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Verso la diserzione della Participatory Culture. Partecipazione, informazione e valore nei processi...

Date post: 24-Nov-2023
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EmergingSeries Journal n3
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EmergingSeries Journal n3

Capitolo 1

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EmergingSeries Journal n. 3Forme partecipative e interattive: orizzonti immersivi a cura di Mirko Lino e Giusy MandalàEmergingSeries è una piattaforma online sul fenomeno delle webserie e dei   webdoc.Il progetto nasce in ambito accademico e riunisce giornalisti, studiosi, operatori nel mondo del cinema e dei media.L’idea è quella di analizzare, studiare e approfondire il variegato e interessante   mondo delle webserie e dei webdoc attraverso post, news, articoli,   approfondimenti, resoconti dai festival, la costruzione di un grande archivio e una rivista scientifica, “EmergingSeries Journal”.  

 EmergingSeries è parte dell’Osservatorio sui Media Digitali.L’Osservatorio indaga lo scenario mediale contemporaneo in relazione al Web e  al Mobile, concentrando l’attenzione soprattutto su Web Cinema, Web TV, Web  Serie, Web Documentari, App e Social Network. Focalizza le proprie analisi  sulle relazioni tra tecnologie (device e software), mercato, modelli di fruizione,   pratiche e forme di narrazione, costruzione dell’informazione, piattaforme,   profilazione utente, forme di condivisione, partecipazione, circolazione e   interattività: Storytelling Crossmediale e Transmediale, Gamification, Convergenza. 

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   direttoreSimone Arcagni caporedattoreMirko Lino caposervizioGiusy Mandalà web engineerFilippo Castrogiovanni comitato di redazioneOrnella CostanzoDomenico MorrealeAntonio Santangelo hanno collaborato a questo numero:Simone ArcagniStefania IngrassiaMirko LinoClaudio MacalusoGiusy MandalàRaffaele Pavoni contatti di [email protected]@[email protected]  

 

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  Comitato Scientifico Marco BertozziUniversità IUAV di Venezia – Culture del Progetto Antonio GentileUniversità degli Studi di Palermo – Dipartimento DICGIM Giulio LughiUniversità degli Studi di Torino - Dipartimento DIST Roy MenariniUniversità di Bologna - Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita Andrea MinuzUniversità degli Studi di Roma "La Sapienza" – Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo Domenico MorrealeUniversità degli Studi Guglielmo Marconi-Dipartimento di Studi Sociologici e Psicopedagogici Roberto PirroneUniversità degli Studi di Palermo – Dipartimento DICGIMAntonio SantangeloUniversità degli Studi ECampus - Dipartimento di PsicologiaChristian UvaUniversità degli Studi Roma Tre - Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo  

 

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    ISSN 2421-4663Edizioni Kaplan Via Saluzzo, 42 bis - 10125 Torino            L'immagne di copertina è di Loredana Di LilloCover di The Bomb di Brandon Box e Paolo Bernardelli

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Introduzione Simone Arcagni e Mirko Lino

 Verso la diserzione della Participatory Culture

  

Partecipazione, informazione e valore nei processi di produzionecapitalistica del web

Luca Cinquemani – Emanuela Zaccone  

Augmented Reality e Virtual Realityesperienze e hardware all'orizzonte del consumo di massa

C laudio Macaluso  

Transmedia StorytellingNarrazioni oltre lo schermo

Stefania Ingrassia  

Clip, demo, gameElementi di continuità e rottura

tra videoclip interattivi e tradizionaliRaffaele Pavoni

  

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Tra brand content e immersivitàintervista a Brandon Box e Paolo Bernardelli

Simone Arcagni  - Mirko Lino  

Appendicelibri, festival, webTv, e altro sul mondo delle webserie

   

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 Introduzione

  Introduzione

Digital Series | Digital StorytellingMercato, modi, forme e trend emergenti

Simone Arcagni e Mirko Lino

 

  

Whether you’re sitting back watching the big screen in your lounge room or peering at the screen on your mobile phone, it’s television.

Whether it’s traditional “linear” programming or a showdelivered “over the top” (that is, via internet),  it’s television. 

A 45 minute episode or a three minute grab, yep - that’s TV too.But it’s no longer a mass medium, even though more people

than ever before are watching it. For producers the rules are changing fundamentally.

We are just beginning to understand how. 

David Court: New rules for a new generation of television producers   

Digital Storytelling Siamo di fronte a serie di cambiamenti repentini nell'ambito delle tecnologie dei mezzi di comunicazione, cambiamenti che coinvolgono ciò che abitualmente chiamiamo televisione, cinema, film, serie etc. e che propongono continuamente forme, modi, modelli, pratiche e tecnologie nuove e ibride, tanto che da più parti arriva la suggestione di parlare di digital storytelling. Fa così, per esempio, Frank Rose e il suo gruppo di ricerca alla Columbia University. Storie digitali, connesse, softwarizzate, i cui confini si ibridano e anche le tecnologie, e così tra smart TV, servizi di cinema e TV on line, si segnalano alcuni interessanti trend e alcuni emblematici movimenti di mercato.

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  Guerra! Tra YouTube e Facebook sembra essersi scatenata la guerra. YouTube accusa Facebook di conteggiare come view anche semplici scorrimenti di video sulla bacheca e di essersi così aggiudicato il titolo di piattaforma con più visite per i video. Inoltre YouTube accusa Facebook di freebooting: in pratica su FB compaiono molti video di YouTube senza l'indicazione di provenienza e senza che FB faccia qualcosa in proposito. Per YouTube si tratta di una pratica illecita e inoltre “droga” le rilevazioni sulle visite perché porta su FB visite che dovrebbero essere della piattaforma iniziale, cioè YouTube. La guerra è appena iniziata: si tratta di diventare la piattaforma principale per video e scambi video e quindi – soprattutto – la piattaforma in grado di attirare la maggior parte degli investimenti pubblicitari per il video (che, ricordiamo, è la forma testuale più usata della Rete).  Instagram e gli altri social E anche il resto del mercato si muove intanto, a cominciare dalle altre piattaforme social. La piattaforma di proprietà di Facebook e specializzata in foto e immagini ha appena lanciato un servizio di video. Contrapponendosi così con Moments di Twitter e Live Stories di Snapchat. Il mondo dei social è particolarmente interessato ai video: da una parte perché questo significa aggiudicarsi un gran numero di utenti e quindi, di conseguenza, riuscire a intercettare traffico e pubblicità. Pagine di Instagram come Meme's già offrono video brevi e virali e a volte anche seriali. Si scommette a breve dell'arrivo di pillole di fiction seriali.Intanto Facebook accelera la competizione con YouTube. Il social network ha annunciato che è in fase di test una nuova sezione della piattaforma dedicata ai video, dove confluiranno i filmati salvati dall’utente insieme a quelli di amici, celebrità seguite e alle clip consigliate dalla stessa Facebook.Su Vimeo chiunque può partecipare al grande palcoscenico del servizio On Demand, lanciato un paio d’anni fa, pagando una quota associativa annuale e mettendo in vendita i singoli episodi o puntate della propria serie o del proprio show. Gli utenti, dal canto loro, possono decidere di comprare o noleggiare il singolo contenuto o abbonarsi ai lavori di un singolo autore. Agli autori rimane il 90% degli introiti, il restante 10% va alla piattaforma.Yahoo Italia a due anni da Gli abiti del male rilancia la propria piattaforma video, questa volta con una webserie reality dal titolo Eat Alì e Vice Media, al contrario, vuole sbarcare in televisione. Il fondatore e AD - Shane Smith - annuncia il lancio di un network in Usa ed Europa: «Possiamo fare cose incredibili».  

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  Web TV e VOD Netflix per adesso in Italia non ha (ancora?) una posizione dominante: innanzitutto perché è appena arrivato, inoltre c'è ancora un gap tecnologico e quindi un digital divide che porta ancora verso la TV classicamente intesa e inoltre c'è un evidente gap con la lingua inglese che fa sì che non è molto attrattiva la piattaforma internazionale (la vera forza di Netflix). Se non ci fossero questi 3 handicap italiani staremmo parlando di tutt'altra storia.Al momento quindi in Italia le strategie sono diverse e anche i numeri: 260 mila sono gli abbonati a Tim Vision, mentre 3 milioni in Europa quelli di Wuaki TV, spagnola ma rilevata nel 2012 dalla compagnia giapponese Rakuten Snapshot e che nel 2016 sarà presente in ben 10 paesi. Mentre MYmovies (Gruppo "L'Espresso") ha ancora altri numeri: 400 mila utenti unici al giorno, per la maggior parte però portati dal numero di visualizzazioni di utenti che usano MYmovies per scegliere il film da vedere. MYmovies non è di fatto una web TV o lo è solo in parte e infatti ha deciso di chiudere una partnership con Netflix.  E i Broadcaster?  HBO... per esempio Perché un broadcaster come HBO che ha raggiunto i vertici della produzione di “quality tv serial” grazie ai grandi successi di Games of Throne, True Detective, The Leftovers, e tante altre, dovrebbe cominciare a investire sulle webserie? E quindi, come spiegare la strategia adottata da HBO di accordarsi con Facebook per la diffusione online degli episodi delle serie The Brinks e Ballers?A ben guardare, stiamo assistendo a una seconda fase della produzione di webserie. Se la prima fase coincideva con l'esplosione del fenomeno in chiave principalmente amatoriale, ora stiamo assistendo piuttosto alla fase in cui i broadcaster si sono accorti che le webserie possono essere un valido strumento promozionale su cui investire; che le loro caratteristiche comunicative, come la

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maggiore libertà creativa ed espressiva in termini di contenuto e modalità narrative, l’interattività tra utente e medium, e l’interazione tra utenti, sono una risorsa per impostare strategie utili per essere presenti nel mercato dell’audiovisivo online.The Brinks e Ballers possono essere prese come casi paradigmatici, sintomo dell’adeguamento della filiera distributiva dei broadcaster alle logiche di distribuzione emozionali e partecipative della Rete, al fine di fidelizzare l’utente del web e fare così leva sulla sua capacità di creare altra viralità. HBO infatti ha scelto di utilizzare il social network più utilizzato al mondo non per “abbandonare” la televisione, ma per fare accumulare visibilità a un prodotto che sarebbe andato poi su diverse piattaforme e medium per la fruizione, tra cui, appunto, la televisione. La scelta di distribuire gli episodi su Facebook ha permesso di aumentare la visibilità non solo della serie ma anche di tutto quel “system” che sta dietro la serie stessa, ad esempio, andando a coinvolgere i “follower” di “The Rock” Dwayne Johnson, protagonista di Ballers, in modo da avere una base di probabili fan che guarderanno la nuova serie con il personaggio interpretato da uno dei loro attori preferiti.Per un broadcaster dunque investire sulla webserialità è un'attività molto simile a quella messa in atto da un brand che utilizza la webserie per promuovere un nuovo prodotto o semplicemente per svecchiare la propria identità e adeguarla a una nuova costellazione di pubblico di nicchia. Non a caso HBO ha programmato le uscite degli episodi della serie su Facebook. Ed è importante segnalare la scelta compiuta da HBO di preferire Facebook a YouTube per la distribuzione delle due serie; una scelta che è in linea con le metamorfosi che stanno avendo i due social: il social di Zuckenberg ha strappato a YouTube l’esclusività della fruizione dei video online, mentre YouTube si sta trasformando in una webtv specializzandosi con le nuove frontiere interattive dell’audiovisivo, ad esempio creando la piattaforma per i video a 360°.Sempre HBO recentemente sta co-producendo High Maintenance, la serie indipendente online su Vimeo di grande successo per i suoi contenuti politicamente scorretti. Ora, infatti, High Maintenace è visibile sia online su un canale a pagamento di Vimeo sia sui canali di HBO. Un’operazione questa che dimostra come i broadcaster non vogliono abbandonare i loro canali consolidati e “tradizionali” ma hanno compreso che è fondamentale essere presenti in una galassia, come quella del video online, andando a reclutare quelle creatività indipendenti che popolano la Rete e creando co-produzioni tra TV e web.  RSI: Espedienti partecipativi e interattivi, Arthur Partiamo da un presupposto: la fruizione di una webserie non termina con la fine del video di un episodio o di un'intera stagione. La fruizione di una webserie esce fuori dalla piattaforma dove è il video è stato visto per circolare sotto altre forme, come concorsi, premi, quiz; veri e propri espedienti paratestuali partecipativi volti alla fidelizzazione dell’utente all’universo narrativo della serie. Partecipazione e interattività sono i due elementi a cui fa maggior riferimento la

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creatività dei digital storyteller, sempre più attenti a sviluppare progetti che coinvolgono l'utente nella produzione dei contenuti per la webserie. Ci sono diversi casi di progetti di storytelling partecipati (crowdstorytelling). In ambito indipendente è da segnalare Futour 2045 di Riccardo Milanesi e Domenico Morreale, mentre per quanto concerne la produzione da parte di broadcaster, in Italia la Rai ha lanciato il progetto Io credo che lassù per promuovere la piattaforma Ray.it. Un caso che coinvolge un broadcaster, questa volta straniero, è quello della webserie Arthur prodotta da RSI (Radiotelevisione Svizzera Italiana). La serie punta dritto alla gratificazione dell'utente interattivo: infatti, oltre ad avere come protagonista un ironico serial killer compulsivo, alla serie è legata a un concorso che ha fatto vincere 8.000 marchi. In questo caso, il sito web della RSI svolge la duplice funzione di archivio per gli episodi e di piattaforma interattiva per giocare e provare a vincere il concorso. In ogni video sono disseminati degli indizi che portano una parola; trovate tutte le parole, si può provare a indovinare l’ultima, quella che garantisce la risoluzione dell’enigma che si cela dietro la serie. Sono questi strumenti extravideo e interattivi, legati a un contenuto ben costruito e una buona dose di stravaganza e politically uncorrect, atti a corteggiare l'utente, a definire un valore aggiunto delle produzioni webseriali rispetto a quelle televisive.  BBC: Tecnologie, transmedialità e formati ibridi, Click Click è una storica trasmissione della BBC che da anni si dedica alle innovazioni tecnologiche, offrendo interessanti sguardi sulle forme archeologiche della tecnologia che oggi. Ma la caratteristica di Click è quella dell’ibridazione: la trasmissione, infatti, nel corso degli anni ha moltiplicato i suoi formati, attraversando diverse possibilità mediali, dalla tv alla radio e il web sino alle piattaforme come iPlayer. RTFB: Lo storytelling webseriale per smartphone, Burkland Accanto alle webserie specifiche per determinati social (L’altra per Facebook, White Ninja per Vine, Uno di troppo per Instagram) alcune webserie sfruttano invece la possibilità di fruire gli episodi su mobile device come smartphone e tablet, costruendo storie che giustifichino tale scelta. Il device diventa dunque uno strumento di registrazione e produzione al centro del processo creativo dello strorytelling. È proprio questa l’idea che ritroviamo in Burkland, webserie che ha vinto il contest della RTFB Interactive (la sezione che sviluppa contenuti interattivi per l'emittente belga) e che ora può usufruire di un budget di 100.000 euro per sviluppare in 10 episodi l’idea presentata nel pilota. Giunto prima tra 5 finaliste, tra l'altro tutte di genere comedy, Burkland ha fatto dell'espediente del video ritrovato (found footage) tipico del cinema horror da The Blair Witch Project in poi, una delle chiavi del proprio successo. Infatti la serie, girata con un iPhone 6, verte su dei video girati da una coppia, scomparsa durante la luna di miele con uno smartphone, che presagiscono l'arrivo imminente di una

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catastrofe. Lo storytelling è costruito attraverso i diversi frammenti video, come se si stessero guardando le immagini direttamente dallo smartphone della coppia scomparsa. Burkland dunque è una serie da guardare con lo smartphone in modo da avere un maggior coinvolgimento emotivo e sentirsi immersi nella storia.  Questione di contenuti... Secondo tutti gli osservatori sono i contenuti il vero “bene” di ogni piattaforma o web TV.Netflix ha annunciato 6 miliardi di investimento concentrati soprattutto su contenuti originali per il 2016, anno tra l'altro identificato come quello dell'attivo di bilancio. Con 63 milioni di utenti (in crescita) Netflix potrebbe diventare davvero il media player n. 1 nel mondo. Intanto Amazon inaugura la produzione di film che avranno un mercato che coprirà contemporaneamente tv via cavo, online e sala cinematografica scavalcando così ogni forma di gerarchia e annullando di fatto la differenza tra web film, film e film per la TV. Anche Netflix annuncia la produzione di film accanto alle più classiche produzioni di serie, tra cui la nuova stagione della serie culto inglese Black Mirror per il 2016. Mentre YouTube lancia Red. Dopo tante indiscrezioni la conferma: sulla piattaforma video si potranno vedere filmati, show tv, film e musica in streaming senza annunci pubblicitari al costo di circa 10 dollari al mese. Sarà attivo dal 28 ottobre per il momento solo negli Usa. Ma gli intrecci di mercato sono destinati a intensificarsi. Basti pensare che nel 2015 il re della telefonia cellulare americana ha conquistato l’ex sovrano della rete Internet. Verizon Communications ha infatti acquisito Aol nell’ambito di un’operazione del valore di 4,4 miliardi di dollari che saranno versati interamente in denaro. Una manovra funzionale agli obiettivi strategici del gestore di telefonia mobile, il primo degli Stati Uniti, che ha al suo attivo una rete Internet veloce in continuo ampliamento e orientata soprattutto alle attività commerciali.  Trend Tra le tendenze emergenti più interessanti si segnalano soprattutto lo streaming, la realtà virtuale e il sistema app per le smart TV  Streaming che passione! Iniziamo con il segnalare il sempre più vasto successo dello streaming on line. Dopo le app Meerkat e Periscope e uguali servizi realizzati per Facebook e YouTube, ultimo arrivato è Spotify con un suo servizio di streaming video che dovrebbe essere attivo a breve.Lo streaming segnala un differente modo di pensare il video on line e potrebbe anche trasformarsi in un mezzo per costruire narrazioni o per rendere

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transmediali le narrazioni digitali. Intanto è evidente come sui social i video in streaming stanno spopolando e stanno creando un vero e proprio immaginario della diretta.  VR e 360° Su YouTube iniziano a spopolare: si tratta dei video 360°, video cioè in cui con l'ausilio del mouse o del touch (nel caso di dispostivi mobile) si può visualizzare l'intero ambiente dove si svolge l'azione. Il luogo della sparatoria in un poliziesco – per esempio - diviene così navigabile a 360° gradi dall'utente. Si tratta di un nuovo modo di proporre narrazione: da una parte interattivo (è l'utente che sceglie i punti di vista e cosa guardare), dall'altro spettacolare: se ben “giocato” dal produttore, il video può essere un vero e proprio incrocio di sguardi e di narrazioni contrapposte e giustapposte. Il clamore suscitato da questi video ha attratto ovviamente l'attenzione di chi sta pensando a contenuti sempre più immersivi e interattivi (il next future dello storytelling on line per la maggior parte degli osservatori): e quindi YouTube per Android sta predisponendo la leggibilità dei video 360° per i device di Realtà Virtuale Google Cardboard. I device per la Realtà Virtuale e le loro piattaforme si stanno sempre di più predisponendo a non essere solo un nuovo gadget per game player ma un vero e proprio sistema di visione alternativo. Anche Discovery Channel ha da poco annunciato la sua piattaforma streaming e inoltre un canale dedicato ai video 360° e alla realtà virtuale. Le strategie di molte pay TV fino ad ora orientate al satellite sembra quello di sbarcare definitivamente anche sul web e orientarsi in particolare ai servizi per mobile.E si possono anche pensare serie digitali in VR: Brandon Box, lo studio milanese famoso anche a livello internazionale per le sue webserie, le campagne di advertisement e i suoi virali, per esempio, sta testando le possibilità espressive della VR. Sta per esempio producendo The Bomb, webserie interamente girata in 3D-360 FPV e che lanciano, non senza un certo orgoglio, come la prima serie al mondo stereoscopica in prima persona per la realtà virtuale.  Smart TV Tra le conseguenze dell'arrivo di Netflix anche in Italia e della sua espansione si possono anche annoverare, da una parte l'emergere del VOD come sistema principale di fruizione di audiovisivi e il boom che si registra nelle vendite di Smart TV. La Tv di domani sembra essere quella convergente a cui, tramite connessione, vi si può acceder tramite ogni device. Una "TV" sempre più tecnologica, in altissima definizione e avanzata che permette al fruitore una visione davvero totalizzante, tra contenuti satellitari, digitali, a pagamento, a in abbonamento. Uno spettatore che da casa a fuori costruisce archivi e/o palinsesti per grande schermo casalingo e piccoli schermi portatili, abbonandosi o pagando singoli contenuti su diverse piattaforme

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Si tratta di un mercato enorme e nuovo che guarda con sempre maggiore interesse il mobile e quindi i servizi per app. Servizi che però non solo per smartphone e tablet ma investono anche la televisione di casa, in particolare, appunto, la Smart TV. Gli ultimi dati danno in Italia 4 milioni di smart TV di cui 2 milioni connesse. Mentre per il 2018 sono previste 16 milioni di smart TV connesse. E ora è arrivata in Italia anche la quarta versione di Apple TV. Una TV (179 euro per 32Gb) di app (secondo Tim Cook di Apple il futuro della TV) che si possono scegliere dal sistema operativo tvOs strettamente imparentato con iOs per smartphone e tablet. La Apple costruisce così il suo sistema di comunicazione integrato e convergente con le app del mondo mobile al centro e attorno a cui costruire i propri modelli di fruizione. Una rivoluzione importante che potrebbe cambiare anche l'assetto produttivo, orientando molti produttori direttamente al mondo app piuttosto che passare per il web.

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  Verso la diserzione della Parti-cipatory Culture

    Verso la diserzione della Participatory CulturePartecipazione, informazione e valore nei processi di produzione

capitalistica del web 

Luca Cinquemani – Emanuela Zaccone  

 Il s’agit de restaurer la cohésion sociale pulvérisée par la dynamique du

capitalisme cybernétique et de garantir en dernière instance la participation de tous à cette dernière.

