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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI GUGLIELMO MARCONI
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE GIURIDICHE
“LA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI TRA DIRITTO COMPARATO E DIRITTO INTERNO”
Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. GIULIO D’IMPERIO VITO RICCARDI Matr. N°: SG00620
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
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LA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI TRA DIRITTO COMPARATO E DIRITTO INTERNO
INDICE INTRODUZIONE p.3 CAPITOLO 1 ASPETTI DI DIRITTO COMPARATO DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
1.1. I principali interventi di sostegno al reddito e le risposte alla crisi dell’Unione Europea p.6 1.2. Misure per la promozione del reinserimento e la creazione di nuovi posti di lavoro p.10 1.3. Misure di supporto al reddito per i disoccupati p.11 1.4. L’efficacia delle politiche anticrisi p.15 1.5. I modelli sociali in Europa e la loro efficacia nel combattere la crisi p.19 CAPITOLO 2 AMMORTIZZATORI, WELFARE E FLEXICURITY A LIVELLO COMUNITARIO IN PROSPETTIVA COMPARATIVA
2.1. Le policy di flexicurity in alcuni paesi europei p.26 2.1.1. Il modello danese p.26 2.1.2. Regno Unito p.29 2.1.3. Francia p.32 2.1.4. Germania p.34 2.1.5. Spagna p.35 2.1.6. Olanda p.37 2.1.7. Belgio p.39 2.1.8. Danimarca p.40 2.1.9. Svezia p.41
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CAPITOLO 3 LA SITUAZIONE ITALIANA
3.1. La flexicurity in Italia p.43 3.2. Mercato del lavoro e modalità contrattuali flessibili p.48 3.3. Le Relazioni Industriali p.54 3.4. Le politiche attive del lavoro p.56 3.5. I Sistemi di sicurezza sociale p.60 3.6. La riforma Fornero p.62 CAPITOLO 4 WELFARE E AMMORTIZZATORI SOCIALI A LIVELLO INTERNAZIONALE AL DI FUORI DELL’UNIONE EUROPEA: I CASI DI STATI UNITI E BRASILE
4.1. Storia del Welfare State negli Stati Uniti fino alla Grande Depressione ed al Social Security Act (1935) p.73 4.2. Dal Social Security Act (1935) alla War on Poverty e alle riforme degli anni ’60 p.80 4.3. Da Johnson alla riforma Clinton: Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act (1996) p.82 4.4. La situazione attuale: da Bush Jr. alla Riforma Obama p.87 4.5. Il welfare in Brasile. Le radici storiche del welfare brasiliano e l’attuale struttura del sistema di welfare p.91 4.6. Peculiarità del welfare brasiliano e del sistema degli ammortizzatori sociali e il rapporto con la situazione complessiva del paese p.101 CONCLUSIONI p.106 BIBLIOGRAFIA p.111
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INTRODUZIONE
La questione degli ammortizzatori sociali e delle policy di protezione
sociali attuate (soprattutto nei confronti delle categorie sociali più
svantaggiate), argomento sempre attuale, è venuto imponendosi nelle agende
politiche del continente con sempre maggior forza nel corso, grosso modo,
degli ultimi dieci anni.
Nel primo capitolo si analizzeranno i diversi sistemi di ammortizzatori
sociali - a livello di sostegno del reddito, di protezione del lavoro, di
assicurazioni contro la disoccupazione nei differenti paesi europei.
Ciascun paese dispone di un proprio sistema di ammortizzatori sociali
e, complessivamente, sembrano emergere tre diversi modelli: quello, proprio
dei paesi del nord-Europa, incentrato sulla flexicurity; quello mediterraneo ed
il sistema anglosassone.
Ciò per due ordini di ragioni: da un lato, a causa della sempre minore
disponibilità di risorse pubbliche, soprattutto in paesi caratterizzati, come
l’Italia, da un elevato livello di debito pubblico; dall’altro, a causa delle ripetute
e perduranti crisi sistemiche verificatesi negli ultimi anni.
Nel capitolo successivo l’attenzione verrà più specificatamente rivolta
alla flexicurity ed alle modalità secondo cui il concetto è recepito a livello
comunitario.
La Commissione europea definisce la flexicurity o (flessicurezza) quale
una strategia integrata mossa da un duplice obiettivo il rafforzamento della
flessibilità e della sicurezza del mercato del lavoro.
L’acronimo flexicurity, composto da due termini, ‘flessibilità’ e
‘sicurezza’, pone rilievo sia alla flessibilità delle organizzazioni, quale strumento
per rispondere efficacemente ai continui mutamenti del mercato e degli scenari
competitivi, sia alla flessibilità dei singoli lavoratori (formule contrattuali
flessibili), necessaria per rendere possibile l’adattamento ai mutevoli fabbisogni
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professionali del mercato e dei processi produttivi, soggetti ad un costante
incremento della componente tecnologica.
Verranno poi illustrate le diverse policy di flexicurity, attuate in alcuni
dei più importanti paesi europei, rappresentativi dei diversi modelli di welfare:
scandinavo, anglosassone, continentale e mediterraneo.
Il terzo capitolo tratterà le diverse forme di sicurezza sociale presenti in
Italia. La Penisola ha subito, a partire dagli anni ’90, con la riforma portata
avanti dall’ex Ministro Treu e gli ulteriori interventi succedutisi, radicali
mutamenti nell’ambito del mercato del lavoro. L’Italia in pochi anni ha visto
incrementare notevolmente il livello di flessibilità del lavoro, anche se questa si
è riversata principalmente sulla fasce più deboli della popolazione.
Rispetto ai sistemi di protezione sociale non sono mancati interventi
significativi tesi a modificarne profondamente l’assetto complessivo, come la
riforma degli ammortizzatori sociali (Legge 28.06.2012 n° 92) e le numerose
riforme pensionistiche, iniziate nel ’92 con Amato e continuate con cadenza
periodica fino al 6 dicembre 2011, data di approvazione della discussa riforma
Fornero.
Nel quarto capitolo, infine, l’indagine sugli ammortizzatori sociali e sui
sistemi di protezione sociale verrà estesa a due paesi extraeuropei, gli Stati
Uniti ed il Brasile.
Giova qui sottolineare alcune peculiari caratteristiche dei sistemi di
protezione statunitensi, diversi da quelli del Continente. In primo luogo,
l’assenza (o la minore presenza) di misure universalistiche di ridistribuzione del
reddito e di estensione a tutti i cittadini dei sistemi di welfare, la messa in atto
di politiche sociali ispirate, solitamente, all’erogazione dei servizi, il forte ruolo
dei privati nei sistemi di assistenza e di welfare. Si deve a Clinton l’eliminazione
del concetto di ‘diritto all’assistenza’ ad ognuno per il semplice fatto di essere
cittadino americano.
Nel caso del Brasile, invece, il modello di welfare adottato, sin
dall’inizio, era di chiara impronta europea. Il welfare brasiliano è di tipo
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corporativo, ispirato ai modelli di protezione sociale caratteristici dei paesi
dell’area centrale, Germania e Francia in particolare.
Tale sistema proviene, dal punto di vista storico, da una concezione di
carattere assicurativo, ovvero il modello bismarckiano, parzialmente integrata
da meccanismi assistenziali
In tale paese, tuttavia, per lungo tempo parte della popolazione era
rimasta esclusa da forme di protezione sociale. Più in generale, se il sistema di
welfare brasiliano non differisce da quello dei paesi europei, caratteristica della
nazione sudamericana è sempre stata la struttura sociale dalle forti differenze e
disuguaglianze, sconosciute alle realtà europee. Per lunghi anni il principale
problema è stato – ed è parzialmente tutt’ora – quello di innalzare il livello
complessivo (non solo economico, ma anche umano e sociale) di sviluppo del
paese.
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CAPITOLO PRIMO
ASPETTI DI DIRITTO COMPARATO
DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
1.1. I principali interventi di sostegno al reddito e le risposte
alla crisi dell’Unione Europea.
Ogni Paese europeo possiede un sistema assicurativo contro la
disoccupazione, in cui il lavoratore fornisce, con la sua prestazione, il
pagamento dei contributi “sociali”, ricevendo, in cambio, in caso di
disoccupazione, l’erogazione, da parte del gestore, dell’indennità di
disoccupazione. Inoltre, esiste un sistema assistenziale di sussidi di
disoccupazione, che interviene a sostegno del reddito dei disoccupati, che
sono esclusi dalle indennità di disoccupazione, o che sostituisce tali indennità
quando terminano.
Mentre nella maggior parte dei Paesi l’assicurazione contro la
disoccupazione che comprende generalmente tutti i lavoratori subordinati
entro i limiti dell’età pensionabile è obbligatoria, in Danimarca e in Svezia è
volontaria, ma la quasi totalità dei lavoratori è iscritta a una cassa per
l’assicurazione contro la disoccupazione.
Il finanziamento delle prestazioni relative alla disoccupazione, nella
maggior parte dei Paesi, si basa sui contributi versati dai lavoratori assicurati e
dai loro datori di lavoro, ma la loro suddivisione varia da Stato a Stato. Solo a
copertura di eventuali deficit nella gestione delle assicurazioni interviene la
fiscalità generale. I sussidi sociali, invece, vengono spesso finanziati attraverso
il fisco.
In questa fase, tutti i Paesi europei, trovandosi ad affrontare il problema
di un aumento generale della spesa relativa alla gestione della sicurezza sociale,
cercano possibili vie di riforma dei sistemi di welfare. Nel tentativo di contenere
8
la spesa sociale, si cerca di intervenire sulle condizioni di accesso al sistema
delle indennità, sulla generosità delle indennità e sugli adempimenti richiesti ai
beneficiari per incentivarli nella ricerca attiva di una nuova occupazione e, al
contrario, disincentivarli alla permanenza passiva nel sistema di sicurezza
sociale.
La crisi del sistema finanziario, che ha investito l’Unione europea
nell’autunno del 2008, ha richiesto un’azione immediata e coordinata. Perciò
gli Stati membri hanno concordato con la Commissione europea1 le azioni da
intraprendere per tutelare il settore bancario da fallimenti2. Inoltre, il Consiglio
europeo dell’ 11 e 12 dicembre 20083 ha approvato il Piano europeo di ripresa
economica, elaborato dalla Commissione4 e caratterizzato da una
combinazione di incentivi economici e riforme strutturali. I suoi principali
obiettivi sono: stimolare rapidamente la domanda e far rinascere la fiducia tra i
consumatori; ridurre l’impatto sociale, in particolare sulle categorie più
vulnerabili attraverso provvedimenti per contenere la perdita di posti di lavoro
ed assistere successivamente le persone a rientrare nel mercato del lavoro;
aiutare l’Europa nella ripresa.
Le tre grandi priorità nell’affrontare la crisi, definite dal Consiglio
europeo 20095 sono state: salvaguardare l’occupazione, creare posti di lavoro e
promuovere la mobilità, migliorare le competenze e rispondere ai bisogni del
mercato del lavoro, facilitare il reinserimento e l’accesso al lavoro.
L’economia dell’Unione europea ha vissuto una nuova fase recessiva
nel 2012. Allora la Commissione ha proposto un “pacchetto occupazionale”6
per creare una nuova domanda di lavoro, con lo scopo di sostenere la
1 Sull’importanza del coordinamento a livello europeo degli interventi, si veda EUROPEAN
COMMISSION, Economic Crisis in Europe: Causes, Consequences and Responses, European Economy, 2009, n. 7, pp. 59 ss.. 2 Cfr. J. HEYES, P. LEWIS, I. CLARK, Varieties of Capitalism in Crisis? The Consequences of the ‘Great Recession’ for Employment and Social Protections, Proceedings of the 16th ILERA World Congress, 2012. 3 Cfr. CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del 11 e 12 dicembre 2008, 13 febbraio 2009. 4 Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Un piano europeo di ripresa economica, 26 novembre 2008, COM(2008)800. 5 Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Un impegno comune per l’occupazione, 6 giugno 2009, COM(2009)257. 6 COMMISSIONE EUROPEA, Verso una ripresa fonte di occupazione, 18 aprile 2012, COM(2012)173.
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creazione di posti di lavoro attraverso sussidi alle assunzioni e il supporto alla
autoimprenditorialità; ridurre il cuneo fiscale; sostenere la crescita di posti di
lavoro in settori in espansione, come quelli dell’economia verde, dell’assistenza
sociale e sanitaria e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
La Commissione ha proposto, inoltre, in accordo con la Banca centrale
europea, di riformare i mercati del lavoro, rendendoli più dinamici e capaci di
incrementare la flessibilità interna, in modo da prevenire l’uso smodato delle
tipologie contrattuali non standard7. Tuttavia, i governi ed i datori sostengono
che irrigidire la regolamentazione in materia di lavoro determini costi
aggiuntivi per le imprese e ostacoli la ripresa economica. Pertanto diversi Paesi
hanno stabilito di non adottare misure che rendano più rigida la legislazione di
tutela dell’occupazione o che accrescano i diritti dei lavoratori.
Molteplici sono le combinazioni delle numerose variabili
macroeconomiche che determinano un impatto non omogeneo della crisi sui
Paesi europei. L’ampiezza degli effetti sulla situazione occupazionale dipende,
prima di tutto, dalla diversa variazione della domanda e del prodotto interno
lordo. Un altro fattore sembra essere l’elasticità dell’occupazione che risulta
bassa nell’attuale crisi rispetto al prodotto interno lordo. Inoltre la perdita dei
posti di lavoro a seguito della prima fase recessiva è stata in effetti
relativamente contenuta, considerato il consistente calo del prodotto interno
lordo8.
Invece le differenti dinamiche dei mercati nazionali del lavoro sono
influenzate anche dalle condizioni di ogni singolo contesto giuridico-
istituzionale, oltre che dai diversi approcci alla gestione della crisi.
Gli ordinamenti nazionali propongono due opzioni principali: la
dichiarazione di esubero dei lavoratori, e i conseguenti licenziamenti, o
l’adozione di misure per la conservazione dei posti di lavoro, in particolare
7 Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Verso una ripresa fonte di occupazione, cit. 8 Cfr. R. HIJMAN, The impact of the crisis on employment, Eurostat, Statistics in focus, 2009, n. 79, p. 2.
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attraverso la riduzione delle ore lavorate9, strategia, quest’ultima, che spiega il
fenomeno della bassa elasticità dell’occupazione rispetto al prodotto interno
lordo. La riduzione delle ore lavorate può essere attuata attraverso il ricorso
alle ferie obbligatorie, alla c.d. “banca ore”, ma anche alla riduzione dell’orario
di lavoro o alla sospensione dell’attività lavorativa10.
Pressati dalla necessità di gestire celermente il crescente impatto sociale
ed occupazionale della crisi economica, i Paesi europei non sono stati in grado
di attuare delle riforme strutturali e, quando ci sono riusciti, non hanno ancora
potuto percepirne gli effetti. I governi nazionali si sono limitati a
provvedimenti ed azioni emergenziali, che dessero una risposta immediata alla
situazione contingente. Successivamente in una seconda fase hanno approvato
misure organiche della regolamentazione del lavoro, come in Italia11 o in
Spagna12.
I primi provvedimenti nazionali attuati per fronteggiare la recessione
sono molto eterogenei13, ma l’analisi delle diverse risposte date da ogni Paese
ad uno stesso problema, cioè il contenimento dell’impatto della crisi
economica sul mercato del lavoro e sui cittadini, può essere utile per
semplificare la complessità di queste politiche nella loro catalogazione sotto
alcune semplici categorie: 1) misure per la promozione del reinserimento e la
creazione di nuovi posti di lavoro, 2) misure di supporto al reddito dei
disoccupati, 3) misure per la conservazione dei posti di lavoro14. Si può partire
9 Cfr. J. HURLEY, I. MANDL, D. STORRIE, T. WARD, Restructuring in recession, ERM Report 2009, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2009, p. 58. 10 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, European Economy, Occasional papers, giugno 2010, n. 64, p. 8. 11 Per un approfondimento sulla riforma italiana, cfr. i contributi raccolti in M. MAGNANI, M. TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffrè, Milano, 2012. 12 A. BAYLOS, Crisi del diritto del lavoro o diritto del lavoro in crisi: la riforma del lavoro spagnola del 2012, in Dir. rel. ind., 2012, n. 2, pp. 353-375. 13 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Recovering from the crisis – 27 ways of tackling the employment challenge, 2009. La diversità che caratterizza gli interventi di politica del mercato del lavoro attuati agli Stati membri tra la fine del 2008 e il 2009 è tale da averli identificati come “27 modi per affrontare la sfida dell’occupazione”. 14 J. HURLEY, I. MANDL, D. STORRIE, T. WARD, Restructuring in recession, ERM Report 2009, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2009; I. MANDL, L. SALVATORE, Tackling the recession: Employment-related public initiatives in the EU Member States and Norway, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2009.
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da qui per verificare se esiste un collegamento tra le politiche adottate dai Paesi
membri e l’andamento dei loro mercati del lavoro durante la crisi.
1.2. Misure per la promozione del reinserimento e la creazione
di nuovi posti di lavoro.
Vari Paesi europei sono intervenuti sui servizi pubblici per l’impiego
affinché questi si adeguassero alle nuove condizioni e necessità del mercato del
lavoro e della promozione del reinserimento dei lavoratori nel mercato
attraverso l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, l’orientamento, il
supporto alla ricerca del lavoro e le misure di attivazione dei disoccupati15. Tali
provvedimenti hanno generalmente comportato ristrutturazioni
dell’organizzazione dei servizi, ampliamento del personale dedicato e attività
formative aggiuntive.
Si è resa necessaria l’introduzione di sussidi che hanno facilitassero la
mobilità territoriale o benefici fiscali come incentivo per i lavoratori ad
accettare nuovi posti di lavoro, anche lontani dalla loro residenza.
Inoltre, per promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, sono
state supportate nuove assunzioni da parte delle imprese: si registrano
consistenti incentivi nella riduzione dei contributi sociali a carico dei datori di
lavoro in caso di nuove assunzioni, interventi con fondi pubblici a copertura
delle retribuzioni dei lavoratori, creazione di nuovi posti di lavoro nel settore
pubblico, consulenza e formazione specifiche, riduzione o dilazione del
versamento dei contributi sociali allo scopo di favorire il lavoro autonomo e
l’autoimprenditorialità16.
15 Cfr. I. MANDL, L. SALVATORE, op. cit., pp. 20 ss.. 16 Cfr. OECD, Employment Outlook 2010 - Moving Beyond The Jobs Crisis, 2010; EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2010.
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1.3. Misure di supporto al reddito per i disoccupati.
Tra gli interventi di politica del lavoro rientrano anche quelli passivi,
consistenti nel supporto al reddito dei lavoratori disoccupati. Lo strumento
principale è rappresentato dall’indennità di disoccupazione, che ha la funzione
di ridurre l’impatto socio-economico a seguito della perdita del posto di
lavoro17.
Anche se tutti i paesi dell’Unione europea dispongono di sistemi
consolidati di indennità di disoccupazione18, modifiche (anche temporanee)
sono state apportate alle regolamentazioni in materia per garantire una
copertura adeguata a seguito dell’incremento del numero dei disoccupati. Sono
stati ritoccati principalmente i criteri di eleggibilità, l’ammontare del sussidio, la
durata e le categorie degli aventi diritto19. Nello specifico, mentre alcuni
interventi hanno mirato a ridurre o a rendere meno severi i criteri di accesso,
altri hanno esteso la durata del diritto al beneficio, altri ancora hanno
introdotto nuove misure di sostegno al reddito per particolari categorie di
lavoratori escluse dai trattamenti.
Le misure dirette a supportare la conservazione dei posti di lavoro si
concretizzano in aiuti diretti o indiretti alle imprese. Più nel dettaglio, si
annoverano interventi volti a ridurre l’ammontare dei contributi sociali a carico
dei datori di lavoro con riferimento ai lavoratori già assunti dall’impresa o a
dilazionarne il versamento20; aiuti diretti alle imprese, consistenti in prestiti
pubblici, garanzie per i prestiti, prestiti a interessi ridotti; aiuti indiretti, come
investimenti pubblici in infrastrutture o incentivi agli acquisti per i
consumatori.
Nell’ambito delle misure per la conservazione dei posti di lavoro si
collocano, inoltre, forme di sostegno alle imprese per interventi formativi a
favore dei lavoratori occupati, spesso dirette ai lavoratori sospesi dal lavoro o
17 Sull’assicurazione contro la disoccupazione nella crisi, si veda J. ROTHSTEIN, Unemployment Insurance and Job Search in the Great Recession, NBER Working Paper 2011, n. 17534. 18 Per un’analisi comparata, cfr. K. STOVICEK, A. TURRINI, Benchmarking Unemployment Benefit Systems, Economic Papers, European Economy, 2012, n. 454. 19 Cfr. I. MANDL, L. SALVATORE, op. cit., pp. 27 ss.. 20 Cfr. J. HURLEY, I. MANDL, D. STORRIE, T. WARD, op. cit., p. 112.
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in riduzione di orario e con l’obiettivo di conservare e accrescere le loro
competenze in preparazione della ripresa economica.
In alcuni casi, l’accesso al sostegno al reddito riconosciuto ai lavoratori
in riduzione oraria o in sospensione dal lavoro è garantito dalla partecipazione
a tali percorsi formativi21. Poiché la recessione comporta necessariamente
modifiche nella strutturazione economica di un paese, nella tipologia di
produzione di beni e servizi, nell’organizzazione del lavoro, queste
trasformazioni determinano cambiamenti nella domanda di conoscenze e
competenze, che si accompagnano a un trend preesistente, caratterizzato
dall’evoluzione della struttura occupazionale verso lavori a maggiore intensità
di conoscenze e competenze (knowledge and skill-intentive jobs)22. Emerge la
rilevanza dell’istruzione e della formazione, così come l’importanza della
riqualificazione dei lavoratori a rischio di disoccupazione, perché possano
acquisire le competenze che saranno richieste nel mercato del lavoro del post-
crisi. In questa prospettiva, paiono fondamentali gli interventi a supporto della
formazione nell’ambito di una congiuntura negativa. In alcuni ordinamenti,
infatti, sono previsti degli incentivi o contributi pubblici a supporto dei costi di
formazione sostenuti dai datori di lavoro per i loro dipendenti23.
Tra le politiche dirette a prevenire i licenziamenti e sostenere la
conservazione dei posti di lavoro, hanno acquisito particolare rilevanza
durante la crisi quelle misure identificate a livello internazionale con
l’espressione short time work(ing) arrangements (STWA), cioè sistemi che
consentono alle imprese di ridurre l’orario di lavoro oppure sospendere
temporaneamente l’attività lavorativa e che riconoscono ai lavoratori una
compensazione per il mancato reddito conseguente alle ore non lavorate24.
21 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, European Economy, Occasional papers, giugno 2010, n. 64, 21, 23, 33. 22 Cfr. CEDEFOP, In Europa posti di lavoro a maggiore intensità di conoscenze e competenze, nota informativa, febbraio 2010. 23 Cfr. OECD, Employment outlook 2009, cit., p. 95; I. MANDL, L. SALVATORE, op. cit., pp. 13 ss. 24 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., p. 8; EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2010, cit., pp. 78 ss..
14
Rientra evidentemente in tale tipologia di misure il sistema italiano della cassa
integrazione guadagni.
Nel panorama europeo, questi sistemi di sostegno e integrazione del
reddito in caso di riduzione dell’orario o sospensione dal lavoro differiscono
considerevolmente in termini di procedure, coinvolgimento dei sindacati,
“piani di rientro”, categorie di possibili beneficiari, criteri di eleggibilità e
importo della compensazione25. Tuttavia, alle diverse misure nazionali è
comune l’obiettivo di prevenire i licenziamenti e garantire la tutela del reddito
dei lavoratori soggetti alla riduzione oraria. I vantaggi collegati a queste misure
non sono, comunque, riservati soltanto ai lavoratori: esse consentono alle
imprese di conservare il patrimonio di competenze e capacità tecniche
accumulate dai lavoratori negli anni di esperienza lavorativa e di evitare gli
elevati costi dei licenziamenti e quelli che, al momento della ripresa economica,
l’azienda si troverebbe a fronteggiare per la ricerca di nuovo personale
qualificato e la sua formazione. Di non minore rilevanza è, poi, l’utilità di
queste misure di sostegno al reddito per i governi nazionali. Da questo punto
di vista, infatti, garantendo la tutela del reddito dei lavoratori, tali misure sono
fondamentali al fine di mantenere il controllo sociale e prevenire possibili
conseguenze politico-istituzionali.
Nei diversi ordinamenti nazionali, è possibile distinguere sistemi
consolidati di sostegno del reddito in caso di riduzione dell’orario o
sospensione dal lavoro da misure di nuova istituzione, introdotte per
fronteggiare la crisi.
Con riferimento alla prima categoria, i sistemi di sostegno al reddito in
caso di riduzione dell’orario di lavoro si inquadrano nei sistemi più complessivi
di assicurazione contro la disoccupazione (Austria, Belgio, Francia, Germania,
Italia).
25 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., pp. 18 ss.; I. MANDL, L. SALVATORE, op. cit., pp. 11-13.
15
I datori di lavoro e i lavoratori versano una quota di contributi sociali
(“premio”) a copertura di questo specifico rischio e i lavoratori potranno
ottenere il “risarcimento” in forma di sostituzione del reddito nel caso del
verificarsi del “danno” ovvero della riduzione dell’orario di lavoro o della
sospensione. A seguito dell’inizio della crisi economica, questi sistemi hanno
tendenzialmente adattato o ampliato le misure di tutela del reddito prevedendo
incrementi dell’ammontare delle indennità ed estensione della durata
temporale massima delle misure oppure del campo di applicazione26. In alcuni
contesti nazionali (Bulgaria, Olanda, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria),
privi di tali sistemi, sono state introdotte forme di sostegno al reddito per
riduzione dell’orario di lavoro o sospensione come nuove misure volte a
fronteggiare la crisi economica. Per questa ragione, esse non sono parte del
sistema di assicurazione contro la disoccupazione e perciò non sono finanziate
dai contributi sociali versati dai datori di lavoro e dai lavoratori, ma dalla
fiscalità generale27.
In alcuni sistemi nazionali (Danimarca, Finlandia, Irlanda, Spagna e
Regno Unito), tale sostegno al reddito è costituito dall’indennità di
disoccupazione parziale che viene riconosciuta normalmente ai lavoratori part-
time che sono alla ricerca di un lavoro a tempo pieno. In questo caso, i
lavoratori in riduzione oraria o in sospensione sono considerati alla stregua di
lavoratori disoccupati. Infatti, per accedere all’indennità, devono soddisfare i
normali requisiti richiesti per l’indennità di disoccupazione piena, compresa la
disponibilità alla ricerca di una nuova occupazione, nonostante siano ancora
titolari di un contratto di lavoro (è il caso di Danimarca, Finlandia e Regno
Unito). Poiché la misura di sostegno al reddito in caso di riduzione oraria è, a
26 Con rifermento alle modifiche subite da tali sistemi durante la crisi, cfr. EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2010, cit., p. 80. 27 Per il finanziamento del sostegno al reddito per riduzione dell’orario di lavoro o sospensione, si veda EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., p. 25.
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tutti gli effetti, un’indennità di disoccupazione, essa viene erogata direttamente
dall’istituto previdenziale28.
Al contrario, in altri ordinamenti (Germania, Austria, Belgio, Francia,
Italia), l’accesso al sostegno al reddito in caso di riduzione o sospensione non è
subordinato ai criteri di eleggibilità e alle condizioni previste per l’indennità di
disoccupazione, bensì semplicemente scaturisce dalla circostanza di essere
colpito dalla riduzione oraria o dalla sospensione dal lavoro. Questo non
esclude che possano essere previsti requisiti specifici per i lavoratori, come per
esempio in Italia un periodo minimo di anzianità lavorativa presso il datore di
lavoro, nel caso dei trattamenti straordinari di integrazione salariale. Questi
sistemi prevedono, inoltre, che la prestazione di sostegno al reddito, ancorché
a carico del sistema previdenziale, possa essere erogata per tramite del datore
di lavoro, unitamente alla retribuzione per le ore lavorate.
