, ma sempre più incapace di governare il tumulto che avevacontribuito a destare — fosse destinato a finire «nella fanghiglia sotto i calzari di unamoltitudine animalesca»29.

Secondo la stessa procedura utilizzata da Burke, le pagine degli scrittori controri-voluzionari avevano contribuito a delineare i presupposti di tutte quelle descrizioniche sarebbero andate ad arricchire e connotare la rappresentazione della « folla». Leidee che le moltitudini agissero sempre come torme diaboliche, che le pulsioni al-l’omicidio e alla licenziosità sessuale fossero il corollario immancabile dell’azionedelle folle, che l’alcol costituisse un decisivo fattore scatenante, e che la donna assu-messe in queste situazioni il ruolo indiscusso di corruttrice vendicativa e assetata disangue, sarebbero infatti confluite nel bagaglio teorico della psicologia collettiva difine Ottocento. Se a coronare con maggiore successo questa operazione non soloiconografica fu probabilmente proprio Le Bon, il terreno necessario al suo radicamen-to era stato però già abbondantemente dissodato, oltre che dai romanzi di Zola, soprat-tutto dalla monumentale ricostruzione della Rivoluzione edificata da Hippolyte Tainenel corso di quasi due decenni. Raccolte e ampiamente utilizzate dalla narrativa d’ap-

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pendice, le nuove immagini della folla avevano infatti trovato un primo importanteutilizzo proprio nelle Origines de la France contemporaine, dove, riprendendo leraffigurazioni delle orde demoniache e inserendole in un quadro esplicativo già piut-tosto articolato, Taine ne aveva fatto un tassello non secondario del proprio discorsosul processo di dissoluzione della Francia.

Nelle Origines, la «folla » acquistava infatti una connotazione che da un lato avva-lorava e riprendeva l’immagine della dissoluzione sociale metropolitana, mentre,dall’altro, ereditava la tradizionale caratterizzazione negativa del mob e della popula-ce. In questo senso, la folla non era più semplicemente l’accessorio o il complementodi un’ambientazione storica che, almeno nelle intenzioni, doveva essere quanto piùrealistica possibile, ma assumeva per intero un ruolo da protagonista, divenendo ilsimbolo della sovversione della civiltà da parte di un nemico celato nel fondo dellapsiche collettiva. In questo modo, Taine aveva iniziato a dare corpo a una «sovrappo-sizione » iconografica su cui gli scritti di Sighele e Le Bon avrebbero in seguito insi-stito. Benché non si trattasse di un’innovazione assoluta, la rielaborazione e la riorga-nizzazione delle vecchie immagini attorno a un nuovo schema esplicativo aveva lacapacità di stabilire un nesso sempre più inestricabile tra la concezione della rivoltapolitica — sintomo e al tempo stesso causa di patologia sociale — e le figure deldisagio mentale individuale, del « disordine psichico » e della follia. Sotto questo pro-filo, non era solo per un artificio retorico che, nelle Origines, gli episodi più truci esanguinari della Rivoluzione fossero rappresentati come il risultato di una sorta ditemporaneo e funesto rovesciamento della piramide sociale. Una volta abbandonata lafunzione di direzione dell’edificio sociale da parte di una classe dirigente imbevutadei dogmi illuministi, le peggiori passioni avevano potuto « fermentare » e dare corpoagli eccidi e alle distruzioni delle orde rivoluzionarie. In questo quadro teorico, larivolta traeva costante alimento proprio dal « fondo» della piramide sociale, da quelvasto e composito mondo costituito da criminali, prostitute, folli e degenerati, cheimprovvisamente, nei giorni dell’insurrezione, uscendo dall’oscurità in cui erano abi-tualmente costretti, conquistavano la testa delle masse dirette al massacro. La «cana-glia» che guidava le truppe giacobine, e che riaffiorava in tutti i passaggi cruciali dellaRivoluzione, aveva per Taine sempre le medesime caratteristiche, su cui le sue paginenon esitavano a ritornare ossessivamente. Considerando la composizione della fazio-ne capeggiata da Robespierre all’indomani del settembre ’93, Taine si soffermava adesempio, per l’ennesima volta, sui contorni della «plebe della plebe », l’infimo stratosociale, vero cuore della Rivoluzione, da cui risalivano la « melma e la schiuma ordi-naria delle grandi città »:

ridotta alla sua feccia per la ritirata delle sue reclute a un di presso oneste, la fazione noncomprende più che la plebe della plebe, dapprima « gli operai subalterni che vedono tutti con uncerto piacere la sconfitta dei loro padroni», poi i più bassi dettaglianti, i rigattieri, i rivenduglio-li, […], poi i domestici, contenti d’essere ora i padroni dei loro padroni, guattieri, palafrenieri,lacché, portinai, valletti d’ogni specie, che, a dispetto della legge, hanno votato nelle elezioni,e che, ai Giacobini, formano « il popolo bestia » […]. — Ma, in questo fango che straripa e siespone in pieno sole, sono la melma e la schiuma ordinaria delle grandi città che formano il piùgrosso afflusso, cattivi soggetti di ogni professione o mestiere, operai libertini, irregolari e

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scorridori dell’esercito sociale, gente «che esce dalla Pitié, e, dopo aver percorso una carrieradisordinata, finisce col ricadere a Bicêtre » 30.

Nelle pagine di Taine, l’immagine della piramide sociale capovolta, in cui lo scet-tro del governo veniva affidato agli strati inferiori, si sovrapponeva già — seppur inmodo ancora non esplicito — all’immagine dello sconvolgimento psichico che neigiorni della Rivoluzione si produceva a livello individuale, prefigurando così quellasaldatura tra patologia mentale e disordine sociale su cui avrebbero puntato lo studiodel comportamento collettivo e la ricerca psichiatrica sulla dissoluzione delle funzionicerebrali. L’iconografia letteraria dei tumulti popolari, la simbologia tradizionale dellapossessione demoniaca e le rappresentazioni della follia elaborate in campo medico,si sarebbero così ben presto sovrapposte, rimandando implicitamente l’una all’altra etrovando spesso nell’isterica della Salpétriére la chiave di volta capace di forzare laporta di quella dimensione « inconscia », involontaria e irrazionale, nascosta in unaregione della psiche che — per effetto di una metafora straordinariamente efficace —iniziava a essere definita come sepolta nel « profondo». Già nelle Origines, infatti,mentre la follia collettiva della Rivoluzione era dipinta come l’effetto della fermenta-zione degli infimi strati sociali, la follia individuale, che durante il cataclisma dell’Ot-tantanove aveva colpito molti individui abitualmente « sani» e rispettosi delle istitu-zioni consolidate, veniva spiegata come il portato dell’« eruzione » — in alcuni casigraduale e in altri improvvisa — degli strati più « profondi» della psiche. Nella stessamisura in cui la ferocia omicida degli insorti era intesa come conseguenza del ruolo dicapofila assunto dai degenerati, la patologia mentale poteva essere equiparata alla«fermentazione» degli strati più profondi della psiche, eredità ingombrante dell’evo-luzione della specie e minaccia costante per la disciplina — ad un tempo sociale eindividuale — su cui la civiltà moderna si reggeva. Come scriveva ad esempio già aproposito della « decomposizione sociale » delle prime fasi dell’insurrezione, ciò cheriaffiorava in quel disordine — nel quale la sommossa era «la cancrena in cui le partisane sono infettate dalle parti ammalate» — era proprio l’oscuro e ingovernabile«fondo dell’uomo»:

Spettacolo strano e più istruttivo d’ogni altro, poiché vi si scorge il fondo dell’uomo. Comesu una zattera di naufraghi senza viveri, egli è ricaduto nello stato di natura; il sottile tessutod’abitudini e di idee ragionevoli nel quale la civiltà lo avvolgeva s’è lacerato e gli sventolaintorno a brandelli; le braccia nude del selvaggio sono riapparsa, ed egli le agita. […] Oramaiciò che regna in lui e per lui, è il bisogno animale col suo corteo di suggestioni violente elimitate, talora sanguinarie e talora grottesche 31.

Pur considerando Taine come un maestro e una costante fonte di ispirazione, Zolaconcepì Germinal, per molti versi, come una risposta severamente critica alla ricostru-zione che emergeva fin dai primi volumi delle Origines, pubblicati nella seconda metàdegli anni Settanta. Il romanzo sui minatori di Montsou, nelle intenzioni di Zola,doveva mostrare le condizioni di miseria e sfruttamento dei lavoratori francesi, of-frendo una visione della realtà diametralmente opposta a quella conservatrice avallatada Taine, e spingendosi persino a profetizzare l’avvento di una nuova stagione della

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storia umana. Come avveniva nelle Origines, anche in Germinal un ruolo cruciale erariservato all’emergere impetuoso della folla, ma, a dispetto della evidente partecipa-zione di Zola alle sofferenze dei minatori, l’immagine che proponeva non era troppodifferente da quella delineata dal suo antico maestro Taine. Anche per Zola, infatti,l’«uragano di gesta e di urla» che, nei giorni dello sciopero, passava dinanzi agli occhidi un gruppo di borghesi, era animato da un’umanità bestiale, da donne feroci e dauomini regrediti allo stadio primordiale:

Erano dapprima comparse le donne, quasi un migliaio, coi capelli scomposti, spettinatedalla corsa, dagli abiti a brandelli che lasciavano ochieggiare la pelle nuda, nudità di femmineesauste dal continui partorire morti di fame. Alcune, che tenevano in braccio il loro ultimo nato,lo tenevano in alto, lo agitavano come un vessillo di lutto e di vendetta. Altre, più giovani,impettite come altrettante guerriere, brandivano alto i bastoni, mentre le vecchie, orrende, ur-lavano così forte, che le corde dei colli scarniti parevano loro lì lì per spezzarsi. Poi passaronogli uomini, duemila esseri furibondi, manovali, scavatori, facchini, una massa compatta chepareva formare un unico macigno semovente, pigiata, confusa al punto che non se ne distingue-vano né gli stinti calzoni, né le maglie di lana a brandelli, cancellata com’era ogni cosa nellastessa terrosa uniformità 32.

Al patrimonio iconografico accumulato da Taine e Zola si sarebbero rivolti, ancorprima di Le Bon, quei criminologi italiani allievi di Cesare Lombroso che avrebberotrovato nella folla un terreno di studio particolarmente fertile 33. In uno dei suoi primilavori, già nel 1881 il giovane Enrico Ferri, esponendo i principi teorici fondamentalidella nuova scuola e le conseguenze che essi implicavano sul terreno del diritto pena-le, aveva accennato, seppur solo fugacemente, alla necessità di una nuova disciplina,la « psicologia collettiva », incaricata di studiare il comportamento « delle riunionid’uomini più o meno avventizie», e dunque, ad esempio, «le vie pubbliche, i mercati,le borse, i teatri, i comizii, le assemblee, i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni » 34.Il fatto che Ferri accomunasse all’interno del medesimo gruppo degli aggregati traloro tanto distanti non era affatto casuale, perché il punto cruciale della sua argomen-tazione consisteva proprio nell’eterogeneità degli elementi che componevano questiraggruppamenti temporanei. Se infatti, secondo quanto sosteneva la sociologia spen-ceriana, nei veri e propri organismi sociali la stabilità nel tempo del vincolo di gruppofaceva sì che la psiche del singolo si integrasse nella più generale vita collettiva, neigruppi aleatori e temporanei la realizzazione di questo legame risultava impossibileproprio a causa della eterogeneità dei suoi componenti. In questi casi — aveva scrittoFerri — « dall’aggregazione di individui di buon senso » si poteva avere soltanto «un’as-semblea senza senso comune », nello stesso modo in cui «nella chimica dalla combi-nazione di due gaz si può avere un corpo liquido » 35.

L’argomento di Ferri, a dispetto della sua frammentarietà, era rilevante soprattuttoperché, rileggendo in direzione parzialmente critica l’organicismo di Spencer, fonde-va insieme l’idea della dissoluzione psichica tipica della condizione metropolitana el’idea della folla sediziosa. Dieci anni dopo, Scipio Sighele, per fondare teoricamentela propria analisi del comportamento della Folla delinquente, sarebbe ripartito daquello stesso accostamento che aveva suggerito a Ferri l’idea di una psicologia collet-

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tiva, scrivendo che «assai spesso il risultato complessivo dato da una riunione diuomini può essere ben diverso da quello che a rigore di logica astratta dovrebbe risul-tare dalla semplice somma di ciascuno di loro », e che spesso risultava «in gran partesmentito il principio Speceriano “ che i caratteri dell’aggregato sono determinati daicaratteri delle unità che lo compongono ” » 36. E, sviluppando questa ipotesi di fondo,arrivava a fornire una definizione della folla in cui proprio l’eterogeneità sociale deisingoli componenti era la condizione per l’emergere di una nuova condizione psicolo-gica di gruppo:

La folla è infatti un aggregato di uomini per eccellenza eterogeneo, giacché è compostod’individui d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni classe e condizione sociale, d’ogni moralità, d’ognicoltura, e per eccellenza inorganico giacché si forma senza precedente accordo, d’improvviso,istantaneamente 37.

