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Tesina Figura e ruolo della donna nel regime fascista

Date post: 02-Dec-2023
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1 Università Alma Mater Studiorum Bologna a.a. 2015/2016 Dipartimento di Lingue GEMMA Erasmus Mundus Master Degree Figura e ruolo della donna nel regime fascista Antonella Crichigno Matricola 0900054648 [email protected] Feminist History 26013 Fiorenza Tarozzi
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Università Alma Mater Studiorum Bologna

a.a. 2015/2016

Dipartimento di Lingue

GEMMA Erasmus Mundus Master Degree

Figura e ruolo della donna nel regime fascista

Antonella Crichigno

Matricola 0900054648

[email protected]

Feminist History 26013

Fiorenza Tarozzi

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1. Il contesto

Essere una donna durante il ventennio fascista non era un’impresa semplice. La figura della donna è

infatti stata costruita su una serie di ambiguità e contraddizioni che mai le hanno permesso di

affermarsi nella sua individualità ma che la hanno sempre portata ad essere creta nelle mani degli

uomini.

E’ necessario, ai fini di una conoscenza e discussione dell’argomento complete e lineari,

contestualizzare il periodo in cui ci stiamo muovendo. Come sappiamo il regime fascista nasce e si

sviluppa lungo l’arco temporale che va dal 1924 alla caduta del regime nel 1945, è un dato

estremamente importante perché ci permette di affermare che il fascismo si affaccia al mondo della

politica e del potere in un momento storico molto importante per le donne di tutto il mondo ma in

particolar modo per quelle europee. Gli anni Venti sono un periodo fondamentale per il

femminismo (definito della Seconda Ondata) in quanto si lotta per il riconoscimento dei diritti delle

donne in quanto donne e cittadine: c’è la richiesta del diritto di voto. Si apre dunque una nuova

frontiera di quello che è e che è stato il movimento femminista facente capo alla schiera delle

Suffragette, si iniziano ad ottenere nuove vittorie come quella nel Regno Unito, Irlanda e Germania

con la apertura al suffragio femminile nel 1918. I fermenti arrivano anche in Italia e si fanno sentire.

Come ci fa notare Victoria de Grazia in “Le donne nel regime fascista” (Marsilio Editori, 1997), il

movimento delle donne in Italia era intriso di una grande peculiarità, caratterizzato

dall’ambivalenza nell’atteggiamento, spinto quasi da una matrice antagonista, nei confronti del

regime liberale che vigeva nell’Italia pre-mussoliniana. La stessa corrente femminista italiana si

divideva in tre grandi sottocategorie che erano quella del femminismo socialista, del femminismo

cattolico e del femminismo borghese. Sebbene avessero avuto la possibilità di metter radici nel

suolo politico/sociale italiano perché rispettivamente sostenuti da PSI, Pio X e dall’alta borghesia

del Partito Liberale, nessuna delle tre correnti era stata in grado di far sostenere la causa civile dei

diritti delle donne anzi, la totale mancanza di appoggio alla causa da parte dei tre “protettori” del

femminismo italiano portava ad una sorta di credo all’interno dello stesso movimento femminista

secondo il quale “parità civili ed economiche non erano fondamentali per ottenere l’uguaglianza

sociale”. In nessun luogo infatti il femminismo fu ben accetto all’opinione pubblica maschile ma in

Italia fu quasi impossibile, viste le premesse, pensare ad un nuovo ruolo per la donna. In particolar

modo poi, l’elite liberale non faceva mistero della sua totale mancanza di volontà nel sostenere la

causa del diritto al voto per le donne facendosi così complice dell’antifemminismo che tanto sarà

caro a Mussolini. Lo stesso Marinetti nel suo Manifesto Futurista (1909) parlò della donna con

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termini assai dispregiativi promuovendo anzi “le belle idee per cui si muore e il disprezzo per la

donna”.

La de Grazia si interroga, all’inizio del suo saggio, su quale fosse l’atteggiamento delle donne nei

confronti del regime e ci spinge a riflettere su una realtà che spesso passa in secondo piano: come è

possibile parlare di consenso in riferimento ad un regime autoritario in cui non esiste la libertà di

espressione? E’ certo che le donne fasciste assunsero a loro volta un atteggiamento assai stoico e di

totale fedeltà e devozione nei confronti del Duce e del fascismo ma non mancarono mai

l’inquietudine, il risentimento, la ribellione e una forte consapevolezza dei loro diritti di donne e

cittadine.