"Tiqqun", L’hypothèse cybernétique 

Le système se présente comme la machine avant-gardiste qui tire l’humanité après elle, en la déshumanisant pour la réhumaniser à un autre niveau de capacité

normativeJean-François Lyotard, La condition postmoderne

 AbstractIl presente contributo, a partire da una breve panoramica sulle principali direzioni che orientano i cambiamenti dei grandi player del Web, focalizzerà l’attenzione sul ruolo che assume l’utente partecipativo nei processi di produzione capitalistica delle piattaforme online mettendo in evidenza alcuni aspetti critici delle definizioni di consumo partecipativo così come elaborate nell’ambito della partecipatory culture. Il quadro teorico di riferimento include la teoria di Marx, gli studi sull’informatica e la dimensione postmediatica di Félix Guattari, l’analisi marxista della cibernetica elaborata negli anni sessanta da Romano Alquati, l’ontologia macchina di Deleuze e Guattari e le riflessioni sull’ipotesi cibernetica condotte dagli autori della rivista "Tiqqun". Sulla scorta di questi riferimenti si proporranno alcune suggestioni di analisi sulla relazione tra partecipazione e sussunzione del general intellect nel capitalismo contemporaneo tentando di mostrare in che modo il rapporto tra informazione e

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partecipazione rappresenti un nesso di cruciale importanza nella produzione di plusvalore per le piattaforme che dominano il Web e nella definizione dell’utente riproduttivo. Prendendo in considerazione le recenti ricerche di Tiziana Terranova sul rapporto tra capitalismo e codici algoritmici e il modello antropogenetico del lavoro di Christian Marazzi, si mostrerà inoltre il ruolo degli algoritmi nei processi di automazione elettro-computazionale che coinvolgono l’utente partecipativo. Nella parte conclusiva, riprendendo il concetto di surplus cognitivo proposto da Clay Shirky si introdurranno, in una prospettiva che si radica nel pensiero foucaultiano e in quello di Jean-François Lyotard e di "Tiqqun", alcune riflessioni sulla funzione sociale della partecipazione e sul suo rapporto con il corpo e il tempo libero e la diserzione nelle società capitalistiche contemporanee. In quest’ottica si metterà in evidenza l’efficacia della partecipazione in quanto dispositivo di integrazione e normalizzazione delle forme di vita entro un quadro sociale compatibile con il capitalismo digitale - scenario repressivo non estraneo ad un futuro che vedrebbe realizzate le istanze critiche del marxismo - e si tenterà di delineare una prospettiva destituente entro la quale analizzare le possibilità di diserzione della partecipazione in un quadro sociale che verrà descritto come posthumous society..Parole chiavePlayer e mercato; Participatory Culture; Informazione; Diserzione; Posthumous Society   Participatory culture: l’ambiguo potere dell’utente produttivo All’inizio del 2015 Facebook ha aggiornato i dati sulla sua community attestando la cifra relativa al consumo di video online ad oltre 3 miliardi di visualizzazioni al giorno. L’imponenza del dato, sebbene non sia da trascurare l’incidenza dell’autoplay, suggerisce con efficacia la portata sociale ed economica assunta dal consumo di video online all’interno di un’infosfera che pervade in modo sempre più capillare le nostre società. Se fino a qualche tempo fa YouTube era sinonimo di video online, negli ultimi anni gli utenti hanno iniziato a caricare i propri video su Facebook, successivamente su Instagram e in molti casi su Vine. Questa tendenza ha determinato una crescente centralità dei video nativi. Non a caso alcuni mesi fa Twitter ha annunciato la sua nuova funzione di caricamento video attraverso la quale gli utenti sono ora in grado di registrare e caricare video fino a 30 minuti. Accanto a questa prima tendenza è impossibile non notare come il second screen stia diventando firstscreen. Se si osservano i dati diffusi nel report “Digital, Social & Mobile in 2015” recentemente pubblicato da We are Social ci si renderà conto della portata di questa tendenza oltre che della percentuale di penetrazione dei social media e del loro uso su mobile.  

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  Un ulteriore trend che va preso in considerazione è senz’altro l’ascesa delle app di instant messaging: Facebook Messenger ha oltre 600 milioni di utenti, Snapchat 100 milioni di utenti attivi al mese, mentre WhatsApp ne conta 800 milioni. In questo scenario Twitter ha inoltre rilasciato i messaggi privati di gruppo, per permettere agli utenti di conversare in privato dei Tweet precedentemente letti o guardati. Un aspetto che dinamizza in maniera trasversale questi tre tendenze è senz’altro la convergenza: piattaforme come Facebook, Twitter, Tumblr, etc., tendono ad attrezzarsi per permettere all’utente mobile di fruire un contenuto senza essere costretto a saltare da un'applicazione all'altra. L’uso di YouTube, sotto la spinta di questa tendenza, potrebbe decrescere, pur confermandosi tuttora la piattaforma dominante. Tuttavia, ci si potrebbe domandare se i brand continueranno a realizzare contenuti per questo canale qualora gli utenti preferissero fruire i video nativi su Facebook e Twitter.Preferenze dell’utente come quelle appena citate, capaci di orientare le scelte produttive dei player, lungi dal potersi ridurre a meri dati sull’andamento e le tendenze di consumo, sembrano rappresentare il primo tratto di un utente partecipativo il cui ruolo, all’interno dei processi produttivi è più complesso di quanto non possa apparire a prima vista. Prendendo in considerazione i trend indicati sopra è possibile osservare, ad esempio, come l’incremento di importanza del second screen ne suggerisca un ulteriore caratteristica individuabile nello “stato di enunciazione semi-permanente” che vede un utente sempre più costantemente connesso al flusso informazionale che egli stesso contribuisce attivamente ad alimentare. L’importanza assunta dalla dimensione

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social delle piattaforme online e la crescita di importanza delle app di insant messaging, d’altro canto, ci mostra il possente investimento relazionale collettivo che gli utenti partecipativi realizzano all’interno delle piattaforme. Ancora, la crescita di importanza dei video nativi, mostra in modo evidente il peso che assume l’utente partecipativo nella produzione di contenuti.Se nel modello della televisione tradizionale contenuti in qualche modo preformati e conclusi venivano prodotti per essere consumati da un’audience tutto sommato passiva, l’esperienza offerta da Facebook, Twitter, ma anche da piattaforme come Vimeo, Youtube, Machinima, consente, anzi prevede, un utente integrato attivamente nella produzione di contenuti e quindi di informazione che, unitamente a quella prodotta durante ciascuna delle sue attività online, alimenterà un costante flusso di informazione. Se, come verrà mostrato più avanti, questo flusso informazionale assume un ruolo cruciale nella produzione di valore entro i processi di produzione capitalistica delle piattaforme del web, è opportuno definire meglio il profilo dell’utente partecipativo a partire dal rapporto tra produzione e partecipazione.Il concetto di participatory culture, sviluppato da Henry Jenkins (Jenkins 2006) si può far risalire agli studi sulla popular culture sviluppati nell’ambito dei cultural studies. Tradizionalmente associato al dibattito sul futuro dei media nelle nostre società, la participatory culture è stata non di rado proposta in una prospettiva critica e antitetica rispetto alla consumer culture in quanto nuova modalità di consumo capace di dissolvere la passività del consumatore all’interno del sistema capitalistico e di dotarlo di un ruolo attivo nella produzione, diffusione e interpretazione dei prodotti culturali. Nel proporre il concetto di produzione sociale, Yochai Benkler (Benkler 2007) sostiene che l’effetto principale dell’estensione della partecipazione nel panorama mediale è rappresentato dalla nascita di un’audience più auto-riflessiva e critica, dotata di una nuova e più profonda capacità di comprensione e rimodellamento dei sistemi culturali. Per Jenkins e Green, la participatory culture ha trasformato i rapporti economici e culturali tradizionali, modificando le prospettive sociali, emotive e morali della società contemporanea (J. Green, H. Jenkins 2009). Sia Jenkins che Benkler ravvisano nell’ascesa dell’audience partecipativa un grande potenziale sociale in grado di condurre non solo ad un crescente civic engagement, ma ad una concreta possibilità di redistribuzione, più democratica, dei meccanismi di controllo all’interno del sistema di produzione capitalistico dei media. In questo senso la participatory culture si inscrive nel filone egemone della riflessione teorica sulle nuove tecnologie digitali — prospettiva di studi invero assai diffusa nell’ambito dei media studies — che concede un grande peso al focus semantico distribuito attorno ai concetti di creatività, condivisione, orizzontalità e democrazia. Ulteriori recenti esempi di tale prospettiva sono sia il concetto di surplus cognitivo di Clay Shirky (Shirky 2010) sia, pur in maniera differente, l’idea di inevitabilità difesa da Kevin Kelly (Kelly 2011). Nella definizione dell’audience partecipativa, inoltre, due concetti che ricorrono spesso sono quelli di co-creazione e produsage. Il primo descrive il processo attraverso il quale i consumatori utilizzano gli strumenti offerti dall’ambiente delle piattaforme digitali assumendo un ruolo attivo nella produzione e nella distribuzione dei

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prodotti culturali (Deuze, Banks 2009). I contenuti prodotti dall’utente sarebbero esempi del valore co-creato attraverso le interazioni consumatore-produttore (Banks et al. 2008). Axel Bruns utilizza il termine produsage per definire «the collaborative and continuous building and extending of existing content in pursuit of further improvement» (Bruns 2006: 275-284). A suo parere i termini “pubblico”, “audience” e “produttore” non sarebbero più portatori di significati nettamente distinguibili e ciò mostrerebbe un allontanamento dai modelli economici tradizionali e una rinascita delle istanze cooperative e delle produzioni commons based care a Benkler. In questa prospettiva, Jay Rosen ha addirittura lanciato un appello per politicizzare la participatory culture rivendicandone l’indipendenza dai tradizionali sistemi di produzione e consumo (Rosen 2006). George Ritzer e Nathan Jurgenson sostengono, dal canto loro, che la prosumption è stata una caratteristica del capitalismo dacché produzione e consumo coesistono e che oggi essa stia diventando il modello dominante sia nell’economia digitale che della vita quotidiana (Ritzer, Jurgenson 2010).Produsage e prosumption definiscono quindi possibili forme di produzione di valore sociale, culturale ed economico che scaturiscono nella relazione fra utente partecipativo e processi di produzione. Una lunga lista di termini, inoltre, è stata proposta per descrivere la varietà di strutture organizzative e modelli di produzione inclusi nella participatory culture. Alvin Toffler, con il concetto di prosumer, fu il primo ad identificare l’emergere del consumatore attivo (Toffler 1980). Il concetto di media-actives, proposto da Betsy Frank, presuppone che il nuovo rapporto con i contenuti dei media e le aspettative verso la partecipazione indichino un allontanamento generazionale dalle pratiche di consumo sinora conosciute (Frank 2004). Ancora, Kevin Roberts propone per il consumatore attivo una varietà di ruoli: inspirational consumers, connectors e influencers che si comportano in modo differente in base alle loro capacità e motivazioni e che possono coordinarsi nella promozione di interessi comuni (Roberts 2005).I modelli e i concetti sin qui sinteticamente menzionati, benché rappresentino punti di partenza irrinunciabili per uno studio dell’audience partecipativa, sembrano presentare, tuttavia, alcuni aspetti problematici. La participatory culture non sembra infatti collocare in modo accurato il consumo partecipativo e concetti come produsage e prosumption entro il contesto delle profonde trasformazioni che caratterizzano il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo contemporaneo. Sebbene tali trasformazioni, infatti, vengano sovente menzionate per descriverne in termini positivi l’accelerazione loro impressa dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali e del consumo partecipativo, manca un’analisi che evidenzi le mutazioni della composizione organica del capitale e quindi degli attuali rapporti di produzione entro i quali va letta la produttività dell’utente partecipativo e la produzione di valore derivante dalla sua partecipazione.In altre parole, prosumer, co-creative consumer, connector, ecc., vengono presentati come nuove forme di utente produttivo che marcherebbero un allontanamento dai modelli economici tradizionali, salvo però, evitare un’analisi rigorosa di tali forme all’interno dei nuovi rapporti di produzione che avrebbero superato quelli tradizionali.

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In primo luogo, è opportuno osservare che un maggiore coinvolgimento nei processi di produzione capitalistica del web, e quindi una possibile erosione della distinzione tra chi produce e chi consuma, non significa necessariamente un indebolimento dei sistemi di produzione capitalistica, e tantomeno, una loro trasformazione a favore dell’utente. In secondo luogo, nulla ci impedisce di pensare che un maggiore coinvolgimento in tali processi — che venga descritto nei termini entusiastici di incremento delle istanze creative e cooperative, della moltiplicazione delle possibilità di enunciazione o, ancora, dell’orizzontalità e della democrazia, — possa essere interpretato come un enorme potenziale sociale di lavoro e di valore che viene catturato e inquadrato nel potenziamento della produzione capitalistica. Né vi sono evidenze che possano farci credere più desiderabili o migliori le forme di organizzazione del lavoro e i processi di creazione di plusvalore del capitalismo contemporaneo rispetto a quelli della fase industriale. In questo senso, la participatory culture rimane una teoria molto utile per osservare le mutazioni superficiali del consumo e della produzione e per individuare in esse tratti rivoluzionari e potenziali minacce alle forme di produzione capitalistica tradizionale, rinunciando però, in tal modo, a vagliare l’ipotesi (o ad ammettere) che tali minacce non mirano ad un rovesciamento del capitalismo ma aprono di sovente la strada ad un suo mutamento/adattamento continui, importante garanzia per la sua riproduzione e il suo sviluppo.Tralasciando temporaneamente gli studi afferenti al filone della participatiry culture, è forse più proficuo, allo scopo di introdurre alcune suggestioni teoriche per tentare una differente prospettiva di analisi, ritornare su un precoce tentativo di prefigurazione di quella che oggi viene frequentemente indicata con il nome di rivoluzione digitale. Già all’inizio degli anni Novanta, Félix Guattari nel suo ultimo scritto dal titolo Caosmosi aveva iniziato a parlare di una prospettiva postmediatica, di un momento di esplosione del dominio mediatico segnato da una proliferazione di agenti collettivi di enunciazione e da una riappropriazione dell’uso dei media (Guattari 1992). Nel prefigurare lo sbriciolamento del sistema mediatico e il suo rovesciamento “caosmico” in questa moltiplicazione enunciativa liberatoria, Guattari ci avvertiva però della necessità di non trascurare l’incidenza dello sviluppo capitalistico nel sistema mediale che andava formandosi a ridosso dell’imminente rivoluzione informatica. Una rivoluzione che, avvertiva il filosofo, sembrava chiamata a ricoprire, con la sua grigia coltre, ogni minimo gesto e gli ultimi anfratti di imprevisto e di mistero del pianeta. Lontano da ogni malcelato ottimismo tecnologico o da qualsivoglia tentazione apocalittica, l’analisi di Guattari ci conduce al delicato punto di contatto tra l’infinita apertura di possibilità mentali, psichiche, estetiche e sociali che avrebbero investito di lì a poco l’utente del nuovo sistema mediatico, e la chiusura totalitaria, la prospettiva implosiva in cui i percorsi esperienziali sono in qualche modo preformati, grammatizzati e automatizzati dalla macchina enunciativa del potere. Il punto di contatto che segna questo fragile equilibrio caosmico, immaginato dal filosofo in un futuro proliferante, sembra oggi realizzarsi compiutamente nell’ascesa di un’audience diffusamente partecipativa che vede l’aprirsi di infinite possibilità enunciazionali all’interno però del quadro repressivo instaurato dal capitalismo digitale. A partire da questa suggestione è

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possibile tentare un’analisi dell’utente partecipativo che problematizzi gli aspetti liberatori sostenuti dalla participatory culture e riporti l’attenzione su di esso in quanto soggetto produttivo di informazione inquadrato nei rapporti di produzione capitalistica che animano le piattaforme online. Il potere affidato, non senza entusiasmi, al consumatore partecipativo, infatti, rischia di oscurare la possibilità di intravvedere il suo rovesciamento nel mero potere di divenire (o di non poter non divenire) utente produttivo in quanto irrimediabilmente integrato nel piano di immanenza dinamica continuamente ricodificato e rifondato dal capitalismo.  Utenti partecipativi e cattura delle forze sociali nel capitalismo cognitivo In che modo è possibile pensare la partecipazione dell’utente come attività cognitiva al lavoro entro i processi di produzione capitalistica che animano l’economia del web?Per tentare di rispondere a questa domanda è necessario interpretare l’audience partecipativa all’interno del rapporto tra nuove tecnologie digitali ed economia capitalista e, in una prospettiva più ampia, nel contesto delle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la transizione dal capitalismo di fabbrica al cosiddetto capitalismo cognitivo. A tale scopo, si tratteggeranno, in un’ottica marxista, alcuni aspetti essenziali di queste trasformazioni.Se Marx nei Grundrisse aveva già intuito che lo sviluppo capitalistico avrebbe condotto ad una società dove il lavoro operaio di fabbrica sarebbe divenuto un elemento secondario dell’organizzazione capitalistica ed il lavoro produttivo sarebbe diventato di tipo intellettuale, cooperativo e immateriale, la diffusione delle nuove tecnologie digitali sembra oggi offrire le condizioni per la piena realizzazione di una trasformazione in senso cognitivo del capitalismo [1].

In primo luogo va osservato che, in termini marxiani, le macchine assumono, nelle diverse fasi dell’organizzazione capitalistica, il ruolo di strumenti per l’amplificazione di plusvalore e per la cristallizzazione del general intellect. Nel dinamico laboratorio dei Grundrisse, infatti, Marx mette a punto una serie di intuizioni fondamentali sul rapporto tra macchina e conoscenza nei processi di produzione capitalistica. Nel cosiddetto “Frammento sulle macchine”, il capitale fisso viene descritto come lavoro oggettivato che si contrappone al lavoro vivo. Vale la pena di riportare qui un celeberrimo passaggio del Frammento: La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dell‟industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso (Marx 1857-1858; 1976:389-411). 

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In questa prospettiva, le macchine sono «organi dell’intelletto umano» e, in quanto tali, incarnano la conoscenza collettiva che diviene «forza produttiva immediata». In secondo luogo, ogni nuova tecnologia, in quanto risultato dei rapporti di forza fra le classi, si innesta, secondo Marx, sempre su precedenti forme di divisione del lavoro, su rapporti di produzione già in corso [2]A partire da questi due importanti passaggi della teoria marxiana, è possibile affermare che le nuove tecnologie digitali della comunicazione e dell’informazione possano essere condsiderate un terreno efficace per descrivere, nel passaggio dal capitalismo di fabbrica al capitalismo cognitivo, la migrazione e l’estensione delle macchine industriali all’interno dell’attuale “fabbrica-città”.In questo movimento le macchine industriali, disancorandosi e fuoriuscendo dal contesto della fabbrica, innerverebbero l’intera società. Deleuze e Guattari descrivono così questo processo di estensione: Nella composizione organica del capitale, il capitale variabile definisce un regime d’assoggettamento del lavoratore (plusvalore umano), che ha come quadro principale l’impresa o la fabbrica; ma quando il capitale costante cresce proporzionalmente sempre più, nell’automazione, si trova un nuovo asservimento e, al tempo stesso, il regime del lavoro si trasforma, il plusvalore diventa macchinico e il quadro si estende a tutta la società (Deleuze, Guattari 2002: 364). In questo scenario le tecnologie digitali verrebbero ad instaurarsi entro un insieme di relazioni cognitive già al lavoro all’interno dell’ambito industriale e continuerebbero ad assolvere, nella fase attuale, al ruolo di amplificatori di plusvalore. A partire da queste premesse esse contribuirebbero a trasformare la cooperazione, le relazioni sociali e la comunicazione — in una parola il general intellect — in forze produttive. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, intese come nuove macchine del capitalismo contemporaneo [3], assumerebbero quindi la capacità di amplificare plusvalore attraverso la cattura delle forze sociali e la loro conversione in forza lavoro e quindi in valore (il general intellect verrebbe convertito in plusvalore di rete).Tim O’Really coglie perfettamente questo passaggio mentre descrive la transizione dal Web 1.0 al Web 2.0 : The central principle behind the success of the giants born in the Web 1.0 era who have survived to lead the Web 2.0 era appears to be this, that they have embraced the power of the web to harness collective intelligence…. The lesson: Network effects from user contributions are the key to market dominance in the Web 2.0 era (O’Reilly 2007). Se, ancora, come sostenuto da Mario Ricciardi, le nuove tecnologie digitali imprimono una svolta all’economia e alla società industriali, inaugurando la transizione dalla società della comunicazione ad una società dove la comunicazione tende ormai a coincidere con la comunità e quindi con la società stessa (Ricciardi 2014) è importante definire in che maniera le forze sociali,

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captate nel movimento che condurrebbe alla società/comunicazione, possano divenire forze produttive. Forze convertibili, cioè, in valore cognitivo all’interno dell’attuale fase dell’organizzazione capitalistica. Difficile risulta sviluppare le lucide intuizioni di O’Reilly e di Ricciardi senza tenere conto della prospettiva marxista appena delineata. Alla luce di quest’ultima, infatti, è possibile osservare come l’enorme quantità di tempo in apparenza libero investito nelle molteplici attività svolte quotidianamente nel web tenda ad essere convertito, impercettibilmente, in tempo produttivo di plusvalore. Un tempo che, fatto singolare, non solo viene intercettato in assenza di dispositivi coercitivi formali (noi prestiamo volontariamente il nostro tempo alla valorizzazione capitalistica) ma appare del tutto svincolato da qualsivoglia forma di retribuzione. Si pensi alla messa a valore delle relazioni umane nei titanici quasi-monopoli del web sociale o agli invisibili codici algoritmici che, come mostrato da Matteo Pasquinelli, consentono l’accumulazione e l’estrazione di plusvalore di rete [4] L’ascesa delle app di instant messaging, in questo contesto, ci dà la misura della capillare penetrazione delle nuove tecnologie e della loro potenza valorizzante fin nella sfera relazionale più intima.  