La modalità di erogazione della prestazione non rappresenta soltanto
un aspetto formale e procedurale, ma riflette anche un profilo sostanziale:
evidenzia la diversa concezione alla base delle differenti tipologie di sostegno
al reddito in caso di riduzione dell’orario di lavoro. Infatti, mentre nei sistemi
che erogano l’integrazione del reddito prevale la prospettiva della permanenza
del lavoratore nel rapporto di lavoro e della temporaneità della riduzione oraria
e della sospensione; negli altri sistemi viene maggiormente evidenziato il
profilo della disoccupazione, benché parziale.
1.4. L’efficacia delle politiche anticrisi
Dagli studi relativi alle diverse dinamiche dei mercati del lavoro europei
si evince che ad avere un effetto negativo sul mercato del lavoro sono le
rigidità istituzionali in materia di regolamentazione del diritto del lavoro, gli alti
costi accessori del lavoro e i sussidi del sistema di sicurezza sociale.
28 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., pp. 18-19.
17
In tutti i sistemi europei sono previste, in caso di disoccupazione,
prestazioni economiche sostitutive del reddito, che assumono varie funzioni.
Infatti, se da un lato funzionano da stabilizzatori nei momenti di congiunture
economiche negative, dall’altro offrono la possibilità di cercare un posto di
lavoro con relativa tranquillità e senza dover accettare il primo lavoro offerto
per la necessità impellente. In questo modo il reinserimento lavorativo
dovrebbe essere migliore perché si creerebbe un’effettiva corrispondenza fra le
caratteristiche professionali del lavoratore e le necessità del datore di lavoro.
D’altro canto possono esservi effetti negativi sul mercato del lavoro
innescati dalle indennità di disoccupazione per il fatto che un elevato livello di
prestazioni sociali in caso di disoccupazione innalza il livello della retribuzione
pretesa dal lavoratore per l’accettazione di un nuovo posto di lavoro,
allungando i tempi di ritorno al lavoro e determinando una disoccupazione di
lungo periodo. Ed è per questo motivo che i Paesi con prestazioni di sostegno
al reddito molto elevate si sono dotati di sistemi di reinserimento al lavoro
anche mediante servizi per l’impiego o meccanismi di attivazione dei lavoratori
disoccupati alla ricerca di un’occupazione, caratterizzati da incentivi e sanzioni.
Per valutare gli effetti delle politiche pubbliche sul mercato del lavoro è
necessario che trascorra un congruo periodo di tempo. Infatti, tale valutazione
è resa difficile anche dall’interrelazione tra gli interventi di politica economica,
fiscale e finanziaria29, resi ulteriormente complessi dal presentarsi di una nuova
fase recessiva. Tuttavia diversi studi hanno compiuto una valutazione degli
effetti delle politiche30.
29 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., p. 6; OECD, Employment Outlook 2010, cit., p. 56; OECD, EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2010, cit., p. 95; EUROPEAN COMMISSION, Economic Crisis in Europe: Causes, Consequences and Responses, cit., p. 71. 30 cfr. EMPLOYMENT COMMITTEE, EUROPEAN COMMISSION, The choice of effective employment policies measures to mitigate jobless recovery in times of fiscal austerity, cit.; EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2010, cit.; OECD, Employment Outlook 2010, cit., p. 11, pp. 46 ss..
18
Le misure più adatte ad arginare gli effetti negativi della crisi sui livelli
occupazionali31 e a contenere l’aumento della disoccupazione mediante la
prevenzione dei licenziamenti sembrano essere state quelle indirizzate al
mantenimento dell’occupazione. E, tra queste, le più efficaci nel conservare i
posti di lavoro sono risultate le misure di sostegno al reddito in caso di
riduzione dell’orario di lavoro32, anche se, a causa delle distorsioni del mercato,
tali misure hanno prodotto anche alcuni effetti negativi. Le distorsioni del
mercato sono generate quando la riduzione dell’orario di lavoro o la sua
sospensione conducono ad un mantenimento artificioso dell’occupazione in
settori in declino o in imprese non competitive, che pertanto non consentono
un’efficiente riallocazione del fattore lavoro (effetto spiazzamento). Un’altra
distorsione del mercato è rappresentata dal cosiddetto effetto “peso morto”,
che si determina quando vengono concesse misure ad aziende che non ne
hanno bisogno e che non ridurrebbero comunque i posti di lavoro. La
riduzione del periodo di godimento del beneficio oppure l’individuazione di
criteri più severi per l’accesso rappresentano delle contromisure da adottare
allo scopo di prevenire o limitare le distorsioni33.
L’effetto “peso morto” può produrre ancora distorsioni quando
vengono offerti incentivi all’assunzione o si riducono i costi del lavoro poiché
queste soluzioni, pur essendo efficaci nella creazione di posti di lavoro,
risultano costosi. Inoltre, la creazione diretta di posti di lavoro nel settore
pubblico ha poche possibilità, rispetto ad altre misure, di ottenere un impatto
positivo sul mercato del lavoro34.
31; con riferimento alla realtà nazionale italiana, si vedano M. MAGNANI, L’uso allargato della Cassa integrazione tra emergenza e ricerca di una logica di sistema, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2010, n. 2. 32 Cfr. OECD, Employment Outlook 2010, cit., pp. 11, 18, 56 ss.; EMPLOYMENT COMMITTEE, EUROPEAN COMMISSION, The choice of effective employment policies measures to mitigate jobless recovery in times of fiscal austerity, cit.; I. MANDL, J. HURLEY, M. MASCHERINI, D. STORRIE, Extending flexicurity – The potential of short time working schemes, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2010, p. 1. 33 Cfr. OECD, Employment Outlook 2010, cit., p. 57. 34 Cfr. J. KLUVE, The Capacity of Active Labour Market Policies to Combat European Unemployment, in G. DI DOMENICO, S. SPATTINI (eds.), New European Approaches to Long-Term Unemployment, Kluwer Law International, Alphen aan den Rijn, The Netherlands, 2008, pp. 27-37.
19
Considerando le misure che promuovono il reinserimento, la
formazione ha un limitato effetto positivo sull’occupazione e risulta più
efficace in periodi di alta disoccupazione. Non è facile però affermare quanto
essa possa essere utile durante una fase recessiva35. Al contrario, l’assistenza
alla ricerca di un nuovo lavoro e le misure di attivazione dei lavoratori
implementate dai servizi per l’impiego hanno un impatto positivo
sull’occupazione, risultando efficaci nel breve periodo, ma necessitano di un
contesto economico caratterizzato da una crescita o una stabilità della
domanda di lavoro. Infatti, solo se si registra domanda di lavoro, è possibile
supportare la ricerca di una nuova occupazione, l’incrocio domanda-offerta e il
reinserimento dei lavoratori nei processi produttivi.
Le misure di supporto al reddito per i disoccupati possono avere un
effetto negativo sulla disoccupazione poiché il tasso del rimpiazzo del reddito
e la durata scoraggiano la ricerca e l’accettazione di un nuovo lavoro. Si può
provare a ridurre questi effetti negativi diminuendo l’ammontare del beneficio
e il periodo di godimento e condizionando il sostegno al reddito con
l’accettazione di un lavoro congruo36. Tali aggiustamenti vengono proposti in
quasi tutti i sistemi nazionali, che prevedono, come mostra la tabella, un diritto
all’indennità di disoccupazione condizionato alla ricerca attiva di un nuovo
lavoro, all’immediata disponibilità e all’accettazione di un lavoro congruo e alla
partecipazione alle misure di politica attiva, di solito accompagnate da un
piano di azione individuale o da un patto di servizio37. Tale accordo è stipulato
tra i beneficiari del sostegno al reddito e i servizi pubblici per il lavoro e
identifica diritti e doveri di ciascuna parte contraente; inoltre, allo scopo di
garantire l’effettività del condizionamento, sono previste sanzioni per il
beneficiario del sostegno in caso di non conformità agli obblighi assunti.
35 Cfr. EMPLOYMENT COMMITTEE, EUROPEAN COMMISSION, The choice of effective employment policies measures to mitigate jobless recovery in times of fiscal austerity, cit., p. 7, dove inoltre si sottolinea che gli interventi formativi per essere efficaci devono essere ben mirati e calibrati sugli effettivi fabbisogni formativi del mercato. 36 Cfr. OECD, Employment Outlook 2006 – Boosting Jobs and Incomes, 2006, pp. 190 ss.. 37 Nella letteratura internazionale, ci si riferisce a tali concetti con l’espressione “client contract”: sul punto cfr. S. SPATTINI, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pubblico e neo-contrattualismo, Giuffrè, Milano, 2008, cap. II, spec. pp. 108 ss..
20
1.5. I modelli sociali in Europa e la loro efficacia nel
combattere la crisi.
I modelli sociali che vengono proposti dai vari Paesi dell’Unione
europea sono tre.
I Paesi vengono classificati prima di tutto in base alla severità della
legislazione di tutela dell’occupazione, misurata dall’indice elaborato
dall’OECD38. I Paesi con indice superiore a quello della media europea sono
riconducibili al modello welfare, a seguire, con un indice abbastanza
contenuto, i Paesi di flexicurity ed, infine, i Paesi anglosassoni dalla legislazione
liberale.
I sistemi di welfare sono caratterizzati da una legislazione di tutela
dell’occupazione (in particolare di tutela contro i licenziamenti) piuttosto
restrittiva. Poiché la conservazione del posto di lavoro è il primo obiettivo di
questi sistemi, gli altri elementi non assumono la rilevanza della tutela contro i
licenziamenti. Infatti, i trattamenti di integrazione del reddito in caso di
disoccupazione sono tendenzialmente poco generosi in termini di durata e
tasso di rimpiazzo, in particolare se paragonati a quelli dei modelli di flexicurity.
Il modello di flexicurity ha una regolamentazione flessibile in materia di
lavoro e una legislazione di tutela dell’occupazione poco restrittiva poiché
punta ad una continuità dell’occupazione anche se non necessariamente nello
stesso posto di lavoro. L’alta flessibilità è controbilanciata da efficaci interventi
di politica attiva sul territorio, consistenti in attività formative per la
riqualificazione professionale, supporto della transizione dei lavoratori da un
posto all’altro e reinserimento nel mercato del lavoro, anche con l’aiuto dei
servizi pubblici per l’impiego.
38 L’idea dell’indice nasce da D. GRUBB, W. WELLS, Employment Regulation and Patterns of Work in EC Countries, in OECD Economic Studies, 1993, n. 21, pp. 7-58, e successivamente viene sviluppato dall’OECD. Per la definizione e la metodologia della costruzione dell’indice della tutela dell’occupazione, si veda OECD, Employment Outlook 1994, cit., pp. 50 ss.; per l’interrelazione tra la severità della legislazione di tutela dell’occupazione e le dinamiche del mercato del lavoro, cfr. anche OECD, Employment Outlook 2004, cit. Invero, esistono critiche sulla sua costruzione, come ammette D. VENN, Legislation, Collective Bargaining and Enforcement: Updating the OECD Employment Protection Indicators, Social, Employment and Migration Working Paper, OECD, 2009, n. 89, p. 11, tuttavia viene ampiamente utilizzato.
21
Il modello anglosassone ha una legislazione a tutela dell’occupazione
decisamente liberale, con indennità di disoccupazione poco generose ma
politiche di attivazione e per il lavoro cui sono condizionati i trattamenti di
disoccupazione molto efficienti.
Se si osserva l’andamento degli indicatori economici dei diversi Paesi
membri prima e durante la crisi, si possono fare delle considerazioni sulle
performance dei vari modelli sociali.
Il modello di flexicurity ha sempre presentato performance piuttosto
buone, con tassi di disoccupazione inferiori alla media dell’Unione europea e
con il più alto tasso di occupazione.
In tendenza contraria, i Paesi improntati al modello di welfare
registravano tassi di disoccupazione maggiori della media europea.
Il modello di flexicurity, durante la crisi, si è rivelato piuttosto
fallimentare perché non ha saputo contenere le variazioni degli indicatori
occupazionali39: il tasso di disoccupazione dei Paesi che attuano questo
modello è cresciuto mentre quello di occupazione è diminuito per un valore
compreso tra 2 e 5 punti percentuali. Anzi, la disoccupazione è aumentata del
30% rispetto al 2008 e in Danimarca, esempio di flexicurity, è più che
raddoppiato40.
Alcuni Paesi con modello di welfare (Belgio, Austria, Francia, Germania
e Italia) hanno visto aumentare la disoccupazione e diminuire l’occupazione di
2 punti percentuali, mentre altri Paesi, come Grecia e Spagna, hanno raggiunto
livelli di disoccupazione di 10 punti percentuali e una riduzione
dell’occupazione di oltre 6 punti. Tale difformità dipende sia dalla variazione
del prodotto interno lordo sia dalla dotazione di sistemi di integrazione del
reddito in caso di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro.
39 Cfr. O. VAN VLIET, H. NIJBOER, Flexicurity in the European Union: Flexibility for Outsiders, Security for Insiders, Department of Economics Research Memorandum, Leiden University, 2012, n. 2, p. 14, e P. AUER, La flexicurity nel tempo della crisi, in Diritto delle relazioni industriali, 2011, n. 1, pp. 37-58. 40 Per un’analisi della crisi in Danimarca e la validità del suo modello di flexicurity, cfr. P.K. MADSEN, Reagire alla tempesta. La flexicurity danese e la crisi, in Diritto delle relazioni industriali, 2011, n. 1, pp. 78-96.
22
Il modello anglosassone, pur avendo visto una riduzione del prodotto
interno lordo molto differente tra Irlanda (-7,4% tra 2008 e 2010) e Regno
Unito (-2,2% tra 2008 e 2010), è caratterizzato da un andamento comune nella
variazione degli indici.
Emerge da queste osservazioni che il modello di welfare risulta quello
che è riuscito meglio a ridurre l’impatto della crisi sul mercato del lavoro,
contenendone le variazioni negative, forse grazie alla severità della legislazione
di tutela dell’occupazione (anche se proprio Grecia e Spagna, che hanno i più
elevati indici di severità, hanno subito un elevato decremento
dell’occupazione)41. La differenza tra Paesi come la Grecia e la Spagna e altri
come l’Austria, il Belgio, la Francia e l’Italia, nell’ambito del modello di welfare
è rappresentata dall’assenza di un sistema di sospensione o riduzione
dell’orario di lavoro con compensazione del reddito. Pertanto sarà stato questo
elemento, piuttosto che la severità della legislazione, ad aver consentito il
controllo della riduzione del tasso di occupazione e dell’incremento di quello
di disoccupazione.
Date le buone performance del modello di flexicurity nei periodi
precedenti la crisi, istituzioni internazionali, come l’OECD e la Commissione
europea lo hanno ritenuto il miglior esempio da seguire in quanto ne
apprezzava l’obiettivo di garantire la sicurezza del reddito attraverso la tutela
dell’occupazione grazie all’implementazione di efficaci politiche attive per il
lavoro42.
I modelli di welfare erano, invece, criticati perché basati sulla tutela del
posto di lavoro e sulla prevalenza delle politiche passive su quelle attive e per
un atteggiamento sfavorevole verso strumenti di integrazione del reddito in
casi di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro per difficoltà aziendali
(short time work arrangements).
41 J. HEYES, P. LEWIS, Employment Protection Under Fire: Why Labour Market Deregulation Will Not Deliver Quality Jobs, Working Paper presentato alla SPERI Inaugural Conference, 16-18 luglio 2012, 20, evidenziano che la rigidità della legislazione di per sé può essere efficace nel contenimento della perdita di posti di lavoro soltanto in una prima fase della crisi. 42 Cfr. OECD, Employment Outlook 2004, cit., spec. pp. 97-98; O. VAN VLIET, H. NIJBOER, op. cit., pp. 1, 14; inoltre, cfr. EUROPEAN COMMISSION, Employment in Europe 2007, 2007, pp. 125 ss..
23
Attualmente però, dopo aver constatato la tenuta di questo modello
nella gestione della crisi, la critica si è affievolita43, mentre investe il modello di
flexicurity, prima considerato il migliore44.
I principi di flessibilità e di sicurezza hanno influenzato moltissimo il
dibattito europeo sulla riforma del mercato del lavoro nell’ultimo decennio. Il
modello paradigmatico che tende a un mercato del lavoro estremamente
flessibile senza essere privo di una forte protezione sociale, soprattutto nei
confronti di lavoratori a margine e dei disoccupati, è quello danese. La
Danimarca, inoltre, rappresenta un esempio virtuoso anche per quanto
riguarda le capacità di innovazione economica e di riforma istituzionale, i livelli
di formazione professionale, la cooperazione tripartitica a tutti i livelli che crea
consenso sia sulle iniziative specifiche che sugli obiettivi generali delle politiche
da seguire.
La letteratura ha definito questo modello “triangolo d’oro”45 e ha
individuato i suoi vertici in un mercato del lavoro altamente flessibile, uno
schema generoso di ammortizzatori sociali e un’ampia diffusione delle
politiche attive, associati ad un alto grado di coesione sociale.
Col termine flessibilità ci si riferisce ad una flessibilità numerica dei
lavoratori che ogni anno cambia lavoro, passando da un’azienda all’altra e
attraversando un periodo di disoccupazione: solo il 20% di questi lavoratori
sarà aiutato dal sistema delle politiche attive al reinserimento lavorativo,
mediante, per esempio, corsi di riqualificazione e job training, mentre gli altri
troveranno una nuova occupazione autonomamente. Inoltre, la scarsa
protezione del posto di lavoro in Danimarca determina un altro livello di
mobilità, avvicinandosi ai sistemi liberali prevalenti in Canada, Irlanda, Gran
43 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Short time working arrangements as response to cyclical fluctuation, cit., pp. 15 ss., e EUROPEAN COMMISSION, Adapting unemployment benefit systems to the economic cycle, 2011, 2011, p. 25. 44 La EUROPEAN FOUNDATION FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND WORKING CONDITIONS, Flexicurity: perspectives and practice, 2010, pp. 4, 7, richiama il dibattito relativo al fatto che la flexicurity rimanga un modello valido anche nella crisi economica. 45 B. ANASTASIA, M. MANCINI, U. TRIVELLATO, Il sostegno al reddito dei disoccupati: note sullo stato dell’arte. Tra riformismo strisciante, inerzie dell’impianto categoriale e incerti orizzonti di flexicurity, WP n.112, ISAE, aprile 2009.
24
Bretagna e Stati Uniti46: ogni anno il 25-30% dei lavoratori cambia datore di
lavoro ed è colpita da disoccupazione, ricevendo sussidi di disoccupazione o di
supporto47.
In Danimarca, le organizzazioni sindacali e industriali mettono in atto
una gestione politica e un controllo dettagliato e concertato, che fanno in
modo di attivare diversi e alti livelli di flessibilità: dell’orario (straordinari, part-
time ecc.), funzionale e organizzativa (mobilità interna al posto di lavoro sia
orizzontale che verticale), salariale. Nel modello danese ha assunto un ruolo
rilevante la contrattazione fra le parti sociali, in un clima di reciproca fiducia e
responsabilità, spesso con l’esclusivo intervento delle autorità politiche locali,
che curano quasi tutti gli aspetti principali del rapporto di lavoro (livelli
salariali, offerta di corsi di formazione e politiche attive). Infatti, l’intervento
legislativo sul mercato del lavoro si limita a definire aspetti di cornice, quali
ferie, sanità e sicurezza, o a recepire direttive comunitarie48.
Anche se la legislazione non protegge abbastanza il posto di lavoro e la
mobilità occupazionale e la disoccupazione sono avvenimenti frequenti, dalle
indagini demoscopiche in materia emerge che i cittadini danesi si sentono
molto più sicuri del proprio status occupazionale rispetto ai cittadini degli altri
Paesi europei49: ciò si spiega con la transitorietà del fenomeno della
disoccupazione, il controllo sociale che previene forme di licenziamento
arbitrario, la generosità e tempestività del sistema di ammortizzatori sociali50.
46 B. AMOROSO, Luci ed Ombre del Modello Danese, Relazione tenuta presso L’Università degli Studi Roma 3, Facoltà di Economia Federico Caffè, 21 febbraio 2006. 47 Per misurare il grado di protezione dell’occupazione assicurato dalla legislazione vigente in ciascun Paese, l’OCSE ha elaborato un indicatore sintetico, Employment Protection Legislation (EPL), ottenuto dalla media ponderata di tre indici (grado di protezione dei lavoratori standard, dei lavoratori a termine, licenziamenti collettivi) sulla regolamentazione dei licenziamenti. Il valore dell’EPL, compreso tra 0 e 6, riflette il grado di rigidità della normativa. E la Danimarca, con valore dell’EPL di 1,8, dopo il Regno Unito (1,1) e l’Irlanda (1,3) è il Paese con legislazione meno vincolante. [Per l’Italia l’EPL si attesta al 2,4. Cfr. OECD, Employment Outlook, 2009 (dati 2008)]. 48 V. FERRONI, D. GUERRERA, Gli ammortizzatori sociali in Italia. Prospettive, confronti e risposte alla crisi, in MEF, N. 5, luglio 2010, p. 19. 49 P. K. MADSEN, The Danish Model of Flexicurity: A Paradise – With Some Snakes, in H. SARFATI, G. BONOLI, Labour Market and Social Protection Reforms in International Perspective: Parallel or Converging Tracks?, Aldershot, Ashgate, 2002. 50 Nel sistema danese, nonostante le notevoli restrizioni per ridurre la componente di sicurezza del reddito a favore di meccanismi di incentivazione al lavoro, la copertura del sussidio di disoccupazione è del 70% per il lavoratore di reddito medio e del 90% per i bassi salari: si tratta di benefici tra i più alti
25
Per disincentivare comportamenti opportunistici, si è vincolata
l’erogazione dei sussidi alla partecipazione alle politiche attive ed è stato
migliorato il monitoraggio della ricerca effettiva del lavoro.
Si può, dunque, definire il sistema occupazionale danese come un
sistema ibrido, caratterizzato da livelli di flessibilità comparabili con quelli dei
Paesi anglosassoni e da sistemi di protezione sociale e schemi di attivazione a
carattere universale proprio del tradizionale modello di welfare scandinavo. Alle
politiche del lavoro la Danimarca destina le maggiori risorse, in termini di
quota sul PIL.
Dato che la Commissione europea considera il modello danese una best
practice da imitare in ogni Paese dell’Unione europea, bisogna individuare le
condizioni necessarie per replicare, anche in contesti profondamente diversi
dalla Danimarca, i successi registrati dal sistema danese, tenendo conto, però,
di alcuni aspetti critici individuati dalla letteratura51.
Innanzitutto la Danimarca registra una graduale espulsione dei
lavoratori con basse qualifiche, che non sono in grado di sostenere le esigenze
di continua crescita della produttività né di riqualificarsi mediante schemi di
attivazione. Infatti, l’offerta di formazione è diretta principalmente ai lavoratori
più produttivi invece che a quelli che hanno la necessità di accrescere le loro
competenze.
Un’altra criticità è rappresentata dalla sostenibilità fiscale di questo
modello, che assorbe molte risorse, in una fase di recessione52.
La vera innovazione del sistema danese viene individuata
nell’introduzione di efficaci schemi di attivazione (più che dalla riduzione
tra i paesi dell’UE. Misure di sostegno del reddito sono previste anche per i lavoratori non assicurati, in una misura corrispondente a circa l’80% del sussidio di disoccupazione. 51 P. K. MADSEN, The Danish Model of Flexicurity: A Paradise - With Some Snakes, op. cit.; D. LANG, Can the Danish Model of Flexicurity Be a Matrix for the Reform of European Labour Markets?, GRES working paper, 18, 2006. 52 In tali condizioni, la flessibilità finirebbe per prevalere sull’istanza di sicurezza, come accaduto del resto negli anni più recenti nella gran parte dei Paesi europei, dove si è significativamente incrementata la deregolamentazione del mercato del lavoro senza al contempo prevedere un’adeguata compensazione in termini di protezione sociale. Cfr. A. TANGIAN, European Flexicurity: Concepts (Operational Definitions), Methodology (Monitoring Instruments), and Policies (Consistent Implementation), 2006.
26
dell’EPL) grazie ad un lungo processo storico che coinvolge tutti gli attori
sociali.
Inoltre si è notato che il modello di flexicurity alla danese non è
sostenibile in Paesi dotati di poco senso civico, sia da parte dei datori di lavoro
che dei lavoratori. In generale, il successo di un modello è legato alla totalità
delle istituzioni presenti e al funzionamento di un sistema intero di politiche
complementari53.
Infine, la struttura produttiva e le interconnessioni fra politiche del
lavoro e politiche industriali, incluse quelle per promuovere l’innovazione non
vanno trascurate54. Infatti, il sistema danese sembra legato alla necessità di
migliorare le qualifiche dei lavoratori in un sistema economico molto
innovativo, il quale preferisce la flessibilità per rispondere ad un’esigenza di
innovazione tecnologica e non certo per risparmiare sul costo del lavoro.
53 Esportare unicamente alcuni elementi di tale modello (ad esempio la deregolamentazione dei mercati) senza tener conto delle complesse complementarità e interconnessioni istituzionali (o anche di semplici aspetti di disomogeneità territoriale) potrebbe risolversi in un fallimento e dar luogo a risultati perversi. 54 P. BORIONI, La flexicurity scandinava: inclusione e competizione, in Welfare scandinavo, welfare italiano. Il modello sociale europeo, Carocci 2005.
27
CAPITOLO SECONDO
AMMORTIZZATORI, WELFARE E FLEXICURITY
A LIVELLO COMUNITARIO
IN PROSPETTIVA COMPARATIVA
2.1. Le policy di flexicurity in alcuni paesi europei
2.1.1. Il modello danese
I principi di flessibilità e di sicurezza hanno influenzato moltissimo il
dibattito europeo sulla riforma del mercato del lavoro nell’ultimo decennio. Il
modello paradigmatico che tende ad un mercato del lavoro estremamente
flessibile senza essere privo di una forte protezione sociale, soprattutto nei
confronti di lavoratori a margine e dei disoccupati, è quello danese. La
Danimarca, inoltre, rappresenta un esempio virtuoso anche per quanto
riguarda le capacità di innovazione economica e di riforma istituzionale, i livelli
di formazione professionale, la cooperazione tripartitica a tutti i livelli che crea
consenso sia sulle iniziative specifiche che sugli obiettivi generali delle politiche
da seguire.
La letteratura ha definito questo modello “triangolo d’oro”55 e ha
individuato i suoi vertici in un mercato del lavoro altamente flessibile, uno
schema generoso di ammortizzatori sociali ed un’ampia diffusione delle
politiche attive, associati ad un alto grado di coesione sociale.
Col termine flessibilità ci si riferisce ad una flessibilità numerica dei
lavoratori che ogni anno cambia lavoro, passando da un’azienda all’altra e
attraversando un periodo di disoccupazione: solo il 20% di questi lavoratori
sarà aiutato dal sistema delle politiche attive al reinserimento lavorativo,
mediante, per esempio, corsi di riqualificazione e job training, mentre gli altri
55 B. ANASTASIA, M. MANCINI, U. TRIVELLATO, Il sostegno al reddito dei disoccupati: note sullo stato dell’arte. Tra riformismo strisciante, inerzie dell’impianto categoriale e incerti orizzonti di flexicurity, WP n.112, ISAE, aprile 2009.
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troveranno una nuova occupazione autonomamente. Inoltre, la scarsa
protezione del posto di lavoro in Danimarca determina un altro livello di
mobilità, avvicinandosi ai sistemi liberali prevalenti in Canada, Irlanda, Gran
Bretagna e Stati Uniti56: ogni anno il 25-30% dei lavoratori cambiano datore di
lavoro e sono colpiti da disoccupazione, ricevendo sussidi di disoccupazione o
di supporto57.