I propagandisti del regime sostenevano che la politica verso le donne fosse al contempo moderna e

tradizionale il che implica già di per sé una contraddizione non solo a livello linguistico ma anche a

livello culturale. Per pensare a tale concetto con semplicità basti pensare ad un regime che riteneva

la donna la regina del focolare e che andava dunque chiusa, se non addirittura tenuta prigioniera, tra

le mura casalinghe ma che allo stesso tempo doveva essere sostenitrice del regime non solo

attraverso la propaganda e la sua totale fedeltà al Duce ma anche attraverso la politica pronatalista

che la rendevano il primo oggetto delle manovre politico/militari fasciste.

2. Le fasciste della prima ora

E’ necessario fare un passo indietro rispetto a quanto detto in precedenza e osservare come il

periodo precedente a quello della presa di potere di Benito Mussolini sia stato caratterizzato non

solo dalla tradizione liberale giolittiana ma anche da un avvenimento ben più sconvolgente: la

Prima Guerra Mondiale. Ebbene, in questo contesto di disperazione, di sfiducia, di collera

postbellica, proprio i fascisti si incaricarono di riportare in auge quel sentimento risorgimentale

dell’amor di patria, animati dal forte sentimento nazionalista, per onorare gli eroi caduti in battaglia,

contro quel governo inetto e le crescenti forze di sinistra. Non a caso riuscirono a coinvolgere molti

reduci e le donne che erano state segnate dalla perdita di un marito, di un figlio, o peggio ancora che

dovevano ritrovarsi accanto a uomini invalidi e depressi, di cui dovettero necessariamente prendersi

cura. Il fascismo fece suo il consenso di queste madri disperate, delle vedove, con il continuo

richiamo al culto dei loro morti, tanto che entrò sin dal principio in contatto con l’Associazione

nazionale delle madri e delle vedove di guerra (nata durante la guerra nel 1917), diretta da donne

altolocate in grado di mobilitarsi per tutelare quelle donne rimaste sole e avviare le pratiche per dare

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loro la pensione di guerra ed altri risarcimenti. Mussolini chiamava a raccolta le vedove, emblema

del sacrificio e portatrici dignitose di estreme sofferenze, le quali risposero all’appello speranzose,

affinché non venissero dimenticati i loro morti.

Insieme alle vedove, nell’immediato dopoguerra confluirono tra i seguaci del fascismo donne di

diversa estrazione sociale, per lo più altolocate, colte, raffinate, ma anche loro colpite dal conflitto,

ferite per aver visto tradita la loro patria, cresciute ed educate con spirito patriottico, convinte

interventiste prima della guerra e attratte da chiunque dimostrasse apertamente di voler onorare

l’Italia. Per questo femministe come Regina Terruzzi, Teresa Labriola, Margherita Sarfatti, (futura

amante del Duce, che perse un figlio nei combattimenti) o Olga Modigliani, si schierarono dalla

parte del fascismo e gli rimasero fedeli fino alla fine. (Giorgia Malara, Credere, obbedire… mai

combattere. La condizione della donna durante il fascismo, p 7-8)

Il fatto che le femministe furono inclini a guardare con favore al regime e alle promesse di

Mussolini non implica che fosse lo stesso per quanto riguarda la borghesia nazionale anzi, se si fa

riferimento a quella che viene definita la fascistizzazione delle donne della prima ora si può vedere

come si fossero creati ben due filoni distinti, quello delle sansepolcriste e quello delle dannunziane,

che vennero poi però inevitabilmente schiacciate dalla macchina maschilista fascista. Come ci

illustra Victoria de Grazia (Le donne nel regime Fascista, Marsilio Editori p. 55-62) solo nove

donne sono state identificate come veterane del raduno di Milano, in Piazza San Sepolcro il 23

marzo del 1919 e le aderenti non furono più di qualche centinaio fino alla marcia su Roma del 28

ottobre 1922. Bisogna pensare alle fasciste della prima ora come a personaggi eccentrici, ex

militanti delle file socialiste, vogliose di stare in prima linea ma accomunate esclusivamente dal

ripudio e dal disprezzo nei confronti di tutto ciò che era stata la tradizione liberale, del socialismo

riformista, ardite nel desiderio di uno Stato forte e ordinato. La composizione variegata fu molto

utile al movimento fascista, Margherita Sarfatti, Regina Terruzzi, Elisa Majer Rizzioli sono solo

alcuni dei grandi nomi di donne che risultarono essere, almeno in un primo momento, indispensabili

per il consolidamento del regime fascista.

