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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI
CORSO DI LAUREA IN STORIA E SOCIETA’
La Federazione delle cantine sociali di Cagliari
dalle carte della Prefettura di Cagliari
Relatore: Tesi di Laurea di:
Prof. sa Maria Luisa Di Felice Giovanni Solla
Anno accademico 2014-2015
Grazie
A coloro che durante il corso di studi mi hanno sostenuto con consigli,
opinioni, incoraggiamenti,
in particolare a
Andrea
Claudia C.
Claudia M.
Elsa
Laura
Maria Grazia
PierLuigi
1
Indice
Introduzione 3
1. Economia in Sardegna dall’età giolittiana al fascismo 5
2. La solidarietà tra i lavoratori in Sardegna: dalle Società di
Mutuo Soccorso alle Cooperative 25
2.1. Le Società di Mutuo Soccorso 26
2.2. Le cooperative: inizi e affermazione nei principali stati
europei 32
2.3. La cooperazione in Italia 37
2.4. La cooperazione in Sardegna 49
2.4.1. Caseifici, latterie e allevamento 58
2.4.2. Mutue bestiame 69
2.4.3. Società molitorie 70
2.4.4. Casse rurali, Monti granatici e frumentari,
Cooperative di credito agrario 73
2.4.5. Le cooperative di consumo 78
3. Le cantine sociali 81
3.1. Le Cantine Sociali in Sardegna dall’età giolittiana
al periodo fascista 82
3.2. La Federazione delle Cantine Sociali e le Cantine di
Monserrato, Quartu Sant’Elena e Sestu negli anni Trenta:
la crisi del settore vitivinicolo e i contrasti interni 95
3.2.1. Crisi economica e crisi finanziaria (1930-1933) 96
3.2.2. I tecnici: Grignano, Cettolini, Arnaldi 109
3.2.3. I contrasti tra le cantine e la Federazione
2
Commercianti 121
3.2.4. Il nuovo statuto della Cantina di Monserrato 124
3.2.5. Le cantine negli anni della guerra 130
Bibliografia 135
3
Introduzione
La tesi si apre con un quadro storico della Sardegna, di carattere socio-economico
che va dalla seconda metà del XIX secolo quando nell’isola erano prevalenti le
attività agricolo-pastorali, praticate, in genere, con tecniche piuttosto arcaiche fino
al periodo della dittatura fascista quando l’attività agricola s’avvantaggiò in
alcune zone dei miglioramenti dovuti alle bonifiche e alle opere idrauliche.
Rispetto a questo quadro economico e sociale il lavoro ha inteso privilegiare lo
studio delle cooperative nate in tutta Europa, in Italia e anche in Sardegna durante
l’Ottocento. L’analisi ha tenuto conto della nascita delle prime organizzazioni si
proposero di soccorrere i lavoratori sottoposti ai rigori del mondo industriale-
capitalistico. Partendo quindi dalle Società di mutuo soccorso si è passati ad
illustrare la storia della cooperazione, dalle prime manifestazioni nell’Inghilterra
del Settecento fino alle esperienze, condizionate dal regime, nell’Italia fascista. Lo
studio ha tenuto conto dei significativi inizi, avviati in vari Paesi europei, quali
Francia e Danimarca, per poi proporre la storia della cooperazione in Italia fin
dalle origini, a metà Ottocento, quando anche nella penisola prendete forma il
moderno processo d’industrializzazione. Il quadro dell’esperienze cooperative in
Sardegna ha tenuto conto delle prime iniziative avviate fin dalla seconda metà del
XIX secolo, esperienze di breve durata, ridotte nel numero rispetto a quelle di
molte altre zone d’Italia nel Novecento, ma assai interessanti, anche perché
nell’isola erano fiorenti le attività minerarie, concentrate nelle zone del Sulcis e
dell’Iglesiente e sottoposte alla grande industria italiana e straniera.
Tra le esperienze cooperative della prima metà del XX secolo ho puntato
l’attenzione sull’attività delle cantine sociali dall’età giolittiana agli anni del
periodo fascista. I documenti del Gabinetto del Fondo della Prefettura di Cagliari
hanno offerto un buon numero di documenti concernenti i problemi dell’area
agricola del Campidano di Cagliari, quasi totalmente votata alla viticoltura e
hanno reso possibile indagare sulla storia delle cantine sociali del Campidano di
Cagliari. Tra le carte è stato reperito lo Statuto del Sindacato Nazionale
Produttori Vini di Monserrato che secondo i dettami voluti dal governo fascista,
4
fu costituito per regolare gli enti cooperativi. Ma sono soprattutto presenti i
documenti sulla Federazione della Cantine Sociali di Cagliari, nata per volere
politico, che cerca di estromettere la Cantina di Monserrato, la più importante
espressione cooperativa della zona, limitandone il potere e la leadership che ebbe
e che conservò anche quando nacquero nella stessa area agricola le Cantine sociali
di Quartu Sant’Elena e Sestu, quest’ultima dalla vita breve e miserabile.
Il quadro che si evince da queste carte è quanto mai interessante in quanto
consente di illustrare la vita di un settore tra i più rilevanti nell’economia agricola
sarda e di tracciare, pur tra notevoli difficoltà, dovute alla presenza di una serie
non interrotta di documenti, alcune delle fasi salienti della storia della
cooperazione agricola nella Sardegna meridionale e delle vicende della
Federazione delle cantine di cui sino a oggi si è assai poco trattato.
5
1. Economia e società in Sardegna dall’età giolittiana al fascismo
<<Nella seconda metà dell'Ottocento la Sardegna si presenta come una regione
con un economia a forte caratterizzazione agricola e pastorale, anche se debole e
con tassi di sviluppo e di presenza di popolazione attiva inferire a quella delle
altre regioni>>.1
Prevalgono la coltura estensiva e le aree dedicate al pascolo sulle colture intensive
e specializzate.
Forse il problema maggiore è l'estremo frazionamento degli appezzamenti.
Accanto al frazionamento della proprietà vi erano altri elementi che
ostacolavano l'agricoltura sarda e lo sviluppo delle colture intensive, ed
erano cause atmosferiche, come i forti venti e la scarsità delle piogge, la
malaria, le imposte troppo elevate, superiori alle possibilità del sistema
agricolo sardo nel suo complesso, che penalizzavano e scoraggiavano le
iniziative dei piccoli proprietari, come documentano le espropriazioni per
debito di imposta sempre più numerose, i sistemi di coltivazione, l'utilizzo di
strumenti agricoli inadeguati, come il tradizionale aratro sardo, inadatto e
insufficiente ad una buona lavorazione del terreno, la ridotta possibilità
finanziaria dei contadini di acquistare concimi chimici, maggiormente
necessari per l'insufficiente produzione di concimi organici dovuta alla
predominanza dell'allevamento brado; elementi tutti, che uniti all'eccessivo
frazionamento della proprietà, ostacolavano l'introduzione di nuove
macchine e strumenti e il rinnovamento dei metodi di coltivazione.2
La provincia di Cagliari è caratterizzata dalla fertile pianura del Campidano di
Cagliari e Oristano. La parte interna della pianura è coltivata prevalentemente a
grano ed è la zona col maggior raccolto cerealicolo dell'intera isola, la parte più
vicina alle coste e quella attorno ai principali centri, e in particolare l’area di
Cagliari, vedono una notevole prevalenza della coltivazione della vite.
Con la metà dell'Ottocento diventa rilevante la coltivazione della vite, che
conosce un notevole incremento ed occupa nel quinquennio 1879-83, prima
dell'invasione della fillossera, una superficie complessiva di oltre 65.000
ettari, inferiore soltanto alla superficie coltivata a grano. La coltivazione
1 F. Atzeni, Riformismo e modernizzazione, Classe dirigente e questione sarda tra Ottocento e Novecento, Milano, 2000, pag. 13.
2 Ivi, pag. 17.
6
della vite diventa predominante nel basso Campidano, nel circondario di
Cagliari.3
Nell’ultimo ventennio del XIX secolo lente trasformazioni interessano la coltura
della vite e dell'ulivo, la produzione dei vini e degli oli. Ciò è possibile grazie ai
comizi agrari, istituiti dal Regio Decreto n. 3452 del 23 dicembre 1866, che
dovevano aver sede in ogni capoluogo di circondario, mantenendosi con i
contributi dei soci e l'aiuto delle pubbliche istituzioni. La loro opera a favore delle
nuove tecniche di coltivazione e dell’uso di strumenti moderni si diffonde
estesamente in tutta la Sardegna.
Man mano che le colture specializzate guadagnano spazi sempre più ampi, i
terreni adatti a questo utilizzo diventano ghiotte occasioni d’affari anche per gli
imprenditori venuti dal continente poiché si possono acquistare a prezzi molto
convenienti.
Tra questi pionieri dell’industria enologica, Giovanni Battista Capra, che a metà
del secolo mette in funzione una piccola cantina a Quartu Sant'Elena; suo figlio
Amsicora che con lo zio Francesco fonda poi nel I887 la Capra & Capra; Josias
Pennis che è tra i fondatori della Camera di Commercio di Cagliari; Francesco
Zedda Piras che fonda la Ditta “Zedda Piras”, che ha successo fin da subito anche
grazie ai consigli del suo grande amico, Sante Cettolini; gli svizzeri Rizzi e
Clavot.
Questi imprenditori producono vini che vengono apprezzati in Italia e all’estero.
Per le insistenti richieste provenienti dalla borghesia più intraprendente e dai
proprietari terrieri più avveduti, negli ultimi anni del secolo vennero creati
alcuni istituti per la formazione di tecnici nei settori dell'agricoltura e
dell'industria legata al settore primario. Il primo, costituito a Nulvi nel I882,
venne soppresso dopo un decennio perché scarsamente frequentato; i
successivi ebbero invece maggiore fortuna perché, fatto tesoro della negativa
esperienza vissuta dalla scuola nulvese, orientarono la loro attività tenendo
conto della pratica, oltre che della teoria. Queste scuole, nonostante le
richieste partite da Alghero, furono costituite nei due centri principali
3 Ivi, pag. 19.
7
dell'isola: a Cagliari, nel I885, venne aperta, per volere di Ottone Bacaredda,
sindaco di Cagliari, e di Francesco Cocco Ortu, ministro di Agricoltura,
Industria e Commercio, la Regia scuola di viticoltura ed enologia; a Sassari
venne fondata, nel I894, la Scuola pratica d'Agricoltura.4
Entrambi gli istituti oltre che preparare giovani esperti si occupano di far
conoscere agli adulti le pratiche basate sulle conoscenze scientifiche.
Le campagne abbandonate e deserte, i bestiami in gran parte distrutti, interi
villaggi, anzi la maggior parte dell'Isola, in preda alla miseria ed alla fame, la
quale fece nell'anno scorso e minaccia di fare nel presente vittime numerose;
e la popolazione, che non conosce altra industria, non può ormai attendere ai
necessari lavori di agricoltura, avendo dovuto spogliarsi dei buoi da lavoro e
degli strumenti di campagna, e se non delle terre, solo perché la comune
miseria fa che non si trovino compratori. 5
Con queste parole Baudi di Vesme nel I847 descrive lo stato delle campagne
sarde.
L'unificazione del mercato della Sardegna con quelli degli Stati di Terraferma
produce dei segni di ripresa, ma non sufficienti per raggiungere lo sviluppo,
auspicato da Cavour, e dai fautori della fusione perfetta.
La delusione e lo scontento provocati dalla mancata inclusione della Sardegna nei
provvedimenti legislativi di cui erano stati oggetto il Meridione e la Sicilia con le
leggi del I867 e I875, portano gli elettori sardi a non appoggiare più la Destra che
governava l’Italia. I deputati sardi sono infatti tra i sostenitori della cosiddetta
rivoluzione parlamentare che nel I876 porta la Sinistra all’esecutivo.
Nel marzo I877 il governo presieduto da Agostino Depretis, promulgava la legge
<<per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola>>, nota come
Inchiesta Jacini.
4 Cfr. M .L. Di Felice, La storia economica dalla <<fusione perfetta>> alla legislazione speciale, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 369.
5 C. Baudi Di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Torino, 1848, ora in Sorgia, (a cura di), La Sardegna nel 1848. La polemica sulla << fusione>> (testi e documenti per la Storia della questione sarda), Cagliari, 1968, pag.79.
8
Il desiderio di conoscere lo stato della produzione e degli agricoltori era maturato
alla fine degli anni Sessanta nel ministero di Agricoltura affidato a Marco
Minghetti, ed era sostenuto dai Comizi agrari, dalla Società degli Agricoltori
Italiani, dai proprietari terrieri e dagli industriali, auspicando che un indagine ad
hoc facesse capire le necessità del settore e favorisse l’adozione di interventi
capaci di promuovere il miglioramento delle campagne sarde.
Nella relazione che Francesco Salaris elabora, nell'ambito dell'inchiesta Jacini,
vengono messi in rilievo, tra l'altro, le <<infelicissime>> condizioni idrografiche
dell'isola.
La viticoltura, che con l'allevamento del bestiame costituiva uno dei due
rami in attivo dell'economia agricola isolana, la fase espansiva venne
ridimensionata nei primi anni ottanta. Gli oltre 65.000 ettari (37.559 in
provincia di Cagliari e 27.452 in quella di Sassari) coltivate a vite davano nel
quinquennio 1879-1883 complessivamente 1.179.300 ettolitri di vino, di cui
una quantità rilevante veniva esportata in Francia, con la quale era stata
instaurata una fitta rete di scambi. Questa situazione commerciale
favorevole, che aveva spinto molti agricoltori ad estendere la coltivazione
della vite, si interruppe bruscamente tra il 1883 e il 1900 per il
sopraggiungere della fillossera e, dal 1888, della peronospera, che colpirono
dapprima i vigneti della parte settentrionale dell'isola, per poi estendersi a
quella
meridionale, e soprattutto per la guerra commerciale con la Francia.6
Negli anni Ottanta crolla il sistema creditizio isolano col fallimento delle
principali banche sarde, Fondate in un breve lasso di tempo, anche sulla scia della
legge del giugno 1869 che istituiva il credito agrario, esse si trovano in difficoltà
perché le loro attività speculative hanno esito negativo. La chiusura degli istituti
di credito sardi si rivela dannoso per gli agricoltori che a loro si erano rivolti,
spingendoli nuovamente verso l’usura.
Nel maggio 1888 i deputati sardi inviano un memoriale al presidente del
consiglio, Francesco Crispi, in cui parlano delle misere condizioni che
attanagliano la Sardegna. Qualche iniziativa era stata intrapresa dal governo nei
6 Atzeni, Riformismo e modernizzazione, cit., pagg. 34-35.
9
confronti del territorio sardo, ma non erano sufficienti per portare la Sardegna
sulla via di un costante sviluppo.
Crispi risponde che la situazione della Sardegna è simile al resto d’Italia ed è
dovuta alla crisi che ha colpito la nazione e pertanto non sono utili interventi
specifici per la regione.
Negli anni Novanta intellettuali, politici, giornalisti propongo misure che cambino
in modo positivo la problematica situazione della Sardegna. La proposta che viene
fatta più sovente è quella delle bonifiche e della sistemazione delle acque per
favorire un miglioramento igienico ed economico. Viene richiesta al governo
centrale una legislazione speciale perché la Sardegna presenta una realtà specifica
che non viene favorita dalle leggi nazionali.
Nel dicembre 1896 matura un progetto, accettato dal governo, che diviene il punto
di partenza per la prima legge speciale per la Sardegna. La proposta di legge
prevede il miglioramento dell’agricoltura sarda grazie alla concessione del credito
agrario e alla sistemazione idraulica.
La prima legge speciale per la Sardegna viene finalmente approvata nel 1897. Tra
i punti più rilevanti, per favorire il miglioramento agrario, l’istituzione della Cassa
ademprivile con il compito di fare anticipazioni in denaro ai monti frumentari e
agli enfiteuti, per la costruzione di case coloniche o di gruppi di case o di stalle
razionali, per i rimboschimenti e per gli acquisti di strumenti di lavoro e di scorte,
con preferenza per gli enfiteuti più poveri e per le società cooperative. Vengono
stanziati otto milioni di lire per i lavori di regolazione dei corsi d’acqua, per le
bonifiche e per i rimboschimenti. Ancora viene concessa l’esenzione fiscale
sull’alcool distillato dal vino e dalle vinacce purché consumato nell’isola; se
esportato fuori dall’isola sarà invece assoggettato alla tassa di fabbricazione.
Approvata grazie alla grande azione congiunta delle forze politiche e sociali sarde,
la prima legge speciale del 1897 viene vista come un primo provvedimento per
permettere che la Sardegna si rissolevi dalla sua miserevole situazione. Tra le
misure che vengono ritenute necessarie c’è lo sgravio dell’imposta fondiaria, la
rifondazione di banche che elargiscano crediti per mettere i proprietari rurali in
10
condizione di non doversi più rivolgere agli usurai.
Un interessante analisi di questa legge viene espressa dal veneto Sante Cettolini,
che a quei tempi è il direttore della scuola di enologia e viticoltura di Cagliari,
tecnico di grande valore e di riconosciuta competenza, nell’opera intitolata La
questione sarda ed i provvedimenti governativi a favore dell’isola, pubblicata nel
1898. Cettolini afferma che i prevedimenti previsti nella legge del 1897 sono
programmanti in un vasto arco di tempo, mentre invece, secondo lui, alla
Sardegna occorrono iniziative che si devono concludere in tempi rapidi. Cettolini
ritiene che una delle due vere ricchezze dei Campidani è la vite. Propugna una
legge che imponga in certi casi l’obbligo di vendita o di permuta di terreni agricoli
per permettere la creazione di poderi sui quali costruire l’abitazione del contadino
e della sua famiglia.
Purtroppo questa legge non produce che pochi risultati poiché solo dopo un una
anno vengono istituiti i primi regolamenti e i vari finanziamenti previsti si
rivelano insufficienti.
Una nuova legge, approvata nel 1902 con lo scopo di correggere i limiti emersi
nella precedente, contiene anche nuove disposizioni come l’uso dell’acqua
raccolta nei bacini per produrre energia elettrica.
Nel 1906 viene approvata la legge n.383, nota come <<Provvedimenti per le
provincie meridionali, per la Sicilia e la Sardegna>>, che presenta, tra l’altro, la
riduzione del 30 per cento dell’imposta fondiaria.
I moti popolari che scoppiano nel maggio del 1906, preceduti dagli scioperi dei
minatori nel biennio 1903-1904, sono frutto dell’aumento del costo della vita
provocato dalle trasformazioni dell’economia sarda. Queste manifestazioni si
rivolgono contro le strutture che vengono ritenute causa della crisi, contro i
vagoni della “Tramvia del Campidano” che trasportano i prodotti nei comuni
limitrofi a Cagliari, attività fino ad allora svolta dai “carrettoneris”.
Presentato dal ministro dell’agricoltura, Francesco Cocco Ortu, il 22 dicembre del
1906, il progetto di legge che prevede modifiche e aggiunte rispetto alle leggi del
1897 e del 1902, una volta pubblicato provoca vivaci proteste nell’isola,
11
soprattutto in provincia di Sassari perché si ritiene sfavorevole lo stanziamento dei
fondi per la sistemazione delle acque e per eseguire le bonifiche, sputanti a questa
provincia rispetto a quelli previsti per quella di Cagliari.
In un articolo apparso nel 1906 su “La Nuova Sardegna”. si afferma che <<la
cooperazione agraria era quasi totalmente assente>>, nell’isola.
In un lungo intervento di risposta ai deputati sardi, che mettono in evidenza i
limiti del progetto che diverrà la legge del 1907 per la Sardegna, Francesco Cocco
Ortu, ministro dell’agricoltura, elenca i provvedimenti che tengono conto dei
limiti ricontratti nell’attuazione delle leggi precedenti. La legge dovrebbe
diffondere nell’isola quello spirito di associazionismo, preparando e formando
l’ambiente agrario alla penetrazione e alla diffusione delle varie istituzioni agrarie,
dei consorzi e delle cooperative.
La legge viene approvata dalla Camera il 26 giugno 1907 e dal Senato il 9 luglio
1907. La Nuova legge sui provvedimenti per la Sardegna, approvata con Regio
Decreto 14 luglio 1907, n.562, è divisa in sette titoli ed è composta da 63 articoli.
Il titolo primo stabilisce al primo capitolo che la Cassa ademprivile istituita nelle
province di Cagliari e di Sassari assuma la funzione di Cassa provinciale di
credito agrario. Tra gli scopi, fare anticipazioni agli enfiteuti e alle società
cooperative agrarie riconosciute. Sulle somme concesse si applicherà un interesse
non superiore al 4 per cento. Dalla Cassa ademprivile (secondo quanto stabilito al
quarto capitolo), possono ottenere anticipazioni anche i consorzi agrari costituiti
fra agricoltori nella forma di società cooperative. Nel 1913 risultano costituite in
provincia di Cagliari tre associazioni cooperative agrarie di produzione e lavoro
(due cantine sociali e una latteria sociale).
L’uso di più moderni metodi e strumenti di coltivazione permettono aumenti delle
varie produzioni agricole. Notevole, ad esempio, è l’incremento della coltivazione
della vite, che si estende oltre i limiti delle sue tradizionali zone di coltivazione.
La produzione media di vino, che negli anni 1870-74 era inferiore ai 500.000
ettolitri, divenuta di oltre un milione di ettolitri tra il 1879 e il 1883, raggiunge nel
quinquennio 1901-1905 i 2.165.000 ettolitri, di cui ben 300.000 nel Campidano
12
<<vitato>>, nel circondario di Cagliari: l’impianto dei vigneti era stato un potente
stimolo alla trasformazione e al progresso economico e culturale. Lo sviluppo
della viticoltura era stato accompagnato dal progresso tecnico nella coltivazione e
dal perfezionamento delle tecniche di vinificazione e da un incremento delle rese
per ettaro da 15-20 ettolitri a 30-40, facendo di esso uno dei comparti più
remunerativi dell’agricoltura dell’intera Sardegna.. <<La superficie coltivata a
vite veniva stimata nel 1909-1914 in 48.200 ettari, in prevalenza in provincia di
Cagliari>>.7
Il nascente processo d’industrializzazione dell’isola interessa anche la
trasformazione dei prodotti agricoli sempre più esportati. L’industria vinicola, si
sviluppa soprattutto nel Campidano di Cagliari, alimentando una rilevante
corrente di esportazione di vini e di distillati. Un ruolo importante nella
produzione dei mosti, del vino e degli alcoli viene svolta da imprenditori locali.
<<Tra le società impegnate nel commercio e nella lavorazione dei vini emerge la
Vinacol fondata nel 1911; si assiste contemporaneamente anche
all’organizzazione di gruppi di produttori, che nel 1908 costituiscono una cantina
sociale a Monserrato, che contribuisce a dare un grande impulso alla produzione e
a sottrarli al condizionamento dei commercianti e dei gruppi industriali operanti
nel settore>>.8
Il complessivo momento di crescita dell’economia agricola isolana è
anche legato a un certo progresso delle tecniche di lavorazione, a
metodi più razionali di coltivazione, ad un processo di trasformazione
che investe la piccola e media proprietà, soprattutto laddove i
contadini erano riusciti ad acquistare maggiore competenza e
professionalità; è questo il caso dei viticoltori del Campidano di
Cagliari.9
7 Ivi, pagg. 208.
8 Ivi, pag. 210.
9 Ivi, pag. 213.
13
La cooperazione nei primi quindici anni del XX secolo è uno strumento che
spinge all’innovazione le piccole e medie imprese agricole della Sardegna.
Accanto a questi piccoli successi permane il problema dell’usura che riguarda
soprattutto gli strati economicamente più deboli, a cui si affianca l’emigrazione,
che pur non costituita da grandi numeri come avviene nelle regioni del sud Italia,
rappresenta un fenomeno assai rilevante per una regione che ha una bassa densità
di popolazione.
Grazie alla legge n.985 dell’11 luglio 1913, approvata nonostante le
preoccupazioni dei piccoli proprietari terrieri che possono subire l’espropriazione
del loro terreno se non irrigato da parte della società concessionaria, nel 1918
iniziano i lavori per la costruzione della diga sul fiume Tirso. I lavori portano ad
inaugurare il 28 aprile del 1924 il lago Omodeo, il più grande di tipo artificiale
d’Europa, che prende il nome dell’ingegnere che aveva realizzato il progetto. In
seguito viene realizzato un invaso sul Coghinas.
Nello stesso periodo inizia la bonifica della piana di Terralba, che culminerà con il
ripopolamento di quell’area con famiglie, in modo preponderante originarie del
Veneto e la creazione di un nuovo comune, Mussolinia di Sardegna, che con il
crollo del regime fascista viene rinominato Arborea.
A Cagliari nell’aprile 1913 si tiene il primo convegno provinciale delle
cooperative agrarie; a quella data risultano esistenti 69 casse rurali, 4 consorzi
agrari cooperativi e 10 cooperative di credito e di produzione.
Nel dicembre dello stesso anno si svolge al Oristano il primo congresso regionale
delle cooperative e mutue agrarie, a tale evento risultano create in Sardegna 144
cooperative.
Anche la Sardegna viene coinvolta nel clima interventista che scuote l’Italia.
Nella seconda metà del mese di gennaio del 1915 vengono istituiti i due
reggimenti che costituiscono la “Brigata Sassari”: il 151° a Sinnai e il 152° a
Tempio. I due quotidiani sposano le idee interventiste.
<<L’Unione sarda>> che proprio in quei mesi veniva acquista da un
gruppo nel quale di lì a poco sarebbe rimasto proprietario quasi
incontrastato l'ex deputato Carboni Boy, passò abbastanza
14
rapidamente da un periodo di <<agnosticismo>> a un aperto sostegno
del movimento interventista, in parallelo con l'evoluzione politica del
suo direttore-ombra, Jago Siotto, che pure era stato, nel decennio
d'inizio secolo, uno degli animatori del socialismo cagliaritano; <<La
Nuova Sardegna>>, il cui direttore era su posizioni nazionaliste,
faceva propria la posizione degli interventisti democratici cresciuti
all'ombra del gruppo garavettiano.10
Diverse manifestazioni interventiste avvengono a Cagliari. Il 16 marzo degli
studenti vanno a fischiare sotto le finestre dei locali consolati di Germania e
d'Austria. Il 29 aprile la laurea di Emilio Lussu, colui che si è definito il leader
degli interventisti presenti nell’Università di Cagliari, diventa occasione di
dimostrazioni prima nell’Aula Magna e poi in piazza. Infine una grande
manifestazione si tiene il 14 maggio. Anche a Sassari si manifesta contro Giolitti.
Nel complesso in Sardegna, come avviene in molte parti d’Italia, il volere
interventista è espresso solo dagli intellettuali e da coloro che sono politicamente
impegnati.
La storia della prima guerra mondiale è, in Sardegna, soprattutto la
Storia della brigata Sassari: per il grande numero di morti, per i
sanguinosi combattimenti in cui fu impegnata, per il <<mito>> che ne
crearono gli inviati speciali dei giornali e gli addetti alla propaganda, a
cominciare dagli stessi alti comandi.11
La Sardegna paga, in rapporto al basso indice di popolamento, un grande tributo
di morti e feriti alla causa patria.
A partire dal dicembre 1915 la Brigata Sassari è, senza tener presenti gli alpini,
l’unica formazione militare italiana costituita da elementi che provengono da una
sola regione, rompendo l’usanza vigente dall’Unità d’Italia di comporre anche i
più piccoli gruppi militari con uomini provenienti da diverse aree del territorio
nazionale nel tentativo di “fare” gli italiani. Questa iniziativa porta
10 M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 575.
11 Ivi, pag. 577.
15
all’equiparazione tra la “Brigata” e la Sardegna che è presente sia a livello
nazionale che regionale. La vita di trincea porta gli uomini al fronte a scoprire
quella comunanza di radici, che insieme al problema dei crediti che la Sardegna
vanta nei confronti dell’Italia sono al centro delle conversazioni tra commilitoni e
dei discorsi degli ufficiali con i loro sottoposti. Da questi fatti nasce un
“sardismo” in nuce che esploderà nel dopoguerra.
Purtroppo la “Brigata” viene impiegata dopo la fine del primo conflitto mondiale
come forza di polizia per reprimere dimostrazioni popolari e operaie.
Durante gli anni di guerra la Sardegna soffre tutti i disaggi del resto del territorio
nazionale, aggravati dalla sua condizione di insularità.
Umberto Cao, nel maggio del 1918, pubblica, sotto pseudonimo, “Per
l’autonomia”. L’opera segna l’inizio della rivendicazione “politica”
dell'autonomia della Sardegna. Cao traduce in una proposta politica un sentimento
largamente presente nell'inconscio e nell'immaginario collettivo sardo. Le radici si
rifanno addirittura alla <<bella età dei Nuraghi>>, quando i sardi erano persone
libere, padrone del proprio territorio.
<<Il sardismo è il fuoco che cova sotto la cenere>>, dirà Lussu, esprimendo
l’idea di un sentimento che è di tutti i sardi.