In Danimarca, le organizzazioni sindacali e industriali mettono in atto
una gestione politica e un controllo dettagliato e concertato, che fanno in
modo di attivare diversi e alti livelli di flessibilità: dell’orario (straordinari, part-
time ecc.), funzionale e organizzativa (mobilità interna al posto di lavoro sia
orizzontale che verticale), salariale. Nel modello danese ha assunto un ruolo
rilevante la contrattazione fra le parti sociali, in un clima di reciproca fiducia e
responsabilità, spesso con l’esclusivo intervento delle autorità politiche locali,
che curano quasi tutti gli aspetti principali del rapporto di lavoro (livelli
salariali, offerta di corsi di formazione e politiche attive). Infatti, l’intervento
legislativo sul mercato del lavoro si limita a definire aspetti di cornice, quali
ferie, sanità e sicurezza, o a recepire direttive comunitarie58.
Anche se la legislazione non protegge abbastanza il posto di lavoro, la
mobilità occupazionale e la disoccupazione si verificano con molta frequenza.
Dalle indagini demoscopiche in materia emerge che i cittadini danesi si
sentono molto più sicuri del proprio status occupazionale rispetto ai cittadini
degli altri Paesi europei59: ciò si spiega con la transitorietà del fenomeno della
56 B. AMOROSO, Luci ed Ombre del Modello Danese, Relazione tenuta presso L’Università degli Studi Roma 3, Facoltà di Economia Federico Caffè, 21 febbraio 2006. 57 Per misurare il grado di protezione dell’occupazione assicurato dalla legislazione vigente in ciascun Paese, l’OCSE ha elaborato un indicatore sintetico, Employment Protection Legislation (EPL), ottenuto dalla media ponderata di tre indici (grado di protezione dei lavoratori standard, dei lavoratori a termine, licenziamenti collettivi) sulla regolamentazione dei licenziamenti. Il valore dell’EPL, compreso tra 0 e 6, riflette il grado di rigidità della normativa. E la Danimarca, con valore dell’EPL di 1,8, dopo il Regno Unito (1,1) e l’Irlanda (1,3) è il Paese con legislazione meno vincolante. [Per l’Italia l’EPL si attesta al 2,4. Cfr. OECD, Employment Outlook, 2009 (dati 2008)]. 58 V. FERRONI, D. GUERRERA, Gli ammortizzatori sociali in Italia. Prospettive, confronti e risposte alla crisi, in MEF, N. 5, luglio 2010, p. 19. 59 P. K. MADSEN, The Danish Model of Flexicurity: A Paradise – With Some Snakes, in H. SARFATI, G. BONOLI, Labour Market and Social Protection Reforms in International Perspective: Parallel or Converging Tracks?, Aldershot, Ashgate, 2002.
29
disoccupazione, il controllo sociale che previene forme di licenziamento
arbitrario, la generosità e tempestività del sistema di ammortizzatori sociali60.
Per disincentivare comportamenti opportunistici, si è vincolata
l’erogazione dei sussidi alla partecipazione alle politiche attive ed è stato
migliorato il monitoraggio della ricerca effettiva del lavoro.
Si può, dunque, definire il sistema occupazionale danese come un
sistema ibrido, caratterizzato da livelli di flessibilità comparabili con quelli dei
Paesi anglosassoni e da sistemi di protezione sociale e schemi di attivazione a
carattere universale proprio del tradizionale modello di welfare scandinavo. Alle
politiche del lavoro la Danimarca destina le maggiori risorse, in termini di
quota sul PIL.
Dato che la Commissione europea considera il modello danese una best
practice da imitare in ogni Paese dell’Unione europea, bisogna individuare le
condizioni necessarie per replicare, anche in contesti profondamente diversi
dalla Danimarca, i successi registrati dal sistema danese, tenendo conto, però,
di alcuni aspetti critici individuati dalla letteratura61.
Innanzitutto la Danimarca registra una graduale espulsione dei
lavoratori con basse qualifiche, che non sono in grado di sostenere le esigenze
di continua crescita della produttività né di riqualificarsi mediante schemi di
attivazione. Infatti, l’offerta di formazione è diretta principalmente ai lavoratori
più produttivi invece che a quelli che hanno la necessità di accrescere le loro
competenze.
Un’altra criticità è rappresentata dalla sostenibilità fiscale di questo
modello, che assorbe molte risorse, in una fase di recessione62.
60 Nel sistema danese, nonostante le notevoli restrizioni per ridurre la componente di sicurezza del reddito a favore di meccanismi di incentivazione al lavoro, la copertura del sussidio di disoccupazione è del 70% per il lavoratore di reddito medio e del 90% per i bassi salari: si tratta di benefici tra i più alti tra i paesi dell’UE. Misure di sostegno del reddito sono previste anche per i lavoratori non assicurati, in una misura corrispondente a circa l’80% del sussidio di disoccupazione. 61 P. K. MADSEN, The Danish Model of Flexicurity: A Paradise - With Some Snakes, op. cit.; D. LANG, Can the Danish Model of Flexicurity Be a Matrix for the Reform of European Labour Markets?, GRES working paper, 18, 2006. 62 In tali condizioni, la flessibilità finirebbe per prevalere sull’istanza di sicurezza, come accaduto del resto negli anni più recenti nella gran parte dei Paesi europei, dove si è significativamente incrementata la deregolamentazione del mercato del lavoro senza al contempo prevedere un’adeguata
30
La vera innovazione del sistema danese viene individuata
nell’introduzione di efficaci schemi di attivazione (più che dalla riduzione
dell’EPL) grazie ad un lungo processo storico che coinvolge tutti gli attori
sociali.
Inoltre si è notato che il modello di flexicurity alla danese non è
sostenibile in Paesi dotati di poco senso civico, sia da parte dei datori di lavoro
che dei lavoratori. In generale, il successo di un modello è legato alla totalità
delle istituzioni presenti e al funzionamento di un sistema intero di politiche
complementari63.
Infine, la struttura produttiva e le interconnessioni fra politiche del
lavoro e politiche industriali, incluse quelle per promuovere l’innovazione non
vanno trascurate64. Infatti, il sistema danese sembra legato alla necessità di
migliorare le qualifiche dei lavoratori in un sistema economico molto
innovativo, il quale preferisce la flessibilità per rispondere ad un’esigenza di
innovazione tecnologica e non certo per risparmiare sul costo del lavoro.
2.1.2. Regno Unito
Il sussidio Jobseeker’s Allowance (JSA) è la prinicpale tutela prevista a
favore dei disoccupati in cerca di lavoro. In base ai casi, può dipendere dalla
contribuzione (Contributio-base Jobseejer’s Allowance) o dal reddito ed essere
finalizzata ad offrire un sostegno ai redditi più bassi (Income-based Jobseeker’s
Allowance). Il Jobcentre Plus decide circa l’applicabilità del sussidio e provvede
alla sua erogazione. Hanno diritto al Jobseeker’s Allowance tutti i lavoratori di età
compresa tra i 16 e i 65 anni, disoccupati o che lavorano meno di 16 ore
compensazione in termini di protezione sociale. Cfr. A. TANGIAN, European Flexicurity: Concepts (Operational Definitions), Methodology (Monitoring Instruments), and Policies (Consistent Implementation), 2006. 63 Esportare unicamente alcuni elementi di tale modello (ad esempio la deregolamentazione dei mercati) senza tener conto delle complesse complementarità e interconnessioni istituzionali (o anche di semplici aspetti di disomogeneità territoriale) potrebbe risolversi in un fallimento e dar luogo a risultati perversi. 64 P. BORIONI, La flexicurity scandinava: inclusione e competizione, in Welfare scandinavo, welfare italiano. Il modello sociale europeo, Carocci 2005.
31
settimanali, abili al lavoro, disponibili a lavorare, attivamente alla ricerca di
un’occupazione, al di sotto dell’età pensionabile.
Nel caso in cui il disoccupato ha precedentemente versato una quota
sufficiente di contributi volontari, può accedere all’indennità di disoccupazione
basta sulla contribuzione. In caso contrario, può fare domanda per percepire
l’indennità di disoccupazione basata sul reddito.
L’importo della prestazione non è legato al reddito precedentemente
percepito, ma è un importo forfetario che varia in base a tre fasce di età del
lavoratore disoccupato65. La durata è di 182 giorni.
L’indennità legata al reddito si applica ai lavoratori con un reddito
inferiore a un importo minimo stabilito e che non abbiano un partner che
lavori più di 24 ore a settimana: l’importo deriva dai carichi familiari e dai livelli
di reddito.
Per quanto riguarda la durata, non esiste un limite prestabilito:
l’indennità viene erogata finché sussistono i requisiti.
Nel caso in cui il beneficiario di una delle due indennità abbandoni il
lavoro (o assuma un comportamento tale da indurre il licenziamento) o rifiuti
un lavoro accettabile, è prevista una sospensione dell’erogazione della
prestazione fino a 26 settimane. Se, invece, il lavoratore non segue le
indicazioni del servizio pubblico, l’indennità può essere ridotta da 2 a 4
settimane.
Per quanto riguarda la tassazione, l’indennità legata alla contribuzione è
soggetta a tassazione, mentre l’indennità legata la reddito è esente e comunque
non sono soggette a contribuzione sociale. Entrambe le indennità vengono
definite come indennità di disoccupazione, ma in realtà dalle diverse
caratteristiche che presentano, l’indennità legata al reddito sembra avvicinarsi
più ad una prestazione assistenziali che assicurativa, anche se i criteri di
eleggibilità sono abbastanza stringenti come quelli validi per l’altro tipo di
indennità.
65 € 51 a settimana fra i 16 e 17 anni, € 67 a settimana fra i 18 e i 24 anni e € 85 a settimana dai 25 anni.
32
Il sistema di sicurezza sociale inglese66 si basa sulla strategia definita
“welfare to work”, con l’obiettivo di promuovere attivamente la reintegrazione
del mercato del lavoro, non soltanto nelle politiche attive e passive ma anche
nell’ambito dei sussidi assistenziali. Le forme di sostegno al reddito sono varie:
Income Support, Incapacity Benefit, Severe Disablement Allowance, Invalid Care
Allowance, Housing Benefit, Council Tax Benefit, Widows Benefit, Social Fund.
All’Income Support, che si basa sulle condizioni economiche della persona e sui
carichi familiari, accedono i lavoratori disoccupati che non hanno i requisiti
per beneficiare delle Jobseeker Allowance.
Le politiche del New Deal permettono al Governo di prevenire
l’esclusione sociale, fornendo ai lavoratori disoccupati gli strumenti per
accrescere le loro capacità professionali e le opportunità di occupabilità,
aiutandoli, mentre eroga i sussidi, a reinserirsi nel mercato del lavoro.
Il programma Train to Gain, che fornisce formazione e sostegno a
persone in situazioni di pre-licenziamento, aiuta a sviluppare le competenze
necessarie per passare più facilmente ad un nuovo posto di lavoro, anche in un
settore non di appartenenza.
Il Servizio di Risposta Rapida (Rapid Response Service) prevede il sostegno
a favore di coloro che rischiano il licenziamento direttamente sul posto di
lavoro, includendo attività di orientamento, analisi e valutazione delle
competenze, incrocio domanda/offerta, assistenza nella compilazione del
curriculum e nella ricerca di lavoro, formazione per lo sviluppo di competenze,
consulenza e sostegno a favore di coloro che intendono avviare una attività in
proprio.
I Partenariati Locali per l’Occupazione (Local Employment Partnership o
LEPS), una forma di collaborazione a livello locale tra governo e datori di
lavoro, fanno in modo che vengano assunti i disoccupati di lunga durata.
66 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – United Kingdom, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Dublino 2002.
33
I Centri Competenze (Skills Hubs), infine, sono reti di partner locali in
grado di fornire servizi di intermediazione, formazione e altre forme di
sostegno.
2.1.3. Francia
Il sistema assicurativo francese è obbligatorio per tutti i lavoratori
dipendenti ed è finanziato dai contributi versati all’assicurazione sia dal datore
di lavoro, nella misura del 3,6%, che dal lavoratore, nella misura del 2%.
Accede alle indennità di disoccupazione il lavoratore involontariamente
disoccupato, fisicamente idoneo al lavoro, iscritto all’ufficio di collocamento
come lavoratore in cerca di occupazione, attivamente in cerca di un posto di
lavoro, di età inferiore a 60 anni e che abbia lavorato almeno 6 degli ultimi 22
mesi prima del periodo di disoccupazione.
L’ammontare dell’indennità di disoccupazione viene stabilita in base alla
retribuzione percepita dal lavoratore negli ultimi 12 mesi e ha un andamento
regressivo, per cui, dopo 4 mesi, le percentuali di definizione dell’indennità
diminuiscono.
Viene erogata per un minimo di 7 mesi fino a un massimo di 60 mesi, a
seconda della combinazione dell’età del lavoratore e della sua anzianità
contributiva.
Se tali condizioni vengono violate, sono previste delle sanzioni, nella
misura di una sospensione della prestazione per 4 settimane, in caso di
dimissioni del lavoratore o in caso di rifiuto di un lavoro accettabile o di
mancanza di una ricerca attiva di un lavoro.
Il sistema di sicurezza francese67 si basa su due principi: quello
assicurativo e quello solidaristico e comprende otto diverse forme di sostegno
al reddito: sussidio per le persone anziane (minimum vieillesse), sussidio per gli
invalidi (minimum invalidité), sussidio per gli adulti disabili (allocation adulte
67 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – France, op. cit.
34
handicapé), sussidio d’inserimento (allocation d’insertion), reddito minimo
d’inserimento (revenu minimum d’insertion), sussidio per genitori single (allocation de
parent isolé), assicurazione contro la vedovanza (assurance veuvage).
Il sistema di sostegno al reddito è caratterizzato da un intervento su tre
livelli. Al primo livello, il legislatore ha previsto di non pagare un sussidio, ma
di garantire l’accesso a un programma di inserimento o reinserimento al
lavoro. Il secondo livello prevede l’erogazione di un sussidio, contenuto ma
accompagnato da meccanismi di reinserimento nel mercato del lavoro e di
integrazione sociale. Il terzo livello consiste nell’erogazione di un sussidio di
assistenza non accompagnato da misure di inserimento al lavoro.
Il sistema di sostegno al reddito è diventato complementare al sistema
dell’assicurazione contro la disoccupazione: da quando sono state ristrette le
condizioni di accesso alle indennità di disoccupazione, le varie forme di
sostegno al reddito hanno in parte sostituito le indennità di disoccupazione per
quei lavoratori che non soddisfacevano i criteri di accesso, diventando un
rifugio per i disoccupati di lungo periodo.
Tra le citate forme assistenziali merita indubbia attenzione il reddito
minimo di inserimento, al quale possono accedere le persone che non
soddisfano i criteri di eleggibilità imposti per le altre forme di sostegno al
reddito. Ciò che caratterizza tale istituto è l’approccio globale nei confronti
della persona, che presuppone una valutazione dei diversi tipi di problemi che
la stessa può incontrare relativamente alla casa, alla salute, al lavoro, fino alla
formazione e all’inserimento lavorativo, e ai quali si cerca di far fronte in modo
complessivo, attraverso un monitoraggio continuo e “trasversale” della
persona medesima.
L’erogazione della prestazione, in ogni caso, resta comunque soggetta
all’effettiva partecipazione del beneficiario ad appositi programmi di
inserimento sociale e occupazionale, considerati la condicio sine qua non per la sua
integrazione sociale.
35
2.1.4. Germania
Il sistema assicurativo tedesco contro la disoccupazione è su base
obbligatoria per tutti i lavoratori subordinati che siano impiegati per almeno 18
ore settimanali e che percepiscano una retribuzione superiore ad una soglia
prestabilita. Tale sistema viene finanziato attraverso la contribuzione sociale,
calcolata sulle retribuzioni lorde dei lavoratori nella misura totale del 6,5%,
equamente ripartita tra lavoratori e datori di lavoro.
L’indennità di disoccupazione (Arbeitslosengeld), la cui corresponsione è
subordinata alla ricorrenza di specifici requisiti: stato di disoccupazione
involontaria ovvero occupazione per meno di 18 ore settimanali; iscrizione agli
uffici di collocamento; abilità al lavoro; disponibilità ad accettare un lavoro
confacente al proprio patrimonio professionale; ricerca attiva di
un’occupazione; anzianità contributiva minima per almeno 1 anno nel triennio
precedente la disoccupazione), è computata sulla base di una media delle
retribuzioni percepite nelle ultime 52 settimane, secondo un importo
diversificato in relazione alla presenza o meno di figli nel nucleo familiare del
lavoratore.
La durata della prestazione, variabile nell’arco di un periodo compreso
tra 2 e 6 mesi, dipende dall’età e dall’anzianità contributiva del beneficiario.
Sono inoltre previste apposite sanzioni, in particolare in caso di abbandono
volontario del posto di lavoro e in caso di rifiuto di un lavoro accettabile o,
ancora, di rifiuto di partecipare a misure di politica attiva per il reinserimento
professionale. La sanzione consiste, generalmente, nella sospensione del
trattamento indennitario, fino ad un massimo di 12 settimane.
Accanto al sistema assicurativo è presente un sistema assistenziale68,
che prevede l’erogazione di un sussidio di disoccupazione (Arbeitlosenhilfe) in
favore dei lavoratori che hanno percepito l’indennità di disoccupazione, ma
che alla cessazione del sussidio sono ancora disoccupati. Detta prestazione è
finanziata attraverso la fiscalità generale ed è determinata in percentuale al
68 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – Germany, op. cit.
36
reddito di riferimento (inferiore a quella della indennità di disoccupazione) e
non prevede limiti temporali, salvo verifica annuale della permanenza dei
requisiti previsti per la sua corresponsione.
Strutturalmente e funzionalmente, dunque, il sussidio di disoccupazione
non differisce granché dall’indennità di disoccupazione, se non per la minore
severità dei requisiti di accesso, per la concorrenza di un requisito reddituale
insieme a quello soggettivo dello stato di disoccupazione (è richiesto, in altre
parole, lo stato di “indigenza”), e per la forma di finanziamento che, come
detto, è a carico della collettività.
L’ammontare del sussidio di disoccupazione, come pure per l’indennità
di disoccupazione, dipende dalla retribuzione precedentemente percepita dal
lavoratore, risultando quindi, generalmente, abbastanza elevato. A queste
forme di sostegno del reddito si aggiunge una terza forma di sussidio
(Sozialhilfe), erogato a coloro che non rientrano nel campo di applicazione delle
provvidenze precedenti.
Anche questo tipo di prestazione è finanziato dalla fiscalità generale e
ha durata illimitata. Il suo ammontare non dipende da retribuzioni
precedentemente percepite dal lavoratore, ma è stabilito in base alla situazione
del nucleo familiare.
2.1.5. Spagna
Come nella maggior parte dei Paesi europei, anche in Spagna
l’assicurazione contro la disoccupazione è a carattere obbligatorio.
L’erogazione delle prestazioni - che sono finanziate attraverso i
contributi versati dai lavoratori (nelle misura del 4,7%) e dai datori di lavoro
(nella misura del 23,6%) - è subordinata all’accertamento della ricorrenza dei
requisiti di eleggibilità (involontarietà dello stato di disoccupazione, abilità e
disponibilità al lavoro, iscrizione all’ufficio di collocamento, età compresa tra
16 anni e l’età pensionabile), cui si aggiunge il criterio relativo all’anzianità
37
contributiva, che prevede il versamento di contributi per 360 giorni nei 6 anni
precedenti il periodo di disoccupazione.
L’importo dell’indennità di disoccupazione viene determinato in base
alle retribuzioni dei 180 giorni precedenti la disoccupazione. In particolare,
l’importo corrisponde al 70% del reddito di riferimento per i primi 180 giorni
e del 40% per il periodo successivo, nel rispetto di un minimale e di un
massimale predeterminati per legge.
La durata della prestazione è variabile in funzione della durata del
periodo di contribuzione del lavoratore nei 6 anni precedenti la
disoccupazione stessa, e comunque non può oltrepassare il limite massimo di 2
anni.
Accanto all’indennità di disoccupazione è previsto un sussidio di
disoccupazione69 che spetta ai lavoratori disoccupati che hanno esaurito il
diritto all’erogazione dell’indennità di disoccupazione, oppure che non
soddisfano i requisiti imposti per l’accesso all’indennità stessa.
Per avere diritto a tale tipo di sussidio non sono richiesti particolari
requisiti, se non uno stato di disoccupazione involontaria, l’iscrizione all’ufficio
di collocamento, il possesso di un’età compresa tra 16 anni e l’età pensionabile.
In alcuni casi è richiesto un minimo di versamenti contributivi corrispondente
a 3 o a 6 mesi.
L’ammontare del sussidio di disoccupazione è previsto nella misura del
75% del salario minimo e viene erogato per un periodo di 6 mesi, rinnovabile
per altri sei mesi, fino ad un massimo di 18 mesi in casi particolari.
Oltre a questo sussidio, esistono in Spagna altre forme di sostegno del
reddito che fanno parte di un sistema assistenziale. Ne fanno parte ben 17
forme diverse di provvidenze economiche, corrispondenti alle altrettante
comunità autonome presenti nel territorio nazionale.
69 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – Germany, op. cit.
38
2.1.6. Olanda
In Olanda l’assicurazione contro la disoccupazione è obbligatoria per
tutti i lavoratori al di sotto dei 65 anni. Essa è finanziata attraverso la
contribuzione dei lavoratori (nella misura del 3,65%) e dei datori di lavoro
(nella misura del 5,25%).
All’interno di tale sistema esistono tre differenti tipi di indennità di
disoccupazione: l’indennità di breve periodo, l’indennità proporzionale alla
retribuzione e l’indennità di proseguimento.
In generale i requisiti richiesti per l’accesso al sistema indennitario
prevedono che il lavoratore sia disoccupato involontario, abile e disponibile al
lavoro, sia registrato all’ufficio di collocamento e sia disposto ad accettare
lavori ritenuti confacenti alla propria professionalità.
L’indennità di breve periodo richiede, in aggiunta ai predetti requisiti,
che il lavoratore abbia lavorato per almeno 26 settimane nelle 39 precedenti la
disoccupazione.
L’ammontare dell’indennità non dipende dalla retribuzione
precedentemente percepita dal lavoratore, tanto è vero che esso è determinato
nella misura del 70% del salario minimo legale. Quanto alla sua durata, la legge
olandese prevede l’erogazione della prestazione per un massimo di 6 mesi.
Per la corresponsione dell’indennità proporzionale alla retribuzione,
oltre ad essere soddisfatta la condizione delle 26 settimane lavorative nelle
ultime 39 settimane – già vista per l’indennità di breve periodo - è necessario
che il lavoratore possa dimostrare di avere almeno 52 giornate retribuite
all’anno per almeno 4 degli ultimi 5 anni.
L’ammontare di detta indennità è parametrata al 70% della retribuzione
precedentemente percepita dal lavoratore, entro comunque il limite massimo
previsto dalla legge. La durata della prestazione, variabile da 6 mesi a 5 anni,
dipende dall’anzianità lavorativa e dall’età del lavoratore.
Cessato il diritto all’indennità proporzionale, il lavoratore disoccupato
ha diritto a beneficiare di una indennità di proseguimento. Questa viene
39
erogata nella misura del 70% del salario minimo legale, oppure della
retribuzione giornaliera, se inferiore al salario minimo. Tale indennità può
essere erogata per un periodo massimo di due anni, salvo che per i lavoratori
disoccupati con più di 57,5 anni, nei confronti dei quali può essere erogata fino
al compimento dell’età pensionabile.
Nel caso in cui il lavoratore si dimetta (o assuma un comportamento
che determini il proprio licenziamento) oppure rifiuti un lavoro accettabile
ovvero, ancora, rifiuti di partecipare a programmi di reinserimento lavorativo,
è prevista l’irrogazione di sanzioni, consistenti, a differenza degli altri Paesi, in
una riduzione dell’indennità dal 35 al 70% (ma è contemplata anche
l’interruzione dell’erogazione in caso di violazioni o di inadempimenti molto
gravi).
Sul versante delle tutele sociali70, il sistema olandese presenta una vasta
gamma di tipologie di intervento, tra le quali meritano particolare attenzione i
sussidi sociali per le persone che non riescono a garantirsi il minimo
indispensabile per la sopravvivenza. Competenti per tali forme di assistenza
sociale sono le amministrazioni comunali, che provvedono all’erogazione dei
sussidi nei confronti di tutti i cittadini (olandesi o stranieri legalmente residenti
in Olanda) con più di 18 anni, sprovvisti delle risorse necessarie per la loro
sopravvivenza.
Come nel caso delle indennità di disoccupazione, sono previste
specifiche condizioni di accesso alle suddette prestazioni sociali (ricerca attiva
di un lavoro, iscrizione agli uffici di collocamento, partecipazione a corsi e a
programmi personali per la reintegrazione nel mercato del lavoro).
Tendenzialmente i beneficiari di questo tipo di prestazione sono
persone che hanno effettive difficoltà nella ricerca di un impiego e che hanno
poche possibilità concrete di rientrare nel mercato del lavoro.
70 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – The Netherland, op. cit.
40
2.1.7. Belgio
Organizzato su base obbligatoria, il sistema belga è finanziato dai
contributi sociali versati dai lavoratori e dai datori di lavoro.
Hanno diritto all’indennità di disoccupazione tutti i lavoratori
disoccupati, abili al lavoro, iscritti all’ufficio di collocamento come lavoratori in
cerca disoccupazione. Inoltre, conta l’anzianità contributiva, che dipende
dall’età del lavoratore e che prevede, per lavoratori fino a 36 anni, una durata
contributiva di 312 giorni nei 18 mesi precedenti la disoccupazione, per
lavoratori in età compresa fra i 36 e i 49 anni, di 468 giorni negli ultimi 27 mesi
e per lavoratori con più di 50 anni, di 624 giorni negli ultimi 36 mesi.
L’ammontare dell’indennità di disoccupazione, che prevede un limite
minimo e uno massimo, dipende dalla retribuzione percepita dal lavoratore,
nella misura del 60% e del 43% dopo un anno.
Per quanto riguarda la durata, la situazione è singolare: non sono
previsti limiti se non in determinati casi di disoccupazione di lungo periodo.
In caso di rifiuto di un’offerta di lavoro o di false dichiarazioni,
l’indennità di disoccupazione viene sospesa per un periodo variabile da 1 a 26
settimane (tempo che viene raddoppiato in caso di reiterazione di tali
comportamenti) o da 4 a 52 settimane per violazioni molto gravi, fino alla
sospensione definitiva dell’erogazione dell’indennità.
Il sistema assicurativo belga71 contro la disoccupazione è affiancato da
un sistema assistenziale, che coinvolge un modesto numero di persone, del
tutto autonomo dal primo. Mentre il sistema assicurativo gestisce
separatamente l’erogazione delle prestazioni (livello federale) e l’attività di
collocamento e gestione delle politiche attive (livello regionale), il sistema
assistenziale gestisce a livello federale sia l’erogazione delle prestazioni sia le
politiche di attivazione.
71 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – Belgium, op. cit.
41
Il sistema assistenziale prevede un minimo di sussistenza (Minimex),
stabilito in base alle situazioni di indigenza sia nell’importo che nella durata,
per quanti non sono in grado di sopravvivere con i propri mezzi.
2.1.8. Danimarca
La Danimarca, diversamente dagli altri Paesi europei, dispone di un
sistema assicurativo contro la disoccupazione dall’adesione volontaria da parte
di lavoratori subordinati o autonomi in età compresa tra i 18 e i 65 anni.
I lavoratori disoccupati devono essere iscritti alla cassa assicurativa da
almeno un anno e aver contribuito per almeno 52 settimane nei 3 anni
precedenti al periodo di disoccupazione.