Se la disgregazione più o meno temporanea dei vincoli sociali era, secondo Sighe-le, il presupposto per la formazione di una folla psicologica, la connessione tra disor-dine sociale e disordine psichico risultava marcata anche in alcune pagine di GabrielTarde, cui il giovane criminologo italiano si richiamava peraltro in modo esplicito. Perquanto Tarde — lettore attento seppur ferocemente critico della scuola di Lombroso— enfatizzasse soprattutto il ruolo della suggestione esercitata dal leader «magnetiz-zatore» sui propri seguaci, non aveva però mancato di soffermarsi, almeno incidental-mente, sulle dinamiche del comportamento delle folle. Inquadrando il fenomeno al-l’interno della legge dell’imitazione, anche il magistrato francese aveva infatti sotto-lineato come l’incoerenza degli elementi potesse trasformare la folla in una creaturacompatta e mostruosa:

Une foule est […] un ramassis d’éleménts hétérogènes, inconnus les uns aux autres�; pour-tant, dès qu’une étincelle de passions jaillie de l’un d’eux, électrise ce pêle-mêle, il s’y produitune sorte d’organisation subite, de génération spontanée. Cette incohérence devient cohésion,ce bruit devient voix, et ce millier d’hommes pressés ne forme bientôt plus qu’une seule et uni-que bête, un fauve innommé et monstrueux, qui marche à son but avec une finalité irrésistible 38.

Ancor più di Sighele, Tarde tendeva a stabilire un nesso tra la dimensione psicolo-gica della folla e l’assenza di legami sociali coerenti e stabili propria della vita urbana.Era infatti la dissoluzione del tradizionale senso di obbedienza al capofamiglia a de-terminare il passaggio dalla «société-famille», tipica delle zone agricole, a quella«société-foule» che caratterizzava le città e in cui poteva proliferare la suggestionedelle mode più effimere. D’altro canto, giocando sull’efficacia evocativa che eserci-tava il tema della relazione ipnotica, il sociologo francese aveva potuto sostenere cheproprio nelle grandi metropoli il potere suggestivo delle strade brulicanti e delle vetri-ne luminose dei negozi tramutasse la maggior parte degli individui in « sonnambuli»,magnetizzati dalla moda:

ogniqualvolta un uomo vive in un ambiente animato, in una società intensa e variata, che lodistrae con spettacoli e concerti, conversazioni e letture sempre nuove, si dispensa gradualmen-

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te da ogni sforzo intellettuale; e, ad un tempo intorpidendosi e sovreccitandosi sempre più, lasua mente […] si fa sonnambula. Questo è lo stato mentale proprio a molti cittadini. Il movimen-to e il rumore delle strade, le vetrine dei negozi, l’agitazione sfrenata e impulsiva della loroesistenza, fanno loro l’effetto di gesti magnetici 39.

Nel corso degli anni Novanta, Tarde sarebbe tornato a diverse riprese sulla propriaoriginaria definizione, ad esempio individuando nella «folla » — intesa come aggre-gato amorfo piuttosto elementare — e nella « corporazione » — un’organizzazionegerarchica stabile e duratura — gli estremi opposti di un continuum su cui potevanoessere collocate le differenti forme associative40. In un articolo del ’98 avrebbe inoltreintrodotto una ulteriore distinzione, che andava a modificare in parte non solo l’imma-gine della vita cittadina che aveva delineato in precedenza, ma anche la stessa idea diuna imitazione prevalentemente « verticale» che aveva sorretto tutti i suoi primi lavo-ri. Negli articoli degli ultimi anni, infatti, Tarde incominciò a intendere l’imitazionecome un fenomeno « orizzontale »: non come l’imitazione di un capo o di un « genio»,ma come l’imitazione inconsapevole e graduale dei propri simili. Contestualmente,doveva attribuire una nuova rilevanza al « pubblico », una dimensione specifica dellasocietà moderna, creata dalla diffusione dei giornali, in cui le facoltà imitative deisingoli trovavano uno sviluppo senza precedenti. Se la folla poteva essere perciòdefinita soltanto come il residuo di ormai trascorse fasi evolutive, il pubblico diven-tava una folla « spiritualizzata»:

La formation d’un public suppose donc une évolution mentale et sociale bien plus avancéeque le formation d’une foule. La suggestionabilité purement idéale, la contagion sans contact,que suppose ce groupement purement abstrait et pourtant si réel, cette foule spiritualisée, éle-vée, pour ainsi dire, au second degré de puissance, n’a pu naître qu’après bien des siècles de viesociale plus grossière, plus élémentaire 41.

Seppur riletta all’interno di una prospettiva fortemente influenzata dalla sociologiadi Simmel, la distinzione proposta da Tarde avrebbe fornito alcune delle intuizioni alcuore della tesi di dottorato svolta dal giovane Robert E. Park nel 1904, durante il suosoggiorno tedesco 42. Se attraverso questo tramite alcune tesi di Tarde andarono aorientare la ricerca successiva sul comportamento collettivo, è però certo che — alme-no nel contesto europeo — esse rimasero sostanzialmente marginali, anche a seguitodella «sconfitta» che la inter-psicologia proposta dallo studioso francese dovette su-bire sul piano accademico 43. Ben più profonda si sarebbe rivelata invece la primaimmagine della folla che Tarde aveva contribuito a consolidare, ma non tanto permerito dei suoi prolissi e spesso farraginosi scritti, quanto soprattutto per la popolariz-zazione che ne avrebbe fornito Le Bon nella sua fortunata produzione editoriale.

Sarebbe però improprio dimenticare o sminuire il ruolo che nell’affermazione diquesta immagine della folla ebbero proprio gli allievi raccolti attorno Lombroso, acavallo tra Otto e Novecento. E non tanto perché ad essi debba essere attribuita lapaternità di idee che di effettivamente originale avevano ben poco, né, tantomeno,perché le loro ipotesi fossero proposte con rigore scientifico maggiore di quello esibi-to da Tarde o Le Bon. L’efficacia della psicologia collettiva elaborata dalla scuola

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antropologica criminale discendeva piuttosto dalla sovrapposizione fra l’immaginestratificazione sociale e l’immagine della psiche che, grazie soprattutto alla riformu-lazione delle originarie teorie lombrosiane, aveva consentito di limitarne il determini-smo. Per effetto di questa sovrapposizione e di una complessa serie di rimandi, nonsoltanto il conflitto sociale veniva a confondersi con il conflitto psichico, ma il nemicoallignante nelle profondità della mente umana veniva a coincidere, ancor più che conla vecchia immagine della plebe urbana, con la figura di una ferocia originaria, atavicae selvaggia 44. Coniugando l’impostazione dell’antropologia criminale con istanzesocialiste più o meno marcate, alcuni autori italiani avrebbero guardato alla follaanche con occhi meno ostili, e sarebbero addirittura giunti a farla coincidere — comenelle pagine dello studioso calabrese Pasquale Rossi — con l’insieme dei ceti subal-terni meridionali 45. Un paradosso forse solo apparente voleva però che, dopo averindividuato proprio nella folla il nemico assoluto del processo di civilizzazione, siarrivasse a ritrovare proprio in questa forma associativa il modello del più profondo erobusto vincolo politico. Sulla scorta delle indicazioni che provenivano dagli scrittidel giovane Guglielmo Ferrero, lo stesso Sighele avrebbe ad esempio modificato,almeno in parte, l’immagine che aveva fornito nella Folla delinquente, e solo sei annidopo, pubblicando la Delinquenza settaria, discostandosi tanto da Le Bon quanto daTarde, avrebbe intravisto nella «folla primitiva e selvaggia» non semplicemente ilresiduo di un fenomeno atavico, ma la forma associativa in grado di far valere nelmodo più efficace l’«unisono psicologico», l’obiettivo al fondo di ogni associazionepolitica:

Si voglia un delitto o un atto di eroismo, — la folla compirà l’uno o l’altro, secondo ilmomento e la sua predisposizione, ma lo compirà tutta insieme, con uno di quegli impeti pas-sionali che fanno somigliare la sua psicologia allo scoppia di una striscia di polvere cui sia datala miccia. — Non c’è contraddizione, non c’è discordia possibile; se c’è, si annienta; e le millevoci non hanno che un urlo solo, i mille corpi non hanno che un’anima sola: la misteriosa animadella folla. Quest’unisono psicologico costituisce la forza invincibile della folla, e dà ai suoi attila tragica terribilità dell’irreparabile 46.

4. L’anima della folla

Su quali idee fondamentali si edificheranno le società che succederanno alla nostra? Ancoral’ignoriamo. Ma, già d’ora, si può prevedere che, nella loro organizzazione, esse dovranno farei conti con una nuova potenza, novissima sovrana dell’epoca moderna: la potenza delle folle.Sulle rovine di tante idee […] questa potenza è la sola che si sia levata, e sembra destinata adassorbir tosto le altre. Mentre le nostre antiche credenze vacillano e dispaiono, mentre le vec-chie colonne della società crollano una dopo l’altra, l’azione delle folle è l’unica forza che nullaminaccia e il cui prestigio cresce sempre. L’epoca in cui noi entriamo sarà veramente l’era dellefolle 47.

A dispetto della straordinaria efficacia evocativa dell’annuncio con cui si apriva laPsychologie des foules, il pamphlet di Le Bon costituiva per molti versi solo la sintesi

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di un’ampia letteratura, che, cresciuta nella seconda metà dell’Ottocento e soprattuttodopo la Comune, aveva iniziato a puntare lo sguardo sul « mistero delle folle ». Moltedelle leggi della psicologia collettiva che Le Bon delineava nel suo testo si limitavanod’altronde a tradurre in un linguaggio accattivante e letterariamente efficace quelleintuizioni che già Tarde e Sighele avevano tratteggiato con una certa coerenza nelleloro opere dei primi anni Novanta. Ancora prima, inoltre, in ambito anglosassone,molte delle ipotesi della futura psicologia collettiva, pur non applicate direttamente edesplicitamente alla « folla », erano state enunciate da Walter Bagehot, che in Physicsand Politics, richiamandosi alla lezione spenceriana, si era soffermato sui residui«istintuali» della politica, incontrollabili e ineliminabili anche nella società moder-na 48. A dispetto dei molti debiti contratti — che peraltro Le Bon si rifiutò sempre diriconoscere — la Psychologie des foules, sancendo un’autentica svolta nell’itinerariodella psicologia collettiva, segnò però un cruciale punto di passaggio tra la vecchiaiconografia e quella destinata a imporsi sempre più stabilmente nel corso del Nove-cento. Più che nell’efficacia della sistemazione che compiva o nella coerenza delleipotesi che lo sostenevano, l’importanza di questo testo risiedeva, paradossalmente,proprio nella fitta serie di incongruenze che ne minavano il discorso, rendendolomalleabile alle più diverse letture.

Dietro l’apparente solidità del quadro in cui Le Bon aveva accatastato i materialiormai acquisiti dal senso comune, la stessa nozione-chiave di «anima delle folle»appariva ad esempio del tutto priva di coerenza, e, soprattutto, risultava in palesecontraddizione con la ricerca psicologica condotta fino a quel momento dall’ecletticoautore francese. Per quanto nel pamphlet del ’95 si richiamasse, per fondare le proprieipotesi, alle ricerche precedenti, in realtà Le Bon, nella sua già vasta produzione,aveva lambito solo occasionalmente e liminarmente la questione della volubile psico-logia degli aggregati momentanei. Sforzi ben superiori aveva invece impiegato neltentativo di individuare, mediante una storia comparata del processo di civilizzazione,i caratteri specifici dell’« anima» di ciascuna razza. Rifiutando come riduttive le clas-sificazioni delle razze basate esclusivamente sui dati anatomici, Le Bon riteneva chel’unico criterio efficace per distinguere « razze » apparentemente simili dovesse essereindividuato — come scriveva, nel 1894, nelle Leggi psicologiche dell’evoluzione deipopoli, sintesi di una ricerca ormai più che ventennale — nella «costituzione menta-le», e cioè in quell’insieme di caratteri morali e intellettuali che andava a formarel’«anima della razza » 49. Il presupposto teorico da cui Le Bon prendeva le mosse erafornito da un’estensione al piano sociale dell’embriologia di Ernst Haeckel: delinean-do esplicitamente i contorni di una « embriologia sociale », Le Bon riteneva che ogniindividuo, nel corso della crescita, ripercorresse tutti gli stadi evolutivi psichici rag-giunti dalla propria razza, arrestandosi solo a quello più elevato. Ciascun essere uma-no, secondo Le Bon, presentava perciò i caratteri mentali « medi» caratteristici dellarazza di appartenenza, condividendo le « tre basi fondamentali dell’anima d’un popo-lo», e cioè sentimenti, interessi e credenze comuni. Sedimentando una serie di carat-teristiche psicologiche, l’accumulazione ereditaria rendeva possibile l’effettiva costi-tuzione di un’anima collettiva che non consisteva affatto nella formazione di un’entitàmistica sovraindividuale, ma, semplicemente, nella comunanza di una serie di ele-menti psicologici costanti.

