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Un Sant'Antonio di pietra leccese a estofado de oro. Una conferma per Gabriele Riccardi, in "Kronos"...

Date post: 01-May-2023
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“L’arte di attribuire le opere d’arte comporta sempre una notevole dose di arbitrio” K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, Milano 2007 (Parigi 1997) iulio Cesare Infantino nella Lecce Sacra (Lecce, 1634) descrivendo la cappella dei Condò nella chie- sa conventuale di Santa Maria del Tempio, ammira- to segnalava al devoto lettore la presenza di una statua di Sant’Antonio di Padova, che può senza dubbio stimarsi delle più belle, che siano in questo Regno di Napoli: opera di Beli Licciardo 2 . Nella chiesa di Sant’Antonio di Padova, il parroco di Santa Maria della Luce notava la presenza di un altro simulacro nella cappella del glorioso Sant’Antonio di Padova Titolo [scil.: titolare] di que- sta chiesa nuovamente eretta da diverse limosine, con una bellissima statua di pietra leccese, trasferita ultimamente dalla vecchia, et antica cappella, la quale è stata si bene intesa, e sì vagamente lavorata con co- lonne di pietra leccese, ch’è una delle migliori della Città di Lecce 3 . Trasformata in caserma durante la soppressione degli ordini re- ligiosi, Santa Maria del Tempio subì l’inevitabile dispersione degli arredi liturgici, dei quali solo di alcuni è nota la successiva collo- cazione, ma non quella della scultura così lodata dall’Infantino che tuttavia per devozione è verosimile credere che non dovette anda- re distrutta 4 . Destinata a trasformazioni di minore entità, la chiesa di Sant’Antonio, riconvertita in San Giuseppe della piazza, conserva a mano destra del presbiterio un sontuoso altare di pietra con al centro un simulacro del santo di Padova. Solo nel 1997, in un pregevole intervento sulla devozione a Lecce al tempo del vescovo Luigi Pappacoda (1639-1670), Mario Cazzato pubblicava, recuperandolo da un fondo della Biblioteca nazionale di Madrid, un disegno a penna dell’altare di S. Antonio da Padova nella chiesa conventuale di S. Maria del Tempio, raffi- gurante cioè la cappella dei Condò di cui sopra, proponendolo co- me opera di Giuseppe Zimbalo 5 . Il prezioso foglio (fig. 2) ancor- ché rarissimo per la sua natura documentaria, attesterebbe oltre al- l’architettura dell’altare - timpanato e svettante con l’arme della famiglia 6 , scandito da due coppie di colonne con riquadri agiogra- fici -, le fattezze del simulacro che tanto piacque all’Infantino che lo disse realizzato da Riccardi, anzi per essere fedeli al testo secen- tesco “Licciardo” 7 . Com’è noto, sono poche le opere riconducibili con certezza a Gabriele Riccardi e ancor più scarno è l’elenco di fonti con cui ri- costruirne l’attività di scultore, di architetto, di interprete di una kronoS 15 Pag. 151 Angelo Maria Monaco Saggi Angelo Maria Monaco Un Sant’Antonio di pietra leccese a estofado de oro. Una conferma per Gabriele Riccardi 1 G
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“L’arte di attribuire le opere d’arte comporta sempre una notevole dose di arbitrio”

K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi,Milano 2007 (Parigi 1997)

iulio Cesare Infantino nella Lecce Sacra (Lecce,1634) descrivendo la cappella dei Condò nella chie-sa conventuale di Santa Maria del Tempio, ammira-to segnalava al devoto lettore la presenza di

una statua di Sant’Antonio di Padova, che puòsenza dubbio stimarsi delle più belle, che siano inquesto Regno di Napoli: opera di Beli Licciardo2.

Nella chiesa di Sant’Antonio di Padova, il parroco di Santa Mariadella Luce notava la presenza di un altro simulacro nella cappella

del glorioso Sant’Antonio di Padova Titolo [scil.: titolare] di que-sta chiesa nuovamente eretta da diverse limosine, con una bellissimastatua di pietra leccese, trasferita ultimamente dalla vecchia, et anticacappella, la quale è stata si bene intesa, e sì vagamente lavorata con co-lonne di pietra leccese, ch’è una delle migliori della Città di Lecce3.