Giuseppe Fiori ha chiarito il carattere interclassista del sentimento “sardista”,
individuando un “sardismo di destra”, che è l‘aspetto più usato per i propri
interessi dalle classi dirigenti sarde.
Alle elezioni politiche del 1919 gli ex combattenti riscuotono un rilevante
successo con la lista aperta anche a non ex combattenti per volontà di Lussu, capo
carismatico del movimento. Questo exploit è, assieme al crollo dei voti raccolti da
Partito socialista e all’insuccesso del Partito polare di Don Sturzo rispetto alla
media nazionale, il segno che il movimento combattentistico esprime il
sentimento popolare molto più che il movimento socialista.
Dopo un intenso dibattito interno i combattenti si presentano alle elezioni
amministrative del 1920 con il simbolo del futuro partito, i quattro mori bendati.
Il I7 aprile 1921, la vigilia delle nuove elezioni politiche, è il giorno in cui
16
ufficialmente nasce il Partito sardo d'Azione.
Mentre la “Voce”, giornale del neo partito, esalta il successo sardista, su
“L’Unione Sarda”, diventata di proprietà dell’ industriale Sorcinelli, sempre più
orientata a destra, Pasquale Marica scrive con senso profetico: <<Il liberismo con
queste ultime elezioni vive la sua ultima ora>>.
In verità l primo episodio dell’azione dei fascisti è già avvenuto ad Iglesias con la
distruzione della casa e del laboratorio del sarto Sebastiano Baldino, nella quale
erano conservate le firme che dovrebbero servire per presentare la lista del
neonato Partito comunista d'Italia. I locali rappresentanti vengono perseguiti
anche dal nuovo sottoprefetto che propugna l’uso della polizia contro il
movimento operaio.
Bisogna evidenziare che nei primi quattro anni del dopoguerra la Sardegna è
sconvolta da diverse crisi agrarie, presenta un bassissimo tasso di crescita della
popolazione, e la forza lavoro è costretta a trovare rifugio nell'agricoltura dopo la
diminuzione dei posti di lavoro nell'industria.
In questo quadro s’inseriscono i disordini, le agitazioni, le violenze verso i
minatori (la violenza squadrista ha ad Iglesias il suo centro più importante)12
.... si può ragionevolmente ipotizzare, forse, che nell'isola il
<<reducismo>>, che costruiva una delle radici del fascismo, fu in gran
parte incanalato nel Psd'A, e dunque anche depurato di tutti gli
elementi di violenza che portò invece con sé nel fascismo. Gruppi di
fascisti (non solo intellettuali, ma certamente nella gran parte
borghesi, anche giovanissimi) nacquero gradatamente in tutta l'isola:
in parte sulla spinta delle condizioni <<tipiche>> cui fa riferimento
Sogtiu [dì attacco della - o per conto della - borghesia alle
rivendicazioni delle classi lavoratrici], in parte per un semplice effetto
di trascinamento della propaganda dell'ideologia del Pnf in ambienti
disponibili a sentirla come propria.
Quello che conta è che forse, senza la preventiva conquista dello
stato, il fascismo non avrebbe avuto vita facile nell'isola, a onta della
crescente aggressività messa in campo nella seconda metà del I922,
supportata anche dal responsabili dell'ordine pubblico e dagli stessi
12 Cfr. Ivi, pagg. 586-620.
17
prefetti. Ma fu solo dopo la marcia su Roma che il fascismo impose in
Sardegna le sue leggi, fece le sue vittime (una guerra civile dopo la
fine della guerra civile sulla penisola), cercò e trovò alleati.13
Il fascismo mette radici in Sardegna solo all'indomani della marcia su
Roma, sotto la spinta del prefetto Asclepia Gandolfo che, inviato da
Mussolini a Cagliari alla fine del 1922, nel giro di pochi mesi riesce a
far confluire nel Pnf una parte molto consistente del Partito sardo
d'azione.14
Le elezioni politiche del 1924 segnano una omologazione solo parziale della
Sardegna al resto dell’Italia poiché il Pnf sardo riesce a far eleggere tutti i suoi
otto candidati ma ottiene solo il 61 per cento dei voti, contro circa il 65 per cento
raggiunto dal “listone” governativo a livello nazionale e a percentuali nettamente
più alte (anche superiori all'80 per cento) nelle altre regioni meridionali. Nel
campo dell'opposizione, resiste il Partito sardo d'azione che riesce a raccogliere il
16 per cento dei voti e a mandare alla Camera due deputati, Emilio Lussu e Pietro
Mastino.
Gli eletti della lista governativa votati nella provincia di Cagliari sono tutti e tre
di provenienza sardista. Giovanni Cao di San Marco, cagliaritano, colui che
aderisce al Pnf sin dal febbraio del 1923, prima che avvenga la “fusione” vera e
propria. Paolo Pili e Antonio Putzolu, invece, confluiscono solo nell'aprile di
quello stesso anno. Entrambi vedono l'adesione al Pnf come un mezzo per
realizzare gli obiettivi del sardismo.
Noi entriamo nel fascismo con piena coscienza - affermava Paolo
Pili all'indomani della <<fusione>>. - Nell'interno del partito
lotteremo per fare ottenere alla Sardegna quelle provvidenze che il
Partito sardo d'Azione ha sempre propugnato e siamo sicuri che la
nostra voce verrà ascoltata, perché il fascismo dimostra come noi di
13 Ivi, pag. 629
14 Cfr. L. Marrocu, Il ventennio fascista, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia . Le regioni dall’Unità ad oggi: La Sardegna, Torino, 1998, pag. 631.
18
volere la distruzione delle consorterie, l'elevazione del popolo, la
rinascita delle forze economiche e sociali del paese, la giustizia per
tutte le regioni e quindi anche per la Sardegna. Noi abbiamo
lungamente patteggiato: spiritualmente siamo con Voi dall'immediato
dopo guerra, anzi dall'intervento. Solo questioni locali ci hanno finora
diviso. Domani tra le tre correnti che compongono il fascismo sardo,
non vi dovrà più essere nessuna differenza, tutti insieme dovremo
combattere per il bene dell'Isola e dovremo stroncare ogni tentativo
begaiolo che tenti di affacciarsi alla già sepolta questione delle origini.
Noi quindi entriamo nel fascismo senza porre condizioni e vi
vogliamo pieno diritto di cittadinanza.
Menzionando <<tre correnti del fascismo sardo>>, Pili vuole indicare, oltre a
quelli che hanno aderito al fascismo prima della “fusione”, i nazionalisti,anch'essi
confluiti in quei mesi nel Pnf, e gli ex sardisti. In effetti, gli organi dirigenti
sembrano riflettere in un primo tempo un preciso equilibrio fra le tre componenti:
una sorta di triunvirato, che tuttavia nulla ha a che fare con i seguaci di
Sorcinelli,.chiamato a reggere il partito nella provincia di Cagliari all'indomani
della “fusione”, di cui fanno parte, con Paolo Pili, Antonello Caprino, il
rappresentante dei nazionalisti e il generale Augusto Zirano, un vecchio iscritto al
partito. Si tratta, tuttavia, di una soluzione provvisoria e nel giugno del 1923 il
generale Gandolfo impone Paolo Pili alla testa della segreteria federale di
Cagliari, mentre Putzolu mantiene il suo posto nel direttorio provinciale e poco
dopo diventa il segretario politico di Oristano.
Pili e Putzolu presentano molte caratteristiche comuni, non ultimo il fatto di
essere originari dallo stesso paese, Seneghe, situato a nord di Oristano, che è
composto da 2500 abitanti. La vicenda politica è preceduta fino ad ora in maniera
assolutamente parallela, a cominciare dalle prime prove nel loro paese
nell’immediato dopoguerra. Appartengono ambedue, per la storia delle loro
19
famiglie, alla ristretta cerchia dei notabili di Seneghe, combattono per
estromettere dal potere che esercita l’estremamente influente sindaco del paese.15
Pili e Putzolu sono i rappresentanti di vertice dell’esperienza “sardofascista”. Gli
danno idee e, soprattutto Pili, incisività. Ci sono fra i due differenze di formazione
e di temperamento. Pili, smessa la divisa, ma non ha mai combattuto in prima
linea, va ad insegnare Scienze nelle scuole superiori della città di Oristano. Ha alle
spalle una formazione da agronomo che lo ha messo in contatto con Sante
Cettolini, vero e proprio ”apostolo” della modernizzazione agraria nella Sardegna
d’inizio novecento. Putzolu ha fatto studi di giurisprudenza e vive durante il
primo conflitto mondiale l’epopea della Brigata Sassari. Mentre Pili mostra da
subito le qualità dell’organizzatore politico e del trascinatore di folle, Putzolu è
invece una persona quasi schiva, con i tratti dell’intellettuale.
Già negli anni della appartenenza al Partito sardista Pili e Putzolu mettono a
punto una variante dell’idea dell’ autonomia dell’isola basata sul primato
dell’economia sulla politica. <<L’autonomia va realizzata nel campo economico,
prima che nel campo politico medesimo>>, ha scritto nel 1922 Antonio Putzolu.
Ciò significa impedire all’<<industrialismo settentrionale>>, che <<protende i
suoi mille tentacoli sull’Isola>>, di continuare la sua opera di spoliazione della
Sardegna. Il linguaggio è, quello del liberismo meridionalista, con una particolare
enfasi sul fatto che solo quando le sue <<classi produttrici>> si saranno liberate
dall’abbraccio soffocante dei monopoli la Sardegna potrà compiere il suo
cammino verso l’autonomia. Prima di allora <<si potrà avere una forma, cioè una
struttura autonomistica, non mai l’autonomia, che significa capacità di fare, di
governarsi da sé in libertà, cioè senza soggezioni o schiavitù opprimenti e
pericolose>>.
Affermazioni di questo tipo vengono riprese da Pili e Putzolu nel corso della loro
scalata ai vertici del Pnf. Affermazioni che sono il marchio di fabbrica della
15 Ivi, pagg. 645-646.
20
retorica “sardofascista”. Non pare dunque di poco rilievo il fatto che la più
importante iniziativa presa da Pili nei suoi tre anni e mezzo come “federale” di
Cagliari consista appunto in un tentativo di riorganizzare dal basso l’attività delle
“classi produttrici” sarde. È anche vero che la vicenda della Fedlac (Federazione
delle latterie cooperative sociali della Sardegna) – sino alla conclusione, con la
sconfitta personale di Paolo Pili – si svolge tutta all’insegna del primato della
politica.16
Paolo Pili viene costretto alle dimissioni da segretario federale il 14 novembre del
1927, per essere pochi giorni dopo sospeso dal partito e poi esserne espulso nel
1930. Il suo, insomma, non è un graduale scivolare dietro le quinte ma un crollo
repentino. Nel frattempo la Fedlac e la Sylos stanno dando evidenti segnali di
crisi, sia perché subiscono i primi effetti della scelta deflazionistica del governo
sia perché sottoposte all'offensiva dei nemici di Pili. Questa offensiva dal 1927
inizia a manifestarsi anche legalmente e amministrativamente.
Inquadrabile nel processo di normalizzazione che investe tutto il paese, e che si
sostanzia nella marginalizzazione dei capi, in quanto espressione dei partiti
“locali”, quella di Pili appare come la sconfitta, in fondo prevedibile, di un leader
politico troppo dinamico e intraprendente per risultare adatto alla nuova fase. Su
un piano regionale, tuttavia assume significati ancora più profondi, in quanto
mette brutalmente fine all'esperienza del sardofascimo. In questo contesto, la
forma drammatica dell'estromissione del “federale” risponde allo scopo di
sottolineare la discontinuità rispetto al recente passato del fascismo cagliaritano,
così alla sua matrice sardista come alle sue velleità riformiste. La più grave accusa
che si muove a Pili, e a cui altri ex sardisti riescono abilmente a sottrarsi, è in
fondo quella di costituire un simbolo troppo visibile e ingombrante di quel
passato. È quanto nota, con il solito acume Antonio Gramsci, che dopo aver
guardato con estremo interesse alla nascita della Fedlac, ne segue ora, dal carcere,
16 Ivi, pagg. 647-648.
21
la crisi che la sta conducendo alla sua fine:
Quando c'è un contrasto profondo di interessi materiali - scrive al fratello
Carlo nel marzo 1929 - nessuno dei due contendenti proclama di lottare per
un interesse materiale: cerca delle bandiere il più possibile disinteressate, dei
principi astratti sulla civiltà sul popolo, sull'avvenire della storia, eccetera,
eccetera (...) Così immagino sarà avvenuto tra Pili e Putzolu, se tra loro c'è
stata una polemica pubblica. Il fatto è che io, [che] non potevo seguire questi
avvenimenti, all'ingrosso li ho indovinati, perché mi basavo su ciò che
rappresentava Pili e sulle ripercussioni che la sua attività avrebbe avuto e
sulla colossale forza che gli si opponeva, che certamente non poteva
rimanere inerte a contemplare la sua progressiva rovina. Mi pare che la
sconfitta di Pili sia la sconfitta decisiva del Psd'A, che Pili cercava di
acclimatare nelle nuove forme politiche attualmente dominanti: cosa di cui
non ho mai dubitato.17
Sì conclude con la “conquista” dell’Unione Sarda il lungo periodo di dinamica
turbolenza della stampa cagliaritana, iniziato nel 1920 con l'acquisto di quello
stesso giornale da parte di Ferruccio Sorcinelli. Strappando “L'Unione” alla
sonnacchiosa e pluridecennale routine di <<primo elettore di Cocco Ortu>>,
Sorcinelli aveva intaccato in un punto strategico i tradizionali equilibri politici
cittadini. Ne era uscita ulteriormente rafforzata la leggenda nera di Sorcinelli
quale avventuroso affarista, teso alla conquista di posizioni di forza dalle quali
ottenere indebiti vantaggi per le sue iniziative imprenditoriali. In realtà, nella sua
multiforme attività di finanziere-imprenditore, di editore e di uomo politico,
Sorcinelli aveva interpretato, con particolare disinvoltura, una tendenza generale
dei gruppi finanziari a intervenire più direttamente nei luoghi di formazione
dell'opinione pubblica.
Indicativa a questo riguardo la vicenda del giornale dei social-riformisti sardi, “Il
Risveglio dell'Isola”, che nell'immediato dopoguerra, prima ancora di essere
oggetto delle attenzioni di Sorcinelli, era finito sotto il controllo di un gruppo di
imprenditori facenti capo alla Banca Commerciante Italiana. E in parte lo stesso
gruppo (con l'aggiunta di alcuni nomi di spicco dell'imprenditoria e del
17 In G. Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la Questione sarda, Cagliari, 1975, pagg. 258-259.
22
commercio cagliaritani: Dino Devoto, Sabatino Signorello, Natale Ilario) che
ritroviamo tra i finanziatori del “Giornale di Sardegna”, l'organo di stampa voluto
da Gandolfo e Pili per contrastare “L'Unione Sarda” all'epoca in cui il quotidiano
cagliaritano si è fatto portavoce della dissidenza sorcinelliana. A presiedere il
consiglio di amministrazione del “Giornale di Sardegna” - che si presenta come
organo ufficiale della federazione fascista ed è diretto da Paolo Pili - viene
chiamato l'avvocato Antonio Pierazzuoli, già direttore della Cassa ademprivile di
Cagliari e <<nittiano sfegatato>> come lui stesso sino a poco tempo prima ha
amato definirsi, ma ancora più notevole è il fatto che dietro Pierazzuoli (così come
dietro altri due finanziatori del quotidiano, gli ingegneri Dionigi e Stanislao
Scano) vi sia Giulio Dolcetta.
Dolcetta è un ingegnere veneto, arrivato a Cagliari nel 1917 per assumere la
diretta conduzione delle due imprese, la Società Elettrica Sarda e la Società per le
Imprese idrauliche ed elettriche del Tirso, a cui Commerciale e Bastogi affidano,
da quando fra il 1912 e il 1913 le hanno costituite, i loro progetti d'intervento
nell'isola. L'interesse della holding elettrofinanziaria a investimenti in Sardegna
nel campo delle costruzioni idrauliche e della produzione e distribuzione
dell'energia elettrica è stimolato dai larghi finanziamenti pubblici a cui la
legislazione speciale d'anteguerra dà accesso. Giulio Dolcetta, che gode di un
mandato molto ampio da parte dei vertici della Comit, si applica al suo compito
con un preciso disegno strategico. Progetta di dar vita a una serie di grandi opere
che facciano fare un decisivo passo in avanti alle infrastrutture dell'isola. Così
nasce nel 1918 la Società Bonifiche Sarde, alla cui iniziativa si dovrà negli anni
successivi la bonifica dello stagno di Sassu e la nascita di Mussolinia. Ad essa
fanno seguito nel 1920 la Fabbrica Cementi Portland e la Società Sarda di
Costruzioni. Se si tiene presente che il gruppo ha da tempo il controllo della
Ferrovie Complementari Sarde, sarà chiaro come Dolcetta si trovi al centro di
un'amplissima rete di attività e di interessi che, muovendo dal settore idroelettrico,
si dirama verso le costruzioni, i trasporti, l'agricoltura.
Il problema che Dolcetta tenta di risolvere è quello dell'utilizzazione della grande
23
quantità di energia elettrica che il completamento della diga sul Tirso mette a
disposizione. Così non solo la Tirso cede alla consorella Elettrica Sarda tutta
l'energia prodotta, ma le affida la relativa attività di distribuzione e trasporto. A
valle dell'iniziativa madre prende vita tutta una serie di intraprese, fra cui a
Cagliari lo stabilimento cementifero di Santa Gilla, che fa capo alla Cementi
Portand e si avvale di un forno rotante azionato elettricamente capace di produrre
80 tonnellate di cemento al giorno. Frutto dell'attivismo di Dolcetta (anche se la
proprietà sarà per due terzi della Montecatini) è, nel 1924, la Società Sarda
Ammonia e Prodotti Nitrici il cui stabilimento di Oschiri posto a valle del nuovo
impianto elettrico del Coghinas è attrezzato per la produzione di ammoniaca
sintetica. Dolcetta coinvolge la Montecatini anche nella Società Anonima
Industrie Minerarie Sarde, che ha come scopo il trattamento dei minerali piombo-
zinciferi.
Rappresentante di un potere finanziario del tutto esterno alla Sardegna, Dolcetta è
perfettamente conscio dei pericoli che possono venire alla sua attività dall'ostilità'
dell'ambiente sardo: fa quindi di tutto per coinvolgere nei suoi progetti la parte più
dinamica e ricettiva dell'imprenditoria locale. Gli facilitano il compito alcune
figure chiave dell'ambiente finanziario cagliaritano (Gracco Tronci, i fratelli
Dionigi e Stanislao Scano) che già nell'anteguerra hanno fatto da battistrada
all'ingresso della Banca Commerciale nell'isola. Dolcetta non si limita ad affidare
ai suoi interlocutori cagliaritani importanti compiti di progettazione, per esempio
allo studio d'ingegneria che fa capo a Dionigi Scano toccano quelli relativi alla
bonifica dello stagno di Sassu, ma li chiama a far parte dei consigli
d'amministrazione delle società che controlla. Se gli industriali cagliaritani sono
presi, in questi primi anni Venti, da un inusuale fervore di idee e progetti, molto si
deve all'attivismo di Dolcetta. Il fatto che nel 1925 venga chiamato alla presidenza
della neocostituita Unione provinciale degli industriali costituisce la sanzione
ufficiale del ruolo dominante del <<Gruppo Tirso>> (come viene chiamato
l'insieme delle società controllate da Dolcetta), ma anche il sintomo del suo
perfetto acclimatamento nell'ambiente imprenditoriale cagliaritano.
24
Quanto alle relazioni che intrattiene con le gerarchie del Pnf, lo troviamo tra i
finanziatori del “Littore sardo” e presente, più tardi, nel consiglio
d'amministrazione del “Giornale di Sardegna”. Fonti interne al Pnf parlano di
Dolcetta come di un finanziatore occulto di Paolo Pili, ma da ciò non deriva un
suo reale coinvolgimento nelle lotte interne al fascismo. Nelle concitate vicende di
questi anni, in effetti, non mostra una particolare simpatia né per i sorcinelliani né
per il “sardofascimo”. L'atteggiamento del Gruppo Tirso è espresso perfettamente
da uno dei cagliaritani più vicini a Dolcetta, Dionigi Scano, quando auspica
<<che, data la gravità del momento, il grande partito liberale modificato possa
fare risorgere rinnovato romanamente nei Fasci>>.18
18 Marrocu, Il ventennio, cit., pagg. 655-657.
26
2. 1 Le Società di Mutuo Soccorso
Tra il Settecento e l’Ottocento assistiamo alla nascita e allo sviluppo dei processi
d’industrializzazione, che portano a uno sconvolgimento dell’assetto economico e
sociale esistente.
Le nuove strutture economiche e sociali, il fenomeno dell’inurbamento, i bassi
livelli salariali rendono impossibili e inadeguate le tradizionali forme di
assistenza. Non esistendo una legislazione sociale che superi questi inconvenienti,
si consente all’impresa industriale di acquisire la forza lavoro necessaria al prezzo
più basso, senza alcun obbligo di tutela verso gli operai.
Lo Stato, adottando una politica di un liberismo economico assoluto, è di fatto
uno stato assenteista, uno Stato che si limita a riconoscere l’uguaglianza giuridica
formale degli individui, senza mettere in campo alcun intervento volto ad
eliminare le disuguaglianze sociali esistenti. I governanti ritengono che a regolare
la vita economica e sociale siano sufficienti le leggi economiche e di mercato e
che i lavoratori debbano provvedere da sé a risolvere i propri problemi. In tale
contesto la solidarietà tra i lavoratori assume caratteristiche diverse rispetto a
quelle precedenti, strutturate intorno alle corporazioni, e le prime forme
associative della classe operaia sono le Società di Mutuo Soccorso che nascono
con funzione previdenziale.
Si tratta di organizzazioni volontarie di lavoratori, quasi sempre appartenenti ad
una stessa categoria, che si tassano di una piccola quota mensile, con la quale
costituiscono un fondo comune da cui attingere per concedere aiuti di vario tipo, a
seconda degli scopi sociali previsti negli statuti. Si vuole così eliminare il rischio
della fame e della miseria in caso di disoccupazione, malattia, infortunio,
invalidità e vecchiaia. Inoltre in caso di decesso alle famiglie vengono elargiti
aiuti per le far fronte alle spese funebri.
In Sardegna il problema di garantire la mutua e reciproca assistenza tra gli operai
si pone più tardi rispetto resto d’Italia; molto più lenta è infatti la trasformazione
dell’economia dalla forma rurale e artigianale a quella industriale.
27
Fino alla metà dell’Ottocento, infatti, l’assistenza degli indigenti e degli infermi è,
almeno in parte, garantita dalle numerosa presenza di Confraternite ed
Arciconfraternite. Buona parte di esse provvedono, oltre che al culto ed esercizio
di particolari pratiche pie, anche all’assistenza dei confratelli infermi, delle
vedove e degli orfani dei defunti.
I lavoratori sono a loro volta riuniti negli antichi Gremi o corporazioni di arti e
mestieri. I gremi sono allo stesso tempo associazioni religiose e corporazioni per
la difesa degli interessi di una categoria di lavoratori, e leghe di mutua assistenza
e previdenza fra i loro componenti.
Presenti in un primo momento solo nelle città più popolose, nascono
spontaneamente fra coloro che esercitano un mestiere o mestieri simili. Il gremio
impone regole severe per poter svolgere un’ attività artigianale, controllando la
qualità del prodotto e stabilendone il prezzo. Il mestiere si può esercitare solo
dopo un lungo periodo di apprendistato presso un maestro e il superamento di un
difficile esame.
Gli artigiani che non seguono le norme stabilite dal Gremio sono soggetti a
sanzioni pecuniarie di rilevante entità. Una severità esercitata per difendere la
categoria dei lavoratori che l’organizzazione rappresenta.
Il gremio concede l’assistenza, in caso di necessità, ai soci e alle loro vedove e ai
loro figli e garantisce una dignitosa sepoltura nella tomba dell’associazione ai
propri defunti.
Nei loro statuti sono indicati spesso precise norme che impongono impegni e
doveri di mutua e reciproca assistenza tra gli iscritti e speciali interventi in favore
dei soci infermi, o che si trovano in particolari situazioni di bisogno.
Come già detto i gremi presentano anche un carattere religioso e gli associati
devono attenersi scrupolosamente ai principi cristiani nel condurre la loro
esistenza. Di particolare importanza sono le regole dettate per i comportamenti
all’interno della famiglia e verso gli altri associati; è dovere dei soci partecipare
alle solennità religiose, alla festa del Santo Patrono, alla cura della cappella dove
vengono sepolte le salme dei membri delle corporazioni e dei loro familiari.
28
Il sistema in cui agiscono i gremi entra in crisi con il diffondersi delle idee di
libertà sostenute dalla rivoluzione francese.
Bisognerà tuttavia attendere il 1844 perché siano abolite le funzioni
monopolistiche delle corporazioni e stabilita la volontà da parte dei lavoratori di
far parte del Gremio o di esserne esentati, (la sopravvivenza delle corporazioni
viene prorogata a condizione che queste si trasformino in confraternite
devozionali, limitate a servizi di religiosità, di carità, di beneficenza).
Quell’anno entra in vigore lo Statuto Albertino che all’art.32 concede la libertà di
associazione, lasciando aperte altre vie che consentono lo strumento della
solidarietà tra i lavoratori.
La fine all’esistenza di queste organizzazioni è stabilita dalla legge del 29 maggio
1864, con la quale si decreta la soppressione definitiva delle corporazioni e dei
gremi.
Anche in Sardegna i lavoratori vengono così affrancati dai vincoli corporativistici,
anche se, per contraltare, perdono la possibilità del soccorso vicendevole.
In alternativa viene seguito l’esempio degli artigiani e dagli operai del continente
che si sono riuniti in Società di Mutuo Soccorso, le quali hanno per statuto
l’unione, la fratellanza, l’assistenza e come fine il benessere morale e materiale
dei soci .
La prima Società di Mutuo Soccorso in Sardegna è fondata a Sassari il 25 maggio
del 1851.19
Qualche anno più tardi un’altra società viene costituita a Cagliari.20
Tra il 1851 e il 1861 ne vengono fondate quattro, costituenti meno dell’1 per
cento di quelle sorte fino al 1862 nel territorio del nascente regno d’Italia.
19 Cfr. C. Ferrai (a cura di), La Società di mutuo soccorso tra passato e presente. Impegno e ruolo delle SMS sarde nel contesto dell’evoluzione sociale in Italia, in Sardegna, in Europa, Cagliari, 2002,pagg. 41-45.
20 Ivi, pag. 57.
29
Nonostante il loro limitato numero, queste società riescono a liberare gli operai
dall’asfissiante tutela delle corporazioni e da quella delle varie autorità
ecclesiastiche.21
Le società di Mutuo Soccorso sarde si danno un’organizzazione su base
territoriale e, solo nei centri più popolosi, si differenziarono per categorie
professionali.
Sul piano strettamente mutualistico ai soci vengono garantiti diversi vantaggi: il
socio che si ammala ha diritto al medico, alle medicine e ad un sussidio
giornaliero per inabilità; in quasi tutti gli statuti sono inoltre stabiliti contribuiti
per le spese funebri e sussidi straordinari per i soci che cadono in stato di
necessità.
Se l’ente possiede una tomba sociale gli aderenti hanno il diritto di esservi sepolti,
e il defunto è accompagnato alla sua ultima dimora dagli associati.
Ai soci “non morosi e di indubbia moralità” viene concessa la possibilità di
ottenere dei prestiti.
Molte Società rivolgono particolare attenzione al settore dell’istruzione; vengono
retribuiti degli insegnanti, si tengono conferenze e dibattiti organizzati dai soci
onorari o da illustri personaggi.
Le entrate delle Società di Mutuo Soccorso sono costituite essenzialmente dalle
contribuzioni dei soci, in misura minima invece beneficiano delle liberalità di
filantropi. Altri proventi derivano dagli interessi sul capitale prestato ai soci e,
seppure in misura minore, dagli interessi su depositi bancari.
È prevista una tassa di ammissione, che varia da un minimo di tre a un massimo di
cinque lire. Le Società più accorte differenziano le tasse di ammissione e i
contributi a seconda dell’età: più si è anziani, maggiore è la somma da versare.
21 G. Tore, Dai germi alle società di mutuo soccorso (1848 – 1870), in A. Mattone (a cura di), Corporazioni, Gremi e Artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel medioevo e nell’età moderna (XIX – XIX secolo), Cagliari, 2000, pagg. 691-692.
30
Le principali voci di spesa sono costituite dall’assistenza medica e dagli stipendi
al personale.
Nella Società di Sassari il medico viene nominato per la prima volta il 12
Settembre 1853, insieme ad un medico chirurgo ed ad un farmacista. La nomina
segue una procedura particolare, nella quale prima il medico propone il proprio
progetto di lavoro alla società, contenuto in una busta chiusa e sigillata, che poi
viene aperta e letta dal segretario della società. Sulla base di tale progetto il
medico viene o meno eletto dall’assemblea della questione in merito –ovvero
sulla nomina di un medico sociale, di un chirurgo e di un farmacista- assentita
dall’assemblea, il Presidente esibisce le sommissioni fatte alla società dal Dott.