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L’idea dell’anima della razza permetteva a Le Bon di dare compattezza alla propriafilosofia della storia di impostazione psicologica e di enunciare la tesi secondo cui il«segreto» dell’evoluzione e della decadenza delle diverse civiltà andava ricercata nonnei prodotti della cultura e della scienza, ma esclusivamente nelle motivazioni incon-sce dell’agire umano. Quando — almeno nelle sue prime opere — evocava l’immagi-ne dell’«immenso dominio dell’incosciente», l’« impero invisibile da cui dipendonotutte le manifestazioni dell’intelligenza e del carattere » 50, Le Bon non alludeva perciòal patrimonio di istinti che la civiltà era riuscita a reprimere solo parzialmente, e nonprefigurava neppure, direttamente, quello che sarebbe divenuto l’Umbewußt freudia-no. Più semplicemente, con quell’immagine Le Bon si riferiva ai fattori psicologiciereditari che andavano a comporre l’« anima della razza», e che, dominando più omeno saldamente gli istinti primordiali della specie, determinavano in via prioritariail destino di ciascun popolo. Per questo motivo, stabilendo una precisa gerarchia raz-ziale, Le Bon considerava l’intelligenza come un elemento secondario, mentre asse-gnava al « carattere», alla perseveranza, all’«attitudine a dominarsi» e alla « morali-tà », un ruolo decisivo. Il destino di un popolo non dipendeva perciò dalle doti intel-lettuali delle élite politiche, ma stava scritto nella saldezza del suo carattere psicolo-gico, custodito dagli strati inferiori della società. Le idee elaborate dagli intellettuali,a dispetto del loro valore, avrebbero invece potuto giocare un ruolo nella storia soloquando, passando dal vertice alla base della piramide sociale, fossero penetrate neicervelli delle grandi masse, « creando una sorta d’atmosfera speciale, una manieragenerale di pensare », unanimemente condivisa:

Quando, dopo un periodo più o meno lungo di brancolamenti, di rimaneggiamenti, di defor-mazione, di discussione, di propaganda, un’idea acquista la sua forma definitiva e penetranell’anima delle folle, essa costituisce un dogma, cioè una di quelle verità assolute che non sidiscutono più. Fa parte allora di quelle credenze generali su cui si fonda l’esistenza dei popoli.Il suo carattere universale le permette di avere una funzione preponderante. Le grandi epochedella storia […] sono quelle in cui le idee uscite dai periodi di brancolamenti e di discussionesi sono fissate e son diventate padrone assolute del pensiero degli uomini. Costituiscono alloradei fari luminosi, e tutto ciò che illuminano coi loro fuochi assume una tinta uniforme 51.

Almeno nelle sue prime opere — come appare chiaramente dal passo citato — LeBon considerava dunque le espressioni «razza», « popolo» e « folla », come sostan-zialmente equivalenti, e, soprattutto, assegnava indistintamente a ciascuna di esse unavalenza positiva. Quando, dopo una lunga serie di rimaneggiamenti, le idee scendeva-no «sin nella profondità delle folle», esse si tramutavano in un « piccolo numero diparole» talmente efficaci da diventare un dogma e da dare fondamento alla vita di unpopolo e alla sua civilizzazione: ed era proprio in queste epoche eccezionali — comescriveva esplicitamente nelle Leggi psicologiche — che sopraggiungevano «quei grandiavvenimenti che rivoluzionano la storia e che soltanto le folle possono compiere » 52.

Solo un anno dopo, nella Psychologie des foules, avrebbe delineato un quadro bendiverso, stabilendo una netta contrapposizione tra il popolo e la folla, e assegnando aquest’ultima una funzione distruttrice diametralmente opposta a quella che essa avevagiocato nelle Leggi psicologiche. Nel pamphlet del ’95, l’avvento dell’«era delle

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folle» coincideva infatti con l’ingresso delle « classi popolari» nella vita politica, e,lungi dal prefigurare l’ascesa di una nuova civiltà, secondo Le Bon, queste potevanosoltanto « distruggere radicalmente la società attuale, per ricondurla a quel comuni-smo primitivo, che fu lo stato normale di tutti i raggruppamenti umani prima dell’au-rora della civiltà » 53. Contrariamente a quanto aveva sostenuto nel «94, scriveva inol-tre che le folle comparivano sulla scena soltanto nelle fasi di decadenza, per precipi-tare l’ormai inevitabile declino di una civiltà senescente:

Finora le grandi distruzioni delle civiltà invecchiate sono state una delle funzioni più evi-denti delle folle. La storia insegna che nel momento in cui le forze morali, armatura di unasocietà, non esercitano più la loro azione, la dissoluzione finale è attuata dalle moltitudiniincoscienti e brutali, giustamente qualificate come barbare. Le civiltà sono state finora create eguidate da una piccola aristocrazia intellettuale, mai dalle folle. Queste han potenza solo perdistruggere; la loro dominazione rappresenta sempre una fase di disordine. […] Con la loropotenza unicamente distruttiva esse agiscono come quei microbi che attivano la dissoluzionedei corpi debilitati o dei cadaveri. Quando l’edifico di una società è tarlato, le folle ne determi-nano il crollo 54.

Se nei suoi scritti precedenti aveva assegnato alla folla il ruolo di custode deicaratteri psicologici della razza, attribuendole persino il merito dei « grandi avveni-menti che rivoluzionano la storia », ora Le Bon definiva la «folla psicologica» come«un essere provvisorio, composto di elementi eterogenei collegati per un momen-to » 55, che faceva sì che un gruppo di individui, in determinate circostanze, potesseabbandonare fulmineamente i propri abiti «civili » e la propria razionalità per acqui-sire una «nuova personalità »:

In certe determinate circostanze, e solamente in queste, un agglomerato d’uomini possiededei caratteri nuovi, ben differenti da quelli di ciascun individuo componente. La personalitàcosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità sono orientati in una medesima dire-zione. Si forma un’anima collettiva, indubbiamente transitoria, ma che presenta dei caratterimolto netti. Allora la collettività diviene ciò che, in mancanza di una espressione migliore,chiamerò una folla organizzata, o, se si preferisce, una folla psicologica. Essa forma un soloessere e si trova sottoposta alla legge dell’unità mentale delle folle 56.

Nel definire lo stato di folla come il prodotto di un’« anima collettiva», qualitati-vamente differente dalla psicologia dei suoi singoli componenti, Le Bon istituivaun’analogia tra la folla e un composto chimico, accennando anche criticamente agliscritti « di un filosofo così acuto come Herbert Spencer » 57. Entrambi questi due ele-menti dell’argomentazione fornivano una testimonianza piuttosto chiara delle matricida cui aveva preso le mosse la revisione teorica operata da Le Bon. Il fatto che loscrittore francese, pur senza dichiarare la fonte delle proprie sollecitazioni intellettua-li, mutuasse da Ferri e Sighele tanto l’immagine del composto chimico quanto lacritica della tesi spenceriana, non forniva soltanto l’ulteriore esemplificazione di unadisinvolta tecnica di divulgazione. Più specificamente, segnalava l’ingresso, all’inter-no del quadro teorico dell’autore francese, di alcuni elementi nuovi e, soprattutto, di

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una nuova definizione della « folla», considerata non più come la base della piramidesociale, bensì come uno stato psicologico aleatorio che provocava la dissoluzione delcarattere della razza. Innestando proprio questa nuova immagine nel corpo della pro-pria teoria della razza, anche Le Bon, a partire dal ’95, cominciava a descrivere la follacome aggregato momentaneo, destinato a una breve vita, ma capace di produrre effettidisastrosi. Senza però rinunciare alla propria riflessione precedente, assegnava allafolla un ben preciso ruolo nella storia della civilizzazione, introducendo inoltre unnetto discrimine tra la « folla » e la « razza ». L’« anima collettiva » che prendeva corpoin seguito alla formazione della «folla psicologica » non era infatti riconducibile al-l’« anima della razza », o, quantomeno, gli effetti che essa determinava non eranominimamente paragonabili a quelli che nelle Leggi psicologiche aveva attribuito almerito esclusivo del carattere del popolo. A emergere nella folla erano infatti princi-palmente gli istinti primordiali, le pulsioni selvagge, e non quella salda disciplinainteriore che caratterizzava il sostrato caratteriale della razza. In questo senso, benchéle espressioni utilizzate da Le Bon presentassero sovente una certa ambiguità, l’« animadella folla» rappresentava non solo un elemento differente dall’« anima della razza »,ma anche un fattore in grado di dissolvere la stessa base del carattere di un popolo,precipitando il suo declino.

Ripercorrendo il sentiero già imboccato da Taine, anche Le Bon istituiva una so-stanziale analogia tra il processo di dissoluzione di un popolo e la rapida distruzionedell’equilibrio psichico individuale che si determinava nelle situazioni di aggregazio-ne collettiva. La folla — non solo quella delle orde in rivolta, ma anche quella che siformava spontaneamente tra la calca delle grandi città — diventava così l’anello dicongiunzione capace di saldare il piano dell’analisi sociale a quello dell’analisi psico-logica individuale, mentre proprio l’« anima della razza», lungi dal riemergere nelleadunate sediziose, agiva invece come freno alla trascinante esplosione delle epidemiedi « barbarie»:

I caratteri inferiori delle folle sono tanto meno accentuati quanto più forte è l’anima della razza.Si tratta di una legge essenziale. Lo stato di folla e il predominio delle folle costituiscono la bar-barie o il ritorno alla barbarie; mentre una razza si sottrae progressivamente alla potenza irrifles-siva delle folle ed esce dalla barbarie in quanto acquista un’anima solidamente costituita 58.

Prendendo le mosse dall’equiparazione tra folla e barbarie — e quindi tra la follae la dissoluzione dell’equilibrio psichico consolidato dalla civilizzazione — Le Bonproponeva una classificazione degli aggregati umani, che, a dispetto della propriaincoerenza, avrebbe guadagnato un certo seguito tra i cultori della psicologia collet-tiva. Ordinando le folle a seconda della loro organizzazione interna, individuava in-nanzitutto la « semplice moltitudine», contrassegnata dal massimo livello di disgrega-zione e tenuta insieme soltanto dall’obbedienza a un capo; operando inoltre una distin-zione tra le folle eterogenee e quelle omogenee, inseriva, tra le prime, le « folle ano-nime » (come gli assembramenti di strada) e quelle « non anonime » (ad esempio, igiurì e le assemblee parlamentari), e, tra le seconde, le « sètte», le « caste» e le «clas-si». L’aspetto forse più significativo di questa classificazione consisteva nel fatto cheLe Bon stabilisse tra queste forme di aggregazione collettiva una ben precisa gerar-

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chia, fondata sulla tesi generale secondo cui il processo di civilizzazione coincidevaprincipalmente con la costituzione delle razze, e cioè con il consolidamento, all’inter-no del patrimonio ereditario di un gruppo umano, dei caratteri psicologici capaci didominare le pulsioni degli istinti primordiali. Se Le Bon descriveva così un motoascendente che dalla «semplice moltitudine» conduceva alla « razza », non rinunciavaa delineare anche le tappe del processo inverso, che, all’acme della parabola storica diciascun popolo, vedeva lentamente intaccate le più profonde basi psichiche della suaforza, fino a trasformare una razza compatta, inizialmente in «un agglomerato diindividui senza coesione, i quali conservano artificialmente ancora per qualche tempole tradizioni e le istituzioni», e, infine, in una vera e propria « folla», in « un turbiniod’individui isolati ». In tal senso, le formule conclusive del volume fornivano della«folla » un ritratto piuttosto nitido:

Con la perdita definitiva dell’antico ideale, la razza finisce per perdere anche la propriaanima. Essa non è più che un turbinio d’individui isolati e ridiviene ciò che era ai suoi inizi: unafolla. Ne presenta tutti i caratteri transitori, senza consistenza e senza durata. La civiltà non hapiù alcuna stabilità e cade in balia di qualsiasi evento casuale. La plebe è regina e i barbariavanzano. […] Passare dalla barbarie alla civiltà inseguendo un sogno, poi declinare e morirequando il sogno abbia perduto la sua forza; tale è il ciclo della vita di un popolo 59.

Alludendo esplicitamente alla classificazione proposta da Le Bon, Sighele, nel 1897,rilevava l’uso improprio che l’autore francese aveva fatto del termine « folla », asse-gnato indiscriminatamente « a qualunque gruppo umano » 60. Pur preferendo in linea diprincipio la distinzione tra folla e corporazione proposta da Tarde — il criminologoitaliano non solo accettava però nella sostanza la griglia delineata nella Psychologiedes foules (salvo alcune marginali osservazioni), ma finiva anche col mutuare l’ampiaaccezione del « nome generico di folla », perché, secondo quanto scriveva, « questovocabolo indica il primo stadio del gruppo sociale, quello da cui tutti gli altri derivano,— e perché, colle distinzioni successive, non è possibile sia causa di equivoci » 61.Benché Sighele affidasse alle folle e alle sette una funzione di rinnovamento socialedel tutto estranea all’impianto teorico di Le Bon, l’aspetto più significativo era proprioche egli avallasse in sostanza l’utilizzo del termine «folla» per indicare non solo, ormai,le caotiche masse che si muovevano nel ventre dei grandi agglomerati urbani o il popolominuto in rivolta in rivolta, ma anche aggregati sociali ben più organizzati e compatti.E proprio l’ambivalenza con cui Le Bon aveva utilizzato l’espressione « folla » —applicata di volta in volta agli aggregati occasionali, al caotico groviglio di vite umaneprodotto dal processo di inurbamento, alle masse in rivolta, al pubblico dei teatri opersino alle sette organizzate — avrebbe reso possibile l’utilizzo delle tesi principalidella psicologia collettiva con finalità, talvolta, addirittura opposte.

5. Le forme della « massa»

L’assemblea di masse è necessaria già per questo, che in essa il singolo, che dapprima,essendo soltanto sulla via di diventare un seguace del giovane movimento, si sente isolato e

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colto dalla paura d’essere solo, vede per la prima volta lo spettacolo d’una grande comunità,e ne resta incoraggiato e rafforzato. […] Le manifestazioni di massa non solo rafforzano ilsingolo ma lo avvincono e contribuiscono a creare lo spirito di corpo. L’uomo che, quale primorappresentante d’una nuova dottrina, è esposto, nella sua azienda o nella sua officina, a graviimbarazzi, ha bisogno di essere rafforzato dalla convinzione di essere membro e campione diuna vasta comunità. E solo una manifestazione di massa può dargli l’impressione dell’esistenzadi questa comunità. […] L’uomo che è entrato, esitante e dubbioso, nel comizio, ne esce con-vertito: è diventato membro di una comunità62.