Trasformata in caserma durante la soppressione degli ordini re-ligiosi, Santa Maria del Tempio subì l’inevitabile dispersione degliarredi liturgici, dei quali solo di alcuni è nota la successiva collo-cazione, ma non quella della scultura così lodata dall’Infantino chetuttavia per devozione è verosimile credere che non dovette anda-re distrutta4.

Destinata a trasformazioni di minore entità, la chiesa diSant’Antonio, riconvertita in San Giuseppe della piazza, conservaa mano destra del presbiterio un sontuoso altare di pietra con alcentro un simulacro del santo di Padova.

Solo nel 1997, in un pregevole intervento sulla devozione aLecce al tempo del vescovo Luigi Pappacoda (1639-1670), MarioCazzato pubblicava, recuperandolo da un fondo della Bibliotecanazionale di Madrid, un disegno a penna dell’altare di S. Antonioda Padova nella chiesa conventuale di S. Maria del Tempio, raffi-gurante cioè la cappella dei Condò di cui sopra, proponendolo co-me opera di Giuseppe Zimbalo5. Il prezioso foglio (fig. 2) ancor-ché rarissimo per la sua natura documentaria, attesterebbe oltre al-l’architettura dell’altare - timpanato e svettante con l’arme dellafamiglia6, scandito da due coppie di colonne con riquadri agiogra-fici -, le fattezze del simulacro che tanto piacque all’Infantino chelo disse realizzato da Riccardi, anzi per essere fedeli al testo secen-tesco “Licciardo”7.

Com’è noto, sono poche le opere riconducibili con certezza aGabriele Riccardi e ancor più scarno è l’elenco di fonti con cui ri-costruirne l’attività di scultore, di architetto, di interprete di una

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Angelo Maria Monaco

Un

Sant’Antonio

di pietra leccese

a estofado

de oro.

Una conferma

per Gabriele

Riccardi1

G

onde evitare un risibile sfoggio di pedanteria -, nonostante la loroindiscutibile consapevolezza della possibilità di trovarsi, nel solocaso in cui lo scultore abbia lasciato firma, cioè sulle colonne diciborio di Otranto dove s i legge parzialmente “OPUS[MAG]ISTRI [RI]CCARDI LICINI”, di fronte alla declinazionedel suo nome al caso genitivo per concordanza grammaticale colsoggetto della locuzione, cioè “opus”11. Del resto, è cosa nota, ladeclinazione dei nomi del Cinquecento non è incasellabile in unagriglia costante del tipo scolastico “rosa, rosae” per cui sia ungioco da ragazzi stabilirne una forma pura. In sostanza, ad avvisodi chi scrive, senza vestire i panni del filologo che a pochi compe-tono, è verosimile asserire che si sia innescato anche nel caso delnome “Riccardi” il medesimo processo linguistico per cui, addi-rittura nonostante evidenze documentarie cinquecentesche, oggisi è portati a utilizzare formule di compromesso come ad esempionei casi clamorosi di Buonarroti (di cui sono attestate varianti in“o” e pure in “a”, pure con scempiamento di “r”, perciò Buona-rota, Buonaroto) e Federico e Taddeo Zuccari (attestati nelle va-rianti “o” e con scempiamento di “c”, ad esempio Zucaro). E co-sì, via.

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2. Giuseppe Zimbalo, disegno dell’altaredi S. Antonio da Padova nella chiesaconventuale di S. Maria del Tempio, del 21.3.1664, Madrid Bibliotecanazionale.

estetica rinascimentale, che svolse in area salentina grosso modointorno alla metà del XVI secolo senza aver lasciato tracce di na-tura anagrafica certe8. Condividendo un’ipotesi avanzata ancorada Mario Cazzato, lo scultore probabilmente non fu più attivo en-tro i primi anni settanta del XVI secolo, non essendo interpellatotra l’équipe di competenti radunata nel 1571, sollecitata dall’ur-genza di pianificare un intervento di consolidamento del campani-le del duomo che minacciava di crollare9. Pure la questione dellacorretta dizione del nome dello scultore, in verità, è cosa pocochiara. Pertanto, sebbene Hubert Houben abbia urbanamente sug-gerito in un articolato saggio, elaborato sulla scorta della compa-razione delle evidenze documentarie note in cui occorrono riferi-menti onomastici al nostro, che sarebbe corretto chiamare loscultore “Lecciardo”10, come faceva pure l’Infantino, chi scrivepreferisce mantenere la dizione vulgata negli studi già a partire nelsecolo scorso, quindi “Riccardi”, anche in virtù della capziositàdella questione. Sarà significativo infatti notare che la dizione Ric-cardi è costante negli interventi a firma di storici dell’arte di altis-simo profilo - dei quali si perdoni a chi scrive l’omissione della ci-tazione puntuale dei passi in cui ricorrono alla dizione “Riccardi”,