Oltre ai requisiti di età e anzianità assicurativa, sono stati stabiliti anche
alcuni criteri di eleggibilità con il compito di limitare l’accesso a tale sistema,
come l’involontarietà della disoccupazione, l’iscrizione all’ufficio di
collocamento, l’idoneità al lavoro, la disponibilità al lavoro, la ricerca attiva di
un’occupazione, anche al di fuori della sua area professionale.
Nel caso in cui il lavoratore che percepisce l’indennità di
disoccupazione non rispetti tali adempimenti, il servizio per l’impiego deve
informare la cassa per l’assicurazione contro la disoccupazione, la quale
considererà l’eventuale applicazione delle sanzioni previste.
Le sanzioni prevedono la sospensione per 5 settimane dell’indennità di
disoccupazione nel caso in cui il lavoratore 2 volte in 12 mesi abbandoni
volontariamente il lavoro o per 1 settimana nel caso di rifiuto di un lavoro
accettabile 2 volte sempre in un periodo di 12 mesi. Le sanzioni possono
arrivare fino all’interruzione dell’erogazione dell’indennità in caso di rifiuto del
lavoratore di partecipare a programmi di politica attiva.
Definito il reddito di riferimento, l’indennità è prevista per il 90% di
tale reddito.
42
Nel sistema di sicurezza sociale danese72 due diverse amministrazioni
sono responsabili per l’erogazione di prestazioni sociali o di disoccupazione: il
Ministro del Lavoro è responsabile per le prestazioni e le misure occupazionali
dirette ai lavoratori iscritti a una cassa di assicurazione contro la
disoccupazione, il Ministro degli Affari sociali è responsabile per le prestazioni
e le misure occupazionali volte ai lavoratori che non sono iscritti a tali casse.
In Danimarca anche il sistema assistenziale, come quello assicurativo,
prevede sussidi caratterizzati da alti tassi di rimpiazzo e breve durata, in quanto
l’obiettivo fondamentale è il reinserimento del disoccupato nel mercato del
lavoro attraverso programmi specifici.
Nella realtà non è previsto un coordinamento fra il sistema assicurativo
e il sistema assistenziale, come non è previsto fra i ministri del lavoro e degli
affari sociali. Il coordinamento degli operatori dei due sistemi è ritenuto
auspicabile.
2.1.9. Svezia
Il sistema di assicurazione svedese è organizzato su base volontaria ed è
costituito da 38 casse assicurazioni. L’indennità in caso di disoccupazione
spetta solo ai lavoratori subordinati o autonomi fino al compimento di 65
anni, iscritti a una delle casse, dotati dei requisiti stabiliti (disoccupazione
involontaria, iscrizione all’ufficio di collocamento come lavoratore in cerca di
occupazione, abilità al lavoro, non rifiutare un lavoro accettabile,
collaborazione con il servizio per l’impiego nella definizione di un programma
di reinserimento al lavoro, ricerca attiva di un lavoro73).
72 Cfr. Integrated approaches to active welfare and employment policies – Denmark, op. cit. 73 A questi requisiti di eleggibilità si aggiunge la necessità dell’iscrizione per almeno un anno ad una cassa di assicurazione e il soddisfacimento di requisiti di anzianità assicurativa, che prevedono che il lavoratore sia stato occupato (in modo autonomo o subordinato) per almeno 6 mesi e per almeno 70 ore al mese oppure per 6 mesi e almeno 450 ore oppure 45 ore per gli ultimi 12 mesi.
43
Il finanziamento di questa indennità si basa sui contributi versati dai
datori di lavoro nella misura del 5,84% delle retribuzioni lorde dei lavoratori
subordinati e nella misura del 3,3% delle entrate dei lavoratori autonomi.
L’importo della indennità di disoccupazione è stabilito nell’80% della
retribuzione giornaliera media calcolata durante il periodo di riferimento, per
un massimo di € 80 al giorno per i primi 100 giorni e successivamente di € 73.
L’indennità di disoccupazione viene erogata per 300 giorni (per 5 giorni
a settimana, quindi 60 settimane) per i lavoratori fino a 57 anni e per 450
giorni (90 settimane) per i lavoratori con più di 57 anni. Ma la durata può
essere prolungata fine 600 giorni.
Nel caso in cui il lavoratore abbandoni il proprio lavoro senza un valido
motivo è prevista una sospensione della erogazione dell’indennità di
disoccupazione per 45 giorni, mentre nel caso in cui rifiuti un lavoro
accettabile, la prima volta è prevista una riduzione del 25% dell’indennità di
disoccupazione per 40 giorni, la seconda volta del 50% per ulteriori 40 giorni e
la terza volta la sospensione per 60 giorni.
L’indennità è soggetta a tassazione.
Il sistema sociale svedese prevede l’erogazione di un sussidio sociale per
le persone che temporaneamente si trovano nella situazione di non poter
provvedere alla loro sussistenza o a quella della famiglia. Tale sussidio può
essere erogato alla persona o alla famiglia, a seconda della situazione familiare.
Non sono previsti limiti alla durata di tale sussidio: esso è previsto che venga
erogato fintanto che permane la situazione.
44
CAPITOLO TERZO
LA SITUAZIONE ITALIANA
3.1. La flexicurity in Italia
L’evoluzione apportata alla regolamentazione del mercato del lavoro in
Italia nell’ultimo ventennio e l’assetto attuale sono notevolmente condizionati
dalla situazione di partenza. Due erano gli aspetti peculiari del mercato del
lavoro italiano:
un intervento pubblico, il quale si attuava mediante divieti e
obblighi;
una protezione che riposava quasi soltanto sull’elevata rigidità in
uscita stabilita dalla normativa sui licenziamenti e mancanza di strumenti
appropriati di protezione del reddito in caso di perdita del posto di lavoro.
Questa organizzazione ha influenzato lo sviluppo delle possibilità e dei
mezzi a disposizione della pubblica amministrazione, in maniera tale che le
riforme degli anni Novanta avrebbero necessitato di elementi di novità radicali.
Malgrado ciò, giova sottolineare come durante gli anni Ottanta e Novanta il
paradigma tradizionale di regolamentazione del mercato del lavoro è stato in
grande misura demolito. È stato messo da parte in maniera definitiva il
principio della chiamata numerica, già di gran lunga sorpassato nei fatti, ed è
stato abrogato il monopolio pubblico del collocamento con l’apertura alle
agenzie private. Inoltre, le differenti riforme susseguitesi a cominciare dagli
anni ‘90 hanno cercato di inserire la flessibilità esterna nel mercato del lavoro,
temperando i vincoli all’uso di contratti a tempo determinato e procurando
nuove tipologie di contratti ‘atipici’. Malgrado ciò, la flessibilità pare essersi
soltanto ‘sovrapposta’ alla precedente situazione, non mutando, se non
parzialmente, nella Riforma Fornero del 2012, il livello di protezione
all’impiego per i contratti a tempo indeterminato.
45
Paiono ormai palesi gli ostacoli collegati al passaggio da un’occupazione
temporanea ad una a tempo indeterminato, in particolare per i lavoratori più
giovani, aumentando considerevolmente il livello di segmentazione del
mercato del lavoro. Al riguardo le matrici di transizione basate sui dati Istat
mostrano che la probabilità di passaggio nell’arco di un anno dal contratto a
tempo determinato a quello indeterminato sono circa del 29%. Tale probabilità
si abbassa al 12% circa qualora il contratto di partenza sia di collaborazione
continuativa. Inoltre, chi non ha un contratto a tempo indeterminato ha una
più elevata probabilità di diventare disoccupato (CNEL 2007). Dai dati
amministrativi di fonte INPS si emerge che per i collaboratori la probabilità di
essere ancora occupati con il medesimo contratto o con uno a tempo
determinato è pari al 49% dopo un anno, si riduce al 27% dopo tre ed è ancora
il 22% dopo cinque; Infine, la percentuale di lavoratori entrati con contratto a
tempo determinato e che troviamo nell’occupazione a tempo indeterminato è
pari al 33% dopo un anno, e al 50% dopo tre, passati i quali non sembra più
aumentare.
Complessivamente i risultati indicano la presenza di effetti di diverso
segno associabili all’utilizzo di contratti non standard. Le caratteristiche
individuali sono soltanto parzialmente esplicative della permanenza dei singoli
lavoratori in tali forme contrattuali. A volte, il transito attraverso di esse,
soprattutto i contratti formativi, si delinea come un porto d’ingresso
nell’occupazione a tempo indeterminato. Malgrado ciò, risalta una significativa
persistenza in contratti instabili e all’interno della stessa impresa, a conferma
dell’esistenza di un effetto trappola, che può essere interpretato secondo il
vantaggio per le imprese in termini di riduzione del costo del lavoro.
Abbastanza spesso, alla fragilità nel mercato del lavoro dei lavoratori
atipici si aggiunge una posizione di svantaggio anche nell’arena delle politiche
pubbliche. Infatti la gravità della segmentazione dipende, da una parte, dalle
peggiori condizioni contrattuali, salariali tipiche dell’occupazione atipica e,
dall’altra, dalla carenza di una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali,
46
che pare rimanere piuttosto frammentato. Mancano, nello specifico, modalità
di protezione adatte alle differenti tipologie di lavoratori temporanei;
nell’opinione di Lucidi e Raitano: “le misure introdotte per aumentare la
flessibilità del mercato del lavoro hanno favorito l’occupazione, ma non sono
state affiancate da un corrispondente aumento della sicurezza. Il mercato del
lavoro è diventato più duale. La protezione rimane estremamente elevata per i
lavoratori dipendenti con contratti a tempo indeterminato occupati nelle
imprese più grandi, mentre i soggetti che lavorano nelle piccole imprese con
contratti “atipici” a tempo determinato sperimentano livelli di insicurezza
molto più elevati. Le spese rivolte alle politiche attive del mercato del lavoro
rimangono inferiori alla media europea. La formazione e l’apprendimento
continuo vivono una situazione di grave ritardo”74.
Le analisi comparative svolte in conformità alle direttive della
Commissione Europea contenute nella Comunicazione Towards common
principles of: more and better jobs through flexibility and security, pongono l’Italia
lontana dalle forme più compiute di flexicurity. Nei confronti dei paesi nordici
e anglosassoni, che mostrano migliori performance quanto ad efficienza e/o
equità, l’Italia è posta, con il resto dei paesi, tra quelli con risultati inferiori su
entrambi i fronti.
Per poter attuare in maniera efficace la flexicurity appare necessario la
riduzione della segmentazione, sia dal punto di vista statico sia, in particolare,
dinamico; in tal senso i principali motivi della segmentazione dovrebbero
essere affrontate immediatamente, prima di provare ad imitare esperienze
estere rivelatesi efficaci in tale ambito75.
Nello specifico, oltre agli sforzi avviati dalla legge Fornero, “in chiave
statica si è verificato che per i lavoratori a tempo determinato i rischi derivanti
dall’instabilità del rapporto di lavoro (e dai bassi benefici assistenziali,
sfavorevoli soprattutto ai lavoratori parasubordinati) non sono compensati da
74 F. LUCIDI, M. RAITANO, Lo stato dell’arte sull’implementazione della flexicurity in Italia: aspetti formativi ed evidenza empirica, in ISFOL, La Flexicurity come nuovo modello di politica del lavoro, ISFOL 2011, p. 77. 75 Cfr. E. PISANO, M. RAITANO (2007), La flexicurity danese: un modello per l’Italia?, in P. VILLA (a cura di), Generazioni flessibili. Nuove e vecchie forme di esclusione sociale, Carocci editore, Roma.
47
un salario maggiore, il quale risulta essere, al contrario, significativamente più
basso rispetto a quello corrisposto ai lavoratori a tempo indeterminato”76.
Quanto accaduto in Italia, quindi, pare un tipico caso di traslazione dei
rischi sui lavoratori, poiché l’aumento dei livelli di flessibilità del lavoro, con lo
scopo di soddisfare le esigenze delle imprese, ha avuto come conseguenza che
alcuni gruppi di lavoratori si siano ritrovati fortemente esposti a rischi di
diverso tipo, senza che ciò sia stato compensato da maggiori retribuzioni o da
più generose prestazioni di welfare (e/o di maggiore accesso alla formazione
continua).
La situazione di crisi ha poi comportato l’aggravamento della situazione
creatasi e l’aumento delle diseguaglianze fra lavoratori a termine e a tempo
indeterminato, riducendo ulteriormente le possibilità, per quelli a termine, di
stabilizzare la propria posizione lavorativa o di avere dei rinnovi contrattuali.
Le misure adoperate per contrastare le recenti crisi si sono rivelate
inadeguate, poiché paiono essere state carenti le azioni per procedere verso la
riforma organica degli ammortizzatori sociali; soprattutto, non sono stati
sufficientemente corretti “i due macroscopici limiti del sistema italiano:
l’assenza di un’adeguata indennità di disoccupazione a carattere
universale (che copra cioè, in modo automatico e con le stesse regole, la
totalità dei lavoratori);
l’erogazione di uno strumento assistenziale means tested per chi non
abbia più il diritto a riceverla”77.
Bisognerà quindi operare per abbassare le disparità delle tutele del
welfare (anche previdenziali) tra le diverse categorie di lavoratori
Quanto modello di flexicurity più adatto all’Italia, il danese non sembra
un paradigma cui ispirarsi a causa dei seguenti motivi:
la marcata segmentazione del mercato del lavoro italiano;
le caratteristiche della struttura produttiva;
il contesto economico-sociale della penisola.
76 F. LUCIDI, M. RAITANO,. Lo stato dell’arte sull’implementazione della flexicurity in Italia, cit., p. 78. 77 F. LUCIDI, M. RAITANO,. Lo stato dell’arte sull’implementazione della flexicurity in Italia, cit., p. 79.
48
Tangian ha proposto l’erogazione universale di un reddito di
cittadinanza e che contributi sociali e retribuzioni siano stabiliti in maniera
proporzionale al grado di rischio proprio delle diverse tipologie contrattuali78.
Hanno osservato Lucidi e Raitano al riguardo: “Se si accetta l’idea che la
flessibilità sia necessaria per incrementare l’efficienza dei mercati e la
competitività delle imprese sembra, infatti, necessario e doveroso che i
lavoratori temporanei ricevano maggiori (e non minori) tutele dal welfare state e
salari (a parità di skills) in modo da attenuare il grave fenomeno di
segmentazione (spesso associato a precarietà e insicurezza) di cui, per una
quota non irrilevante dei lavoratori, l’analisi precedente ha suggerito l’esistenza.
In caso contrario, come sembra sia invece finora avvenuto in molti casi e
come la crisi ha ulteriormente evidenziato, si scaricherebbero sui soli individui
- e non sulla collettività e/o sulle imprese - i rischi derivanti dalla richiesta di
maggiore flessibilità (se non anche, o soprattutto, di semplice riduzione degli
oneri sociali e del costo del lavoro) da parte del settore produttivo”79.
Quanto ai costi, l’adeguamento del sistema di sussidi agli standard di
durata e importo prevalenti nell’Unione sembra difficilmente sostenibile per le
finanze pubbliche, in un paese ad alta disoccupazione strutturale. Nel caso in
cui il finanziamento riposasse sul costo del lavoro, sotto forma di oneri sociali,
si verificherebbero ulteriori effetti negativi sulla domanda e sull’offerta di
lavoro in quanto il livello della tassazione e della disoccupazione sono
interdipendenti dato che un più largo cuneo fiscale riduce l’occupazione e, a
sua volta, la maggiore disoccupazione aumenta la spesa per sussidi e per ciò
comporta un più largo cuneo fiscale. Bisogna poi considerare che il sussidio di
disoccupazione, necessario a realizzare un compiuto sistema di flexicurity,
sembra non facilmente conciliabile con il carattere prevalentemente strutturale
della mancanza di lavoro nelle regioni meridionali.
78 Cfr. A. TANGIAN, Flexibility-flexicurity-flexinsurance: response to the European Commission’s Green Paper on “Modernising labour law to meet the challenges of the 21st century”, WSI Diskussionspapier 149, Düsseldorf, Hans-Böckler-Stiftung, 2007. 79 F. LUCIDI, M. RAITANO, Lo stato dell’arte sull’implementazione della flexicurity in Italia, cit., pp. 79-80.
49
3.2. Mercato del lavoro e modalità contrattuali flessibili
Come già ricordato, fino alla metà degli anni ’90 il mercato del lavoro
italiano era caratterizzato da elevata regolamentazione, con un alto livello di
rigidità e di protezione del lavoro. Le caratteristiche del sistema produttivo
italiano, il modello sociale adottato e la situazione socio-economica del tempo
erano le cause di tale situazione. Il paradigma affermatosi nel periodo ha
progressivamente alzato il livello di tutela che era garantito ai lavoratori a
tempo, pieni titolari di un contratto a tempo indeterminato. I primi
cambiamenti legislativi riguardo alla regolamentazione del mercato del lavoro
sono della metà degli anni ’90; generalmente il punto di svolta viene
identificato nel 1997, in seguito all’approvazione del ‘pacchetto Treu’, per
quanto già nel 1995, la ‘riforma Dini’, che mutò profondamente il sistema
previdenziale era stata un punto di svolta.
Con l’introduzione della gestione separata – ovvero una peculiare
gestione pensionistica prevista per i lavoratori parasubordinati e volta a
tutelare, in particolare, i collaboratori coordinati continuativi (co.co.co) – si
ebbe l’individuazione di lavoratori considerati autonomi dal punto di vista
formale, ma che de facto erano solitamente dipendenti da un singolo datore di
lavoro. “L’introduzione della Gestione Separata diede impulso alla
proliferazione di tali contratti, che garantivano il livello più basso di protezione
(a causa della loro natura formale di lavoro autonomo) e il pagamento di
limitati contributi sociali”80.
La successiva ‘riforma Treu, l. 196/ 1997, ebbe carattere più strutturale
e contemplava come punti salienti:
l’introduzione delle agenzie di lavoro interinale;
l’introduzione dei contratti di tirocinio (volti a facilitare la transizione
dei giovani dal sistema di istruzione all’occupazione);
la ristrutturazione dei vincoli all’assunzione di lavoratori con
contratti a tempo determinato.
80 F. LUCIDI, M. RAITANO, Lo stato dell’arte sull’implementazione della flexicurity in Italia, cit., p. 42.
50
Il cammino verso la flessibilità è stato poi perfezionato tramite la l.
30/2003 (‘Legge Biagi’). la legge da una parte immise nuove modalità
contrattuali atipiche, quali il lavoro a chiamata, lo staff leasing e il job sharing;
dall’altra, modificò le co.co.co in collaborazioni a progetto, introducendo
l’obbligo della formalizzazione di uno specifico progetto di lavoro per tentare
di porre freno agli abusi risultati dall’uso improprio delle collaborazioni
coordinate e continuative che nascondevano un rapporto di lavoro
dipendente.
La Legge Biagi’ prevedeva poi ulteriori riforme, ovvero:
la liberalizzazione dei servizi di collocamento;
l’introduzione del contratto di inserimento in sostituzione del
precedente contratto di Formazione e Lavoro per supportare l’inclusione dei
gruppi svantaggiati nel mercato del lavoro, id est: soggetti di età compresa tra i
18 ed i 29 anni, disoccupati di lunga durata tra i 29 e i 32 anni, disoccupati di
età superiore ai 50 anni, persone in cerca di lavoro con più di 2 anni di
inattività, donne residenti in regioni svantaggiate, persone con handicap;
la modifica della normativa sull’apprendistato, l’applicabilità della
quale era estesa fino ai 29 anni d’età;
la modifica della normativa sul part-time.
Queste riforme, rendendo possibile l’introduzione di sempre maggiori
elementi di flessibilità ha portato nella Penisola una sostanziale riduzione della
rigidità della legislazione nel mercato del lavoro. Secondo l’OCSE l’Italia ha
fatto registrare a livello europeo la più alta riduzione dell’indice della normativa
in materia di tutela del lavoro (EPL); nel 1995 ci sopravanzava solo il
Portogallo; successivamente eravamo preceduti soltanto dai paesi anglosassoni
e dalla Danimarca
51
Andamento dell’indice della legislazione di protezione dell’occupazione nei paesi della UE15
Fonte: OCSE
Preme sottolineare come prima del Big Bubble, la flessibilizzazione del
mercato del lavoro pareva aver abbassato la disoccupazione, sebbene in misura
forse minore di quanto auspicato dal Trattato di Lisbona, anche se restano
estremamente elevati gli squilibri territoriali. Le forme più flessibili sono state
maggiormente utilizzate al sud e per periodi più brevi rispetto al nord.
Quota di dipendenti con contratto a termine nei paesi della UE15
Fonte: Eurostat
52
Dall’immagine emerge che, per quanto attiene all’utilizzo della leva della
flessibilità in ingresso per garantire incrementi occupazionali, il paese con la
più alta percentuale di contratti a termine, cioè con il più alto livello di
flessibilità del lavoro, i.e. la Spagna (e non soltanto nella UE a 15 come nel
grafico sopra riportato) è anche quello dove il tasso di disoccupazione è più
elevato.
Infine, la recente ‘legge Fornero’ ha recato ulteriori sostanziali novità
riguardo alla flessibilità del mercato del lavoro. In generale, la riforma Fornero
ha introdotto nel diritto del lavoro italiano sostanziali modifiche, volte ad
assicurare una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, sia in entrata, sia in
uscita; questo, in particolare, in materia di contratti di lavoro a tempo
determinato, contratti a progetto, lavoro autonomo, licenziamenti individuali e
collettivi, tutela in caso di licenziamento illegittimo, ammortizzatori sociali e
nel processo del lavoro. La riforma è stata poi oggetto di ulteriori integrazioni
e modifiche grazie al decreto sviluppo (D.L. 22 giugno 2012, n. 83)81.
Composizione della spesa per politiche del lavoro in Italia e nella UE15 nel 2005
Fonte: OCSE
81 Convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.
53
Una novità di rilievo è stata presentata in materia di contratti a tempo
determinato; con l’entrata in vigore della riforma e del decreto sviluppo, è stata
infatti data la possibilità al datore di lavoro di non motivare e di non indicare la
ragione giustificatrice del termine del primo contratto che sia sottoscritto tra le
parti, purché non sia di durata superiore ai 12 mesi.
Si può affermare che la riforma del contratto di lavoro a tempo
determinato ha finito per far diventare quest’ultimo una forma comune di
contratto, quasi un prolungamento del periodo di prova previsto di norma per
i contratti a tempo indeterminato. Nella complessa situazione occupazionale
attuale si è stimato così di smuovere il mercato del lavoro rendendo possibile
una prima esperienza lavorativa, augurandosi che questa possa contribuire ad
aumentare le possibilità di un rapporto stabile con lo stesso o altro datore di
lavoro.
Inoltre, i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei
lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale potranno prevedere, anche in sede di contrattazione
decentrata, che non siano richieste ragioni giustificatrici per la stipula di
contratti a tempo determinato a condizione che:
l’assunzione o la missione nell’ambito del contratto di
somministrazione si verifichi all’interno di un processo organizzativo:
venga rispettato il limite complessivo del 6% dei CTD rispetto al
totale dei lavoratori occupati.
Per quanto riguarda il Contratto di inserimento (art. 1, commi 14 e 15; art.
4, commi 8-11), l’attuale legge lo abroga, sostituendolo con degli incentivi
all’occupazione che riguardano due categorie di lavoratori:
i lavoratori sopra i cinquant’anni, disoccupati da oltre dodici mesi;
le donne di qualsiasi età, residenti in aree svantaggiate del Paese e
disoccupate da almeno sei mesi; donne disoccupate da almeno ventiquattro
mesi, ovunque residenti.
54
L’incentivo comporta una riduzione del 50% dei contributi a carico del
datore di lavoro per una durata complessiva di 12 mesi ed è corrisposto in
rapporto alle assunzioni a tempo determinato. Nel caso in cui vi sia una
trasformazione a tempo indeterminato, oppure l’assunzione sia stata fatta
direttamente a tempo indeterminato, la riduzione dei contributi avrà una
durata totale di 18 mesi.
È stata poi anche modificata la normativa relativa all’Apprendistato (art.
1, commi 16-19) presente nel Testo Unico del 2011 (D.Lgs. 167/2011).
Secondo la nuova normativa:
la durata minima del contratto è di sei mesi e in questa non sono
compresi gli apprendisti assunti per lo svolgimento di attività stagionali;
non è possibile assumere apprendisti con un contratto di
somministrazione a tempo determinato;
è previsto un vincolo che subordina la possibilità di assumere nuovi
apprendisti alla prosecuzione, nei 36 mesi precedenti, di almeno il 50% dei
rapporti di apprendistato instaurato (norma non valida per i datori di lavoro
con meno di 10 dipendenti).
Ritornando al contratto a tempo determinato acausale, bisogna porre in
luce come l’utilizzazione del contratto a termine per favorire l’occupazione di
soggetti particolarmente svantaggiati, si configuri quale una scelta normativa
ben conosciuta in Italia da ormai parecchi anni82; tuttavia, mentre queste
possibilità fino ad ora erano state riservate a specifiche categorie di soggetti
deboli, attualmente si assiste ad un processo di generalizzazione, poiché
nell’attuale scenario, molto spesso per i giovani laureati o per chi detiene un
titolo di studio medio alto, è la mancanza di una prima esperienza lavorativa ad
impedire l’accesso all’occupazione.
82 Cfr. L. MENGHINI, Contratto a termine (art. 1, commi 9-13, l. n. 92/2012), in Il lavoro nella giurisprudenza, 2012, n. 10, p. 929.
55
Quota dipendenti con contratto a termine (Regioni 2007)
Fonte: ISFOL, La flexicurity come nuovo modello di politica del lavoro,
in I libri del Fondo Sociale Europeo, n. 158, Roma, 2011, p. 85.
3.3. Le Relazioni Industriali
Nelle Relazioni Industriali il sistema italiano si è sempre contraddistinto
per un basso livello di istituzionalizzazione, non essendo state attuate mediante
legge ordinaria le differenti disposizioni della Costituzione che hanno impatto
in tale ambito. Infatti l’art. 39 della carta, nel garantire il diritto alla libertà di
associazione, delega alla legge l’articolazione degli ulteriori diritti del sindacato.
La medesima situazione si ha per la contrattazione di livello nazionale e
aziendale, non esistendo leggi che regolano il sistema di relazioni industriali e
che definiscono i diritti e i doveri delle parti. Un sistema tale genere ha
prodotto un modello di relazioni industriali con procedure instabili e risultati
difficili da prevedere, nel cui ambito le controparti hanno spesso messo in
pratica strategie conflittuali per dimostrare il proprio peso nei rapporti di
forza.
56
La preferenza per contrattazioni di tipo centralizzato o aziendale è
spesso mutata a partire dalle specifiche situazioni congiunturali. In fasi di
crescita il sindacato ha preferito il livello aziendale in considerazione del fatto
che per gli imprenditori era essenziale produrre ed evitare eccessivi conflitti.
Tutto ciò è stato modificato con l’accordo interconfederale del 1993 che ha
regolato le materie di competenza dei differenti livelli di contrattazione, oltre a
proceduralizzare le fasi di negoziazione e rinnovo.
Il sistema ha tenuto piuttosto bene, fino agli ultimi anni, quando è
diventato necessario permettere deroghe a livello di contrattazione aziendale,
sia rispetto al CCNL di categoria, sia alla legge. In risposta a tale esigenza,
legata alla crisi che ha richiesto di intervenire in ambito di singola impresa le
migliori soluzioni per gestire le specifiche criticità, è stata approvata dal
governo la legge n.148 del 2012 che rende possibile ampie deroghe alla legge e
alla contrattazione collettiva per la sottoscrizione di intese rientranti in un
contesto abbastanza ampio.
Nello stesso tempo, presumibilmente anche per limitare la portata
dirompente di tale innovazione, i tre sindacati maggiormente rappresentativi
CGIL, CISL e UIL hanno sottoscritto un nuovo accordo interconfederale per
proceduralizzare la stipula di accordi aziendali in deroga al CCNL ma non alla
legge. Si tratta di novità sicuramente rilevanti che dovrebbero consentire di
aumentare la dinamicità delle relazioni industriali del nostro paese e garantire la
opportuna flessibilità regolamentandola laddove effettivamente necessario.