  In quest’ottica, l’audience partecipativa, imponente forza sociale produttiva di informazione continuamente catturata e convertita in valore, può essere considerata come parte del general intellect al lavoro, come frazione del tempo

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libero collettivo che viene rovesciato in tempo produttivo nei processi di produzione capitalistica del web.A questo punto, tuttavia, si apre un’ulteriore questione: benché l’utente produttivo contribuisca alla creazione di surplus di valore nel processo di produzione, tale plusvalore non sarà condiviso con l’utente. Egli, infatti, non viene riconosciuto come reale partecipante al processo di produzione, né, d'altro canto, la sua attività verrà sanzionata come forza-lavoro convogliata nel processo di produzione delle piattaforme e di conseguenza nessun salario gli verrà corrisposto. In altre parole, l’utente partecipativo non si trova entro una comunità dove ad una produzione collettivamente sostenuta corrisponderà una orizzontale condivisione degli utili né in una condizione di fornitore di forza-lavoro alle piattaforme che il capitalista comprerà tramite il salario. Benché questo aspetto assuma sfumature aporetiche, pensiamo che spingere la riflessione fino al campo del paradosso sia utile per far emergere le asimmetrie irriducibili. Né pensiamo che un eventuale redistribuzione (condivisione degli utili o corresponsione di salario) possa condurre alla rottura dei modelli di produzione capitalistica ma, anzi, ad un inquadramento probabilmente più oppressivo per l’utente. Va inoltre notato che, per quanto l’utente possa decidere di produrre contenuti, di condividere orizzontalmente conoscenze con altri utenti, creare comunità finalizzate alla realizzazione e allo sviluppo di obiettivi e interessi comuni, egli rimarrà espropriato della possibilità di accedere al valore prodotto da queste attività, che invece verrà concentrato nelle piattaforme e, anche qualora se ne potesse riappropriare, si troverebbe ancor più profondamente e formalmente integrato nei rapporti di produzione.L’unica via liberatoria appare per il momento sbarrata. Il potere dell’utente produttivo non può fuoriuscire, per definizione, dal piano dell’utente: egli non potrà, ad esempio, assumere il controllo collettivo delle piattaforme o decidere i modelli economici che stanno alla loro base. L’utente produttivo, finché rimarrà utente, potrà limitarsi a produrre collettivamente valore nei canali predisposti dai modelli di produzione capitalistica ed ogni innovazione da lui prodotta, lungi dal profilarsi quale minaccia, verrà riassorbita e diverrà linfa vitale per il cambiamento, l’adattamento e lo sviluppo di tali modelli, garantendo quindi la continua riproduzione del capitalismo. In questo senso, l’utente produttivo è, anzitutto, un utente riproduttivo.  Il potere valorizzante dell’informazione Sin qui si è parlato del rapporto tra partecipazione ed informazione e di trasformazione di quest’ultima in valore, senza di fatto chiarire i meccanismi di creazione di plusvalore che dominano il rapporto tra utente partecipativo e piattaforme web. Per meglio comprendere il rapporto tra audience partecipativa e produzione capitalistica è opportuno quindi inquadrare teoricamente il rapporto tra informazione e plusvalore, chiedendosi in che modo il flusso informazionale proveniente dall’audience partecipativa possa essere intercettato e convertito in valore. A ben vedere, il consumo partecipativo, garantendo un feedback continuo

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di informazione (numero di viewer, like, sharing, commenti, ecc), consente alle piattaforme online di conoscere costantemente l’andamento dei desideri dell’utente e quindi di adattare, modificare e migliorare le strategie produttive mettendo in tal modo il consumatore partecipativo in una posizione molto interessante. Oltre alla produzione di questo primo livello di informazione, l’utente partecipativo, essendo anche un attivo produttore di contenuti, crea ulteriore informazione che confluisce nell’enorme flusso informazionale alimentato, altresì, dall’investimento relazionale che egli realizza grazie alla dimensione sempre più social assunta dalle piattaforme online. Anche in questo caso ricorreremo alla teoria marxista e, in particolare, ad un saggio di Romano Alquati.Pubblicato sui “Quaderni Rossi” in due parti nel 1962 e 1963, Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti rappresenta una delle prime analisi marxiste della cibernetica ed è ancora oggi un testo chiave per affrontare il rapporto tra informazione e valore in senso marxiano. Il concetto di informazione valorizzante introdotto da Alquati, infatti, può essere considerato come un ponte concettuale fra le nozioni di informazione in cibernetica e di valore in Marx. Alquati, anzitutto, considera l’apparato cibernetico come un’estensione della burocrazia interna alla fabbrica, che consente di monitorare il processo produttivo attraverso informazioni di controllo. L’apparato burocratico è verticale perché non è "produttivo": è un fascio di linee gerarchiche rappresentabili come assi verticali, come delle sonde piantate nei nodi strutturali della valorizzazione a succhiare al lavoro produttivo le ‘informazioni di controllo’ che permettono al padrone di verificare se il flusso avviene nei canali predisposti (Alquati 1962-1963:126). Alquati introduce quindi il concetto di informazione valorizzante per identificare il fluido vitale che scorre in questi circuiti e li alimenta. Il concetto di informazione entra così nella definizione di lavoro vivo e nell’idea stessa di plusvalore, che si trova ad essere continuamente assorbito nelle macchine e condensato nelle merci in questo modo. L’informazione viva è continuamente prodotta dai lavoratori per essere trasformata in informazione morta, cristallizzata, cioè, nelle macchine e nell’intero apparato burocratico. In questa prospettiva, la burocrazia interna alla fabbrica è considerata come una specifica divisione del lavoro che viene rispecchiata, implementata ed estesa dalla cibernetica. In tal senso l’intuizione di Alquati che propone un continuum fra burocrazia, cibernetica e macchinari è estremamente interessante: la cibernetica disvela la natura macchinica della burocrazia di fabbrica e al tempo stesso il ruolo burocratico delle macchine, in quanto esse diventano apparati di feedback per controllare il lavoratore e catturarne la conoscenza ed esperienza del processo produttivo. L’informazione valorizzante è ciò che entra nella macchina cibernetica e viene trasformato in una sorta di conoscenza macchinica. L’informazione è l’essenziale della forza-lavoro, è ciò che l’operaio attraverso il capitale costante trasmette ai mezzi di produzione sulla base di valutazioni,

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misurazioni, elaborazioni per operare nell’oggetto di lavoro tutti quei mutamenti della sua forma che gli danno il valore (Alquati 1962-1963:121). La dimensione numerica della cibernetica consente di codificare la conoscenza dei lavoratori in bit e, conseguentemente, di trasformare i bit in numeri della pianificazione economica. In altre parole, operando come interfaccia numerica tra i domini della conoscenza e del capitale, il codice digitale trasforma l’informazione in valore. «La cibernetica», afferma Alquati, «ricompone globalmente e organicamente le funzioni dell’operaio complessivo polverizzate nelle microdecisioni individuali: il ‘bit’ salda l’atomo operaio alle ‘cifre’ del ‘Piano» (Alquati 1962-1963:124).Alquati definisce informazione precisamente queste micro-decisioni innovative che i lavoratori devono prendere lungo tutto il processo produttivo per dare forma al prodotto finale.La centralità dell’informazione, e quindi della conoscenza quale principale elemento produttivo nei processi di produzione capitalistica, fa del saggio di Alquati un vero e proprio testo ante-litteram sul capitalismo cognitivo. In questo senso esso rappresenta un’analisi molto efficace per inquadrare e analizzare i processi produttivi del web. In quest’ottica, l’analisi di Alquati permette infatti di descrivere l’audience partecipativa nei termini di un insieme di soggetti produttivi impegnati in una produzione pressoché continua di informazione valorizzante. La serie di atti creativi, misure e micro-decisioni continuamente prese da ciascun consumatore sotto forma di visualizzazioni, like, valutazioni, commenti, condivisioni, produzione e upload di contenuti testuali e audiovisivi, ecc., confluiranno, come già accennato, in un poderoso flusso informazionale che verrà costantemente trasmesso all’apparato cibernetico e qui assorbito, codificato e convertito in valore dalle piattaforme online. Tale flusso di informazione viva, infatti, orienterà in tempo reale la direzione del processo produttivo — la pianificazione economica nei termini di Alquati — conducendo, in ultima analisi, ad un costante adattamento/miglioramento dei processi di produzione capitalistica e quindi ad un mantenimento e incremento del valore prodotto. L’informazione viva, sotto forma di micro-decisioni innovative del consumatore, verrà cioè cristallizzata come informazione morta all’interno dell’apparato cibernetico o, come diremmo oggi, delle piattaforme digitali. L’utente, ancora una volta, oltre che produttivo di informazione e di valore, diviene utente riproduttivo, capace di trasmettere al processo di produzione informazioni fondamentali non solo per il suo funzionamento qui e ora ma anche per la sua costante riproduzione.Perché il flusso informazionale prodotto dall’audience partecipativa possa essere intercettato e codificato, è necessario mettere in evidenza, inoltre, la funzione di apparati digitali di feedback assunta dalle piattaforme del web. La possibilità che le micro-decisioni prese lungo il processo produttivo vengano intercettate e convertite in valore si fonda infatti sulla struttura stessa delle piattaforme e cioè sulla loro forma che è determinata dal software e dagli algoritmi che le animano. Essi predispongono un apparato ricettivo che prevede sia modalità totalmente automatiche sia modalità attivabili dal consumatore. In quest’ultimo caso, la

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possibilità di “mettere un like”, di caricare, di condividere, di cercare contenuti, ecc., e cioè di produrre informazione valorizzante, si materializza in specifiche forme attivabili che spesso eccedono la pura possibilità di partecipazione mutando in inviti, sollecitazioni o vere e proprie coercizioni a partecipare e quindi a produrre informazione. Gli apparati digitali di feedback consentono quindi di controllare e guidare costantemente l’utente riproduttivo nella produzione di informazione, catturarne la conoscenza e l’esperienza del processo produttivo all’interno di canali predisposti.  Codici algoritmi e automazione della partecipazione Un’ulteriore questione particolarmente utile per comprendere il nesso tra partecipazione, informazione e valore, è la funzione dei codici algoritmici in quanto codici che governano i processi di produzione capitalistica nel web. Se, concordemente con l’idea proposta da Lev Manovich (Manovich 2010), è possibile affermare che le nuove tecnologie digitali, animate dal «motore nascosto» del software, stanno imprimendo una svolta anche culturale alla nostra società, a ben guardare, dietro il software sembrano celarsi gli algoritmi, codici invisibili che governano la valorizzazione capitalistica delle forze sociali nel capitalismo digitale. Alexander Mackenzie osserva, a tal proposito, che è molto difficile concettualizzare il software senza gli algoritmi e afferma, inoltre, che «ogni codice, formalmente analizzato, incapsula un algoritmo» (Mackenzie 2006:43). Andrew Goffey ci ricorda che «l’algoritmo occupa una posizione cruciale nelle scienze computazionali per la sua capacità di incapsulare la logica che sta alla base della macchina di Turing» (Goffey 2008:14). Nell’economia capitalista del web gli algoritmi possono essere considerati una forma di capitale fisso, mezzi di produzione che codificano e trasformano una certa quantità di sapere sociale in valore di scambio. A questo punto è interessante osservare come gli algoritmi si collochino al cuore dei processi di automazione. Marx considera l’automazione in quanto processo di assorbimento all’interno della macchina delle «forze produttive generali del cervello sociale». Come osservato da Tiziana Terranova, nella storia del rapporto tra capitale e tecnologia, è possibile notare come l’automazione si sia evoluta, allontanandosi dal modello termo-meccanico della catena di montaggio industriale, verso le reti elettro-computazionali diffuse nel capitalismo contemporaneo (Terranova 2014). In questa prospettiva è possibile collocare gli algoritmi entro la linea genealogica tratteggiata da Marx nei Grundrisse, che attraversa svariate fasi trasformative «di cui l’ultima è la macchina o, piuttosto, un sistema automatico di macchinari […] azionato da un autonoma, forza motrice che muove se stessa». Quest’ultimo, continua Marx, «è costituito da numerosi organi meccanici e intellettuali, cosicché gli operai stessi sono determinati soltanto come sue membra coscienti» (Marx 1857-1858;1976:706-707). L’automazione industriale termodinamica diede inizio a un sistema dove gli stessi lavoratori diventano meri collegamenti dotati di coscienza. L’automazione digitale è invece elettro-computazionale e coinvolge soprattutto il sistema nervoso e il cervello. Essa

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implica possibilità di virtualità, simulazione, astrazione, feedback e processi autonomi (Fuller 2008). Governata dai codici algoritmici, essa si esplica in reti fatte di connessioni elettroniche e nervose, cosicché gli utilizzatori stessi diventano collegamenti quasi-automatici all’interno di un continuo flusso di informazione. In questo contesto la componente corporea diviene evidentemente co-estensiva alle componenti digitali. In tal senso è interessante notare come nel modello antropogenetico del lavoro di Christian Marazzi si descriva una nuova composizione organica del capitale dove il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, assorbe le funzioni tipiche del capitale fisso e cioè dei mezzi di produzione (Marazzi 2005). In quest’ottica è possibile immaginare che, se nel capitalismo cognitivo la fonte macchinica di profitto può essere esternalizzata nel corpo stesso dei lavoratori, i processi di automazione elettro-computazionale interessino una componente corporea già ibrida, un intreccio macchinico vivo che coinvolge il vivente e le altre componenti macchiniche digitali. In questo contesto, la componente algoritmica, comportandosi come una macchina astratta (in senso deleuze-guattariano), si instaura trasversalmente rispetto alle altre componenti corporee e digitali modulandone l’automazione secondo i modelli produttivi del capitale [5]. Alla luce di queste riflessioni, l’utente partecipativo può essere considerato un corpo non solo integrato ma co-estensivo ai processi di produzione capitalistica delle piattaforme web. Un corpo produttivo il cui sistema nervoso trasmette, quasi costantemente, un flusso di informazione valorizzante secondo i ritmi e i modelli di produzione inscritti nei codici algoritmici e le cui attività intellettive sono dunque modulate, automatizzate e modellizzate secondo le esigenze produttive del capitale. In questa prospettiva sarebbe interessante, infine, prefigurare un’analisi del rapporto tra l’algoritmo e il concetto di ritornello. Deleuze e Guattari aprono Mille Piani con una lunga riflessione su tale concetto che Guattari riprenderà poi diffusamente in Caosmosi. Esso è riassumibile nell’idea che alcuni segmenti discorsivi della macchina non svolgono semplicemente un ruolo funzionale o significazionale ma assumono una funzione «esistenzializzante», di pura ripetizione intensiva e territorializzante. Idea che appare particolarmente interessante per lo studio del rapporto tra il funzionamento dei codici algoritmici e la ritualità/ripetitività impressa all’intreccio macchinico vivo nei processi di automazione algoritmica qui rapidamente tratteggiati.  Il surplus di tempo che non ci libererà Se si osserva la tabella qui sotto ci si potrà fare un’idea delle ore giornaliere trascorse dinanzi agli schermi negli USA.  

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  Clay Shirky, nel suo libro Surplus Cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, parla di un accumulo di oltre un trilione di ore di tempo libero all’anno da parte della popolazione mondiale istruita (Shirky 2010). Un’eccedenza di tempo libero che, secondo l’autore, è andata crescendo vertiginosamente dal secondo dopoguerra in poi. Questo surplus, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie digitali e dei media sociali in particolare, che avrebbero consentito una crescente condivisione e partecipazione, rappresenterebbe un’enorme risorsa collettiva, un’opportunità gravida di inaspettate potenzialità per il presente e soprattutto per il futuro delle nostre società. Per Shirky non vi è alcun dubbio: non solo le nuove tecnologie digitali non producono isolamento sociale, ma al contrario lo contrastano promuovendo l’uso collettivo e partecipativo del surplus di tempo libero di cui la nostra società dispone e la nascita di nuove forme di creatività, generosità, partecipazione e condivisione.Nei paragrafi precedenti sono state introdotte alcune riflessioni sul rapporto tra partecipazione e processi di produzione delle piattaforme online, descrivendo l’audience partecipativa attraverso i concetti di sussunzione delle forze intellettuali e relazionali della società, di informazione valorizzante, di rovesciamento del tempo libero in tempo di lavoro, di utente riproduttivo, di automazione algoritmica e intreccio macchinico vivo. Qui si vorrebbe mettere in evidenza un ultimo aspetto dell’utente partecipativo, un aspetto che in qualche modo si muove trasversalmente lungo le questioni già affrontate e che ci dà l’opportunità di estendere la riflessione sul suo ruolo sociale e culturale della partecipazione. Si tratta di un aspetto, ancora una volta, direttamente legato al corpo, alla paradossale separazione dei corpi partecipanti all’interno delle società democratiche europee così come si sono ritmicamente rifondate e consolidate

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con la svolta neo-liberista degli anni ottanta, la “rivoluzione digitale” degli anni novanta, la deriva securitaria antiterrorista degli anni Duemila, la ferocia repressiva del capitalismo in crisi degli anni duemiladieci [6].Nell’analisi di Shirky, le cui venature ottimistiche sono così evidenti da renderne quasi superflua la segnalazione, emerge una questione che merita particolare attenzione. Con la consueta abbondanza di casi e di aneddoti estratti dal “mondo reale”, narrati con tale perizia e fedeltà da suscitare un effetto di realtà così efficace da far impallidire certi epigoni del Naturalismo, Shirky ci obbliga a porci una domanda. All’aumentare del tempo libero o liberato dalla partecipazione prevista dai media sociali e, in senso più ampio, dalle nuove tecnologie digitali, non è forse corrisposta una graduale riduzione del tempo caratterizzato dall’esercizio della prossimità dei corpi, dalla solidarietà che soltanto la vicinanza fra essi può stabilire? Come già osservato, il surplus di tempo libero, sapientemente convogliato nella partecipazione, sembra oggi sottoposto ad un movimento generalizzato di vampirizzazione e rovesciamento in tempo produttivo. Questo movimento avviene in uno spazio che, come efficacemente tratteggiato da "Tiqqun", appare profondamente panoptizzato, popolato da corpi separati e sottoposti ad una immobilitation forcenée. Corpi dalla vita apparente, separati da sottili pareti di vetro che appaiono paradossalmente più immobili mentre le loro funzioni mentali sono attivate, catturate, mobilizzate e rispondono in tempo reale alle fluttuazioni del flusso informazionale che attraversa lo schermo. Si potrebbe a buon ragione parlare di un dispositivo di produzione fondato sull’immobilizzazione e la segregazione dei corpi: «la chaise, le bureau, l’ordinateur: un dispositif. Un arraisonnement productif. Une entreprise méthodique d’atténuation de toutes les forms de vie» ("Tiqqun" 2009:111). È tutt’altro che difficile scorgere il carattere politico o, per dirla con "Tiqqun", brutalement politique che risiede in questo scenario. La messa a valore della conoscenza nel capitalismo contemporaneo si realizza necessariamente e soprattutto attraverso uno stretto controllo dei corpi e una capillare levigatura degli spazi e dei tempi entro i quali essi possono muoversi. Al dispositivo statico descritto da "Tiqqun" si affiancano nuove forme di immobilizzazione e separazione dinamica dei corpi aperte dalla possibilità che essi hanno di rimanere connessi al flusso informazionale anche durante i loro movimenti all’interno delle città, evidente conseguenza della diffusione della tecnologia mobile. Nelle strade e nelle piazze che attraversano, questi corpi appaiono espropriati della loro presenza da un altrove che li richiama nel flusso informazionale semi-permanente che attraversa il loro second screen. Simultaneamente essi sono riportati ad una presenza ugualmente espropriata che li vede muovere freneticamente dentro le traiettorie urbane scandite dai ritmi del lavoro e del consumo imposti dalla produzione capitalistica delle città. Ogni segmento di tempo libero che eccede il tempo espropriato dal lavoro deve essere accuratamente ricondotto in attività produttive e impegnato in forme di socialità compatibili con lo sviluppo capitalistico. All’uomo che, nelle parole di Georges Bataille, è «un troppo pieno di energie da prodigare» (Bataille 1936) non sarà certo consentito di dissipare queste ultime in direzioni autonome. Nella città contemporanee, quindi, il tempo libero viene ora catturato nei dispositivi di

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immobilizzazione produttiva presenti nello spazio domestico o negli anfratti extra-lavorativi concessi o strappati nei luoghi di lavoro, ora assorbito nel flusso informazionale del second screen, ora accuratamente inquadrato nei parchi e nei luoghi di ricreazione e di consumo di massa. Il continuo slittamento del tempo in stati a differente qualità produttiva si dispiega, inoltre, sotto un regime di sorveglianza che, legittimato da crescenti appetiti di decoro e sicurezza, consente un monitoraggio pressoché continuo dei corpi: si pensi alle cifre milionarie investite nei programmi di videosorveglianza delle città europee e alla pervasività della dataveillance.Nel nuovo modello di città ogni imprevisto deve essere espunto dal panorama delle possibilità; per fare ciò, per ridurre cioè i tentativi di evasione, diviene necessario moltiplicare l’offerta di possibilità compatibili con tale modello e mantenere costante il livello di partecipazione. Il capitalismo, sorretto dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali che sostengono questa proliferazione di possibilità e che, contemporaneamente, consentono un monitoraggio costante dei flussi di informazione e una pervasiva sorveglianza dei corpi che li producono, sembra dunque aver messo al mondo un potente apparato di messa in produzione, controllo, normalizzazione e automazione del general intellect. Il potenziale liberatorio attribuito alla diffusione di tali tecnologie, così come felicemente narrato dalla participatory culture, deve dunque qui leggersi anche come un potenziale liberatorio per le possibilità di sviluppo e per la radicalizzazione del capitalismo. In questo contesto il futuro proliferante preconizzato da Guattari sembra in effetti realizzarsi e allo stesso tempo precipitare ed implodere presentandosi nelle vesti di un presente vischioso, dove ogni discorso liberatorio sulle eccedenze o sul potere procedente dalla nuova socialità digitale descrive o produce piani di consistenza che si dissolvono alla stessa velocità della loro emersione. Le comunità online e il loro continuo darsi e dissiparsi, appaiono in tal senso importanti metafore dell’impossibile fuoriuscita dall’esistente, spettri festosi che si manifestano ad intermittenza per illudere e rassicurare quanti ancora riescano a scorgere di tanto in tanto l’atmosfera post-sociale o meglio postuma che permea le nostre società. Scrive il Comité invisible: chiamare “società” il popolo di estranei in mezzo al quale viviamo è una tale usurpazione di significato che gli stessi sociologi hanno avuto la decenza di rinunciare a un concetto che, per un secolo intero, fu il loro modo di guadagnarsi il pane. Essi preferiscono ora la metafora della rete per descrivere il modo in cui si connettono le solitudini cibernetiche con cui si annodano le deboli interazioni conosciute sotto il nome di «colleghi», «contatti», «amici», «relazione», o «avventura» (Comité invisible 2007). Difficile non immaginare che in questa prospettiva, le forme di vita incompatibili con la legge capitalistica tenderanno ad essere progressivamente formattate e normalizzate in vista di una loro sempre più piena integrazione. La partecipazione, in questo senso, può essere considerata come un efficace dispositivo di integrazione e normalizzazione sociale entro i modelli di vita

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compatibili e desiderabili dallo sviluppo capitalistico. D’altro canto, la possibilità della non partecipazione, pur essendo un’opzione a certe condizioni contemplata, rappresenta in genere la difformità da prevenire e da reprimere, la minaccia da neutralizzare e da ricondurre entro l’alveo del previsto. La non partecipazione verrà tollerata se assumerà forme leggibili e dialoganti (ed in certo senso dunque, ancora partecipanti) in modo da poter essere facilmente gestita e neutralizzata. Al limite, non partecipare sarà consentito nella misura in cui ciò comporti un’“autoesclusione” sociale dell’individuo o del gruppo non partecipante che si condanneranno/verranno condannati alla perdita dei benefici sociali riservati ai partecipanti. In tal senso, il sottile ricatto legato a questa possibile perdita garantirà uno spontaneo movimento di ritorno verso la partecipazione. Qualora il non partecipante, però, volesse disertare il sistema di partecipazione non con la sottrazione e l’esclusione ma decidendo di intraprendere azioni che attacchino o minino il funzionamento del sistema generale di partecipazione sociale (se, in altri termini metterà in atto forme di partecipazione non previste e non riassorbibili) la sua personalità verrà ricondotta nella narrazione patologica o sovversiva ed egli verrà allora sottoposto alle azioni repressive degli apparati medici o polizieschi. In altre parole la sua personalità verrà annientata [7]. In questo contesto la pura diserzione, forse ancora possibile, è difficile da ipotizzare e la diserzione in quanto messa in atto di forme di partecipazione non conformi e destabilizzanti per il sistema stesso tenderà ad essere rapidamente e violentemente neutralizzata. Questi deterrenti non bastano, ovviamente, ad eliminare del tutto la possibilità della diserzione. La possibilità, cioè, che micro-diserzioni latenti possano in qualsiasi momento cristallizzare e saldarsi in piani di più ampie dimensioni rimane dunque una minaccia costante. Non stupisce quindi il mai sopito timore che questi momenti possano mettere in pericolo la partecipatory society. Timore tradito dai tanti e costanti appelli alla più ampia inclusione in essa. Persino Shirky ci dice, in fin dei conti, che il tempo extra-lavorativo, se non accuratamente inquadrato nelle forme di partecipazione offerte dalle nuove tecnologie, rappresenta un terreno molto delicato e instabile, un terreno potenzialmente esplosivo che potrebbe minacciare il sistema di partecipazione e quindi la riproduzione della società capitalistica. Shirky ovviamente, raccomanda il “miglior uso possibile” di quel tempo libero che consisterebbe in un’integrazione sempre più serrata entro le deboli maglie della socialità offerta dalle nuove tecnologie, in modo tale da scongiurare qualsivoglia forma di diserzione. In questo senso la posizione teorica di Shirky appare, se non poliziesca per lo meno animata da appetiti normativi/normalizzanti. A ben guardare l’autore si trova però in buona compagnia: il richiamo continuo alla partecipazione investe trasversalmente le società capitalistiche di oggi in quasi tutti gli campi sociali e culturali. Sfidiamo a trovare un ambito dove, specie negli ultimi vent’anni, non si sia fatto appello alla partecipazione o non si siano sperimentate pratiche partecipative. Come nota "Tiqqun": «ovunque non si vede altro che orizzontalità dei rapporti e partecipazione a progetti che dovrebbero rimpiazzare l’autorità gerarchica e burocratica, contro-poteri e decentralizzazione che dovrebbero disfare monopoli e segreti» ("Tiqqun" 2001:280). Il motivo di tanto interesse non può che