Continuando a far leva su ambiguità e contraddittorietà che caratterizzano il rapporto fra le donne e

il regime fascista è bene ricordare la creazione da parte del PNF dei Fasci Femminili. I Fasci si

svilupparono in modo sporadico già a partire dal 1920 costituiti per lo più da donne interventiste e

nazionaliste, quindi piuttosto vivaci e indipendenti. Nel primo periodo si svilupparono vari gruppi

con diverse funzioni come ad esempio: il Gruppo di Propaganda, con il compito di tenere

conferenze e scrivere articoli al fine di rendere chiari i progressi e i programmi del partito; il

Gruppo Scolastico che cercava di ostacolare l’indifferenza di molte famiglia verso l’istruzione; il

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Gruppo Sanitario che formava giovani infermiere per la cura dei bambini e dei poveri, e così via. Il

PNF di allora non prese le fasciste molto in considerazione e, trascurando questo fenomeno, lasciò

loro una certa autonomia, tanto che si gestivano da sole eleggendo a turno una segreteria, la Majer

Rizzioli poi sostituita da Angiola Moretti. Non a caso, una volta resesi conto del potere che stavano

acquisendo queste donne, nel 1931 decisero di far passare i Fasci sotto il controllo diretto della

dirigenza di partito. (Giorgia Malara, Credere, obbedire… mai combattere. La condizione della

donna durante il fascismo, p 9).

E’ però necessario fermarsi a riflettere su come il fascismo non fosse nato come spiccatamente anti-

femminile nella sua prima ora, in particolar modo le richieste da parte delle donne del diritto di voto

vennero accolte in un primo momento tanto è vero che le donne poterono votare quando, a partire

dal 1925, il Duce divenuto capo del governo, approvò la richiesta di legge che concedeva loro il

diritto di votare per le amministrative. Tuttavia anche questo traguardo durò il tempo di un

tramonto, Mussolini infatti parlò di tale conquista come di una vittoria solo per le “poche esaltate

dei Fasci Femminili” e concesse loro di gioire di tale successo per un tempo limitatissimo, fino al

1926, anno in cui “con la legge del 4 febbraio sindaco e consiglio comunale vennero sostituiti dalla

figura del podestà, di conseguenza vennero abolite le elezioni amministrative. Ecco come il Duce le

ingannò, ecco perché si parla di “beffa del voto” alle donne”. (Giorgia Malara, Credere, obbedire…

mai combattere. La condizione della donna durante il fascismo, p 10). Il fascismo si preoccupò

infatti di realizzare quella che viene definita una vera e propria damnatio memoriae del femminismo

italiano affinché fosse possibile per il Duce e i suoi gerarchi continuare a tenere in gabbia le donne,

rinchiudendole in quella prigione fatta di false speranze e finte concessioni che brama di

indipendenza, solidarietà di genere e carattere avrebbero facilmente abbattuto.

3. Donna, madre, dea del focolare

L’ideologia fascista come detto in precedenza, si basava su una contraddittorietà e un’ambiguità

feroci nei confronti della figura e del ruolo della donna nella società, come si è detto nei paragrafi

iniziali l’idea del fascismo era quella di giocare al “bastone e alla carota” con le donne… si

trattava principalmente (agli albori del regime) di dare una minima concessione alla parte di

popolo femminile per andare poi a privare lo stesso di quelle stesse concessioni fatte in

precedenza. Un esempio importante è il sopracitato diritto di voto (brutalmente eliminato nel

1926) ma gli esempi sono molteplici. Innanzitutto va ricordato che l’invettiva di Marinetti fu

largamente apprezzata dai gerarchi e dai sostenitori del fascismo che ritenevano le donne incapaci

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e inadatte alla conduzione di una vita pubblica e dunque politica che andasse al di là delle mura

domestiche nelle quali erano state precedentemente imprigionate. Poche furono le donne capaci di

uscire da questa condizione di infinita sudditanza e subordinazione, quelle che ci riuscirono

furono inizialmente apprezzate, quando ancora serviva il consenso per creare la macchina di

distruzione fascista, per poi cadere in uno stato di continua ricerca di affermazione e

riconoscimento che non avverrà mai.