57
Quota di lavoratori parasubordinati, sul totale degli occupati (Regioni italiane 2006)
Fonte: ISFOL, La flexicurity come nuovo modello di politica del lavoro,
in I libri del Fondo Sociale Europeo, n. 158, Roma, 2011, p. 86.
3.4. Le politiche attive del lavoro
Gli ultimi 15 anni sono venuti caratterizzandosi per la profonda
trasformazione dei sistemi istituzionali che presiedono all’intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro. Tale trasformazione ha riposato su un duplice
processo riformatore, avviato sul volgere degli anni Novanta, che ha visto in
primo luogo avanzare - a partire dal 1997 - alla demonopolizzazione e alla
riconversione del collocamento pubblico in un sistema capace di fornire servizi
nell’ambito delle politiche attive del lavoro e di supportare lo sviluppo di un
approccio preventivo alla disoccupazione. Successivamente - a partire dal 2003
- si è proceduto alla progressiva definizione dei contorni normativi del mercato
dei servizi al lavoro allargato a nuovi soggetti sia pubblici che privati, tale da
conferire al sistema istituzionale italiano una configurazione mista “pubblico –
privata”.
Il cammino riformatore ha recato una geografia regionalizzata delle
competenze in materia di Servizi per l’impiego e politiche del lavoro, ponendo
le regioni e le province al centro di processi di governo di questi ambiti.
58
I Centri per l’impiego hanno agito sulla base della logica di “presa in
carico” degli individui in cerca di lavoro, cui sono stati offerti servizi di politica
attiva adattati alle specifiche necessità, lasciando da parte l’approccio
indifferenziato caratteristico del vecchio collocamento.
Indicatori del ruolo svolto dai Centri per l’impiego, per Regioni
Fonte: ISFOL, La flexicurity come nuovo modello di politica del lavoro, in I libri del Fondo Sociale Europeo, n. 158, Roma, 2011, p. 91.
59
Propriamente pare opportuno rilevare come il livello e la tipologia dei
servizi erogati dai Centri per l’impiego sia notevolmente differente a seconda
delle aree geografiche di riferimento. Nello specifico, l’erogazione di servizi
personalizzati e di carattere “proattivo” è caratteristico nel Centro Nord, di
contro al prevalere di servizi minimali al Sud. Tale differenza solo parzialmente
risulta comprensibile alla luce della diversa quantità di domanda di servizi
rivolta alle strutture per l’impiego.
Inoltre all’interno del nuovo sistema sono tutt’ora esistenti alcune
eredità del vecchio collocamento, ovvero:
sbilanciamento del sistema verso la domanda di lavoro;
modello organizzativo e operativo generalista in cui tutti fanno tutto;
difficoltà a differenziare i servizi in rapporto all’utenza;
mancanza di meccanismi premiali nei confronti dell’utenza che
aderisce ai servizi ed ai percorsi definiti83.
Da sottolineare, inoltre, la mancanza di un sistema informativo centrale
completamente implementato, capace di garantire flussi costanti e aggiornati
con le necessarie informazioni, insieme al deficit di un ruolo forte di
coordinamento che dovrebbe spettare all’amministrazione centrale.
83 Cfr. CENTRO STUDI INTERNAZIONALI E COMPARATI “Marco Biagi”, Flexicurity: lavori in corso, Bollettino ADAPT, 22 ottobre. 2007
60
Tassi di transizione da contratto a termine a permanente Regioni italiane 2007-2008
Fonte: ISFOL, La flexicurity come nuovo modello di politica del lavoro,
in I libri del Fondo Sociale Europeo, n. 158, Roma, 2011, p. 94.
Per ultimo appare rilevante considerare alcuni dati relativi alle spese che
lo stato italiano sostiene per politiche attive del lavoro, essendo questi
piuttosto negativi e pertanto indice della bassa propensione a investire
veramente in tale settore, in particolare in un periodo congiunturale negativo
come quello attuale. Infatti, mentre in tre anni le risorse investite in
ammortizzatori sociali sono cresciute di oltre il 20%, quelle per le politiche
attive e i servizi per l'impiego sono diminuite del 6 e del 10 per cento. Si
aggrava dunque lo squilibrio tra sussidi monetari e iniziative attive: i primi
captano l'80% del budget totale, mentre alle politiche attive è destinato
soltanto lo 0,31% del Pil, la metà rispetto a quanto spende la Germania. Con
uno squilibrio record, eccezion fatta per la Romania, l’Italia è il Paese europeo
con il gap più alto tra sussidi passivi e politiche attive. (dati archivio eurostat).
Nel 2011 soltanto il 32% dei disoccupati si è rivolto ai centri per l'impiego, il
secondo dato più basso della Ue a 27, di contro ad una media di utilizzo della
61
Ue che sfiora il 56%. A ciò bisogna aggiungere che in media appena il 3,9% dei
disoccupati trova un impiego grazie al collocamento pubblico (dati Isfol).
3.5. I Sistemi di sicurezza sociale
Per quanto riguarda la tutela del lavoratore oggetto di licenziamento o
sospensione del rapporto di lavoro, il sistema italiano degli ammortizzatori
sociali è formato da molteplici strumenti che, solitamente, necessitano di una
certa anzianità contributiva. Le modifiche legislative sopravvenute nel corso
degli anni hanno aumentato le differenze nelle modalità di applicazione di
misure a sostegno del reddito e delle indennità. In sintesi, data la vastità di
interventi messi in atto dai diversi governi succedutisi negli anni, gli
ammortizzatori sociali possono essere classificati in tre categorie:
1. In caso di sospensione del rapporto di lavoro: trattamenti di
integrazione al reddito (Cassa integrazione guadagni ordinaria, CIGO, e cassa
integrazione guadagni straordinaria, CIGS). In questa classe di interventi sono
compresi gli interventi in deroga della CIGS e i contratti di solidarietà insieme
alle indennità di disoccupazione per i lavoratori sospesi. L’importo economico
normalmente riconosciuto ai lavoratori in questa situazione è pari all’80%
dell’ultima retribuzione percepita, calcolata su di un massimale. L’erogazione
può andare dai 3 mesi ai 3 anni a partire dalle specifiche situazioni aziendali.
2. In caso di cessazione del rapporto di lavoro: indennità di mobilità e
indennità di disoccupazione. L’importo dell’indennità di mobilità è pari a
quello della CIG e viene erogato per periodi compresi tra 1 a 4 anni, a seconda
dell’età del lavoratore e dell’area geografica. Le imprese che assumono
lavoratori in mobilità usufruiscono di agevolazioni contributive a seconda del
tipo di contratto e delle caratteristiche dei lavoratori assunti.
3. Misure temporanee a sostegno dei lavoratori a tempo determinato,
apprendisti e parasubordinati in regime di monocommittenza. Negli ultimi
anni il Governo è intervenuto per ampliare la platea di lavoratori beneficiari di
62
ammortizzatori sociali con diverse misure. Ad esempio, in via sperimentale,
per il triennio 2009-2011 è stata introdotta un’indennità di disoccupazione a
favore dei lavoratori in possesso della qualifica di apprendista - di norma
esclusi - con almeno tre mesi di servizio al momento della sospensione o del
licenziamento, presso l'azienda interessata dalla crisi.
Tale sistema di ammortizzatori sociali è stato spesso oggetto di aspre
critiche, che possono essere riassunte nel modo seguente:
il sistema è discriminatorio in quanto riposa su criteri di categoria e
con molti margini di discrezionalità. Nello specifico la discriminazione pare
assai elevata tra lavoratori appartenenti al comparto delle grandi aziende,
soprattutto del settore industriale ed il resto dei dipendenti privati;
gli interventi di sostegno al reddito non sono collegati con le
politiche attive e non sono effettivamente condizionati alla ricerca di lavoro;
gli ammortizzatori sociali operano soltanto nella prima fase dei
periodi di disoccupazione. Di conseguenza trascurano i rischi di povertà
collegati ai casi di disoccupazione di lunga durata, casi per i quali non è
prevista in Italia alcuna forma strutturata di “reddito di ultima istanza”, come
invece in molti altri Paesi europei.84
La Legge 28.06.2012 n. 92, oltre a modificare le regole del mercato del
lavoro, ha anche riorganizzato profondamente l’assetto degli ammortizzatori
sociali, con l’obiettivo di re-instaurare la coerenza tra flessibilità e coperture
assicurative, ampliare e rendere più eque le tutele fornite dal sistema, limitare
le numerose distorsioni e gli spazi per usi impropri insiti in alcuni degli
strumenti attualmente esistenti. In vista di ciò sono state riordinate le tutele in
caso di perdita involontaria della propria occupazione; estese le tutele in
costanza di rapporto di lavoro ai settori oggi non coperti dalla Cassa
integrazione; introdotti strumenti che agevolino la gestione delle crisi aziendali
per i lavoratori vicini al pensionamento.
84 Cfr. CENTRO STUDI INTERNAZIONALI E COMPARATI “Marco Biagi”, Flexicurity: lavori in corso , Bollettino ADAPT, 22 ottobre. 2007
63
Gli strumenti introdotti dalla riforma si articolano su tre pilastri:
Assicurazione sociale per l’Impiego (ASpI), a carattere universale.
Dal punto di vista degli importi e delle durate vi è una convergenza rispetto
agli attuali trattamenti di disoccupazione ordinaria e di mobilità, raggiunta
tramite un regime transitorio che cesserà nel 2017
Tutele in costanza di rapporto di lavoro (Cigo, Cigs, fondi di
solidarietà). La necessità di eliminare, a decorrere dal 2014, i casi in cui la CIGS
copre esigenze non connesse alla conservazione del posto di lavoro induce a
ritenere necessaria l’eliminazione della causale per procedura concorsuale con
cessazione di attività
Uno Strumento di gestione degli esuberi strutturali, che fornisce la
possibilità di anticipare il pensionamento di 4 anni rispetto ai requisiti di legge,
in tutti i casi di esuberi strutturali di personale, ponendo però il trattamento
interamente a carico delle aziende. Si tratta di una novità di rilievo visto che
anteriormente questa tipologia di situazioni veniva gestita tramite l’istituto
della mobilità, con ovvie ripercussioni sulle casse dell’INPS.
3.6. La riforma Fornero
La recente riforma del mercato del lavoro85 (c.d. Riforma Fornero) di
cui alla legge n. 92 del 201286, “si propone l'obiettivo ambizioso di contribuire
a spostare il nostro ordinamento dall'equilibrio proprio del modello
mediterraneo all'equilibrio proprio del modello nord europeo, dalla sicurezza
del lavoro costruita essenzialmente su di un legame molto forte tra il
lavoratore e l'azienda, alla sicurezza costruita su di una forte assistenza al
85 Peraltro, mentre interviene direttamente sulla disciplina delle tutele assegnate al lavoratore disoccupato, all'art. 4, comma 49, proroga di ulteriori sei mesi dalla data di entrata in vigore della medesima legge, la delega per il riordino dei servizi per l'impiego di cui al comma 30 dell'art. 1 della legge n. 247 del 2007 (cfr. R. BENINI, Guida alla riforma del lavoro, Halley, Matelica, 2012). 86 Cfr. sulla riforma Fornero, F. ALVARO, Riforma del lavoro Fornero: prime considerazioni, su www.altalex.it; M. BROLLO, Il mercato del lavoro, in Trattato di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2012.
64
lavoratore nel mercato, ovvero nel passaggio dal vecchio al nuovo posto di
lavoro”87.
La legge n. 92 del 2012, intervenendo anche in materia di
ammortizzatori sociali, ha realizzato una revisione degli strumenti di tutela del
reddito nel caso di disoccupazione.
Momento centrale della novella legislativa è l'istituzione
dell'assicurazione sociale per l'impiego (AspI), destinato ai lavoratori
dipendenti del settore privato, compresi gli apprendisti, ai soci di cooperative
che abbiano stabilito, con la loro adesione o successivamente all'instaurazione
del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata, ai sensi
dell'art. 1, comma 3, della legge n. 142 del 3 aprile 2001, al personale artistico
subordinato ed ai dipendenti della pubblica amministrazione con contratto a
tempo determinato88.
Come evidenziato in dottrina, significativa è già la stessa
denominazione del nuovo ammortizzatore che marca la differenza rispetto
all'idea di disoccupazione, richiamando, invece, il concetto di impiego. Detto
in altri termini, il nuovo concetto di tutela pare voler assumere la funzione di
sostituire il reddito del lavoratore nel periodo di ricerca di una nuova
occupazione e non già quella di indennizzare la perdita della stessa89.
In base all'art. 2 della legge n. 92/2012, dal 1° gennaio 2013,
relativamente ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla
87 Cfr. P. ICHINO, Riforma del lavoro: contesto, intendimenti del Governo e ratio legis, in DPL, 2012, pp. 1497 ss.. 88 Le sole esclusioni riguardano i lavoratori della pubblica amministrazione assunti con contratto a tempo indeterminato, in quanto la loro occupazione è considerata stabile, ed i lavoratori agricoli, poiché percettori di apposita indennità. In tal senso, B. LA PORTA, Assicurazione sociale per l'impiego (AspI), in AA. VV., Il nuovo lavoro, Milano, 2012, pp. 185-186. L'autore aggiunge che, analogamente alla vigente indennità di disoccupazione ordinaria, per poter godere del sussidio i soggetti beneficiari devono trovarsi in stato di disoccupazione involontaria. Dunque, l'ASpI non compete ai lavoratori dimissionari ed ai lavoratori che hanno cessato il rapporto di lavoro per mutuo consenso, ad eccezione della risoluzione consensuale concordata davanti alla Direzione Territoriale del Lavoro e relativa alla nuova procedura di conciliazione obbligatoria propedeutica al licenziamento per giustificato motivo oggettivo da intimarsi da parte di datori di lavoro rientranti nell'ambito di applicazione del novellato art. 18 della legge n. 300 del 1970. 89 In tal senso, G. ZILIO GRANDI, M. SFERRAZZA, La legge n. 92/2012 ed il riordino degli ammortizzatori sociali: alla ricerca della riforma perduta, op. cit., par. 3.
65
predetta data, l'ASpI sostituisce le tutele in precedenza esistenti per i casi di
perdita di lavoro.
Per il periodo transitorio 2013-2015 è dettata una specifica disciplina.
Per le prestazioni relative ai nuovi eventi di disoccupazione intercorsi nel 2013:
otto mesi per i lavoratori con età anagrafica inferiore ad anni cinquanta; dodici
mesi se di età pari o superiore a cinquanta anni. Per le prestazioni relative agli
eventi intercorsi nel 2014: otto mesi per i lavoratori con età anagrafica
inferiore ad anni cinquanta; dodici mesi per i lavoratori di età pari o superiore
a cinquanta anni, ma inferiore a cinquantacinque; quattordici mesi per i
soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquantacinque anni, nei limiti
delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni. Per le prestazioni
relative agli eventi intercorsi nel 2015: dieci mesi per i lavoratori con età
anagrafica inferiore ad anni cinquanta; dodici mesi per i lavoratori di età pari o
superiore a cinquanta anni, ma inferiore a cinquantacinque; sedici mesi per i
soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquantacinque anni, nei limiti
delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni90.
L'assicurazione sociale per l'impiego, istituita presso la Gestione delle
Prestazioni Temporanee dei lavoratori dipendenti è, come detto, un
ammortizzatore sociale.
In qualità di sostegno al reddito è indirizzata a tutti i lavoratori che si
trovano in stato di disoccupazione involontaria a partire dal 1° gennaio 201391.
90 Viene ridefinito, altresì, secondo un modulo di progressivo ridimensionamento, l'arco temporale massimo del diritto all'indennità di mobilità per il periodo 1° gennaio 2013-31 dicembre 2016. In relazione a tale articolata disciplina è previsto che il Ministro del lavoro, entro il 31 dicembre 2014, proceda “insieme alle associazioni dei datori di lavoro ed alle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad una ricognizione delle prospettive economiche e occupazionali in essere alla predetta data, al fine di verificare la corrispondenza della disciplina transitoria di cui al comma 46 e di proporre, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, eventuali conseguenti iniziative” (comma 46-bis, come inserito dall'art. 46-bis, comma 1, lett. f, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 7 agosto 2012). 91 Art. 2, comma 1, della legge n. 92/2013: “A decorrere dal 1° gennaio 2013 e in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla predetta data è istituita, presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti, di cui all'art. 24 della l. 9 marzo 1989, n. 88, l'Assicurazione sociale per l'impiego (AspI), con la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un'indennità mensile di disoccupazione”.
66
Nella definizione di lavoratori rientrano tutti coloro che a legislazione
vigente sono titolari di diritto a tale indennità92.
In particolare, si tratta di tutti i lavoratori del settore privato, assicurati
contro la disoccupazione involontaria che abbiano concluso il rapporto di
lavoro per motivi non imputabili alla propria volontà93.
Tra i lavoratori dipendenti tutelati dalla norma vi sono poi gli
apprendisti. Come evidenziato in dottrina, il riferimento chiaramente espresso
sottende alla piena parificazione degli apprendisti agli altri lavoratori
dipendenti, nella prospettiva voluta dal legislatore in quest'ultimo periodo già
delineata dal notevole impulso dato con il d.lgs. n. 167 del 2011, che
l'apprendistato diventi la forma di ingresso prevalente dei giovani nel mondo
del lavoro94.
Altri soggetti che rientrano nell'ambito di applicazione del beneficio
sono i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito un rapporto di
lavoro subordinato, ai sensi dell'art. 1, comma 3 della legge n. 142/2001, anche
successivamente all'entrata in cooperativa in qualità di socio e tutti i lavoratori
delle Amministrazioni Pubbliche di cui all'art. 1, comma 2 del d.lgs. n.
165/2001, con contratto di lavoro dipendente purchè non a tempo
determinato95.
92 Art. 2, comma 2, della legge n. 92/2013: “Sono compresi nell'ambito di applicazione dell'ASpI tutti i lavoratori dipendenti, ivi compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata, ai sensi dell'art. 1, comma 3 della legge 3 aprile 2001, n. 142, e successive modificazioni, con esclusione dei dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni”. 93 Lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato; lavoratori assunti con contratto a tempo determinato; lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno “non stagionale”; lavoratori licenziati a seguito di un periodo di lavoro svolto con contratto di inserimento; lavoratori per i quali la cessazione è avvenuta per risoluzione consensuale nei casi di trasferimento di proprietà dell'azienda e di trasferimento della sede di lavoro; lavoratori che hanno presentato le dimissioni per giusta causa; lavoratori sospesi causa crisi aziendale o occupazionale, a carattere transitorio o temporaneo, per un massimo di 90 giornate nell'anno solare. 94 In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G. E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, Bologna, 2012, p. 39, secondo i quali, inoltre, l'intervento non risulta del tutto innovativo essendo già operante a favore dei predetti l'art. 19, comma 1, lett. c), del d.l. n. 185 del 29 novembre 2008, convertito con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, che prevedeva in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali o in caso di licenziamento, il diritto al trattamento economico pari all'indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali. 95 Per questi lavoratori, in effetti, viene confermato un obbligo, già esistente per la Pubblica Amministrazione, di assicurare i propri dipendenti contro la disoccupazione involontaria, in forza
67
Da ultimo, l'intento di allargare a più categorie di lavoratori tale tipo di
ammortizzatore sociale ha fatto convogliare nel suo ambito anche lavoratori in
passato non coperti dall'assicurazione contro la disoccupazione, quali gli artisti,
ossia coloro che rivestono il ruolo di personale artistico, teatrale e
cinematografico ai sensi dell'art. 40 del r.d.l. n. 1827 del 1935.
Da quanto detto, risulta evidente che la nuova indennità mensile di
disoccupazione, in ogni caso non riguarderà i dipendenti delle Pubbliche
Amministrazioni con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato né
andrà ad incidere sul settore degli operai agricoli a tempo determinato ed
indeterminato per i quali rimane in vigore la previgente normativa di settore96.
L'indennità prevista dalla nuova normativa esprime la nuova visione del
mondo del lavoro focalizzata non sulla tutela del posto di lavoro, ma sul
lavoratore a cui si vuole fornire un sostegno al reddito nei momenti di caduta
dell'attività lavorativa97.
Pertanto, in sostituzione delle varie indennità previste dalla previgente
normativa è stata prevista un'unica forma di assicurazione sociale per l'impiego
contro la disoccupazione involontaria.
In particolare, l'ASpI andrà a sostituire l'indennità di mobilità, indennità
di disoccupazione ordinaria non agricola, l'indennità di disoccupazione con
requisiti ridotti e l'indennità di disoccupazione speciale edile, mentre non
toccherà la cassa integrazione ordinaria, che verrà sostanzialmente mantenuta,
né inciderà su quella in deroga e su quella straordinaria, che verrà limitata alle
aziende in ristrutturazione.
Il quarto comma dell'art. 2 della legge n. 92 del 2012 indica i requisiti
occupazionali ed assicurativi che permettono la fruizione della nuova indennità
e che in gran parte risultano analoghi a quelli previsti per l'indennità di
dell'art. 20 del d.l. N 112 del 2008, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, come esplicitato dalla circolare INPS n. 18 del 12 febbraio 2009. 96 Cfr. D. GAROFALO, Gli ammortizzatori sociali per la riforma Fornero, in Il lav. nella giur., 10/2012, p. 1004. 97 In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G.E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, op. cit., p. 41.
68
disoccupazione non agricola ordinaria prevista dalla legislazione oggetto della
riforma98.
Quanto ai requisiti occupazionali, alla lettera a) si richiede che il
lavoratore deve trovarsi in stato di disoccupazione involontaria ai sensi dell'art.
1, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 181/2000, il quale risponde a due condizioni,
ossia che il soggetto sia privo di lavoro e che sia immediatamente disponibile
allo svolgimento ed alla ricerca di una attività lavorativa secondo le modalità
definite con i servizi competenti99.
Quanto ai requisiti assicurativi, la lettera b), anche se non specifica una
diretta ed esclusiva correlazione con il lavoro dipendente, fissa il termine del
periodo in maniera lineare, ossia l'anzianità assicurativa di almeno due anni100,
il c.d. “biennio mobile” che inizia a decorrere dalla data del licenziamento.
In dottrina è stato subito evidenziato che, tuttavia, se lo stato di
disoccupazione subìto per effetto della perdita involontaria del lavoro porta
con sé il diritto al sostegno economico, non altrettanto fatto produce
l'inattività conseguente alle dimissioni quale scelta intenzionale della parte, a
meno che non si tratti di dimissioni per giusta causa da cui si evince la volontà
coartata da fatti determinati101.
La stessa conclusione, poi, come per il caso delle dimissioni semplici, è
esplicitamente prevista per i casi di risoluzione consensuale del rapporto ad
eccezione dei casi in cui siano frutto di accordi conciliativi sottoscritti in
98 Cfr. D. GAROFALO, Gli ammortizzatori sociali per la riforma Fornero, op. cit., pp. 1005 ss.. 99 Cfr. B. LA PORTA, Assicurazione sociale per l'impiego (AspI), op. cit., pp. 185-186. 100 In tal modo risulta abbandonata la più articolata indicazione precedente che prevedeva almeno un contributo settimanale versato prima del biennio precedente la domanda e rimane fermo il minimo delle 52 settimane nell'ultimo biennio. 101 Come ad esempio, il mancato pagamento della retribuzione, il mobbing, le molestie sessuali, le modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative, le notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone dell'azienda, lo spostamento del lavoratore da una sede ad un'altra senza che sussistano le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, il comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico bei confronti del dipendente. In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G.E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, op. cit., p. 42.
69
presenza della Commissione di conciliazione della Direzione territoriale del
lavoro di cui all'art. 410 c.p.c.102.
La durata dell'assicurazione sociale per l'impiego dovuta per i periodi di
mancanza di lavoro in cui, involontariamente, si dovesse venire a trovare il
lavoratore a partire dal 1° gennaio 2016 è stabilita dal comma 11 della nuova
normativa103.
Pertanto, la durata massima dell'ASpI varia a seconda dell'età anagrafica
dei soggetti beneficiari, con la distinzione tra lavoratori con un'età inferiore ai
55 anni e quelli con un'età pari o superiore a 55 anni104.
Tuttavia, in entrambi i casi saranno detratti i periodi di indennità
eventualmente goduti come AspI oppure come Mini AspI o eventualmente
come cumulo delle due indennità, goduti nello stesso periodo105.
Per i lavoratori di 55 anni compiuti o con età superiore e che dunque
usufruiscono della durata massima di 18 mesi, l'indennità sarà corrisposta nel
limite delle settimane di contribuzione dell'ultimo biennio106.
L'avente diritto al trattamento che abbia un'età pari o superiore ai 55
anni ed abbia lavorato nel biennio di riferimento, ad esempio per 60 settimane,
in definitiva, percepirà una indennità di 60 settimane e non del previsto
massimale di 18 mesi e sempre che non vi siano detrazioni che intervengano a
decurtare ulteriormente il periodo di fruizione107.
102 In tale ultimo caso si può anche prevedere, ai fini della ricollocazione professionale, anche l'affidamento del lavoratore ad un'agenzia per il lavoro di cui all'art. 4, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003. 103 Dopo il periodo che va dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, per il quale le norme stabiliscono durate differenti in relazione all'anno di riferimento e all'età anagrafica dei soggetti, la durata dell'ASpI entra a regime dal 1° gennaio 2016 quale sostitutivo dell'indennità di disoccupazione tenendo presente che, per quanto concerne l'indennità di mobilità, la stessa verrà sostituita definitivamente con l'anno 2017 seguendo le modalità previste dalla parte relativa al periodo transitorio della norma novellata. 104 In tal senso, per gli aventi diritto con età inferiore a 55 anni la durata sarà di 12 mesi, mentre per i lavoratori con 55 anni compiuti e con età superiore ai 55, la durata sarà pari a 18 mesi. 105 Cfr. B. LA PORTA, Assicurazione sociale per l'impiego (AspI), op. cit., p. 188. 106 Anche in tal caso il legislatore ha voluto esplicitamente evitare cumuli detraendo quanto già fruito anche come trattamento breve. In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G.E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, op. cit., p. 45. 107 Cfr. sull'argomento A. CHIARALUCE, L'ASPI e il nuovo sistema previsto a partire dal 2013, op. cit., pp. 21 ss..
70
Per accedere all'indennità di disoccupazione prevista dalla legge n.
92/2012 è prevista una procedura specifica che contempla le date di scadenza,
la forma richiesta, le modalità di invio108 e l'ente cui deve essere inviata la
domanda.
Quanto ai termini, questi riguardano sia la maturazione del diritto sia
l'inoltro della domanda.
In vero, il comma 12 dell'art. 2 in esame stabilisce chiaramente che il
diritto si matura a partire dall'ottavo giorno successivo alla data di cessazione
dell'ultimo rapporto di lavoro oppure dal giorno successivo a quello in cui
l'avente diritto ha presentato la domanda, fermo restando l'invio della stessa
nei termini fissati109.
Quanto, poi, al termine di scadenza di presentazione della domanda,
questo è stabilito inderogabilmente ed a pena di decadenza del diritto stesso
entro sessanta giorni dalla data in cui si ha diritto al trattamento, ovvero entro
68 giorni dalla data del licenziamento.
Condizione essenziale per avere l'accesso all'assicurazione sociale per
l'impiego è, infine, il perdurare dello stato di disoccupazione da parte del
lavoratore che abbia reso, peraltro, ai Centri per l'impiego la dichiarazione di
“immediata disponibilità” alla svolgimento di attività lavorativa110.
Qualora il lavoratore assicurato riprenda a lavorare con un contratto di
lavoro subordinato, l'indennità prevista dalla legge n. 92/2012 viene interrotta
d'ufficio111 basando tale elemento sui dati in possesso delle amministrazioni
competenti112.