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spiegarsi con la straordinaria efficacia inclusiva e normalizzante della partecipazione che garantisce un capillare inquadramento produttivo e comportamentale delle forze intellettuali e relazionali della società, condizione necessaria per il continuo sviluppo del capitalismo. L’assordante richiamo alla necessità di partecipazione ci mostra, in tal senso, un certa dose di terrore verso la diserzione e proietta una velata minaccia alle istanze non-partecipative che rischiano di mettere in pericolo la partecipatory society. In questo scenario l’appello alla partecipazione sembra assumere un’ulteriore significato. Esso si carica delle fattezze rituali che può avere l’invocazione di ciò che minaccia di fuggire, di ciò che sta per scomparire, oppure, ancora, di ciò che è ormai irrimediabilmente postumo. I riti, come è noto, assumono di sovente una funzione contenitiva e sedativa, specialmente quelli funebri: incorniciano socialmente il lutto e rendono il dolore della scomparsa meno lancinante. All’interno di una generale conflagrazione del sociale che si accompagna al progressivo dissolvimento della partecipazione in quanto momento di aggregazione di corpi che prendono parte ad una secrezione collettiva di reale potenza trasformativa è lecito parlare di una posthumous society, di una “società” che non può o non sa più essere (né sa di essere) altro che forza riproduttiva di se stessa entro il piano insovvertibile del capitalismo con il quale ormai sembra identificarsi irreversibilmente e che dunque non sembra avere più fini veramente esterni a se stessa, né desiderio di diventare altro, ma solo di persistere. Una società irreparabilmente espropriata della possibilità di accedere alla partecipazione nel senso forte sopra descritto in quanto popolata da miriadi di solitudini cibernetiche tenute paradossalmente insieme dall’assenza (cioè da un eccesso di fantasmatica presenza) e dalla separazione. Della partecipazione in senso forte essa però conserva ed invoca il feticcio a scopi sedativi, recuperandone ed agitandone talvolta le spoglie per intimare energicamente a non disertare l’unica partecipazione possibile: prendere parte, o meglio, non poter non prendere parte a quelle deboli interazioni sociali che uniscono e separano le solitudini cibernetiche e che garantiscono la riproduzione della posthumous society e del capitalismo. L’invocazione della partecipazione ha dunque inizio laddove la partecipazione in senso forte non può più darsi; la sua ipertrofica emersione linguistica ne segnala lo stato postumo. La parola sussume la transizione da una forma di partecipazione all’altra, mascherando nell’omonimia il deperimento di una a vantaggio dell’altra, laddove la franca proclamazione della morte, della perdita irreparabile, deve indugiare nel campo dell’inconfessabile. Appare dunque in certo senso paradossale osservare i corpi delle solitudini cibernetiche temporaneamente giustapposti in occasione di cortei e manifestazioni, invocare ancora, candidamente, più democrazia e più partecipazione ad una società che sembra esistere ormai soltanto in negativo, che sembra esistere, cioè, in virtù del terrore che essa continuamente esercita su tutto ciò che minaccia di disertarla e dunque di sopravviverle.Non deve stupire, infine, che all’estensione e a al consolidamento globale del capitalismo corrisponda un tale livello di attenuazione sociale della società. Il movimento di rarefazione sociale, trainato dalla forza disumanizzante del capitalismo cibernetico, diviene a sua volta un’intensità sulla quale si instaura

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ancora e con nuovo vigore normativo la soggettività capitalista. Per dirla con Lyotard, la disumanizzazione è soltanto la precondizione per una nuova umanizzazione a maggiore capacità normativa (Lyotard 1979a:102)  Dalla parole pourrie alla parole résistante Lo scenario sin qui descritto non sembra lasciare molto spazio alla possibilità di superamento del capitalismo, laddove i cambiamenti o le rotture tendono a divenire momenti non solo tutti interni ad esso ma occasioni per colonizzare nuovi piani dell’esistente. Dopo quarant’anni di contro-rivoluzione trionfante ci si potrebbe non solo chiedere il perché di tanti trionfi del capitalismo ma forse si potrebbe tentare di immaginare cosa avrebbe comportato o cosa comporterebbe una vittoria delle istanze anti-capitaliste di area marxista. In questa prospettiva sarebbe opportuno introdurre una lettura della participatory society e delle teorie ad essa afferenti attraverso una critica della critica marxista, pur rischiando di mettere in discussione una parte delle premesse teoriche che hanno sorretto questo saggio. Rischiare di far vacillare la teoria non per puro gusto della rottura né per fede nella critica, ma per alimentare le aree di sospetto che pure si addensano e premono e, non ultimo, per esercitare quell’attitudine al rovesciamento dell’esistente che, forse per abitudine, ancora affidiamo, vogliamo affidare, al futuro. In definitiva dare voce al sospetto, delegittimarsi e delegittimare, preventivamente, le pulsioni normative-riproduttive-costituenti. Fermo restando che la teoria marxista rimane, in ogni caso, il punto di partenza ineludibile per comprendere i processi di produzione capitalistica e per farne emergere le contraddizioni e la potenza disumanizzante, non vi sono motivi che ci inducano a credere che un superamento del capitalismo digitale e della posthumous society che ormai si confonde con il capitalismo stesso, possano avvenire a partire dalla realizzazione della prospettiva marxista.Nel 1979 Lyotard osservava che: «partout, à un titre ou à l’autre, la Critique de l’économie politique (c’était le sous titre du Capital de Marx) et la critique de la société aliénée qui en était le corrélat, sont utilisées en guise d’éléments dans la programmation du système» (Lyotard 1979b). In questa prospettiva gli autori di "Tiqqun" scrivono: Face à l’hypothèse cybernétique unifiante, l’axiome abstrait d’un antagonisme potentiellement révolutionnaire – lutte des classes, «communauté humaine» (Gemeinwesen) ou «social-vivant» contre Capital, generalintellect contre processus d’exploitation, «multitude» contre «Empire», «créativité» ou «virtuosité » contre travail, « richesse sociale» contre valeur marchande, etc. – sert en définitive le projet politique d’une plus grande intégration sociale ("Tiqqun" 2001:286). 

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In primo luogo, la teoria marxista della cibernetica e delle nuove tecnologie digitali, spinta verso la sua pars construens sembra identificarsi con la realizzazione di una nuova economia sociale. In fin dei conti gli approcci marxisti e post-marxisti non criticano in sé la qualità economica del capitalismo né la visione totalizzante e sistemica propria della cibernetica e quindi sembrano prefigurare la prospettiva di una capillare integrazione sociale entro un nuovo progetto economico. In secondo luogo l’insistenza sul rovesciamento del tempo libero in tempo di lavoro sembra sacralizzare il lavoro stesso in quanto momento ineliminabile nella realizzazione di un nuovo progetto economico di integrazione sociale. Una volta riconosciuto il carattere collettivo e partecipativo della creazione di informazione e di plusvalore si aprirebbe la strada ad un presunto comunismo del tutto affine a un democratismo economico e forse al progetto di ricostruzione di uno stato post-fordista. Il soggetto partecipativo sembrerebbe destinato, in questa prospettiva, ad essere accuratamente ri-normalizzato e rimesso al lavoro entro un’economia solidale sistemica probabilmente fondata non sulla collettivizzazione o la statalizzazione dei mezzi di produzione ma su una collettivizzazione delle decisioni di produzione. La partecipazione ai processi produttivi di questa economia diverrebbe, se possibile, più coercitiva e ineluttabile di quella attuale. Il superamento del capitalismo apparirebbe come una sua nuova estensione fondata sull’integrazione totale di ogni individuo nel nuovo sistema sociale di produzione.Nel 1990 Toni Negri intervistava Gilles Deleuze ponendogli una domanda cruciale: D’un côté ce dernier scénario renvoie à la plus haute perfection de la domination qui touche aussi la parole et l’imagination, mais de l’autre, jamais autant qu’aujourd’hui, tous les hommes, toutes les minorités, toutes les singularités sont potentiellement capables de reprendre la parole, et avec elle, un plus haut degré de liberté. Dans l’utopie marxienne des «Grundrisse», le communisme se configure justement comme une organisation transversale d’individus libres, sur une base technique qui en garantit les conditions. Le communisme est-il encore pensable ? Dans la société de la communication, peut-être est-il moins utopique qu’hier?. Deleuze rispondeva così: Vous demandez si les sociétés de contrôle ou de communication ne susciteront pas des formes de résistance capables de redonner des chances à un communisme conçu comme «organisation transversale d’individus libres». Je ne sais pas, peut-être. Mais ce ne serait pas dans la mesure où les minorités pourraient reprendre la parole. Peut-être la parole, la communication sont-elles pourries. Elles sont entièrement pénétrées par l’argent: non par accident, mais par nature. Il faut un détournement de la parole. Créer a toujours été autre chose que communiquer. L’important ce sera peut-être de créer des vacuoles de non-communication, des interrupteurs pour échapper au contrôle (Deleuze 1990a). 

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Immaginare oggi una fuoriuscita dalla posthumous society attraverso “prese di parola” che promanano dalla stessa posthumous society non è certo semplice: la parole pourrie sembra essere la lingua ufficiale di questa società. È possibile tuttavia rilanciare la suggestione di Deleuze in una prospettiva che non proponga più alcuna presa di parola e che, al contrario, si realizzi in un ritrarsi da essa in un movimento in grado di secernere aree di interruzione della comunicazione. Immaginare oggi la frantumazione del capitalismo digitale per mezzo della comunicazione e della presa di parola significa ricadere nella triste trappola dell’utente riproduttivo: qualsiasi cosa egli dirà o farà diverrà linfa vitale che alimenterà il capitalismo stesso e la sua riproduzione. Enunciandosi, inoltre, egli si sottoporrà inevitabilmente agli apparati di controllo sempre più raffinati che pervadono ormai quasi ogni anfratto delle nostre società. La destabilizzazione del capitalismo oggi potrebbe dunque iniziare con la creazione e la moltiplicazione di micro-fratture apportate per via de-enunciazionale, per sottrazione dallo stato di enunciazione semi-permanente che ci fa utenti sociali, attivi e partecipativi. In altri termini rendersi soggetti invisibili, opachi e dismorfici per moltiplicare i vacuoles de non-communication immaginati da Deleuze e le zoness d’opacité offensive descritte da "Tiqqun": l’important pour nous ce sont ces zones d’opacité, l’ouverture de cavités, d’intervalles vides, de blocs noirs dans le maillage cybernétique du pouvoir. La guerre irrégulière avec l’Empire, à l’échelle d’un lieu, d’une lutte, d’une émeute, commence dès maintenant par la construction de zones opaques et offensives. Chacune de ces zones sera à la fois noyau à partir duquel expérimenter sans être saisissable et nuage propagateur de panique dans l’ensemble du système impérial, machine de guerre coordonnée et subversion spontanée à tous les niveaux. La proliferation de ces zones d’opacité offensive (ZOO), l’intensification de leurs relations, provoquera un déséquilibre irréversible ("Tiqqun" 2001:335). La via indicata da Tiqqun, già percorsa da non pochi individui e gruppi, benché possa apparire affascinante, presenta un aspetto piuttosto problematico. La proliferazione delle zones d’opacité offensive, l’intensificazione delle relazioni fra di esse e la «la guerre irrégulière avec l’Empire» che comporta la nascita delle ZOO non rimangono certo su un piano di impercettibilità. La percettibilità, beniniteso, sarebbe auspicabile qualora si potesse contare su una proliferazione di zone d’opacità in grado da reggere il confronto con la forza repressiva del capitalismo, riuscendo a determinarne uno squilibrio irreversibile. In altri termini, le ZOO sembrano costantemente ricadere nella comunicazione, sollecitando così gli apparati repressivi senza però raggiungere la potenza per resistervi o disarmarli e giustificandone quindi il continuo irrigidimento. Non sembra possibile, oggi, a partire dalla posthumous society, immaginare una propagazione di queste zone tale da innescare una guerra in grado di far collassare ciò che, usando la terminologia negri-hardtiana, Tiqqun chiama Impero. Ciò equivale a dire che dalla posthumous society non è possibile uscire per via enunciazionale — la parole pourrie di Deleuze — né, forse, per via de-

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enunciazionale. In altri termini le ZOO offrono importanti aree di opacità che però, se non portate ad un livello di intensificazione estrema e di espansione globale, ad una massiva e irreversibile interruzione dei flussi informazionali, verranno riassorbite quasi in tempo reale dai dispositivi di integrazione sociale e dalle forze repressive del sistema capitalistico. Ciò non toglie che la creazione di una ZOO, presupponendo l’esistenza di micro-istanze di diserzione latenti al di sotto della superficie costantemente levigata della posthumous society, individui germi potenzialmente fertili nelle maglie della necropoli sociale. Le ZOO, in tal senso, rappresentano importanti nuclei dinamizzanti, focolai agglutinanti o aree mobili di sfaldatura entro le quali sarà forse possibile continuare a sperimentare e teorizzare nuove e più efficaci forme di cristallizzazione delle istanze latenti di diserzione. Una tale prospettiva potrebbe condurre, attraverso quel percorso che "Tiqqun" ha definito con l’espressione caos fecondo ("Tiqqun" 2001:339), sia verso una futura destabilizzazione/rovesciamento del capitalismo digitale sia, ancora una volta, verso una sua ristrutturazione/rifondazione senza fine.Del resto non bisogna dimenticare, come avverte Foucault, che qualsiasi tentativo di resistenza può esistere soltanto all’interno del campo nemico: Mais des résistances qui sont des cas d’espèces: possibles, nécessaires, improbables, spontanées, sauvages, solitaires, concertées, rampantes, violentes, irréconciliables, promptes à la transaction, intéressées, ou sacrificielles; par définition, elles ne peuvent exister que dans le champ stratégique des relations de pouvoir (Foucault 1976:126). Ciò vale anche per la teoria. Essa, se non vuole rischiare di pronunciare reiteratamente paroles pourries deve muoversi nel campo delle relazioni di potere che la definiscono riuscendo a resistervi. In tal senso è opportuno evidenziare la necessità di una teoria che sappia da una parte superare lo sguardo compiacente che la participatory culture riserva, suo malgrado, al capitalismo e, dall’altra, cogliere gli aspetti critici del marxismo pur rifuggendo le tentazioni economiche sistemiche di cui sembra essere portatore. Una teoria radicalmente anti-capitalista non potrà rinunciare ad assumere come punto di partenza l’analisi del processo di conflagrazione sociale entro il quale oggi si sviluppa il capitalismo. È a partire da questa consapevolezza che si potrà analizzare in modo profondo il rapporto fra partecipazione, informazione, valore, tempo libero e corpo nei processi di produzione del Web. Questa teoria dovrà, altresì, porre al centro dell’analisi il rapporto fra partecipazione e diserzione, sforzandosi di stimolare scenari di superamento del capitalismo digitale malgrado le difficoltà offerte da una società dove uno scenario simile appare, al momento, molto difficile da immaginare. Essa dovrà infine, lo ribadiamo, resistere. Dovrà essere disposta, cioè, a de-legittimarsi e finanche a disertarsi temporaneamente per sopravvivere alle molteplici pressioni normalizzanti che costantemente tenteranno di levigarne ed attenuarne i tratti più incompatibili con il capitalismo. Scrive Lyotrad: «ce que vous nous demandez, théoriciens, c’est que nous nous constituions en identités, en responsables (Lyotard 1974:258). Pressioni che le chiederanno dunque di allinearsi con identità teoriche previste e di approdare a

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forme che dovranno essere sì critiche, ma mai veramente offensive. Il rischio è, ancora una volta, che la teoria diventari parole pourrie, nella misura in cui essa non potrà mai essere veramente offensiva, poiché pronunciata da posizioni già disarmate, normalizzate e compatibili con il capitalismo.Auspicando la nascita di una parole résistante, ci piace concludere questo contributo riportando il seguente passaggio de La volonté de savoir; nei corpi e nelle regioni irriducibili di cui parla Foucault vorremmo vedere, malgrado i segnali ostinatamente contrari, forze ancora capaci di sovvertire l’esistente: Des grandes ruptures radicales, des partages binaires? Parfois. Mais on a affaire le plus souvent à des points de résistance mobiles et transitoires, introduisant dans une société des clivages qui se déplacent, brisant des unités et suscitant des regroupements, sillonnant les individus eux-mêmes, les découpant et les remodelant, traçant en eux, dans leur corps et dans leur âme, des régions irréductibles. […] Et c’est sans doute le codage stratégique de ces points de résistance qui rend possible une revolution (Foucault 1976:127). BibliografiaAlquati R., “Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti”, Prima parte, Quaderni Rossi, 2, 1962, Seconda parte, Quaderni Rossi, 3, 1963. Arnould J., Thompson C. J., “Consumer Culture Theory (CCT): Twenty Years of Research”, Journal of Consumer Research, 31, 4 (2005). Babbage C., On the Economy of Machinery and Manufactures, Charles Knight, London, 1832; prima trad. it. Sulla economia delle macchine e delle manifatture, G. Piatti in Vacchereccia et al., Firenze 1834. Banks J., Deuze M., “Co-Creative Labor”, The International Journal of Cultural Studies, 12 (2009), pp. 419-431. Banks J., Burgess J., Cobcroft S., Cunningham S., Hartley J., Potts J., Montgomery L., “Consumer Co-creation and situated creativity”, Industry & Innovation,15, (2008), pp.13-36. Banks J., Potts J., Hartley J., Burgess J., Cobcroft R., Cunningham S., Montgomery L., Consumer Co-creation and situated creativity, “Industry & Innovation”, n. 15, 2008, pp. 459-474. Bataille G., Introduzione a “Acéphale” n°1, 1936. Benkler Y., The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom, Yale University Press, New Haven, 2006; trad. it. La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi editore, Milano, 2007. 

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 Pasquinelli M., L’algoritmo PageRank di Google: diagramma del capitalismo cognitivo e rentier dell’intelletto comune, in Federico Chicchi e Gigi Roggero (a cura di) Sociologia del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2009. Pasquinelli M., Capitalismo macchinico e plusvalore di rete: note sull’economia politica della macchina di Turing in Id. (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombrecorte, Verona 2014. Ricciardi M., Cyberspazio e mondi virtuali, in Id. (a cura di), La rete e i luoghi, Aracne, Roma 2014. Ritzer G., Jurgenson N., “Production, Consumption, Prosumption: The nature of capitalism in the age of the digital prosumer”, Journal of Consumer Culture, 10 (2010), pp. 13-36. Roberts K., Lovemarks: The Future Beyond Brands, Powerhouse, New York, 2005. Rosen J., The People Formerly Known as the Audience, PressThink, 27 June 2006, http://archive.pressthink.org/2006/06/27/ppl_frmr.html. Shirky C., Cognitive Surplus: Creativity and Generosity in a Connected Age, Penguin Press, New York-London, 2010; trad. it. Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell'era digitale, Codice, Torino 2010. Terranova T., Red stack attack! Algoritmi, capitale e auto-mazione del comune, in M. Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre Corte, Verona, 2014. Tiqqun, Une métaphysique critique pourrait naître comme science des dispositifs… in Contributions à la guerre en cours, Éditions La Fabrique, Paris 2009. Originariamente in “Tiqqun”, Organe conscient du Parti Imaginaire. Exercices de Métaphysique Critique (“Tiqqun 1”), 1999. Tiqqun, L’hypothèse cybernétique, in Tiqqun, Organe de liason au sein du Parti Imaginaire, Zone d‘Opacité Offensive, (Tiqqun 2), 2001. Tiqqun, Introduction à la guerre civile, in in Tiqqun, Organe de liason au sein du Parti Imaginaire, Zone d‘Opacité Offensive, (Tiqqun 2), 2001. Toffler A., The Third Wave, Morrow, New York, 1980; trad. it.La terza ondata, Sperling & Kupfer, Milano, 1987. 

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Vercellone C., Dalla sussunzione formale al general intellect: Elementi per una lettura marxiana dell’ipotesi del capitalismo cognitivo. Atti del workshop internazionale Lavoro cognitivo e produzione immateriale: Quali prospettive per la teoria del valore?, Università di Pavia, Luglio 2005. 

[1]Non si vuole qui suggerire un’idea deterministica di “cognitivizzazione” lineare e unidirezionale del capitalismo. Al contrario, si tratta, più verosimilimente, di una transizione dinamicamente reversibile che apre ad una fase dell’organizzazione capitalistica dove le macchine e il lavoro di fabbrica continuano a proliferare accanto e in seno alle nuove forme di produzione e di divisione del lavoro. A tal proposito si vedano Boutang 2002;2007 e Vercellone 2005.[2] È interessante notare come già i pionieri della cibernetica come Charles Babbage sostenessero che la macchina si installa sempre su una precedente forma di divisione del lavoro (Babbage1832).[3] La definizione di macchina qui è assunta nel senso indicato da Guattari in un capitolo illuminante di Caosmosi dedicato al concetto di eterogenesi macchinica dove viene riassunto il rapporto tra i vari livelli macchinici e la natura dinamica e trasversale della macchina astratta. In quel capitolo, il filosofo francese puntualizza come il concetto di macchina si sviluppi ben al di là della macchina tecnica e come si ponga «la necessità di allargare i limiti della macchina strictu sensu all’insieme funzionale che la associa all’uomo». Ciò implica la presa in conto di multiple componenti macchiniche delle quali qui si riporta un breve elenco: componenti materiali ed energetiche, componenti semiotiche, diagrammatiche ed algoritmiche, componenti di organi, influssi ed umori del corpo umano; informazioni e rappresentazioni mentali individuali e collettive (Guattari 1992: 39-59).[4] È il caso dell’invisibile algoritmo Google’s PageRank che, secondo Pasquinelli, funzionando alla stregua di una rendita online per l’estrazione e l’accumulazione di plusvalore, si colloca alla base del monopolio e del potere di Google Pasquinelli 2009 e 2014.[5] La definizione di macchina è qui assunta nel senso indicato da Guattari in un capitolo illuminante di Caosmosi dedicato al concetto di eterogenesi macchinica dove viene riassunto il rapporto tra i vari livelli macchinici e la natura dinamica e trasversale della macchina astratta. In quel capitolo, il filosofo francese puntualizza come il concetto di macchina si sviluppi ben al di là della macchina tecnica e come si ponga «la necessità di allargare i limiti della macchina strictu sensu all’insieme funzionale che la associa all’uomo». Ciò implica la presa in conto di multiple componenti macchiniche delle quali qui si riporta un breve elenco: componenti materiali ed energetiche, componenti semiotiche, diagrammatiche ed algoritmiche, componenti di organi, influssi ed umori del corpo umano; informazioni e rappresentazioni mentali individuali e collettive (Guattari 1992:39-59).[6]  Sul rapporto tra crisi del capitalismo e cibernetica gli autori di "Tiqqun" scrivono: «Les crises du capitalisme telles que les comprenait Marx viennent

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toujours d’une désarticulation entre le temps de la conquête et le temps de la reproduction. La fonction de la cybernétique est d’éviter ces crises en assurant la coordination entre “l’avant-train” et “l’arrière-train” du Capital. Son développement est une réponse endogène apportée au problème posé au capitalisme, qui est de se développer sans déséquilibres fatals» ("Tiqqun" 2001:261).[7] Si veda a tal proposito Guattari 1980.