La donna fascista doveva incarnare un ideale ben preciso: la donna di campagna, bella, prosperosa

e con le gote rosa, capace di dar vita, allattare e crescere una prole numerosa; i fascisti del futuro.

Era questo il motivo per cui Mussolini, con l’appoggio dei suoi fidati gerarchi, lanciò due

campagne importanti: quella contro l’urbanizzazione e quella pro-natalista. Come ci informa

Victoria de Grazia (Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori p 69-110), nella concezione

fascista il dovere delle donne nei confronti della nazione era principalmente quello di essere madri

e fare figli, il famoso “Discorso dell’Ascensione” del 1927 venne concluso dal Duce esortando gli

uomini a dire alle loro donne che “ho bisogno di nascite, molte nascite”. E’ necessario anche qui

contestualizzare il tutto facendo riferimento al cambiamento all’interno della politica interna

mussoliniana che metteva al centro del fascismo le “strategie di difesa della razza” e che si

preoccupava largamente di dare adito a quel filone scientifico che sponsorizzava l’eugenica

italiana: era necessario agire sulla donna non solo negli ultimi mesi della gestazione ma fin dalla

“fase preparatoria” della maternità che sta nell’età giovanile. Lo slogan mussoliniano divenne

dunque “la forza sta nel numero”e questo portò ad un periodo, definito di “normalizzazione”,

sessuale e non, anch’esso costruito su una contraddizione di fondo. Veniva si, da una parte,

esaltata la virtù e la virilità dell’uomo e amante fascista attraverso la figura del Duce, ma allo

stesso tempo veniva messa in chiaro la necessità di avere una moglie e una famiglia numerosa.

Venne introdotta la tassa sul celibato (19 dicembre 1926), col codice penale nel 1931 gli atti

omosessuali vennero riconosciuti come reato e dopo il 1937 il matrimonio e il numero di figli

divennero criterio di preferenza per la carriera. Allo stesso tempo la maternità smise di essere

pregna di quel significato sociale che tutte le femministe italiane avevano precedentemente

invocato, essere madre fu ridotto al mero atto di mettere al mondo dei bambini, quegli stessi

bambini che non molti anni dopo divennero martiri di guerra. La criminalizzazione dell’aborto fu

un’altra misura adottata dal regime per contrastare quella che i pubblicisti descrivevano come

un’emergenza nazionale: la tendenza al controllo delle nascite. Essere madre dunque non era più

una libera scelta della donna ma un’imposizione sociale, un dovere verso lo stato. Il regime

fascista infatti si preoccupò ben presto di additare quelle che erano le maniere comportamentali

che arrivavano dagli USA impegnandosi a forgiare quella che doveva essere la nuova donna

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italiana: donna-madre florida, rurale, prolifera in antitesi alla donna-crisi cosmopolita,

indipendente, l’equivalente dell’uomo borghese che il fascismo si era preoccupato di eliminare.

Alla fine degli anni Venti vi era dunque grande incertezza su come fosse giusto educare una

ragazza, vennero a crearsi così due generazioni contrapposte di donne italiane: le donne della