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1. Gabriele Riccardi (?), Sant’Antonio da Padova, 1569, pietra leccesepolicromata e dorata, Lecce, chiesa di San Giuseppe già di Sant’Antonio della piazza.

prezioso David scrivente al Castromediano14, il gruppo del Pre-sepe in Duomo15. A essi mi pare plausibile accostare il San Roc-co nella chiesa di San Giuseppe della Piazza, come proponeva difare l’eminente professore Francesco Negri Arnoldi nel suo stu-dio sulla scultura cinquecentesca in Italia meridionale, sebbenela data riportata in quel saggio, “1556”, per un trascurabile refu-so di trascrizione, vada emendata piuttosto in “1566” come èchiaramente inciso sul basamento16. Un simulacro di solido im-pianto “riccardiano”, quello del santo pellegrino, che ci si augu-ra di vedere quanto prima restaurato e liberato dallo spesso stra-to di calce che attualmente lo ricopre integralmente, non soloper apprezzarne di nuovo la policromia che forse cela al di sot-to, ma anche per confermare o meno l’attribuzione al nostro, inogni caso nei modi e nelle sedi più consoni all’uopo e con il ne-cessario garbo richiesto da una disciplina votata alla Bellezzacome la Storia dell’Arte.

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Ma passando alla sostanza delle cose, poiché in questo caso no-mina [non] sunt consequentia rerum…guardiamo piuttosto al ne-buloso catalogo del nostro.

Personalità interessantissima dalle coordinate culturali etero-genee, Riccardi scolpisce nella friabile pietra leccese una sapien-za iconografica di sorprendente complessità ed erudizione, ade-guandola tanto alle esigenze volumetriche della scultura ‘ingrande’ per cui realizza cicli complessi, quanto ai limiti di quella‘in piccolo’ per le quali si attiene rigorosamente all’iconografiapiù convenzionale. Della prima tipologia di opere citeremo al-meno le figure reggi mensola della facciata di Santa Croce e leelegantissime colonne di ciborio per le reliquie dei martiri (fi-nalmente Santi) di Otranto12. Tra i simulacri devozionali dichiara marca riccardiana, nessuno dei quali è firmato, ma tuttisostenuti dall’attribuzione dell’Infantino, si ricordino almeno ilrutilante San Nicola di Santi Niccolò e Cataldo13, il piccolo e

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3. Gian Domenico Catalano [?], Pala di Sant’Antonio, fine XVI secolo, olio su tela, Copertino, chiesa della Grottella.

sostituire

4. Gabriele Riccardi, San Nicola, sec. XV (terzo quarto), pietra leccesepolicromata e dorata, Lecce, chiesa dei santi Niccolò e Cataldo.

no fiammeggiante la pellicola aurea stesa, doveva risultare partico-larmente suggestivo e tanto straordinario da giustificare l’enfasidelle parole dell’Infantino agli occhi del quale il santo in San Giu-seppe parve “una scultura bellissima” e addirittura una “delle piùbelle, che siano in questo Regno di Napoli” quella in Santa Mariadel Tempio. L’indoratura non risulta estranea alla finitura di operedi Riccardi come dimostrano ancora oggi il San Nicola e le colon-ne di ciborio otrantine. Per quanto realizzata nel maturo Cinque-cento, questo tipo di scultura conserva memoria di un certo gustopartenopeo e spagnolesco per lo sfoggio di oro sui simulacri dipietra o di legno20.

Tra le fonti documentarie reperibili nell’archivio capitolare e arci-vescovile di Lecce solo una visita pastorale relativamente recente si èverificata utile per l’acquisizione di informazioni circa la chiesa di SanGiuseppe (dov’è appunto collocata la statua): si tratta di quella ese-guita da “Sua Eccellenza Reverendissima D. Salvatore Luigi dei Con-ti Zola”, ma solo nel 188021. Del tutto vana invece, è la ricerca di san-te visite relative alla chiesa di Santa Maria del Tempio, in quanto trat-tandosi di insediamento conventuale ne era esente.