Il fatto che all’interno del Mein Kampf risultassero riprodotti in forma di parafrasi,come ha mostrato lo storico Alfred Stein, molti dei passi della Psychologie des fou-les 63, fornisce forse la testimonianza più emblematica del complesso e non semprelineare itinerario con cui l’ambiguo utilizzo del termine foule, che aveva caratterizzatol’originale francese, trasferendosi all’espressione tedesca Masse, finiva anche conl’attribuire all’immagine della «massa» connotazioni palesemente differenti rispettoa quelle originarie. Nel capitolo dedicato alle tecniche oratorie apprese nella primafase della propria attività propagandistica, Hitler, pur senza mai citare lo scrittorefrancese, ne riprendeva infatti tutte le tesi principali, ma, lungi dal mutuare integral-mente quella caratterizzazione negativa che Le Bon aveva attribuito alla folla, finivacol sovrapporre l’appartenenza alla massa all’appartenenza alla comunità. La sugge-stione, in questo caso, non derivava soltanto dal capo, ma, come scriveva, anche dallasensazione di far parte di un grande corpo collettivo. In questo senso, a quell’insiemedi immagini che già era andato a stratificarsi nella foule leboniana, veniva ad aggiun-gersi un ulteriore significato, forse non del tutto innovativo ma, almeno in questaspecifica estensione, per gran parte estraneo alle pagine dell’autore francese, perchél’idea che proprio lo stato psicologico della « massa» comportasse la forma di piùautentica adesione alla Geimeinschaft travalicava probabilmente l’effettiva portatache Le Bon aveva attribuito all’« anima della razza ». L’operazione di ulteriore tra-sformazione e dilatazione dei contorni della massa che si poteva scorgere nel MeinKampf non era però eccezionale, e si inseriva in effetti in un quadro complessivo in cuil’effige della massa sembrava restituire — come una sorta di caleidoscopio — unamolteplicità di figure spesso tra loro addirittura contraddittorie.

A segnalare l’ambiguità costitutiva del termine Masse era ad esempio GerhardColm, che, nel 1932, nell’Handwörterbuch der Soziologie curato da Alfred Vierkandt,notava come quell’espressione fosse stata caricata dal linguaggio quotidiano di unapolisemia irresolubile anche per le scienze sociali 64. Quella stessa polisemia avevaperaltro immediatamente influenzato e indirizzato il dibattito sviluppato in Austria eGermania attorno ai principi teorici e metodologici della psicologia collettiva. Se inFrancia e in Italia le indagini sulle folle avevano preso avvio già negli anni Settantadell’Ottocento, dopo la parentesi della Comune, raggiungendo il culmine nell’ultimodecennio del secolo, nell’ambito culturale tedesco l’interesse per questo soggetto ini-ziò ad assumere dimensioni rilevanti soltanto all’inizio del Novecento. La pubblica-zione di testi come Die Bedeutung der Suggestion im sozialen Leben di Wilhelm vonBechterew e Die geistigen Epidemien di Willy Hellpach contribuì, ad esempio, adaccrescere, in ambito psichiatrico, l’attenzione verso le dinamiche del contagio psi-

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chico nelle situazioni di aggregazione collettiva 65, mentre, più o meno nello stessoperiodo, venivano tradotti anche i testi più noti della psicologia delle folle66. Purpartito con ritardo rispetto agli altri paesi europei, il dibattito ebbe nel contesto tedescoun seguito piuttosto duraturo, originando una serie di sviluppi talmente significativida configurare la « massa» quasi come un tema obbligato per la riflessione condottadalle scienze umane 67. Ciò che appare più rilevante è però che proprio in questopassaggio le ipotesi di Sighele e Le Bon, pur sottoposte a una critica spesso severa,venivano spesso utilizzate all’interno di contesti teorici e ideologici così differenti daquelli originari, da conferire alla stessa immagine della massa connotazioni in largaparte inedite e originali.

Proprio nel 1908, quando la Psychologie des foules veniva pubblicata in Germania,le tesi di Le Bon ottennero ad esempio un’accoglienza almeno in parte favorevole inquegli ambienti socialisti contro cui lo scrittore francese aveva sovente indirizzato ipropri strali polemici. Tra i primissimi a richiamarsi alla Psychologie des foules, inGermania, fu infatti Karl Kautsky, sulle pagine della « Neue Zeit», la rivista teoricadel Partito socialdemocratico. Dopo essere stato tra i più severi critici della « revisio-ne » di Bernstein, Kautsky, verso il 1905, aveva iniziato a imboccare la via che avreb-be gradualmente condotto la socialdemocrazia tedesca ad abbandonare la prospettivarivoluzionaria: intervenendo nel dibattito sul Massenstreik, colse l’occasione per enun-ciare la tesi (cui aveva peraltro già alluso Engels più di un decennio prima) secondo cuila fase storica delle insurrezioni e delle barricate si era conclusa, mentre l’unica stradaper l’affermazione del socialismo passava dal parlamento. Replicando ad Anton Pan-nekoek e Rosa Luxemburg, Kautsky attribuiva al partito un ruolo non solo di media-tore, ma anche di « educatore» delle masse, e riprendeva così le tesi enunciate da LeBon per sottolineare come ogni movimento disorganizzato e spontaneo tendesse asvanire con la stessa rapidità con cui era sorto e ad assumere spesso connotazionireazionarie. Naturalmente, Kautsky non poteva condividere integralmente il quadroteorico delineato nella Psychologie des foules, sia perché non poteva accettare ladescrizione fortemente negativa delle forze socialiste fornita da Le Bon, sia perchél’accentuazione del ruolo del meneur finiva col rappresentare ogni massa — e soprat-tutto le masse socialiste — come aggregati inermi soggiogati dai leader. Pur conte-stando la scientificità di queste componenti del discorso di Le Bon, Kautsky ammet-teva però la validità della tesi secondo cui la concentrazione fisica di più individuipoteva indurre, in presenza di determinate circostanze, una reciproca eccitazione euna esasperazione delle componenti emotive dell’azione. L’idea dell’«anima dellafolla” che stava al fondo del discorso di Le Bon poteva dunque essere almeno in parteaccettata, anche perché risultava confermata dalle ricerche sul contagio psichico neglianimali sociali condotte da autori come Alfred Espinas e Auguste Forel. Kautsky però— ed era questo il nodo del suo ragionamento — riteneva fondate tali ipotesi soltantoper le masse disorganizzate e aleatorie, che, in circostanze occasionali e del tuttoeccezionali, si formavano fuggevolmente nelle strade:

Der einheitliche Wille der Masse ergibt sich aus den Bedingungen, unter denen alleinnichtorganisierte Masse zu einer agierenden werden kann. Oder, anders gesagt, wo nichtBedingungen vorhanden sind, die einen einheitlichen Willen der Masse hervorrufen, da tritt

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sie nicht in Aktion.Betrachten wir die Gelegenheiten, bei denen es zu Aktionen unorganisierter Massen kam, so

finden wir stets, daß eine Reihe gewaltiger Ereignisse vorhergingen, die jedermann aufs tiefsteerregten, bis dann ein Ereignis einrat, das die Erregung zur Siedhitze steigerte. Solche Ereignis-se sind zum Beispiel der Ausbruch eines Krieges, die fortgesetzen physischen und moralischenLeiden, die er verhängt 68.

Introducendo nella propria architettura marxista alcune delle tesi della Psycholo-gie des foules, Kautsky aveva sicuramente svolto una lettura estranea agli originariintendimenti di Le Bon, ma non del tutto priva di coerenza interna. Distinguendo tra«organisierte » e «unorganisierte Massen», Kautsky aveva infatti tradotto all’internodel proprio quadro teorico la netta dicotomia tra razza e folla che aveva sostenuto ildiscorso di Le Bon, e si era così limitato a sostituire la compatta âme de race con ladisciplina interiore garantita da una ferma coscienza di classe, oltre che dal partito.

Se le tesi di Le Bon, non senza paradossi, contribuivano ad alimentare tanto ildibattito teorico tra i marxisti tedeschi quanto il patrimonio ideologico del nazional-socialismo, in Germania non mancò neppure chi tentò di sottoporre le tesi della psico-logia collettiva a una seria verifica sperimentale. Nel secondo decennio del Novecen-to, Walter Moede elaborò ad esempio il progetto di una Experimentelle Massenp-sychologie, compiendo una serie di esperimenti e pubblicando il frutto principale delleproprie ricerche nel 1920. In realtà, la Massenpsychologie di Moede aveva poco a chevedere sia con le folle di Le Bon sia con le «masse », perché, più semplicemente, perle stesse necessità della verifica sperimentale, operò su piccoli gruppi, secondo tecni-che tutto sommato analoghe a quelle che avrebbe impiegato la psicologia sociale nord-americana 69. Fu invece nell’ambito del dibattito sociologico che la riflessione sullamassa e sulle ipotesi di Le Bon conobbe il maggiore sviluppo, pur senza giungereneppure a una definizione condivisa della « massa». In effetti, quella stessa distanzache si poteva trovare tra l’esaltazione hitleriana della condizione di massa in quantoappartenenza alla comunità, e la critica formulata da Kautsky della massa disorganiz-zata, si rinveniva persino nelle pagine di alcuni tra i fondatori della sociologia tedescadei primi decenni del Nocevento. Nel 1924, ad esempio, Werner Sombart rivisitava lavecchia immagine della folla urbana, come simbolo non solo del caos metropolitano,ma anche di una rottura delle tradizionali strutture sociali e dell’equilibrio psichicoindividuale, e così definiva la massa come un insieme amorfo di individui:

Man nennt Masse die zusammenhanglosen, amorphen Bevölkerungshaufen namentlich inden modernen Größstädten, die, aller inneren Gliederung bar, vom Geist, das heißt von Gottverlassen, eine tote Menge von lauter Einsen bilden 70.

Nel suo System der Allgemeinen Soziologie, Leopold von Wiese delineava inveceuna raffigurazione diametralmente opposta, in cui la massa non costituiva l’ultimogradino della dissoluzione delle relazioni sociali, ma, al contrario, proprio la realtà piùvicina all’individuo:

Bei den Massen […] werden die hier wirksamen sozialen Prozesse in der Weise aufgefaßt,

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daß die Beziehungen der einzelnen zur Masse geknäuelten Menschen unmittelbar das Mas-senhandeln beeinflussen. Massen sind der Eigenart, d.h. vorwiegend den Wünschen, der Men-schen sehr nahe. — Die Gebilde zweiter Potenz, die Gruppen, deren Wesenmerkmale untengenau behandelt werden, sind dem wechselnden Spiele individueller Beziehungen dadurchferner gerückt, daß sie eine Organisation besitzen, die dem Einzelnen das Tun vorschreibt 71.

Se un autore come Theodor Geiger dedicò un intero saggio alla confutazione delletesi al cuore della Psychologie des foules (e soprattutto all’idea che potesse esserescientificamente fondata una psicologia collettiva) 72, fu probabilmente l’incursionedi Freud sul terreno della Massenpsychologie a pesare più a lungo non solo sull’itine-rario della disciplina, ma anche sulla definizione del nuovo volto della « massa». Perquanto il saggio freudiano su Massenpsychologie und Ich-analyse debba essere collo-cato e compreso all’interno dell’evoluzione della teoria psicoanalitica, esso — nelquadro della ricostruzione accennata in queste pagine — risulta particolarmente signi-ficativo in quanto espressione paradigmatica del mutamento della stessa immaginedella massa: esso venne infatti a rappresentare, per molti versi, l’episodio conclusivodi una vicenda teorica ormai giunta all’epilogo, la tappa terminale di una disciplinache, fin dall’inizio, aveva tentato di ricercare nella costituzione psichica umana il«segreto» dell’azione della folla e, dunque, di quell’azione politica radicale che tra-valicava i limiti della razionalità strumentale, abbattendo ogni regola della civile con-vivenza.

Confrontandosi con la Psychologie des foules di Le Bon, nel saggio sulla Massenp-sychologie, Freud chiariva esplicitamente la marcata distanza esistente tra la propriadefinizione dell’« inconscio» e quella che Le Bon aveva fornito nella Psychologie desfoules 73. Nella complessa definizione che Freud aveva delineato fin dalla Traumdeu-tung, nel 1900, l’inconscio non era semplicemente, come per Le Bon, l’insieme degliistinti e delle reazioni riflesse sedimentate nella struttura psichica della specie e dellarazza, ma comprendeva soprattutto un gioco di forze contrapposte in cui la parterilevante era rivestita dal «rimosso », caratteristico della storia individuale e non certodeterminato linearmente dai residui primordiali.