“generazione del fronte” e le “maschiette”. Le seconde, più indipendenti e cresciute sotto

l’influenza della società del consumo di massa subirono le ire e le costrizioni tanto del regime

quanto della Chiesa. Fin quando non si sposavano le ragazze erano soggette all’autorità paterna e

tale chiusura fu funzionale e servì grandemente a far cadere il mito della ragazza americana libera

e indipendente. Arrivare a soffiare le trenta candeline senza una famiglia, un marito e una prole

numerosa altro non poteva essere se non sinonimo di “zitellaggio” non aveva dunque nulla a che

vedere con libertà e indipendenza. Ovviamente però il regime non era in grado di eliminare ogni

singolo input proveniente dall’estero e la cultura di massa si stava facendo largo nelle fantasie dei

giovinetti e delle giovinette italiane, i costumi sessuali stavano cambiando: fu per tale motivo che

il regime iniziò a parlare di “dote” femminile da preservare fino al matrimonio che altro non era

che l’imene intatto. Era impossibile in Italia parlare di dating così come, allo stesso tempo, la

totale mancanza di un’educazione sessuale adeguata e il controllo sulle nascite impedivano alle

giovani donne italiane di identificarsi con quegli stili di vita liberali che tanto le attraevano. Va

inoltre sottolineato come il delitto d’onore venne considerato un reato minore in virtù del concetto

patriarcale di onore tanto caro ai gerarchi del regime. Come infatti riporta la de Grazia, citando

Garofalo, (L’italiana in Italia p 161), “ I costumi contadini consentivano che il padre bandisse la

figlia rimasta incinta senza essere spostata non solo per l’onore offeso, ma per la delusione che

essa ha inflitto a coloro che contavano su una sua redditizia sistemazione”.

La perfetta donna fascista era un ibrido: serviva tutti i bisogni della famiglia e allo stesso tempo si

faceva carico dell’interesse dello Stato, nel 1936 “questa creatura ideale sembrava esser giunta alla

luce e aver proliferato” (Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio editori, p 113).

Punto importante da analizzare è quello che fa riferimento alla cosiddetta Riforma della casa, le

donne fasciste infatti non erano solamente le beneficiarie del servizio di assistenza statale ma

costituivano soprattutto la maggior parte del personale volontario. La riforma della casa

prometteva due cose alle donne borghesi istruite: l’esercizio di una nuova leadership all’interno

del proprio nucleo familiare e la diffusione nazionale delle loro pratiche di gestione razionale. La

donna fascista infatti, non era solamente l’angelo del focolare che il regime dipingeva, era anche e

soprattutto una macchina perfetta capace di far quadrare i conti familiari.

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4. Donne e Lavoro

La discriminazione di genere operata dal regime fascista non si limitava all’ambito politico e

sociale ma andava ad intaccare anche quella che era la sfera lavorativa. Le discriminazioni

iniziavano in età scolastica quando, dopo la riforma Gentile del 1922-24, venne istituito il liceo

femminile. L’idealismo gentiliano, come ci fa notare Victoria de Grazia (Le donne nel regime

fascista, Marsilio Editori, p 210), era dichiaratamente anti-femminile; Gentile vedeva la donna

come un essere di natura infinita, principio primordiale al di fuori della storia e in rapporto di

eterna subalternità nei confronti dello Stato e del Soggetto, la donna doveva accettare i limiti della

sua diversità e mai negarli per essere amata e esaltata. Era, come si evince dalle parole del

Ministro, un’idea marcatamente maschilista e discriminatoria. La chiave di volta per la situazione

lavorativa femminile si ebbe con lo scoppio della Grande Guerra che, come tutti i periodi di

sconvolgimento, servì a portare cambiamenti enormi nei modelli occupazionali femminili. Gli

anni Venti iniziarono con una massiccia riduzione dell’occupazione femminile, lo stesso

Mussolini in “Macchina e donne” asserì che “ bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa

nella donna la perdita degli attributi generativi, porta nell’uomo a una fortissima virilità fisica e

morale”. Ancora una volta la contraddizione e la discriminazione di genere fanno da padrone nei

discorsi del Duce. Il regime promosse l’occupazione maschile a discapito di quella femminile e

l’intero inquadramento dei lavoratori italiani nel sistema corporativo aggravava la condizione di

inferiorità delle donne. (Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori, p 239).