108 Al comma 13, in linea con molte recenti indicazioni amministrative in materia di aggiornamento tecnologico e velocità di trasmissione dei dati al fine di raggiungere un'efficienza tale da rendere disponibili le informazioni ad una platea più ampia di funzionari pubblici con pochi passaggi, è esplicitata quale forma esclusiva di inoltro della domanda, pena decadenza del diritto, la modalità telematica, e l'INPS quale ente destinatario dell'istanza. 109 Cfr. A. CHIARALUCE, L'ASPI e il nuovo sistema previsto a partire dal 2013, op. cit., pp. 21 ss.. 110 Cfr. D.l. n.297 del 19 gennaio 2012. 111 Il periodo di sospensione dell'ASpI può arrivare ad un massimo di sei mesi. Nel caso in cui ci si trovi a terminare il periodo di lavoro prima della scadenza prevista allora l'indennità riprenderà a decorrere dalla data in cui era rimasta sospesa (cfr. art. 2, comma 15, legge n. 92/2012). 112 In particolare, la ripresa dell'attività lavorativa viene desunta dalle comunicazioni obbligatorie che i datori di lavoro inviano al centro per l'impiego.
71
Nel caso in cui la nuova attività è svolta come lavoro autonomo e da
tale lavoro venga ricavato un reddito inferiore al tetto necessario per la
conservazione della condizione di disoccupazione, grava sul lavoratore
l'obbligo di effettuare una comunicazione all'Inps entro trenta giorni dall'inizio
della nuova attività, denunciando in via presuntiva il reddito annuo che
prevede di realizzare e relativo all'attività svolta113.
V'è da dire che se lo stato di disoccupazione è conditio sine qua non per la
concessione dell'ASpI e questo viene a cadere per effetto dell'abrogazione di
cui all'art. 4, comma 33, lett. c), n. 1 della riforma, a fronte di un reddito anche
minimo, risulta difficilmente conciliabile il diritto al sostegno del reddito, che
pure rimane nel periodo di sospensione, con la perdita dello stato di
disoccupazione114.
Difatti, il comma in esame, disciplinando la sospensione del
trattamento, in caso di nuovo rapporto di lavoro subordinato, non pare tener
conto della difficoltà di coordinamento con quanto previsto dal citato art. 4,
comma 33, lett. c), n. 1, che sembra sopprimere la possibilità di conservazione
dello stato di disoccupazione nel caso di svolgimento di qualsiasi attività
lavorativa, anche autonoma115.
Inoltre, viene specificato che nel caso in cui il soggetto sia esente
dall'obbligo di presentazione della denuncia dei redditi, l'avente diritto è tenuto
ad effettuare apposita autodichiarazione che illustri i ricavi percepiti dal lavoro
autonomo in modo da mettere l'istituto in condizioni di poter correttamente
erogare quanto previsto.
113 Il reddito in questione è pari ad € 4.800 annui. Cfr. Circolare INPS numero 67 del 14 aprile 2011. 114 Cfr. A. CHIARALUCE, L'ASPI e il nuovo sistema previsto a partire dal 2013, op. cit., pp. 21 ss.. 115In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G.E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, op. cit., p. 47, secondo cui, infatti, la parte abrogata dell'art. 4 del d.lgs. n. 181/2000 così recita: “perdita dello stato di disoccupazione: a) conservazione dello stato di disoccupazione a seguito di svolgimento di attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione. Tale soglia di reddito non si applica ai soggetti di cui all'art. 8, commi 2 e 3 del d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468”.
72
Il comma 19, infine, introduce un provvedimento di carattere
innovativo, anche se in forma sperimentale e valido solamente per il triennio
2013-2015116.
In particolare, nel comma in questione viene previsto il diritto di
richiedere la liquidazione dell'importo delle mensilità spettanti in un'unica
soluzione nell'eventualità che si intenda avviare un'attività in proprio, sia come
lavoro in autoimpresa o microimpresa o in cooperativa117.
In base a quanto stabilito dai commi 40 e 41 dell'articolo in esame, il
beneficio legato all'assicurazione sociale per l'impiego decade al verificarsi di
determinati casi118.
Innanzitutto vi sono i casi della perdita dello stato di disoccupazione e
l'omessa comunicazione all'Inps dello svolgimento di lavoro autonomo ex art.
2, comma 17, legge n. 92/2012 di cui s'è poc'anzi discussa la normativa.
Altra circostanza collegata alla decadenza del beneficio è il
conseguimento delle condizioni per poter usufruire del trattamento di
pensione di vecchiaia oppure del pensionamento anticipato, come pure il caso
in cui il lavoratore ottenga il diritto al trattamento pensionistico di invalidità o
l'assegno ordinario di invalidità119.
Oltre a tali casi, ve ne sono altri, previsti dall'art. 3 comma 41 che
incidono sulla decadenza. Questi riguardano il rifiuto o l'irregolare
partecipazione, senza giustificato motivo, a iniziative di politica attiva proposte
dai Centri per l'impiego120, oppure il rifiuto di un'offerta di lavoro di livello
retributivo superiore almeno del 20% rispetto all'indennità spettante121.
116 Nel disegno di legge originario tale provvedimento non era stato inserito mentre durante i lavori della Commissione lavoro del Senato si è ritenuto di voler inserire tale previsione legislativa al fine di dare impulso alla ricerca attiva da parte del disoccupato che basandosi su un introito, seppur limitato, può tentare di avviare un'iniziativa alternativa a quella del normale lavoro subordinato. 117 Le condizioni, le modalità e i limiti di questa procedura sperimentale saranno stabiliti con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali emanato, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze entro 180 giorni dall'entrata in vigore della presente legge. 118 Cfr. B. LA PORTA, Assicurazione sociale per l'impiego (AspI), op. cit., p. 189. 119 In tal caso, in capo all'avente diritto, v'è facoltà di scelta alternativa: poter usufruire dell'una o dell'altra misura di sostegno al reddito. 120 Ad esempio: corso di qualificazione o riqualificazione. 121 Purchè l'attività corsuale o lavorativa non disti più di 50 chilometri e sia raggiungibile con mezzi pubblici nell'arco di 80 minuti.
73
Come evidenziato in dottrina, ciò fa pensare che a fronte di
un'indennità pari a mille euro mensili percepita dal disoccupato, nel caso in cui
questi rifiuti un impiego che gli garantisca un minimo di 1.200 € mensili, lo
stesso vedrebbe decadere il suo diritto alla fruizione dell'assicurazione sociale
per l'impiego122.
Nel caso, quindi, in cui insorgano le circostanze di decadenza appena
richiamate e qualora il lavoratore abbia continuato a godere dell'indennità,
questi sarà tenuto alla restituzione dei ratei eventualmente percepiti.
122 In tal senso, F. PIZZI, F. RUSSO, G.E. DE FILIPPIS, ASpI e nuovi ammortizzatori sociali, op. cit., p. 48.
74
CAPITOLO QUARTO
WELFARE E AMMORTIZZATORI SOCIALI A LIVELLO
INTERNAZIONALE AL DI FUORI DELL’UNIONE EUROPEA:
I CASI DI STATI UNITI E BRASILE
4.1. Storia del Welfare State negli Stati Uniti fino alla Grande
Depressione ed al Social Security Act (1935)
Negli USA il termine Welfare si riferisce ai programmi di welfare del
governo federale, i quali sono stati messi in atto per contrastare la
disoccupazione o la sottoccupazione; inoltre il sistema di welfare è esteso, con
diversi programmi, a soggetti svantaggiati o bisognosi, come donne e bambini
(WIC Program), famiglie con figli a carico (AFDC), o a soggetti con bisogni di
tipo medico (Medicaid).
Il welfare statale, ovvero federale, ebbe inizio negli anni’30 durante la
grande depressione, per cercare di arginare i devastanti effetti del big crash
sulla popolazione.
Dal punto di vista storico, tuttavia, il welfare statunitense risale all’inizio
della colonizzazione del paese e il modello fu, chiaramente, la Gran
Bretagna123; della madrepatria venne adottata la Poor Laws (1601). Si può
ricordare che in Inghilterra nel corso del XVI secolo si era verificato un
notevole sviluppo delle opere di carità, che spesso assumevano la forma di
Charitable Trust124 e il parlamento aveva legiferato sulla materia già nel 1597 e
nel 1601, sotto il regno di Elisabetta I. Si ebbero allora due riforme
“primordiali” del welfare del tempo; tali riforme ebbero ad oggetto l’uso dei
123 Dal punto di vista storico in Europa risale perlomeno al medioevo l’esistenza di organizzazioni di tipo sociale nate con l’obiettivo di aiutare e soccorrere chi si trovava in condizioni di bisogno; organizzazioni che, sebbene abbiano svolto un ruolo economico per nulla trascurabile, trovavano la loro ragione giustificatrice non nella ricerca del profitto quanto, piuttosto, nell’esigenza di assicurare in varie forme il “bene sociale”. 124 Cfr. RIDLEY, DUFF R., BULL M, Understanding Social Enterprise. Theoty and Practice, Sage, London, 2011, p. 22.
75
fondi dei trust da parte della Chiesa per l’istruzione e per il welfare. In tale
ambito venne introdotta la Poor Law (propriamente: Act for the Relief of the
Poor125, 1601) per permettere ai Local Council di raccogliere denaro dai
contribuenti per aiutare i bisognosi. Già allora era prevalsa la concezione che
tali organizzazioni agissero per obiettivi caritatevoli, senza fine di lucro ed in
vista del bene pubblico126.
In tempi più recenti, nel corso del XIX secolo il liberalism si era
affermato negli USA quale indirizzo dominante (forse in maniera addirittura
maggiore che in Gran Bretagna) e al welfare del tempo vennero dedicandosi
enti privati (come le grandi industrie); il governo federale non agì in maniera
diretta e dei bisogni delle parti più svantaggiate della popolazione si fecero
carico le istituzioni caritatevoli e non lo stato. In generale, soprattutto a partire
dal XIX secolo, la tradizione ‘anglosassone’ (britannica e statunitense nel
nostro caso), appare orientata al liberismo, ovvero allo scarso intervento dello
stato in ambito sociale; era dunque terreno fertile per lo sviluppo di enti ed
organizzazioni che fossero espressione della società civile.
Venne sviluppandosi negli Stati Uniti una visione della povertà come
problema sociale, potenziale fonte di criminalità e di squilibri sociali. Intorno al
1830, la Yates Commission a New York e la Quincy Commission in Massachusetts
dopo aver analizzato il problema della povertà giunsero alla conclusione che le
Poor Laws avevano finito per rivelarsi dannose per i poveri, per i quali era
troppo forte la tentazione di vivere grazie ai sussidi pubblici127. Vennero
dunque istituiti dei grandi ospizi ove raccogliere i poveri e, grazie alla disciplina
ed alla routine, ‘trasformarli’ in operosi cittadini. Istituzioni simili furono
125 Il testo può essere letto in http://www.workhouses.org.uk/poorlaws/1601act.shtml 126 In seguito, in Gran Bretagna, particolare importanza assunse il Poor Law Amendment Act del 1834 o New Poor Law (propriamente: An Act for the Amendment and better Administration of the Laws relating to the Poor in England and Wales), con il quale vennero eliminate le differenti leggi del tempo circa le modalità di intervento sulla povertà, emanando una legge unica. 127 Cfr., ROTHMAN, This discovery of the asylum: Order and disorder in the new republic, Boston: Little, Brown. 1971
76
pensate, oltre che per i poveri, anche per i criminali e per chi era affetto da
disturbi psichici128.
Tali metodi divennero presto di difficile applicazione, tuttavia,
soprattutto a causa delle continue ondate migratorie che il paese si trovò a
subire, oltre che a causa dell’influenza di alcuni enti (privati) quali la Society for
the Prevention of Pauperism e la Association for the Improvement of the Condition of the
Poor, per i quali aiutare i poveri si configurava come un dovere sociale; la cosa
determinò il venir meno delle pratiche di internamento, sebbene persistesse la
credenza che le cause della povertà fossero imputabili al singolo.
La Guerra Civile cambiò notevolmente la situazione in quanto, al suo
termine, gli USA divennero ‘una sola nazione’, mentre in precedenza
apparivano piuttosto un insieme di stati semi-indipendenti; crebbe, di
conseguenza, e si affermò il potere dello stato centrale, del governo federale.
In particolare, sul finire della Civil War, venne istituito il Freedman’s Bureau nel
1865, ovvero la prima agenzia di welfare federale, che diede un notevole
contributo soprattutto a livello di educazione e di soccorso ai bisognosi.
Sul finire del XIX secolo si ebbe un notevole aumento delle Charitable
agencies, che ideologicamente non si differenziavano molto da quelle dei periodi
precedenti; diversi stati istituirono dei boards of charities, sebbene il ruolo
principale a sostegno del welfare venne svolto dalle, sempre private, Charity
Organization Societies (COS), che iniziarono a nasce sul finire degli anni ’70 del
XIX secolo. Le COS furono fondamentali nel formare il welfare statunitense -
in un periodo dominato dal darwinismo sociale e dal laissez-faire – creando
diversi ‘gruppi caritatevoli’ e diventando una presenza dominante in tutti i
principali centri del paese. Alle COS si deve anche l’elaborazione della ‘carità
scientifica’, con un preciso metodo di ‘educazione al lavoro’129, destinata a
quei soggetti che, seppur poveri, erano privi di tratti caratteriali malsani o di
128 Cfr. W. TRATTNER, From poor law to welfare state: A history of social welfare in America, New York: Free Press, 1989. 129 Cfr. M. Katz, In the shadow of the poorhouse: A social history of welfare in America. New York: Basic Books, 1986.
77
incerta moralità; l’attenzione era sempre rivolta all’individuo, come si vede, e
non alla società nel suo complesso130.
In ogni caso, il COS seppe provvedere al sostegno degli strati più
poveri della popolazione, in un clima ideologico ostile a tali forme di
assistenza, riuscendo a far diventare stabili molte organizzazioni volte al
benessere collettivo.
Il periodo successivo fu caratterizzato da forti conflitti di classe oltre
che da una notevole immigrazione che mutò la composizione etnica e
demografica della nazione e dall’affermazione del capitalismo industriale,
favorì la nascita del Progressivism, un movimento che influenzò profondamente
la cultura americana (il cui principale esponente fu J. Dewey) e che si
opponeva completamente all’ideologia del laissez-faire.
Il movimento dei Progressives ebbe un’influenza fondamentale verso il
welfare statunitense e portò alla creazione, anni dopo, di una sorta di ‘pensione
di vecchiaia’ (nel 1920), propriamente una forma di assistenza per i lavoratori
in età avanzata e l’Aid to Dependent Children (ADC), il sostegno per i figli a
carico; si trattava di fondi comuni, non statali, che venivano erogati, in ogni
caso, non a partire dai contributi versati dal singolo, ma a seconda del suo
ruolo e della sua caratura morale; anche l’aiuto ai bambini dipendeva
dall’accertata adeguatezza morale dei destinatari. Si trattò, in ogni caso, dei
primi interventi di welfare, che diedero un notevole sviluppo a forme di
sostegno sociale collettivo.
Il movimento dei Progressives ebbe il fondamentale merito di porre in
primo piano a livello pubblico e di interesse politico i diversi problemi sociali –
quali povertà, immigrazione, salute pubblica, etc. – e gli strumenti di cui si
disponeva per contrastarli; sul finire degli anni ’20 aveva creato un contesto nel
quale, circa 25 anni dopo, gli Stati Uniti avrebbero edificato il proprio modello
di welfare state.
130 La figura più prominente fu Josephine Shaw Lowell, la vera ideologa del COS.
78
Gli anni ‘20, rappresentano la fase immediatamente precedente la
Grande Depressione - ovvero “la peggiore crisi mai attraversata dall’economia
mondiale”131 - furono positivi dal punto di vista economico. La crisi, ricorda
Galbraith nel suo fondamentale studio, si abbatté inaspettatamente, in quanto
“gli anni venti in America furono un periodo veramente buono. La
produzione e l’occupazione erano elevate e in aumento. I salari non salivano
molto, ma i prezzi erano stabili […] il capitalismo americano si trovava
indubbiamente in una fase di animazione”132.
Come sottolineato da Galbraith, gli anni ’20 furono dunque un buon
periodo per gli Stati Uniti, caratterizzati da un elevato livello di produzione e
da un’alta occupazione e, sebbene i salari non fossero aumentati di molto, i
prezzi erano stabili; complessivamente; a parte, ovviamente, la povertà del
tempo, soprattutto negli Appalachi del sud e negli stati meridionali per la
popolazione afro-americana, oltre che nelle slums ai margini delle grandi città
del tempo. Sempre secondo lo studioso americano “tra il 1925 e il 1929 il
numero delle aziende manifatturiere aumentò da 183.900 a 206.700; il valore
della loro produzione salì da $ 60.0 miliardi a $ 68.0 miliardi. L’indice della
Federal Reserve per la produzione, soltanto 67 in media nel 1921, salì a 100 nel
luglio del ’28 e raggiunse 126 nel giugno del 1929. Nel 1926 vennero prodotte
4.301.000 automobili. Tre anni dopo, nel 19292, la produzione aumentò di
oltre un milione raggiungendo 5.358.000 unità, una cifra che regge il confronto
con quella (5.700.000) delle nuove auto registrate nell’opulento 1953”133. La
prosperità del periodo recò notevoli vantaggi al welfare del tempo.
Prima della crisi il governo federale, che fini a quel momento non aveva
creato forme di intervento assistenziale o previdenziale dirette, se si escludono
le pensioni di guerra per i veterani della Civil War del 1862 – agì in maniera più
incisiva a livello sociale, ad esempio approvando delle leggi sul lavoro minorile
le Child labor Laws, e, nel 1921, approvò lo Shepard Towner Maternità and Infancy
131 S. POLLARD, Storia economica del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 111. 132 J.K. GALBRAITH, Il grande crollo, La crisi economica del ’29, cit., p. 32. 133 J.K. GALBRAITH, Il grande crollo, cit., p. 32.
79
Act: tale legge contemplava il finanziamento federale ai singoli stati per
finanziare programmi di welfare destinati a fanciulli e bambini.
La Grande Depressione mutò radicalmente il quadro sociale, politico
ed istituzionale; circa le conseguenze della crisi, “nel solo mondo
industrializzato c’erano nel 1932 trenta milioni di disoccupati e milioni di
lavoratori che lavoravano poche ore per un salario estremamente basso. Le
conseguenze erano la fame, una mortalità più alta, l’apatia e la disperazione
[…] La contrazione dei mercati di materie prime e generi alimentari costrinse
gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo a convertirsi ad un’agricoltura di
sussistenza, nonostante in tutto il mondo si morisse di fame. Nei paesi
industriali le aziende agricole venivano abbandonate, la terra fertile trasformata
in steppa, i raccolti distrutti nei campi. Davanti agli occhi del mondo il grano
veniva usato per far andare le locomotive, il caffè scaricato in mare. E mentre
dovunque le persone facevano la fila a migliaia per un lavoro, impianti
industriali appena costruiti andavano in rovina per mancanza di commesse”134.
La crisi comportò anche il venir meno dell’egemonia repubblicana alla
Casa Bianca ove salì, nel 1933, F. D. Roosvelt (in precedenza Governatore
dello Stato di New York); il nuovo presidente era maggiormente favorevole
all’intervento pubblico in economia e a livello sociale.
In particolare, il Social Security Act del 1935, ovvero la base del welfare
statunitense.
La legge prevedeva per i lavoratori del comparto industriale lo Old Age
Insurance (OAI) un programma di pensionamento pubblico quale ‘assicurazione
di anzianità’ contributiva e la Unemployment Insurance, ovvero una
‘assicurazione’ di disoccupazione; inoltre, per coloro i quali nono fossero
rientrati nei canoni stabiliti dai due programmi o che erano senza occupazione
vennere elaborati dei programmi appositi che risultavano soggetti alla verifica
delle effettive condizioni finanziarie di coloro che erano i destinatari dei
servizi; finanziati mediante raccolta del prelievo fiscale, tali programmi erano l’
134 S. POLLARD, Storia economica del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 111-112.
80
Old Age Assistance (OAA) (la ‘assistenza’ per gli anziani) e l’Aid to Dependent
Children (ADC), ovvero il ‘sostegno’ per i bambini a carico. Come rilevato da
Tanzilli, “ADC era destinato alle madri single prive di altre fonti di reddito
(allora per la maggior parte vedove), e veniva cofinanziato dal governo federale
e dagli Stati, cui ne era affidata la gestione amministrativa. L’assenza di
standard federali si tradusse per gli Stati stessi nella possibilità di imporre
requisiti minimi per l’inserimento nel programma, come cittadinanza e
residenza, limitazione dei benefici sulla base dello stato civile, test cosiddetti ‘di
moralità’ sulla conduzione della vita familiare, obbligo di svolgimento di
un’attività lavorativa. Soprattutto, gli Stati ebbero la possibilità di fissare
l’importo dei sussidi, il cui valore subiva perciò consistenti variazioni
all’interno del territorio nazionale tra le aree industrializzate, spesso più
generose, e gli Stati rurali del Sud, del Midwest e dell’Ovest, che invece
preferivano sussidi di importo decisamente inferiore”135.
Roosvelt avrebbe anche voluto introdurre un diverso sistema sanitario,
ma non vi riuscì a causa dell’opposizione della American Medical Association,
sorte che toccò in seguito anche a Truman. A partire dal periodo successivo
alla Great Depression nel paese si svilupparono piani sanitari che erano finanziati
dai datori di lavoro e che venivano forniti dalle stesse imprese, oltre che da
compagnie assicurativa private.
Da notare come Roosvelt agì anche per contrastare nell’immediato gli
effetti della crisi, istituendo, nel 1933 la Federal Emergency Relief Administration
(FERA), volta a mitigare gli effetti della crisi; in particolare FERA favorì il
sorgere di programmi – quali il Works Progress Administration e il Civilian
Conservation Corps, che furono il principale strumento di sostegno per
l’assistenza dei disoccupati durante la metà degli anni ’30.
135 F. TANZILLI, La via americana al welfare. Da Kennedy a Bush, Guerini, Bologna, 2009, p. 21.
81
4.2. Dal Social Security Act (1935) alla War on Poverty e alle
riforme degli anni ’60.
Nel ventennio successivo alla Social Security Act del 1935 si devono
all’amministrazione Eisenhower le principali riforme, che riguardarono il
comparto previdenziale, mentre non vi fu alcuna novità di rilievo riguardo alla
legislazione assistenziale.
Complessivamente, sul finire degli anni ’50 gli USA avevano un ampio
sistema di enti privati che provvedevano al welfare della popolazione; a tali
enti il governo federale aveva recato notevole supporto fiscale e un ambito
giuridico di riferimento estremamente avanzati al tempo. D’altro canto,
permaneva un sistema assistenziale pubblico di dimensioni estremamente
ridotte e molto debole soprattutto nel settore sanitario; altra caratteristica era
l’estrema diversità territoriale, con il Sud del paese in posizione
particolarmente critica.
Da tale situazione nacque un esteso interesse verso la povertà e
l’esclusione sociale che sarà alla base delle successive riforme degli anni ’60.
In particolare la lotta alla povertà sarà uno dei punti fermi
dell’amministrazione Kennedy, da quando il presidente stesso aveva avuto
modo di osservare le difficili situazioni di vita negli Appalachi (zona
tradizionalmente povera del paese).
Appena eletto J.F. K. Approvò l’Area Redevelopmente Act (1961) che
prevedeva lo stanziamento di fondi federali per programmi locali di
investimento e formazione del personale in arre degli US con tassi di
disoccupazione elevata. Il periodo venne caratterizzandosi dal notevole
interesse verso la povertà a livello culturale ed accademico, interesse che venne
saldandosi con la volontà del Presidente di agire in tale direzione; Kennedy,
tuttavia, non potette sviluppare pienamente il proprio programma anti-povertà
in quanto cadde vittima dell’attentato di Dallas (22 novembre 1963).
Il programma di riforma venne dunque posto in essere dal nuovo
presidente e fu Johnson ad attuare la riforma del welfare, con l’obiettivo non
82
solo di cercare di contrastare la povertà ma addirittura di sradicarla. Nei diversi
documenti e nel rapporto annuale disposto dall’Amministrazione (il CEA del
1964, il Council of Economic Advisers creato da Johnson l’anno precedente) si
insisteva verso una riforma della politica di welfare che si indirizzasse a
vantaggio dei gruppi sociali svantaggiati, identificati nei minori e nei poveri. La
novità principale era nel fatto che il sistema di welfare tracciato nel rapporto
annuale del CEA sembrava molto più esteso e molto più pervasivo rispetto
alla legislazione emanata da Roosvelt. In particolare la maggiore estensione
riposava nel fatto che si aveva come obiettivo la prevenzione delle cause della
povertà, agendo nei settori dell’educazione, della formazione e del sostegno
alla persona: migliorando, insomma, il capitale umano.
Il 20 agosto del 1964 Johnson diede vita allo Economic Opportunità Act
(EOA), mediante il quale ci si proponeva di dare a ciascuno le necessarie
chanche per condurre una vita dignitosa. La novità della legge riposa nel
superamento della tradizionale distinzione tra forme di povertà ‘immeritate’ ed
‘meritate’ (deserving e undeserving poor) e dal dirigere gli interventi solo verso le
seconde. L’EOA contemplava la creazione di un programma di lavoro
destinato a giovani tra i sedici ed i ventuno anni, con basso profilo scolastico o
precedentemente coinvolti in attività illecite, ai quali venivano forniti
istruzione, formazione ed apprendistato.
Il noto Community Action Program (CAP), invece, era volto ad incentivare
l’iniziativa nelle comunità maggiormente svantaggiate; il COA erogava i fondi
alle agenzie specializzate locali – sia pubbliche, sia private – per iniziative volte
alla formazione della popolazione locale; nell’Act si legge che veniva concessa
“una considerazione particolare per quei programmi che promettevano di
effettuare un incremento permanente delle capacità degli individui, dei gruppi
e delle comunità di far fronte ai propri problemi senza ulteriore assistenza”136.
136 Economic Opportunity Act of 1964, Public Law 88-452, 78 Stat. 508 USC.
83
Sempre all’Amministrazione Johnson si deve la prima legge
sull’istruzione scolastica, ovvero la Elementary and Secondary Act (ESEA), del 9
aprile 1965, una legge anti-discriminazione i cui fondi venivano distribuiti a
scuole e distretti scolastici ove gli studenti poveri venivano da famiglie al di
sotto del livello di povertà e ripartiti secondo il numero degli iscritti.
Sempre nel 1965 vennero approvati i programmi Medicare e Medicad.
Superando le tradizionali resistenze (soprattutto da parte dell’American Medical
Association) venne istituito un programma di assicurazione sanitaria pubblico.
Fino ad allora, infatti, restavano privi di copertura medica, nel sistema
statunitense i disoccupati, i minori, le donne senza occupazione, che lavorava
per imprese di piccole dimensioni e/o chi aveva attivati di importanza
secondaria.
Dei due programmi di copertura sanitaria pubblica, Medicare finanziava
la degenza ospedaliera e l’assistenza post-operatoria, la degenza negli ospizi e
le cure domiciliari. Medicad, cofinanziato dal governo federale e dagli Stati, si
rivolgeva alle fasce più svantaggiate della popolazione.
Da sottolineare come la riforma del 1965 diede vita a forme di
cooperazione tra l’amministrazione pubblica e le strutture private. Copertura
sanitaria minima venne garantita a livello federale a tre categorie di cittadini:
anziani, disabili e poveri. In ogni caso, non vi fu un’estensione universale della
copertura sanitaria.