Medico collegiale Sig. Pasquale Umana, dal Dott. Chirurgo Sig. Diego Sassu,
debitamente chiuse e sigillate, dopo vengono aperte e poi lette dal segretario,
quindi vengono messe ai voti e infine eletti all’unanimità di suffragio con
assegnazione di un assegno di 150 lire da pagarsi per ogni semestre esercitato..
Le decisioni vengono prese dalla società costituita in assemblea generale e
presieduta dal presidente o da uno dei due vicepresidenti, che sono eletti dalla
stessa assemblea.
Il consiglio d’amministrazione composto in genere dai consiglieri effettivi e 2
supplenti, affianca il presidente nella propria attività.
Negli Statuti è in genere prevista la nomina di una commissione di probiviri e di
un comitato di sindaci.
La commissione di probiviri ha il compito di esaminare e
risolvere in via conciliativa qualunque vertenza si presenti nella società e di
stabilire le espulsione dei soci. Le sue decisioni sono indiscutibili.
I soci si dividono in soci effettivi, soci benefattori e soci onorari; i soci effettivi
sono generalmente di sesso maschile; con un’età tra i 18 e i 50 anni e devono
esercitare un’ottima condotta morale e civile ed essere dichiarati di sana e robusta
costituzione fisica quando vengono visitati dal medico sociale.
Le Società di Mutuo Soccorso nascono in gran numero alla fine dell’Ottocento,
costituendo un primo strumento di previdenza sociale.
31
La maggior parte di queste subiscono una battuta d’arresto nel ventennio fascista.
Molte vengono commissariate, le loro sedi diventano oggetto d’ordini di rilascio
da parte delle amministrazioni comunali22.
22 La Società, cit., pagg. 48-50.
32
2.2 Le cooperative: inizi e affermazione nei principali stati europei
Il movimento cooperativo in Italia nasce sulla base dei modelli europei, come
organizzazione imprenditoriale alternativa all’impresa privata, nella quale gli
scopi di natura “sociale” sono strettamente collegati a quelli produttivi.
L’idea originaria della cooperazione si basa sull’unione delle forze per il
raggiungimento di comuni obiettivi di promozione economica e sociale, sulla
responsabilità di gruppo nei confronti del lavoro, sul senso di dignità e dell’azione
civile, sul vantaggio dell’impresa cooperativa rispetto ad altre forme di impresa
per certi tipi di prodotti e servizi.23.
Nel corso della prima metà dell’Ottocento, in diverse aree e paesi dell’Europa,
iniziano a svilupparsi alcune importanti esperienze cooperative che assumono in
breve le caratteristiche di veri e propri modelli organizzativi, ciascuno dei quali è
imperniato su di un determinato settore della vita economica. A quelle esperienze
il movimento cooperativo italiano, consolidatosi successivamente, si ispirò in
misura diversa.
La cooperazione, come forma di autogoverno economico e sociale da parte dei
lavoratori, per il perseguimento e la realizzazione di comuni aspirazioni ed
obiettivi, nasce in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo. L’impatto sociale
delle grandi trasformazioni economiche connesse all’industrializzazione sulle
classi lavoratrici inglesi si manifesta in modo drammatico in certe aree del paese,
in particolare nel Lancashire, il principale distretto cotoniero dell’Inghilterra.
Manchester, il capoluogo del Lancashire, per effetto della presenza sul territorio di
numerose industrie tessili e meccaniche ha conosciuto una crescita demografica
rapidissima: da 25.000 abitanti, alla metà del Settecento, la sua popolazione
raggiunge le 300.000 unità solo un secolo dopo. Questa enorme e drammatica
espansione è avvenuta in assenza di un’ appropriata regolamentazione ed ha finito
23 M. Fornasari e V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia – Un profilo storico-economico (1854-1992), Firenze, 1997, pag. 5.
33
per compromettere le condizioni igenico-sanitarie di gran parte della popolazione
urbana, che presenta tassi di mortalità elevatissimi. Anche alcune categorie di
lavoratori, più legate al tradizionale modo di produrre, subiscono i contraccolpi
della meccanizzazione del processo di produzione. I tessitori a mano in particolare
rappresentano una categoria di lavoratori destinata a ridursi drasticamente con la
diffusione dei telai meccanici: è stato calcolato che alla metà del secolo i loro
salari avevano già subito una contrazione del 25% rispetto ai primi dell’Ottocento.
Non è un caso che proprio da tale categoria di lavoratori prende avvio il tentativo
di dar vita alla prima associazione cooperativa di consumo. Protagonisti
dell’iniziativa sono 28 tessitori di Rochdale, un importante e popoloso centro
agricolo e industriale a nord di Manchester, che nel 1854 fondano uno spaccio
cooperativo. La caratteristica dello spaccio, la cui creazione rappresenta uno solo
degli obiettivi del più ampio programma che i cooperatori inglesi hanno realizzato
e intendono attuare, consiste nella vendita ai soci di generi di prima necessità a
prezzi di mercato; gli eventuali utili dell’attività distributiva saranno distribuiti tra
gli stessi, in proporzione all’entità degli acquisti operati. I soci hanno inoltre il
diritto di esprimere un unico voto individuale per l’elezione dell’organismo
amministrativo della cooperativa.
L’iniziativa dei “Probi pionieri di Rochdale”, come vennero successivamente
chiamati nella letteratura cooperativa internazionale i 28 cooperatori inglesi, si
inserisce in un contesto caratterizzato da mutamenti economici e sociali epocali,
cui non fu facile in un primo momento da parte delle classi lavoratrici reagire
costruttivamente. A partire dall’inizio del secolo fra le prime organizzazioni di
autodifesa dei lavoratori vanno annoverate le Friendly Societies, embrionali
società di mutuo soccorso tra i lavoratori. Da esse nascono in un secondo
momento le associazioni cooperative; in molti casi questo rapporto di filiazione
risulta evidenziato dalla denominazione di queste ultime, in cui continuava a
34
comparire il termine friendly.24
Se L’Inghilterra può considerarsi la patria della cooperazione di consumo, pur con
alcune cautele, si può affermare che in Francia nascono invece le cooperative di
produzione. Forme di collaborazione tra capitale e lavoro vengono
originariamente sostenute dal conte di Saint-Simon, del quale è noto l’entusiasmo
con cui si fa paladino dello sviluppo industriale come mezzo di elevazione delle
classi povere, influenzando il pensiero e l’azione di molti pensatori, anche al di
fuori dei confini francesi. Saint-Simon dedica particolare cura anche alle
istituzioni sociali il cui scopo principale è l’accrescimento del benessere dei
lavoratori. Tra queste istituzioni egli ritiene decisivo il ruolo svolto da forme di
associazione e cooperazione tra i ceti produttori, tramite le quali i nuovi ceti
avrebbero prevalso definitivamente sui vecchi ceti sociali legati alla rendita
agraria e finanziaria, creando nel contempo un argine al disordine del primo
capitalismo.
Critico nei confronti del produttivismo del conte di Saint-Simon, Charles Fourier,
noto come l’ideatore del falansterio, una sorta di organismo comunitario
autarchico, ne riprende tuttavia i concetti di armonia e conciliazione. Nell’ambito
di tale riflessione, egli formulò il progetto di creazione di comptoirs commanaux,
casse comuni costituite tra gli agricoltori, che devono distribuire ai soci i mezzi di
produzione necessari, fornirli di eventuali anticipi sulle vendite dei prodotti e
conservare questi ultimi in appositi magazzini. Si tratta di istituti confacenti alla
struttura economica della Francia, caratterizzata dalla larghissima diffusione della
piccola proprietà terriera a conduzione diretta, che opera spesso in condizioni di
arretratezza tecnica.25
Casse rurali e banche popolari che presentano una diffusione pressoché
universale, vengono sperimentati per la prima volta nella Confederazione
24 Ivi, pagg. 9-12.
25 Ivi, pagg. 13-14.
35
germanica. Nel 1840, il tedesco Friedrich Wilhelm Raiffeisen dà vita ad
Anhausen, un piccolo comune della valle del Reno, alla prima forma di Società
cooperativa di Credito rurale, istituendo una cassa rurale con caratteristiche
peculiari che si sarebbero conservate nel tempo: la ristretta sfera d’azione
dell’istituto, estesa al massimo ad un paio di villaggi; la responsabilità illimitata
dei soci, i soli a beneficiare dell’attività di credito; i tenui tassi di interesse
praticati; il carattere popolare dell’azionariato. Queste caratteristiche riflettono le
prevalenti condizioni agrarie di molte regioni tedesche, in particolare di quelle ad
ovest del fiume Elba, dove più diffusa è la piccola e media proprietà contadina,
alla quale i nuovi istituti di credito intendono fornire un supporto economico.26
Benché meno nota rispetto alle esperienze che connotarono lo sviluppo del
movimento cooperativo in Gran Bretagna, Francia e Germania, verso la fine
dell’Ottocento si diffonde in Danimarca una peculiare forma di impresa
cooperativa, legata alla trasformazione dei prodotti dell’allevamento zootecnico,
che non solo ha una rapidissima diffusione, ma contribuisce in modo determinante
alla crescita economica del piccolo paese scandinavo.27
Il seme della cooperazione viene gettato dal teologo e vescovo luterano N.F.S.
Gründtvigts (1783-1872) - personalità di spicco nella storia della chiesa
protestante di Danimarca e autore dell’inno nazionale – il quale sollecita gli
agricoltori della sua diocesi alla promozione di cooperative agricole e di scuole
popolari. La formazione di capitale umano, decisiva nel processo di sviluppo
economico di un paese, è enormemente agevolata dalla diffusione di tali istituti:
insieme all’attività di formazione svolta dalle scuole professionali superiori, che
sensibilizzano i giovani agricoltori al progresso e alle innovazioni tecniche, essi
26 Ivi, pag. 17.
27 Ivi, pag. 19.
36
permettono alla Danimarca di ottenere un’imprevedibile successo economico, che
fa di essa la <<fattoria d’Europa>>.28
28 Ivi, pag. 20.
37
2.3 La cooperazione in Italia
Il movimento cooperativo italiano muove i primi passi nel Regno di Sardegna
durante gli anni Cinquanta del XIX secolo. Nel 1854 viene infatti creata a Torino,
per iniziativa dell’Associazione generale degli operai della città, la prima
cooperativa di consumo, sotto forma di un <<comitato di previdenza>>. Due anni
più tardi, nel 1856, ad Altare, un piccolo centro in provincia di Savona, sorge la
prima cooperativa di produzione tra i lavoratori dell’arte vetraria. Come era
avvenuto in Inghilterra, la nuova forma di associazionismo popolare risulta
strettamente collegata alle società di mutuo soccorso. Nel primo caso il magazzino
di previdenza nasce dal seno dell’Associazione dei lavoratori torinesi, costituitasi
nel 1850 tra le diverse società operaie della capitale del regno sabaudo; nel
secondo, è la stessa cooperativa di Altare a dare vita, in un successivo momento,
ad una società di mutuo soccorso tra i lavoratori vetrai.
Questa localizzazione geografica dipende da numerose circostanze, a partire dalla
più favorevole legislazione vigente nel Regno piemontese. Lo Statuto albertino,
emanato nel marzo del 1848 e rimasto in vigore anche dopo il fallimento dei
rivolgimenti di quell’anno, concede, in base all’articolo 32, la libertà di
associazione e di riunione.
L’assenza di una legislazione sociale, l’indebolimento del tradizionale apparato
ecclesiastico, colpito dalle leggi Siccardi del marzo del 1850, l’avvio di
trasformazioni economiche aperte ai nuovi sviluppi industriali e le conseguenti
difficoltà delle lavorazioni e dei mestieri tradizionali, sono elementi che
contribuiscono al consistente sviluppo delle società operaie di mutuo soccorso
durante il decennio pre-unitario.29
Il nuovo Codice di commercio, approvato nel 1882 dopo una lunga gestazione,
riserva alle imprese cooperative la VII sezione del titolo IX del I libro. Se per i
principali adempimenti societari – dalla formalizzazione degli atti fondativi alla
29 Ivi, pag. 21.
38
redazione dei bilanci e così via - il Codice si limita ad assimilare le società
cooperative a quelle anonime, riserva loro tuttavia un trattamento particolare in
relazione al mantenimento di una effettiva uguaglianza tra i soci e alla
pubblicazione degli atti societari. Nel primo caso la nuova normativa commerciale
attribuisce ai soci un voto a ciascuno, impedisce la vendita delle azioni senza
l’approvazione dell’assemblea e impone precisi limiti al possesso di azioni
individuali; nel secondo il Codice stabilisce l’esenzione delle società cooperative
dal pagamento delle tasse di registro e di bollo. Sebbene sottoposta a numerose
critiche, tra le quali quella di non aver attribuito un rilievo autonomo alle società
cooperative, disconoscendone in sede giuridica la specificità dei valori costitutivi,
la nuova legislazione commerciale stabilisce la presenza nella società italiana
dell’associazionismo economico, divenuto ormai un fatto irreversibile.30
In Italia si afferma definitivamente il movimento cooperativo durante i due
decenni che separano l’avvio della crisi agraria, - iniziata in Europa sin dal 1873,
e in Italia a partire dai primi anni Ottanta, - dal tentativo illiberale di fine secolo di
soppressione delle garanzie costituzionali intrapreso dal di Rudinì. Durante quel
ventennio s’assiste allo sviluppo del fenomeno cooperativo in tutti i settori della
vita economica, al nascita di un’organizzazione centrale delle cooperative, con
l’ideale di eseguire un’azione di ordinamento a livello nazionale fra tutte le
società aderenti, e, infine, all’inclusione del movimento cattolico nella
cooperazione, con proprie specifiche organizzazioni.31
Non tutte le cooperative riescono ad aggiudicarsi appalti di lavori pubblici per
grandi somme sebbene l’importante provvedimento legislativo, approvato l’11
luglio 1889, tenda a favorire le cooperative di produzione e lavoro, alle quali
permette l’assegnazione di lavori pubblici, sino a un importo di 100.000 lire. In
particolare è l’articolo 4 del nuovo dispositivo legislativo a permettere di stipulare
30 Ivi, pag. 39.
31 Ivi, pag. 41.
39
a licitazione e a trattative private contratti per l’appalto di lavori con associazioni
cooperative di produzione e lavoro, legalmente costituite tra operai, purché il
lavoro non superi le lire 100.000 di valore, e riguardi appalti nei quali il valore
della mano d’opera fosse la voce più rilevante fra tutte quelle del capitolato..
Ma spesso è la difficoltà di mettere insieme il capitale di partenza a risultare di
difficile realizzazione per i soci, spesso provenienti dai ceti sociali più bassi,
cosicché quella che sulla carta sembra come un provvedimento a favore delle
cooperative produce risultati inizialmente minimi.32
I consorzi agrari, nascono con lo scopo di acquistare in comune sementi, piante
foraggere e attrezzature agricole. La loro istituzione fu anticipata dalle
associazioni agrarie e dalle unioni di agricoltori, costituitesi sin dagli anni
successivi all’unificazione. I primi Consorzi nascono in Valpadana sul finire degli
anni Ottanta: la loro formazione, sostenuta dai grandi, ma anche dai medi e piccoli
proprietari fondiari, è legata in particolare all’utilizzo dei concimi chimici, che
possono essere di rilevante utilità per il progresso agricolo. Dall’iniziale attività di
acquisto in comune di prodotti e macchinari utilizzati per le aziende agrarie, i
Consorzi, che già nel 1892 nel corso del congresso svoltosi a Piacenza danno vita
ad una Federazione unitaria a livello nazionale, passano alla vendita dei prodotti,
all’esercizio del credito agrario, alla formazione di magazzini generali, alla
promozione dell’istruzione professionale e ad altre svariate attività a sostegno
dell’agricoltura.33
Il fervore di iniziative nei diversi settori della cooperazione che caratterizza gli
anni Ottanta si accompagna da un lato ad un crescente interesse da parte di alcuni
ambienti culturali e accademici verso il fenomeno cooperativo e dall’altro culmina
nella costituzione, avvenuta nel 1886, della Federazione nazionale delle
32 Ivi, pag. 47.
33 Ivi, pag. 49.
40
cooperative, che cinque anni più tardi, nel 1893, sarebbe diventata la Lega
nazionale delle società cooperative italiane.34
Grazie alla Lega, il movimento cooperativo italiano continua a tessere intensi
rapporti con le organizzazioni cooperative europee, delle quali intende imitare le
principali esperienze organizzative. Tali rapporti culminano nell’importante
contributo offerto dai suoi dirigenti alla fondazione dell’Alleanza cooperativa
internazionale che si realizza a Londra nell’agosto del 1895. Ad eccezione della
componente cattolica, il movimento cooperativo italiano si presenta unitariamente
ad un appuntamento che doveva risultare decisivo per l’avvenire della
cooperazione mondiale
La nuova Alleanza rappresenta la definitiva consacrazione dell’internalizzazione
del “fatto cooperativo”, la cui capacità di intervento nelle singole economie
nazionali era ormai un dato di fatto.
A cavallo degli anni Ottanta e Novanta anche i cattolici, ai quali il non expedit di
Pio IX impediva la partecipazione alla vita politica del paese, avviano un più
ampio ed incisivo intervento nella sfera sociale. Esso dipende in parte dal
tentativo di contrastare la crescente influenza esercitata dai socialisti sul
proletariato rurale e urbano, ma soprattutto dall’aspirazione a far emergere il
proprio specifico orientamento di pensiero e di programma nei riguardi di quella
che i contemporanei consideravano la questione del secolo: la “questione
sociale”.35
L’associazionismo e il solidarismo cattolici trovano un fertile terreno di fioritura
soprattutto nel settore del credito, mediante la promozione delle Casse rurali. Lo
scopo di questi istituti, che inizialmente non si caratterizza in senso confessionale,
consiste infatti nella concessione di prestiti sia a breve che a lungo termine ai
piccoli agricoltori (proprietari, affittuari e mezzadri), la cui posizione economica
34 Ivi, pag. 54.
35 Ivi, pag. 63.
41
risulta allora minacciata da molteplici fattori, congiunturali e strutturali – crisi
agraria, pressione fiscale, rafforzamento della grande proprietà,
ridimensionamento dei Monti frumentari -, nonché dall’attiva presenza nelle
campagne di usurai, che concedevano prestiti ai contadini indebitati a tassi anche
del 100%. 36
Il processo di crescita della cooperazione di credito cattolica, pur accompagnato
da una frammentazione delle strutture cooperative legata alla stessa natura delle
Casse rurali, si abbina ad un primo tentativo di costituzione di un organismo
federativo nazionale in grado di coordinare le attività istituzionali. La Cassa
centrale per le Casse rurali cattoliche d’Italia, fondata a Parma nel 1896, si
propone di svolgere la funzione di organismo bancario centrale a favore delle
cooperative di credito, con compiti di finanziamento e coordinamento delle
molteplici esperienze cooperative locali.37
Nonostante il prevalente orientamento verso il settore del credito, i cattolici si
impegnano attivamente anche nella costituzione di cooperative agricole e di
lavoro, di latterie e di cantine sociali: sempre più in ambiente rurale che non
urbano, sempre più al Nord che non al Centro o nelle regioni del Sud. La
cooperazione agricola di matrice cattolica, che solo nel primo decennio del
Novecento assume una certa consistenza quantitativa, si indirizza in particolare
sulla diffusione di un caratteristico tipo di affitto agrario: l’affittanza collettiva a
conduzione divisa. Essa prevede che un certo numero di agricoltori, riuniti in una
società cooperativa, prenda in locazione da un proprietario, o da un ente, un’ampia
tenuta, che viene successivamente suddivisa in poderi di ampiezza variabile
assegnati in conduzione ai singoli soci.
Lo sviluppo di cooperative agricole cattoliche, ma anche di latterie e cantine
sociali, per quanto non assuma un andamento impetuoso, pone tuttavia anche in
36 Ivi, pagg. 65-66.
37 Ivi, pag. 67.
42
tale settore l’esigenza di coordinamento, sfociata, a livelli territoriali più
circoscritti, nella formazione di Unioni agricole e, a livello nazionale, nella
realizzazione della Federazione delle unioni cattoliche cooperative agricole, nata
nel 1898.38
Nel corso del primo quindicennio del XX secolo, noto come età giolittiana, per la
forte impronta ad esso conferita dall’azione di governo di Giovanni Giolitti, più
volte presidente del Consiglio di ministri, si pongono le basi della moderna Italia
industriale. Traendo impulso dalla favorevole congiuntura internazionale,
contrassegnata da un nuovo ciclo di innovazioni tecnologiche e dal sensibile
rialzo dei prezzi, dalla ristrutturazione del sistema bancario operata negli anni
Novanta dell’Ottocento, dal ruolo dello Stato in qualità di committente, dalla
nuova politica industriale imposta dal ceto dirigente liberale, l’economia italiana
manifesta segni di grande dinamismo.
Il più favorevole clima economico, riflesso anche nelle mutate condizioni
politiche ed istituzionali introdotte da Giolitti, nel tentativo di coinvolgere nella
politica governativa una parte del movimento operaio, porta al rafforzamento della
cooperazione. Uno dei principali aspetti della sua storia durante quel periodo è
infatti dato dalla grande crescita numerica delle società cooperative, favorita
anche da una legislazione ad esse più favorevole. Tra il 1904 e il 1910 vengono
infatti emanati ben dodici provvedimenti legislativi volti ad aiutare in modo più o
meno diretto la cooperazione. Un numero così elevato di leggi, in un arco di
tempo molto breve, chiarisce una delle principali caratteristiche che segnano le
vicende del movimento cooperativo italiano nel primo quindicennio del XX
secolo: una sorta di scambio reciproco tra il governo e la cooperazione in base al
quale il primo cerca di attirare ed integrare nell’ambito dello Stato liberale il
movimento dei lavoratori nei suoi diversi aspetti, la seconda di attenuare il
38 Ivi, pagg. 70-71.
43
contenuto di classe delle istituzioni liberali, rendendole, per quanto possibile, più
sensibili alle istanze sociali ed economiche dei ceti più umili.39
L’avvento del fascismo, porta la fine delle attività di numerose cooperative in tutti
i settori economici, con conseguente diminuzione del numero delle Casse rurali,
scese a 834 nel 1923, che quelle cooperative avevano largamente alimentato, e
successivamente sulla stessa Banca del lavoro e della cooperazione, che cessa
l’attività nel 1923.
In quel periodo tutto il movimento cooperativo è ormai avviato a una fase di
ridimensionamento se non di vero e proprio smantellamento. In principio sono
numerose ragioni economiche a incidere sulla sua esistenza. La caduta dei prezzi,
conseguenza della grande recessione economica mondiale, comporta gravi
ripercussioni sulle cooperative di consumo, le quali vedono perdere di valore
monetario le scorte accumulate in abbondanza in precedenza, e, mentre le
depresse condizioni della domanda riducono sensibilmente le vendite, la definitiva
liquidazione della politica annonaria bellica e il ritorno ad un regime di
liberalizzazione degli scambi interni accentuano in particolare le difficoltà delle
cooperative di consumo, sorte nel precedente clima di protezione statale. Dal
canto loro, le cooperative di produzione e lavoro, ugualmente penalizzate dal
ribasso dei prezzi, risentono di due fattori che rendono incerta e precaria la
situazione economica dell’intero paese. Le crescenti difficoltà della finanza
pubblica, gravata da un elevato deficit di bilancio, rendono incapace
l’amministrazione dello Stato di sostenere le cooperative con regolari flussi di
spesa, mentre la crisi di riconversione produttiva, che interessa l’industria pesante,
non risparmia quelle imprese cooperative operanti nei settori metallurgico,
meccanico e cantieristico. La crisi della cooperazione si ripercuote
inevitabilmente sul settore del credito cooperativo, sia ai vertici, dove l’Istituto
nazionale di credito denuncia una crescente mancanza di mezzi finanziari, sia alla
39 Ivi, pagg. 79-80.
44
base, dove, il numero delle Casse rurali si avvia ad una progressiva diminuzione.
In questo caso la crisi opera in due modi: il cattivo funzionamento delle
cooperative di consumo e agricole rende impossibile la restituzione dei prestiti
concessi dalle casse rurali, nel momento in cui anche il flusso di depositi si va
assottigliando a causa delle difficoltà dei cooperatori.
Al clima di grave incertezza economica si affianca un’aggressiva campagna di
stampa contro la cooperazione, accusata di parassitismo ai danni della finanza
pubblica; ad essa si intrecciano sia la crescente crisi di legittimità politica del
vecchio ceto dirigente liberale, che ha sostenuto la cooperazione, sia le ripetute,
violente aggressioni delle squadre fasciste alle cooperative socialiste e cattoliche,
che comportano la distruzione di spacci, negozi e sedi cooperative. In questo malo
modo il nascente movimento fascista irrompe nel mondo della cooperazione. Ben
presto, d’altro canto, il fascismo manifesta l’intenzione di costruire una propria
organizzazione autonoma. E proprio nel 1921, nell’anno che segna la nascita a
Roma del Partito nazionale fascista, si costituisce a Milano il Sindacato italiano
delle cooperative, <<organo centrale direttivo della cooperazione nazionale>>.
Una prima base di massa al nuovo organismo è data dalle cooperative tra ex-
combattenti, già aderenti al Sindacato nazionale delle cooperative, scioltosi nel
dicembre del 1922. Qualche mese più tardi le cooperative aderenti al Sindacato
sono già 1846, con 348.270 soci. In realtà, nel successivo biennio, il Sindacato
fascista può consolidarsi grazie al convergere di due circostanze del tutto
eccezionali. Da un lato continua l’azione di aggressione nei confronti delle
cooperative socialiste, cattoliche ed anche autonome, spesso culminata nella
drastica sostituzione degli originari gruppi dirigenti con elementi fascisti e la loro
obbligata adesione al Sindacato italiano delle Cooperative. L’azione, oltreché
perseguita con la violenza, viene propugnata da specifiche norme di legge le quali
autorizzano i prefetti allo scioglimento e al commissariamento delle associazioni
cooperative “sospettate” di illegalità, preludio al loro passaggio all’organizzazione
fascista. Dall’altro lato il Sindacato italiano delle cooperative, forte dell’appoggio
fascista, inserisce propri rappresentanti ai vertici dei principali istituti legati alla
45
cooperazione, mentre alcuni provvedimenti legislativi, emanati dopo la marcia su
Roma e la formazione del primo governo Mussolini, stabiliscono elementi di
maggiore controllo istituzionale sulle società cooperative, diminuendone al
contempo le agevolazioni economiche, così da minarne i bilanci e di conseguenza
le capacità di operare nel contesto economico.
Un esempio pregnante del primo tipo fu la sostituzione alla presidenza della
Federazione nazionale delle cooperative di produzione e lavoro del vecchio
socialista Nello Baldini col fascista Giuseppe Bottai, insieme con l’intero
consiglio di amministrazione. Nel secondo caso l’avvenimento forse più
importante è costituito dalla riforma dell’Istituto nazionale di credito alla
cooperazione, realizzata nel 1923. Se da un lato essa esclude i rappresentanti del
movimento operativo dal consiglio di amministrazione dell’Istituto, dall’altro
promuove ai suoi vertici quegli uomini che maggiormente hanno contribuito alla
creazione dell’organismo cooperativo fascista, a partire dal nuovo direttore
generale, Paolo Terruzzi, uomo di fiducia di Mussolini. D’altra parte la soluzione
data alla crisi dell’Istituto contribuisce a trasformare l’originaria connotazione di
banca cooperativa in quella di istituto di credito ordinario. Ciò viene
definitivamente stabilito nel 1929, quando viene ribattezzata Banca nazionale del
lavoro e posta sotto la direzione di Arturo Osio, senza che questo impedisca, nel
frattempo, un largo sostegno economico alle cooperative inquadrate nel Sindacato
italiano.40
Alla metà degli anni Venti, per ammissione del suo commissario straordinario,
Dino Alfieri, il numero di queste ultime è cresciuto in modo esponenziale,
parallelamente all’indebolimento delle società cooperative aderenti alla Lega,
ridotte nel 1925 a sole 600 unità, preludio al suo scioglimento, che viene deciso
dal prefetto di Milano nel novembre di quell’anno. La medesima sorte tocca da lì
a poco anche alla centrale cooperativa cattolica: la cosiddetta fascistizzazione del
40 M. Fornasari e V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia, cit., pagg.116-118.
46
movimento cooperativo si avvia al suo compimento, contemporaneamente al
passaggio alla fase autoritaria e dittatoriale del regime mussoliniano.41
Il ceto dirigente fascista avvia una profonda ristrutturazione del settore
cooperativo, trasformandolo in un organismo di quel regime reazionario di massa
che secondo alcuni studiosi rappresenta la novità storica del fascismo, la cui
relativa longevità si basa non solo sul ricorso ad istituzioni illiberali e
antidemocratiche, ma anche sulla ricerca e l’organizzazione del consenso. Questa
trasformazione avviene tramite l’inserimento del movimento cooperativo nelle
strutture dello Stato corporativo fascista. La definizione dell’ordinamento
corporativo viene stabilita nella Carta del lavoro approvata nel 1927, la quale
assegna alle corporazioni, organi di raccordo tra i sindacati dei datori di lavoro e
dei lavoratori, la funzione di coordinamento dei diversi aspetti della produzione.