Come già riportato, la chiesa di Santa Maria del Tempio che furiconvertita in caserma militare nell’800, si vide spogliata dei suoiarredi liturgici alcuni dei quali, probabilmente grazie al tempesti-vo intervento di anonimi fedeli, furono messi in salvo e traslati al-trove. Di certo si dovette provvedere alla sistemazione dei pezzipiù preziosi e venerati - l’Infantino riporta un interessante elencodi reliquie in dotazione alla chiesa22 - tra i quali non è balordoipotizzare che rientrasse pure la scultura del santo di Padova.

Monsignor Zola prima di passare alla visita vera e propria dellostato di conservazione e allestimento dei maggiori altari della chie-sa di Sant’Antonio (ora di San Giuseppe) fornisce alcune informa-zioni a carattere storico sulla fondazione della chiesa:

[fol. 246] Capo III. Chiesa di S. Antonio di Padova. 26 ottobre1880. Questa chiesa coll’annesso convento de’ Minori Osservanti fufatto edificare da Giovanni Giacomo Barone dell’Acaia; e poiché lacittà di Lecce annoverò tra i suoi patroni meno principali il tauma-turgo da Padova, concorse con proprie oblazioni all’abbellimento edecoro di questa chiesa. I minori Osservanti vi officiarono fino aiprincipi di questo secolo; e dopo la loro soppressione vi fa esercitarei l culto i l pio sodalizio di S. Giuseppe Patriarca quiviistal[fol.247]lato fin da principio23.

Dopo aver osservato l’altare maggiore e le prime cappelle late-rali, Zola passa a descrivere gli altari di San Francesco di Paola equello di Sant’Antonio da Padova

Altare di S. Francesco da Paola. Come i precedenti [scil.: di pie-tra] ed in regola: un simulacro ne rappresenta il titolare. Altare diS. Antonio di Padova. Di pietra leccese bene ornato e dorato: è inregola anche nel suo ciborio. É sormontato da un frontone riccod’ornati e dorature avente in mezzo alle colonne la nicchia col si-mulacro del santo titolare24.

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Proprio in questa chiesa si conserva il simulacro di Sant’ Anto-nio (oppure del santo [minuscolo] Antonio) decorato ad oro, delquale si tenta di chiarire in questa sede la cronologia, l’autografia el’originaria collocazione: in particolare se il simulacro possa esseremesso in relazione con quello descritto dall’Infantino e rifletteresu una sua eventuale discendenza riccardiana17.

Cronologia. Collocata al centro di un sontuoso altare datato 1736, che non

è quindi quello che vide l’Infantino nel 1634, la rutilante statua,che ben si armonizza con l’esuberante ornamentazione che l’acco-glie, svetta a un’altezza tale da rendere poco agevole la lettura deiparticolari, tanto più del basamento dove è inciso un dato rilevan-te, cioè l’anno di esecuzione che fu il 1569.

Risolto in breve il primo dubbio cronologico, con un confron-to stilistico si tenterà di sostenere l’autografia del pezzo.

Frutto di una medesima concezione volumetrica che tiene pre-senti esigenze di correzioni ottiche di cui si dirà, il Sant’Antoniocosì come il San Nicola della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo,anch’esso attribuito condivisibilmente al Riccardi dall’Infantino, ècaratterizzato da una serie di linee guida e diagonali ben definitecon le quali è consentito alle parti anatomiche di emergere da sot-to il panneggio (si confrontino le figg. 1e 4 e pure il disegno delloZimbalo). La postura di entrambi i simulacri è la medesima, cosìcome lo sono le proporzioni degli arti e del busto, dove va colta lamedesima abbreviatura antropometrica al fine di favorire unacomposizione armonica del simulacro che andava osservato dalbasso. Si osservi inoltre la comune triangolazione che viene a for-marsi tra il polpaccio destro e l’estremità della tunica dei santi, perrintracciare un’ulteriore e incontrovertibile analogia stilistica, concui confermare l’autografia comune dei pezzi o perlomeno il me-desimo procedimento tecnico alla base della lavorazione.