4.3. Da Johnson alla riforma Clinton: Personal Responsibility
and Work Opportunity Reconciliation Act (1996)
Nel periodo successivo sorsero diverse critiche alla riforma Johnson, la
quale venne caratterizzandosi per l’assenza di misure universalistiche di
ridistribuzione del reddito e da politiche sociali ispirate all’erogazione dei
servizi. Le critiche presero il sopravvento finendo per decretare, come nel caso
del premio Nobel J. Tobin (di area liberal e già collaboratore
84
dell’Amministrazione Kennedy), il totale fallimento delle policy di Johnson, a
causa delle scarse coperture che dava e dei problemi di effettiva distribuzione
dei fondi che aveva incontrato137.
Paradossalmente, fu il repubblicano Nixon – divenuto presidente nel
1968 – a proporre una legislazione universalistica in materia di Welfare, il
Family Assistance Plan; il piano prevedeva una copertura assistenziale, finanziata
dal governo, che fosse uniforme sull’intero territorio e che si rivolgesse a tutti i
nuclei familiari (e non solo a determinati gruppi, come ad esempio donne-
madri non coniugate) e determinata secondo il calcolo del quoziente di reddito
familiare. Tuttavia, il progetto incontrò numerosi ostacoli e, alla fine, Nixon
vide approvata soltanto la parte che riguardava i sussidi che erano destinati a
disabili, anziani e ciechi, che finì per confluire nel Supplemental Security Incombe
(SSI), sostituendosi alle previsioni precedentemente in vigore. Venne, inoltre,
notevolmente accresciuto il programma di assistenza alimentare Food Stamps: si
trattava di un programma di impostazione universalistica che, stanziato
direttamente dal governo federale, comprendeva l’erogazione di buoni pasto
mensili.
Gli anni settanta vennero caratterizzandosi per la minore crescita
economica e per l’aumento dei costi del sistema di welfare americano. Inoltre,
dal punto di vista economico, diversi esponenti dell’ala libertarian, da M.
Friedmann a von Hayek per citare i più noti, si opponevano a forme di welfare
universalistiche che, in ultima istanza, riposavano sul concetto di diritti comuni
a partire dal fatto di avere la medesima cittadinanza: per la scuola austriaca
l’interventismo statale – in qualsiasi campo - deve essere considerato in
maniera estremamente negativa138. La spesa pubblica si configura
semplicemente come consumo e ogni taglio apportato al bilancio statale finisce
137 Cfr. J. TOBIN, The Guaranteed Income, in K. GORDON (ed.), Agenda for the Nation, BIP, Washinghton, 1968, pp. 48-73. 138 Per la scuola austriaca deve sempre vigere il principio del Laissez- Faire. Ogni azione dei pubblici poteri non improntata a tale principio finisce per avere conseguenze deleterie. Ad esempio, se il livello dei salari viene sostenuto in maniera artificiosa si finisce per favorire l’aumento della disoccupazione, agendo sui prezzi si finisce per causare la creazione di scorte invendute e, infine, ciascun aiuto concesso a imprese in crisi, da un lato ne rimanda la inevitabile liquidazione e, dall’altro, aggrava la situazione in cui queste versano.
85
per far aumentare la relazione tra investimenti e consumi, rendendo così
possibile una maggiormente veloce scoperta di quelli che sono i progetti non
redditizi.
Secondo Tanzilli “nel corso degli anni ’70 le condizioni di vita della
popolazione seguirono un trend di sviluppo diverso da quello sperimentato
all’inizio del decennio precedente, quando i ritmi della crescita economica
nazionale avevano indotto le amministrazioni democratiche a elaborare il
progetto di una Great Society capace di recuperare le ultime ‘sacche’ di povertà
rimaste al proprio interno”139.
L’affermarsi del paradigma libertarian ebbe il proprio ‘corrispettivo’
politico con l’elezione di R. Reagan alla Presidenza del paese nel 1981. Poco
tempo dopo la sua elezione il Congresso approvò la Economic Recovery Tax Act
la quale prevedeva una riduzione dell’imposizione fiscale pro capite, in tre anni,
del 25%. I programmi assistenziali vennero riformati a causa delle previsioni,
estremamente negative, dell’aumento del deficit pubblico, aumento dovuto sia
alle spese militari, sia alla minor crescita dell’economia, sia per l’aumento del
tasso di inflazione; vennero allora ridotti sia i costi, sia il numero di individui
cui si rivolgeva il welfare.
Malgrado i tagli apportati alle spese sociali il deficit federale venne
aumentando e Reagan propose allora sostanziali modifiche al welfare della
nazione, sia nel comparto sanitario, sia in quello previdenziale; cercò, in
particolare, per abbassare gli oneri spettanti allo Stato, di privatizzare
parzialmente i comparti. Le azioni svolte dalla Presidenza Reagan, in ogni caso,
non produssero riforme e cambiamenti sostanziali o strutturali ma si
limitarono ad aumentare il grado di privatizzazione della social security.
L’apertura ai privati, ad esempio in ambito sanitario, riposava sull’idea che una
maggiore concorrenza avrebbe prodotto migliori servizi, minori sprechi e dei
risparmi per lo Stato.
139 F. TANZILLI, La via americana al welfare, cit., p. 91.
86
La struttura del welfare rossveltiano non venne dunque modificate, si
cambiarono i requisiti per l’accesso alle prestazioni, requisiti che divennero più
stringenti. Si ebbero, complessivamente, forti riduzioni del finanziamento
pubblico al welfare per i programmi assistenziali (4,1 miliardi di dollari in
meno nel 1982 e il 1984); malgrado ciò, sebbene ad un livello inferiore, anche
negli anni ’80 la spesa pubblica continuò ad aumentare. Oltre a ciò,
“l’elemento di maggiore innovazione della politica sociale di Reagan fu
costituito invece dal rilievo dato ai programmi occupazionali: il workfare
caratterizzò infatti la politica sociale della presidenza conservatrice”140.
A partire dagli anni ’80 il dibattito sul welfare si caratterizzò per un
maggiore dialogo tra i diversi indirizzi, tra i ‘libertari’ ed i progressisti’, grazie
soprattutto al riconoscimento, da parte dei secondi, dei rischi della ‘dipendenza
dal welfare’ e ‘dai sussidi’ da parte dei soggetti più svantaggiati: un tema tipico
dei conservatori sin dall’inizio.
I dibattiti e le iniziative e proposte, insieme alle effettive azioni
legislative compiute, degli anni ottanta e novanta portarono poi alla ‘nuova
riforma’ del welfare statunitense elaborata da Clinton, il quale, nel proprio
programma elettorale, aveva detto di volere “porre fine al welfare come lo
abbiamo conosciuto finora”141.
La riforma sanitaria propugnata da Clinton non venne approvata dal
Congresso; in particolare si temeva della proposta avanzata da Clinton
l’enorme potere riservato allo Stato nei confronti del sistema sanitario.
Vennero avanzate, successivamente, delle proposte di riforma del
welfare da parte dello schieramento conservatore, grazie a Ginrich; in
particolare si proponeva un limite, un Family Cap: diversamente dal sistema
vigente le welfare mother non avrebbero continuato a ricevere sempre nuovi
sussidi alla nascita di ogni figlio, venendo stabilito un tetto massimo. Inoltre si
propose un tempo massimo di due anni per l’erogazione dei sussidi AFDC.
140 F. TANZILLI, La via americana al welfare, cit., p. 129. 141 B. CLINTON, A. GORE, Putting People First. How We Can All Change America, times Book, New York, 1992, p. 165.
87
Tali proposte vennero rigettate da Clinton, che non firmò il documento
sottopostogli dal Congresso. Clinton, invece, appose la propria firma ad un
terzo documento varato dai repubblicani e sostenuto anche da parte dei
democratici. Il 22 agosto 1996 venne dunque ratificato il Personal Responsability
and Work Opportunity Reconciliation Act (PRWORA), ovvero la legge che istituì il
sistema di welfare tutt’ora vigente negli Stati Uniti.
La filosofia della legge, sottolineata expressis verbis dallo stesso
Presidente, era di eliminare la ‘dipendenza dai sussidi’ garantendo di contro la
possibilità di accesso al lavoro; non tanto dunque l’elargizione dei sussidi, ma
piuttosto degli strumenti di accompagnamento verso il lavoro. Oltre a ciò
venivano posti dei limiti alle erogazioni federali per il lavoro – che
precedentemente erano illimitate – stabilendo una quota fissa per ciascuno
Stato per i sussidi AFDC, per fermare così l’incremento della spesa pubblica.
Ogni Stato era tenuto a fornire ad almeno il 50% dei propri assistiti corsi di
formazione, apprendistato e/o inserimenti lavorativi di breve periodo.
L’AFDC venne sostituito dal Temporary Assistance for Needy Families
(TANF), il quale stabiliva una durata massima di due anni consecutivi,
trascorsi i quali i sussidi cessavano in maniera definitiva; veniva totalmente
esclusa l’esistenza ad un diritto individuale a ricevere sussidi pubblici.
I soggetti esclusi dal TANF erano:
residenti non cittadini;
immigrati legalizzati da meno di cinque anni;
cittadini affetti da dipendenza da alcool e droghe.
La riforma introdusse anche nuovi servizi per i minori e l’obbligo di
mantenimento dei figli divenne maggiormente stringente.
Fu creato lo State Children’s Health Insurance Program (SCHIP) con il quale
l’assistenza sanitaria veniva estesa ai minori non assicurati che proveninivano
da famiglie a basso reddito.
88
Infine venne istituito il Child Tax Credit, ovvero un credito fiscale per i
minorenni con l’obiettivo, in un’ottica di politiche per la famiglia, di rendere
più forte il sostegno dei redditi.
La riforma ottenne negli anni successivi alla sua approvazione notevoli
successi, contro le stesse aspettative dei sostenitori e promulgatori della stessa.
Sono venuti diminuendo sia il numero degli assistiti sia l’indice di povertà che,
toccando l’11,3% nel 2000, era giunto al suo limite storico.
La riduzione degli investimenti in sussidi ha poi reso possibile
l’aumento degli stanziamenti per i bambini, che sono risultati triplicati dal 1996
al 1999 (il primo triennio dall’attuazione della riforma).
Tra le critiche ai risultati ottenuti sono da sottolineare almeno due
punti:
1. i soggetti, donne sigle con prole, che hanno avuto accesso al mercato
del lavoro hanno ottenuto impieghi a bassa remunerazione (low skill) e
2. permangono le tradizionali differenze tra gli Stati, essendo il
PRWORA un sistema di welfare di modello federalista.
Non bisogna tacere del fatto, infine, che il periodo in cui venne attuata
la riforma si caratterizzò quale espansivo dal punto di vista economico,
facilitando dunque di molto il successo dei programmi di inserimento
lavorativo.
4.4. La situazione attuale: da Bush Jr. alla Riforma Obama
Complessivamente può apparire paradossale come un sistema di
welfare universalistico (il Family Assistance Plan) sia stato proposto dalla
Presidenza Nixon, cioè dai conservatori, mentre la cancellazione dell’idea del
‘diritto all’assistenza’ ad ognuno in quanto cittadino sia stata opera di un
democratico, Clinton.
Giova sottolineare, in ogni caso, come dopo il 1935 le diverse riforme
del welfare incontrarono numerosi ostacoli; in seguito al Social Security Act, ogni
89
tentativo di riforma radicale del sistema del welfare non arrivarono mai al
termine del cursus legislativo, né riuscirono ad ottenere ampia maggioranza
all’interno del Congresso. Tale sorte venne condivisa da differenti programmi
proposti durante le diverse amministrazioni, come il family Assistance Plan di
Nixon, le proposte di carter e le iniziative di Hilary Clinton. Si ebbero
solitamente modifiche parziali e/o interventi dal carattere limitato, solitamente
sostenuti da entrambi gli schieramenti.
Emergono, complessivamente, le caratteristiche di fondo del welfare
americano notevolmente diverse da quello europeo.
La prima è il sempre maggiore e progressivo indirizzo delle policy di
welfare verso le politiche attive di sostegno del lavoro; in tal senso, la riforma
Clinton rappresenta l’apice di tale processo. Ciò riposa chiaramente sulla tipica
ideologia statunitense della responsabilità individuale e sull’etica del lavoro:
una tradizione culturale condivisa.
Il sostegno alla ricerca del lavoro si accompagna alla credenza dei rischi
relativi alla ‘dipendenza’ dai sussidi. Al riguardo preme sottolineare come gli
stessi aspetti universalistici del welfare statunitense siano stati ottemperati dalle
politiche rivolte al lavoro. Infatti, il già citato Child Tax Credit è una forma di
assistenza universalistica, in quanto il sostegno ai redditi riposa sul quoziente
familiare; tuttavia, i sussidi non vengono concessi a chi non disponga di un
lavoro, evitando, in tale maniera “di avallare la dipendenza degli assistiti
dall’intervento pubblico, incentivando il loro impegno a incrementare il
proprio reddito in vista di contributi fiscali maggiori”142. Il sostegno ai redditi
si traduce dunque in un incentivo al lavoro, particolarmente per le madri single.
Inoltre, soprattutto negli ultimi dieci anni sono proporzionalmente
aumentati, tra gli stanziamenti pubblici, i programmi di Tax Expenditures – i
contributi fiscali non riscossi e/o i crediti fiscali concessi agli aventi diritto -
fino a divenire la principale spesa pubblica per l’assistenza già durante la prima
Amministrazione Bush Jr.. Nel 2004 la cifra complessiva delle Tax Expenditures
142 F. TANZILLI, La via americana al welfare, cit., p. 204.
90
(34.012 milioni di dollari) è stata notevolmente superiore alla spesa per i sussidi
TANF (14.067 milioni di dollari). La redistribuzione delle risorse è stata
dunque ottenuta tramite la leva fiscale, una soluzione notevolmente diversa
rispetto alle policy adottate in Europa.
L’amministrazione Bush venne caratterizzandosi, in generale, per lo
sforzo di compiere vaste riforme a livello sociale (scuola, previdenza, sanità) e
dal continuo tentativo di accrescere la partnership tra gli enti pubblici ed i
fornitori privati di servizio; a causa delle difficoltà incontrate nel Congresso, i
risultati ottenuti furono assai minori rispetto ai progetti iniziali.
Bush, secondo un’ispirazione che aveva mosso anche Clinton, voleva
garantire la massima libertà possibile ai cittadini, a livello decisionale, circa gli
enti cui rivolgersi per ottenere i servizi, migliorando la competizione tra gli enti
stessi, abbattendo i costi ed innalzando la qualità. Anche a livello pensionistico,
stante il continuo abbassamento del differenziale tra popolazione attiva e
pensionati, vi fu una forte apertura ai privati, alla gestione pensionistica da
parte di enti privati143.
Nel caso di Clinton, come si è visto, la ridistribuzione è stata effettuata
tenendo conto della salvaguardia della libertà di scelta dei singoli; lo ‘Stato
leggero’, inoltre, ha incentivato notevolmente lo sviluppo dell’iniziativa privata
in ambito assistenziale e previdenziale, favorendo l’incremento del not for
profit (tramite esenzioni fiscali, detrazioni, etc…).
La ‘privatizzazione del welfare’ pare poi caratteristica della stessa
riforma sanitaria di Obama.
Complessivamente, il modello del sistema sanitario americano è rimasto
immutato, continuando a riposare nelle assicurazioni private e nei programmi
assicurativi pubblici. Virca il primo punto, è stato stabilito l’obbligo di
assicurare (per i datori di lavoro) e di assicurarsi (per le persone), insieme ai
sussidi previsti per incentivare sia i datori di lavoro ad assicurare, sia le persone
143 Analogamente a quanto verificatosi in altri paesi europei, l’aumento della spesa pensionistica rischiava di condurre gli US alla bancarotta nell’arco di circa cinquant’anni.
91
ad assicurarsi. Circa il secondo punto, invece, si è assistito all’irrobustimento di
Medicaid.
Avendo stabilito stanziamenti complessivi, per il primo decennio, di
940 miliardi di dollari, al termine de periodo la copertura assicurativa sanitaria
riguarderà il 95% dei cittadini statunitensi; in particolare la copertura
assicurativa verrà estesa a 32 milioni di nuovi assicurati; nello stesso tempo
saranno circa 22 milioni i soggetti privi di assicurazione.
Tra le misure poste in atto immediatamente in seguito alla riforma sono
da ricordare, innanzitutto, il divieto alle assicurazione di negare l’iscrizione a
quanti siano già affetti malattie preesistenti o di rescindere il contratto per
gravi patologie sopravvenute.
In secondo luogo viene fatto divieto alle assicurazioni di fissare un tetto
massimo ai rimborsi, un cap che finiva per danneggiare i pazienti afflitti di
malattie particolarmente gravi e costose.
La legge prevede anche la chance di comprendere nell’assicurazione
familiare giovani fino a 26 anni, di contro al precedente limite di 18 anni, per
rendere possibile la copertura delle persone che continuano a studiare, che
sono disoccupate o in cerca di prima occupazione.
Infine. La legge statuisce la riduzione della compartecipazione alla spesa
farmaceutica per gli assistiti di Medicare.
Il programma Medicaid ha poi conosciuto una significativa espansione
dei soggetti cui si riferisce, rivolgendosi attualmente a chi ha reddito inferiore a
29.327 dollari (per una famiglia di 4 persone); tale misura ha comportato un
incremento della copertura assicurativa a 16 milioni di persone.
Oltre all’obbligo di assicurare i propri dipendenti per imprese con 50 e
più addetti è parimente previsto, per i soggetti che non godono di copertura
assicurativa pagata dall’impresa, di assicurarsi tramite le proprie risorse.
Per le imprese con 25 dipendenti o meno, qualora procedano ad
assicurarli, è previsto un rimborso pari al 50% del costo delle polizze.
92
Dalla legge sono esclusi gli immigrati irregolari; la legge, inoltre,
proibisce la copertura dell’aborto nelle assicurazioni sussidiate da fondi
federali.
4.5. Il welfare in Brasile. Le radici storiche del welfare
brasiliano e l’attuale struttura del sistema di welfare
Storicamente, si fa risalire al 1821 la nascita del welfare in Brasile, al
decreto emanato dal principe reggente Pedro de Alcantara; in precedenza si ha
soltanto conoscenza di un piano di protezione sociale istituito dalla Marina
Regia del Portogallo per le madri ed i figli degli ufficiali (1793)144.
Il welfare, così come viene attualmente concepito, ebbe inizio soltanto
nel 1923 in seguito alla legge Eloy Chaves, la quale prevedeva la creazione di
un fondo di pensione per tutti gli impiegati delle diverse compagnie ferroviarie
del tempo.
Nel corso degli anni 30 il welfare brasiliano venne ristrutturandosi in
senso corporativo (sotto la chiara influenza del corporativismo fascista
italiano145)per cercare di fronteggiare l’inizio dell’industrializzazione del paese;
vennero creati al tempo, oltre ai fondi e limitati ai soli lavoratori urbani, diversi
sistemi previdenziale pensionistici, ovvero:
IAPM: Instituto de Aposentadoria e Pensões dos Marítimos, del 1933;
IAPC: Instituto de Aposentadoriae Pensões dos Comerciários, del 1933;
IAPB Instituto de Aposentadoria e Pensões dos Bancários, del 1934;
IAPI Instituto de Aposentadoria e Pensões dos Industriários, del 1936;
IPASE Instituto de Aposentadoria e Pensões do Estrado, del 1938.
Caratteristica del sistema del tempo erano le profonde diversità ed
ineguaglianze di trattamento tra i differenti enti.
144 Per l’analisi qui svolta Cfr. MINISTÉRIO DA PREVIDÊNCIA SOCIAL-MPS, Overview of brazilian social welfare, Brasilia – DF, January 2009. 145 Secondo il giudizio di Michael Hall; Cfr. M.M. HALL, The Labor Policies of the Lula Government, in J.L. LOVE, W. BAER (Eds), Brasil under Lula. Econonomy, Politics, and Society under the worker president, Palgrave Mc Milian, New York, 2009, p. 151
93
Sempre nel medesimo periodo si assistette ad un notevole incremento
del numero di persone che godevano di sistemi di protezione sociale che, alla
fine degli anni ’40 risultavano triplicate rispetto al decennio precedente.
Sempre nel corso degli anni ’40, esattamente il 28 agosto del 1942, divenne
completamente operativa la LBA, Legião Brasileira de Assitência, che aveva come
compiti la protezione della maternità e dell’infanzia, l’assistenza agli anziani, ai
disabili e l’assistenza medica146.
Il 24 agosto del 1960 la legge n. 3.807 uniformò la legislazione in
materia di welfare e, nel 1966 venne creato l’Istituto Nazionale di Previdenza
Sociale, INPS (Instituto Nacional de Previdência Social).
Il sistema nazionale di previdenza e di assistenza venne poi
arricchendosi nel corso degli anni ’70 di diversi enti, creati e/o vincolati al
sistema nazionale stesso, con l’obiettivo di svolgere differenti funzioni relative
al welfare della popolazione; secondo la legge n. 6.439 del settembre del 1977
gli enti creati erano
INAMPS: Instituto Nacional de Assistência Médica da Previdência Social;
INPS: Instituto Nacional de Previdência Social;
IAPAS: Instituto de Administração Financeira da Previdência e Assistencia Social;
CEME: Central de Medicamentos147;
DATAPREV: Empresa de Processamento de Dados da Previdência Social148;
FUNABEM Fundação Nacional do Bem-Estar do Menor149;
LBA: Legião Brasileira de Assitência.
In vista della protezione sociale dei lavoratori rurali – un tema sempre
scottante nel paese - venne poi creato nel luglio del 1970 l’INCRA, l’Instituto
Nacional de de Colonização e Reforma Agrária. Nel 1971, grazie alla creazione del
programma di assistenza per i lavoratori delle aree rurali – FUNRURAL,
Programa de Assistência ao Trabalhador Rural – creato con la l. n. 11 del 25 maggio
146 Propriamente la LBA era nata con l’obiettivo iniziale di aiutare le famiglie dei soldati che erano stati inviati al fronte. 147 Centro per i medicinali. 148 Società di elaborazione dei dati della previdenza sociale. 149 Fondazione nazionale per il welfare (benessere) dei minori.
94
1971 – venne stabilito che i lavoratori delle aree rurali avessero pensioni di
vecchiaia, in caso di disabilità e di morte, assistenza sanitaria e sociale;
l’importo della pensione corrispondeva al 50% del salario minimo.
La nuova Costituzione varata negli anni ’80 modificò il sistema di social
security brasiliano ispirandosi a principi di tipo universalistico, secondo i quali
ogni cittadino deve poter aver accesso alla protezione sociale, e sottolineando
la parità di trattamento anche per i cittadini delle zone rurali150; oltre a basarsi
sui principi dello Stato federale brasiliano, e dunque amministrativamente
decentrato, il sistema di welfare, per il quale erano previste molteplici forme di
finanziamento, cercava di determinare i servizi offerti a partire dalle necessità
individuali151; in particolare, sono da ricordare le due leggi n 8.212 e 8.213,
entrambe del 24 luglio del 1991, aventi ad oggetto, rispettivamente, del Piano
di presa a carico (Plano de Custeio) e del Piano di beneficio della previdenza
sociale (Plano de Benefício da Previdência Social)152.
Giova ricordare che il Brasile si trovò retto da dittature militari per più
di un ventennio, dal 1964 al 1985 e la prima elezione diretta, libera, del
Presidente della Repubblica si ebbe soltanto nel 1989, il che spiega come mai si
ebbe una Costituzione nel 1988, che sostituiva la precedente Costituzione
militare del 24 gennaio 1967 (che ha sua volta subentrava alla precedente
costituzione democratica del 1946). Nel periodo della dittatura, a partire “dal
1964 il potere venne esercitato non più da organi rappresentativi (primo fra
tutti il parlamento), ma dai vertici militari, assistiti però da tecnocrati che ne
condivisero il potere, soprattutto in campo economico. L’apertura verso le
classi lavoratrici […] venne sostituita dall’attenzione per la classe possidente,
150 L’art. 6 della Constituição da República Federativa do Brasil 1998 recita: São direitos sociais a educação, a saúde, o trabalho, a moradia, o lazer, a segurança, a previdência social, a proteção à maternidade e à infância, a assistência aos desamparados, na forma desta Constituição. 151 La costituzione brasiliane venne poi modificata tramite la Emenda Constitucional nº 20, del 1998 152 Da sottolineare tra i successivi legislativi volti a modificare il sistema alla luce della nuova Costituzione le leggi n. 9032 del 28 aprile 1995, 9528 del 10 dicembre 1997 e 9732 dell’11 dicembre 1998.
95
principale beneficiaria dello sviluppo economico assistito dal capitale straniero
e dai prestiti esterni”153.
Nel corso degli anni ’90 il Ministero del welfare e dell’assistenza sociale
venne radicalmente mutato venendo ad assumere una nuova configurazione,
che tutt’ora mantiene.
In particolare, la INPS e la IAPAS vennero soppresse lasciando il
campo all’attuale Istituto Nazionale di Sicurezza Sociale (INSS Instituto Nacional
de Seguro Social); parimenti fu soppresso l’INAMPS, responsabile dell’assistenza
medica, le cui competenze furono trasferite al Sistema Unico Sanitario (SUS
Sistema Único de Saúde), di competenza statale (non federale) e municipale. Tali
istituti sono sovvenzionati tramite la tassazione collettiva. Attualmente l’INSS
copre l’interno territorio nazionale154.
La storia del welfare brasiliano ha portato al costituirsi di tre policy
principali. In primo luogo il Regime Geral de Previdência Social (RGPS), pubblico e
di stampo universalistico, diretto dall’INSS e di carattere obbligatorio, che ha
come ambito di competenza il settore privato.
Le pensioni di anzianità vengono corrisposte dopo il 65 anno di età per
gli uomini ed il 60 per le donne nelle aree urbane, a 60 e 55 nelle zone rurali.
La durata del regime contributivo è di 35 anni per gli uomini e di 30 per le
donne155.
In secondo luogo, la Previdência do Servidores Publicos, anch’essa pubblica e
obbligatoria, stabilita a partire dagli emendamenti costituzionali n. 41/2003156
e n. 47/2005157, che prevedeve il ritiro dal lavoro obbligatorio dopo i 70 anni
per entrambi i sessi, con una durata contributiva di 30 (D) e 35 (U) anni; per
153 M.G. LOSANO, Los derechos fundamentales en las constituciones brasileñas del siglo XX, in E. FERNANDEZ, R. DE ASIS, F.J. ANSUATEGUI, (eds.) Historia de los derechos fundamentales. Siglo XX, Dykinson, Madrid, p. 157. 154 Un problema tipico del Sudamerica è sempre stato l’esclusione delle zone rurali, le quali solitamente restavano escluse dal sistema proprio nelle aree sviluppate dei diversi paesi. 155 Dal punto di vista legislativo per il RGPS sono da considerarsi le seguenti leggi: Lei nº 8.212, de 24 de julho de 1991 - Dispõe sobre a organização da Seguridade Social, institui Plano de Custeio, e dá outras providências; Lei nº 8.213, de 24 de julho de 1991 - Dispõe sobre os Planos de Benefícios da Previdência Social e dá outras providências; Regulamento da Previdência Social - RPS, aprovado pelo Decreto nº 3.048, de 6 de maio de 1999. 156 http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/Constituicao/Emendas/Emc/emc41.htm 157 http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/Constituicao/Emendas/Emc/emc47.htm
96
chi ha iniziato l’attività lavorativa dopo il 1998 l’eta minima del ritiro è di 60
anni per gli uomini e di 65 per le donne.
In terzo luogo, è anche possibile, su base volontaria, aderire a forme di
welfare complementari di carattere privato.
Bisogna sottolineare come i due principali sistemi di previdenza
brasiliani siano autonomi, ciascuno avente una propria specifica legislazione e
un proprio budget.
Già nel 1998 vi era stata un’ampia riforma del sistema di protezione
sociale, con l’obiettivo di rendere sostenibile la spesa pubblica. Nel caso del
RGPS era stata dichiarata incostituzionale la modalità grazie alla quale veniva
calcolato l’importo delle pensioni; in particolare, grazie alle l. n. 9.876 del 26
Novembre 1999 erano state modificate le tipologie di calcolo applicate.