E’ importante notare come, anche quando sembrava si tendesse la mano alle lavoratrici italiane in

realtà si stava solo mettendo a punto uno schema ben preciso nella diffusione e nella propaganda

del fascismo tra quei gruppi che, in fondo, tanto entusiasti del regime non erano. La macchina

fascista operava un controllo serratissimo anche sulle donne attraverso l’istituzione di due

organismi, quello delle massaie rurali che organizzava le donne di campagna e di ogni condizione

sotto la supervisione dei fasci femminili a partire dal 1934 e la SOLD (Sezioni operaie e lavoranti

a domicilio) che aveva come scopo principale quello della promozione della propaganda fascista

ed educativa presso le operaie assecondando il miglioramento delle loro capacità professionali e

domestiche. Attraverso la legge del 22 marzo 1934 venne innescato quel meccanismo che la de

Grazia, citando Robert Moeller, definisce di “protezione discriminatoria” in quanto, attraverso

sussidi e protezioni necessari per tutte le donne in stato interessante o da poco diventate madri,

scoraggiavano tutti gli imprenditori ad assumerle. Questo si sposava perfettamente con la politica

di Mussolini che riteneva giusto per le giovani donne avere un lavoro che doveva però essere

lasciato senza titubanza alcuna nel momento in cui si entrava nell’età “giusta” per metter su

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famiglia. Il fascismo si trovò ad affrontare così una contraddizione nella condizione economica:

voleva manodopera a basso costo ma prediligeva l’impiego dei capofamiglia a discapito

dell’occupazione femminile (sicuramente più economica), voleva le donne fuori dal mercato del

lavoro ma nell’interesse della razza tendeva a tutelare quelle che lavoravano. (Victoria de Grazia,

Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori, p 244-248).

Le donne lavoratrici si dividevano in:

- Contadine;

- Operaie;

- Segretarie;

- Professioniste.

Nonostante ciò Victoria de Grazia ci tiene a farci notare come “la cancellazione dell’identità delle

donne in quanto lavoratrici rese difficile l’organizzazione a difesa dei propri interessi, la

solidarietà tra donne di diversa classe sociale era una questione molto complessa” in poche parole

il conflitto di classe influiva sulla solidarietà di genere in maniera non del tutto positiva. Solo dopo

il decreto legge del 1938 le donne iniziarono a definire i loro interessi collettivi di donne e

lavoratrici indistintamente rispetto alla classe sociale di provenienza.

5. Donne e tempo libero

La questione del tempo libero femminile venne definita un problema. E’ necessario dire che

l’influenza dell’economia del consumo di massa portava con sé tutte quelle innovazioni e

rivoluzioni culturali degli usi e costumi tanto temuti dal tradizionalismo fascista e

contemporaneamente tanto anelati dalle giovani italiane. Va sottolineato come la cultura

commerciale mostrasse, in riferimento alla tematica del corpo della donna, che la maternità era

solo una parte del ciclo vitale di una donna, non l’inizio di un irreversibile declino fisico. La

cultura della bellezza fisica era promossa dalla diffusione dei prodotti per la cura del corpo e dalle

nuove specializzazioni della medicina estetica e sportiva. (Victoria de Grazia, Le donne nel regime

fascista, Marsilio Editori, p 286). Questo culto dell’esteriorità aveva da sempre spaventato i

sostenitori del regime e Mussolini stesso che non mancò di dire, qualche anno prima, come fosse

impossibile pensare ad una donna regolarmente stipendiata senza veder lo stipendio dilapidato in

“dolciumi e cosmetici”, per tale motivo la rivoluzione dei canoni estetici che bussava alle porte

dell’Italia tradizionalista e conservatrice del regime fascista era comprensibilmente un fenomeno

che disturbava. La seconda battaglia “estetica” del fascismo fu quella dello sport, le donne

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secondo l’opinione medica del tempo erano estremamente differenti dai maschi non solo a livello

prettamente fisico ma anche da un punto di vista biologico che era la causa primaria della loro

inferiorità e allo stesso tempo alla base del loro ruolo sociale. Le limitazioni nello sport non si

limitarono all’abbigliamento ma anche alle dinamiche di gruppo e alla possibilità di accedere o

meno a determinati spazi (in cui avrebbero potuto trovarsi individui di sesso maschile) in tenuta

sportiva. Altra preoccupazione che vedeva come cause principali donne e sport era quella

minaccia di lesbismo che lo “spogliatoio” avrebbe potuto alimentare, impossibile non notare la de-

umanizzazione della donna ridotta ad un oggetto sessuale non solo per gli uomini ma anche per il

suo stesso sesso e allo stesso tempo la totale ignoranza rispetto alla tematica omosessuale. Terza e