Prima di confrontarsi con le questioni poste dal saggio di Le Bon, già nel 1913, inTotem und Tabù, Freud aveva considerato alcuni temi che, almeno in parte, lambivanoil territorio della psicologia collettiva. Nel quarto saggio raccolto in Totem e tabù,prendendo in esame la questione del Ritorno del totemismo nei bambini, il medicoviennese si era richiamato infatti all’idea di un’orda primordiale dominata autoritaria-mente da un capo, la cui uccisione avrebbe sancito l’avvio di una diversa organizza-zione sociale e la genesi di una serie di severe prescrizioni morali. Confrontandosi inmodo serrato con Wundt e con la sua ipotesi sulla genesi del totemismo, in quel saggioFreud stabiliva un’analogia evidente tra una fase ben precisa delle società « selvagge»e quel « complesso di Edipo » che aveva esposto nelle opere precedenti. L’ipotesi diFreud prendeva le mosse da una supposizione formulata da Darwin, ma, partendo daquesta idea, Freud ritenne di poter dimostrare come l’origine del totemismo fosse dacollegare ad un evento reale, e cioè all’uccisione del patriarca da parte dell’alleanzaformata dai giovani sottoposti al suo dominio. L’adorazione dell’animale totemico ela sua uccisione rituale dovevano costituire forme di rievocazione simbolica di quel-

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l’evento drammatico. I figli, nella ricostruzione di Freud, odiavano nel padre l’ostaco-lo al loro bisogno di potenza, ma, d’altro canto, essi erano uniti alla sua figura ancheda una ambivalente relazione di ammirazione e amore filiale. Proprio da questo lega-me sarebbe sorta, dopo l’uccisione del patriarca, la «consapevolezza della colpa», checoincideva in questo caso «con il rimorso provato collettivamente» e che avrebbecondotto alla reintroduzione in forma istituzionalizzata delle proibizioni in preceden-za imposte dall’autorità paterna. Freud non si limitava però ad enunciare un’ipotesirelativa alla genesi del totemismo, ma si spingeva anche a ricostruire le tappe essen-ziali della successiva evoluzione dell’organizzazione sociale. In questo senso, rileva-va che l’uccisione del patriarca, benché fosse stata seguita dalla coscienza collettivadella colpa, aveva segnato una svolta decisiva, perché, da allora in poi, come scriveva,«i sentimenti fraterni di socialità » avevano iniziato a costituire il fondamento dellaconvivenza comune, oltre che la base della morale e della religione. Più tardi, l’ambi-zione di sostituirsi al padre avrebbe però indebolito il legame dei fratelli e il fonda-mento democratico dell’orda. Così, se in un primo tempo questo desiderio era statosoddisfatto nel pasto totemico (nel corso del quale ogni figlio incorporava una partedel sostituto paterno), con l’attenuazione del senso di colpa prese a diventare semprepiù forte «la nostalgia del padre», che avrebbe condotto non solo alla nascita delledivinità maschili, ma anche alla reintroduzione della struttura familiare e, dunque,dell’organizzazione sociale patriarcale. In questo modo — al di là delle implicazioniche in termini di «sedimentazione » della psiche collettiva comportavano le tesi diFreud — Totem e tabù finiva sostanzialmente per rifondare, in termini forse più con-vincenti di quelli utilizzati in seguito da Le Bon, l’idea che l’ordine sociale fosseconnesso non solo all’esistenza di una struttura patriarcale piuttosto rigida, ma anchealla interiorizzazione del dovere di obbedienza al padre.

Meno di dieci anni dopo, all’indomani della prima guerra mondiale e del crollo delvecchio impero asburgico, Freud riprese le proprie ipotesi sull’orda originaria, appli-candole però alle « masse» contemporanee. Confrontandosi con le ipotesi avanzate, oltreche da Le Bon, anche da William McDougall e Wilfred Trotter 74, anche Freud nonoperava una classificazione particolarmente elaborata dei diversi tipi di assembramentoumano e si limitava a distinguere tra le «masse prive di un capo » e quelle « soggette aun capo ». In questo senso, riteneva perciò che le dinamiche al fondo delle masse piùelementari e delle masse organizzate, «artificiali », fossero riconducibili alle medesi-me costanti psicologiche, che erano per molti versi le stesse di cui Freud aveva ipotiz-zato l’esistenza in Totem e tabù. In ogni massa potevano essere individuati differentivincoli libidici, che legavano l’individuo al capo e, contemporaneamente, agli altricomponenti della massa. Proprio il legame « fraterno », emotivo, che si veniva a crearefra i membri delle aggregazioni di massa, più o meno organizzate, risultava possibilesolo in seguito a una identificazione di ciascun individuo con il capo, secondo una pro-cedura analoga a quella riscontrabile nella più elementare unità familiare nel rapportodi identificazione con il padre. In altri termini, « l’essenza della formazione collettiva»consisteva effettivamente, come avevano sostenuto Le Bon e Sighele, nella sua emoti-vità e nella sua « psicologia estrema», e cioè, nella terminologia freudiana, nel «lega-me libidico di tipo nuovo fra i membri della massa » 75. L’instaurazione di questo lega-me emotivo di «fratellanza », analogamente a quanto era avvenuto nell’orda origina-

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ria, era reso possibile soltanto dall’identificazione di ciascuno con il capo e, dunque,con una condizione di sottomissione e obbedienza. Queste ipotesi, se da un lato condu-cevano a escludere l’esistenza effettiva di masse senza leader (o quantomeno di rico-noscere questa eventualità soltanto nelle folle dominate dal panico, in conseguenza dellaperdita del capo76), dall’altro, consentivano a Freud di chiarire come anche la forma-zione della massa meno organizzata — la primäre Masse — fosse possibile in seguitoa un duplice processo di identificazione: «Una tale massa primaria», scriveva infatti,risultava «costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico ogget-to al posto dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni con gli altri nel loro Io »77.

Coinvolgendo la definizione dello stesso oggetto dell’analisi, la conseguenza piùrilevante del ragionamento di Freud era duplice, nel senso che intendeva l’appartenen-za alla « massa» non come una condizione psicologica temporanea ed eccezionale, macome la base stessa dell’organizzazione sociale, mentre, conseguentemente, spostavala tendenza delle «masse » all’obbedienza all’interno della normale struttura psicolo-gica individuale. Al termine di questa operazione, non solo la « folla» della psicologiaera ormai una « massa» obbediente e organizzata, ma il soggetto dell’analisi era effet-tivamente diventato quel singolo individuo all’interno del quale si trovava già all’ope-ra la stessa condizione psicologica di massa, nella forma di una pulsione all’obbedien-za che — lungi dall’essere il prodotto di una aleatoria circostanza esterna — costituivail vero fondamento della convivenza associata:

Il senso sociale poggia quindi sul volgersi di un sentimento inizialmente ostile in un attac-camento caratterizzato in senso positivo, la cui natura è quella di una identificazione. […] talerovesciamento appare compiersi sotto l’influsso di un comune legame di tenerezza istituito conuna persona estranea alla massa. […] Tutti i singoli sono uguali tra loro, ma tutti quanti voglionoessere dominati da uno solo. Molti uguali che possano identificarsi l’un l’altro, e uno soltantoche tutti li sovrasti: questa è la situazione che troviamo attuata nella massa capace di sopravvi-vere. Ci sentiamo perciò di rettificare l’affermazione di Trotter che l’uomo è un animale chevive in gregge, sostenendo che egli è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singoloappartenente a un’orda guidata da un capo supremo 78.

In questo passaggio — destinato a far sentire la propria influenza anche molto al difuori della ristretta cerchia dei cultori della psicologia collettiva — giungeva in qual-che modo a conclusione di un percorso che aveva da sempre lambito — pur senzacoincidere completamente con esso — l’itinerario della « scoperta » della folla. Graziea una formula piuttosto semplice, Freud riusciva infatti a «naturalizzare», per cosìdire, quella tendenza all’obbedienza del capo che già Tarde e Le Bon avevano collo-cato al centro del comportamento della folla, marcando in questo una differenza (nonestrema, peraltro) rispetto ai cultori italiani della disciplina 79. Percorrendo questobinario, la riflessione di Freud finiva anche con l’incrociare, per alcuni aspetti, ilsentiero imboccato da altri interpreti, che già negli anni Venti e Trenta, quando la crisidei regimi rappresentativi pareva accomunare in un solo destino l’intera Europa, ave-vano iniziato a prefigurare l’avvento — se non addirittura il trionfo — dell’« uomomassa». È quasi scontato ricordare, sotto questo profilo, la descrizione del processo dimassificazione svolta da Ortega y Gasset, che aveva sostenuto che il portato più rile-

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vante della modernizzazione e della distruzione dell’architettura sociale tradizionaleconsisteva proprio nella formazione dell’«uomo massa », di un individuo medio con-vinto della facilità dell’esistenza, appagato di sé, e al tempo stesso volto ad intervenire«dovunque, imponendo la sua volgare opinione, senza miraggi, senza contemplazioni,senza tramiti né riserve, vale a dire, secondo un regime di “azione diretta ” » 80. Lalettura formulata da Ortega avrebbe ottenuto un notevole successo, legato anche al-l’efficacia di una raffigurazione della trasformazione sociale valida per interpretarefenomeni tra loro persino estremamente distanti 81. Ma non può probabilmente esseredimenticato che — in una prospettiva non del tutto coincidente con quella di Ortegae, al tempo stesso, differente da quella di Freud — l’idea che ci si trovasse di fronte auna nuova società specificamente caratterizzata dalla presenza della « massa» avevaincontrato anche in Germania una fortuna destinata a consolidare rapidamenteun’espressione e un’immagine piuttosto definita. Se infatti negli scritti di Benjamin ladimensione metropolitana tendeva a spogliarsi di quei caratteri negativi che le avevaattributo la riflessione di Simmel, di Tönnies e di molti altri « classici» della primasociologia tedesca, un osservatore progressista come Emil Lederer non forniva dellamassa un’immagine troppo distante da quella di Ortega 82.

Fornendo la formulazione per molti versi più convincente del comportamento della«massa », l’operazione di Freud, se da un lato apriva certamente nuove frontiere d’in-dagine, dall’altro avrebbe però contribuito ad espellere la «folla» di fine Ottocentodal campo analitico delle scienze sociali. Più o meno dall’inizio degli anni Trenta, lafolla sarebbe infatti quasi completamente scomparsa dal dibattito 83, sostituita, oltreche dalle « masse », dall’« opinione pubblica» e dal « comportamento collettivo » 84,sopravvivendo soltanto nella storia sociale inglese e nelle ricostruzioni di GeorgeRudé ed Edward P. Thompson (che avrebbero utilizzato ancora l’espressione crowdper indicare, in modo non sempre univoco, quegli strati sociali, non ancora definibilicome « proletariato», protagonisti delle rivolte urbane tra il XVI e XIX secolo)85 .

Una conferma del fatto che questa graduale «scomparsa» della «folla », a tuttovantaggio della «massa », non fosse limitata al contesto tedesco, veniva ad esempiodal fatto che lo scrittore francese André Joussain, rivisitando nel 1937 le ipotesi di LeBon, non solo intitolasse il proprio lavoro Psychologie des masses, ma proponesseanche una tipologia che distingueva nettamente tra « masse» e « foule », due termini,come scriveva, sovente « impiegati l’uno per l’altro ». Mentre la folla era costituita daindividui effettivamente riuniti e con una volontà comune, la massa, secondo Joussa-in, risultava formata da individui dispersi, privi di una visione condivisa, ma accomu-nati da caratteristiche etniche e linguistiche o da interessi e bisogni simili:

Une masse est un grand nombre d’individus dispersés, mais placés à certains égards dansdes conditions semblables et suscetibles dès lors d’être animés d’un sentiment ou d’un vouloircommun, comme le sont les haitants d’un même pays en tant qu’ils se ressemblent entre eux etse distinguent des autres nations par leur langue, leurs coutumes, leur caractère et leur mentalitéethniques, ou encore comme les diverses catégories de citoyens soumis aux mêmes obligationsou ayant les mêmes bosoins, la classe ouvrière, les classes moyennes, les contribuables d’unmême pays, par example. Les lecteurs d’un roman ou d’un journal, pour autant qu’ils consti-tuent un public, sont une masse; les spectateurs d’une pièce de théâtre sont une foule 86.

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I tentativi più noti di declinare — anche in chiave critica — le ipotesi freudiane sulcomportamento della massa furono però, probabilmente, quelli elaborati nell’ambitodella Scuola di Francoforte e in quel contesto teorico in cui la psicoanalisi venivariletta in un’ottica marxista. A fornire la più chiara esemplificazione del nuovo signi-ficato che veniva ad assumere l’espressione «massa » in questo nuovo quadro è forseproprio la celebre Massenpsyhcologie des Faschismus, pubblicata da Wilhelm Reichnel fatale 1933. In questo lavoro emergeva infatti chiaramente come la Massenp-sychologie cui Reich si riferiva non avesse più nulla a che vedere con la vecchiapsicologia delle folle rivoluzionarie e criminali di Taine e Sighele, ma tendesse ainvece a definire la psicologia di un aggregato statico sostanzialmente coincidente conl’intera popolazione di un singolo paese. Nella sezione introduttiva del proprio testo,Reich, sostenendo che « ogni ordinamento sociale produce in seno alle proprie massele strutture di cui ha bisogno per raggiungere i suoi obiettivi principali »87, intendevaper «struttura psicologica di massa » quella particolare struttura psicologica che carat-terizzava la larga maggioranza della popolazione tedesca e che costituiva, a suo giu-dizio, la principale causa del successo del nazionalsocialismo. Integrando psicoanalisie teoria marxista, la « sessuo-economia» di Reich intendeva mostrare « il concatena-mento della struttura sociale socio-economica con la struttura sessuale della societàe la riproduzione strutturale della società stessa » 88 che si delineava, nei primi anni divita, all’interno della famiglia patriarcale. Alla luce di questa analisi, la spiegazionedell’ascesa di Hitler doveva essere rintracciata proprio nella struttura psicologica dimassa consolidata dalla struttura familiare e sociale tedesca:

Nella struttura individuale di massa il legame del piccolo borghese coincide con quellofamiliare. Questo legame viene particolarmente intensificato da un processo che non solo sisvolge parallelamente, ma ne è una diretta derivazione. Il capo nazionalistico, sotto l’aspettopsicologico di massa, significa la personificazione della nazione. Solo nella misura in cui que-sto capo incarna effettivamente la nazione conformemente ai sentimenti nazionali delle massenasce anche un legame personale nei suoi confronti. Nella misura in cui riesce a destare negliindividui che fanno parte della massa i legami familiari sentimentali egli assurge al ruolo dipadre autoritario 89.