L’ulteriore riforma del 2003, invece, aveva riguardato soprattutto le
pensioni dei Public Servant, il RPPS Regime Próprio da Previdência Social a livello sia
federale, sia municipale. Entrambe le riforme, e soprattutto la seconda,
muovevano fortemente verso il federalismo fiscale; in particolare, seguivano
quel cammino volto a dare maggiore potere agli Stati, riducendo dunque il
peso dell’Unione, progetto perseguito con la stessa creazione della nuova
Costituzione del 1998.
Complessivamente, oltre a perseguire nel lungo periodo l’obiettivo della
sostenibilità, soprattutto sulla base dei mutamenti socio-demografici in corso, e
a creare una progressiva convergenza tra i diversi trattamenti previdenziali, ci
si proponeva una maggiore equità tra le parti sociali. Molti analisti brasiliani, in
generale, hanno parlato della crisi fiscale quale crisi del federalismo brasiliano;
in particolare, con le due riforme si voleva procedere a ridurre notevolmente la
concentrazione di poteri propria dell’Unione, un lascito del periodo delle
dittature militari, riequilibrando la situazione - anche fiscalmente – in senso
federalista; si tratto dunque di superare le difficoltà causate da un’eccessiva
97
concentrazione dei poteri, concentrazione prevalente sotto i governi autoritari
che erano cominciati nel 1964158.
La riforma del 2003, secondo il Ministério da Previdência Social – MPS,
consisteva nei seguenti punti:
reference age for current workers goes up from 53/48 (M/F) to 60/55
(M/F), including rules that discourage early retirement;
a new permanent rule for the calculation of retirement and pensions, aligned with
the General Policy;
RGPS cap also for future public servants, as long as their complementary
welfare is constituted;
supportive contribution from retirees and pensioners for the stability of the
RPPS;
application of a general wage cap (federal, state and municipal) hindering
abusive benefits;
indexation of retirement payments and pensions to inflation/ the end of new
benefit parity (except for those foreseen in the transitional rules);
incentives for those who continue active after the retirement conditions are
reached;
real elevation of the RGPS cap from R$ 1869,34 to R$ 2400,00159.
Oltre agli aspetti pensionistici, la riforma si concentrava sulla sicurezza
sui luoghi di lavoro, sulla prevenzione degli incidenti e delle malattie
professionali, per migliorare, nel suo complesso, l’ambiente lavorativo.
Dal punto di vista dell’inclusione sociale al sistema di welfare, la riforma
affrontava anche il problema (un problema tipico e tradizionale nel paese) del
mancato contributo di parte della popolazione – 28,7 milioni di persone nel
158 Cfr. J.R.R. AFONSO, R. VARSANO, Reforma tributária: sonhos e frustrações, in F. GIAMBIAGI, J.G. REIS, A. URANI, (Eds.), Reformas no Brasil: balanço e agenda, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 2004. Cfr. F. REZENDE, F.A. OLIVEIRA, (Eds.), Descentralização e federalismo fiscal no Brasil: desafios da reforma tributária, Rio de Janeiro, Konrad Adenauer Stiftung, 2003. 159 MINISTÉRIO DA PREVIDÊNCIA SOCIAL-MPS, Overview of brasilian Social Welfare, Brasilia – DF January 2009, pp. 15-16.
98
2007, secondo stime governative160 – al sistema nel suo complesso; parte di
tale popolazione utilizzava i servizi di assistenza sociale e, secondo il Ministero
del welfare, circa 15,7 milioni di individui avrebbero potuto contribuire al
sistema versando i propri contributi. In tale direzione, da parte governativa
con gli emendamenti costituzionali n. 41 e 47 vennero poste in atto politiche
di inclusione sociale per i cittadini a basso reddito.
Tali politiche vennero successivamente sostanziate con la legge
costituzionale n. 123 del 14 dicembre del 2006, la quale prevede una riduzione
dal 20% all’11% dei contributi individuali per speciali categorie (disoccupati,
casalinghe, borsisti di studio, amministratori di condominio non remunerati,
detenuti che non lavorano); tali categorie hanno accesso al RPGS, sebbene
non abbiano il diretto alla pensione erogata al termine del periodo di
retribuzione normalmente previsto e il calcolo della rendita sia stimato sul
salario minimo.
Inoltre, anche ai lavoratori domestici è stato garantito l’accesso al
sistema di welfare; grazie alla legge n. 8.212/1991 gli spetta un’aliquota del
12% di contributi, di contro al 20% spettante ai datori di lavoro; la successiva
legge 11.324/2006 permette ai datori di lavoro degli sgravi fiscali, ovvero la
deducibilità dei fondi versati al sistema di welfare per i propri impiegati
domestici dalle tasse sul reddito (per un solo domestico).
Complessivamente, beneficiano del sistema di welfare le seguenti
categorie:
a) impiegati;
b) lavoratori domestici;
c) lavoratori temporanei;
d) contribuenti singoli (lavoratori autonomi, imprenditori, etc.);
e) ‘categorie speciali’ (lavoratori rurali);
f) contribuenti ‘opzionali’ (come studenti di età superiore ai 16 anni e
casalinghe).
160 Su circa 190 milioni complessivi di abitanti. Il Brasile è il quinto paese al mondo per numero di abitanti.
99
Le politiche di welfare statali si sono poi concentrate sui soggetti a
maggior rischio di esclusione dal sistema pubblico, ovvero la popolazione
femminile e quella ‘di colore’, spesso escluse dal sistema pubblico di
protezione.
Inoltre, il ‘welfare rurale’ è stato rinforzato, grazie alle legge n.
11.718/2008, la quale ha eliminato i numerosi ostacoli che rendevano
difficoltosa la formalizzazione dello status di lavoratore rurale, soprattutto per
i singoli produttori. La legge, inoltre, ha rafforzato il vincolo tra i lavoratori
rurali e le proprie famiglie, sempre in vista di un migliore accesso all’assistenza
sociale.
Da ricordare, infine, come la riforma tributaria, ovvero l’emendamento
n. 42/2003, preveda la possibilità di una parziale sostituzione o, in casi estremi,
di una completa esenzione d’imposta, qualora l’imprenditore decida di
modificare la base su cui si effettua il calcolo contributivo; si tratta di una
misura prevista dal Ministério da Previdência Social, in ultima istanza, per favorire
la semplificazione del prelievo e la diversificazione delle forme di
finanziamento del welfare sociale in modo da ridistribuire il carico fiscale
richiesto tra i differenti settori: “a new base, besides reducing the cost to formalize
labor, can represent a greater stability for long-term welfare funding, because the aggregated
value has grown faster than the wage mass due to the increase in productivity. Additionally,
a diversification of Social Welfare financing sources, always in the scenario of partial payroll
exemption, will result in redistribution in the load of welfare financing among economic
sectors, recalling those segments that, though receiving an increase in their participation in
produced riches, have reduced their participation in labor, generated during the last
decades”161.
Complessivamente, dunque, la maggior parte dei lavoratori (lavoratori
urbani, autonomi, domestici e rurali) trova la propria copertura previdenziale
grazie al RGPS; nel 2007 vi erano circa 36,4 milioni di contribuenti (fonte:
MPS, 2007); nel 2007 secondo il PNAD (Pesquisa Nacional de Amostra
161 MINISTÉRIO DA PREVIDÊNCIA SOCIAL-MPS, Overview of brasilian Social Welfare, Brasilia – DF January 2009, p. 22.
100
Dimiciliar), circa il 65,1% della popolazione che lavorava nel settore privato
godeva della protezione sociale (quali contribuenti e/o beneficiari) della
RPGS.
Come mostra il grafico riportato sotto, la percentuale di popolazione
sotto copertura, declinante negli anni ’90, è poi venuta aumentando.
Evoluzione della copertura di protezione sociale tra gli occupati con età tra 16 e 59 anni
Fonte: PNAD/IBGE
(sono escluse le aree rurali delle regioni settentrionali, ad eccezione di Tocantins).
Il principale effetto della social coverage del RGPS è stata la riduzione
della povertà. Nel 2007 si contavano 56,87 milioni di persone in stato di
povertà, cifra che raggiungeva i 79,10 milioni escludendo i trasferimenti dovuti
alle protezioni del welfare sociale; ciò indica che le welfare transferences hanno
contribuito a ridurre notevolmente la povertà, per ben 22,3 milioni di persone;
dal grafico sotto riportato sembra anche emergere che la riduzione della
povertà nel corso degli ultimi anni sia stata favorita dell’aumento del numero
di persone sotto protezione sociale.
101
Percentuale di povertà (metà del salario minimo) rispetto alla popolazione complessiva, calcolata sui valori del settembre, con e senza
i trasferimenti della protezione sociale (1992-2007)
Fonte: PNAD/IBGE (sono escluse le aree rurali delle regioni settentrionali, ad eccezione di Tocantins.
I trasferimenti di ricchezza causati dal sistema di protezione sociale
hanno riguardato soprattutto la fascia di popolazione più anziana, come
mostra il grafico riportato qui di seguito. In particolare i benefici dovuti al
sistema di welfare sono più evidenti per la popolazione di età compresa dai 55
anni in avanti
102
Percentuale di popolazione, per classi di età, con redditi minori della metà del salario minimo pro capite, con e senza le entrate
garantite dalla protezione sociale (al settembre 2007)
Fonte: PNAD/IBGE (sono escluse le aree rurali delle regioni settentrionali, ad eccezione di Tocantins.
4.6. Peculiarità del welfare brasiliano e del sistema degli
ammortizzatori sociali e il rapporto con la situazione complessiva del
paese
Il welfare brasiliano è di tipo corporativo, ovvero ha tratto ispirazione
dai modelli di protezione sociale propri dei paesi dell’area centrale, Germania e
Francia in particolare.
Tale sistema proviene, dal punto di vista storico, da una concezione di
carattere assicurativo, ovvero il modello bismarckiano, parzialmente integrata
da meccanismi assistenziali. Le prestazioni sono connesse all’onere
contributivo che viene sostenuto individualmente, tramite un flusso
complessivo di finanziamenti nel quale sono i contributi a prevalere sulle
imposte. Inoltre, con le formule di calcolo si cerca di dare delle prestazioni che
siano proporzionali ai redditi di riferimento dei beneficiari; ciò comporta la
“categorializzazione” della normativa che riflette lo status dei gruppi
103
professionali (nel caso del Brasile, evidente nei due principali sistemi di
previdenza, quello per i privati e quello per i dipendenti pubblici).
Complessivamente, dunque, si tratta di un modello dal carattere in prevalenza
occupazionale, la qual cosa si rispecchia nell’organizzazione e nelle procedure
di gestione, dove le parti sociali esercitano una partecipazione attiva nella
regolazione e nella verifica degli schemi.
Come osservato da Sheila Najberg e Marcelo Ikeda del BNDES “A
previdência brasileira se baseia no modelo de repartição simples, cuja lógica pressupõe um
equilíbrio coletivo: as contribuições previdenciárias pagas pelos trabalhadores ativos destinam-
se a cobrir os gastos com os benefícios dos inativos. O regime de repartição, em tese, seria
sustentável pelo maior número de futuros contribuintes, responsáveis pelas aposentadorias e
pensões dos atuais contribuintes. Na prática, o aumento espressivo da produtividade da mão-
de-obra faz com que essa premissa esteja incorreta mesmo diante de um quadro de
crescimento econômico sustentável, quanto mais diante de períodos de baixo ou nenhum
crescimento econômico”162.
Inoltre, la copertura è di carattere coattivo: all’inizio di un rapporto di
lavoro l’obbligo assicurativo scatta automaticamente. Nel corso degli anni,
come verificatosi anche in moti paesi occidentali (si pensi all’Italia) è
chiaramente venuta aumentando la riduzione, graduale, della relazione tra i
contribuenti ed i beneficiari, cosa che comporta, come è noto, la difficile scelta
tra la riduzione dei benefici concessi o l’aumento delle quote della
contribuzione.
Le riforme del sistema degli ammortizzatori sociali e del welfare, oltre
che del sistema tributario, iniziate nel 1988 sotto la Presidenza Cardoso, di
ispirazione liberista e in linea con le indicazione e le raccomandazioni del
Fondo Monetario Internazionale, avevano come obiettivo di garantire, nel
caso del welfare, la sostenibilità del sistema e, a livello tributario, oltre alla
semplificazione normativa, il cercare di stimolare crescita e competitività (oltre
che la concessione di maggiori poteri ai singoli Stati. Sotto la Presidenza Lula
162 S. NAJBERG, M. IKEDA, Previdência no Brasil: Desafios e Limites, in F. GIAMBIAGI, M.M. MOREIRA (orgs.), A economia brasileira nos anos 90, Rio de Janeiro, BNDES, 1999, p. 264.
104
(in carica a partire dal 2002) è fortemente proseguita l’apertura del paese alla
globalizzazione e alle sempre più pressanti richieste dei mercati, cosa che
caratterizza il paese anche attualmente.
In ciò il Brasile non differisce dai paesi europei: lo specifico nel caso
della nazione sudamericana è nella composizione e struttura sociale e nelle
forti differenze e disuguaglianze, sconosciute alle realtà europee. Non si tratta,
dunque, soltanto di pensare forme di ammortizzatori sociali e previdenziali in
grado di funzionare nel contesto della globalizzazione di merci, mercati,
capitali e persone, come nel caso europeo, ma anche - e soprattutto – di
innalzare il livello complessivo (non solo economico, ma anche umano e
sociale) di sviluppo del paese. Semplificando, se le condizioni di vita negli Stati
del sud e del sud-est del paese, tradizionalmente i più sviluppati, (Paranà, Santa
Catarina, s. Paolo) sono simili a quelle dell’occidente, in altri stati la situazione
socio-economica è a distanza siderale dalle zone più sviluppate del paese.
Secondo l’IBGE (Instituto Brasilero de Geografia e Estatistica163), il PIL
procapite delle 27 Unità federative del paese, nel 2011, è stato – in Reais
(BRL)164 - il seguente:
primi cinque stati quanto al PIL:
Distrito Federal: 60.020, S. Paulo 32.449 (ca. 10.000 eur annui), Rio
de Janeiro 28.696, Espirito Santo 27.542, Santa Catarina 26.760;
ultimi cinque stati quanto al PIL:
Cearà 10.314, Paraìba 9348, Alagoas 9079, Maranhao 7852, Piaui
7835 (ca. 2500 eur annuali).
Fonte: IBGE. Contas Regionais do Brasil - 2011: Tabela 4 - Produto Interno
Bruto, população residente e Produto Interno Bruto per capita, segundo as Grandes Regiões e
as Unidades da Federação - 2011.
Come si vede, anche escludendo lo Stato della capitale, permangono
differenze enormi essendo il PIL di S. Paolo quasi cinque volte maggiore di
quello di Piaui e più di tre volte maggiore di quello di Cearà. Nel Brasile, e più
163 http://www.ibge.gov.br/home/default.php 164 Attualmente 1 eur corrisponde a 3.20 Reais.
105
in generale, in Sudamerica, i principali fattori di disuguaglianza riposano nelle
condizioni socio-economiche, nelle zone di residenza (rurali o urbane), nella
identità etnica e nel genere.
Nel caso dell’istruzione, ad esempio, il Brasile - secondo l’UNESCO ed
il Ministero brasiliano dell’istruzione - fa registrare il numero più alto di
analfabeti di tutta l’America centrale meridionale: 13 milioni di persone, il 40%
della regione. 68 milioni di brasiliani di età superiore ai 15 anni non finiranno
l’educazione primaria obbligatoria165, “representando quase 50% da população total
de jovens e de adultos”166. Quanto alla istruzione attesa, nella fascia tra i 15 ed i 24
anni 12 milioni non porteranno a termine l’educazione primaria e quasi 2
milioni saranno analfabeti. Sempre in Brasile, inoltre, nel 2006 la percentuali di
giovani inattivi (che non studiano nè lavorano) si attestava al 27,1%167.
Secondo i dati forniti dalla SECAD168, relativi agli ultimi quattordici
anni, tra gli adulti latino-americani con più di 15 anni169 la percentuale di
popolazione senza alcuna istruzione o con un curriculum scolastico limitato ai
primi tre anni di scuola toccherebbe, nel caso del Brasile, il 25%.
Bisogna comunque sottolineare gli enormi progressi compiuti dalla ex-
colonia portoghese negli ultimi 40 anni. Infatti, il Brasile, tra il 1975 ed il 2000
ha scalato diverse posizioni nello Human Development Index (HDI) e non tanto
grazie alla crescita economica quanto piuttosto grazie all’istruzione ed alla
salute. Infatti, nessun paese è avanzato tanto quanto il Brasile nel ranking HDI
(Indice di Sviluppo Umano) nel periodo sopra ricordato: in ventisei anni ha
guadagnato sedici posizioni ed ha raggiunto la sessantacinquesima posizione.
Negli anni settanta e ottanta ha rimontato dieci posizioni, due negli anni ‘90 e
quattro fino al 2001. Tra il 1975 e il 2001 il reddito pro capite è aumentato
dello 0,8 % l’anno (la media mondiale era dell’1,2 %, per i paesi sviluppati del
165 Che, dal 2006, dura nove anni. 166 AA.VV., Educação e aprendizagem para todos: olhares dos cinco continentes, Brasília, UNESCO, Ministério da Educação, 2009, p. 47. 167 AA.VV., Educação e aprendizagem para todos, cit., p. 44. 168 Ovvero la Secretaria de Educação Continuada, Alfabetização e Diversidade, l’ente governativo brasiliano responsabile dell’alfabetizzazione e dell’istruzione del paese. 169 I dati riguardano 13 paesi latino-americani, ovvero: Argentina, Bolívia, Brasil, Costa Rica, Chile, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicarágua, México, Paraguay, Peru e Uruguay.
106
2,3 % annuo). E’ stata proprio questa voce a frenare la scalata del Brasile nel
ranking mondiale, ove il Paese occupava una posizione peggiore rispetto a
molti vicini latino-americani; infatti l’Argentina ara 34°, l’Uruguay 40° ed il Cile
è 43°.
Negli anni successivi, invece, il Brasile ha avuto una crescita economica
molto più sviluppata, con un notevole aumento del PIL, come è noto, mentre
la sua posizione nello HDI è venuta sostanzialmente diminuendo.
Al di là dei notevoli progressi compiuti e degli attuali elevati livelli di
crescita, il paese resta alquanto debole a causa delle profonde disuguaglianze
sociali e, in particolare, della situazione socio-economica delle zone più
svantaggiate: qui è in gioco non tanto la capacità di coniugare protezione
sociale e sviluppo economico ma, piuttosto, di riuscire a garantire i diritti
sociali, i basic needs. Oltre a ciò, per concludere, un tipico problema non solo
del Brasile ma dell’intera America Latina, a livello regionale, è che
l’ineguaglianza, appare diversa per i differenti gruppi sociali, come ricordano le
Nazioni Unite: “The political process also responds differently to the needs of different
groups. A sustained reduction in inequality means impacting the poor quality of political
representation, the frailty of public institutions, unequal access to influence specific policies,
and institutional shortcomings that lead to corruption and the state ending up in the hands of
minority groups”170.
170 UNDP (United Nations Development Program), Regional Human Development report for Latin America & the Caribe 2010, UNDP, New York, 2010, p. 7.
107
CONCLUSIONI
In ambito europeo, come risposta alle crisi sistemiche ed alla
perdurante crisi del welfare state, la Commissione europea ha introdotto il
termine flexicurity.
Tale elaborazione corrisponde alla volontà comunitaria di aprire
totalmente l’Europa alla globalizzazione dei mercati e dell’economia riuscendo,
nello stesso tempo, a garantire la sicurezza sociale. La flessicurezza è una
strategia integrata rivolta, ipso tempore, ad accrescere sia la flessibilità, sia la
sicurezza del mercato del lavoro.
La definizione di flexicurity proposta dalla Commissione riguarda il
modo di intendere i differenti momenti della vita lavorativa e le connesse fasi
di passaggio dell’esistenza individuale: istruzione, ingresso nel mondo
lavorativo, disoccupazione, cambio di lavoro, pensionamento. In tale contesto,
il termine si riferisce sia alla possibilità di cambiare occupazione, sia alla
necessità di superare l’eccessiva staticità che in passato ha caratterizzato il
lavoro subordinato.
Un concetto, dunque, omnicomprensivo che va dalla sicurezza sociale
lavorativa intesa in senso classico, alla mobilità del mercato e alla necessaria
formazione del personale in vista della crescita professionale e della possibilità
di cambiare professione.
La strategia della flexicurity trae origine dall’analisi della realtà dove
operano le organizzazioni aziendali, caratterizzata dalla crescente concorrenza
globale. In tale ambito il sistema produttivo europeo deve poter disporre di
personale in possesso delle giuste competenze costantemente aggiornate e
capace di muoversi senza eccessivi vincoli, in modo da poter essere
competitivo con le economie dei paesi emergenti e attrarre capitali
internazionali.
108
La Commissione europea ha poi definito la flexicurity a partire da
quattro componenti base, ovvero:
Flexible and reliable contractual arrangements;
Comprehensive lifelong learning (LLL) strategies;
Effective active labour market policies (ALMP);
Modern social security systems.
Uno sguardo d’insieme sulle riforme attuate mostra come i paesi
dell’Unione abbiano posto maggiore attenzione all’uniformazione delle
differenti forme contrattuali flessibili, incrementando forme contrattuali
atipiche, come contratti a tempo determinato, di apprendistato a progetto, ecc.
La medesima attenzione, tuttavia, non pare essere stata posta sul tema della
sicurezza, la quale è stata invece gestita secondo logiche di tipo nazionale,
fornendo argomenti a favore di chi incolpava i diversi governi nazionali per
aver ceduto alle richieste delle imprese ed ai dettami della globalizzazione,
senza governare il processo di cambiamento.
L’analisi delle politiche attuate dai paesi comunitari più virtuosi mostra
come il paradigma della flexicurity sia più efficiente quando i suoi quattro
pilastri vengono applicati in maniera congiunta.
Come mostra il caso della Danimarca, i minori vincoli della normativa
che regola i licenziamenti sono più facilmente accettabili se accompagnati a
sussidi di disoccupazione con elevati tassi di sostituzione, magari legati a
penalizzazioni, e un sistema di politiche attive in grado di sostenere
effettivamente il lavoratore in situazioni di disagio. Interessante è anche il caso
della Germania, che mediante un sistema di relazioni industriali molto
efficiente è riuscita ad introdurre notevoli elementi di flessibilità nel mercato
del lavoro, adattandoli alle specifiche esigenze del settore/azienda.
In ogni caso, il sistema di politiche passive, solitamente strutturato a tre
pilastri, pare adeguato per sostenere transizioni nel caso di livelli ordinari di
mobilità, mentre non è certo che possa resistere al perdurare della crisi. Infatti
l’effettiva attuazione di sistemi estremamente articolati che prevedono
109
molteplici interventi per disoccupati di lungo periodo o per persone mai
entrate nel mondo del lavoro, si scontra con la limitatezza delle risorse
disponibili, in particolare per quei paesi nei quali è più elevato il debito
pubblico.
Inoltre, sono le politiche attive per l’occupazione a risentire del limite di
applicabilità ai soli periodi espansivi. Infatti se gli occupati standard
conservano l’occupazione tramite la flessibilità oraria e gli altri strumenti di
integrazione del reddito, le altre tipologie di lavoratori se espulsi dal mercato
del lavoro, data la sua scarsa dinamicità, corrono il rischio di restare ai margini
del mondo del lavoro: una situazione che pare si stia verificando in Italia.
Bisogna poi osservare come la riuscita delle politiche attive, soprattutto della
formazione, sono notevolmente cambiate nei diversi paesi subendo l’influenza
dall’efficienza dei sistemi preposti ad attuare le singole iniziative.
La segmentazione sociale e l’acuirsi delle diseguaglianze a livello
europeo appaiono quindi dei rischi concreti, soprattutto in quei contesti
caratterizzati da bassa domanda di lavoro e per tutti coloro i quali non
dispongono delle necessarie competenze o non sono in grado di accedere alle
informazioni relative alle chanche che offre un mercato del lavoro flessibile,
anche quando ben funzionante.
La dimensione inclusiva della flexicurity può essere garantita soltanto
da istituzioni estremamente efficienti e capillari.
Nel caso dell’Italia il sistema di ammortizzatori messo in atto per
fronteggiare la crisi - grazie anche a provvedimenti in deroga al regime
ordinario - ha reso possibile sostenere i redditi dei lavoratori espulsi o sospesi
dal lavoro. Al riguardo, qualcosa è stato fatto anche per i lavoratori atipici,
sebbene in maniera frammentata e soprattutto senza la necessaria continuità.
Complessivamente, quanto alla flessibilità del mercato del lavoro
italiano, dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi diverse azioni sono state
intraprese per rispondere alle esigenze di flessibilità del mondo produttivo,
mentre vi sono stati pochi cambiamenti nei classici rapporti di lavoro a tempo
110
indeterminato. Ciò ha comportato una notevole segmentazione del mercato
del lavoro e la presenza di differenze di trattamento difficilmente accettabili,
dato che solitamente gravano sulle fasce sociali più svantaggiate.
Lo studio dei sistemi di protezione degli Stati Uniti ha reso possibile
cogliere le caratteristiche di fondo del welfare americano che appaiono
notevolmente diverse da quello europeo.
In primo luogo, negli USA vi è sempre stato un forte indirizzo delle
policy di welfare verso politiche attive di sostegno del lavoro; come si è visto,
la riforma Clinton rappresenta l’apice di tale processo. Ciò dettato
dall’ideologia statunitense della responsabilità individuale e dall’etica del lavoro:
una tradizione culturale condivisa.
Nel caso dei diversi tipi di sussidi previsti, questi, in molti casi, non
vengono concessi a chi non disponga di un lavoro, per evitare di
‘istituzionalizzare’ la dipendenza degli assistiti dall’intervento pubblico.
Inoltre, soprattutto negli ultimi dieci anni sono proporzionalmente
aumentati, tra gli stanziamenti pubblici, i programmi di Tax Expenditures – i
contributi fiscali non riscossi e/o i crediti fiscali concessi agli aventi diritto -
fino a divenire la principale spesa pubblica per l’assistenza già durante la prima
Amministrazione Bush Jr.. Nel 2004 la cifra complessiva delle Tax Expenditures
è stata notevolmente superiore alla spesa per i sussidi TANF. La
redistribuzione delle risorse è stata dunque ottenuta tramite la leva fiscale, una
soluzione notevolmente diversa rispetto alle policy adottate in Europa.
Per quanto riguarda la situazione del Brasile, il welfare è di tipo
corporativo, e proviene, dal punto di vista storico, da una concezione di
carattere assicurativo, il modello bismarckiano, parzialmente integrata da
meccanismi assistenziali. Le prestazioni sono connesse all’onere contributivo,
sostenuto individualmente mediante un flusso complessivo di finanziamenti
dove sono i contributi a prevalere sulle imposte. Inoltre si offrono delle
prestazioni proporzionali ai redditi di riferimento dei beneficiari; ciò ha
comportato la “categorizzazione” della normativa che riflette lo status dei
111
gruppi professionali. In Brasile vi sono, infatti, due sistemi di previdenza,
quello per i privati e quello per i dipendenti pubblici.
Le diverse riforme succedutesi a partire dalla fine degli anni ’80 hanno
sempre perseguito due obiettivi: la riduzione delle spese e la razionalizzazione
degli stanziamenti in welfare e protezione sociale. Negli ultimi quindici anni,
sono stati fatti enormi progressi in relazione all’estensione di forme di
protezione sociale a quei soggetti che ne erano privi. Tuttavia, il gigante
sudamericano rimane un paese caratterizzato da profonde disuguaglianze
sociali e con notevoli differenze sia su base regionale e locale, sia razziale.
112
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