ultima battaglia fascista sul fronte dell’estetica fu quella della moda, la moda andava

nazionalizzata. Un regime anti-femminile e sessista come quello fascista non poteva certamente

accettare che la donna fosse libera di esprimersi attraverso l’abbigliamento né da un punto di vista

fisico né da un punto di vista intellettuale. La donna doveva coprirsi o sarebbe stata etichettata

come “una di quelle” quando nel contempo le forme prosperose delle “mondine” venivano usate

come modello estetico. La violenza di genere veniva sempre messa in termini di “donna artefice

del proprio destino” in quanto lo stupro o l’abuso non erano mai subiti ma sempre voluti e

provocati da una prosperità alla quale il virile uomo fascista non poteva sottrarsi. Allo stesso

tempo, come veniva analizzato già nei precedenti paragrafi, la donna-autentica dimessa e

sottomessa non doveva lasciar spazio alla rovina della società fascista: la donna-crisi,

indipendente e sicura nel suo corpo.

6. Conclusione

Per concludere mi piacerebbe far luce su quello che è stato il complicato e, ancora una volta,

contraddittorio rapporto tra fascismo e femminismo. Varie sono state le correnti di attivismo

femminile che si sono sviluppate nel corso del ventennio fascista, molte sono state le associazioni

dirette e volute dalle donne che sono nate durante il regime mussoliniano ma è necessario

sottolineare come tutti questi risultati altro non furono che vittorie (o sconfitte) a metà, illusorie,

effimere. Il regime fascista è stato e sempre sarà ricordato come spiccatamente anti-femminile,

custode e creatore di una tradizione sessista e discriminatoria nel genere e nella sessualità.

Victoria de Grazia nel suo saggio “Le donne nel regime fascista” spesso si domanda se le

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femministe italiane diventate poi fasciste “della prima ora” o in corso d’opera si siano mai

realmente avvicinate alle politiche della dittatura, se ne siano mai state realmente sostenitrici o se

la loro affezione al regime fosse in realtà solo “di facciata”. Probabilmente una risposta esaustiva

alla domanda non si avrà mai in quanto poche sono state le testimonianze delle femministe che

hanno vissuto il delirio fascista, è certo che anche il voler far andare di pari passo fascismo e

femminismo (definito latino in quanto puro e nazionale) è assurdo, come spiega la de Grazia (Le

donne nel regime fascista, Marsilio Editori, p 315) “ il rapporto tra femminismo latino e fascismo

fu un equivoco senza fine, giocato anzitutto su una questione fondamentale: quali fossero le

implicazioni della differenza sessuale sulla capacità delle donne di essere cittadine dello Stato

fascista. Il femminismo latino vedeva la differenza come complementarietà e collaborazione tra

uomini e donne, mentre gli uomini del fascismo la intendevano come gerarchia sessuale e

subordinazione femminile”. Si parla dunque di disinganno sull’idea che fascismo e femminismo

potessero dimostrarsi “forze sorelle” e non risulta essere dunque un caso che tra il 1924 e il 1928

si sia registrato il più alto tasso di suicidi femminili dell’Italia contemporanea. ( Brin, Usi e

costumi, p 110). Come ci illustra la de Grazia in “Le donne nel regime fascista” (p 351-356), le

organizzazioni femminili fasciste allo scoppio della seconda guerra mondiale contavano 3.180.000

aderenti ma nonostante ciò fu evidente l’esclusione delle militanti dal potere e dalle prerogative

della burocrazia, “ la sospettosità del fascismo nei confronti dell’attività politica delle donne non

poté che inibire la coesività delle organizzazioni femminili. La cittadinanza politica delle donne

nelle organizzazioni femminili del fascismo restò imbrigliata in un paradosso di fondo che può

essere ricondotto alla definizione contraddittoria di cittadinanza femminile elaborata dal fascismo.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, il femminismo storico era stato cancellato persino

dalla memoria, e la politica delle donne nel fascismo era di estrema subordinazione”.

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Bibliografia

- Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori, 1997

- Giorgia Malara, Credere, obbedire… non combattere. La condizione femminile durante il

fascismo, Tesi di Laurea, relatrice prof. Christine Vodovar, a.a. 2013/2014


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