Più ancora che nella formulazione di Reich, la nuova immagine della massa trovònelle pagine dei sociologi della Teoria Critica il proprio coronamento, il cui esitosarebbe andato ulteriormente a rafforzare l’idea di una stretta e quasi irresolubileconnessione tra modernizzazione, dimensione di « massa» e diffusione delle tendenzepolitiche autoritarie. Fondendo l’idea della «massificazione » come distruzione deilegami sociali e dell’autonomia individuale, con lo schema freudiano e la propriarilettura del marxismo, Max Horkheimer, con le note ricerche sulla personalità auto-ritaria, avrebbe individuato una connessione diretta tra lo sviluppo economico e tec-nologico e il rafforzamento della tendenza dei singoli individui «a conformare il pro-prio pensiero e comportamento a norme che gli vengono proposte dall’esterno » 90. Lostesso « volto» della massa si trovava così, non senza conseguenze, a mutare ancora,seppure solo impercettibilmente. Per effetto di un ulteriore «slittamento» — peraltronon incoerente rispetto all’originaria impostazione freudiana — i teorici di Francofor-

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te passavano a considerare la massa non tanto come il prodotto di una specifica strut-tura familiare, ma come il principale portato della stessa modernizzazione. In questosenso, proprio quelle tre diverse immagini che si erano andate a sovrapporre quasiinestricabilmente nella figura della folla, a partire più o meno dagli anni Trenta del-l’Ottocento, trovavano una nuova sistemazione all’interno della riflessione francofor-tese: l’idea della grande città come luogo della rottura dei legami sociali tradizionalie dell’atomizzazione e la tesi che le masse tendessero sempre a sottoporsi al comandodi un leader andavano infatti a confluire nella teoria della « massificazione », conl’effetto di concepire le vere e proprie dinamiche di folla esclusivamente nei terminidi manifestazioni irrazionali manipolate e controllate da apparati di dominio più omeno complessi. In altri termini, la stessa folla rivoluzionaria — come fenomeno dirivolta e come rottura dell’ordine sociale — tendeva a sparire, essendo assimilata auna esplosione irrazionale prodotto dalla condizione di massa. Confrontandosi diret-tamente con Le Bon e con la Massenpsychologie freudiana, Horkheimer e Adorno,nelle loro Lezioni di sociologia, fornivano ad esempio una raffigurazione della massanella quale l’atomizzazione sociale e la tendenza psicologica a identificarsi nel leadertendevano a coincidere:

La massa è un prodotto sociale — non un’invariante naturale; un amalgama ottenuto sfrut-tando razionalmente fattori psicologici irrazionali — non una comunità posta in originariaprossimità con l’individuo. Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e individuo:ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli.La debolezza obiettiva di tutti nella moderna società […] predispone ciascuno anche alla debo-lezza soggettiva, alla capitolazione nella massa dei seguaci. L’identificazione, sia con il collet-tivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quelche gli manca nella realtà 91.

All’indomani di questa rilettura, la vecchia psicologia delle folle si sarebbe presen-tata, pressoché definitivamente, e non solo in virtù di un obbligo linguistico, comeMassenpsychologie, come psicologia delle masse e, contemporaneamente, come psi-cologia dell’uomo-massa. Probabilmente per la forza stessa degli eventi, le vecchie,indisciplinate e feroci folle ottocentesche, avrebbero ceduto il proscenio all’irromperedel passo cadenzato e militare delle « masse » organizzate e soggiogate dalla propa-ganda di quei nuovi regimi « totalitari ». Se per molti versi la visione apocalittica del«sanguigno tramonto di fine secolo», dipinto con fosche pennellate nelle pagine diGerminal, aveva costituito la più efficace raffigurazione dell’irruzione delle orde operaiedestinate ad abbattere la millenaria civiltà europea, l’inflessibile e inquietante geome-tria delle masse novecentesche sarebbe stata così immortalata con indiscutibile effica-cia dalle nitide sequenze del Triumph des Willens. Mentre nel romanzo di Zola irivoltosi si presentavano con quelle fattezze bestiali che la civilizzazione aveva solotemporaneamente occultato, nei fotogrammi di Leni Riefenstahl il protagonista erainvece già l’individuo pienamente identificato con il corpo collettivo della razza edella nazione, e anche, contemporaneamente, l’uomo «massificato » e l’automa iner-me, soggiogato dalla propaganda e dall’abilità oratoria dei nuovi leader 92.

Il punto più rilevante dell’operazione compiuta da Horkheimer e Adorno era che le

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loro ipotesi, procedendo nel senso di una esplicitazione del legame sottile tra «massa’e «massificazione », finivano col rivisitare quello stesso legame già rintracciabilenelle pagine di Tocqueville sulla democrazia americana, oltre che nel vortice della vitaurbana dipinto da Poe: l’operazione con cui i sociologi di Francoforte ridefinivano lamassa saldava infatti tra loro in modo indissolubile l’idea della metropoli come luogodella disgregazione sociale e psichica e l’ipotesi di un individuo di massa diretto,guidato e dominato da un potere esterno. Se in un primo tempo l’interiorizzazionedella tendenza ad obbedire realizzata da Freud aveva permesso di sciogliere il « com-portamento di massa » dalla esistenza effettiva di una condizione di aggregazionecollettiva — se cioè aveva permesso di riconoscere un individuo sottoposto al potereipnotico del leader anche in assenza di una effettiva «folla », condizione che era inve-ce stata decisiva per i primi psicologi collettivi — ora veniva compiuto un passoulteriore. Dopo la seconda guerra mondiale, anche l’obbedienza al leader, l’identifi-cazione con la figura del capo, avrebbe così potuto sfumarsi, confondendosi con unagenerica identificazione con i valori sociali dominanti. In altre parole, la « massa»sarebbe tornata a muoversi, in prevalenza, proprio in quelle grandi metropoli in cui gliscrittori dell’Ottocento avevano visto scorrere impetuoso e inarrestabile del « fiumeumano » e in cui avevano scorto il volto inquietante dell’« uomo della folla ». Dopo piùdi un secolo, era così quasi inevitabile che la nuova e probabilmente ancor più inquie-tante « folla solitaria », di cui le ricerche di David Riesman offrivano forse la piùeloquente e paradigmatica raffigurazione, si muovessero nelle strade delle città ame-ricane, nei templi della società dei consumi e delle comunicazioni di massa 93. Ed eraanche inevitabile che, smettendo i panni della « massa» assiepata nello stadio di No-rimberga, essa assumesse le sembianze della marea umana, all’apparenza innocua,posta da King Vidor al centro del suo classico The Crowd.

A dispetto dell’apparente vicinanza con la vecchia immagine ottocentesca del « fiumeumano », la «folla solitaria» non era più, però, il bacino di coltura in cui le «infezionisociali » andavano maturando e neppure l’oggetto su cui si esercitava la suggestionedei meneurs: la nuova folla appariva invece come la vittima di una seduzione celatanei meccanismi subliminali di manipolazione del consenso, come l’obiettivo dell’azionedei «persuasori occulti » e come il prodotto di un complesso insieme di apparati re-pressivi. Ciò che importa rilevare è però, soprattutto, che la nuova immagine dellafolla emergeva al termine di un impresa teorica in cui la psicologia collettiva avevasostenuto una parte decisiva. Un itinerario che con un percorso più che secolare espesso accidentato — e a conclusione di una sorta di vera e propria « rivoluzionespaziale » — aveva visto ridefinire sostanzialmente l’immagine della psiche umana,cercando un nuovo punto di equilibrio capace di trovare, proprio nella solidità dellastruttura mentale, le condizioni della stabilità politica.

6. Una «rivoluzione spaziale”?

Spesso relegata tra i relitti del positivismo ottocentesco, la vecchia immagine dellafolla — costruita lungo l’articolato e talvolta accidentato itinerario cui si è fatto cennonelle pagine precedenti — è stata interpretata soltanto come l’esito della sgomenta

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risposta dei gruppi sociali dominanti all’ascesa politica delle classi subalterne. Inquesto senso, la psicologia collettiva fin de siècle avrebbe semplicemente rivisitato ilpiù che millenario corredo di immagini che fa da corollario alla dannazione dell’azio-ne di massa, tentando di fondare su pretese conoscenze scientifiche l’inferiorità el’irrazionalità del comportamento delle folle. Una lettura tanto consolidata — certodifficilmente contestabile nella sua formulazione generale — non ha però impeditol’emergere anche di interpretazioni meno lineari, che ad esempio, dietro le formule diun positivismo spesso estremamente rozzo e semplificato, hanno potuto scorgere nellapsicologia collettiva ottocentesca le tracce di una sensibilità nuova, capace di cogliereil fondo oscuro e inquietante dei fenomeni di aggregazione politica, pur stravolgendo-ne il senso 94. Più di recente — a conclusione di un articolato lavoro — Remo Bodeiha invece evidenziato il nesso esistente tra il sorgere della nuova immagine della follae le tecnologie del controllo politico sulla vita individuale, collocando la psicologiadelle folle di Le Bon all’interno di un percorso in cui, a partire dal Cinquecento, l’« io »risulterebbe al centro di una intricata serie di processi di frammentazione e «indivi-dualizzazione». Lungo l’arco conclusivo di questa parabola, tra Otto e Novecento,«l’insofferenza verso il sottrarsi dell’individuo al legame sociale e il diffondersi — innome dell’eguaglianza — del rifiuto delle gerarchie esistenti », avrebbero infatti spin-to «a progettare la massificazione, l’ottundimento o l’omologazione della coscienzavigile delle moltitudini grazie a diverse strategie » 95, di cui la soluzione proposta da LeBon costituirebbe una significativa variante, accanto alla costruzione dello Stato eticogentiliano e al mito di Sorel.

Senza abbandonare il tracciato indicato da queste letture — e anzi utilizzandoproprio le loro intuizioni di fondo — è forse opportuno interrogarsi sulla fondatezzadi quell’interpretazione che assegna alla psicologia collettiva e alla riflessione otto-centesca sulla folla un ruolo di anticipazione «prescientifica » delle successive inda-gini novecentesche. In altri termini, più che mettere in questione la tesi che, puntandolo sguardo soprattutto sul ruolo del meneur, considera gli psicologi della folla comeprecursori di Freud 96, si tratta forse di rovesciarne la prospettiva, ribaltando quell’or-dine di priorità che pone la Tiefenpsychologie al vertice più elevato della « scoperta»di una dimensione « oscura » della psiche, e non invece al culmine dell’itinerario concui sono state attribuite, a quella stessa regione « inconscia », una forma, un contenutoe una specifica dinamica di trasformazione e movimento.

Nelle affascinanti pagine di Land und Meer, Carl Schmitt, reinterpretando in unasuggestiva lettura la storia degli ultimi cinquecento anni, individuava un nesso tral’assetto territoriale del potere e le trasformazioni del concetto di spazio. Con la con-quista del continente americano e la circumnavigazione della terra, secondo Schmitt,non soltanto sarebbero state poste le condizioni per una piena colonizzazione delmondo, ma si sarebbe soprattutto realizzata una completa «rivoluzione spaziale », ingrado di cambiare « per la coscienza complessiva degli uomini, con l’eliminazionetotale delle rappresentazioni tradizionali, antiche e medievali, l’immagine globale delnostro pianeta e, oltre a ciò, la rappresentazione astronomica di tutto l’universo » 97.Spesso quella rivoluzione spaziale, che avrebbe comportato il rovesciamento del-l’equilibrio fra terra e mare e una svolta nell’eterna lotta tra potenze terrestri e potenzemarittime, è stata interpretata come l’origine della crisi della statualità moderna e del

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suo fondamento spaziale, all’interno di un percorso che troverebbe il suo estremosviluppo nelle contemporanee dinamiche di globalizzazione e frammentazione. Se,sotto questo profilo, la contraddizione costitutiva al cuore della modernità europea —la contraddizione esistente fra l’indispensabile innalzamento di frontiere politiche el’altrettanto costitutiva tendenza dello sviluppo capitalistico a travolgere e superareogni ostacolo naturale o artificiale — può essere interpretata come la radice più pro-fonda della crisi del modello della sovranità statuale 98, non è forse improprio conside-rare gli effetti di quella stessa « rivoluzione spaziale» sulla raffigurazione e concettua-lizzazione della psicologia umana.

Mentre le potenze occidentali, lanciandosi alla conquista di una frontiera mobile,riuscivano a costruire un modello dinamico di neutralizzazione del conflitto, la stessadicotomia tra « interno » ed « esterno», tra « dentro » e «fuori», si trovava replicataall’interno della struttura antropologica individuale. Non solo il cervello — dissoltal’unità dell’anima — si trovava ad essere gradualmente frammentato, ma la sua stessa«profondità », scandagliata da medici, filosofi e scienziati, finiva col restituire l’im-magine di una lotta analoga a quella ingaggiata da esploratori e conquistatori. Inol-trandosi nel « cuore della tenebra », in altre parole, i «civilizzatori» occidentali nontrovavano soltanto popolazioni « selvagge», «primitive» o « feroci», ma anche l’in-sidia di un nemico piantato nelle più riposte regioni della mente di ciascun individuo.All’interno di questo percorso — all’incrocio di molte discipline ottocentesche, traloro solo apparentemente distanti — la « scoperta » della « folla » non costituiva tantouna tappa di avvicinamento alla « scoperta » dell’inconscio, quanto una via attraversocui l’inconscio — a un tempo individuale e collettivo — veniva « inventato » dallescienze europee. Se l’identità occidentale si costruiva per contrapposizione con un’al-terità spesso del tutto fittizia, o quantomeno definita da una prospettiva unilaterale,nella « folla » — e in tutte le sue molteplici declinazioni iconografiche — si affastel-lavano proprio quelle immagini di una realtà primordiale e non civilizzata che, attra-verso una serie di rimandi puramente analogici, potevano passare da un mitico passatoatavico al mob cittadino, alle « classi pericolose » delle grandi metropoli e al « fondo»della piramide sociale, giungendo fino alle profondità della psiche. E così, mentre lalogica dell’economia mercantile — abbattendo tutte le barriere naturali e dissolvendotendenzialmente qualsiasi confine tra l’esterno e l’interno — costruiva uno spaziopolitico effettivamente globale, l’esplorazione della mente umana — inoltrandosi nelle«tenebre» della coscienza — definiva una nuova geometria spaziale, nel quale risul-tavano introiettati, in un equilibrio instabile sempre sul punto di saltare, l’alterità dellabarbarie primordiale e il nemico assoluto dell’ordine civile.