Tale coordinamento avrebbe dovuto realizzare il principio fondamentale del
corporativismo: la collaborazione tra capitale e lavoro, che deve compiersi in un
quadro di forte subordinazione allo Stato.
Da questo punto di vista il 1926 rappresenta l’anno zero della cooperazione
fascista. Nel corso di quell’anno vengono infatti licenziati i principali
provvedimenti legislativi per la ridefinizione del ruolo della cooperazione, la
quale, secondo Mussolini, doveva corrispondere ai tre criteri della <<supremazia
dello Stato>>, dell’efficienza aziendale e del volontarismo. Il primo di tali
provvedimenti fu il regio decreto n.563 sull’ordinamento sindacale, approvato il 3
aprile del 1926 e convertito in legge il 1° luglio. La legge, che riconosce soltanto
due confederazioni sindacali, una per gli industriali e una per i lavoratori,
costringe, con l’articolo 34, le associazioni cooperative all’adesione agli
organismi sindacali <<di grado superiore, sia di datori di lavoro, sia di lavoratori,
secondo la loro natura e il loro funzionamento>>.
41 Ivi, pag. 119.
47
A quel provvedimento fanno seguito i due decreti regi del 9 maggio e del 13
agosto che stabiliscono, rispettivamente, lo scioglimento delle cooperative edilizie
sovvenzionate dallo Stato, i cui consigli amministrativi fossero composti da
elementi sospettati di antifascismo, e la liquidazione dei consorzi e delle
associazioni cooperative, divenuti inutili dal momento che è lo stesso Stato a
decidere a quali cooperative affidare l’esecuzione dei lavori pubblici. Questa
intensa attività legislativa culmina nel regio decreto legge 30 dicembre 1926, il
n.2288. Il provvedimento autorizza la nascita ufficiale dell’Ente nazionale fascista
della cooperazione, cui vengono affidati i compiti dell’assistenza, dello sviluppo e
del ordinamento delle società e degli altri enti cooperativi, e fissa la sua
dipendenza dal Ministero dell’economia nazionale. A quest’ultimo sarebbe
spettata la redazione dello statuto dell’Ente, e il potere di disporre ispezioni ed
inchieste sulle società cooperative, prevedendone anche l’eventuale
commissariamento. Dalla sorveglianza del Ministero restano escluse le
cooperative di credito, che la legge del 3 aprile 1926 ha inglobato nella
Confederazione fascista delle aziende di credito e delle assicurazioni e sottoposto
alla vigilanza del Ministero delle finanze e della Banca d’Italia.
Il provvedimento del 30 dicembre 1926 viene completato dal decreto del 21 aprile
dell’anno successivo, che vuole accelerare l’inquadramento della cooperazione
nell’ordinamento corporativo, attraverso il riconoscimento giuridico delle diverse
Federazioni di settore (di consumo, di produzione e lavoro, agricola e edilizia) e la
loro adesione alle Confederazioni nazionali sindacali, limitata tuttavia ai soli
<<effetti della disciplina giuridica del contratto di lavoro>>. La precisazione
contenuta nel provvedimento giustifica una sia pur debole chance di autonomia
organizzativa della cooperazione, secondo quanto sostenuto da coloro che,
dall’interno della cooperazione fascista, si erano battuti affinché le società
48
cooperative conservassero un certo grado di indipendenza, cercando di impedirne
il destino di crescente burocratizzazione.42
I decreti n. 324 del 2 marzo 1931 e n. 1302 del 28 agosto 1931 limitano ancora di
più la libera cooperazione. Il primo stabilisce la trasformazione dell’Ente
nazionale della cooperazione in istituto di diritto pubblico, costituito tra le
federazioni nazionali di categoria, e non più tra le singole cooperative, con la
principale conseguenza che la sua attività viene profondamente influenzata dalle
Confederazioni nazionali sindacali. Il secondo approvava lo statuto dell’Ente, che
passa dalla dipendenza dal Ministero dell’economia nazionale a quella dal
Ministero per le corporazioni. Oltre a stabilirne in dettaglio le funzioni –
l’assistenza contabile ed amministrativa delle federazioni nazionali di imprese
cooperative, il loro ordinamento e sorveglianza -, lo statuto stabilisce i suoi organi
dirigenti; il consiglio nazionale, il comitato direttivo, il presidente, il collegio
sindacale. Sono chiamati a far parte del primo i presidenti e i delegati delle
federazioni aderenti, i presidenti e i delegati delle federazioni aderenti, i presidenti
e i rappresentanti delle Confederazioni sindacali, dell’associazione delle casse
rurali, delle banche popolari e delle imprese d’assicurazione, un membro del
Partito fascista, i rappresentanti dell’Associazione combattenti e mutilati ed
invalidi di guerra. L’ampia rappresentanza di categorie ed organismi estranei alla
cooperazione in seno al consiglio nazionale dell’Ente conferma il suo definitivo
inquadramento nella struttura piramidale dello stato corporativo e ne stabilisce la
dipendenza dagli interessi economici più forti della nazione. 43
42 Ivi, pagg. 121-124.
43 Ivi, pagg. 126-127.
49
2.4 La cooperazione in Sardegna
Nonostante i primi tentativi della seconda metà dell’Ottocento, al principio del
Novecento lo sviluppo della cooperazione nell’Isola è ancora lento e incerto.
Nel 1901 nascono ad Alghero la “Società cooperativa agricola di San Narciso” e a
Cagliari la “Società Anonima Cooperativa di Credito fra gli Operi e le Operaie
Dipendenti dallo Stato Residenti in Cagliari”.
Nel 1902 si costituiscono, a Bosa la “Società Mutuo Cooperativa fra gli Operai
Conciatori”, a Cagliari il “Credito Popolare Agrario Sardo”, ad Orani la “Cassa
Agraria Cooperativa di Depositi e Prestiti di Orani, a Sassari una cooperativa di
calzolai, un consorzio agrario e a Nuoro un altro consorzio.
Nel 1903 sorgono a Sassari la “Società Anonima Cooperativa Agricola Sassarese”
e una cooperativa di muratori e ad Ozieri una grande cooperativa molitoria , la
prima nel settore che cerchi di ostacolare il monopolio degli industriali e degli
speculatori.
A Monserrato, nel 1904, si segnala una cooperativa di viticultori. L’anno seguente
nascono a Buddusò la “ Unione Mutua Assicuratrice, Agricola e di Consumo”, a
Florinas la Società Anonima Cooperativa a Capitale Illimitato “Il Risveglio
Agricolo” e a Cagliari la “Unione Cooperativa di Consumo” .
Nel 1906 risulta costituita una “Cooperativa vinicola dei viticultori” a Calasetta,
oltre che un “Consorzio agrario cooperativo” a Pozzomaggiore, una cooperativa di
credito a Bonorva e un “Consorzio agrari cooperativo” a Jerzu.44
Nel 1907 si registrano due episodi di rilievo che annunciano una fase nuova e più
ricca del movimento cooperativo in Sardegna: nascono la “Latteria sociale
cooperativa” di Bortigali e la “Cantina sociale” di Monserrato.45
Nel 1908 la diffusione delle cooperative in Sardegna continua ad essere scarsa.
44 Cfr. G. G. Ortu, L’età Giolittiana, in G. Sotgiu (a cura di), Storia della cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pagg. 113-115.
45 Ivi, pag. 116.
50
I dati riportati dalla Federazione delle cooperative e mutue agrarie della Sardegna
nella Statistica delle cooperative agrarie al 31 dicembre 1913 segnalano un
grande sviluppo della cooperazione nel settore del credito agrario non
accompagnato in egual misura negli altri campi: produzione, lavoro, commercio e
consumo.
Le cooperative commerciali e di produzione, costituite in forma anonima per
azioni sono solo otto. Due di esse sono dedite all’impianto e alla coltivazione dei
vigneti, la “Vigna cooperativa” di Oliena e la “Vigna sociale cooperativa” di
Dorgali. Due si occupano di vinificazione e di commercializzazione dei vini: la
“Cantina sociale” di Monserrato, che però è in via di liquidazione volontaria e che
si riformerà sotto altra veste nel 1924, e la “Cooperativa vinicola dei viticultori” di
Calasetta, che purtroppo si trova con l’acqua alla gola perché registra una
rilevante perdita di esercizio causata dal deprezzamento dei suoi vini. Due latterie
sociali si costituiscono: la già citata struttura di Bortigali e l’appena nata “Latteria
sociale cooperativa “Sa Spendula” di Villacidro. Due cooperative di lavoro e
produzione, sono la “Società cooperativa agricola” di Ballao, formatasi nel 1911 e
che dispone di una trebbiatrice a vapore e di una mietitrice-legatrice, e la “Società
cooperativa agricola” di Quartu Sant’Elena, anch’essa nata nel 1911, che possiede
una trebbiatrice a vapore.46
Oltre l’ambito dell’agricoltura e del contesto contadino la situazione è deficitaria.
Nell’allevamento si segnala solo la formazione, nel 1911 a Buddusò della
“Società Pastori Pecorai di San Giovanni Battista”.
Nel 1905 nasce a Ghilarza la “Società Anonima Cooperativa di Consumo” e
cinque anni dopo ad Oristano si costituisce la “Società Anonima Cattolica
Cooperativa di Consumo e Prestiti Circolo San Simaco”.
Tra le cooperative di consumo nel 1911 prende piede a Scano Montiferro la
“Società cooperativa San Giuseppe”.
46 Federazione delle Cooperative e Mutue Agrarie della Sardegna, Statistica delle Cooperative agrarie al 31 dicembre 1913, Cagliari, 1914.
51
Nel 1913 si registra la nascita della “Cooperativa Pescatori” a Stintino, della
“Società Tipografica Sarda” a Cagliari e della società “ Cooperazione e lavoro” a
Silanus.
In campo agricolo ricorrono alla cooperazione produttiva solo i contadini senza
terra e i piccolissimi proprietari per affrontare il maggiore investimento di lavoro
e di mezzi che occorrono per l’impianto dei vigneti, in un periodo in cui per
sconfiggere la piaga della fillossera si vanno sostituendo gli impianti storicamente
utilizzati nell’isola con quelli di vitigno americano. Rispetto a quanto avveniva
solitamente, quando per impiantare una nuova vigna si faceva affidamento
all’aiuto di familiari, parenti, compari e amici senza ricorrere a una struttura
cooperativa, già durante la seconda metà del XIX secolo, gli intraprendenti
viticultori di Monserrato danno vita con successo a forme para-cooperative di
associazione di capitale e lavoro, per estendere alla via nuove zone nelle
campagne del Campidano di Cagliari e del Parteolla.47
Certe volte la cooperazione si rivela utile per l’acquisto di una macchina agricola,
specialmente la trebbiatrice, che in parte serve le aziende dei soci, in parte invece
viene data in uso a terzi, per permettere alla cooperativa di recuperare in breve
tempo il capitale impiegato.
La cooperazione, negli aspetti in cui si manifesta, nella Sardegna dell’età
giolittiana è anche una risposta agli stimoli dati dallo sviluppo economico e civile.
È un fattore e un vettore di modernizzazione,:non è minacciosa, come altrove, nei
confronti del capitale privato e dei ceti che dominano la proprietà terriera, la
finanza, il commercio e l’imprenditoria, morde, tuttavia, se non altro sulla scorza
dura dei modi d’essere non all’altezza dei modi nuovi proposti dalla società
produttiva e civile.48
47 F. Asquer, Le condizioni economico-sociali di una zona rurale nella Provincia di Cagliari, Cagliari, 1909, pagg. 24 e segg.
48 Ivi, pag. 164.
52
Il 10 maggio del 19I4, nella sala dei congressi di Castel Sant'Angelo si apre il I
Congresso regionale sardo, un’affollata riunione alla quale partecipano alte
personalità ed esponenti di spicco del mondo politico ed economico chiamati a
fare il punto sulle condizioni dell’isola dopo il varo e l’attuazione della
legislazione speciale.49
Una delle numerose relazioni proposte è incentrata sulla colonizzazione, sulla
protezione delle piccole proprietà e sull'emigrazione: si chiedono leggi e
stanziamenti per colonie penali, colonie militari, e colonie agricole giovanili come
quelle aperte a Bosa e a Cagliari da <<povere suore francesi>> che hanno raccolto
<<in breve numerosi orfani ai quali impartiscono istruzioni pratiche di
orticoltori>>; la difesa della piccola proprietà, minacciata dell'usura e ostacolata
dalla diffidenza dei sardi verso le forme associative, era l'unico freno
all'emigrazione; la trasformazione agricola e industriale dell'isola avrebbe
arrestato il fenomeno migratorio, nel cui corso pure i sardi avevano, in diverse
parti del mondo, data così buona prova di sé.
La relazione del dottor Armando Mereu, medico e direttore della Federazione
delle Casse rurali sarde, e di Giuseppe Dessy è invece imperniata sul credito
agrario nell'isola, in cui - proprio in ordine alle disposizioni della legislazione
speciale - vengono sottolineate le <<tappe gloriose>> che negli ultimi anni hanno
caratterizzato, in Sardegna, la cooperazione agraria. Nel maggio del I907 si erano
formati due consorzi agrari cooperativi in provincia di Cagliari ed erano nate la
Latteria sociale di Bortigali <<fra quei proprietari di bestiame>> per la
produzione di formaggio, in particolare vaccino, e la Cantina sociale di Calasetta.
Nell'agosto del I909 si sono costituite nelle due province le prime Casse rurali in
nome collettivo; nell'aprile del I9I3, durante il I Convegno delle Cooperative
agrarie della provincia di Cagliari, si contano 69 Casse rurali, 4 Consorzi agrari
49 Cfr. Atti del primo Congresso regionale sardo tenuto in Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 maggio 1914, promosso e organizzato dall’Associazione i Sardi in Roma, Roma, 1914.
53
cooperativi e ancora I0 cooperative di credito e di produzione. Al 23 dicembre del
I9I3 in Sardegna si annoverano I44 cooperative, di cui I00 in attive in provincia di
Cagliari e 44 in provincia di Sassari, e 116 mutue di assicurazione bestiame, con
oltre 30 000 soci: nello stesso dicembre, in occasione del I Congresso regionale
delle Cooperative e mutue agrarie nasce la Federazione delle Cooperative e Mutue
agrarie della Sardegna, ne fanno parte 40 società cooperative e mutue delle due
province, divenute 54 quando si tiene il congresso. C'e purtroppo un aspetto
negativo: i fondi delle Casse ademprivili sono assolutamente insufficienti ai
bisogni, tanto da rendere inattive le 43 casse rurali, sicché, oltre a chiedere una
nuova legge di riordinamento si propone che il credito agrario di esercizio venga
concesso solo per <<mezzo degli Enti intermedi>>, e si ritiene che servano per
questo obiettivo almeno I0 milioni.
In realtà come indicato nella relazione su credito e usura, proposta da Federico
Chessa, noto per una serie di studi molto precisi sull'argomento50 - <<il credito
nell'isola non esiste o è limitato a una piccolissima parte della popolazione>>.
Non solo la Banca d'Italia e gli <<stabilimenti>> del Banco di Napoli erogavano
prestiti quasi esclusivamente al settore industriale e commerciale, ma la stessa
Società Bancaria Sarda, che nel suo programma sostiene di voler <<promuovere
lo svolgimento dei monti frumentari, dei comizi e consorzi agrari, delle
Cooperative e Società agricole>>, in realtà ha come clienti favoriti non i piccoli
proprietari, ma <<commercianti e piccoli industriali locali, sicché non corrisponde
allo scopo per cui venne creata>>. Gli stessi Monti frumentari vengono criticati,
perché la composizione degli organismi di direzione è tale che <<il partito
imperante>> finisce per detenervi la maggioranza: <<da questa deriva – sostiene
Chessa - che il prestito viene generalmente concesso non già a coloro che hanno
effettivamente bisogno del credito, ma agli amici o parenti degli amministratori, i
50 Cfr. F. Chessa, Credito e usura in Sardegna, relazione in Atti del primo congresso regionale fra agricoltori ed economisti sardi, Cagliari, 1898, e ID. Usura sue forme nella provincia di Sassari, in Archivio giuridico Serafini, serie 3, vol. V, marzo-aprile 1906, fasc. 2, pagg. 177-290.
54
quali poi cedono ad usura il grano che hanno avuto a prestito>>.
L’usuario in Sardegna è <<un'istituzione economica>>, penetrando <<là dove il
credito onesto non penetra>> e trovando la garanzia <<là dove questo non la
trova>>. L'usura viene esercitata in forme diversissime, ma tutte caratterizzate da
saggi di interesse che soprattutto nella Sardegna interna <<sorpassano ogni senso
di umanità>>: ad esempio, nel Campidano di Cagliari il 5 per cento a settimana,
cioè il 2I0 annuo. Conseguenze: <<assorbimento della piccola proprietà e della
grande proprietà da parte degli usurai che prestano ad usura col patto di riscatto;
prevalenza della cultura estensiva e limitata applicazione dei metodi moderni di
coltura; poco sviluppo del commercio, specie del piccolo; aumento
dell'emigrazione>>.51
La politicizzazione del movimento cooperativo in Sardegna si manifesta alla fine
della prima guerra mondiale, fino ad allora, salvo qualche eccezione, non sono
presenti contrapposizioni ideologiche e nette divisioni di orientamento politico in
istituzioni che esprimono motivazioni di carattere economico.52
L’associazionismo di matrice cattolica registra un incremento nel primo
dopoguerra.
Il processo di organizzazione della produzione e del lavoro è caratterizzato
dall’accentuazione dei contenuti ideologici; ma la concorrenza mossa dal
movimento dei combattenti toglie ai cattolici quella base costituita dai piccoli
proprietari verso cui si concentrano le loro attenzioni.
Tra le azioni più importanti intraprese dai cattolici si segnala la nascita nel
gennaio 1919 della “Unione del lavoro” della provincia di Cagliari che come tutte
le cooperative cattoliche, che operano in Sardegna, aderisce alla “Confederazione
cooperativa italiana” ed alla “Unione nazionale cooperativa di produzione e
51 Cfr. M. Brigaglia, La Sardegna, cit., pagg. 555-561.
52 Cfr. L. Pisano, Associazionismo e cooperazione tra le due guerre (1918-1940), in G. Sotgiu (a cura di), Storia della cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pag. 171.
55
lavoro”, per sottolineare la propria autonomia nei confronti della “Lega delle
cooperative”.
Nel 1922 la struttura entra in crisi a causa dell’esaurimento della spinta
organizzativa, ma soprattutto in ragione dell’opera da parte del fascismo di
intimidazione, di esautoramento e infine di inglobamento perseguita nei confronti
di tutto il movimento sindacale e cooperativo.53
Il movimento dei combattenti, che nell’isola nel 1921 si trasforma in Partito sardo
d’azione, esalta il valore dell’organizzazione cooperativa della produzione e del
lavoro visto come strumento per riorganizzare economicamente la Sardegna,
arrivando a un autonomia produttiva dell’isola che unitamente all’autonomia
politica e amministrativa, costituisca la fine della dipendenza dall’economia
continentale.
Pur dando l’impressione di concezione utopica questa teoria presenta un aspetto di
novità ed originalità.
I combattenti danno vita soprattutto a cooperative di consumo.
L’idea di riformare il mercato capitalistico su ideali libero-concorrenziali, basati
sull’operato delle cooperative, è sconfitta, oltre che dall’azione distruttrice delle
squadre fasciste, dalla resistenza dei grandi poteri privati e pubblici.54
Poche sono le cooperative che nascono in Sardegna nel dopoguerra che affermano
di rifarsi agli ideali socialisti.
I pochi esempi di organizzazione economica cooperativa di ispirazione socialista
che si costituiscono nell’isola, si dimostrano alquanto deboli, senz’altro più deboli
di quelli espressione del cattolicesimo e degli ex-combattenti.55
Attraverso la cooperazione, sia pure in misura minore rispetto ad altre forme
associative, il fascismo cerca di conseguire quel consenso di massa che gli occorre
53 Ivi, pagg. 171-177.
54 Ivi, Pagg. 177-186.
55 Ivi, pagg. 186-191.
56
per esercitare il potere. La cooperazione deve muoversi con nuove modalità. Un
esempio è dato dal regio decreto del 24 gennaio 1924, n.64, con il quale,
affidando al prefetto il potere discrezionale di procedere allo scioglimento delle
associazioni, si stabilisce in pratica la condanna a morte degli organismi
rappresentativi della cooperazione che non sono allineati con il regime.56
Il tentativo degli ex sardisti di inserire il fascismo nel solco di una tradizionale
linea rivendicativa, legata ai temi della questione sarda, fallisce totalmente e
consegna interamente al fascismo la possibilità di esercitare il totale e
incondizionato potere sull’associazionismo e il cooperativismo. Dopo questi
avvenimenti la cooperazione di produzione e consumo conosce una situazione di
grave stallo, se non proprio di crisi, che permane fino alla guerra.
Nelle campagne sarde nascono agli inizi degli anni Trenta, i consorzi di bonifica,
consorzi di proprietari con il compito di realizzare le opere di bonifica integrale,
che delle cooperative avevano poco o nulla. Considerati anch’essi sopravivenze
dello Stato liberale, il fascismo si preoccupa di procedere a una radicale
sistemazione dei consorzi agrari, costituiti fin dal 1892 in libere cooperative, e
trasformati ora in enti morali gestiti dal regime, senza alcun collegamento con gli
agricoltori.57
Gli anni Trenta chiudono un periodo denso di avvenimenti per il movimento
cooperativo sardo che, particolarmente tra il 1918-1928, aveva trovato grande
adesione tra i produttori sardi. A questo quadro di generale ripiegamento del
movimento cooperativo e di snaturamento della funzione dei consorzi, si
aggiungono le norme sul riconoscimento del credito agrario (legge 5 luglio 1928,
n. 1760) che contribuiscono a distruggere l’autonomia di quella vasta rete di
Casse rurali, enti intermedi per l’esercizio del credito agrario, Monti frumentari,
Casse comunali, esistenti prima della guerra in Sardegna: tutti questi organismi,
56 Ivi, pag. 198.
57 Ivi, p ag. 206.
57
che avrebbero potuto evolversi istituzionalmente in senso cooperativo, creando
così quel fenomeno che ha determinato lo sviluppo di vaste regioni europee,
vengono invece sottoposti alla rigorosa vigilanza dall’ Istituto regionale di credito
agrario, che impedisce la loro evoluzione in senso autonomista cooperativo.58
58 Ivi, pag. 209.
58
2.4.1 Caseifici, latterie e allevamento
Nella prima metà dell’Ottocento si registrano i primi tentativi della produzione di
formaggi vaccini. Lo scopo è valorizzare il latte di vacca, precedentemente poco
sfruttato perché si preferiva dedicarsi prevalentemente alla più redditizia vendita
delle carni bovine, ormai in crisi per la chiusura dei mercati francesi. Un primo
esempio è dato dall’iniziativa del parroco di Orune, il teologo Satta-Musio,
fondatore del locale Comitato di agricoltura, che nel 1840 invita due casari
svizzeri perché insegnino ai pastori locali la produzione del gruviera. Altro
esempio è fornito dal corso tenuto ad Ozieri nel 1879 dall’agronomo Giacomo
Maffei, che propone la fabbricazione di burro e di diversi formaggi quali il
parmigiano, il gruviera e l’olandese. Tra il 1880 e il 1884 l’azienda agraria che era
attiva nel territorio di Surigheddu, nella zona di Alghero, oltre a confezionare
provoloni, gorgonzola, burro e crescenza, produce del gruviera, usando il latte di
pecora, che riscuote un certo successo sulla piazza commerciale di Milano. Ma
l’iniziativa più importante è data dalla serie lezioni tenute dal Professor
Bochicchio in diversi centri della Sardegna del nord.59
Il primo caseificio cooperativo della Sardegna sorge ad Ozieri, negli anni Settanta
dell’Ottocento. Questo avvenimento è spiegabile col fatto che quella zona
dell’isola costituiva il centro dell’allevamento bovino della regione, con un gran
numero di capi vivi esportati in Francia, tanto da portare alla realizzazione della
linea ferroviaria, Chilivani-Porto Torres.
Il caseificio di Ozieri è nel 1881 in grado di reggere il paragone con i migliori
produttori della Lombardia. L’anno seguente conquista la medaglia d’oro al
59 Cfr. F. Cherchi Paba, Evoluzione storica dell’attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, vol. IV, Cagliari, 1977, pag. pagg. 403-410.
59
Concorso agrario regionale sardo per la qualità del suo formaggio grana e per la
sua collezione di attrezzi per realizzare i vari derivati del latte.60
Nel 1892 inizia l’attività della Cooperativa agricola italiana, realizzata con capitali
provenienti dalla Lombardia. L’ente possiede una caldaia, capace di lavorare in
un’ora e mezzo una quantità di formaggio che col sistema tradizionale isolano si
realizza con l’impiego di ben due giornate di lavoro.61
La società prende in affitto la tenuta del tedesco Alfredo Tirpitz con l’intesa di
acquistarla in futuro. Oltre ad utilizzare gli edifici preesistenti, essa fa costruire
una stalla capace di ospitare 200 bovini, un grande magazzino, alloggi e case
coloniche per gli operai-coloni. Si allevano cavalli che non soltanto servono per le
attività della tenuta, ma sono anche fonte di guadagno. Il bestiame bovino è di
razza sarda incrociato con quella svizzera grazie a un piccolo toro, omaggio del
Ministero dell’Agricoltura. Le vacche vengono nutrite con foraggio, mais, paglia
e trifoglio prodotti nella tenuta. Le pecore e le capre pascolano nelle zone non
idonee all’allevamento del bestiame di grossa taglia e alle pratiche agricole. I suini
vengono allevanti usando i residui della lavorazione del latte e poi venduti con
buoni risultati.
Nell’azienda operano il direttore, il fattore, il casaro e alcuni braccianti sardi e
continentali. La maggior parte di costoro vivono nella tenuta dove si esercita la
panificazione razionale, si utilizza l’acqua potabile e si provvede all’educazione
delle famiglie coloniche. Agli addetti vengono garantiti gratuitamente la casa, un
orto, gli attrezzi agricoli e le cure mediche. Essi ricevono anche un salario ed
hanno una cointeressenza del 10 per cento sul prodotto lordo. Tra il 1891 e il 1893
l’azienda produce solamente formaggi molli e semicotti destinati al mercato
sardo. Nel 1894 entra in funzione la nuova struttura, equipaggiata di attrezzature
60 Cfr. S. Ruju, I caseifici cooperativi nella Sardegna del Novecento, in A. Mattone e P. F. Simbula, La pastorizia mediterranea – Storia e diritto (secoli XI –XX), Roma, 2011, pag. 994.
61 Ivi, pag. 996.
60
razionali quali una cucina con fornello e caldaia mobile di tipo svizzero. Grazie
all’uso di tali strumenti si possono lavorare tutti i sottoprodotti del latte con
conseguente aumento dei guadagni. Viene utilizzato il latte vacino per produrre il
formaggio tipo emmenthal confezionato in forme del peso di 8-10 chilogrammi
che vengono inviate a Milano dove vengono comprate dall’Unione cooperativa di
consumo, garantendo un discreto guadagno. Nel 1900 è stimata tra le attività
operanti nel settore cooperativo la più importante realtà agricola d’Italia. La
positiva esperienza della cooperativa milanese che opera nell’isola sarda risulta
conosciuta solamente dai tecnici e dai funzionari del Ministero dell’agricoltura,
ma è del tutto ignota ai pastori e contadini sardi. A livello nazionale, dove i
tentativi di bonifica e colonizzazione, utilizzando la cooperazione avevano avuto
esito negativo, l’interesse per tale esperimento è invece notevole.62
Alla fine del XIX secolo la produzione dei formaggi vaccini è poco praticata in
Sardegna, soprattutto nel sud dell’isola, dove non si è soliti mungere le vacche.63
Nell’età giolittiana la fondazione dei caseifici da parte degli imprenditori arrivati
dal continente, pur creando diversi problemi, spinge i produttori locali a conoscere
le tecniche moderne per la produzione del formaggio in proprio o associandosi
con altri allevatori.
L’Istituto ippico di Ozieri organizza diverse stazioni di monta in tutta la Sardegna
settentrionale.
La latteria di Bortigali nasce nel 1907 come risposta al cartello che gli industriali
provenienti dal Lazio avevano creato dopo la loro venuta in Sardegna, iniziata sul
finire dell’Ottocento. La latteria in questione si costituisce grazie a un
provvedimento del governo emanato l’anno precedente per favorire la diffusione
62 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione (1860-1900), in G. Sotgiu (a cura di), Storia della Cooperazione in Sardegna – Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Cagliari, Roma, 1991, pagg. 91-94.