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 Augmented Reality e Virtual Reality

  Augmented Reality e Virtual Realityesperienze e hardware all'orizzonte del consumo di massa

 Claudio Macaluso

  

 Abstract Le aspettative nei confronti di VR e AR crescono in maniera direttamente proporzionale all'attenzione loro riservata da media, investitori, produttori di contenuti e dispositivi. Ad oggi è possibile asserire con assoluta certezza che queste tecnologie saranno le indiscusse protagoniste dell'innovazione futura? Il saggio che segue tenta di fornire una risposta a questa domanda, passando inoltre in rassegna i campi dell'advertising, del cinema e del gaming, analizzando i contributi che può fornire l'esperienza maturata in questi settori e interrogandosi sul modo in cui possano combinarsi nell'ambiente virtuale e aumentato. Progetti e sperimentazioni in questa direzione sono già in corso, ma per il loro sviluppo esistono elementi indispensabili: sono gli HMD, a cui è dedicata l'ultima parte della ricerca. Keywords: Immersività;   Augmented Reality; Virtual Reality; Advertising; Gaming  Negli ultimi anni quello dell'innovazione tecnologica è diventato un argomento diffusamente dibattuto, sfiorando in alcuni casi la vera ossessione. Ma oggi è necessario riflettere concretamente sul concetto stesso di innovazione: quando si ha a che fare con un'effettiva rottura degli schemi, con un tangibile e lampante

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mutamento di vecchie abitudini? Sarà forse un approccio troppo semplicistico, ma l'impressione è che l'innovazione sia da ricercare in un cambiamento più radicale piuttosto che nell'ultimo smartphone disponibile nei negozi o nel notebook che può diventare tablet. Questa considerazione va estesa anche al di là del panorama tecnologico: i pubblicitari, ad esempio, si impegnano a creare slogan, spot e contenuti virali per campagne sempre più efficaci; le aziende d'informatica e le società di elettronica competono continuamente per progettare e produrre hardware capaci di imporsi sugli altri nel mercato; i grandi broadcaster e le piattaforme online sono alla costante ricerca di contenuti e serie esclusive in grado di sottrarre quote di utenti ai rivali. Queste schermaglie sono destinate a cambiare, o se non altro, a manifestarsi in un “campo di battaglia” sensibilmente diverso. Ed è in questa prospettiva che forse risiede la vera innovazione, cioè nel modo in cui tutti i prodotti sopracitati vengono realizzati e poi fruiti: il cambiamento passa da quella che Cristian Contini ed Alberto Mori chiamano “variazione di paradigma”, che Virtual Reality e Augmented Reality (da ora indicate rispettivamente con le sigle VR e AR) promettono di portare finalmente a compimento. Considerando i consistenti investimenti in corso e le conseguenti aspettative che compagnie e utenti nutrono nei confronti di VR e AR, è importante capire in che modo queste due tecnologie possano incidere su advertising, cinema e gaming e come questi tre ambiti di applicazione possano combinarsi tra loro nel nuovo ambiente virtuale e aumentato.  

 Nel campo della pubblicità è ormai diventata consuetudine promuovere esperienze legate ad un brand piuttosto che semplici prodotti. Non basta più mettere in gioco il valore intrinseco del bene da vendere: è importante instillare nel consumatore curiosità, entusiasmo e infine appagamento, e quale modo migliore se non quello di espandere e “aumentare” l'esperienza di conoscenza e avvicinamento ad un prodotto grazie a contenuti visualizzabili digitalmente in tre dimensioni? È evidente l'interesse che ruota attorno a VR e AR: basta

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considerare quanti consumatori accorrono ad eventi in cui è possibile testare i nuovi HMD. Forse le aziende che per prime riusciranno efficacemente a far trasmigrare questo entusiasmo, questo “wow effect”, dall'esperienza virtuale ed aumentata al loro prodotto, potranno contare su un vantaggio (se non altro temporaneo) sui concorrenti. Da non sottovalutare è anche la possibilità per i pubblicitari, una volta che nuovi device come Samsung Gear Vr, Morpheus e HoloLens (o prodotti affini) saranno immessi e si consolideranno nel mercato, di inserirsi in forma rinnovata nella realtà quotidiana dei propri target di riferimento, ponendo così le basi per un rinnovato rapporto fra brand, advertising e consumatori. Poiché uno degli obiettivi di fondo di questo articolo è tenere sempre ben distante la cieca esaltazione delle nuove tecnologie, che da sole non sono in grado di dar luogo ad un autentico progresso, bisogna considerare la strada da intrapendere, tutt'altro che spianata e sicura: sarà necessario impegnarsi, nel breve periodo, a non rendere eccessivamente invadenti ed eccedenti i contenuti pubblicitari. Azzardando un paragone, sarebbe come disturbare un cliente mentre guida la sua automobile appena uscito dal concessionario, rovinando di fatto la sua esperienza. L'obiettivo dovrà essere quello di trovare, prestando le dovute cautele e, purtroppo, anche attraverso prove e fallimenti, l'equilibrio giusto tra nuovi contenuti virtuali/aumentati e inserzioni pubblicitarie, per non far associare al prodotto sentimenti di fastidio e avversione, piuttosto che curiosità e attrazione. Nel lungo periodo, una volta esaurito il senso di meraviglia, quando VR e AR smetteranno di essere l'eccitante novità e diventeranno plausibilmente l'interfaccia privilegiata per accedere alla maggior parte di contenuti digitali testuali e audiovisivi, sarà importante passare ad una fase sicuramente più faticosa; in questo stadio a fare la differenza sarà la capacità di rendere il consumatore autore di un proprio percorso narrativo e padrone dell'esperienza, creando script ispirati e validi piuttosto che limitandosi a convertire e trasferire la pubblicità classica sugli ultimi supporti rilasciati.  

 

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É impossibile discutere di VR e AR non dedicando il giusto spazio all'industria dell'intrattenimento. Senza nulla togliere alle potenzialità che queste due tecnologie esprimono con sperimentazioni in diversi campi (arte, turismo, apprendimento in età scolare, formazione del personale, addestramento militare, medicina), a destare più interesse è spesso la loro utilizzazione in ambiti come cinema, gaming e series. Prima ancora di poter ragionare attorno a questo tema, si incappa in uno scontro con una difficoltà imprevista: persino trovare una moderna definizione di cinema si rivela un compito non privo di insidie. Identificare il cinema come l'esperienza di fruizione passiva di un film in una sala buia è ad oggi ancora corretto, ma senza dubbio limitante. Il corpo può infatti affrancarsi dall'immobilità imposta allo spettatore passivo, senza rinunciare ad un'esperienza di tipo cinematografico. Si diffonde la figura di un utente dinamico, che sì privilegia e cerca contenuti audiovisivi in rete, ma che chiede a questi di seguirlo, di rendersi link con cui interagire facilmente. È un'esperienza ubiqua e partecipata, come quella sperimentata in progetti come The Witness e 28 Komplex, che sfruttano contenuti geolocalizzati visibili in Realtà Aumentata. Grazie allo smartphone, ad appositi marker e a sistemi di geolocalizzazione è possibile raccogliere frammenti di audiovisivo che suscitano nell'utente la sensazione di essere parte attiva della vicenda, in grado di influenzare la storia e contribuire al dipanarsi di molteplici trame. Non è un caso che entrambe le sperimentazioni siano caratterizzate da motivi ricorrenti del genere giallo (rapimenti, omicidi, complotti), naturalmente capaci di prestarsi ad una più facile creazione di uno storytelling personale. In particolare The Witness, realizzato da 13th Street Universal a Berlino nel 2010, guida i partecipanti attraverso la città, nel tentativo di salvare una ragazza rapita dalla mafia russa. Una volta inquadrato il primo marker, un video sullo schermo del device mostra la sequenza del rapimento e l'utente può così cominciare ad investigare sul luogo della scomparsa, cercando l'indizio che lo porti al prossimo luogo. In base all'abilità, all'impegno personale e alle decisioni prese nel corso di questa esperienza aumentata, si può salvare la ragazza, diventare una vittima della mafia, arrivare troppo tardi per scongiurare l'omicidio ecc. 28 Komplex è stato invece realizzato dal Komplex Live Cinema Group, collettivo formato da Mariano Equizzi, Paolo Bigazzi e Luca Liggio, e presentato allo Share Festival di Torino nel 2013. Le ossessioni che ruotano attorno la vicenda, come il controllo della mente, i fili, le intelligenze artificiali e gli organismi simbionti, forniscono un'intrigante rete di contenuti narrativi per guidare lo spettatore-utente attraverso i possibili percorsi disponibili, composti da luoghi, oggetti, frammenti di audiovisivo, indizi, tutti collegati fra loro grazie allo spazio aumentato. Il Komplex Live Cinema Group ha realizzato altri contenuti per esperienze in AR, come 28 Komplex GTA ad Athens (USA) nel marzo del 2015 ed il più recente Quantum People Affair dello scorso novembre al Festival IMMaginario di Perugia. Gli esempi fin qui nominati favoriscono il collegamento ad uno spunto interessante: l'attitudine del gaming ad influenzare altre forme di intrattenimento. Che si vestano i panni del consumatore, dello spettatore o dell'utente, rimane crescente la richiesta di personalizzazione, partecipazione ed interattività: le dinamiche tipiche dei videogame, fin dalle origini, hanno per natura puntato al coinvolgimento

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dell'utilizzatore. I frammenti di audiovisivo da raccogliere durante le esperienze in AR condividono il ruolo che item ed upgrade ricoprono nel mondo del gaming: sono elementi che arricchiscono l'esperienza di gioco, accrescono le conoscenze e soprattutto permettono il passaggio ai livelli successivi, conferendo al giocatore una sensazione di adesione e appagamento difficile da ottenere con altre modalità. A certificare il considerevole apprezzamento e successo di cui il gaming gode intervengono le cifre raggiunte dal settore: con un fatturato che supera gli 80 bilioni di dollari guadagnati nel 2014 (oltre i 100, considerando i profitti dei mobile games), può essere considerato la punta di diamante dell'industria dell'intrattenimento. I visori VR sembrano designati a costituire il futuro nel settore dell'industria del gaming: si potrebbe dire altrettanto per gli altri tipi di audiovisivo? Dichiarazioni come quella della 20th Century Fox fanno ben sperare: la compagnia ha dichiarato di voler rendere disponibili già oltre 100 film al lancio del dispositivo Oculus VR. L'intento, ben diverso da quello perseguito da esperimenti come 28 Komplex, è quello di traghettare le tecnologie VR e AR verso il consumo di massa. Dal momento che a venir messa in discussione è l'entità dello schermo come interfaccia e l'esperienza tradizionale legata a quest'ultimo, è logico pensare che la nuova modalità di fruizione possa collidere con un altro fenomeno moderno: le webserie.  

  D'altronde video di breve durata potrebbero essere più adatti alle attuali caratteristiche degli HMD: l'utilizzatore infatti è ancora troppo incline a “confondersi” e a provare una certa sensazione di smarrimento nello spazio aumentato e virtuale, poiché non è ancora abituato a riconoscerlo e a esplorarlo con naturalezza. Questa ed altre osservazioni costituiscono la base teorica della

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webserie The Bomb, visibile in Realtà Virtuale grazie alla tecnologia Oculus implementata nel Samsung Gear VR. Sviluppata da Brandon Box, società milanese di transmedia asdvertising, è stata presentata per la prima volta lo scorso settembre in occasione del Roma Web Fest. Con una visuale in soggettiva e in un ambiente ricostruito digitalmente in 3D, lo spettatore vivrà l'esperienza di un artificiere in una missione di salvataggio di ostaggi. Altro esempio simile di webserie è My 360, lanciata da Samsung per la piattaforma Milk VR. Ogni episodio della serie, creata in collaborazione con lo studio di intrattenimento Reel FX e con la compagnia di produzione Matador, introduce lo spettatore all'interno di scenari quotidiani, lontani dalla luce della notorietà, di alcune celebrità.The Witness, 28 Komplex, The Bomb, My 360: appare secondario il fatto che usino la VR o l'AR, tecnologie che fin dalle origini tendono a confondersi e che peraltro potrebbero combinarsi nel prossimo futuro, considerato quanto siano già affini. Quello che interessa è che tutti gli sforzi puntino a rimodulare il concetto stesso di intrattenimento e in generale di fruizione di materiale audiovisivo: l'immersività è solo una caratteristica di superficie. Uno dei possibili centri dello sviluppo futuro è l'ibridazione di advertising, cinema, gaming, webserie, ovvero la graduale scomparsa dei loro confini ben delineati. In un'intervista recentemente rilasciata a EmergingSeries, Guido Geminiani e Paolo Bernardelli, due delle menti dietro a The Bomb, hanno riconosciuto il valore del proprio lavoro e confermato la tendenza di brand ed agenzie ad investire nei mondi immersivi della Realtà Virtuale. Le società, che spesso ricoprono il ruolo di finanziatore, chiedono l'assegnazione di spazi per il prodotto; il cinema, che per tutto il XX secolo ha regolamentato le modalità di interazione uomo-schermo, non può essere ignorato nel processo di creazione dei nuovi contenuti e di definizione del linguaggio; il gaming fornisce un patrimonio di conoscenze e di pratiche utili per migliorare l'interattività. Tutti questi elementi possono combinarsi in chiave webseriale e anche in Realtà Virtuale: con annunci prima o durante lo streaming video (come accade su Youtube) e pratiche di product placement per accontentare gli investitori; con tecniche e linguaggi ereditati dal mondo del cinema, ma che tuttavia non riescono a vincolare a regole fisse e precise l'audiovisivo in rete, influenzato da user generated content, diffusione virale e flessibilità; con pratiche attinte a piene mani dal mondo dei videogame per favorire l'engagement. Lo scenario che si profila è senza dubbio ricco e promettente, ma l'attuale fase di sviluppo non è altro che lo stadio embrionale della ricerca: manca una teoria univoca e condivisa per la creazione di contenuti virtuali e aumentati, permane poca chiarezza sul linguaggio specifico da usare, c'è ancora troppa distanza fra la risoluzione su schermo e quella degli HMD.Proprio sui device si concentra l'ultima parte dell'indagine: gli hardware il cui ingresso sul mercato potrà decretare i primi passi verso un reale consumo di massa. Ricerche e progetti muovono in direzione del camouflage degli schermi e del wearable computing. Lo schermo tradizionale, quello del cinema, del PC e degli smartphone, che regola dalla fine del XIX secolo la visione e l'interazione, sembra destinato a perdere le sue qualità materiali, le cornici, ad essere integrato prima in superfici di vetro e poi, all'estremo, a scomparire forse del tutto. È

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opportuno partire da chi ha già debuttato: il Samsung Gear VR che utilizza la tecnologia Oculus. Il prodotto della casa sudcoreana offre l'accesso alla Realtà Virtuale inserendo in uno specifico scomparto un dispositivo compatibile (un Galaxy S6 o un Galaxy Note5) che funge da schermo e processore, mentre l'HMD in sé contiene le lenti per regolare il campo visivo e sensori fondamentali (giroscopio, accelerometro, sensore di prossimità). Uscito lo scorso 20 novembre, può contare su un'offerta di contenuti sullo store ancora limitata: applicazioni e videogame, immagini da visualizzare a 360° e un salotto virtuale in 3D in cui poter vedere serie TV e film offerte da Netflix. Per quanto riguarda i prodotti ancora in attesa di una precisa data di rilascio, nel campo della VR non si può non menzionare il progetto Morpheus di Sony. Pensato appositamente per supportare l'esperienza di gaming offerta dalla Playstation 4, è stato mostrato e provato alla Game Developers Conference a San Francisco nel marzo di quest'anno. Emerge una prospettiva interessante: considerato il numero di console vendute (le vendite hanno recentemente superato le 29 milioni di unità), se il dispositivo otterrà consensi e se anche solo una frazione di consumatori propenderà all'acquisto, avremmo di fronte il primo visore in realtà virtuale a raggiungere una diffusione degna di nota nell'intrattenimento casalingo. Diverse sono le vicende che attualmente vive un dispositivo atteso da diversi anni: i Google Glass. Oggetto di discussione fin dal 2012, il progetto ha vissuto diversi periodi: dopo la fase iniziale di design e montaggio, il prototipo è diventato disponibile per gli sviluppatori nell'aprile del 2013, e l'anno successivo è stato messo in vendita per il pubblico al prezzo di $1500, per un periodo di tempo limitato e fino ad esaurimento scorte. Gli anni fin qui vissuti dai ricercatori Google al lavoro sul dispositivo, considerati da alcuni addetti del settore come un vero e proprio fallimento, sono culminati in una decisa retromarcia.  

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    A febbraio del 2015 il testimone è passato a Tony Fadell, ex-progettista della Apple. Anche alla luce del recente passato della ricerca, reputato pressochè inconcludente, sarà difficile rivedere il prodotto prima che venga ritenuto perfetto e a prova di critiche. A causa delle sperimentazioni ancora in corso attorno al controllo vocale e gestuale, oltre che per problemi inerenti la tutela della privacy, e ritenendo Google una compagnia solitamente attenta allo stile e al gradimento dei consumatori, permane una certa prudenza (che potrebbe diventare ritardo in base alle azioni future dei competitor) in merito alla grande distribuzione del dispositivo. Nella frontiera del wearable computing non manca Microsoft, con il suo progetto HoloLens. HoloLens consentirà all'utilizzatore di visualizzare ologrammi in alta definizione, seguendo lo stesso principio dell'AR di arricchimento ed espansione dello spazio reale con l'immissione di elementi digitali. È un prototipo di holographic computing, che promette di mutare radicalmente il modo di telecomunicare, apprendere, progettare e visualizzare contenuti. Sono state già annunciate e mostrate alcune applicazioni come HoloStudio (software di progettazione in 3D per disegnare oggetti da realizzare in un secondo momento con stampanti 3D), una versione del popolare videogame Minecraft ed OnSight, in collaborazione con la NASA, per dare la possibilità agli scienziati di visualizzare simulazioni di Marte e perfezionare i metodi di esplorazione dello spazio. Nella prima metà del 2016 è prevista la commercializzazione della versione per sviluppatori, mentre non è attualmente all'orizzonte l'annuncio di una data per la vendita al pubblico. Queste visioni estreme del futuro fin qui mostrate possono essere considerate gli ultimi stadi della rivoluzione dell'interfaccia uomo-computer, quasi profetizzata da Ivan Sutherland nel saggio The Ultimate Display del lontano 1965. Un display definitivo, che Sutherland definisce come una stanza dentro la quale il computer può controllare l'esistenza della materia. Una sedia visualizzata in una stanza simile sarebbe abbastanza valida da poter offrire un posto a sedere. […] Con la giusta programmazione un display del genere potrebbe letteralmente essere il Paese delle Meraviglie in cui Alice ha camminato. Trovare un'opportuna conclusione di quanto è stato detto in precedenza, con ogni probabilità, non è possibile. Provare a concepire una fine per un discorso come quello che ruota attorno alla tecnologia moderna, perennemente col cartello “lavori in corso” sulla porta, sarebbe pretenzioso. Può essere affascinante sedersi di fronte ad un'immaginaria sfera di cristallo, delineando un futuro roseo per questa tecnologia, evidenziando i limiti di quell'altra, profetizzando successi o fallimenti. Vicende come quella dei Google Glass, tanto celebrati, poi apparentemente scomparsi nell'oblio e infine ripescati in fase di rinnovamento e quasi in conclave, lontano dagli occhi dei curiosi, fanno certamente riflettere.

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Non bisogna fraintendere: è più che lecito aspettarsi un futuro da protagoniste di VR e AR, diversamente non saremmo testimoni di un numero così ragguardevole di investimenti e ricerche. Tuttavia esperienze e studi sulle innovazioni scientifico-tecnologiche costituiscono un monito che impedisce di vedere più al di là del nostro naso. Non è possibile certificare un cambiamento tecnologico basandosi unicamente sulla sua logica interna o sulle prime apprezzabili sperimentazioni (che poi, in fin dei conti, è tutto ciò con cui si ha concretamente a che fare allo stato attuale). Si pensi ancora una volta al cinema: è nato come una soluzione per la scomposizione del movimento, e ha creato, nei primi spettacoli, un effetto di illusione e meraviglia (sentimenti che accompagnano anche le manifestazioni di VR e AR). Nel corso del ventesimo secolo il cinema si è poi affermato come mezzo di comunicazione di massa, la sua sala è diventata un luogo di aggregazione sociale e ha posto le basi delle modalità di interazione con lo schermo e oggi costituisce il più grande database di audiovisivo e di immaginari. Un destino impensabile per “un'invenzione senza avvenire”, almeno attenendosi alla dichiarazione di uno dei suoi creatori, Louis Lumière. All'alba di queste nuove tecnologie non si possono avere archetipi cui aggrapparsi o certezze assolute, se non una: l'impegno e l'attenzione posta nei lavori di ricerca e creazione dei contenuti potranno fare la differenza, così come sarà determinante il modo in cui i consumatori accoglieranno, attraverso l'uso personale e la creazione di testi originali, le innovazioni loro offerte.  Bibliografia Arcagni Simone, Cinematic Augmented Experience: 28 Komplex, in «Screencity Journal», n.3, 2013.Arcagni Simone, Screen City, Bulzoni, Roma 2012.Communication Strategies Lab, Realtà Aumentate. Esperienze, strategie e contenuti per l’Augmented Reality, Apogeo, Milano 2013.Kipper Gregory e Rampolla Joseph, Augmented Reality – An Emerging Technologies Guide to AR, Syngress, Waltham 2013.          