Più spinosa è la terza questione: se il simulacro visto dall’In-fantino sia apparentabile a quello di cui resta il disegno realizzatodallo Zimbalo o se sia il medesimo.

Ci si trova in presenza di una figura fedele a una convenzione ico-nografica molto diffusa in area salentina, (che torna ad esempio neisimulacri del santo di Padova nella cappella in Duomo e in SantaCroce a Lecce oppure già in una tela ‘agiografica’ (XVI sec.) a Coper-tino (fig. 3)18, però iperbolicamente impreziosita da un fioritissimoestofado de oro che allo stato attuale di conservazione delle sculturecinquecentesche locali, ammesso che non si tratti di ridipintura tardastesa su precedente indoratura, si pone davvero come rarità. Prezio-sissimo broccato, molto in voga già dalla seconda metà del XV seco-lo, questo sontuoso ‘tessuto’ chiamato con espressione spagnola esto-fado de oro, che tanto piacque al tempo di Ferrante d’Aragona percui ne furono rivestiti il sovrano e i santi, approdò anche in Terrad’Otranto indossato da qualche bella scultura19.

Di certo l’effetto che suscitavano tali simulacri mostrati a fedelipoco avvezzi al luccichio del lusso, alla luce dei ceri che rendeva-

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NOTE

1 Nel tentativo quanto mai complicato di assemblare i pezzie le sparute notizie su Gabriele Riccardi in un disegno comples-sivo, è maturata in chi scrive già in sede di tesi di dottorato laproposta attributiva che qui si pubblica, non avendo riscontratoprecedenti interventi che esulino da una letteratura localisticadedicati all’argomento. È sembrato quanto mai opportuno pre-sentare la proposta in questa sede e come omaggio a chi dell’esi-genza di ‘Riconoscere un patrimonio’ ha fatto una linea di ricer-ca costante e meticolosa. Con tale espressione si ammicca ovvia-mente all’omonimo lavoro curato alcuni anni orsono dalla pro-fessoressa Regina Poso cui si dedica questo breve intervento:POSO, 2007.

2 Cfr. INFANTINO, 1634, cito dall’edizione anastatica a curadi DE LEO, P., 1973, p. 209.

3 Ivi, p. 186.4 Sulla chiesa si veda il volume di CAPRINO, P., GHIO, F.,

SASSO, M.A., 2013, dove Ghio fa pure riferimento all’ipotesi dichi scrive che qui si avanza.

5 Cfr. CAZZATO M., in COSI, SPEDICATO, M. 1995, pp. 151-171; l’illustrazione da cui traggo l’immagine è a p. 156.

6 “Una testa di pavone sostenuta da una fascia e in punta unarosa” è la descrizione che ne dà Luigiantonio Montefusco, s.v.Condò, in Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce: Istituto Araldi-co salentino “Amilcare Foscarini”, 1997.

7 Nel disegno, ai piedi del simulacro compare una data nelcartiglio (1499) che pur essendo prossima alla data di fondazionedel Tempio, per l’Infantino il 1432 (Ibidem, p. 398), non puòconsiderarsi per ragioni evidentemente stilistiche coerente con lascultura.

8 Chi scrive si è occupato del maestro rinascimentale nellatesi di Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte meridionale dalMedioevo all’età moderna nei rapporti col Mediterraneo orienta-le e occidentale del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Sto-ria, Facoltà di Beni Culturali, Università degli Studi del Salento;titolo della tesi La Memoria dell’Antico in Salento nel XVI seco-lo. Gabriele Riccardi scultore e architetto, tutor prof. Massimilia-no Rossi. Questo articolo riprende un paragrafo in essa elabora-to. Scarna e non ancora esaustiva è la bibliografia sul maestro,segnalo di seguito i titoli di maggior interesse riservandomi di

indicare ulteriori contributi in margine a opere specifiche cuifaccio riferimento in corpo di testo: CALVESI, M., MANIERI ELIA,M., 1966; ABBATE, F., 2001; GELAO, C., 2005; MONACO, A.M.,2013, pp. 17-26. In generale su alcuni aspetti della ‘memoria del-l’antico’ nel Rinascimento in Salento si rimanda al saggio di chiscrive in CASSIANO, A., VONA, F., 2013, pp. 17-28.