63 Cfr. M. L. Di Felice, La “Rivoluzione“ del pecorino romano, in A. Mattone e P .F. Simbula, La pastorizia mediterranea – Storia e diritto (secoli XI – XX), Roma, 2011, pagg. 967-968.
61
di società cooperative. Promotore della realizzazione della latteria è il dottor
Pietro Solinas, seguace a livello locale degli insegnamenti del direttore della
Regia scuola agraria di Sassari, il professor Nicolò Pellegrini, uno dei primi
esperti che in Sardegna propugna l’innovazione in campo agricolo.64
Tra il 1908 e il 1910 la latteria riesce a raccogliere 1.186.544 litri di latte per un
valore commerciale di poco inferiore alle 200.000 lire, e a commercializzare 1695
quintali di prodotti caseari, realizzando un ricavo di 180.000 lire. In un paese con
una popolazione di solo tre mila abitanti si tratta di una sfida coraggiosa che si
rivela vincente verso lo strapotere degli industriali caseari.65
Paolo Pili è l’esponente del Partito Sardo d’Azione che s’interessa dei problemi
della cooperazione in Sardegna, e in particolare della situazione lattiero-casearia.
La buona conoscenza dei problemi agrari dell’isola, l’opera maturata presso la
Regia Scuola di viticoltura e di enologia di Cagliari, dove si era diplomato, allievo
di Sante Cettolini.
Nel 1924 propone per la prima volta di costituire tra i pastori sardi una
federazione delle latterie sociali. Il primo incontro, convocato ad Oristano,
fallisce: <<a causa di divergenze di vedute in seno ai convenuti: elementi con
intendimenti speculativi e anticooperativistici si erano infiltrati, ragione per cui è
stato necessario per il momento sospendere il lavoro>>66 . Nei mesi successivi Pili
si impegna intensamente in una personale campagna che porta a maturazione il
progetto; il 1° ottobre lancia un invito ai presidenti delle latterie sociali per
costituire la Federazione.
La FEDLAC (Federazione delle latterie Sociali e Cooperative della Sardegna),
nasce ad Ozieri il 25 ottobre 1924, durante l’assemblea costitutiva a cui
intervengono le più alte autorità fasciste della Sardegna (la presiede l’onorevole
64 Ruju, I caseifici, cit., pag. 997.
65 Ortu, L’età Giolittiana, cit., pag.117.
66 Carte Paolo Pili, Ostano, Memoria dattiloscritta attribuita a Salvatore Manconi, pag. 7.
62
Pietro Lissia, uno dei maggiori rappresentanti del fascismo sardo di quel periodo;
sono presenti i deputati Leoni, Caprino, Putzolu, Cao di San Marco e Siotto, il
prefetto di Cagliari, partecipano i presidenti di venti latterie sociali: Abbasanta,
Aidomaggiore, Berchidda, Bitti, Cabras, Ghilarza, Isili, Macomer, Norbello,
Nuoro, Ozieri, Pattada, Paulilatino, Pozzomaggiore, Santulussurgiu, Seneghe,
Silanus, Sindia, Siurgus Donigala ed Uras. Il consiglio di amministrazione della
federazione viene eletto il 14 novembre dello stesso anno. Ne fanno parte Pili, che
ne è il presidente, Antonio Arru Bartoli, dirigente della latteria di Pozzomaggiore,
tra le meglio attrezzate e più produttive, Gavino Cattina, presidente della latteria
di Ozieri, Salvatore Manconi, che è il direttore della Federazione, Antonio
Campus, Salvatore Doneddu, Salvatore Falchi e Salvatore Siotto. Il consiglio è in
maggioranza costituito da uomini che fanno capo a Pili, alcuni fin dagli inizi della
sua militanza sardista. La FEDLAC è il maggior esempio di quel progetto che la
parte di origine sardista propugna in quegli anni all’interno del fascismo sardo.
Tentativo, come scrive Antonio Gramsci nel 1926, di <<realizzare alcune
rivendicazioni del programma tradizionale del sardismo>> all’interno delle
strutture del fascismo.67 La costituzione della FEDLAC è vista dai suoi sostenitori
come un mezzo per riformare l’economia sarda.
Il bilancio dei primi mesi di attività della FEDLAC è sicuramente positivo, grazie
all’apertura di credito verso la federazione e all’opera di Pili, appoggiato dal
partito. Pili decide di incrementare le esigue risorse finanziarie della Cassa
Provinciale di Credito Agrario di Cagliari, diretta da uno dei suoi fedelissimi, il
ragioniere Nino Serra, facendo arrivare nei depositi dell’ente i fondi dei Comuni,
delle Opere pie, di diversi enti locali ed istituti pubblici; anche i risparmi di molti
privati, spinti dalla propaganda della segreteria provinciale del Partito Nazionale
Fascista, finiscono nella disponibilità della Cassa. Inoltre lo Stato eroga un
contributo di cinque milioni di lire ed autorizza l’emissione di assegni di conto
67 Cfr. A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista, Torino, 1977, pagg. 528-530.
63
corrente e circolari. Grazie al consolidamento finanziario la cassa provinciale si
può rafforzare anche nell’aspetto organizzativo istituendo numerose Casse
comunali di credito agrario, che assorbono i Monti frumentari.
Durante il 1926 numerose latterie aderiscono alla federazione; nel mese di
febbraio entrano quelle di Ales, Borore, Massama, Mogoro, Samugheo, Sedilo,
Sorradile e Serdiana; in luglio quella di Samassi; in settembre quelle di
Bonarcado, Bonorva, Flussio, Fordongianus, Narbolia, Ortueri, San Basilio, Soddì
e Villamassargia; in novembre Busachi, Cuglieri, Macomer, Nurri, San Vero
Milis, Orroli, Sorgono, Tortolì, Tuili, Uta e Villaspeciosa. Praticamente alla
federazione aderiscono le latterie di quasi tutte le zone della provincia di Cagliari
e buona parte di quella di Sassari (tenendo presente che quelle di Giba, Laconi e
Simaxis possono ritenersi già aderenti alla federazione, pur non ancora
ufficialmente ammesse per problemi burocratici).
La FEDLAC vuole superare l’improvvisazione e la frammentazione che
interessano il settore lattiero-caseario sardo; pertanto i dirigenti della federazione
per razionalizzare la situazione decidono: di unificare le tecniche di produzione; di
curare particolarmente la selezione del latte (di quest’ultimo compito si occupa
una commissione composta da Arru Bartoli, Cattina, Manconi, che è il direttore
della latteria di Pattada, e da Aniello Parmigiano, che è invece l’agente della
Federazione per il mercato di Castellamare di Stabia); di centralizzare la
spedizione, realizzando un punto di imballo a Chilivani; di promuovere l’utilizzo
dei sottoprodotti del latte, affinché le latterie siano operative anche d’estate; per il
rifornimento degli attrezzi viene creato un magazzino unico ad Oristano; usare un
unico canale per cercare i finanziamenti.
Ma la decisione più importante è quella di stabilire rapporti diretti con i grandi
importatori americani. Per fare ciò, Pili, con Cattina, si reca negli Stati Uniti nel
marzo del 1926. Pur criticato in Italia e negli USA Pili, firma un contratto con la
ditta svizzera che ha sede a New York, S. Galle & C., specializzata
nell’importazione di formaggi prodotti con latte vacino in Europa. Il rapporto con
la S. Galle & C. parte positivamente. Due suoi dirigenti arrivano in Sardegna per
64
consolidare l’intesa e, in quell’occasione, aprono una linea di credito presso una
banca di Oristano che permette di pagare il formaggio con la sola presentazione
della fattura doganale, cioè prima che il prodotto si materialmente a New York.
Per attuare i progetti di un maggiore sfruttamento del prodotto si realizza una
cremeria sociale a Macomer. In questo modo si vuole affrontare il tradizionale
problema dell’utilizzo totale dei sottoprodotti del latte (molte volte il siero andava
perduto per l’impossibilità di conservarlo e lavorarlo). Il grande edificio che
ospita le più moderne macchine per l’industria burriera, messa a disposizione
dall’industria europea specializzata, viene realizzato in pochi mesi. Per favorire
l’operazione la Cassa di Credito di Cagliari elargisce un premio
d’incoraggiamento di 10.000 lire.
La FEDELAC persegue il miglioramento tecnologico non solo nelle strutture
centrali della federazione, ma anche presso le varie latterie aderenti. La
Federazione propugna la costruzione di moderni fabbricati, per superare il fatto
che nel 1925 solo le latterie di Aidomaggiore, Norbello, Ozieri, Pozzomaggiore,
Santulussurgiu e Seneghe hanno locali di proprietà per la confezione, salatura e
stagionatura del formaggio. A Seneghe si costruisce una seconda caciara; una
viene aperta a Santu Lussurgiu; nuovi locali vengono eretti anche ad Abbasanta, a
Borore e a San Vero Milis. A Bonorva si riutilizzano vecchi locali costruiti da un
industriale napoletano che non ha retto la concorrenza degli altri monopolisti.
L’uso della caldaia svizzera (a fornello fisso e fuoco mobile), invece, di quella
romana, aumenta la produttività. Scrematrici moderne vengono impiantate ad
Ales, Cabras, Ozieri, Sedilo e Seneghe.
Nel 1927 il prezzo del latte per uso industriale sale rispetto all’anno precedente:
La stragrande parte delle latterie paga ai pastori il latte più di quanto facciano gli
industriali.
In questo clima si apre, sia sulla stampa locale che su quella nazionale, una
violenta campagna contro la FEDLAC e i suoi dirigenti, a cui i piliani rispondono
con lo stesso tono. Nello stesso tempo inizia l’azione di resistenza alla federazione
65
in diverse latterie, come quella di Nuoro che è controllata da industriali e gerarchi
locali.
Il piano dei monopolisti si basa sull’aumento del prezzo del latte pagato ai pastori,
per dimostrare l’inutilità della FEDELAC.
Sono i giorni delle voci allarmistiche sul tracollo della Federazione e della lotta
per il potere dentro il fascismo sardo e quello cagliaritano in particolare, tra Pili e
del suo antico sodale Putzolu.
Nell’agosto 1927 Putzolu, forse facendosi rappresentante di interessi diversi di
quelli eminentemente politici, lancia un violento attacco a Pili e alla Federazione
in un memoriale indirizzato alla direzione del Partito Nazionale Fascista. Subito
dopo si costruisce un’alleanza con il fascismo sassarese e con il suo gerarca più
rappresentativo, Lare Marghinotti, da sempre contro il progetto cooperativistico.
Il progetto FEDLAC gode fino all’estate del 1927 l’appoggio del PNF, sia della
federazione cagliaritana che del governo. Ma poi gli oppositori di Pili conseguono
i primi risultati quando Pili finisce sotto la scure del governo di Roma e dei
dirigenti nazionali fascisti. A sorpresa, durante l’assemblea annuale del 1927, Pili
si dimette dalla carica di Presidente della Federazione, forse per salvare la
FEDLAC dallo scontro che dilania il partito.
Nello stesso periodo la cremeria di Macomer, uno dei fiori all’occhiello della
Federazione, viene costretta alla sospensione dell’operatività, quando vengono
scoperte alcune frodi nei suoi confronti e falsificazioni nella sua contabilità.
L’esportazione diventa difficile a causa della decisione del governo di aumentare i
dazi e dal progetto di Mussolini di rivalutare la lira fino a raggiungere il cambio di
90 lire per una sterlina inglese. Problemi si hanno anche nel mercato nazionale in
conseguenza dell’introduzione di ribassi e calmieri.
Il 10 novembre 1927 inizia la sconfitta politica di Paolo Pili nel PFN quando è
costretto a lasciare la direzione dell’Unione sarda, quotidiano da lui usato come
strumento di pressione e propaganda. Quattro giorni dopo viene destituito dalla
segreteria provinciale di Cagliari del PFN e sostituito con un commissario
straordinario, Carlo Romagnoli, inviato dalla sede centrale di Roma; che assume
66
anche la direzione dell’Unione sarda. Tra i provvedimenti che Romagnoli prende
e che vanno contro Pili, c’è il reintegro nel PFN di Giovanni Turnu, vicino alle
idee che va sostenendo Putzolu. Inoltre viene revocata la tessera, anche se per solo
sei mesi, al presidente della Federazione Torriggia, che è sostituito anche nella
carica di segretario politico del fascio di Ghilarza con Lucrezio Dalmasso,
industriale caseario ostile alla cooperazione. Ancora Manconi viene minacciato di
espulsione e sono colpiti i presidenti di San Basilio e di Tuili, sostenitori degli
ideali piliani. A Nuoro il prefetto Ottavio Dinale, ex sindacalista rivoluzionario e
fascista della prima ora, vicino alle posizioni dei caseari, scioglie nel ottobre del
1927 il consiglio d’amministrazione della latteria di Macomer. Inoltre il
trasferimento degli uffici centrali della Federazione da Oristano a Macomer, segno
di un ripiegamento organizzativo e di una riduzione della spinta espansiva, pone
la FEDLAC sotto il controllo di Dinale.
Nell’assemblea generale della Federazione che si tiene nell’aprile del 1928, pur
contestati dai rappresentanti di alcune latterie periferiche, i dirigenti di fede
piliana riescono a mantenere il potere grazie alla presentazione di utile d’esercizio
di 74.455,96 lire.
La crisi dell’ente matura con la deflazione, frutto della politica della <<quota
novanta>>, che porta al ribasso dei generi alimentari, e innanzitutto del
formaggio, danneggiando in modo grave la produzione casearia della Sardegna
nel periodo in cui la Federazione è impegnata ad affrontare i problemi finanziari
della cremeria di Macomer.
Si arriva alla rottura del rapporto tra la Federazione e il suo agente a Castellamare,
che arriva a trattare con le singole latterie adenti alla Federazione. Le latterie si
dimostrano sempre più insofferenti ai regolamenti della FEDLAC e preferiscono
il rapporto diretto con gli acquirenti, mentre le maggiori ditte casearie si mostrano
unite e ben coordinate.
Il 28 dicembre 1928 viene approvato il piano di ristrutturazione basato su un
nuovo contributo dell’Istituto di Credito Agrario e su sacrifici che ricadranno sulle
latterie.
67
Diverse tra queste entrano in crisi: alcune non lavorano il latte dei soci, altre si
sciolgono, altre ancora affermano che l’anno seguente non continueranno
l’operato, altre, infine, ottengono di poter vendere in proprio la produzione
dell’anno successivo. Il 29 marzo 1929 viene approvato il bilancio del 1928 che è
in grave perdita, ma, nonostante la situazione disastrosa, l’assemblea conferma il
vecchio consiglio d’amministrazione.
L’inverno del 1928-29 è caratterizzato dalla lotta tra la FEDLAC e la Federazione
Agricoltori, che riunisce gli industriali caseari. Questi ultimi iniziano la battaglia
stabilendo il prezzo del latte tra i più bassi degli ultimi anni. La FEDLAC rende
nota la quotazione del formaggio venduto sulla piazza di New York, ciò fa risalire
il prezzo del latte. Gli industriali rispondono gonfiando il prezzo del latte per
mettere in difficoltà la Federazione e offrendo regali ai maggiori produttori. È la
fine della FEDLAC; gli industriali caseari, sono ridiventati i padroni del mercato
sardo.
Il Consiglio d’amministrazione della FEDLAC chiede aiuto alle autorità fasciste
(Pili si dimette dalla carica di presidente onorario della Federazione nella speranza
di favorirne la salvezza), ma un decreto del governo centrale del 15 maggio 1929
stabilisce la nomina di un commissario ministeriale e lo scioglimento del
consiglio d’amministrazione.
Il commissariamento termina nell’aprile del 1930 quando viene eletto un nuovo
consiglio che deve gestire la liquidazione della FEDLAC.68
Nel 1930 termina anche l’attività della “Latteria sociale di Bortigali” ceduta alla
famiglia Bozzano, che già possiede un caseificio a Macomer.
La fine dell’esperienza cooperativa, coinvolta nella lotta interna scoppiata nel
PNF, è segnata dalla spietata concorrenza degli industriali caseari, dalla mancanza
68 Cfr. F. Manconi – G. Melis, Sardofascimo e cooperazione: il caso della FEDLAC (1924-1930), in “Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico”, 1977, n° 8/10, dicembre 1977.
68
di capitali, dai debiti contratti presso i privati, dai prezzi troppo alti pagati per il
latte e l’affitto dei pascoli.69
69 Cfr. L. Pisano, Associazionismo e cooperazione, cit., pagg. 191-198.
69
2.4.2 Le mutue bestiame
Per rispondere al dilagare della violenza nelle campagne della Sardegna e
campagne della Sardegna proteggere il bestiame si istituiscono delle cooperative
di muta assicurazione. La prima nasce nel 1877 a Dorgali per volere di alcuni
proprietari, ma dal 1894 se ne formano numerose. La maggior parte delle mutue
estende la sua opera sul territorio di un solo comune, a vantaggio dei grandi
proprietari, dei piccoli allevatori e degli agricoltori, e funziona con successo
sopratutto nelle zone in cui l’ordine pubblico è sufficientemente garantito, mentre
nel Nuorese, dove imperversano furti e danneggiamenti, la loro vita è più difficile.
La formazione delle mutue bestiame spinge molti contadini ad allevare del
bestiame da lavoro, dopo che a causa dei numerosi furti subiti, avevano
rinunciato.70
Difficile si rivela la vita delle assicurazioni del bestiame che prevedono il
pagamento di una quota associativa, in base alla quale si provvede la ripartizione
del danno accertato e delle spese di amministrazione tra i singoli associati.
L’esazione delle quote per il risarcimento dei danni subiti risulta spesso
complicata, e ne deriva un contenzioso cronico che porta alla chiusura della
società e a lasciare irrisolte numerose pendenze economiche. Esempio ci viene
fornito dalla società cagliaritana “La previdente” che, nata nel 1904, ha vita breve
sommersa dai contenziosi. Per superare tali problemi la “Assicuratrice Sarda” che
sorge a Cagliari nel 1907, stabilisce di applicare ai diversi rami d’assicurazione
del bestiame il sistema utilizzato da tutte le compagnie assicuratrici, disponendo il
pagamento di un premio fisso, stabilito calcolando la probabilità dei danni, per
ogni cento lire di capitale assicurato.71
70 Cfr. G. G. Ortu, L’età giolittiana, cit., pagg. 94-97.
71 Ivi, pagg. pagg. 117-120.
70
2.4.3 Società molitorie
Lo stringente controllo sul commercio del grano esercitato dalle società molitorie
grazie a una fitta rete di intermediari locali, e la mancanza di enti e strutture che
favoriscano l’associazionismo dei piccoli e medi proprietari, fa permanere anche
nel settore della lavorazione e commercializzazione delle farine condizioni che
rendono difficile lo sviluppo della cooperazione. L’unica iniziativa che si registra
nella seconda metà del XIX secolo è quella animata da Andrea Passino a Cuglieri
nel 1891. Nel 1900 Passino tuttavia dopo quest’ultima non si erano formate altre
società analoghe perché le <<persone colte>> e le <<classi dirigenti>> - secondo
Passino - si interessano <<di politica, di questioni personali e di partito>>, ma non
di economia. Mancano nell’isola quei pionieri e apostoli della cooperazione che in
altre zone d’Italia <<hanno scosso l’apatia delle masse, hanno insegnato cosa sia
la cooperazione hanno formato i cooperatori>>.72
Secondo Passino bisognava spiegare ai contadini con parole semplici i vantaggi
dell’associazionismo. Tenendo presenti tali propositi egli fonda a Cuglieri una
cooperativa in cui soci versano il valore delle azioni non in denaro, bensì in grano,
perché l’agricoltore sardo <<si adatta più volentieri a concorrere con qualche
ettolitro di grano all’acquisto di una azione anziché versare una somma
qualsiasi>>.73 Passino vede con favore le cooperative, piuttosto che i Monti
frumentari, perché, pur basati sullo stesso meccanismo, nelle prime il capitale
sociale è versato spontaneamente dai soci che, per tutelarlo, partecipano alle
assemblee e godono dell’elettorato attivo e passivo, mentre nei Monti la
contribuzione è obbligatoria, l’amministrazione è nelle mani degli enti locali e gli
interessi dei prestiti sono destinati solo alle finanze del monte. Per sostenere la sua
tesi Passino cita i risultati della società da lui diretta che accresce il capitale dei
soci, favorisce la vendita delle granaglie e, in nove anni, è arrivata ad avere un
72 Cfr. A. Passino, Le associazioni cooperative nell’agricoltura sarda, Cagliari, 1900.
73 Cfr. Società cooperativa agricola in Cuglieri. Statuto, Bosa, 1891.
71
giro di cassa di 90 mila lire, funzionando da sindacato agrario per acquistare
attrezzi e concimi, iniziando l’attività con 15 ettolitri di grano e dieci lire,.
L’iniziativa di Passino non viene emulata in nessuna zona della Sardegna.74
La situazione migliora durante l’età giolittiana. La nascita di un grande impianto
capace di lavorare 300 mila quintali di grano realizzato della “Società Molini Alta
Italia” suscita la concorrenza dei tradizionali monopolisti del mercato sardo,
facendo incrementare i prezzi e concedendo maggiori possibilità di contrattazione
ai contadini.
Altra rilevante esperienza positiva è quella della “Società Logudoro”, attiva nel
settore della macinazione del grano, che ad Ozieri riesce anche ad ottenere la
concessione della fornitura dell’energia elettrica per il centro del Logudoro,
unendo fra loro due attività molto significative per la storia della cooperazione e
dello sviluppo tecnologico.
La SYLOS, società cooperativa impegnata nel settore cerealicolo, voluta da Paolo
Pili, nasce a Cagliari nell’ottobre del 1925 con lo scopo (come recita l’articolo 2
del suo statuto), di <<raccogliere ed agevolare lo smercio del grano prodotto in
provincia>>75
Il motivo che porta il gruppo dirigente fascista di Cagliari ( da notare che il primo
consiglio di amministrazione è composto quasi all’unanimità da quanti siedono in
componenti di quello della FEDLAC), a creare la SYLOS è la volontà di
contrastare il monopolio che la Società Esercizio Molini di Genova esercita nel
commercio cerealicolo in provincia di Cagliari. La società genovese dei fratelli
Merello fin dalla fine dell’Ottocento sfrutta la debolezza dei piccoli e piccolissimi
proprietari per imporgli prezzi molto più bassi di quelli vigenti nel mercato
italiano. Pili vuole superare tale situazione offrendo un prezzo maggiore ai
74 Cfr. “La Sardegna Cattolica” 12, 27 agosto e 9, 11 , 16, 31 dicembre 1896.
75 Costituzione della Cooperativa Sylos e del Consorzio per la Motoaratura, in <<L’Agricoltura sarda>>, 1° novembre 1925, pagg. 357 ss.
72
coltivatori e allo stesso tempo contribuire al successo della battaglia del grano,
voluta da Mussolini per eliminare l’importazione dall’estero del cereale. Pili
intende inoltre spingere a un maggiore sfruttamento della terra grazie all’uso di
macchine agricole e di concimi chimici e ad aumentare le superfici coltivate a
grano.
Riceve un finanziamento da parte della Cassa Provinciale di Credito agrario utile
per dare delle anticipazioni agli agricoltori e per fare compravenda di grano con
finalità dimostrative ma sufficiente per migliorare la situazione dei produttori. Tra
il 1925 e il 1927, la SYLOS commercia appena 20.000 quintali di grano, mentre
la produzione della provincia di Cagliari è di ben un milione all’anno, dei quali
350.000 destinati all’esportazione. Ma i risultati sono nonostante ciò rilevanti
poiché, nel 1926, il prezzo del grano sulla piazza di Cagliari è ormai simile a
quelli dei mercuriali nazionali. I fratelli Merello reagiscono con la serrata che
spinge la SYLOS ad acquistare grandi quantità di grano rimasto invenduto, ma il
prezzo del grano diminuisce, anche a causa della politica deflazionistica del
governo.
La decisione del regime di rivalutare la lira, portano nel 1927 la SYLOS a subire
una perdita di ben circa 250.000 lire del valore del grano immagazzinato. A
livello nazionale il prezzo del grano crolla. Scopia la crisi dell’ente cooperativo:
questioni interne, probabilmente collegate ai dilemmi che attanagliano il fascismo
cagliaritano, ed esterne, tra cui le manovre degli incettatori di grano del resto
d’Italia, portano ad alcune verifiche che mettono in luce delle irregolarità, che
sono usate per colpire i dirigenti della SYLOS. Viene dichiarato il fallimento della
cooperativa, e Pili, pur non avendo responsabilità oggettive nella gestione, deve
subire un giudizio civile per danni.
73
2.4.4 Casse rurali, Monti granatici e frumentari, Cooperative di
credito agrario
Sul finire del XIX secolo la formazione delle Casse rurali, molto travagliata in
Sardegna, vede in primo piano l’impegno dei parroci che tuttavia dinanzi a loro
trovano notevoli ostacoli. Sono in primo luogo gli stessi promotori ad avere delle
difficoltà nell’istituzione di questi istituti, che, erroneamente, assimilano ai Monti
granatici,76 nonostante l’impegno l’unica cassa rurale che il mondo cattolico
riesce a costituire è quella che sorge a Cagliar: pur dotata di un piccolo capitale e
di pochi affiliati, essa risponde ai bisogni di credito dei lavoratori della città, ma
non a quelli dei contadini.77
È bene ricordare comunque che a causa della crisi economica, della mancanza di
esperienza, e soprattutto della diffidenza verso le cooperative, l’azione dei
cattolici nella cooperazione agraria in Sardegna se non del tutto marginale,78 viene
ostacolata, proprio a Cagliari da un gruppo di nobili e proprietari, che componenti
del Comizio agrario, allo scopo di procurarsi capitali a modesto tasso d’interesse,
costituiscono una Cooperativa di credito agrario, facendo venir meno ai cattolici
la possibilità di raccogliere adesioni tra la mobilità fondiaria e il nobilitato rurale,
che abitano nel centro principale dell’isola.79
La legislazione speciale sulla Sardegna stabilisce, tra l’altro, la ricostituzione dei
Monti frumentari e la fondazione di una Cassa ademprivile che, con un capitale di
tre milioni di lire, anticipato dalle due Casse depositi e prestiti delle provincie
della Sardegna, devono concedere crediti e finanziamenti ai soli enfiteuti e
acquirenti dei beni demaniali. La legge n. 334 del 7 luglio 1901, che autorizza il
76 Cfr. “La Sardegna cattolica” 2, 4, 5, 15, 18 gennaio 1896; 23, 26 settembre 1896; 17 novembre e 6 dicembre 1896.
77 Cfr. F. Atzeni, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915, Cagliari, 1984, pag. 81.
78 Ivi, pag. 82.
79 Cfr. Società Cooperativa agricola per l’esercizio del credito agrario cooperativo, Cagliari, 1895.
74
Banco di Napoli ad esercitare il credito agrario in tutto il Mezzogiorno d’Italia,
accettando le cambiali agricole garantite dai Monti frumentari, in Sardegna porta
alla nascita di due Casse rurali: quella di Tempio e quella di Pozzomaggiore.
La prima legge sulle Casse ademprivili non ha successo fino all’approvazione di
una nuova, la n. 562 del 14 luglio 1907 che estende a tutti gli agricoltori le
disposizioni delle Casse, favorendo così lo sviluppo dell’associazionismo agrario
cooperativo.80
Nel 1909 si costituiscono le Casse rurali di Quartu Sant’Elena e di Sestu, mentre
a Monserrato viene istituita solo nel 1913.
Le Casse rurali, fra l’altro, fanno prestiti ai soci a breve termine per acquistare
sementi, concimi e sostanze anticrittogamiche, curative o insetticide, per dotare i
fondi di macchine ed attrezzi agricoli, di arnesi per manipolare e conservare i
prodotti rurali e quanto può essere utile all’attività agricola. Il prestito può essere
al massimo di mille lire, esteso a tre mila per il bestiame grosso e le macchine.
In alternativa sono le stesse Casse ad acquistare per conto dei soci, per poi
distribuirli ai medesimi, semi, concimi, sostanze anticrittogamiche, bestiame,
macchine, attrezzi e ogni altra cosa necessaria alla conduzione agricola; possono
inoltre vendere i prodotti agricoli dei soci, aprendo anche specifici magazzini di
deposito e spaccio, o trasferendo in magazzini comuni i prodotti stessi, e nel
frattempo anticipare parte del valore ai soci committenti.
Funzionano inoltre da enti intermedi con la Cassa ademprivile, elargendo prestiti a
breve termine.
Possono far ottenere ai soci prestiti a lungo termine dalla Cassa ademprivile,
destinati ai miglioramenti fondiari.
Secondo Gian Giacomo Ortu in età giolittiana il processo di innovazione culturale
e produttiva della piccola e media azienda agricola sarda si sviluppa soprattutto
grazie alle cooperative di credito. La diffidenza del contadino sardo viene superata
80 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione, cit., pagg. 98-102.