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Note

1. R. Heinlein, I figli di Matusalemme, Mondadori, Milano 2003, p. 23 (ed. or. Methuselah’sChildren, in «Astounding Science Fiction», 1941; II ed. 1958).

2. G. Le Bon, Psicologia delle folle,�Antonioli, Milano 1946, p. 18 (ed. or. Psychologie desfoules, Alcan, Paris 1895).

3. L’opuscolo di Le Bon era stato tradotto in inglese solo tre anni dopo la sua prima edizionefrancese: G. Le Bon, The Crowd. A study of popular mind, Unwin, London 1897. Sullapsicologia collettiva in ambito statunitense a cavallo tra i due secoli, si veda soprattutto ildenso e interessante volume di D. Frezza, Il leader, la folla, la democrazia nel discorsopubblico americano. 1880-1941, Carocci, Roma 2001, specie pp. 55-129.

4. A ricordare il plauso di Theodor Roosvelt, insieme a quello di altri leader politici, era lostesso autore, in appendice a G. Le Bon, Bases scientifiques d’une Philosophie de l’Histoi-re, Flammarion, Paris 1931, in particolare p. 294.

5. Sotto il primo profilo, Heinlein, scriveva ad esempio che « le tendenze socio-psicologichesi affermano e muoiono secondo una legge di “ crescita per lievitazione ”, un sistema com-plesso quanto efficace»; sotto il secondo, evidenziava invece le difficoltà della previsionein questo campo: « le tendenze sociali sono sempre frammiste ad altre tendenze, mescolateinestricabilmente le une alle altre come in un piatto di spaghetti. Anzi, peggio, perché perrappresentare matematicamente il vicendevole influsso delle varie forze occorre uno spa-zio topologico astratto a molte dimensioni: dieci o dodici nei casi più comuni, e anchequelle bastano a stento» (R. Heinlein, I figli di Matusalemme, cit., p. 24).

6. M. Nacci, Il volto della folla. I tre tempi della psicologia collettiva, « Il Mulino», XLVI(1997), n. 370, pp. 228-239, specie p. 230. Per una ricostruzione delle origini e dei piùrecenti sviluppi della psicologia collettiva, cfr. A. Mucchi Faina, L’abbraccio della folla.Cento anni di psicologia collettiva, Il Mulino, Bologna 1983, e il più recente Id., Psicologiacollettiva. Storia e problemi, Carocci, Roma 2002.

7. Per una più completa esposizione di questa lettura si consenta di rinviare a D. Palano,L’invenzione dell’inconscio collettivo. Teorie, rappresentazioni e metafore dell’azionepolitica alle origini della psicologia moderna (1875-1933), Tesi di dottorato in « Rappre-sentazioni e comportamenti politici» (XIV Ciclo), Università Cattolica, Milano 2001, e Id.,Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica enelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano 2002.

8. P. Zaccone, L’uomo dalla folla, Sonzogno, Milano 1880, pp. 7-8 (ed. or. L’homme desfoules, Dentu, Paris 1877).

9. W. Beniamin, Baudelaire e Parigi, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R.Solmi, Einaudi, Torino, 1966, p. 103.

10. E.A. Poe, L’uomo della folla (1840), in Id., Racconti del terrore, Mondadori, Milano 1992,pp. 139-149, specie pp. 140-141.

11. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, cit., p. 102.12. Ibidem, p. 97.13. Sul punto, si veda M. Bleher, Der Mensch als Menge und Masse in der Französischen

Sprache des 19. und 20. Jahrhunderts. Eine Wortfeldstudie, Inaugural-Dissertation, Ebe-rhard Karls Universität, Tübingen 1964.

14. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, cit., p. 97.15. Ibidem, p. 100.16. Ch. Baudelaire, I fiori del male, Dall’Oglio, Milano 1967, p. 143.17. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, cit., p. 101.18. Sulle immagini dell’urbanizzazione e dei suoi effetti sociali e psicologici, è interessante la

ricostruzione offerta da F. Lenger, L’abitante della metropoli, in U. Frevert-H.G. Haupt (a

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cura di), L’uomo dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 264-299. Sulle raffigura-zioni letterarie della vita urbana nel corso dell’Ottocento possono essere segnalati, in unaletteratura ovviamente piuttosto ampia, D. Pike, The Image of the City in Modern Literatu-re, Pion, London 1982, e il classico lavoro di A. Briggs, Victorian cities, Penguin Books,Harmondsworth 1980.

19. Per una ricostruzione di questo complesso passaggio terminologico, cfr., tra gli altri, ilavori di W. Conze, Vom «Pöbel» zum « Proletariat». Sozialgeschichtliche Voraussetzun-gen für den Sozialismus in Deutschland, «Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsge-schichte», XLI (1954), n. 4, pp. 333-364, e R. Koselleck-B. Schönemann-K.F. Werner etal., Volk, Nation, Nationalismus, Masse, in O. Brunner-W. Conze-R. Koselleck (hrsg.),Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache inDeutschland, Klett-Cotta, Stuttgart 1992, VII, pp. 141-43, M. Harrison, Crowds and Hi-story. Mass Phenomena in English Towns, 1790-1835, Cambridge University Press, Cam-bridge-New York 1988, specie pp. 168-191, P. Hayes, The People and the Mob. The ideo-logy of civil conflict in modern Europe, Prager, Westport (Connecticut)-London 1992, E.J.Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966, p. 141 (ed.or. Primitive Rebels. Studies in Archaic Formes of Social Movement in the 19th and 20th

Centuries, Manchester University Press, Manchester 1959), H. König, Zivilisation undLeidenschaft. Die Masse im bürgerlichen Zeitalteri¸Rowohlts, Reinbek bei Hamburg, 1992,pp. 122-131, F. Tuccari, Capi, élites, masse. Saggi di storia del pensiero politico, Laterza,Roma-Bari 2002,

20. C. Mackay, La pazzia delle folle ovvero le grandi illusioni collettive, « Il Sole 24 Ore »,Milano 2000, p. 21; ed. or. Extraordinary delusions and the madness of crowds (1841),Bentley-Crown, London-New York 1980.

21. «Le bandiere dell’Esposizione, che sventolavano al sole, l’illuminazione e le musiche delCampo-de-Mars, le folle del mondo intero che invadevano le strade», scriveva Zola, « ine-briavano Parigi, in un sogno d’inesauribile ricchezza, e di dominazione sovrana. Nelleserate luminose, dall’enorme città in festa, piena di ristoranti esotici, trasformata in unacolossale fiera, in cui il piacere si vendeva liberamente sotto le stelle, saliva l’eco supremadella pazzia, la pazzia gaia e vorace delle grandi capitali minacciate di distruzione ». Cfr. E.Zola, Il denaro, Newton Compton, Roma 1996, p. 168 (ed. or. L’Argent, Paris 1891).

22. Ibidem, p. 129.23. Cfr. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995 (ed. or. Die

Großstädte und das Geistenleben, 1903). Ma si vedano anche i lavori compresi in M.Cacciari (a cura di), Metropolis. Saggi sulle grandi città di Sombart, Endell, Scheffler eSimmel, Officina, Roma 1973.

24. S. Sighele, La Delinquenza Settaria. Appunti di sociologia, Treves, Milano 1897, p. 44.25. Cfr. S. Barrows, Distorting mirrors. Visions of the Crowd in Late Nineteenth-Century

France, Yale University Press, New Haven-London 1981.26. E. Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di

Londra ad essa relative: in una lettera destinata a un gentiluomo parigino (1790), in Id.,Scritti politici a cura di A. Martelloni, Utet, Torino 1963, pp. 149-443, specie p. 237; ed. or.Reflections on the Revolution in France (1790), Penguin, Harmondsworth 1982.

27. Ibidem, p. 238.28. A proposito della visione che della moltitudine avevano gli scrittori cristiani inglesi, scri-

veva: «Gli statisti cristiani di questo paese credono veramente di dover provvedere inprimo luogo alla moltitudine, appunto perché è una moltitudine, e come tale costituiscel’oggetto fondamentale delle istituzioni ecclesiastiche, come di ogni altra istituzione» (ibi-dem, p. 274).

29. Ibidem, p. 248.30. H. Taine, La Rivoluzione. II. La Conquista Giacobina, Treves, Milano 1921, II, pp. 378-

379 (ed. or. Les origines de la France contemporaine, Hachette, Paris 1875-1893). Sullariflessione di Taine, e sul suo ruolo come anticipatore della psicologia delle folle, cfr. R.

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Pozzi, Hippolyte Taine. Scienze umane e politica nell’Ottocento, Marsilio, Venezia 1993,e Id., Alle origini della psicologia delle folle: Taine e «Les origines de la France contem-poraine», in M. Donzelli (a cura di), Folla e politica. Cultura filosofica, ideologia, scienzesociali in Italia e Francia a fine Ottocento, Liguori, Napoli 1995, pp. 23-32. Sul più gene-rale contesto teorico e politico, è invece importante ricordare M. Battini, L’ordine dellagerarchia. I contributi reazionari alla crisi della democrazia in Francia. 1789-1914, Bol-lati Boringhieri, Torino 1995.

31. H. Taine, La Rivoluzione. I. L’anarchia, Treves, Milano 1921, I, p. 311.32. E. Zola, Germinal, Rizzoli, Milano 1994, p. 440 (ed. or. Germinal, Charpentier, Paris 1895).33. Su Lombroso e la sua scuola sono da vedere tra l’altro i recenti studi di M. Gibson, Nati per

il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Bruno Mondadori,Milano 2004 (ed. or. Born to Crime. Cesare Lombroso and the Italian Origins of BiologicalCriminology, Praeger, Westport-London 2002), e D. Frigessi, Cesare Lombroso, Einaudi,Torino 2003, ma soprattutto l’ancora fondamentale ricostruzione compiuta da R. Villa, Ildeviante e i suoi segni. Cesare Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, FrancoAngeli, Milano 1985.

34. E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Zanichelli, Bologna 1881,p. 58.

35. E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, p. 131.36. Cfr. S. Sighele, La folla delinquente (1891), a cura di C. Gallini, Marsilio, Venezia 1985,

p. 53.37. Ibidem, p. 56.38. G. Tarde, La philosophie pénale, Storck-Masson, Lyon-Paris 1890, p. 320.39. G. Tarde, Le leggi dell’imitazione, in Id., Scritti sociologici, a cura di F. Ferrarotti, Utet,

Torino 1976, pp. 43-412, in particolare pp. 127-128 (ed. or. Le lois de l’imitation, Alcan,Paris 1890).

40. G. Tarde, Foules et sectes au point de vue criminel, « Revue des Deux Mondes », LXIII(1893), t. 120, pp. 349-387.

41. G. Tarde, Le public et la foule (1898), in Id., L’opinion et la foule, Alcan, Paris 1901, p. 6.42. R.E. Park, Masse und Publikum. Eine methodologische und soziologische Untersuchung,

Dissertation, Heidelberg 1904. Si veda ora Id., La folla e il pubblico, a cura di R. Rauty,Armando, Roma 1997.

43. Cfr. sul punto V. Petrucci, Dalla sociologia all’interpsicologia: il diritto in Gabriel Tarde,in M. Donzelli (a cura di), Folla e politica, cit., pp. 116-127, e I. Lubek, Histoire de psycho-logie sociales perdues. Le cas de Gabriel Tarde, in «Revue française de sociologie», XXII(1981), n. 3, pp. 361-395.

44. Sulla psicologia collettiva elaborata dal gruppo degli studiosi italiani che si richiamavano,con maggiore o minore convinzione, all’antropologia criminale lombrosiana, si permetta ilrinvio a D. Palano, Il potere della moltitudine, cit. Sulle tesi sviluppate in questo lavoro, esoprattutto sulla relativa coerenza che a cavallo tra Otto e Novecento il dibattito intellettua-le all’interno dell’« Europa latina», si sono soffermate alcune note di G.C. Cattini, Lamodernització i les seves incògnites: e la malson de les multituds, in « Cercles. Revistad”Història Cultural », 2003, n. 6, pp. 260-263.

45. Cfr., ad esempio, P. Rossi, L’Animo della folla, Riccio, Cosenza 1898, Id., Psicologiacollettiva morbosa, Bocca, Torino, 1902, Id., I suggestionatori e la folla, Bocca Torino,1902, e Id., Sociologia e psicologia collettiva, Colombo, Roma 1904.

46. S. Sighele, La Delinquenza Settaria, cit., p. 104.47. G. Le Bon, Psicologia delle folle, cit., p. 14.48. Cfr. W. Bagehot, Physics and Politics. Or thoughts on the application of the principles of

«natural selection» and « inheritance» to political society, Kegean-Trench-Trübner, Lon-don 1872. Per una introduzione ai principali nodi problematici della riflessione di Bagehot,si veda il lavoro di M. Valenti, Walter Bagehot e il governo delle passioni. Profilo di unvittoriano, Franco Angeli, Milano 1993.