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 Transmedia Storytelling

  Transmedia StorytellingNarrazioni oltre lo schermo

 Stefania Ingrassia

  

Abstract Il presente contributo intende esplorare il fenomeno del transmedia storytelling attraverso l’analisi di progetti cinematografici e webserie transmediali, per evidenziare come questo nuovo strumento di narrazione, avvalendosi di diversi medium, consenta di espandere le possibilità del racconto e di fruire i testi in un modo più autonomo e più vicino al nostro modo di essere e di vivere. Ciò determina un aumento del coinvolgimento e della partecipazione del pubblico riscontrabile anche negli Alternate Reality Game, forma di narrazione interattiva che utilizza il mondo reale come piattaforma e che combinando diverse esperienze online e offline consente allo spettatore di immergersi completamente nella narrazione. Lo studio offre un’istantanea di un panorama mediale contemporaneo caratterizzato da evoluzioni e forti cambiamenti, le cui parole chiave sono partecipazione e immersione. I mutamenti più radicali riguardano infatti gli spettatori, il cui consumo da individuale diventa sempre più collettivo e partecipativo. Parole Chiave: Transmedia; Interattività; Gaming; Alternate Reality Game; Partecipazione. Transmedia storytelling è il modo di narrare una singola storia attraverso più mezzi di comunicazione, ciascuno dei quali applica le proprie specificità alla narrazione e offre all’audience un’esperienza unica che può essere ampliata da altri media. Ogni testo arricchisce la narrazione e consente di accedervi in maniera diversa: in questo modo le possibilità del racconto si espandono e il

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pubblico si trova immerso in un universo narrativo che gli offre nuovi livelli di comprensione e conoscenza.La componente partecipativa ha un ruolo fondamentale nella narrazione transmediale, la fruizione di un contenuto tramite diverse piattaforme multimediali prevede un maggior coinvolgimento e una maggior partecipazione dell’utente, che da semplice spettatore passivo viene coinvolto a partecipare in maniera attiva alla narrazione: sia attraverso le proprie produzioni che contribuiscono all’espansione della narrazione, sia interagendo con l’opera e con gli altri spettatori, esplorando ogni testo per scoprire ulteriori dettagli che lo aiutino a conoscere meglio il racconto. Il transmedia storytelling combinandosi con il cinema e con i nuovi audiovisivi, cambia le modalità di fruizione di una storia e offre infinite e nuove possibilità di coinvolgere il pubblico e soprattutto narrare storie.Il termine "transmedia" viene coniato nel 1991 da Marsha Kinder, ricercatrice americana e docente di Studi Critici al USC, che nel suo libro Playing with Power in Movies, Television, and Videogames: From Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles  utilizza il termine per descrivere una sovrastruttura di intrattenimento emergente.La studiosa, invece di usare il termine già noto di convergenza, usa quello di transmedia perché a suo parere evoca maggiormente il movimento fluido e dinamico attraverso i media. In Playing with Power ha collegato così il termine transmedia a un nuovo tipo di soggettività moderna [1]Ma è dal 1999 che si comincia a parlare davvero di transmedia storytelling anche a seguito di importanti conferenze riguardanti il futuro della narrazione come Interactive Frictions organizzato dalla stessa Marsha Kinder la quale si trovò a dirigere un progetto di ricerca che esplorava la relazione tra cinema e nuovi media. La studiosa vide così nel transmedia un’opportunità per combinare il potere coinvolgente del cinema con i nuovi media digitali [2].Il 1999 è anche l’anno in cui il fenomeno The Blair Witch Project (The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair, 1999) di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez impazza sulla rete.Questo film, rappresenta un progetto cinematografico transmediale di grande successo, il quale mescolando realtà e finzione, giocando sull’ambiguità e avvalendosi di più piattaforme mediali è riuscito a coinvolgere un enorme numero di spettatori facendoli immergere completamente in un universo narrativo da brividi.  

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  Gli spettatori sono venuti a conoscenza dell’esistenza della strega di Blair e della scomparsa di tre studenti di cinema in una foresta lì vicino, tramite un sito web. In questo sito vi erano rapporti di polizia, il manifesto che annuncia la scomparsa dei ragazzi, estratti da interviste con amici e parenti delle vittime o da pagine del diario di uno dei ragazzi. The Blair Witch Project è il montaggio del materiale ritrovato un anno dopo dalla scomparsa dei ragazzi, contenente riprese da loro effettuate nei giorni che ne precedono la sparizione. I tre stavano girando un documentario che indagava sulla leggenda della strega di Blair e per farlo, si sono recati proprio nel bosco in cui sono scomparsi dei bambini nonché luogo in cui la gente crede si trovi il nascondiglio della strega.L’intento è quello di instillare nel pubblico il dubbio e la paura che il film sia in realtà il documentario di un fatto realmente accaduto e non semplicemente frutto di una finzione. Il film appartiene infatti al genere mockumentary, che deriva dall’unione di due parole inglesi mock e documentary, ossia falso documentario; la tecnica qui utilizzata è quella del found footage, cioè del video ritrovato. I due registi non sono iniziatori del genere, uno dei primi film fu The War Game (id., 1965) di Peter Watkins.The Blair Witch Project è stato uno dei primi film a usare un sito web come strumento narrativo. Il sito è stato anche il principale strumento di promozione del film, esso ha registrato più di 75 milioni di visite, con fino a 3 milioni di connessioni al giorno. Veniva aggiornato ogni settimana, inserendo foto della

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scena del crimine, informazioni sui ragazzi, interviste, documentazioni di avvistamenti di streghe, e arricchito di ulteriori dettagli che hanno contribuito a espandere e rendere sempre più realistico il mondo del film. Già da un anno prima della sua uscita, i fan erano tantissimi [3].Ruolo decisivo è stato giocato infatti proprio dai fan, i quali incuriositi dalla leggenda e desiderosi di risolvere il caso, hanno creato in uno spazio apposito a loro dedicato all’interno del sito, delle comunità animate da discussioni e indagini per ricostruire i fatti e decifrare il mistero. Il prodotto ha avuto molti più fan nella rete che nelle sale cinematografiche (Jenkins, 2007:90) .Dopo l’uscita del film sono stati pubblicati una serie di otto libri, una serie di quattro fumetti, un fotoromanzo, una trilogia di videogiochi per computer e tanto altro che ha contribuito ad ampliare notevolmente la conoscenza degli spettatori di quel mondo fittizio e ha consentito loro di fruire in maniera autonoma della narrazione. Un anno dopo dall’uscita del film è stato prodotto il sequel: Book of Shadows: Blair Witch 2 (Il libro segreto delle streghe – Blair Witch 2, 2000) di Joe Berlinger, che però è stato accolto male sia dalla critica che dai fan. I registi del primo episodio hanno dichiarato invece che probabilmente entro il 2017 potrebbe iniziare la produzione di The Blair Witch Project 3.Dello stesso anno è The Matrix (Matrix, 1999) di Lana e Andy Wachowski, che risulta essere il primo vero progetto concepito secondo logiche transmediali. L’intento dei registi è infatti quello di narrare e ampliare la storia di Matrix su più mezzi di comunicazione in modo da coinvolgere il più possibile il pubblico fornendogli un’esperienza che deriva dalla somma di tutti i testi.Il film narra la storia di Neo, un hacker che scopre che il mondo in cui vive non è altro che una realtà simulata creata dalle macchine: Matrix. Veniamo così catapultati in un mondo dominato dalle macchine, in cui gli esseri umani sono intrappolati dentro dei baccelli e sono fonte di energia delle macchine stesse. Il protagonista entra nel movimento di resistenza di Zion e viene addestrato a combattere, perché Neo è l’eletto, è colui che concluderà la guerra tra uomini e macchine.A Matrix seguono i sequel The Matrix Reloaded (Matrix Reloaded, 2003) di Lana e Andy Wachowski e The Matrix Revolution (Matrix Revolution, 2003) di Lana e Andy Wachowski, si tratta infatti di una trilogia. I film sono accompagnati da una raccolta di nove cortometraggi d’animazione, ognuno dei quali girato da registi diversi, intitolata The Animatrix (id., 2003) di Peter Chung, Andy Jones, Yoshiaki Kawajiri, Takeshi Koike, Mahiro Maeda, Koji Morimoto, Shinichiro Watanabe. Ogni episodio è indipendente dagli altri e narra una storia diversa in cui si combinano stili e tecniche diverse; l’unica costante è il fatto che tutti sono ispirati al mondo di Matrix e ai suoi temi. Successivamente vengono prodotti una serie a fumetti The Matrix Comics, inizialmente pubblicati gratuitamente sul sito ufficiale di Matrix e in seguito pubblicati in versione cartacea con l’aggiunta di materiale inedito; e tre videogiochi: Enter the Matrix, che contiene scene inedite e narra vicende avvenute prima e durante Matrix Reloaded; The Matrix: Path of Neo, in cui il giocatore si trova nei panni del protagonista; e Matrix Online, un MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game) che è l’ufficiale continuazione della storia narrata nella trilogia.

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  Idealmente, gli utenti che insieme al film hanno guardato i cortometraggi, letto i fumetti o giocato ai videogiochi, vivono un’esperienza diversa rispetto al consumatore che ha guardato semplicemente il film in maniera passiva. L’esperienza che deriva dalla fruizione sinergica di tutti i testi è maggiore della somma delle parti (ivi,91).La narrazione quindi si dispiega contemporaneamente attraverso più media e disseminati nel film ritroviamo riferimenti ad altri testi, indizi e notizie misteriose che soltanto gli spettatori che hanno vissuto un’esperienza transmediale sono in grado di risolvere e cogliere.I fratelli Wachowski danno vita a qualcosa di nuovo, non si tratta semplicemente di collegare i testi gli uni con gli altri, ma di scrittura collaborativa alla quale partecipano insieme registi, fumettisti, animatori, disegnatori, costumisti. Ognuno di loro con il proprio stile, il proprio seguito di fan e i temi che stanno loro a cuore; l’unica condizione è quella di creare all’interno dell’universo di Matrix.Assistiamo dunque all’emergere di strutture narrative nuove; non per nulla il 1999 è stato definito da «Entertainment Weekly» “l’anno che ha cambiato il cinema” (ivi, 111). La tradizionale struttura lineare della narrazione cede il posto

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a nuovi media non-lineari, la cui frammentarietà permette di estendere le possibilità della storia e fruirla nei tempi e nei modi che si preferisce.Uno di questi nuovi tipi di struttura narrativa è l’Alternate Reality Game: una forma di narrazione ludica e interattiva che utilizza il mondo reale come piattaforma. Gioco e realtà si mescolano per dare vita a una narrazione che può avvenire attraverso media digitali e media tradizionali e che è spesso legata a enigmi e misteri che il pubblico deve risolvere. I giocatori hanno un ruolo chiave nella storia, le loro azioni sono infatti capaci di influenzarla.Gli ARG sono stati pensati per coinvolgere una pluralità di individui in un’esperienza ludica nella vita reale e nei mondi virtuali e incoraggiarne la collaborazione e la cooperazione al fine di costruire una storia collettiva, in cui per scoprire come si evolve e farla proseguire bisogna che il pubblico partecipi in maniera attiva. L’espressione Alternate Reality Game è stata coniata da Jane McGonigal, con la quale il game designer definisce «un dramma interattivo recitato online e nel mondo reale nell’arco di molte settimane o mesi, nel quale decine, centinaia, migliaia di partecipanti si riuniscono in rete, formando network sociali collaborativi e lavorando insieme alla soluzione di un enigma o di un problema che sarebbero irrisolvibili in modo individuale» (ivi, 123). Gli ARG sono una forma ancora in evoluzione, sostanzialmente si tratta di una storia che viene raccontata a pezzi sparsi che devono essere trovati e assemblati dal pubblico. Ma questo è un compito arduo per una sola persona, dunque i giocatori si avvalgono della tecnologia per lavorare insieme, gli ARG incoraggiano quindi la collaborazione, la condivisione dell’esperienza e puntano alla soluzione collettiva dei problemi.Il punto di entrata di un ARG è definito rabbit hole, può essere uno o più di uno e consiste in indizi che consentono al giocatore di partecipare alla creazione della storia. I giocatori hanno il controllo totale sui modi e i tempi di risoluzione degli enigmi, la direzione della storia e le sue caratteristiche.The Beast, progettato da Elan Lee, Sean Stewart e Jordan Weisman e creato per promuovere A.I. Artificial Intelligence (A.I. Intelligenza Artificiale, 2001) di Steven Spielberg, può essere considerato il primo ARG moderno.L’idea di creare The Beast è nata dal desiderio di Spielberg di far conoscere al pubblico il mondo del film ancor prima della sua uscita. Desiderio che Jordan Weisman è riuscito a realizzare sperimentando questo nuovo modo di narrare storie, infatti è proprio lui che propone di sfruttare internet per permettere al pubblico di fare esperienza del mondo di A. I (Rose, 2013:13). Vi sono stati tre rabbit hole che hanno consentito al pubblico di accedere al gioco. Il primo, lo si trovava nei poster promozionali del film e in alcuni trailer, in cui tra i credit, insieme al nome del regista, del produttore, degli attori e dello scenografo compariva quello di Jeanine Salla, nell’inconsueto ruolo di terapista di macchine senzienti.  

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  Successivamente, in uno dei trailer compariva un numero di telefono. Il giocatore, chiamando il numero e seguendo delle istruzioni, riceveva una mail con scritto “Jeanine is the key” e “You’ve seen her name before”. Il terzo punto di ingresso si trovava in un altro poster promozionale del film in cui vi era scritto “Evan Chan was murdered. Jeanine is the key.”Ognuno di questi rabbit hole ha incuriosito i giocatori e li ha stimolati a cercare ulteriori informazioni su Jeanine, che cercandola su Google hanno trovato il suo numero di telefono. Chiamando il numero i partecipanti apprendono che Ewan Chan è morto in un incidente con la sua barca dotata di intelligenza artificiale. La natura di queste attività viene dissimulata da quella che è definita la filosofia di base di questi giochi: “TINAG” (This Is Not A Game) in quanto non rivelarne la natura ludica determina un maggiore coinvolgimento dell’utente. Questa frase è stata utilizzata per la prima volta da Elan Lee per chiudere il trailer di A.I. Da lì, la frase è diventata un mantra tra i giocatori, che ovviamente sono perfettamente consapevoli del fatto che stanno giocando, ma interagiscono con personaggi e avvenimenti del gioco come se fossero reali (Giovagnoli, 2009: 221).Il gioco ha coinvolto migliaia di persone che desiderose di risolvere gli enigmi e investigare sulla misteriosa morte del personaggio hanno partecipato a incontri dal vivo con tutti i giocatori, scambi di email, chat, conversazioni telefoniche e hanno anche creato comunità online. Una di queste è stata Cloudmakers, un gruppo creato su Yahoo che ha avuto migliaia di membri e ha contato oltre quarantamila messaggi scambiati tra i giocatori nell’intento di discutere sugli indizi e scambiare informazioni. Gli ARG infatti, sono terreno fertile per lo sviluppo di quella che Pierre Lèvy chiama "intelligenza collettiva", ossia la possibilità che la rete offre all’uomo di collaborare e risolvere i problemi collettivamente.Gli ARG sono progettati proprio per sfruttare il problem solving collettivo attraverso meccanismi di partecipazione, fondamentali sono infatti la cooperazione e la condivisione. The Beast è durato 3 mesi, si è concluso nel Luglio del 2001 e a distanza di anni la community del gioco conta ancora quasi settemila iscritti. Questo tipo di sistema narrativo e interattivo permette all’utente non solo di conoscere il mondo di un film e di sperimentarlo, ma di immergervisi totalmente e attraverso le proprie azioni diventarne protagonista.Un ARG che ha destato particolare attenzione e che ha avuto un successo notevole è Why So Serious, avviato ben quattordici mesi prima dell’uscita di The

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Dark Knight (Il cavaliere oscuro, 2008) di Christopher Nolan nelle sale cinematografiche. Il gioco è stato progettato da 42 Entertainment per Warner Bros e ha coinvolto milioni di fan in tutto il mondo che sono stati catapultati in un'esperienza profondamente interattiva e immersiva che si svolgeva sia in rete che nel mondo reale.  

  Come The Beast, la struttura narrativa di Why So Serious è di tipo non lineare e consente all’utente di scavare sempre più a fondo in una storia scoprendo via via dettagli e curiosità; inoltre, presuppone che i partecipanti siano interconnessi tra loro in modo da poter cooperare e consentire una veloce diffusione dei messaggi. Tutto ciò è di notevole importanza perché prima la relazione che legava spettatore e testo mediale era unidirezionale, cioè era lo spettatore che fruiva il prodotto mediale; mentre adesso non solo il pubblico si immerge nel mondo della storia, ma anche la storia entra a far parte della realtà dell’utente. Quindi diventa un rapporto bidirezionale e reciproco.Questo esempio mostra una tipica caratteristica del transmedia storytelling, ossia la combinazione di esperienze diverse indipendentemente dal passaggio da un mezzo di comunicazione all’altro. Inoltre, questo tipo di narrazione consente al pubblico di appropriarsi di una storia, in un modo che i film da soli non riescono a fare, perché il centro dell’azione si sposta dallo schermo al pubblico.Il transmedia storytelling è uno strumento che ha totalmente cambiato la modalità di fruizione di una storia: questa non avviene più soltanto attraverso la visione di un film, di una webserie o la lettura di un romanzo, ma prosegue in altri mezzi di comunicazione e al di fuori di essi, si insinua nella nostra vita quotidiana.

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Cosa che succede anche in un altro caso di narrazione transmediale estremamente partecipativa: The Lizzie Bennet Diaries. Si tratta di un adattamento moderno e multipiattaforma del celebre romanzo Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen creata da Hank Green e Bernie Su, due esperti della comunicazione.La protagonista della webserie è naturalmente Elizabeth Bennet, che qui è una studentessa 24enne alle prese con gli studi e una madre che vuole maritarla troppo presto. La ragazza racconta la propria vita attraverso un vlog (video-blog) su YouTube.  

  La webserie, trasmessa su YouTube per quasi un anno (da aprile 2012 a marzo 2013), è composta da 100 episodi di circa 5 minuti ciascuno con cadenza settimanale. Oltre ai vlog principali, quelli della protagonista, si snodano altri video di personaggi secondari che non solo ampliano la narrazione, ma la integrano e sono funzionali alla trama: consentono infatti di seguire altre vicende che si verificano contestualmente e parallelamente alla storia principale e offrono la possibilità al pubblico di fruire una stessa narrazione da punti di vista differenti. Molto interessante proprio perché al pubblico piace avere la possibilità di scegliere il punto di vista da assumere nella fruizione di un contenuto che passa attraverso diversi mezzi di comunicazione.  

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  Contemporaneamente, i personaggi sono presenti su diversi social network e interagiscono tra loro e con il pubblico rivelando dettagli e prospettive che spesso non sono presenti nei video della protagonista. Tutto ciò non solo ha reso molto più verosimile la narrazione dandole un senso di immediatezza, ma ha

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anche consentito di riempire i momenti di attesa tra una puntata e l’altra facendo proseguire la narrazione in altri modi e in altri medium, lì dove stanno gli spettatori.Un altro elemento che ha contribuito a far aumentare la partecipazione e l’interazione con pubblico è stata la pubblicazione di una playlist di dieci video (Questions and Answers) in cui la protagonista, Lizzie, spesso insieme ad altri personaggi, risponde a tutte le domande che le sono rivolte dai fan per mezzo dei social (Twitter, YouTube, Tumblr ecc.).Alcune volte si tratta di semplici curiosità, ma molto spesso queste risposte si rivelano utili per la prosecuzione del racconto; inoltre permettono allo spettatore di conoscere meglio i personaggi della storia: il loro carattere, le proprie idee, sogni, aspettative, desideri.In questo modo il pubblico si immerge sempre di più nel mondo della storia e vive la narrazione in maniera molto più attiva, poichè bisogna passare da un medium all’altro per avere un’esperienza di fruizione sempre più completa e reperire quelle informazioni in più che portano lo spettatore a rivedere la narrazione nel suo complesso.La webserie è riuscita a coinvolgere milioni di fan, gli LBD-addicted, che hanno formato un vero e proprio fandom. In Italia alcune fan hanno anche condiviso materiale, informazioni e impressioni su Anobii, nella discussione The Lizzie Bennet Diaries all’interno del gruppo Jane Austen Bookworm Club [4].Siamo in presenza di una narrazione transmediale ben riuscita: e questo lo dimostrano il dialogo tra le piattaforme coinvolte e soprattutto l’esistenza di spazi creativi riservati al pubblico. Spazi che i fan hanno riempito con la loro creatività producendo un vasto materiale di immagini, fanfiction, fanmovie, fanart ecc. che con l’avvento del digitale acquisiscono una maggiore visibilità: il web è diventato infatti uno spazio partecipativo per il pubblico e dall’interazione si passa alla partecipazione e alla creazione di contenuti.Ciò che appassiona i fan nella realizzazioni di fanfiction e movie è che hanno infinite possibilità di narrazione. Ciò lascia riflettere sul fatto che il testo mediale non appartiene soltanto a chi lo produce, ma si presta alla riappropriazione da parte di chi lo consuma. Una delle caratteristiche centrali del fandom è la sua capacità di trasformare la reazione personale in interazione sociale, la cultura da spettatoriale si fa partecipativa (Jenkins, 2007: 181).The Lizzie Bennet Diaries rappresenta una vera rivoluzione della narrazione che risulta essere davvero ricca e complessa; in questo tipo di racconto la webserie si sposa perfettamente con la narrazione transmediale: si rivolge infatti a un tipo di pubblico attivo e dinamico, sia nei tempi che nelle modalità di fruizione.Un progetto sicuramente innovativo, che combina editoria, web, promozione e storytelling è rappresentato da Under - The Series di Ivan Silvestrini: la webserie uscita contemporaneamente all’omonimo romanzo Under della scrittrice Giulia Gubellini. Si tratta del primo caso editoriale in Italia di debutto in contemporanea di un romanzo in libreria e una fiction seriale online [5].  

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  La webserie arricchisce la narrazione del romanzo fornendo al pubblico un’esperienza completa, coinvolgente e soprattutto transmediale; proprio perché la narrazione migra da una piattaforma all’altra adattandosi e cambiando in base al mezzo di comunicazione su cui viene distribuita.Il mondo di Under è ambientato nel 2025 in un Italia che non si è più ripresa dalla crisi economica e in cui si è instaurato un regime totalitario con a capo un’autorità provvisoria. Per mostrare a tutti cosa accade agli oppositori e a chi non rispetta le regole, il regime trasmette in streaming h24 un reality mortale che va in onda da un bunker sulle Alpi in cui tredici ragazzi, considerati pericolosi e antisociali, sono costretti a combattere rinchiusi in una gabbia e a eliminarsi a vicenda finché non ne resterà soltanto uno.La webserie, ideata e prodotta da Anele, Rizzoli e Trilud, con la collaborazione di Sugar Music, Redigital, Jeansbox [6], è composta da dieci puntate di cinque minuti ciascuna ed è stata anche il principale strumento di promozione del romanzo, andando a sostituire il formato del booktrailer [7]. Attraverso le visione della webserie il lettore scoprirà alcuni dettagli in più rispetto a quanto rivelato nel romanzo; inoltre, crea aspettativa, suspense, curiosità e si rivolge a un pubblico diverso, un pubblico attivo che va a cercarsi contenuti, come dimostrano le circa 6.500.000 visualizzazioni   in soli 3 mesi dal lancio, rivelandosi un prodotto di successo, come dimostrano i numerosi premi ricevuti all'edizione 2014 del Roma Web Fest: Migliori scene e costumi, Miglior sound design, Miglior colonna sonora, Miglior attrice protagonista a Valentina Bellè, Miglior regia, Miglior produttore, Premio di Rai fiction [8].Il trasmedia storytelling garantisce una circolazione dei contenuti più capillare, in grado di raggiungere un pubblico eterogeneo e di soddisfare gusti e interessi diversi. Si presenta come una strategia ottimale "branded oriented" per attirare diversi tipi di consumatori offrendo i contenuti narrativi in modo differente per ciascun mezzo di comunicazione, espandendo il racconto al fine di offrire esperienze profonde che stimolino l’interesse di uno spettatore-utente. Circonda l'utente in un un mondo narrativo in continua espansione, oltre i confini di un singolo schermo e, come nel caso delle ARG, anche oltre lo schermo. Presenta

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un nuovo modello di storia e di fruizione in cui diventa centrale il ruolo dell'utente sempre più attivo medialmente per diventare protagonista delle storie che fruisce.  Bibliografia:Giovagnoli Max, Cross-media – Le nuove narrazioni, Apogeo, Milano 2009. Giovagnoli Max, Transmedia – Storytelling e comunicazione, Apogeo, Milano 2013. Jenkins Henry, Convergence Culture ̶ Where Old and New Media Collide, tr. it., Culturaconvergente, Apogeo, Milano 2007. Jenkins Henry, Fans, bloggers, and gamers: exploring participatory culture, tr. it., Fan,bloggers e videogamers – L’emergere delle culture participative nell’era digitale, FrancoAngeli, Milano 2008. Pratten Robert, Getting started in Transmedia Storytelling – A practical guide forbeginners, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2011. Rose Frank, The Art of Immersion, tr. it., Immersi nelle storie – Il mestiere di raccontarenell’era di Internet, Codice edizioni, Torino 2013.  