75
dagli effetti semplificatori e diffusivi dell’associazionismo. Un esempio è dato dal
grande aumento del consumo di concimi chimici che si registra tra il 1908 e il
1913.
Il cooperativismo permette di immettere importanti capitali nella povera
agricoltura sarda.
Più lento rispetto all’utilizzo dei concimi risulta l’acquisto delle machine agricole
assai costose. Per sfuggire al monopolio che vanno creando i primi intraprendenti
acquirenti, in alcuni casi le cooperative di credito sono spinte all’acquisto delle
machine, come fa la Cassa rurale di Siurgus che, già al momento della sua
fondazione, si fornisce di una trebbiatrice a vapore.81
Il destino delle Casse di risparmio ordinarie, dei Monti di pietà, degli istituti
ordinari e cooperativi di credito (oltre che di istituzioni quali i comizi agrari e le
associazioni agrarie legalmente riconosciute), è stato segnato dal Testo Unico in
materia di credito agrario licenziato nell’aprile del 1922.82 Una legge del maggio
1924 trasforma i Monti in Casse comunali di credito agrario, stabilendo che in
esse dovessero confluire tutti gli enti morali che esercitavano il credito agrario in
un comune, (ma in pratica ciò avviene solamente nel 1927 con l’’approvazione
della legge sul credito agrario). Le vittime principali di questa norma sono le
Casse rurali.
Come detto nel 1927 entra in vigore la nuova legge su credito agrario, che
presenta molti aspetti nuovi rispetto alla legge precedente. L’organizzazione
prevede un ente centrale, il Consorzio nazionale di credito di miglioramento, e
dieci istituti regionali, originati da strutture pre-esistenti. In Sardegna le due Casse
ex ademprivili, diventate, nel frattempo, provinciali, di Cagliari e Sassari,
vengono fuse nel Istituto di Credito Agrario per la Sardegna (Icas) che deve <<
81 Ivi, pagg. 129-135.
82 A. Lenza, Le istituzioni creditizie locali in Sardegna, Sassari, 1995, pag. 155.
76
coordinare, indirizzare ed integrare l’azione creditizia degli enti ed istituti locali a
favore dell’agricoltura>>,83 munito di un capitale iniziale di 22,4 milioni di lire.
L’Icas inaugura la sua attività nel febbraio del 1928 quando viene convocato il
Collegio commissariale nominato dal ministero dell’Economia nazionale per
organizzare il suo ordinamento e l’inizio della sua attività. I primi tempi sono
caratterizzati da difficoltà organizzative e dalle grandi sofferenze presenti nelle
due Casse provinciali.
I crediti di difficile realizzo, presenti nel bilancio del 1929 per un totale di 8
milioni di lire, sono costituiti dai finanziamenti dati alle latterie sociali, soprattutto
a quella di Macomer e alla Federazione delle latterie e, in misura più contenuta
(un milione e 300 mila lire a ciascuna) alle Cantine Sociali di Monserrato e di
Quartu Sant’Elena.84
Nel decennio successivo l’Istituto, superata le difficoltà, accresce la propria
posizione patrimoniale, accantonando nella sua riserva gli utili di esercizio. Nel
1938 capitale e riserve raggiungono gli 83 milioni di lire; piccola entità rispetto al
patrimonio delle grandi banche nazionali, ma grande se confrontata con quelli
degli istituti bancari sardi che l’avevano preceduto. L’Icas non riesce ad
affermarsi sul mercato della raccolta dei depositi fiduciari, che diminuiscono nel
decennio preso in considerazione. Per ovviare a ciò deve rivolgersi al riscontro
agevolato della Banca d’Italia e, soprattutto, alle anticipazioni concesse dal
Consorzio di credito agrario di miglioramento per il finanziamento degli ammassi
granari. Dal 1935 le operazioni (ammassi granari, della lana e dell’olio),
conseguenze della politica autarchica costituiscono la voce di gran lunga più
importante dell’Icas, sia all’attivo sia al passivo, diventando una rilevante partita
di giro. L’istituto contribuisce a migliorare la situazione dell’agricoltura in
83 R. D. L. 29 luglio 1927, n. 1509, art. 7.
84 Cfr. L. Conte, Dai Monti frumentari al Banco di Sardegna, in G. Toniolo (a cura di), Storia del Baco di Sardegna – Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, Roma-Bari, 1995, pag. 197.
77
Sardegna soprattutto con misure di tipo qualitativo, sia dal punto di vista tecnico
che organizzativo: forma personale; rende operativamente più unita la ramificata
rete delle Casse comunali; introduce metodi di gestione meno approssimativi.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale i sardi continuano ad affidare i loro
risparmi, agli uffici postali. Pertanto <<una parte considerevole del risparmio
sardo [va] a fecondare intraprese fuori dalla nostra isola>>85. Scrive ancora Alvia.
<<L’evoluzione industriale è in Sardegna, come quella agricola, più lenta della
formazione del risparmio: Tuttavia il problema del credito alle industrie sorgerà
non appena l’aumento della popolazione e l’istruzione tecnica avranno creato le
condizioni favorevoli al loro sorgere. Gli stessi bisogni cui oggi si cerca di
soddisfare gli istituti speciali di credito per l’agricoltura sorgeranno per
l’industria>>.86
85 G. Alvia, Fattori naturali e storia economica della Sardegna, Sassari, 1934, pag. 418.
86 Ivi, pagg. 420-421.
Cfr. G. Toniolo, Credito, istituzioni, sviluppo: il caso della Sardegna, in G. Toniolo (a cura di) G. Toniolo, Storia del Banco di Sardegna – Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, Roma-Bari, 1995, pagg. 83-86.
78
2.4.5 Le cooperative di consumo
Le cooperative di consumo riescono a raggiungere molti dei loro obbiettivi
nell’isola solo nell’Iglesiente, l’unica zona che presenta una popolazione con
numeri rilevanti che richiede tale tipo di servizi.
Nel 1883 nasce la “Società Cooperativa di Iglesias” che però inizia a funzionare
l’anno dopo. Creata dalla società Monteponi per rispondere al malcontento degli
operai locali, contrastando il carovita, si propone di fornire ai soci a prezzi
contenuti non solo gli oggetti di consumo e di uso domestico ma anche quelli
necessari all’attività mineraria, di concedere sussidi in caso di malattia o di
morte, di costituire una cassa per la vecchiaia e di sostenere l’educazione dei figli
dei soci. Teoricamente tutti possono diventarne soci, ma in realtà una serie di
clausole tendono a porre un freno alle iscrizioni e ad impedire che la società
Monteponi ne perda il controllo. La “Monteponi” acquista, alla nascita dell’ente
ben il 70 per cento delle quote sociali in modo che nessun gruppo di opposizione,
per quanto forte, la possa mettere in discussione. La società mineraria usa la
cooperativa come uno strumento per realizzare la propria politica sociale a favore
dei minatori ma anche di controllo e di ricatto degli operai più vivaci a cui spesso
nega i vantaggi previsti nello statuto dell’ente cooperativo. La “Monteponi” si
dimostra realmente interessata, per evitare disordini nei suoi siti, a tutelare il
potere d’acquisto della paga del minatore, purtroppo degli impiegati e dei dirigenti
della cooperativa cercano di trarne un utile personale che a volte diventa una
piccola fortuna. La cooperativa garantisce ai minatori di poter acquistare le merci
a prezzi più bassi di quelli praticati nei negozi di Iglesias e di pagare il mese
successivo senza interessi.
Tolte le spese di amministrazione, quasi la metà dell’utile viene annualmente
erogato in opere di assistenza e beneficenza.87
87 Cfr. G. Tore, Dal mutualismo alla cooperazione, cit., pagg. 64-70.
79
Tra il 1904 e il 1906 l’utilizzazione strumentale della cooperativa mostra
definitivamente come la società Monteponi vede la cooperativa come mezzo per
vincere le battaglie contrattuali bloccando il pagamento dei salari, svuotando i
magazzini della cooperativa, provocando artificiose crisi annonarie e obbligando i
soci ad acquistare in contanti.88
Altre cooperative di consumo nascono nello stesso periodo forse per l’influsso
della suddetta Cooperativa voluta dalla “Monteponi”. Nello stesso anno, 1883,
che viene fondata la cooperativa di Iglesias, sorge anche la “Cooperativa di
consumo fra gli operai della miniera di Masua”, voluta dalla direzione. Un'altra
cooperativa viene fondata a Bugerru riservata agli operai che lavorano per la
Società Malfidano.
Quest’ultima ha subito un grande successo perché gli abitanti del villaggio
vogliono sfuggire alle grinfie dei cantinieri e dei piccoli impresari che gli
strozzano e dopo cinque anni presenta un giro d’affari superiore a quella di
Iglesias. I tentanti di alcuni affaristi di prenderne il controllo vanno a vuoto, ma
segnano l’inizio di un periodo turbolento che termina solo con l’arrivo dall’Emilia
di un esperto militante socialista.
Vengono creati dei macelli cooperativi a Bugerru e a Carloforte.89
Le cooperative di consumo non produttivo non hanno successo in campagna
perché la maggior parte dei beni di sussistenza è prodotta e consumata nella stessa
azienda familiare o avviene per consuetudine con lo scambio in natura tra parenti
e conoscenti, sia normalmente o in caso di eventi. Sarebbero utili i negozi o gli
spacci cooperativi in città per reagire all’aumento dei prezzi e alle manovre degli
speculatori che hanno provocato grandi tensioni; ma anche nei centri urbani
regnano la diffidenza cronica e il debole spirito associativo, provocando una vita
dura a quelle poche che nascono.
88 Ivi, pag. 76.
89 Ivi, pagg. 77-82.
80
Esempio è dato dalla “Unione cooperativa di consumo di Cagliari”, sorta nel
1905, che pur contando un buon numero di aderenti nel 1908 finisce in perdita
perché i soci non comprano regolarmente nel negozio sociale. Sempre nella più
grande città dell’isola sorge nel 1909 una “Cooperativa case e alloggi che sostenta
dall’amministrazione comunale concentra le sue attenzioni soprattutto agli
impiegati.90
90 Ortu, L’età giolittiana, cit., pagg. 135-140.
82
3.1. Le Cantine Sociali in Sardegna dall’età giolittiana al periodo
fascista
Sul finire del XIX secolo durante una conferenza tenuta a Quartu Sant’Elena si
nota che la Sardegna è tra le regioni d’Italia solamente l’undicesima per terreni
impiantati a vigneto, ma è tra le zone con la miglior resa.91
Alle favorevoli condizioni climatiche e di resa purtroppo non corrisponde la
capacità dei produttori sardi di lavorare il mosto in modo eccelso. Tra i motivi che
determinano questa situazione Scano rileva l’assenza di moderne attrezzature,
inoltre risulta negativa la pratica d’impiantare, nello stesso terreno, diverse qualità
di vitigni che non consentono di proporre un vino tipico sardo. Per superare questi
impedimenti Scano propugna la nascita di cantine sociali dove trattare in modo
razionale la materia prima e realizzare prodotti di qualità.
Nel patrocinare la nascita delle cantine sociali si era distinto tra i primi Sante
Cettolini, pioniere della viticoltura moderna in Sardegna.
L’associazione o la cooperativa di produzione non sarà probabilmente
la panacea universale, ma io fermamente credo che in essa e per essa
che la Sardegna possa trovare il modo di avere un qualche conforto e
guardare all’avvenire con animo meno travagliato e dubbioso. Né mi
si dica che l’egoismo individuale qui sia sentito con maggiore
violenza che altrove e che qui più che altrove sia malagevole il dar
forma e sostanza alle cooperative. Attualmente è vero, si sentono
ancora tutte le diffidenze cagionate dalle imprese fallite in un passato
vicino, dei disastri finanziari di cui l’eco dolorosa ancora non tace; ma
non bisogna asserire in modo assoluto che il sardo non inclini alla
comunità del lavoro ed alla associazione degli intenti. E cosa erano i
monti frumentari di un tempo se non una forma di cooperazione? Ed il
barracellato? 92
Il tecnico ha da poco avviato, presso la Regia scuola di viticoltura e di enologia di
Cagliari, un piccolo stabilimento enologico, costruito con l’aiuto del Comune e
91 Cfr. G. Scano, Cantine sociali in Sardegna, Cagliari, 1896, pag. 10.
92 S. Cettolini, Le cantine sociali in Sardegna. Considerazioni e schema di statuto per una cantina sociale in Cagliari Cagliari, 1895, pagg. 14-15.
83
della provincia di Cagliari, oltre che del ministero dell’Agricoltura, che dispone di
una capacità lavorativa di circa 3.000 ettolitri, garantendo ai primi 11 soci
conferenti risultati soddisfacenti. Fondata nel 1893 resta in attività per due anni,
garantendo maggiori guadagni ai soci rispetto ai coltivatori che vendono il loro
prodotto sulla piazza.93 Ma questo risultato positivo anziché spingere alla
costituzione di altre cooperative nel settore vinicolo, porta molti di coloro che
hanno partecipato all’esperimento di Cettolini, ad affrontare in proprio il mercato,
convinti di ricavarne maggiori guadagni.
Cettolini si oppone all’idea di adottare in Sardegna una forma di cantina sociale
dove i soci conferiscono non solo l’uva, ma anche parte del fustame e del
macchinario; preferisce rifarsi agli esempi tedeschi, dove esistono molteplici
cantine comunali, costruite e sostenute dai municipi, e del Trentino, dove la Dieta
provinciale concede incentivi alle prime cooperative vinicole.
Nell’isola, d’altra parte, la maggioranza dei viticoltori produce di norma più
mosto di quello che può trasformare nella cantina di famiglia (questa ricorrente
sovraproduzione spiega perché in Sardegna il prezzo medio del vino non ha
superato nel decennio precedente le 10 lire ad ettolitro) e comunque non dispone
generalmente delle attrezzature necessarie per conservare in maniera corretta il
prodotto. Inoltre ormai sono quasi sempre i viticoltori a dover cercare il
compratore per riuscire a spuntare <<prezzi meno vili>> di quelli offertigli dagli
intermediari, mentre un tempo i produttori potevano <<permettersi il lusso di
attendere il compratore>>.
Tra gli avversari dell’idea cooperativa vi sono ovviamente coloro che speculano
sulle necessità dei piccoli possidenti, anticipando qualche soldo al momento del
più urgente bisogno; viceversa le cantine sarebbero particolarmente utili ai
proprietari “deboli” dal punto di vista economico. La struttura cooperativistica
ipotizzata è di tipo misto; prevede infatti, accanto ai soci produttori, l’intervento di
93 Cfr. S. Cettolini, Le cantine sociali in Sardegna, cit., pag. 4.
84
capitalisti privati, disposti a garantire, in cambio di un piccolo interesse, un ristoro
ai coltivatori nei momenti cruciali dell’attività.
Questi progetti pioneristici trovano peraltro non poche difficoltà a diffondersi. In
una nota sull’associazionismo cooperativistico scritta qualche anno dopo, Andrea
Passino, un altro studioso del mondo agricolo, osserva in modo sconsolato come
tra i contadini sardi il concetto stesso di cooperazione sia ancora sconosciuto nel
1900.94 Dopo aver citato alcune cooperative modello, già realizzate nel comparto
vitivinicolo a livello nazionale (la Vinicola di Brindisi, la Cantina sociale di
Oleggio e l’Unione enologica di Ripartesone), l’autore rileva l’esistenza, in
provincia di Cagliari, di aziende vitivinicole <<grandiose e belle>>, fornite di
tutti i moderni macchinari, le aziende Pernis, Zedda e Capra, e aggiunge che il
visitatore sarebbe rimasto ancor più sorpreso se quelle cantine avessero
rappresentato il prodotto di parecchie centinaia di piccoli produttori associati, i
quali avrebbero potuto usufruire di un agio che andava invece a favore degli
intermediari, interessati solo ai loro profitti, mentre i cooperatori avrebbero potuto
<<aver di mira l’interesse di tutti>>.95
In età giolittiana, grazie all’assistenza tecnica della Regia Scuola di viticoltura ed
Enologia e delle Cattedre ambulanti di agricoltura, i piccoli proprietari, che col
progressivo reimpianto con viti americane sconfiggono la filossera, iniziano a far
uso di concimi, lavorano il vino in modo razionale e comprendono l’utilità dei
sevizi che offre l’associazionismo.
In quegli anni, comunque, sull’onda dei processi di modernizzazione in atto,
anche nell’isola si registra una rilevante crescita della cooperazione nel mondo
agricolo, pur se rivolta prevalentemente alle attività di credito agrario, con le casse
rurali, e alle mutue di assicurazione del bestiame. Le cooperative di produzione
sono ancora invece pochissime e tra queste spiccano, la Cantina sociale a
94 A. Passino, Le associazioni cooperative nell’agricoltura sarda, Cagliari, 1900, pag. 7
95 Ivi, pag. 24
85
Monserrato e la Cooperativa vinicola di viticultori di Calasetta, mentre a Oliena e
Dorgali si costituiscono cooperative per l’impianto e la coltivazione di vigneti. La
Cantina sociale di Monserrato, nata con un capitale di 100 mila lire e con 450
soci, dimostra in un solo anno che essa è, per i piccoli produttori, uno strumento
capace di sfuggire alla morsa speculativa dei grandi commercianti e dei proprietari
delle maggiori cantine private.
Gian Giacomo Ortu ha sottolineato che, nonostante il rapido fallimento di queste
prime iniziative, l’esperienza di Monserrato ebbe comunque <<un valore
sintomatico e prefigurativo>>, e ha rimarcato come, per far fronte alle difficoltà
causate dalla filossera, i viticoltori della zona fossero ricorsi alle antiche
consuetudini di aiuto reciproco per il rimpianto delle vigne.96
La grave crisi produttiva che colpisce la viticoltura sarda nei primi decenni del
secolo limita queste prime forme cooperativistiche. Tra il 1905 e il 1910, quando
l’epidemia fillosserica arriva ad estendersi alla provincia di Cagliari, la
produzione di uva si riduce di due terzi, subendo poi un crollo maggiore con
l’entrata in guerra dell’Italia. Nel 1912 sono ormai perduti circa i 3/5 delle aree
coltivate a vite presenti nel 1880; mentre nel 1909-13 la produzione media della
Sardegna è stimata in 743.000 ettolitri (di cui 626.000 in provincia di Cagliari),
una cifra che costituisce l’1,6% della produzione nazionale.97
Durante quel decennio le esportazioni di vino dalla Sardegna segnano un calo
rilevante, tanto che nel 1920 superano di poco i 110.000 ettolitri.98 Inoltre agli
96 Cfr. Ortu, L’età, cit., pag. 135..
97 Cfr. Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Ufficio di Statistica agraria, Il vino in Italia. Produzione, commercio con l’estero, prezzi, Roma, 1914, pag. 20.
98 Cfr. G.M. Lei Spano, La questione sarda, Torino, 1922, pag. 333.
86
inizi degli anni Venti il valore delle importazioni di vino in Sardegna, circa 33
milioni di lire, arriva a superare quello delle esportazioni, poco più di 27 milioni.99
Fu in quel periodo che Cesare Testa, un esperto di tecnica commerciale che faceva
parte del consiglio direttivo dell’Istituto sardo di Milano, rivolge sulle colonne del
“Bollettino degli Interessi Sardi”, periodico della Camera di commercio di
Sassari, un nuovo accorato appello ai produttori di vino della Sardegna perché
costituiscano una grande organizzazione che unisca <<le differenti energie>> e
protegga <<l’azione dei singoli>>.100
La proposta nasce dalla constatazione dell’esistenza <<di qualche cosa di
anormale nel mercato vitivinicolo sardo>>, dal momento che la pochezza dei
raccolti e gli acquisti anticipati, nel caso di probabile aumento dei prezzi non sono
sufficienti a spiegare <<l’enorme e costante squilibrio dei prezzi dei vini sui
mercati sardi rispetto a quelli sui mercati nel resto d’Italia, specialmente dell’Italia
settentrionale>>. Per le loro qualità peculiari i vini sardi assomigliavano in vario
modo a quelli spagnoli e <<debitamente presentati e conciati secondo le esigenze
dei consumatori>> hanno tutte le potenzialità <<per essere introdotti nelle mense
signorili e nei grandi alberghi>>. Non a caso i grossisti spagnoli e francesi, che
riescono ad accaparrarsi in ottobre i vini sardi ancora grezzi, specialmente quelli
della zona del sud dell’isola, ad appena 135 lire all’ettolitro, riescono a
commercializzarli, preparati in modo positivo, realizzando prezzi che oscillano tra
le 10 le 20 lire a bottiglia.
La creazione di cantine sociali cooperative assume un rilievo significativo nel
programma economico del sardofascimo. A differenza del comparto lattiero-
99 Cfr. La bilancia commerciale della Sardegna, in “Bollettino degli interessi sardi”, I, n. 3 (16 giugno 1923), pag. 2.
100 C. Testa, L’organizzazione dell’industria e del commercio vinicoli in Sardegna, in “Bollettino degli interessi sardi”. I, n. 8 (1° settembre 1923), pag. 1.
87
caseario, quello vitivinicolo sfugge sostanzialmente a forme di controllo
monopolistico.101
Nel settore vinicolo, Pili si adopera per la costituzione di cantine sociali
cooperative per dare <<un nuovo indirizzo alla produzione vinicola, (…) creare
tipi di vino uniformi e costanti capaci di conquistare i mercati di consumo>>. Per
questo motivo nel 1925 viene istituita la Federazione delle cantine sociali
cooperative, con capitali forniti dalla Cassa provinciale di Credito Agrario di
Cagliari e poi dalla Banca Nazionale del lavoro, che rimane in vita durante il
fascismo, nonostante i vari tentativi di sostituirla con i consorzi di cantine
sociali.102
Poco dopo, sorgono altre importanti cooperative di produzione, come quella di
Jerzu nel 1929: la cooperazione vitivinicola comincia dunque ad affiancarsi e a
competere con l’industria privata in una fase nella quale, come risulta dal
Censimento industriale del 1927, operano nell’isola 24 stabilimenti enologici con
un totale di 103 addetti.
Nel complesso gli anni Venti fanno registrare una graduale ripresa nella
produzione, come conseguenza di un certo incremento della superficie vitata che,
prima della istituzione della nuova provincia di Nuoro, avvenuta nel 1928, è
localizzata per più dell’85% nella provincia di Cagliari.
La Sardegna – scriveva Giovanni Dettori sul finire del decennio – è
buona produttrice di celebri vini. Ma la vite, che pure ha alimentato
forti iniziative industriali , ha avuto il suo acerrimo nemico: la
filossera ed è ancora in corso la battaglia per debellarla. Pur tuttavia la
media della produzione poco si discosta da quella del Regno.103
101 Cfr. P. Pili, Grande cronaca minima storia, Cagliari, pag. 249.
102 Ortu, L’età giolittiane, cit. pag. 202.
103 G. Dettori, Sardegna in marcia, Roma, 1929, p.22.
88
Il rapporto tra superficie vitata e superficie agraria nel quinquennio 1924-28 resta
comunque ancora molto basso: appena l’1,7% contro il 15,1% della media del
Regno, dove peraltro è molto consistente la quota di vigneti a coltura
promiscua.104 L’aumento della produzione spinge un nuovo flusso di esportazione
dalla Sardegna di vino in fusti.105
Per rispondere alla crisi determinata dall’invasione fillosserica i piccoli produttori,
non solo si riuniscono in cooperative, ma cercano anche di migliorare i vini che
riscuotono il maggior successo, come il nuragus, e si spingono a tentare
l’esportazione in America. Si ottiene qualche successo, ma la crisi internazionale
del 1929 crea ulteriori difficoltà. La battaglia del grano, cavallo di battaglia del
fascismo, porta a un’ ulteriore diminuzione della superficie vitata e a una
conseguente contrazione della produzione vinicola.106
Va inoltre ricordato che, come ha giustamente osservato Luciano Marrocu, il
settore vitivinicolo paga un costituente tributo anche alla politica di
stabilizzazione monetaria decisa dal governo fascista. La piccola proprietà
contadina che si era indebitata negli anni immediatamente precedenti per
ristrutturare i vigneti, subisce le drastiche conseguenze dovute al crollo del prezzo
del vino, precipitato in poco tempo da 250 ad appena 60 lire ad ettolitro. Non a
caso nel dicembre del 1930 i viticoltori di Monserrato, riunitisi presso la sede del
locale fascio, organizzano una manifestazione di protesta che, però viene
duramente repressa.107
104 G. Alivia, Economia e popolazione nel Nord Sardegna, Sassari, 1931, pag. 99.
105 Ivi, pag. 303.
106 Cfr. M. L. Di Felice, Vite e vino tra Ottocento e Novecento. La memoria della tradizione, le promesse della modernità (1847-1940), in Il vino in Sardegna – 3000 anni di storia, cultura, tradizione e innovazione, Nuoro, 2010, pagg. 109-110.
107 Cfr. L. Marrocu, Il ventennio, cit. pag. 692.
89
L’organizzazione del I Convegno vitivinicolo sardo, che si tiene a Cagliari nel
1933, è da considerarsi un evidente tentativo del regime di rispondere, con
un’iniziativa di ampio respiro propagandistico, al malessere diffuso tra i viticoltori
oltre che, più in generale, tra i ceti agricoli.108
L’ampia e documentata relazione introduttiva di Sante Cettolini mostra un quadro
completo delle potenzialità della viticoltura sarda.109 A caratterizzare la
produzione vinicola isolana sono soprattutto i bianchi, distinti tra gli asciutti e i
liquorosi dolci.
Al primo gruppo appartengono il semidano, il nuragus, la malvasia e la vernaccia.
Nonostante fosse ormai <<quasi del tutto abbandonato>>, il semidano è secondo
Cettolini, <<un vino eccellente, di moderata gradazione alcolica, di un bel colore
paglierino, di sapore netto, balsamico; di profumo caratteristico, delicato e
insieme pronunciato; ottimo vino da pesce>>.110 Il nuragus, invece, che un tempo,
a causa dei sistemi di vinificazione tradizionale, era <<una gemma avvolta nella
ganga>>, è ormai riuscito ad imporsi presso i buongustai e, come ha saputo
dimostrare intelligentemente il tecnico della Federazione delle Cantine sociali del
Campidano, può dar vita a tre tipi di vino: non solo due prodotti ad alcoolicità
variabile tra i 12 e i 14 gradi, ma anche un vino liquoroso semidolce, paragonabile
al madera, specialità della Cantina Sociale di Monserrato.111
Cettolini afferma inoltre che la Regia Scuola di enologia è riuscita a realizzare
dalla malvasia due prodotti differenti: al tipo classico ne affianca un altro,
denominato Cagliari secco (che è <<un magnifico vino che non sfigurava accanto
108 Cfr. Comitato regionale vitivinicolo presso il Consiglio provinciale dell’economia corporativa di Cagliari, Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, Cagliari, 1933.
109 Cfr. S. Cettolini, Vini tipici sardi e Consorzi relativi, in Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, cit.