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49. In questo senso scriveva: « I caratteri morali e intellettuali, la cui associazione forma l’ani-ma d’un popolo, rappresentano la sintesi del suo passato, l’eredità dei suoi antenati, i motividella sua condotta. Questi caratteri sembrano talvolta variabilissimi a prima vista negl’in-dividui d’una stessa razza; ma un attento studio prova che la maggioranza degl’individui diquesta razza possiede sempre un certo numero di tratti psicologici comuni, altrettanto sta-bili quanto i caratteri anatomici che permettono di classificare le specie» (G. Le Bon, Leleggi psicologiche della evoluzione dei popoli, Monanni, Milano 1927, p. 19; ed. or. Leslois psychologiques de l’évolution des peuples, Alcan, Paris 1894). Tra la bibliografia su LeBon possono essere qui segnalati l’ormai classico testo di Robert A. Nye, The Origins ofCrowd Psychology. Gustave LeBon and the Crisis of Mass democracy in the Third Repu-blic, Sage, London-Beverly Hills 1975, e il più recente G. Marpeau, Gustave Le Bon.Parcours d’un intellectuel 1841-1931,�Cnrs Editions, Paris 2000. Sulla vicenda della psi-cologia collettiva francese, che trova in Le Bon il punto di snodo, si veda però anche illavoro condotto da J. Van Ginneken, Crowd, psychology, and politics. 1871-1889, Cambri-dge University Press, Cambridge-New York 1992, mentre, per le connessioni tra autoriitaliani e francesi, rimangono ancora centrali le osservazioni di L. Mangoni, Una crisi difine secolo. La cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985.

50. G. Le Bon, Le leggi psicologiche della evoluzione dei popoli, cit., p. 23.51. Ibidem, pp. 151-152.52. Ibidem, p. 149.53. G. Le Bon, Psicologia delle folle, cit., p. 15.54. Ibidem, p. 17.55. Ibidem, p. 28.56. Ibidem, pp. 25-26.57. Ibidem, p. 28.58. Ibidem, p. 148.59. Ibidem, p. 193.60. S. Sighele, La Delinquenza Settaria, cit., p. 52.61. Ibidem, p. 5262. A. Hitler, La mia battaglia, Bompiani, Milano 1934, pp. 171-172.63. A. Stein, Adolf Hitler und Gustave Le Bon. Der Meister der Massenbewegung und sein

Lehrer, in «Geschichte in Wisseschaft und Unterricht», VI (1955), n. 6, pp. 262-368.64. Scriveva infatti Gerhard Colm: « Die soziologische Behandlung der Masse stößt auf die

Schwierigkait, daß die Wissenschaft hier ein Wort verwendet, das im Sprachgebrauch desAlltags eine vielfältige Bedeutung hat. Wenn wir etwa die “Massen” eines Volkes in Ge-gensatz setzen zu den “Gebildeten ”, wenn wir von dem “ Massen- und Führergegensatz”in einer Partei oder von dem “ Zeitalter der Masse ” sprechen, oder wenn wir von der austän-digen Masse hören, die die Bastille erstürmt hat, so wird hier derselbe Ausdruck in einemwechselnden Sinne gebraucht». Cfr. G. Colm, Masse, in A. Vierkandt (hrsg.), Handwör-terbuch der Soziologie, Enke, Stuttgart 1932, pp. 353-360, in particolare p. 353.

65. Cfr. W. Von Bechterew, Die Bedeutung der Suggestion im sozialen Leben, Wiesbaden1905, e W. Hellpach, Die Geistige Epidemien, Rütten & Loenig, Frankfurt a.M. 1906.

66. La folla delinquente di Sighele, ad esempio, era stato già pubblicato in Germania nel 1897con il titolo Psychologie des Auflaufs und der Massenverbrechen, Reissner, Dresden 1897(cfr. anche H. Kurella, Vorwort der Herausgerbers, ivi, p. IX-XI), mentre, a dispetto delsuccesso eccezionale registrato soprattutto negli Stati Uniti, la Pychologie des foules, ot-tenne una versione tedesca soltanto nel 1908: G. Le Bon, Psychologie der Massen, W.Klinkardt, Leipzig 1908.

67. Cfr. ad esempio T. Geiger, Die Masse und ihre Aktion. Ein Beitrag zur Soziologie derRevolution, Enke, Stuttgart 1926, G. Stieler, Person und Masse. Untersuchungen zur Grun-dlegung einer Massenpsychologie, Meiner, Leipzig 1929, W. Vleugels, Die Masse. EinBeitrag zur Lehre von den sozialen Gebilden, München-Leipzig 1930. Per la riflessionecondotta in campo più strettamente psicologico, cfr. A. Fischer, Psychologie der Masse, in

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G. Kafka (hrsg.), Handbuch der vergleichenden Psychologie, München 1922, e P. Plaut,Prinzipien und Methoden der Massenpsychologie, in Handbuch der biologischen Arbeit-smethoden, 1925, pp. 220-280.

68. K. Kautsky, Die Aktion der Masse, «Neue Zeit », XXX (1911), t. I, ora in A. Grunenberg(hrsg.), Die Massenstreikdebatte, Europäische Velagsanstalt, Frankfurt a.M. 1970, pp. 233-263, in particolare pp. 238-239.

69. Cfr. W. Moede, Experimentelle Massenpsychologie. Beiträge zur Experimentalpsycholo-gie der Gruppe, Hirzel, Leipzig 1920.

70. W. Sombart, Der proletarische Sozialismus, Verlag von Gustav Fischer, Jena 1924, II, p.99.

71. L. von Wiese, System der Allgemeinen Soziologie als Lehre von den sozialen Prozessen undden sozialen Gebilden der Menschen (Beziehungslehre), Duncker & Humblot, München-Leipzig 1933 2, p. 386.

72. Cfr. T. Geiger, Die Masse und ihre Aktion. Ein Beitrag zur Soziologie der Rivolution, Enke,Stuttgart 1926.

73. Scriveva infatti Freud a questo proposito: « Una certa differenza tra la concezione di Le Bone la nostra sta in questo: il suo concetto dell’inconscio non coincide per intero con quellopostulato dalla psicoanalisi. L’inconscio di Le Bon contiene soprattutto le caratteristichepiù profonde della psiche razziale, la quale propriamente non viene considerata dalla psi-coanalisi individuale. Non contestiamo che il nucleo dell’Io (l’Es, come l’ho in seguitochiamato), cui appartiene l’“ eredità arcaica ” della psiche umana, sia inconscio, ma faccia-mo un’ulteriore distinzione, e parliamo di un “ inconscio rimosso ” che trae origine da unaparte di tale eredità. Questo concetto di rimosso manca in Le Bon». Cfr. S. Freud, Psico-logia della masse e analisi dell’io (1921), in Id., Opere. 1917-1923. L’Io e l’Es e altriscritti, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 257-330, specie p. 265 (ed. or. Massenpsychologieund Ich-Analyse, Leipzig-Wien-Zürich, Internationaler Psychoalytischer Verlag, 1921).

74. Cfr. W. Mc Dougall, The Group Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1920, e W.Trotter, Istincts if the Herd in Peace and War, Fischer Unwin, London 1916.

75. S. Freud, Psicologia della masse e analisi dell’io, cit., p. 292.76. Era, come noto, la perdita del capo a distruggere la massa come una « lacrima di Batavia»:

«Nessun dubbio è possibile», scriveva infatti, « circa il fatto che per panico debba intender-si il disgregarsi della massa; esso indica infatti il venir meno di tutti i riguardi che altrimentii singoli componenti di questa mostrano gli uni verso gli altriı» (ibidem, p. 287).

77. Ibidem, p. 304.78. Ibidem, p. 309.79. Su questo versante, peraltro, l’operazione di Freud veniva anche a convergere con la lettura

che di Le Bon aveva compiuto Michels soprattutto nelle prime versioni della sua opera piùnota: cfr. R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna. Studisulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici, Unione Tipografico-editoriale torine-se, Torino 1912. Cfr. su questo punto l’analisi di F. Tuccari, Capi, élites, masse, cit.

80. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1974, p. 93 (ed. or. Larebeliòn de las masas, Revista de Occidente, Madrid 1930).

81. Un esempio di questo utilizzo delle tesi di Ortega è ad esempio rintracciabile negli scrittisulla « massa » e il « regime di massa» di Giacomo Perticone, distribuiti lungo un arcotemporale che si estende dagli anni Trenta all’inizio degli anni Settanta, nella quale veni-vano ricondotto alla stessa matrice di fondo fenomeni tra loro molto lontani, come l’ascesadei fascismi in Europa e le rivolte studentesche degli anni Sessanta: G. Perticone, Scritti sulregime di massa, Giuffrè, Milano 1984.

82. Si vedano i saggi ora raccolti in E. Lederer, Der Massenstaat. Gefahren der KlassenlosenGesellschaft, Nausner & Nausner, Graz 1995, e Id., Lo Stato delle masse. La minaccia dellasocietà senza classi, a cura di M. Salvati, Bruno Mondadori, Milano 2004.

83. Un seminario organizzato a Parigi nel 1932 dal Centre International de Synthèse fu permolti aspetti uno degli ultimi atti della riflessione sulla «folla» condotta nel campo delle

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scienze sociali. Particolarmente rilevanti, nel seminario del ’32, furono le relazioni di G.Bohn, Le grégarisme, in G. Bohn et al., La foule, Alcan, Paris 1934, pp. 1-20, G. Hardy, Lefoule dans les sociétés dites primitives, ibidem, pp. 23-47, P. Alphandéry, Foules histori-ques. Le foules religiouses, ibidem, pp. 53-75, E. Dupéel, Y a-t-il una foule diffuse? L’opi-nion publique, ibidem, pp. 109-130, ma soprattutto l’intervento di G. Levebvre, che pren-deva le mosse proprio da Le Bon: cfr. G. Lefebvre, Folle rivoluzionarie, in Id., Follerivoluzionarie, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 67-80 (ed. or. Foules historiques. Les fou-les révolutionnaires, cit., pp. 79-107).

84. Per alcune indicazioni che considerano come la psicologia delle folle vada a influenzare laricerca politologica nordamericana sui « gruppi», cfr. L. Ornaghi, Gruppi di pressione, inEnciclpedia del diritto. III Aggiornamento, Giuffrè, Milano 1999, pp. 656-667.

85. Sulla storiografia su mob e crowd, si vedano, ad esempio, J.W. Caughey, Their Majestiesthe Mob, University of Chicago Press 1960 e C. Hibbert, Kingmob. The story of LordGeorge Gordon and the London Riots of 1780, World, Cleveland 1958, ma soprattutto, G.Rudé, Dalla Bastiglia al Termidoro. Le masse nella rivoluzione francese, Editori Riuniti,Roma 1966 (ed. or. The Crowd in the French Revolution, Oxford University Press, Oxford1959), Id., La folla nella storia, Editori Riuniti, Roma 1986 (ed. or. The Crowd in History.A Study of Popular Disturbances in France and England 1730-1848, Wiley, New York1964), Id., The Face of the Crowd. Studies in Revolution, Ideology and Popular Protest,Harvester-Whetsheaf, New York-London 1988, ed E.P. Thompson, The Moral Economy ofthe English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past and Present », 1971, 50, pp. 76-136.Per una sintesi delle ricerche condotte intorno a questo nodo storiografico, cfr. R. Bianchi,Folle e mercati. Continuità e rotture di un conflitto permanente, «Passato e presente », XV(1997), n. 41, pp. 131-144.

86. Cfr. A. Joussain, Psychologie des masses, Flammarion, Paris 1937, pp. 5-6, dove l’autoresi richiamava esplicitamente al lavoro di Le Bon e alla sua mancata distinzione tra folla emassa.

87. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino 2002, p. 24 (ed. or. DieMassepsychologie des Faschismus, Kopenaghen-Prag-Zürich 1933).

88. Ibidem, p. 32 (corsivo nel testo).89. Ibidem, p. 68.90. M. Horkheimer, La lezione del fascismo (1950), in Id., La società di transizione, a cura di

W. Brede, Einaudi, Torino 1979, pp. 31-57, specie p. 47 (ed. or. Gesellschaft im Übergang,Fischer, Frankfurt a.M. 1972).

91. M. Horkheimer-T.W. Adorno (a cura di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, p. 96(ed. or. Soziologische Exkurse, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1956).

92. Per una analisi che pone in relazione la riflessione sulla Massenpsychologie con le raffigu-razioni della massa fornite nella cinematografia soprattutto tedesca degli anni Venti e Tren-ta, da Fritz Lang fino a Riefenstahl, si veda M. Amann, Massenpsychologie und Massen-darstellung im Film, Dissertation, Ludwig Maximilians Universität, München 1983.

93. La tesi che l’industrializzazione, l’urbanizzazione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazio-ne di massa favorissero la diffusione di un nuovo individuo « eterodiretto» era esposta in D.Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956.

94. Era puntando su questa «spontaneità rituale» che Marco Revelli e Antonella Tarpino rico-noscevano alla folla la «dignità di problema storiografico »: cfr. M. Revelli-A. Tarpino,Folla e rivolta tra storia e scienze sociali, « Rivista di storia contemporanea», XII (1983),n. 4, pp. 490-543.

95. R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano,2002, p. 13.

96. Come esempio di questa lettura può essere considerato, S. Moscovici, The Discovery of theMasses, in F. Graumann-S. Moscoviti (eds.), Changing Conceptions of Crowd Mind andBehavior, Springer, New York-Berlin 1985, pp. 5-25, oltre naturalmente a Id., L’âge desfoules. Un traité historique de psychologie des masses, Fayard, Paris 1981.

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97. C. Schmitt, Terra e mare, Giuffrè, Milano 1986, p. 60; ed. or. Land und Meer. Eine Welt-geschichtliche Betrachtung (1942), Hohenheim Verlag, Köln-Lövenich 1981.

98. Su questo nodo, offrono interessanti elementi di riflessioni i lavori, tra loro diversi, di C.Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001, e M. Hardt-A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002 (ed. or.Empire, Harvard University Press, Cambridge-Mass. 2000).


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