[1] Henry Jenkins, Wandering Through the Labyrinth: An Interview with USC’s Marsha Kinder (Part Two), in «Confessions of an Aca-Fan ̶ The Official Weblog of Henry Jenkins», 9/03/2015, http://henryjenkins.org/2015/03/wandering-through-the-labyrinth-an-interview-with-uscs-marsha-kinder-part-two.html[2] Henry Jenkins, Wandering Through the Labyrinth: An Interview with USC’s Marsha Kinder (Part One), in «Confessions of an Aca-Fan ̶ The Official Weblog of Henry Jenkins», 5/03/2015, http://henryjenkins.org/2015/03/wandering-through-the-labyrinth-an-interview-with-uscs-marsha-kinder-part-one.html[3]  Olivier Godest, The Blair Witch Project, a transmedia reference?, in «Transmedia Lab», 3/10/2011, http://www.transmedialab.org/en/the-blog-en/case-study-en/the-blair-witch-project-a-transmedia-reference/[4] Silvia Ogier, The Lizzie Bennet Diaries – Guida per i Janeites italiani, in «Jane Austen Society of Italy», 01/04/2013, http://www.jasit.it/the-lizzie-bennet-diaries-breve-guida-per-i-janeites-italiani/

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[5]  Under the series, fenomeno sul web, in «Ansa.it», 26/06/2014, http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2014/06/26/under-the-series-fenomeno-sul-web_5cb9ec65-0982-4eb8-8f03-0ade2658e359.html[6] “Under”, il gioco mortale dal libro si fa subito web serie, in «La Stampa», 25/06/2014, http://www.lastampa.it/2014/06/25/spettacoli/under-il-gioco-mortale-dal-libro-si-fa-subito-web-serie-FsLySSzlR6AYIHnOWQA2EM/pagina.html[7] Chiara Bressa, Under The Series: intervista a Ivan Silvestrini, regista della webserie tratta dal nuovo romanzo di Giulia Gubellini, in «World Wide Webserie», 23/06/2014, http://worldwidewebserienews.blogspot.it/2014/06/under-series-in-arrivo-la-webserie-di-Ivan-Silvestrini-tratta-dal-nuovo-romanzo-di-Giulia-Gubellini.html[8]   Laura De Rosa, Under The Series conquista il Roma Web Fest aggiudicandosi 7 premi, in «Nanopress», 30/09/2014, http://www.nanopress.it/spettacoli/2014/09/30/under-the-series-conquista-il-roma-web-fest-aggiudicandosi-7-premi/29715/

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 Clip, demo, game

  Clip, demo, gameElementi di continuità e rottura

tra videoclip interattivi e tradizionali 

Raffaele Pavoni  

Abstract Il 2011 ha visto la comparsa sul web dei cosiddetti videoclip interattivi, forme audiovisive ibride che, dal punto di vista della sociologia dei media, lanciano complesse sfide interpretative. A cambiare natura è infatti, prima ancora che il prodotto finale, il framework istituzionale, essendo i videoclip interattivi generati da un campo di forze che è, nei fatti, un combinato di quelli del videogame e del videoclip tradizionale: spettatori (o meglio, utenti), videomaker (o meglio, media artists), etichette discografiche e software house. La convergenza dei media, quindi, sembra portare non solo a una convergenza degli interessi in gioco, ma anche e soprattutto a una convergenza metodologica. Focalizzandoci sui Chrome Experiments Interactive Music Videos, cercheremo qui di proporre uno schema interpretativo che tenga conto delle singole istanze produttive, prendendo le mosse da una semplice domanda: a chi interessa, oggi, il videoclip interattivo? Keywords Videoclip; Interattività; Google Chrome; Gamification; Software House. Non è facile affrontare l’interattività da una prospettiva storico-cronologica. Se da un lato, infatti, la tendenza è quella di vedere nell’interazione uomo-macchina una rivoluzione, se non una morte appunto, delle forme audiovisive tradizionali, dall’altro è sempre in agguato il rischio di un uso tendenzioso del termine, un pretesto per dare lustro a un nuovo che spesso di nuovo non ha nient’altro che la sua patina più esteriore. Sicuramente, come sottolinea Spanu, la condivisione di

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un codice numerico comune e nel caso specifico, aggiungo io, di uno spazio comune (il web), le distanze tra movie e game si sono accorciate: sempre più spesso, cioè, «la modalità di accesso analogico cosiddetta “unicursal” si interseca con l’accesso “multicursal” ai dati immagazzinati sul supporto» (Spanu 2008: 208-209). Questa sorta di interattività illusoria (anche se, come sottolineano Gaudreault e Marion, qualunque tipo di interattività è intimamente illusoria) (Gaudreault, Marion 2013: 38-42) si sposa alla perfezione con le moderne strategie di comunicazione pubblicitaria, per le quali, nel contesto del web partecipativo, diventa sempre più centrale il coinvolgimento attivo dello spettatore, spesso chiamato all’(inter)azione. Si parla, in questi casi, di gamification, indicando con questo termine l’applicazione di meccaniche tipiche del gioco in contesti non ludici, a scopi essenzialmente persuasivi. Non stupisce, quindi, che anche il videoclip, il cui scopo è da sempre essenzialmente la promozione di un brano musicale, abbia provato ad avvicinarsi all’universo dei videogame, e che tale incontro sia scaturita una nuova tipologia di audiovisivi. Lo stesso McLuhan, d’altronde, vedeva proprio nell’ibridazione tra differenti medium un momento di verità e rivelazione, a cui fa generalmente seguito un mutamento degli schemi percettivi dei soggetti destinatari (McLuhan, 1964).Il legame tra il videoclip “interattivo” e quello che, per comodità, definiremo “tradizionale” è quello di una filiazione, in realtà, solo apparente. Nel contesto dell’uniformazione digitale, dove come scrive Mariniello ogni medium è caratterizzato da una forte “refrattarietà ad essere isolato dalla semiosfera in cui è inserito” (Mariniello 2008: 24-25), definire in maniera nitida gli stessi concetti di “videoclip” e “videogame” non è un’impresa facile; men che mai lo è descrivere la loro convergenza, peraltro solo supposta. Data la difficoltà nello stabilire un’archeologia mediale del videoclip interattivo, sarebbe forse più proficuo considerarlo, appoggiandoci su Lotman, come un nuovo fenomeno culturale autonomo. Questi fenomeni, entrati recentemente nella semiosfera contemporanea, si ritrovano a dialogare indifferentemente sia con elementi extrasemiotici sia con quelli ormai ampiamente semiotizzati dei due presunti antenati.Qual è, dunque, la specificità del videoclip interattivo? Nel suo recente libro, Andrea Del Castello ci propone un’analisi del videoclip come campo di forze generato da tre agenti, da lui definiti “poli generali di un triangolo ideale: quello artistico, quello promozionale e quello spettacolare” (Del Castello 2015: 10). Tutte e tre le finalità possono essere rintracciate in ogni singolo videoclip e ne definiscono – aggiungo io – la propria ontologia, la conditio sine qua non perché tale forma espressiva possa, vista sotto una prospettiva storica che parta almeno dai primi anni ottanta e giunga fino a oggi, definirsi come tale. Tale triangolo, prosegue Del Castello, è assolutamente equilatero, nonostante «ogni caso specifico possa essere determinato da una più forte influenza dell'una o dell'altra finalità» (Del Castello 2015: 12).Lo stesso schema può essere applicato senza grandi ostacoli, a mio parere, anche all’industria videoludica, dove l’istanza creativa è spesso meno ostentata ma non per questo meno presente, con l’unica (rilevante) eccezione che al posto delle etichette discografiche abbiamo le case di produzione: sono le cosiddette

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software houses, che detengono o sono proprietarie delle tecnologie necessarie per lo sviluppo di un determinato progetto.  

Figura 1. I tre diversi framework  a confronto Analizzando alcuni esempi, si cercherà qui di dimostrare come, nella compenetrazione dei due sistemi produttivi in un sistema che possiamo definire quadrangolare (Fig. 1), e quindi nella compresenza sia dell’etichetta discografica che della software house (e quindi di due istanze promozionali distinte e parallele), risieda la vera specificità del videoclip interattivo. Esso, infatti, sembra mostrare uno scarto con i suoi progenitori (ed è quello che cercherò di dimostrare) nel proprio framework istituzionale prima ancora che nei linguaggi messi in campo, laddove per “prima” si intende un ordine non di valore, bensì logico e cronologico. Circoscrivere la nostra analisi ai Chrome Experiment Interactive Music Videos, sezione (sedicente) videomusicale dell’ampio showcase di prodotti creato da Google per sperimentare i limiti e le potenzialità del proprio browser, ci consente, inoltre, di stabilizzare lo schema di cui sopra su di un polo fisso (quello delle software houses), e di vedere se e come è possibile classificare e categorizzare i videoclip all’interno di esso.Già dando un’occhiata alla home page vediamo come la titolazione di questi video sia tutto fuorché univoca. Se i videoclip tradizionali, su YouTube, sono indicati generalmente con “Nome musicista - Titolo brano”, al netto di quei casi particolari in cui il videomaker ha un nome che supera o eguaglia in popolarità quello della band, qui una vera e propria regola non esiste. Noi qui, per comodità, riprenderemo la denominazione così come appare sulla home page, ma ciò che possiamo notare sin d’ora è come la finalità promozionale del videoclip nella maggior parte dei casi appaia come assolutamente marginale, e come la presenza stessa del brano musicale costituisca, da parte del media artist, una scelta assolutamente aleatoria. Di contro, i linguaggi di programmazione web impiegati di volta in volta (JavaScript, HTML5, WebGL, Canvas, SVG, CSS, etc.) vengono indicati con una certa precisione, e – altro aspetto importante - sono tutti rigorosamente open source: quasi del tutto svincolati, almeno rispetto ai video tradizionali, dal possesso dei mezzi di produzione, gli autori di questi prodotti competono quindi su un campo neutro, in cui contano solo know how e creatività. Questo mutamento, ovviamente, favorisce, restando fedeli al nostro schema, l’emersione dell’istanza artistica.

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Un altro aspetto, non di poco conto, che emerge nell’immediato è la stretta dipendenza di tali prodotti alla struttura di un dispositivo (il browser) che è, per sua stessa natura, in contino aggiornamento. Se il videoclip tradizionale, ridotto a codice binario, può interagire liberamente con altri codici, il videoclip interattivo, che invece deve necessariamente interagire con altri codici (i linguaggi di programmazione, l’architettura del browser), è destinato a soccombere con il progresso, rapido e inarrestabile, delle tecnologie informatiche. Tradotto in concreto, nel momento in cui scrivo 3 dei 16 experiment   non funzionano, o non funzionano nel modo in cui sono stati programmati. Se già i videoclip tradizionali, come nota Pezzini, sono prodotti nati “per vendere e per morire”, quindi con una dichiarata finalità pragmatica (Pezzini 2002: 7), per i videoclic questa volatilità è portata all’estremo, e la partecipazione dell’utente si arricchisce quindi di un portato di unicità e irriproducibilità. La stessa Google lo scrive a chiare lettere nelle terms and conditions   del progetto: «We are constantly changing and improving our Services. We may add or remove functionalities or features, and we may suspend or stop a Service altogether». L’obsolescenza dei supporti lascia aperta peraltro la questione dell’archiviazione, impossibile, dell’esperienza personale, di cui si può avere al limite solo una registrazione video (come nel caso dei tre prodotti non funzionanti sopra citati). L’esperimento, in altre parole, genera un’esperienza (termine anch’esso derivante dal latino experiri, sperimentare), che in quanto tale, esattamente come accade nella realtà non-virtuale, necessita di un dispositivo di mediazione per lasciare una traccia di sé. Le piattaforme di video-sharing diventano così il luogo della memoria di un’esperienza, la cui testimonianza prende in alcuni casi, peraltro, la forma di un videoclip tradizionale.  

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 Figura 2. Classificazione dei Chrome Experiments secondo le diverse istanzeIl quadro che emerge dall’analisi è quello di un medium dalla natura fortemente ibrida, instabile, capace di assecondare più finalità contemporaneamente ma quasi mai in maniera definita, riconoscibile. Riprendendo lo schema quadrangolare di cui sopra, possiamo vedere (Figura 1) come tra i 16 prodotti presi in esame le tendenze siano assolutamente eterogenee. Se pochi sono i video che non svolgono una reale attività di ricerca sulle potenzialità della tecnologia messa in campo (anche perché la selezione dei prodotti da inserire nello showcase corrisponde a una precisa scelta “redazionale” di Google), possiamo osservare come a conti fatti l’istanza spettacolare, ossia la possibilità realmente offerta al pubblico di interagire con il materiale audiovisivo, che dovrebbe in teoria costituire il quid di questa forma espressiva, in realtà sia sfruttata a fondo solo da cinque dei sedici video selezionati. Spesso la componente videoludica non punta tanto a una reale giocabilità, quanto a dimostrare le potenzialità delle tecnologie impiegate (in questo caso, quelle dei codici di programmazione riconosciuti dal browser). Facendo un registro delle azioni realmente consentite all’utente, senza contare le possibilità di screenshot o di condivisione, nei 16 casi presi in esame abbiamo registrato: 

• 9 image correction (luminosità, vignettatura, tinte, scanlines, bloom, mascherini, filtri)

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• 9 azioni da tastiera, mouse o touch (guidare stormo di uccelli, controllare shuttle, lasciare scie colorate, pixelization, distorsione figure, esplosioni, raggi lunari, rotazione pianeta)• 8 esplorazioni spaziali (7 con movimento vincolato, 1 con movimento libero)•3 input dati (inserimento luogo di nascita, inserimento frase, inserimento oggetto 3D)•2 interazione con i social network (live twitting)•2 possibilità di modificare la linearità del flusso video (interpolazione, accelerazione/decelerazoine)•1 possibilità di modificare la linearità del flusso audio (accelerazione/decelerazoine)•1 interazione con la webcam

 

 Figura 3. Jabberwocky - Holding Up Wild Edit (Thomas Oger, 2015) Frequente l’esplorazione a 360°, solo in un caso realmente libera, spesso ancorata talvolta a un movimento o a un punto di vista variabile. È il caso, ad esempio, di Jabberwocky - Holding Up Wild Edit (Thomas Oger, 2015), dove il principale elemento di interattività, in realtà, è costituito dalla possibilità di distorcere, in maniera proporzionale alla velocità dei click del mouse, le forme e colori di alcuni personaggi tridimensionali (Figura 3). Si tratta di personaggi tratti (nel senso letterale di estrazione di codici, pratica anche qui fortemente stimolata dalla natura stessa del digitale informatico) dal videoclip tradizionale dello stesso brano, presente su YouTube (Ugo Bienvenu, 2015): uno spazio 3D fisso, statico, sorta di freeze frame di una situazione surreale (una meeting aziendale interrotto da un albero rosa che sfonda il soffitto), all’interno della quale la camera virtuale si muove liberamente, creando una vera e propria narrazione, basata su precise aspettative, semplicemente attraverso l’esplorazione dello spazio (dove siamo? cosa è successo? come è stato possibile?). Se il tempo del racconto, in questo videoclip tradizionale, coincide con lo spazio percorso dalla camera virtuale, lo spettatore ha tuttavia piena libertà di navigare sulla timeline, di tornare indietro, interrompere, soffermarsi su un dettaglio, laddove

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nella versione cosiddetta “interattiva” il centro di interesse sembra diventare la distorsione di personaggi che, estrapolati dal contesto originario, non significano nulla né di per sé né in relazione al brano musicale. Detto altrimenti, l’esplorazione cronologica di un’esperienza interattiva altrui, in questo caso dell’autore che muove la camera all’interno dello spazio virtuale, è essa stessa un’esperienza interattiva; in questo senso, l’ancoraggio del punto di vista alla linearità narrativa del videoclip tradizionale non è meno frustrante, dal punto di vista della fruibilità del prodotto, del blocco “fisico” presente nella versione cosiddetta “interattiva”.La mancanza di istruzioni come fattore di coinvolgimento, di appello alla scoperta, è un’altra costante. Il più elaborato in questo senso è probabilmente Just a Reflektor   (Vincent Morriset, 2013), su musica degli Arcade Fire, esperimento pensato per pc ma che integra in sé i dispositivi touch in maniera performante. Il video, uno dei più formalmente compiuti di tutta la selezione, è costituito essenzialmente da un mix di scene misteriose ed esotiche (una ballerina di Haiti interagisce con strani signori incappucciati vestiti di nero), inserite in un discorso filmico evocativo e strutturalmente complesso. Sincronizzando smartphone e tablet e accostandoli al monitor del pc, o anche semplicemente muovendo il puntatore del mouse, è possibile modificare il punto di messa a fuoco, spostare mascherini, creare raggi di luce (Fig. 4). Formalmente compatto, le modalità di interazione uomo-macchina offerte da questo video, complesse dal punto di vista tecnico, formano qui un tutt’uno con l’estetica musicale e videomusicale, contribuendo ad incrementare il significato alla canzone (la “densificazione di senso” che Keazor e Wubbena individuano come strategia caratterizzante del videoclip) (Cfr. Keazor, Wubbena, 2010) e a deviarlo, a portarlo in un’altra direzione, aprendo a nuove strade. In una scena, la protagonista del video rompe uno specchio, e all’interno dello specchio rotto viene riflesso il volto dell’utente, ripreso in diretta tramite webcam: egli diviene così parte integrante dell’immaginario visivo del brano, in un’esperienza che, pur mantenendosi saldamente legata alle dinamiche narrative del videoclip tradizionale, integra in sé il carattere di immersività tipico dei videogame, il tutto svolgendo contemporaneamente le finalità promozionali e di demo-tech del progetto.  

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 Figura 4. Just a Reflektor (Vincent Morriset, 2013) Ad interagire con altri servizi di Google è anche The Wilderness Downtown   (Google Creative Lab, 2011), il primo experiment in assoluto. Quando uscì, nel 2011, non solo si impose subito come esperimento pionieristico, ma riuscì anche a dimostrare il potenziale poetico di questa nuova forma espressiva, stimolandone l’esplorazione da parte di altri media artist. Nella schermata iniziale, siamo invitati a inserire l’indirizzo della nostra casa di infanzia, dopodiché, sulle note di We Used To Wait degli Arcade Fire, si apre una serie di finestre che mostrano, in combinazioni varie, un ragazzo incappucciato che corre, delle silhouette di uccelli neri che volano nel cielo (che l’utente può guidare con il puntatore del mouse) e, soprattutto, delle vedute a 360° della strada in cui siamo cresciuti. Questo effetto è reso sia attraverso una prospettiva “terrena”, tramite il collegamento con le API di Google Street View, sia attraverso una prospettiva aerea, in un suggestivo movimento a spirale ascendente permesso dall’interazione con Google Maps. Qui l’interazione effettiva è bassa ma efficace, sacrificata a un’istanza creativa forte, tanto da spingere il TIME a inserire The Wilderness Downtown addirittura tra i “30 migliori video di sempre” . L’autore, Chris Milk, si dimostra capace di rendere la malinconia del brano musicale da un lato attraverso un’analogia visuale tra il ritmo (martellante ed asimmetrico) della canzone e la corsa del protagonista, dall’altra mettendo in corto-circuito la freddezza della tecnologia e la personalizzazione del sentimento nostalgico. Su dichiarazione dello stesso regista: «Google maps and streetview embody that contradiction though. It’s cold high-tech that can be incredibly emotional when used in the right context». Di tutti gli experiments, The Wilderness downtown è forse il più equidistante dai quattro poli sopra indicati, assecondando tutte le rispettive istanze in maniera intelligente ed esaustiva.Sarà sempre Chris Milk, poco dopo, a guidare un team di cosiddetti “Google Data Artists” nella creazione di Dreams of Black   (2011), promo per l’album

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ROME di Danger House, Daniele Luppi e Norah Jones. Contraddistinto anche qui da un registro fortemente onirico, il video giustappone scene in cui l’internauta può ruotare il punto di vista, tracciare scie nere sulla terra, pixellizzare alcuni elementi grafici, guidare uno stormo di uccelli, etc. Visivamente evocativo e fortemente coinvolgente, il video trova il suo culmine nella scena finale, uno spazio esplorabile che si presenta come una sorta di sogno collettivo, o più precisamente, come si legge nel menu dell’experiment, “a collective consciousness of a world gone by”. In questo spazio troviamo gli sky dreams e i ground dreams caricati dagli stessi utenti attraverso una finestra che appare alla fine della canzone, oggetti tridimensionali creati attraverso un semplice software integrato nella finestra stessa. Con la funzione “continue to explore”, infatti, è possibile continuare a esplorare questo inconscio collettivo, in un’estensione temporale e spaziale potenzialmente infinita (Fig. 5). In Dreams of Black lo sguardo cerca, segue, è attratto, dall’unicità di questi oggetti, apparizioni tridimensionali, residui di passaggi di altri utenti; vere e proprie, potremmo chiamarle, "sedimentazioni digitali".  

 Figura 5. Dreams of Black (Chris Milk, 2011) Non solo, quindi, possiamo confermare quanto ipotizzato nell’introduzione, ma possiamo andare oltre: il videoclip interattivo non solo non è realmente un videoclip, essendo generato da logiche di composizione e finalità d’uso che coincidono solo in parte con quelle del videoclip tradizionale, ma spesso non è neanche veramente interattivo. A fronte dell’introduzione di qualche elemento di interattività, infatti, spesso ne vengono sacrificati altri già esistenti nelle piattaforme di video sharing tradizionali: la libertà di navigazione nella timeline, la possibilità di commentare e di “likare”, ma anche la ricerca di contenuti simili, da guardare in contemporanea o in alternativa al video originario. Il caso di Tweetflight, in questo senso, è emblematico: a fronte di un’idea originale (dare la

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possibilità di scrivere le lyrics del video tramite live twitting) il prodotto non presenta alcun elemento di interattività, a differenza del proprio equivalente “statico” su YouTube che permette di navigare, commentare, stoppare, “likare”, condividere.Se ci soffermiamo sulla timeline, solo in un caso tra quelli analizzati (fatta eccezione per All is not lost, in cui l’interazione è finalizzata alla creazione di un videoclip tradizionale, e per Ellie Goulding’s Lights, attualmente offline) ci permette realmente di muoverci liberamente nel tempo. In nove casi, addirittura, non è consentito neanche mettere in pausa, mentre in due video si può mettere in pausa ma non tornare indietro (ad eccezione del caso singolare di Jazz Computer, dove il brano è pensato per durare potenzialmente all’infinito). Detto altrimenti, l’interattività introdotta dai videoclip interattivi, nella maggior parte dei casi, non è reversibile, a patto di non voler ricominciare dall’inizio; dinamica, questa, tipica dei videogame.Non è chiaro se sia possibile o utile affermare che con i videoclip interattivi siamo di fronte a una forma espressiva realmente nuova, e in quanto tale in grado di avvicinarsi progressivamente verso il centro della semiosfera e a istituzionalizzarsi, o al contrario fortemente derivativa, caratterizzata da un basso livello di semiotizzazione e destinata a essere espulsa dalla stessa. Dobbiamo chiederci, in altre parole, se il videoclip interattivo esiste, e se a un diverso framework di partenza è realmente corrisposta la codificazione di un nuovo linguaggio o se, al contrario, si tratta di semplici esperimenti estemporanei, destinati a finire nel dimenticatoio. D’altronde, come scritto da Vernalllis, l’interattività indotta dal web non ha colto di sorpresa una forma espressiva come quella videomusicale, già abituata – più del cinema – a una manipolabilità sia pragmatica (tramite il telecomando) che concettuale (inserendo lo spettatore nel sistema degli sguardi e mettendolo nella posizione non di voyeur ma di elemento dialogante) (Vernallis 2013). La necessità di una maggiore e più rapida interazione con lo spettatore, divenuto oramai utente (o meglio ancora, internauta), non solo non ha stravolto una forma espressiva già di per sé fortemente intrusiva, ma, al contrario, ha indotto e talvolta raffinato soluzioni di montaggio che andassero in tale direzione.Staremo a vedere. Quello che emerge, alla prova dei fatti, è che, se prendiamo per buona la definizione di interattività come libertà di scelta e di controllo, risulta chiaro come dentro l’uso comune che viene fatto del termine vi sia sempre un tentativo di promozione e di legittimazione del nuovo. L’espressione “videoclip interattivo”, infatti, presuppone l’esistenza di un videoclip “non interattivo”, il che come abbiamo visto, è una posizione non solo semplificatrice, ma spesso opposta alla realtà. Se a una forma espressiva per ora ancora allo stadio embrionale corrisponderanno un vero e proprio linguaggio, dei generi, una scuola, e se dal basso vi saranno artisti disposti ad andare in questa direzione e a esplorare le frontiere dell’interattività in senso realmente poetico, allora il panorama smetterà di essere solo interessante, e diventerà realmente appassionante. 