110 Ivi, pag. 17.
111 Ivi, pag. 18.
90
a quello del Reno, quando veniva bevuto col pesce>>),112 mentre la malvasia
asciutta, ottenuta con l’uva leggermente appassita, viene consigliata <<agli
ammalati d’influenza o ai convalescenti, ma anche dopo un lavoro estenuante ed
una partita di caccia faticosa>>.113
Qualità medicamentose, soprattutto – si dice - per prevenire la malaria, sono
attribuite anche alla vernaccia, un altro vino ad alta gradazione alcoolica, di colore
<<più o meno ambrato, un profumo penetrante ed etereo, e un sapore delicato che
lascia un ricordo evanescente di mandorla che si assimila magnificamente agli
amaretti, un’altra specialità di Oristano>>.114
Ricordando poi come il Gemelli avesse definito nel 1776 il moscato <<il re dei
vini liquorosi dolci>>, Cettolini spiega che la migliore qualità di questo vino,
<<adattissimo per le signore e da mescere alla fine del pranzo coi dolci>>, si
ottiene grazie all’uso di uve leggermente appassite; circa il nasco, riporta la
positiva valutazione che era stata formulata sul finire dell’Ottocento dagli enologi
austriaci che lo avevano paragonato <<al famoso tokay, orgoglio dell’enologia
ungherese>>.115 Si rammarica invece che non sia altro che un prezioso ricordo il
torbato di Alghero <<vino veramente aristocratico e tipico, superbo nella sua
delicata dolcezza, nella giusta alcoolicità, come vino liquoroso>>.116
Dopo aver riassunto le indicazioni contenute nella legge n. 30 dell’11 gennaio
1930, che stabilisce regole precise per la produzione e la commercializzazione dei
vini tipici e sulla formazione dei consorzi, l’enologo esprime i suoi dubbi sulla
possibilità che nelle specifiche condizioni <<della possidenza agricola e
112 Ivi, pag. 19.
113 Ivi, pag. 20.
114 Ivi, pag. 23.
115 Ivi, pag. 26.
116 Ivi, pag. 14.
91
dell’organizzazione commerciale sarda>> nell’isola si possa realizzare un
Consorzio dei vini tipici. Suggerisce perciò di puntare piuttosto che su <<Enopoli
di ammassamento del vino>>, su <<Cantine sociali accentratrici di produzione
viticola>>, da collegare in consorzi specializzati, ai quali possano partecipare
anche i maggiori negozianti del settore. Infine propugna la creazione di un grande
Enopolio consorziale, facente capo alle cantine sociali esistenti, ma capace di
attrarre anche quei produttori ancora legati alla consuetudine di vinificare da soli
la propria uva e di <<popolarizzare, oltre il vino tipo Campidano, anche quello del
nuragus e degli altri vini tipici della zona>>.117
Durante lo stesso consesso Michele Arnaldi, commissario governativo per la
Federazione delle cantine sociali, evidenzia alcune criticità relative alle vicende
relative della principale cantina sociale del Cagliaritano. Ricorda infatti che la
Cantina di Sestu è fallita, mentre quella di Quartu continua ad essere in vita
soltanto perché uno statuto ferreo costringe i soci a conferire comunque l’uva ad
un prezzo inferiore rispetto a quello offerto dal mercato; quella di Monserrato
invece ha dovuto ridurre di un quarto il suo capitale <<per far fronte all’onere di
lire 99.483 che per interessi passivi e spese di cambiali>> gravando l’esercizio
del 1932118
Coraggiosamente e sinceramente – affermava sconsolato – bisogna
riconoscere che la propaganda cooperativistica pro cantine sociali non
ha dato i frutti che si aspettavano, che esse con i mezzi di cui
dispongono non sono in grado di sostenere il mercato vinicolo, e che
bisogna perciò studiare se convenga battere un’altra strada includendo
nello studio anche il problema della utilizzazione dei sottoprodotti,
ormai pacifica riconosciuto da tutti come il mezzo più efficace per
ridurre il costo di produzione.119
117 Ivi, pag. 33.
118 Ivi, pag, 98.
119 Ibidem.
92
Per Arnaldi la produzione di vino della Sardegna, <<superiore a quella richiesta
dal fabbisogno delle popolazioni isolane sobrie ed abituate ad un modesto tenore
di vita>>, non è di quantità tale <<da incoraggiare un’adeguata organizzazione
privata del commercio di esportazione>>, per cui le ditte che commerciano col
continente sono poco più che intermediarie di grossisti che finanziano
accaparramenti ed hanno quindi l’interesse <<a deprimere il mercato per
aumentare la quantità dei loro affari>>.120
Il nodo degli sbocchi commerciali viene affrontato con un’altra angolazione da
Renato Zedda, presidente del Consorzio per la viticoltura, il quale, dopo aver fatto
presente che il commerciante all’ingrosso anticipa sia il valore del prodotto, sia il
fustame e tutte le spese di trasporto, e paga l’uva o il vino al produttore per
contanti, chiede che si impongano regole precise perché siano commercializzati
fuori dall’isola solo vini scelti, esenti da ogni e qualsiasi difetto e perfettamente
lavorati.121
Dopo il Convegno del 1933 non mancano in Sardegna alcune iniziative tese a
trovare nuovi spazi di mercato. Si migliora qualitativamente un vino largamente
diffuso come il nuragus, che ottiene un buon successo a livello nazionale;122
mentre le prime partite di vini fini mandate negli Stati Uniti d’America
sembrarono incontrare <<il massimo favore dei consumatori>>.123 Tuttavia nella
media degli anni 1934-36 la produzione globale è la metà di quella degli inizi del
120 M. Arnaldi, Proposte di un ente vinicolo sardo, in Atti del I Convegno vitivinicolo sardo, cit. , pag. 97
121 Ivi, pag. 82.
122 Cfr. M. Zucchini, I vini tipici della provincia di Cagliari all’Esposizione nazionale di Siena, Siena, 1935.
123 Cfr. Archivio di Stato di Cagliari, Prefettura, Relazioni 1934, cart. n. 30, gennaio, Rapporto del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa.
93
decennio, essendo di poco più di 300.000 ettolitri.124 Sul finire di quel decennio le
cantine sociali operanti nell’isola dispongono di una capacità complessiva di
lavorazione di 310.000 ettolitri.125
Nell’analizzare la realtà della viticoltura sarda sul finire degli anni Trenta, il
geografo francese Maurice Le Lannou sottolinea il ruolo nevralgico della regione
sud-orientale del Campidano di Cagliari, circa 7.000 ettari di vigneti, in una
campagna che alterna spesso la coltura della vite a terreni seminativi, che si
estende da Pirri e Monserrato fino a Soleminis e Dolianova.126 Nettamente
preponderante risulta sempre la piccola e piccolissima proprietà: molti di questi
viticoltori svolgono anche qualche lavoro complementare (chi fa il saliniere, chi il
carrettiere, chi il bracciante stagionale). Ancora più caratteristica sul piano sociale
è la viticoltura diffusa nelle isole di San Pietro e Sant’Antioco con la prospiciente
fascia litoranea del Sulcis, dove agisce in modo vitale la singolare figura del
pescatore-vignaiolo: nella sola San Pietro su 1.784 capifamiglia se ne possono
contare più di 1.600.127 Rilevanti per la coltivazione dell’uva sono anche i territori
di Alghero e di Sorso, nel nord-ovest della Sardegna, e, sul versante orientale,
l’Ogliastra, definita per le sue colline e la contestuale presenza di ampi oliveti, una
“Toscana in miniatura”.
Dopo aver descritto la formazione relativamente recente di queste zone viticole, -
risalenti agli anni che seguirono all’editto delle chiudende -, Le Lannou spiega
con la mancanza di una lunga tradizione il fatto che i viticoltori del Cagliaritano,
124 Cfr. Confederazione fascista degli industriali, Federazione nazionale fascista degli industriali di vini e liquori, Annuario dell’industria italiana dei vini, liquori e affini, Milano, 1938, pag. 43.
125 A. Mori, Sardegna, Torino, 1966, pag. 389.
126 M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, tradotto e presentato da M. Brigaglia, Cagliari, 1979, pag. 238.
127 Ivi, pag. 242.
94
benché molto operosi, siano dei pessimi vinificatori, e anche perciò propone una
valutazione del tutto positiva sul ruolo delle cantine sociali.
Questa fortunata espropriazione – scrive il geografo francese – è stata
realizzata con la creazione di due Cantine cooperative, quella di
Monserrato, nata nel 1924, e quella di Quartu sant’Elena, nata nel
1928. La prima ha 465 soci, la seconda 270. I viticoltori vi portano la
loro uva, oppure del vino non completamente lavorato che la Cantina
trasforma e rifinisce. Ogni anno i piccoli carretti trainati da asini vi
trasportano fino a 27.000 quintali d’uva e, qualche settimana più
tardi, 20.000 ettolitri di vino ancora da lavorare. Il proprietario
percepisce immediatamente, per ogni quintale d’uva o per ogni
ettolitro di vino, un prezzo che è di poco inferiore al prezzo medio
offerto dalla piazza; e riceve un’altra quota parte quando la vendita del
prodotto (anch’essa a carico della Cantina) è, stata completata. Questa
organizzazione cooperativa, analoga a quella dei frutticoltori del
Giura, ha ottenuto risultati particolarmente felici. Capace di sostenere
durante la vendemmia i prezzi dell’uva, remunera in maniera
soddisfacente il lavoro del produttore: prima dell’istituzione delle
Cantine, i prezzi erano tenuti molto bassi dall’azione concertata dei
commercianti non esportatori, che esercitavano un vero e proprio
monopolio nella fornitura del vino all’interno dell’isola. Il secondo
elemento di progresso è di ordine tecnico: ben attrezzate, le Cantine
danno dei vini uniformi dai tipi ormai ben definiti, ed hanno già
condotto il Nuragus ad essere classificato tra i vini più quotati del
Regno.128
128 Ivi, pag. 241.
Cfr. S. Ruju, Le cantine sociali sarde nel Novecento, in M. L. Di Felice e A. Mattone ( a cura di), Storia della vite e del vino in Sardegna, Roma-Bari, 1999, pagg. 306-312.
95
3.2. La Federazione delle Cantine Sociali e le Cantine di
Monserrato, Quartu Sant’Elena e Sestu negli anni Trenta: la crisi
del settore vitivinicolo e i contrasti interni.
96
3.2.1 Crisi economica e Crisi finanziaria (1930-1933)
A est del Campidano, le formazioni mioceniche, plasmate a colline, si
frappongono tra la pianura e alture centrali, ma queste si elevano
energicamente: i monti del Sarrabus formano uno sfondo maestoso ai
bassi vigneti di Quartu Sant’Elena, sobborgo di Cagliari, e più a nord,
c’è solo una decina di chilometri tra i campi ben coltivati di
Dolianova, a meno di 200 metri di altitudine, e il massiccio granitico
di Punta Serpeddì, che culmina a 1.069 metri.129
Il predominio della cultura della vite nel Campidano di Cagliari, come riportato in
tanti saggi, è testimoniato anche in diversi documenti conservati nel Fondo della
Prefettura di Cagliari.
Si veda ad esempio il documento che il prefetto di Cagliari scrive il 26 febbraio
I933 a Mussolini nel quale l’alto funzionario, evidenziate le ricchezze di questa
parte dell’isola ne sottolinea, tuttavia, le attuali, gravi, condizioni, nel pieno della
crisi economica scoppiata nei primi anni Trenta. Il Campidano di Cagliari –
ricorda il prefetto -
costituisce la zona più intensamente coltivata e popolata dell'Isola e
nella sua piccola superficie concentra un terzo della produzione
viticola sarda, sono coltivati esclusivamente a vite circa I0.000 ettari
di terreno, che danno una produzione media annua di 300.000 ettolitri
di vino, due terzi bianco ed uno nero, dei quali circa 20.000 presso le
Cantine Sociali di Monserrato (Cagliari).
Tale prodotto, che, fino a qualche anno fa, ha rappresentato per il
Campidano una ricchezza cospicua, dato l'elevato prezzo del vino, che
aveva superato anche la quotazione all'ingrosso di lire I50 l'ettolitro,
oggi costituisce un ingombro nei magazzini, o si vende al prezzo
meno che redditizio di L. 50.
Le condizioni economiche del Campidano, attrezzato in regime
esclusivo di monocultura, sono pertanto direttamente connesse al
valore del vino ed hanno subito alterne vicende di prosperità e di crisi
a seconda delle variabili quotazioni del prodotto, interessando
direttamente un nucleo di popolazione di circa 60.000 abitanti, ripartiti
nei Comuni di Quartu Sant'Elena, Sestu, Sinnai, Dolianova ed Elmas e
129 Cfr. M. Le Lannou, Pastori e Contadini, Il Prefetto di Cagliari, Cagliari, 1979.
97
nelle frazioni rurali di Monserrato, Pirri, Selargius e Quartucciu, sulla
Città di Cagliari.130
Lo stato di grave crisi che colpiva il sud della Sardegna si legava a quello del
comparto vitivinicolo, evidente già dalla fine degli anni venti, come indica la
lettera che il 5 febbraio 1930 la Federazione Provinciale fascista dei commercianti
di Cagliari indirizza allo stesso Prefetto per sollecitare i necessari interventi:
La crisi economica in cui versa oggi il Campidano di Cagliari devesi
ascrivere principalmente all'unicità' della sua produzione =solo vino=
ed alla universale crisi del vino con produzione enormemente
aumentata (Il Sud America, l'Australia, il Sud Africa e la Russia sono
nuovi formidabili viticultori che oggi esportano in concorrenza anche
sui mercati Europei; e gli Stati Uniti d'America ci hanno chiuso le
porte).131
Ed è proprio la Federazione delle Cantine sociali a sollecitare il Prefetto, il 22
aprile 1930, in merito alla grave situazione della popolazione di questa parte della
regione a cui non solo manca il lavoro ma anche il pane, tanto la propria
sopravvivenza è dipendente dalla coltivazione viticola:
Le condizioni economiche del Campidano di Cagliari già note
a Vostra Eccellenza diventato ogni giorno più precarie in conseguenza
dell'acutizzarsi della crisi sul commercio del vino, ed è per questo che
in qualità di Presidente della Federazione Cantine Sociali alla quale
sono affidate le sorti di mille produttori di vino, -sentito il parere delle
autorità locali -mi azzardo a presentare all'Eccellenza Vostra il
presente memoriale perché Ella possa trarne dal contenuto di esso il
convincimento della grave posizione della nostra popolazione
130 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 376, Il Prefetto di Cagliari di Cagliari al Capo del Governo, Cagliari 26 febbraio 1933.
131 Ivi, La Federazione Provinciale fascista dei commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari 5 febbraio 1930.
98
eminentemente viticola, che è oggi priva non solo dei mezzi necessari
per la coltivazione dei vigneti, ma perfino manca del pane.132
La crisi vinicola travaglia tutta la Provincia di Cagliari – ricorda sempre il prefetto
- che è tra le primissime in questo genere di produzione agricola. Ma, in modo
speciale, si riflette sulle condizioni economiche delle frazioni di Cagliari e dei
Comuni di Quartu Sant'Elena e Sestu specialmente, per il fatto che l'unica
produzione locale è costituita dal vino: <<la coltura della vite e la produzione del
vino procura i mezzi di vita alla gran maggioranza delle popolazioni e costituisce
il principale cespite di attività intorno a cui fioriscono tutti gli altri; per modo che,
caduto il commercio del vino, è venuta meno ogni qualunque risorsa per le
popolazioni che abitano nella pianura circostante la Città di Cagliari.>>.133 Anche
altre regioni della penisola si trovano nelle medesime condizioni, ma in Sardegna
gli effetti della crisi sono aggravati però <<dalla distanza di notevoli mercati
d'esito e dall'assoluta impossibilità da parte dell'interno dell'Isola di assorbire il
prodotto esuberante del Campidano di Cagliari.>>134
Una lettera di Arturo Marescalchi, sottosegretario all’Agricoltura e Foreste,
sempre in maggio a Giovanni Cao di S. Marco, sottosegretario di Stato per le
Comunicazioni, testimonia l’interesse dei politici sardi a livello governativo
perché le Cantine sociali del cagliaritano ricevano aiuti finanziari durante la crisi:
In relazione al vivo, interessamento da te spiegato in merito alla
crisi vinicola in atto nella provincia di Cagliari, mi è gradito informarti
che con lettera odierna ho impartito istruzioni all'Istituto di Credito
Agrario per la Sardegna affinché alle Cantine Sociali della provincia
predetta, debitrici per prestiti di esercizio impiegati nell'attrezzare
impianti enologici, siano concessi corrispondenti mutui agrari di
132 Ivi, La Federazione delle Cantine sociali di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 22 aprile 1930.
133 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero Agricoltura e foreste, Cagliari, 6 maggio 1930.
134 Ibidem.
99
miglioramento, da emettere al beneficio del concorso statale negli
interessi.
In attesa che possano concludersi tali operazioni, ho parimenti
inviato l'Istituto predetto a sospendere la riscossione dei prestiti di
esercizio sopra ricordati scaduti o di imminente scadenza. 135
Sono diverse le lettere che testimoniano l’iniziativa del Sottosegretario del
Ministero dell'Agricoltura e Foreste in Roma per sollecitare le Ditte della penisola
ad acquistare il vino delle cantine sociali sarde, come quella di risposta spedita
<<dagli stabilimenti enologici dei Fratelli Folonari>> di Brescia allo stesso
Marescalchi:
Abbiamo ricevuto le di Lei comunicazioni in merito alle pietose
condizioni in cui si trovano i viticultori del Campidano.
Sinceramente noi in questo momento non abbiamo necessità di
acquisto; il consumo, purtroppo, come V. E. sa', attraversa un
periodo di forte crisi ed è in continua riduzione. Non vogliamo
lamentarci non essendo questa la ns/ abitudine; ma certamente però la
attuale imposta, non lieve, e sopratutto l'eccessivo fiscalismo con la
quale essa viene applicata, non è favorevole alla ns/ industria e di
conseguenza, oltre a noi ne risentono i viticultori.
Cercheremo ad ogni modo di venire incontro al desiderio dell'E. V.
espressoci, ed abbiamo già scritto alle Cantine del Monserrato per
avere campioni e quotazioni e se appena ci sarà dato di fare qualche
cosa, lo faremo ben volentieri onde fare all'E.V. cosa gradita136
Interessante la lettera di risposta della Ditta Ralph Pacor al biglietto urgente di
servizio di Marescalchi:
Purtroppo questi ottimi vini, che conosco benissimo, non possono
venire presi in considerazione per il commercio d'esportazione via
Trieste, il quale è costretto a concentrare i suoi acquisti in quelle
regioni che offrono oltre il vantaggio delle spese di trasporto minime,
la possibilità del rifornimento si può dire immediato, fattori
importantissimi nella situazione odierna.
135 Ivi, Sottosegretario all’Agricoltura e Foreste al Sottosegretario di Stato per le Comunicazioni, Cagliari, 14 maggio 1930.
136 Ivi, Fratelli Colonari ad Arturo Marescalchi, Brescia , 16 maggio 1930.
100
A mio modo di vedere, l'unica via di uscita sarebbe il tentativo di
smerciare tale vino in Isvizzera, ove appunto si smerciano delle
qualità a 13 gradi. Però in questo caso, il nostro porto non potrebbe
venire preso in considerazione, mentre sarebbe più indicato quello di
Genova che trovandosi molti più vicino in rispetto tanto alla Sardegna
quanto alla Svizzera, offrirebbe maggiori vantaggi.137
La crisi vinicola poteva anche costituire motivo di “azione perturbatrice”
dell’ordine pubblico, secondo quanto scritto dalla Prefettura di Cagliari al
Questore di Cagliari:
Prego la S.V. di fare eseguire da oggi la più rigorosa e continua
vigilanza sullo spirito pubblico in relazione alla crisi vinicola e ad
un'eventuale azione perturbatrice che da sconsigliati si sia o si voglia
tentare per il Comune di Sestu e per la frazione di Monserrato.
Vorrà accertare anche gli autori della notizia che il Podestà di Sestu
ha dichiarato di essere stata diffusa, circa un'eventuale riaffermazione
del Lussismo.138
Nel giugno del 1930, presso il Gabinetto del Prefetto,.si riuniscono tutte le
personalità della zona, tra cui, L’Onorevole Tredici, il Segretario Federale, il
presedente della Provincia, i Podestà di Cagliari e Sestu e i Delegati Podestarili di
Monserrato, Selargius e Quartucciu, il Presidente della Federazione Cantine
sociali e i Presidenti delle Cantine Sociali di Quartu Sant’Elena e di Sestu,
l’Ingegnere Contivecchi delle omonime saline, l’Ingegnere Marchi che è il
Direttore delle Saline di Stato e l’Ingegnere Custer del Genio Civile. Viene allora
esaminato un memoriale presentato dal Sarigu, Presidente della Federazione
Cantine Sociali, sulle necessità di ogni singola cantina aderente alla Federazione e
della Federazione stessa allo scopo di ottenere un finanziamento di circa
5.000.000 di lire. Nel documento si afferma quanto segue:
137 Ivi. Ditta Ralph Pacor ad Arturo Marescalchi, Trieste, 17 maggio 1930.
138 Ivi, Prefetto di Cagliari al Questore di Cagliari, 19 maggio 1930.
101
La produzione totale vinicola del Campidano si aggira sui 170 mila
ettolitri di vino. Al presente alla Federazione fanno capo un migliaio
circa di associati che rappresentano una produzione totale di circa 100
mila ettolitri. Di questi le tre Cantine hanno lavorato quest'anno in
complesso 33.000 ettolitri. Col piano di sviluppo praticato si vorrebbe
portare la capacità della Federazione a 70.000 Ettolitri. Si vorrebbe
cioè completare l'attrezzatura delle Cantine di Quartu e di Monserrato
e impiantare quella di Sestu che attualmente è priva di macchinari;
oltre a ciò si dovrebbe istituire uno stabilimento enologico federale per
le miscele, per la lavorazione dei mosti, distilleria e sfruttamento di
sottoprodotti. È stata riconosciuta la necessità di appoggiare
l'iniziativa dando ad essa uno sviluppo graduale e ciò anche allo scopo
di non turbare l'assetto economico attuale. 139
Il Prefetto appoggia a livello ministeriale il memoriale dì cui allega una copia, per
chiedere il finanziamento di 802.360 lire al fine di completare l'attrezzatura degli
stabilimenti:
La somma non appare eccessiva se si considera che deve andare
ripartita fra lo stabilimento Federale e le tre Cantine dipendenti di
Quartu Sant'Elena, Sestu e Monserrato, e che importa l'acquisto di un
nuovo stabilimento federale e la costruire di tre magazzini e reparti
nuovi per le tre cantine dipendenti. Dalla migliorata attività della
Federazione trarrebbero indubbi ed immediati vantaggi non soltanto i
duemila soci delle Cantine, ma la maggior parte dei coltivatori dei
13.000 ettari di terreno vitato del Campidano di Cagliari e
specialmente i piccoli e medi proprietari, che sono proprio i più
duramente colpiti dalla crisi, come ho già avuto occasione di segnalare
in precedenza. La Federazione confida che la predetta somma possa
essere erogata, a titolo di su sussidio straordinario sui fondi che
potranno essere a disposizione dell'E.V. per tali scopi.
Ove la concessione del sussidio straordinario predetto non fosse
possibile, la Federazione domanda che la somma venga concessa
almeno come mutuo a lunga scadenza con interessi di favore da porsi
a carico dello Stato, almeno in parte. Aggiungo infine che la
Federazione si è dichiarata pronta ad esibire o preparare tutti i progetti
139 Ivi, Verbale della Riunione presso il Gabinetto del Prefetto di Cagliari sulla Situazione economica del Campidano di Cagliari, Cagliari, 11 giugno 1930.
102
concreti e i programmi tecnici che saranno ritenuti necessari dall'E.V.
quando si tratterà di definire la pratica.140
Il suddetto memoriale firmato da Francesco Sarigu Congiu, Presidente dalla
Federazione delle Cantine Sociali, definisce la richiesta di sovvenzione
<<puramente indispensabile perché la Federazione delle Cantine Sociali possa per
lo meno funzionare con una certa larghezza di mezzi tecnici adatti ad
immagazzinare un quantitativo maggiore di vino>>.141
Il memoriale poi passa a descrivere la situazione e i bisogni di ogni singola
cantina.
Per la Cantina Sociale di Monserrato <<è urgentissima del magazzino
vendemmia>>142, e sono forniti i costi per costruirlo e per i tini necessari per
renderlo funzionale..
Per la Cantina Sociale di Quartu Sant'Elena quello che è <<assolutamente
indispensabile è la costruzione del reparto vendemmia>>143. La spesa
approssimativa per questa costruzione e l'acquisto di un'altro torchio è calcolato in
150.000 lire.
Infine è descritta la triste situazione della Cantina di Sestu:
E veniamo ora alla Cantina Sociale di Sestu. -Questa non ha alcun
stabilimento bensì delle cantinette prese a prestito dagli stessi soci e
sono delle vere e proprie topaie. Non dispone di fustame né di
macchinario e in simili condizioni non può assolutamente reggersi.
Detta Cantina Sociale ha acquistato a suo tempo un'area di terreno
fabbricabile all'ingresso del paese, non si tratta, quindi, che di
140 Ivi, Il prefetto di Cagliari al Ministero dell’Agricoltura, Memoriale della Federazione, Cagliari, 20 giugno 1930.
141 Ivi, Relazione tecnica della Federazione delle Cantine sociali di Cagliari, Monserrato, 26 giugno 1930.
142 Ibidem.
143 Ibidem.
103
costruire il magazzino per una capacità di almeno 6.000 ettolitri
anziché di 10.000 come si era progettato. 144
Il Prefetto espone delle osservazioni critiche circa il progetto presentato:
La produzione vinicola del Campidano di Cagliari, ove
agiscono le Cantine Sociali, è calcolata in 170.000 ettolitri di vino di
cui 3/4 bianco e 1/ 4 rosso. Al presente la Federazione accentrata
circa 1/ 5 di questa produzione (33.000 ettolitri). I soci però
rappresentano la produzione di oltre la metà ( cioè 100.000 ettolitri).
Di questi si vorrebbe, ampliando le Cantine, lavorarne 70.000, pari ai
2/ 5 circa della produzione totale di quella zona.
Una volta creato un organismo tecnicamente efficiente, occorrerà
porsi il problema commerciale che molto spesso, e particolarmente in
periodo di crisi = quando cioè più efficace deve svolgersi l'azione
della Federazione, = è preponderante su quello industriale.
La relazione tratta invece la questione solo dal lato tecnico, ed ha
accenni molto generici sull'impianto di una distilleria e sullo
sfruttamento dei sottoprodotti. Queste due parti meritano invece di
essere sviluppate particolarmente nella parte riguardante l'utilità
economica delle due iniziative. Molto spesso ciò che è possibile in
teoria in realtà conduce a risultati dannosi . La Cremeria Sociale di
Macomer se rispondeva a criteri tecnici, mandò invece in rovina la
Federazione delle Latterie Sociali.
Sarà opportuno anche esaminare la convenienza o meno di porre in
attuazione in unico momento del piano progettato o se convenga
dargli una gradualità. Data infatti il volume della produzione che è
destinato a far capo alla Federazione ed il gran numero d'importanti
aziende private che da anni agiscono in quella zona, è da prevedersi
una ripercussione notevole che può riuscir dannosa alla stessa
Federazione ove non si consenta un graduale assestamento in un piano
organico di sviluppo.
L'elemento locali è in grado di dare uomini capaci ad assumere la
responsabilità di un capitale investito in impianti di oltre 6 milioni di
lire con un raggiro annuale di fondi per diversi milioni? I
144 Ibidem.
104
tentennamenti e le cantonate prese quest'anno e negli anni precedenti
giustificano queste domande. 145
<<La coltivazione della vite si può considerare l'unico cespite di sostentamento
dei numerosi agricoltori del Campidano di Cagliari,>>, ribadisce ancora la
Federazione delle Cantine Sociali di Monserrato, che si attrezza a stilare una
relazione tecnica per redigere un piano di sviluppo per le Cantine e la Federazione
con un mutuo di cinque milioni da chiedere al Governo (la relazione risale a fine
giugno). La relazione indicava la ripartizione in ettari dei terreni coltivati a vite
nella area di Cagliari.
Comune di Quartu Sant'Elena ha..............1389.28.35
" " Cagliari " ..............2896.29.62
" " Monserrato " .............. 626.72.75
" " Selargius " .............1415.10.07
" " Quartuccio " ............... 597.51.40
" " Sinnai " ............... 228.38.40
" " Settimo " ............... 267.02.25
" " Mara " ............. 657.29.75
" " Sestu " ............. 1503.83.70
" " Soleminis " ............ 150.91.80
" " Elmas " ............ 586.93.07
Totale ettari. ........7679.93.07
145 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Governo, Cagliari, 9 luglio 1930.
105
La produzione dei Comuni sopra detti si aggira intorno ai 170 mila
ettolitri di vino dei quali 3/4 bianco 1/4 rosso.146
Nella lettera del 9 luglio 1930 il prefetto afferma che in quel periodo fanno
riferimento alla Federazione, tre Cantine con 966 soci che producono circa
centomila ettolitri di prodotto all’anno
I soci sono così divisi:
Monserrato, N. 500 per 50 mila attolitri
Quartu 271 per 30 " "
Sestu 195 " 20 " "
Con il piano tecnico di ampliamento e di attrezzatura si vorrebbe
portare la capacità totale delle tre Cantine a 70.000 Ettolitri, e
precisamente:
Monserrato 30.000 Ettolitri
Quartu 30.000 "
Sestu 10.000 " .147
Alla crisi economica si univa l’inadeguatezza delle attrezzature non in grado di
lavorare tutta la produzione dei soci delle Cantine sociali e tantomeno la
produzione dei coltivatori dei comuni vicini.
Anche il Sottosegretario di Stato per le Comunicazioni, Cao di San Marco,
esprime al Prefetto di Cagliari la sua preoccupazione circa la situazione delle
cantine. <<Occorre trovare il modo di far superare alle Cantine Sociali la crisi
presente, ciò non tanto per salvare il principio cooperativo (la forma associativa
potrà essere mutata), quanto per conservare in vita un organismo associativo di
viticultori che vinificano il loro prodotto creandone un tipo ed essi stessi lo
commerciano eliminando così una serie di intermediari e riducendo il costo di
produzione nonché aumentando il reddito dei produttori con beneficio anche del
146 Ivi, Relazione tecnica della Federazione delle Cantine sociali di Cagliari, Monserrato, 26 giugno 1930.
147 Ivi, Prefetto di Cagliari al Governo, Cagliari 9 luglio 1930.
106
consumatore>>.148 Inoltre propugna un’urgente sistemazione finanziaria, grazie
anche all'opera dell'ottimo Avocato Solinas e dei Membri del Consiglio
d'Amministrazione dell'Istituto Regionale di Credito Agrario.