9 La proposta di collocare la morte di Riccardi tra il 1570-71si evince da CAZZATO, M., 1999, p. 85 e n.56.

10 HOUBEN, H., 2005, pp. 167-178.11 Pare opportuno, per utilità del lettore, ricordare alcuni

nomi di studiosi che ricorrono alla dizione Riccardi: MaurizioCalvesi, Mario Manieri Elia, Marcello Fagiolo, Vincenzo Cazza-to, Mario Cazzato, Francesco Abbate, Clara Gelao, AntonioCassiano, Raffaele Casciaro.

12 Si rimanda agli interventi di chi scrive: MONACO, A.M.,2004; IDEM, «Qui sunt et unde venerunt?» Topoi iconografici peril consenso agiografico nel culto degli ottocento Martiri di Otran-to, in HOUBEN, H., 2008, pp. 157-195.

13 CASSIANO, A., Il rinnovamento olivetano. Sculture e arre-di, in PELLEGRINO, B., VETERE, B., 1996, pp. 111-118; cui vannoaggiunti due contributi di chi scrive, uno di natura stilistica l’al-tro incentrato su una questione iconografica, rispettivamente:MONACO, A.M., 2009, pp. 177-180; IDEM, in LELLI, F., 2013, pp.355-362.

14 Si rimanda alla scheda dell’opera a cura di chi scrive inCASSIANO A., VONA, F., 2013, pp. 306-307.

15 Chi scrive si è occupato del Presepe in Continuità e di-stanza nell’iconografia del Presepe in Terra d’Otranto nel XVIsec. Il corteo dei Magi di Gabriele Riccardi nel Duomo di Lecce,in GAETA, L., 2007, pp. 379-397, dove mi si perdoni l’errorecommesso nello scrivere Giovanni evangelista piuttosto che,com’è del tutto evidente, Giovanni battista.

16 Cfr. NEGRI ARNOLDI, F., 1997, p. 226. Di certo chi scrivenon è immune dal sempre in agguato refuso, fin’anche, a volte,dall’errore. Ho già fatto cenno a quello relativo al san Giovannibattista del Presepe in Duomo, e colgo l’occasione anche di ag-giungere il clamoroso errore comparso solo per mia negligenzanel saggio del catalogo della mostra 2013, (anzi qui applaudireiall’impegno profuso dalla dott.ssa Anna Lucia Tempesta peraver redatto brillantemente quel poderoso volume) dove, in di-dascalia 2 (!) risulta che il Seggio di Città risalga all’XI secolo e

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Dopo aver visitato la suddetta chiesa ed aver “impartito […] lapastorale benedizione” Zola passa direttamente a visitare la cap-pella di sant’Eligio prospiciente la chiesa dove erano confluiti al-cuni arredi di Santa Maria del Tempio:

Questa cappella, sebbene non si conosca la vera data della suacostruzione, pure è molto antica; come anche antica è la confrater-nita quivi istallata sotto l’invocazione del santo titolare. Alla portadella medesima. [...] Altare del Ss.mo Crocefisso. Di pietra ed in re-gola. Il simulacro del Crocefisso che vi si venera stava prima allachiesa del Tempio de’ Minori Riformati, la quale sventuratamentein questa ultima soppressione è stata affatto profanata e ridotta aduso di caserma […] [fol. 251] Si è visitata una reliquia della SS.maCroce col suo ostensorio d’argento che un tempo era de’ MinoriRiformati del Tempio25.

Scampate alla “profanazione” della chiesa, alcune suppellettilifurono messe in salvo nella cappella di sant’Eligio prospiciente al-la chiesa di Sant’Antonio. Qui, dove una scultura del Santo di Pa-dova era stata traslata “da una cappella vecchia” agli inizi del Sei-cento, è custodito almeno dal 1880 un simulacro che bene si con-cilierebbe con quello visto dall’Infantino, opera di “Lecciardo”, inSanta Maria del Tempio. Di cronologia incontrovertibile come ladata sul basamento documenta, esso possiede in comune con i si-mulacri devozionali del maestro le peculiarità stilistiche più di-stintive: volumetria, rapporto di abbreviature antropometriche fi-nalizzate ad una corretta visione dal basso e indoratura di largheparti della superficie. In particolare, inoltre, col simulacro vistodall’Infantino a noi noto per il disegno di Zimbalo, quello in SanGiuseppe condivide un dettaglio iconografico assai significativo: ilmodo specifico di tenere il volume nella mano sinistra. Esso, infat-ti, non è in piano secondo una tipologia più comune che consenteal Bambino di ergersi stante26, bensì è tenuto dalla parte del dorsosecondo un’iconografia del santo che non prevede la presenza delbambin Gesù. Non sarà scorretto ipotizzare allora, che proprio ilsimulacro del bimbo, seduto in equilibrio sul dorso del volume mache già a occhio nudo appare di materiale diverso dalla solida pie-tra leccese, sia forse posticcio e non previsto ab origine.