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Bibliografia Del Castello, Andrea, Il videoclip. Musicologia e dintorni dai Pink Floyd a Youtube, Brescia, Cavinato Editore 2015. Gaudreault, André, Marion, Philippe, La fin du cinéma? Un média en crise à l’ère du numérique, Paris, Armand Colin 2013. Keazor Henry, Wubbena Thorsten, Rewind, play, fast forward: the past, present and future of music video, Bielefeld, Transcript Verlag 2010. Landowski Eric, La société réfléchie. Essais de socio-sémiotique, Paris, Seuil, 1989; trad. it. La società riflessa, Roma, Meltemi 1999. Lotman, Jurij Michajlovič, La semiosfera: asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio 1985. Manovich, Lev, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002. Mariniello, Silvestra, L'intermedialità dieci anni dopo, in De Giusti, Luciano (ed.), Immagini migranti: l'intermedialità dieci anni dopo, Venezia, Marsilio 2008. McLuhan, Marshall, Understanding Media. The Extensions of Man, New York, Signet Books, 1964, trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano, Il saggiatore 1967. Peverini, Paolo, Il videoclip: strategie e figure di una forma breve, Roma, Meltemi 2007. Peverini, Paolo, Youtube e la creatività giovanile, Assisi, Cittadella 2012. Spanu, Massimiliano, Interattività e presagi, pp. 208-209, in De Giusti, Luciano (ed.),Immagini migranti: l'intermedialità dieci anni dopo, Venezia, Marsilio, 2008. Spaziante, Lucio, Sociosemiotica del pop: identità, testi e pratiche musicali, Roma, Carocci 2007. Vernallis, Carol, Music Video's Second Aesthetic, in Richardson, John, Gorbman, Claudia, Vernallis, Carol (eds.), The Oxford Handbook of New Audiovisual Aesthetics, Oxford, Oxford University Press 2013.

    

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 Tra "brand content" e immersi-vità:

  Tra "brand content" e immersività:

Intervista a Brandon Box e Paolo Bernardelli 

Interviste raccolte da Simone Arcagni e Mirko Lino 

Abbiamo dedicato la copertina del nuovo numero di EmergingSeries Journal a The Bomb, primo esperimento per la creazione di una webserie da vivere in Realtà Virtuale usando i visori che sfruttano la tecnologia Oculus, nello specifico il Gear Vr della Samsung.The Bomb è sviluppato da Brandon Box, casa di produzione di web advertising con sede a Milano da un’idea di Paolo Bernardelli, autore della webserie Milano Underground che l’anno scorso si è aggiudicata il premio di migliore webserie al Roma Web Fest e al Korea Web Fest.A seguire una doppia intervista. La prima, fatta da Simone Arcagni ad Andrea Sgaravatti (Brandon Box), sulle strategie brended oriented incentrate su video virali e la produzione di webserie per fidelizzare gli utenti e aggiornare le identità dei brand al mercato del web. La seconda, fatta da Mirko Lino a Guido Geminiani (Brandon Box) e Paolo Bernardelli (Milano Underground) in occasione dellapresentazione di The Bomb all’ultima edizione del Roma Web Fest.  

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   Simone Arcagni:Quali sono le vostre attività principali, come è nata la vostra azienda e come è strutturata al momento? Andrea Sgaravatti: Brandon Box è specializzata nel branded content. Produciamo video per il web (webserie e virali), programmi per la tv e video in realtà virtuale per gli eventi (con supporto Oculus Rift e Samsung Gear). Siamo nati 5 anni fa dall’incontro fra me (Andrea Sgaravatti, che ho un backgroud autoriale), Guido Geminiani (con un background registico) e Monkey Talkie (una società specializzate nella post produzione). Fin da subito abbiamo deciso che i "campo di gioco" di Brandon Box sarebbero stati il web ed il branded content.Al momento il nostro team è composto da una decina di collaboratori: autori, account e producer, registi e videomaker.  Quanti video avete prodotto fino ad oggi e di che genere? In questi anni abbiamo prodotto un migliaio di video, di qualsiasi tipo. Virali, spot, webserie, format, turorial…  Quali sono i vostri partner e clienti più sensibili al vostro tipo di proposta?

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 Principalmente i nostri clienti sono editori (Mondadori, Yahoo!, Mediaset, MTV, Condè Nast…), agenzie pubblicitarie, ma anche alcuni brand.  Qual è per voi una definizione di “viralità”? In cosa consiste per voi l'efficacia della viralità? Le sue migliori strategie? Quali generi usate principalmente nei vostri video? E quale timing prevedete per un video virale? Guarda è ovviamente un argomento spinoso e vastissimo, mi limito a parlare della nostra esperienza e a stare all’interno del campo del branded content.Spesso ci viene richiesto di produrre un “virale”, che dovrebbe essere, anzi che è, una possibile conseguenza, non un qualcosa che viene stabilito a priori. Al momento quindi con “virale” si intende un video che si spera abbia un’ampia risonanza a fronte di bassi investimenti pubblicitari.Riteniamo che ci siano principalmente tre tipologie di virali. Quelli che fanno ridere, quelli che suscitano una forte emozione e quelli spettacolari. Principalmente come Brandon Box lavoriamo su queste due ultime tipologie. Direi che un virale non dovrebbe superare i due minuti e mezzo.  

  Quali sono le modalità di raccolta dei dati per una vostra campagna virale? Quali sono i dati che caratterizzano una campagna di successo? Quante visualizzazioni raggiungete e quale dovrebbe essere per voi un efficace numero di visualizzazioni per garantire la viralità? Quali sono le principali

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richieste dei clienti? Quali sono le modalità di controllo e gestione del flusso di dati (analitics, ecc)? Analytics di Google e le Statistiche di Facebook, questi sono al momento gli strumenti che utilizziamo per raccogliere i dati. Il numero delle visualizzazioni è strettamente collegato con l’investimento che il brand ha operato per la produzione del video (non si può pensare che pagando un video 3.000 € si abbia un risultato simile ad un video da 10 k o 20). Per noi 50.000 visualizzazioni iniziano ad essere un risultato accettabile. Le richieste dei clienti sono sempre le stesse, spendere poco e fare milioni di visualizzazioni…più o meno come vincere all’enalotto!  Quali sono secondo voi le principali portenzialità del web? Quali sono gli strumenti del web che usate principalmente? Quali social network e piattaforme (web tv e web channel)? Quali sono i vostri criteri di selezione sulla convergenza mediale? Domanda difficile…magari di questa ne parliamo di persona  Quali sono i progetti che avete in cantiere? e su quale tipo di progetti vi piacerebbe lavorare (webserie, webdoc altro)? Al momento abbiamo in cantiere dei progetti a metà strada fra la tv ed il web…ma visto che siamo scaramantici non anticipiamo niente. Di base la nostra specializzazione è sempre di più la fiction.  Una riflessione sul mercato del video online... Guarda noi abbiamo la sensazione che sempre di più saranno gli editori a fare la differenza sui video online. YouTube soffre di una mancanza di strategia e sempre di più sta diventando un “google” dei video, ovvero sto cercando un contenuto video specifico e vado a cercarmelo lì.   Ma se voglio dell’intrattenimento video scelgo direttamente il sito di un editore, che sia sport, intrattenimento, news…e questi editori saranno sempre più intenzionati a cercare contenti.  

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   Mirko Lino:come è nato il progetto The Bomb e quali sono le potenzialità e i limiti inerenti all'utilizzo alla tecnologia Oculus per scrivere una webserie? Guido Geminiani: Noi di Brandon Box ci siamo mossi quasi sempre con una modalità empirica: abbiamo aperto la società e uno dei primi contratti è stato proprio per una serie web branded, in cui il brand era inserito con molta coerenza; si partiva da un'idea originale, quindi dall'incontro di due esigenze: la prima era un'esigenza narrativa, la voglia di raccontare una storia,e l'esigenza da parte delprodotto di mostrare il suo possibile utilizzo attraverso una storia. Successivamente ci siamo avvicinati a tecnologie nuove, sperimentali, e attenzione: non tuttele tecnologie nuove prendono subito piede, l'abbiamo visto ad esempio con i Google Glasses. Abbiamo inziato due, tre anni fa a fare qualche progetto con la Kinect, la Realtà Aumentata e le app, e per più di un anno abbiamo realizzato dei progetti che riteniamo importanti, sempre nell'ambito del cosiddetto engaging, quelle strategie che il brand usa per generare traffico, buzz, viralità e attività sui social e così via. Quando abbiamo sentito i primi rumori sull'Oculus abbiamo subito creduto nelle sue possibilità, quindi abbiamo aperto lo studio anche se eravamo in pieno agosto e ci siamo messi subito a sperimentare, “giocare”e questo quando sei un'impresa significa investire economicamente su nuove tecnologie e software, ma sappiamo anche che la tecnologia diventa subito vecchia – ricordo che avevamo comprato il primo modello dell'Oculus (DK1-Development Kit 1), e il giorno dopo avevamo già ordinato il secondo modello (DK2), I primi progetti li abbiamo avviati due mesi dopo che ci eravamo messi a sperimentare i visori per la Realtà Virtuale e siamo stati molto fortunati a trovare brand e agenzie interessate e che hanno creduto nelle potenzialità di un progetto di questo tipo, le cui potenzialità che in effetti

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sono subito evidenti. C'è un effetto sorpresa iniziale anche perché molte persone ancora non hanno provato questo tipo di device e questo risolve già un primo tipo di problema che è quello dell'originalità del progetto; in più noi ci abbiamo messo la nostra competenza ed esperienza e passione. Ancora oggi uno dei nostri primi progetti fatto per la regione Veneto resta tuttora molto immersivo e interessante da esperire: un tour lungo alcuni luoghi della regione da fare in macchina, in motoslitta, ecc. Abbiamo una ventina di progetti commerciali in cantiere; tendenzialmente parliamo di progetti fatti per istituzioni, comuni, musei, utilizzando anche diverse tecniche cinematografici, dal flashback al time lapse. Abbiamo cercato di portare la nostra esperienza sul videomaking in questa tecnologia, ovviamente producendo delle piccole idee: esperienze da uno, due minuti, perché comunque è una tecnologia che ha dalla sua parte il fatto di essere nuova, ma anche il limite di far sentire gli utenti “persi”, in uno spazio che non riconoscono. Si deve immaginare quello che provavano le persone che per la prima volta andavano al cinema: quella per loro era oggettivamente una esperienza nuova, strana. Tutta questa esperienza che avevamo accumulato e la nostra ricerca a un certo punto ha incontrato Paolo Bernardelli, e assieme al suo bagaglio di comptenteze sullo storytelling e la fiction abbiamo dato vita a The Bomb. Il nostro è stato un incontro molto naturale: abbiamo messo sul tavolo delle opportunità tecniche uniche, perché l'esperienza immersiva di The Bomb al momento ancora non si vede da altre parti, soprattutto in termini di tecniche, risoluzione e qualità; lo dico senza falso orgoglio, perché al momento progetti di questo tipo non sono stati ancora sviluppati nemmeno oltreoceano. The Bomb è stato sviluppato in tempi molto brevi, e l'intenzione è quella di sviluppare il progetto in una forma seriale per capire come reagisce un pubblico preparato, interssato e consapevole di questo tipo di mezzo e capire oggi che senso ha parlare di fiction, storytelling, brandizzate o meno su formati più lunghi e seriali e al momento i risultati che abbiamo raccolto sono sicuramente positivi. Una notazione tecnica: The Bomb è girato in 360° in stereoscopia con diversi livelli di post produzione, montaggio color e sound design, un trattamento di produzione cine- televisiva. La tecnica di produzione è rocambolesca, tutta da inventare, proprio come all'inizio del cinema si dovevano inventare nuove tecniche prettamente cinematografiche.  

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   Quali sono le potenzialità e i limiti per lo storytelling immersivo? Paolo Bernardelli: Le potenzialità al momento sono tante, ma ancora sono tutte da sondare, anche perché siamo agli albori di questo nuovo mezzo. Posso rendere meglio l'idea con alcune comparazioni con il cinema delle origini: ad esempio, i fratelli Lumière all'inizio giravano il paesaggio urbano per far vedere che quello che mostravano non era una fotografia ma erano immagini in movimento. Il cinema all'inizio veniva considerato una sorta di teatro filmato, poi ha sviluppato i suoi codici tipici: il primo piano, il movimento della macchina da presa e il montaggio...Ecco anche noi al momento non sappiamo qual è il linguaggio specifico di questo device e la ricerca che vogliamo fare, per cui ci stiamo impegnando, è proprio la ricerca di questo linguaggio specifico. La storia di The Bomb è stata costruita sulla base di quello che funzionava e che si poteva fare. Non siamo partiti dall'idea di fare una storia su un artificiere, ma partendo da determinate inquadrature, i movimenti a 180°e non 360°, si aveva la giustificazione della visione nella storia, e poi dall'altro lato invece dovevo avere delle visioni di profondità e con i dettagli in ottima risoluzione, come si vede nella resa dei primi piani, quindi iniziando a “giocare” con le cose che funzionano, che danno un'ottima resa, tra le estetiche da videogame e quelle utilizzate nella pornografia, abbiamo un po' mescolato in maniera narrativa questi due mondi. The Bomb è una sorta di gioco che ha lo scopo di essere una prima alfabetizzazione del mezzo. Se in questo momento si dà uno sguardo a quello che c'è in giro sullo storytelling per Oculus ci si rende conto che tendenzialmente si ha a che fare con un luogo circoscritto, il più delle volte una stanza, dove succedono delle cose a cui tu poni l'attenzione, ad esempio in base alle luci e altri effetti come quelli cromatici; in altre parole la tua visione viene guidata. Ed è questo è il problema: tu devi guidare l'attenzione dell'utente e come fai a guidarla, a fargli capire che nello spazio a 360° l'azione si svolge in un

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determinato punto e non in un altro? Io penso che nel futuro i dispositivi alla maniera dell'Oculus avranno bisogno di sviluppare modalità informatiche per sezionare l'immagine e così cominciare a creare nuovi contenuti. Per adesso l'idea è di avere otto puntate da quattro minuti ciascuna con un impianto narrativo aperto proprio per poter coinvolgere le possibilità delle nuove tecnologie.  

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 Appendice

  Appendice

libri, festival, webTv e altro sul mondo delle webserie

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 Libri e riviste:  Simone Arcagni, Visioni Digitali, Einaudi, Torino 2016Il lavoro fa il punto sui cambiamenti che stanno attraversando il mondo dei media, in termini di tecnologie, forme, pratiche, fruizioni, senza tralasciare il forte impatto della infosfera digitale sulla produzione di immaginari, offrendo così al lettore una mappa entro cui potersi orientare all'interno di uno scenario in continua trasformazione e definizione come quello dei contenuti mediali contemporanei e le pratiche della società digitale. Simone Arcagni (a cura di), Inside Webseries, EmergingSeries Journal, n2, settembre 2015Inside Webseries nasce della necessità della ricerca di fare il punto della situazione sul fenomeno delle webseries degli ultimi due anni analizzandolo su più punti di vista: dalle produzioni ai mercati, dai generi allo storytelling, dalle modalità e pratiche di fruizione agli eventi connessi. Stefano Zuliani, Netflix in Italia e il big bang di cinema e tv, Il Sole 24Ore, Milano, 2015Il libro analizza le dinamiche evolutive del mondo dell'audiovisivo legate all'avvento di Netflix in Italia. L'autore parla di modelli organizzativi e business attraverso dati e grafici con 33 personalità del settore, tra cui Luigi Abete, Giuseppe de Rita, Ferzan Ozpetek, Luca Argentero. 

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Antonio Catolfi, Federico Giordano (eds), L'immagine videoludica. Cinema e media digitale verso la gamification, Ipermedium, Santa Maria Capua Vetere 2015L'obiettivo del libro è di analizzare, in particolar modo, la dimensione dei media, verificando come sia in quelli "nuovi", come il videogioco, sia in quelli "assestati", come il cinema, la gamification emerga con prepotenza. Molti gli oggetti d'indagine: dal cinema 3D, al cosplaying, dai serious games, alle app immersive con geolocalizzazione. Festival: UMFF (Urban MediaMarkers Festival)Un consorzio internazionale di media makers indipendenti che si riunisce in un'associazione e un festival annuale dedicato a tutti i generi di intrattenimento: animazione, digitale, film, giochi, stampa, radio, web, scrittura. Musiclip FestivalMusiclip Festival un festival internazionale che premia i migliori videoclip, documentari e cortometraggi musicali dell'anno. Geekfest Film FestivalIl primo e unico Geek Festival itinerante degli Stati Uniti. DC Web & Digital Media FestivalIl D.C. Web Fest è il primo festival dedicato alle nuove tecnologie e imprenditorialità. International Digital Emmy AwardsPremio annuale dell'International Academy of Television Arts& Science per i contenuti creati per l'interazione e la circolazione in piattaforme digitali. Web Program FestIl WebProgram Festival è un evento internazionale dove vengono presentati contenuti creati esclusivamente per il web. Convegni e conferenze: Gennaio 2016, Torino: Game Jam  Torino, organizzato da Event Horizon e Startup Revolutionary Road: Settembre 2016, Barcellona- Spagna: VR vs Games 2016, organizzato da ENTI (Escola de noves tecnologies interactives) UB (universitat de Barcelona) IEEE Computer Society Novembre 2016, Lisbona- Portogallo: Web Summit,    organizzato da ALPHA Programme

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 Piattaforme e webTv: Jova TVJovaTV è la prima web tv dedicata e realizzata da Lorenzo Cherubini. Un canale tematico web con video e contenuti esclusivi realizzati dallo Jovanotti e inviati dai suoi fan. Chrome ExperimentsChrome Experiments è una vetrina di esperimenti sul web dalla creative coding comunity. InterludeInterlude è una piattaforma che permette agli utenti di creare video interattivi, in modo che lo stesso filmato possa cambiare con un click o un tocco sullo schermo ed essere sempre diverso. WireWAXWireWAX è il principale tool per la creazione di video interattivi: si possono fare video, trailers, taggare i tuoi amici, collegare qualsiasi cosa in video e condividerlo dappertutto online. iThenticiThentic è una società di contenuti digitali focalizzata sullo sviluppo e la produzione di prodotti narrativi per tutte le piattaforme. Sono narratori digitali che creano contenuti digitali per la trasmissione tradizionale, piattaforme OTT, iOS e Android tablet e smartphone, e social media. BlipTVBlip è la Web Tv dei Marker Studios, azienda tra le prime al mondo nella distribuzione di video online. Su Blip Tv è possibile avere libero accesso a una grande varietà di web serie...e come recita il sito: "Make it easy to find what you want when you want it". Beet TVBeet Tv è tra le più "anziane" Web TV. Nel 2006 ha cominciato a credere alla rivoluzione della comunicazione della Rete e del digitale e ora è ai vertici del web marketing. I contenuti citati in questo numero: Webserie Eat Alì (ITA, 2014)The Brinks  (USA, 2013)Ballers  (USA, 2015)

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High Maintenance  (USA, 2012)Arthur (CH, 2015)Click (USA, 2014)L’altra (ITA, 2010)White Ninja (CDN, 2015)Uno di troppo (ITA, 2014)Burkland  (BEL, 2015)My 360  (USA, 2015)The Bomb  (ITA, 2015)The Lizzie Bennet Diaries  (USA 2012)Under The Series  (ITA, 2013) Webdoc interattivi RYOT  (USA, 2015)The Crossing  (USA, 2014) Crowdstorytelling Futour 2045  (ITA, 2014) VR The Witness (USA, 2014) AR 28 Komplex  (ITA, 2013)Quantum People Affair  (ITA, 2015) Transmedia Storytelling The Blair Witch Project  (USA, 1999)Matrix  (USA 1999) Alternate Reality Game (ARG) The Beast (USA 2001)Why So Serious  (USA, 2009) Videoclip Dire Straits- Money for Nothing  (USA, 2015)Scissor Sisters – Baby come home  (USA, 2012)Caribou - Can't do without you  (USA, 2015)For a Minor Reflection - A Moll  (USA, 2010)

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Bright Eyes - No one would riot for less  (USA, 2007)Perturbazione - L’unica  (ITA, 2014)Perturbazione - Buongiorno buonafortuna  (2010)Nicola Conte – Do you feel like I feel  (ITA, 2011) Videoclip Interattivi Jovanotti - Gli immortali  (ITA, 2015)Dire Straits - Money for Nothing  (USA 1985)Bob Dylan - Like a Rolling Stones  (USA, 2013)Bob Dylan - Knockin’ on Heaven’s Door  (USA, 2013)Led Zeppelin - Brandy & Coke ( USA, 2015)Ministri - Estate povera  (ITA, 2015)Honda - The Other Side  (USA, 2014)Perturbazione - Mondo Tempesta  (ITA, 2010)Direzioni diverse (ITA, 2010)Yotam Mann – The Jazz Singer  (USA, 2015)Coldplay – Ink (USA, 2015)Jabberwocky – Holding up wild edit  (USA, 2015)Jabberwocky – Something/Nothing  (USA, 2014)Nabel – Sono qui  (ITA, 2013)Mostro-Sento  (ITA, 2015)Caparezza – Compro Horror  (ITA, 2015)Il teatro degli orrori - Direzioni diverse  (ITA, 2010)Arcade Fire - Just a Reflektor  (USA, 2013)Google Creative Lab - The Wilderness Downtown ( USA, 2011)Danger House, Daniele Luppi e Norah Jones - Dreams of Black  (USA, 2011) 

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Questo libro è stato creato con Bookenberg®,

una tecnologia patent pending di Jujo, Inc., San Diego (CA), USA.

Timestamp: 25 febbraio 2016.

Bookenberg beta version.

Per informazioni: www.bookenberg.com

Contatti: [email protected]

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