Pertanto, ammettendo la natura posticcia del bambino, comesolo un restauro potrà dimostrare, non ci si discosta dal vero asse-rendo che, se il simulacro in San Giuseppe della Piazza non sia allafine proprio quello traslato dalla dismessa chiesa di Santa Mariadel Tempio, di certo condivide con esso, di cui rimane il disegnodi Giuseppe Zimbalo, aspetti stilistici e strutturali tali da suggerireuna matrice comune. La quale, in conclusione, stante l’attendibi-lità dell’attribuzione dell’Infantino, deve essere ricondotta alloscultore “Beli Licciardo”, ovvero a quel riformatore delle arti inSalento, in chiave rinascimentale, oramai conosciuto negli studipiù accreditati come Gabriele Riccardi.

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Crediti fotografici

Fig. 1 Angelo Maria Monaco

Fig. 2 CAZZATO, Mario, La nascita di una città devota: Lecce al tempo delvescovo Pappacoda (1639-1670), in Vescovi e città nell’epoca Barocca. Attidel Convegno Internazionale di Studi (Lecce 26-28 settembre 1991) II voll. acura di COSI, L., SPEDICATO, M., Galatina: Congedo edit., 1995, p. 156.

Fig. 3 Angelo Maria Monaco www.patrimoniolatente.eu

Fig. 4 Angelo Maria Monaco

che sia opera di Riccardi (!). Ma per fortuna il lettore serio, an-dando oltre le didascalie, si renderà conto di come stiano effetti-vamente i fatti, pertanto cfr. MONACO, A.M., 2013 (b), pp. 17-26.

17 Mi sia concesso ringraziare in questo punto Raffaele Ca-sciaro, il quale in fase di elaborazione della tesi di dottorato miaiutava a porre la questione nei giusti termini di un doppio in-terrogativo. Ringrazio pure Mario Cazzato per alcune proficuesegnalazioni bibliografiche e di giudizio critico.

18 Per una scheda del dipinto ormai espulso dal catalogo delCatalano si veda GALANTE, L., 2004, p. 145. Oppure la scheda acura di chi scrive in www.patrimoniolatente.eu

19 Sulla tipologia decorativa si rimanda a Estofado de oro, ca-talogo della mostra a cura di SIDDI, L., 2001; interessanti pure leosservazioni di GAETA, 2011, n. 14, pp. 63-96, in partic. p. 80.Ancora Casciaro mi fa proficuamente notare come il motivo de-corativo del tessuto sia più vicino al pattern che caratterizza levesti dei simulacri di primo Seicento. Anche questo nodo potrà

essere sciolto solo dopo il restauro della scultura. 20 È pur vero che è stata prassi comune risolvere gli inter-

venti di restauro delle sculture dipinte in Puglia e in particolarein Salento in veri e propri casi di ridipintura, sebbene sia osticoimmaginarne una in questo caso a estofado. L’ultima parola saràdetta dopo il restauro della scultura. Per il momento si cfr. CA-SCIARO, R., in POSO, R., 2007, pp. 149-164.

21 Archivio Curia Arcivescovile di Lecce (da ora in poiA.C.A.Le.), Ms., Santa visita di Sua Eccellenza ReverendissimaD. Salvatore Luigi dei Conti Zola, inv. n. 275, 1880, foll.18-19.

22 Cfr. INFANTINO, 1988, p. 404.23 A.C.A.Le, Santa visita, cit., foll. 246-247.24 Ibidem, fol. 248.25 Ibidem, foll. 250-251.26 Secondo l’iconografia nel dipinto di Catalano, oppure nel

caso del Santo Antonio nella cappella del Duomo a Lecce, an-ch’esso completamente dorato ma di cronologia più recente, cfr.fig. 1 e fig. 2.

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