Nell’ ottobre dello stesso 1930 il Prefetto scrive al Ministero delle Corporazioni, e
per conoscenza al Gabinetto del Ministero Interni, per informare che l'Istituto
Regionale di Credito Agrario, principale sovventore delle Cantine Sociali, ha
subito stabilito di elevare da lire 500.000 a 700.000 la somma da considerarsi data
a prestito di miglioramento, anziché di esercizio, ed allo stesso tempo ha
deliberato un ulteriore contributo di 700.000 lire da ripartire per 400.000 lire a
favore della cantina di Monserrato e per 300.000 lire per quella di Quartu. Tale
intervento è subordinato agli accordi da stabilirsi con la Banca Nazionale del
Lavoro riguardo alla rateizzazione del suo credito verso le Cantine Sociali, ma
non vi è dubbio che anche tale Banca dia l'invocato appoggio.149
Nel Febbraio I932 il Podestà di Quartu, Alfonso Curreli, scrive al Prefetto della
Provincia di Cagliari, un <<Promemoria sulle situazioni della Cantina Sociale di
Quartu Sant'Elena>> 150 rispondendo all’invito fattogli dal Prefetto.
Tre giorni dopo il Prefetto invia al Ministero dell’Agricoltura e Foreste il
<<rapporto riservato col quale il Podestà di Quartu mi riferisce circa la disastrosa
condizione in cui trovasi anche la Cantina Sociale di Quartu.>>151
Circa un anno e mezzo dopo il Ministro delle Corporazioni scrive al Prefetto di
Cagliari sulle Cantine Sociali, rispondendo così :
148 Ivi, Cao di San Marco, Sottosegretario di Stato per le comunicazioni al Prefetto di Cagliari, 22 settembre 1930.
149 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero delle Corporazioni, Cagliari, 11 ottobre 1930.
150 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n.425, il Podestà di Quartu Sant’Elena al Prefetto di Cagliari, 23 febbraio 1932.
151 Ivi, Il Prefetto di Cagliari al Ministero dell’Agricoltura e foreste, Cagliari, 26 febbraio 1932.
107
dai rapporti sulle ispezioni si rileva che quella di Sestu è fallita
recentemente e quelle di Quartu e Monserrato versano in difficili
condizioni patrimoniali che rendono necessario un intervento
straordinario di ordine finanziario, se se ne vuole impedire il sicuro
dissesto.152
Si prospetta di nominare un commissario governativo per la cantina di Monserrato
e alla Federazione delle cantine Sociali, anche essa con sede in Monserrato, per un
possibile riordino degli enti. Tale provvedimento non viene invocato per quella di
Quartu perché la presenza degli attuali amministratori, legati da responsabilità
personale derivante da avalli e fideiussioni prestati, è garanzia sufficiente perché
gli stessi si preoccupino degli interessi dell' azienda.
La situazione negli anni successivi non migliorò come dimostra una lettera di
protesta del 30 Luglio 1935, inviata dall’Unione Provinciale di Cagliari della
Confederazione Fascista degli Agricoltori al Prefetto di Cagliari:
La Cantina Sociale di Quartu S. Elena, in data 10 Febbraio 1934,
inoltrava all'On. Ministero dell'Agricoltura e Foreste, domanda per
ottenere il contributo "Agricoltori Benemeriti" di cui al R.D. 22/7/932
n.1069.-
Tale domanda veniva respinta, mentre analoga richiesta inoltrata
dalla Cantina Sociale di Monserrato soltanto pochi giorni prima
veniva accordata, concedendosi alla predetta un contributo di L.
16.000 annue per 25 anni.
La mancata concessione di tale contributo alla Cantina Sociale di
Quartu S. Elena ha destato a nostro avviso, le giuste e in certo qual
senso legittime apprensioni degli Amministratori di quell'Ente, che
vedevano in tale concessione la possibilità di una definitiva
sistemazione delle non floride condizioni finanziarie. Si è perciò che
nell'interesse dell'economia locale ci permettiamo rivolgerci all'E.V.
perché voglia interporre i suoi autorevoli uffici presso il Ministero
dell'Agricoltura per la concessione del contributo richiesto.
Ci corre l'obbligo di far presente all'E.V. che non vediamo le
ragioni per le quali si è voluto stabilire una disparità di trattamento fra
le due cantine che, sorte insieme, sono state veramente utili
all'economia delle zone interessate particolarmente in occasione della
152 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 376, Ministro delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 23 giugno 1932.
108
ultima crisi vinicola.153
Ancora a fine decennio, la Segreteria Provinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale
Fascista della Cooperazione si rivolge al Prefetto per chiedere aiuto:
Mi permetto di inviare a
Vostra Eccellenza la copia di una lettera da me inviata alla Presidenza
dell'Istituto di Credito Agrario per la Sardegna, nella quale è messa in
coincidenza la piena responsabilità dell'Istituto stesso per le difficoltà
gravissime in cui versano i viticoltori di Quartu S.Elena.
È ormai assodato che una
notevole parte (quasi un quinto) del prodotto si è infracidita.
. Un'ulteriore ritardo
nel finanziamento della Cantina Sociale Cooperativa, o dell'eventuale
Enopolio che potrebbe essere istituito di fortuna ove l'Istituto
insistesse a non voler finanziare la Cantina, danneggerà ancor più la
produzione vinicola.
. Non vogliamo
definire l'atteggiamento dell'Istituto che è in stridente contrasto con le
direttive di marcia dell'agricoltura italiana.
Mi permetto invece
di chiedere l'autorevole intervento dell'Eccellenza Vostra affinché la
Presidenza dell'Istituto di Credito Agrario sia richiamata a provvedere
immediatamente in modo che gli interessi degli agricoltori di Quartu
non subiscano ulteriori danni. 154
153 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n. 425, L’Unione Provinciale di Cagliari della Confederazione Fascista degli Agricoltori al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 30 luglio 1935.
154 Ivi, Segreteria Provinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 5 ottobre 1939.
109
3.2.2 I tecnici: Grignano, Cettolini, Arnaldi
Il medesimo difficile quadro socio-economico emerge anche in occasione
dell'assemblea generale dei soci del Sindacato Nazionale Produttori Vini di
Monserrato tenutasi il 1° settembre 1932 e della missiva, che i soci indirizzano
direttamente a Mussolini, per denunciare la pesante situazione economica e le
aggravate condizioni in cui si trova a operare lo stesso Sindacato. I soci
sostengono di non voler porre fine all’ente che loro stessi hanno fondato e che
ritengono <<necessarissimo>> per proteggere i loro interessi e per l'economia
viticola della zona, ma sentono <<imperioso il dovere - specie in questo momento
in cui tutti gli sforzi del Regime e di tutti gli onesti cittadini sono tesi verso la
risoluzione dei problemi economici che travagliano la Nazione - di richiamare
l'attenzione delle massime Gerarchie del Regime sulla nostra situazione
economica che investe gli interessi di tutta una regione prevalentemente viticola
come quella del Campidano di Cagliari>>155.
Nella lettera si traccia la storia del Sindacato Nazionale Produttori Vini, fondato
nel 1923 a Monserrato, per sfuggire alla speculazione dei negozianti locali che
praticavano il ribasso dei prezzi anche quando non si registrava una contrazione
nel commercio del vino. Il Sindacato aveva come obiettivi la lavorazione in
comune delle uve per la creazione dei vini tipici e la tutela del commercio del vino
contro ogni tipo di frode. Ben presto la sua azione ha successo e la sua utilità
viene riconosciuta dai viticultori e dalle autorità locali, tanto che la Federazione
Provinciale Fascista nel I926 si fa sostenitrice della necessità di riunire tutti i
viticultori del Campidano di Cagliari nel fiorente Sindacato. Presto nascono e
vengono incorporate nell’ente di Monserrato le cantine sociali di Quartu S.Elena e
di Sestu. Per motivi di coordinamento le tre cantine vengono riunite alle
155 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, Fascicolo n.326, Sindacato Nazionale Produttori Vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932
110
dipendenze della "Federazione Cantine Sociali", il cui consiglio di
amministrazione è composto dal presidente e da un consigliere d'amministrazione
di ciascuna cantina sociale e l'assemblea dall'intero consiglio d'amministrazione
delle tre cantine federate. Nel I926 viene assunto come Direttore tecnico Giuseppe
Grignano, la cui attività nella Federazione diventa per i soci del Sindacato di
Monserrato la causa principale delle condizioni disastrose registrate
successivamente.
Compito della Federazione è dare un indirizzo commerciale comune alle tre
Cantine federate, controllare l'andamento generale delle singole amministrazioni,
trattare gli affari con gli istituti sovventori e con i clienti; alle amministrazioni di
ciascuna cantina restano tutte le altre attribuzioni conferite loro dallo Statuto
Sociale. La Federazione delle cantine sociali diventa in poco tempo un potente
organismo economico con circa mille soci, e con una produzione per un valore
complessivo intorno ai dieci milioni. Il futuro appare radioso: quello che era il
sogno dei promotori si appresta a diventare rapidamente realtà: l'unione di tutti i
viticultori attraverso le Cantine Sociali.
Nei primi mesi del I929 cominciano però a farsi sentire i primi sintomi
dell'imminente crisi vinicola, e come se ciò non fosse sufficiente a rendere grave il
compito dei dirigenti, sorsero alcune ostilità, quando maggiormente era necessario
sostenere il giovane organismo con tutte le forze. Il dissidio fra i tre presidenti
culmina con le dimissioni dell'allora presidente della Federazione contro il quale
si concentrano le critiche degli altri due favorevoli all'autonomia delle Cantine di
Quartu e di Sestu e alla conseguente ripartizione del patrimonio fino ad allora
amministrato dalla Cantina di Monserrato, la più “antica” e l'unica attrezzata. Da
allora le cantine sociali, in gran parte per l'acuirsi della crisi, in parte per
l'ingerenza di persone estranee all'organizzazione, combattevano contro mille
difficoltà d'ordine finanziario, tecnico e commerciale senza che le autorità tutorie
fossero intervenute per evitare il peggio.
Nel maggio I929 in seguito alle dimissioni del presidente della Federazione delle
Cantine Sociali. - sollecitate dal rappresentante dell'Ente Regionale della
111
Cooperazione - viene nominato commissario prefettizio della Federazione Cantine
Sociali e del Sindacato di Monserrato il suocero del Direttore Tecnico, il
professore Sante Cettolini, dopo lo scioglimento della Federazione da parte del
prefetto156.
Il Prefetto giustifica tale decisione in questo modo:
Vedute le dimissioni presentate dal Consiglio d'Amministrazione delle
Cantine Sociali di Monserrato;
Ritenuto che tale determinazione crea in quella organizzazione un
grave disagio, tenuto conto della crisi in cui in questo momento è
travagliata l'industria vinicola e degli impegni finanziari, prossimi a
scadere, assunti dalla Federazione;
Ritenuta le necessità di assicurare la vita a amministrativa di quella
organizzazione;
Ritenuto che lungi dal costituire il nuovo Consiglio di
amministrazione per la nomina del nuovo Presidente è il caso dello
scioglimento del Consiglio allo scopo di fare esaminare da persona
indipendente e al di sopra delle competizioni locali e dei dissidi tra gli
organi federati tutta la gestione amministrativa ed economica della
Federazione e la opportunità di modificare lo Statuto al fine di
troncare per l'avvenire ogni possibile causa di divergenza tra gli enti
federati.157
La nomina di Cettolini viene vista dai soci dell’ente di Monserrato come un atto
<<apertamente immorale>> giacché si mette il Direttore, Giuseppe Grignano,
<<alle dirette dipendenze del suocero>>158. La nomina provoca nei soci lo sdegno
e la sfiducia completa nell’ente, perché ai loro occhi diventa chiaro ciò di cui già
dubitavano e cioè la protezione anche da parte delle autorità tutorie del direttore
già colpevole, a loro avviso, di avere cercato di danneggiare l'istituto con pretese a
156 Ibidem.
157 Ivi, Decreto del Prefetto di Cagliari, Cagliari, 31 maggio 1929.
158 Ivi, Sindacato Nazionale Produttori Vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932
112
suo favore, tanto che il consiglio di amministrazione, prima ancora di essere
sciolto d'autorità, aveva deciso la disdetta del suo contratto di impiego. I soci nella
lettera sostengono che la sostituzione del regolare consiglio di amministrazione
con il Commissario Cettolini ha prodotto in sei mesi il peggioramento degli affari
delle cantine sociali. A loro avviso Cettolini non si è preoccupato in alcun modo
di dare uno sviluppo commerciale alla Federazione delle Cantine Sociali come
dimostrerebbe la diminuzione delle vendite. Il rappresentante delle cantine sociali,
che aveva la vendita esclusiva nella Piazza di Cagliari dei prodotti della
Federazione delle Cantine sociali, non poteva vendere più di mille litri al giorno, a
causa della pessima organizzazione commerciale e sopratutto perché i prodotti
inviati al suo deposito non erano esenti da difetti. Secondo i soci Cettolini non
curava in alcun modo gli interessi delle cantine sociali perché quando egli era
stato nominato commissario il debito del rappresentante verso la Federazione
delle Cantine era appena di quarantamila lire mentre, mentre, per inadempienze,
sarebbe presto aumentato a centosessantamila lire. Né meno gravi erano i maneggi
messi in atto da Cettolini per far restare il genero Grignano come Direttore
Tecnico della Cantina. Benché fosse già stato disdetto il suo contratto Grignano
fu riconfermato e dopo poco tempo Cettolini accoglie la domanda del genero
tendente ad ottenere un aumento di stipendio (da 1500 lire a 2000 mensili) e una
provvigione di due lire per ogni ettolitro di vino venduto. La domanda è inoltrata
al professor Arcidiacono, delegato Regionale dell'Ente Nazionale della
Cooperazione, il quale anziché preoccuparsi della grave situazione finanziaria
delle cantine sociali, appoggia la richiesta del Direttore Tecnico - sollecitato
naturalmente dal Commissario Cettolini - presso il Segretario Federale. Se non si
concede il richiesto aumento il Direttore lascerà il posto per andare a dirigere lo
stabilimento vinicolo d’ una società privata "La Vinacool" con il lauto stipendio di
cinquantamila lire annue, e con grave danno per le cantine sociali. Della questione
viene coinvolto il Segretario Federale Dottor Usai il quale ritenne opportuno
convocare nella sede del Fascio, il podestà, l'onorevole Tredici, i segretari politici
di Monserrato e Quartu S.Elena e il presidente della Cantina di Quartu S.Elena per
113
decidere sul da farsi. Quest'ultimo si oppone fermamente a qualsiasi forma di
aumento di stipendio, considerata la grave situazione economica delle cantine. La
decisione sembrava quindi evitata, ma pochi mesi dopo la prefettura di Cagliari,
con decreto del settembre I929, nomina un altro commissario prefettizio nella
persona del Commendatore Orrù, il quale come suo primo ed unico atto concede
l'aumento al Direttore Grignano159.
La questione coinvolse le più alte cariche del PFN, mentre la crisi vinicola si
acuiva ulteriormente, il crollo dei prezzi del vino provocava una perdita notevole
al bilancio economico delle cantine, aggravato anche dalle pretese economiche del
commissariato Cettolini che si autoelargisce per sei mesi di attività ben dodici
mila lire. Dopo di lui viene nominato commissario, un socio dell’ente, Francesco
Sarigu di Monserrato, il quale dopo un mese convoca l'assemblea generale dei
soci per la nomina dell'amministrazione regolare. Sarigu diviene così presidente
del Sindacato Produttori Vini di Monserrato e della Federazione Cantine Sociali.
L'amministrazione Sarigu cerca subito di porre rimedio alla grave situazione
finanziaria ereditata, ma deve lottare contro le imposizioni degli istituti sovventori
e il delegato regionale dell'Ente Nazionale della Cooperazione. Infatti l'Istituto di
Credito Agrario, al quale sono vincolati i beni e i prodotti del Sindacato Nazionale
Produttori Vini di Monserrato a garanzia delle sovvenzioni ricevute, nomina come
suo fiduciario Grignano, creando in questo modo una posizione di superiorità del
Direttore rispetto agli amministratori e allo stesso presidente della Federazione160.
Durante l'amministrazione Sarigu, la Federazione delle Cantine Sociali si
sostituisce, per desiderio dell'Istituto di Credito Agrario e del delegato regionale
dell'Ente Nazionale della Cooperazione, ai consigli di amministrazione delle
cantine sociali ormai ridotte a due per l'avvenuto fallimento della Cantina di
Sestu. Senza una deliberazione delle assemblee dei soci delle cantine federate, fa
159 Ibidem.
160 Ibidem.
114
approvare dal consiglio della Federazione il suo Statuto; controlla il patrimonio
delle singole cantine; trasferisce la sede da Monserrato a Cagliari; impone nuovi
oneri alle cantine ed esautora completamente i consigli di amministrazione delle
cantine, ma allo stesso tempo li ritiene responsabili dei debiti contratti dalla
Federazione, obbligandoli alla firma delle cambiali e alla garanzia in proprio, con
iscrizione ipotecaria sui propri beni a favore dell'Istituto sovventore, come se non
bastasse la responsabilità in solido dei soci stabilita dallo Statuto Sociale.
Naturalmente questa forma di garanzia provoca nei soci grande preoccupazione,
ragione per cui nessuno vuole più accettare la carica di amministratore, cosicché
nell'ultima assemblea vengono confermarti gli stessi amministratori i quali, ormai
legati con l'iscrizione ipotecaria dei propri beni alle sorti delle cantine, non
possono rifiutare la nomina. In questa situazione, sempre secondo i soci del
Sindacato di Monserrato, senza che nessuno si accorga dell'andamento rovinoso
delle cantine sociali, vengono commesse le più gravi illegalità a danno degli
amministratori e dei soci161.
Nei giorni in cui la Federazione diviene l'organo amministrativo assoluto delle
cantine, viene concessa al presidente della Federazione una remunerazione di
ottocento lire mensili, ridotta in seguito a cinquecento lire, senza che l'assemblea
deliberi nulla in merito essendo la carica di presidente gratuita per Statuto. Nel
novembre I929, quando il Governo Fascista stabilisce la riduzione dei salari e
degli stipendi a tutto il personale dipendente dall'amministrazione statale,
(deliberato che viene generalizzato ed applicato in tutte le aziende private), anche
al personale delle cantine sociali viene ridotto il salario e al Direttore lo stipendio
del 12%. Ma nell'agosto I93I, Grignano pretende nuovamente un aumento e la
concessione di una provvigione sulla lavorazione dei prodotti destinati alla
vendita. L'amministrazione della Federazione è costretta ad accettare questa
nuova richiesta e a concedere una provvigione di cinquanta centesimi per ogni
161 Ibidem.
115
quintale di uva lavorata nello stabilimento e per ogni ettolitro di vino acquistato
dai soci e rivenduto, per disposizione dell'Istituto di Credito Agrario di Cagliari
che teme l’uscita di scena di Grignano a vantaggio di un nuovo stabilimento
vinicolo nato con i capitali del professore Cettolini162.
Il Direttore tecnico riesce in questo modo a farsi aumentare gli emolumenti fino a
raggiungere la somma di circa cinquantamila lire annue. Ancora i soci dell’Ente
vinicolo di Monserrato affermano che le pretese di Grignano si sono manifestate
fin dal primo anno di assunzione quando il consiglio di amministrazione di allora
stabilì di assegnarli a titolo di gratifica la somma di lire tremila. Grignano,
insoddisfatto, pretese che gli fossero pagate le ore di straordinario che il Consiglio
di Amministrazione liquida con duemila lire, benché egli come dirigente non
avesse diritto al compenso delle ore di straordinario. Il Consiglio di
Amministrazione si dimostra impotente a fronteggiare questa situazione. I Soci
del Sindacato nella missiva si chiedono: <<Come deve essere giudicato
l'enotecnico Sig. Grignano, se servendosi della sua amicizia con il delegato
regionale dell'Ente Nazionale della Cooperazione e dell'ingerenza del suocero
Prof. Cettolini viene a sottomettere al suo volere il Consiglio di
Amministrazione?>>163 A loro avviso Grignano ha dimostrato con il suo operato
una mancanza assoluta di gratitudine verso l'Ente che lo aveva tratto da una
condizione economica disagiata – era infatti disoccupato in Sicilia - e sopratutto
l’insensibilità per un trattamento economico così lauto in un periodo di attività
limitatissima per le Cantine Sociali. I soci del sindacato, quindi, criticano
aspramente Grignano e il carattere ingiustificato del trattamento economico a lui
riservati, in virtù anche delle sue scarse competenze, del suo poco impegno e
dell’assenteismo di cui si macchia.
162 Ibidem.
163 Ibidem.
116
Gli errori commessi anche in campo tecnico e commerciale hanno danneggiato
enormemente l'ente. La Federazione delle Cantine Sociali pensò di istituire a
Cagliari un deposito con diverse rivendite in città e con servizio a domicilio. Ne
affidò la rappresentanza al Signor Gigi Picciau. In quattro anni a Cagliari il
deposito della Federazione non riuscì a vendere più di millecinquecento litri al
giorno per la negligenza del direttore che non si è mai preoccupato del vino
mandato a Cagliari per la vendita. Dai registri contabili del Picciau, regolarmente
vistati dalla Federazione delle Cantine Sociali risulta come più volte delle partite
di vino furono dichiarate dall'Ufficio Igiene di Cagliari invendibili perché
guaste.164
L’invettiva dei soci si allargò anche al piano personale riportando un fatto che
mostra l'imperizia del direttore, la questione delle vinacce lavorate in ritardo.165 I
soci riportano diversi esempi di quanto fosse stata deleteria per le Cantine Sociali
la permanenza del direttore tecnico che non aveva mai tutelato gli interessi della
società e anzi gli aveva danneggiati con la sua incompetenza anche in campo
commerciale. Grignano, qualche tempo prima aveva avuto un diverbio per ragioni
personali nella sede del Sindacato di Monserrato con un socio, il Signor Cesare
Contu. Grignano, pur sapendo di trovarsi in presenza di altri numerosi soci del
Sindacato, pronunciò parole irriverenti contro tutti offendendo i soci ai quali egli
disse: "che da quando egli è venuto al S.N.P.V. di Monserrato avrebbe tolto i
pidocchi d'addosso a tutti i soci"166.
Altro fatto riportato dai soci fu l’opposizione di Grignano alla nomina, a turno, di
un consigliere di servizio addetto alla graduazione del vino destinato al deposito
di Cagliari, che risultava più bassa di quella minima del vino dello stabilimento di
164 Ibidem.
165 Ibidem.
166 Ibidem.
117
Monserrato. Evidentemente il controllo della graduazione del vino in partenza
dallo stabilimento poteva servire a scoprire degli abusi che si commettevano.167
Considerati questi fatti e altri qui non riportati, l'Assemblea Generale dei Soci,
tenutasi il 28 marzo nei locali della Cantina Sociale di Monserrato sotto la
presidenza del Signor Sarigu, alla presenza dei Sindaci Professor Todde e Dottor
Olla aveva deliberato in base allo Statuto di disdire il contratto con Grignano che
sarebbe scaduto il 31 luglio e di bandire il concorso per il posto di direttore
tecnico.168 Ma il direttore tecnico, corse ai ripari e 0subito dopo la deliberazione
dell'assemblea giunse da Roma alla fine di aprile un ispettore, il Professore
Commendatore Arnaldi. Questi fece sospendere l’esecuzione della deliberazione
dell'assemblea e la disdetta per la decadenza del contratto con il direttore, che il
Presidente della Federazione avrebbe dovuto dargli e chiamate le due parti
contraenti fece rinnovare il contratto d'impiego provvisoriamente per un mese
prima, per due mesi dopo in attesa di provvedimenti.169
La nomina di Arnaldi può essere vista come l’espressione del controllo esercitato
da Roma verso le cantine del Regno. D’altra parte, nella lettera che il Ministro
delle Corporazioni invia al Prefetto di Cagliari con data 23 giugno 1932 si
riferisce la situazione delle Cantine sociali della zona di Cagliari: dai rapporti
sulle ispezioni si rileva che quella di Sestu è fallita recentemente e quelle di
Quartu e Monserrato versano in difficili condizioni patrimoniali che rendono
necessario un intervento straordinario di ordine finanziario, se se ne vuole
impedire il sicuro dissesto.
Da questo punto di vista la nomina di Arnaldi è vista come la soluzione per
salvare la Federazione e la Cantina di Monserrato. Tale provvedimento non viene
invocato per la cantina di Quartu perché la presenza degli attuali amministratori,
167 Ibidem
168 Ibidem.
169 Ibidem.
118
legati da responsabilità personale derivante da avalli e fideiussioni prestati, è
considerata garanzia sufficiente affinché gli stessi amministratori si preoccupino
degli interessi dell' azienda.170
L'azione dell'ispettore sfiduciò completamente i soci dell’Ente e ancor più quando
improvvisamente il primo agosto appresero che lo stesso Professor Arnaldi era
stato nominato commissario dal Sindacato Produttori Vini di Monserrato e della
Federazione, mentre era rimasta in carica l'amministrazione della Cantina Sociale
di Quartu S.Elena. Lo scioglimento del Consiglio della Federazione sarebbe stato
ammissibile qualora fosse stato sciolto anche il Consiglio della Cantina di Quartu
S. Elena, che come quello di Monserrato era stato esautorato dalla Federazione;
un provvedimento così completo sarebbe stato bene accetto dai soci perché
giustificato da ragioni di indole amministrativa. Lo scioglimento del Consiglio del
Sindacato di Monserrato fece però supporre ai Soci che si volesse colpire
esclusivamente quel sindacato perché aveva votato l'allontanamento del direttore.
Questa supposizione divenne nostra ferma convinzione quando
quarantaquattro giorni dopo il commissario Prof. Arnaldi ci ha fatto
sapere di aver riconfermato il direttore per un altro anno.
Non vogliamo giudicare l'operato del commissario governativo, ma
noi soci, che siamo in fin dei conti coloro i quali dovranno ereditare la
situazione che ci lascerà in questi quattro o cinque mesi il
commissario, abbiamo ragione di ritenere che il provvedimento di
riconferma del direttore per un anno sia stato quanto mai inopportuno
perché tutto al più poteva riconfermarlo, sebbene con uno stipendio
ridotto per il periodo di sua permanenza, specialmente alla vigilia
della vendemmia, lasciando alla futura amministrazione regolare la
risoluzione definitiva della questione. Un provvedimento simile
sarebbe stato accolto non diciamo con entusiasmo dalla massa dei soci
ma con piena fiducia.171
170 Ivi, Ministro delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 23 giugno 1932.
171 Ivi, Sindacato Nazionale Produttori vini di Monserrato a Mussolini, Monserrato, 1° settembre 1932.
119
I soci si chiedono: << Il Comm. Prof. Arnaldi avrà la competenza commerciale
amministrativa e tecnica da poter assestare e instradare le Cantine Sociali verso
un'organizzazione commerciale che possa di giorno in giorno progredire?>>172
I soci spingevano per il miglioramento dell’organizzazione commerciale
soprattutto per la vendita a Cagliari. Se nella città di Cagliari si bevono in un
giorno 30.000 litri di vino si deve ritenere che quello dev’essere il maggior centro
di smercio della Cantina di Monserrato, dove in quel momento riescono a
collocare solamente mille litri, mentre non è esagerato dire che sulla piazza di
Cagliari le Cantine Sociali dovrebbero giornalmente vendere non meno di 10.000
litri di vino.173
Si auspicava inoltre che gli enti di credito e in particolare l'Istituto di Credito
Agrario e la Banca del Lavoro avessero fiducia nell'Ente rappresentante gli
interessi di mille famiglie. In poche righe venivano sintetizzati vent’anni di attività
vitivinicola dei contadini sardi che avevano dovuto combattere per poter
conservare la loro fonte di sostentamento, dopo aver combattuto con le armi per la
propria “Patria” in guerra:
Alle Autorità costituite spetta il dovere di risolvere il problema delle
Cantine Sociali per venire incontro ai bisogni di una regione che da
oltre venti anni lotta tenacemente per l'esistenza. I viticultori del
Campidano di Cagliari sono veramente degni di essere annoverati fra i
migliori lavoratori della terra quando si pensi che essi ebbero in pochi
anni, e prima della guerra, distrutti dalla fillossera i vigneti.
Adempiuto in guerra al dovere verso la Patria, nel modo come hanno
saputo fare i Sardi, questi viticultori temprati a tutti i sacrifici, si sono
dedicati dopo la guerra alla ricostruzione dei vigneti su ceppo
americano impegnando tutti i loro risparmi, a costo di enormi sacrifici
dando lavoro a migliaia di contadini.
172 Ibidem.
173 Ibidem.
120
Non era ancora finita la lotta per la ricostruzione dei vitigni ecco che
comincia ad abbattersi in questa classe benemerita la crisi vinicola che
fin dal I928 perdura sempre più acuta mettendo a dura prova questi
tenaci lavoratori che non cedono convinti, come sono, che sotto il
Fascio littorio risorgeranno ancora le loro speranze. 174
174 Ibidem.
121
3.2.3 I contrasti tra le cantine e la Federazione Commercianti
Nei documenti consultati risalta spesso l’influenza delle corporazioni economiche
locali sulla vita della Federazione e delle singole cantine.
Nel febbraio 1930 la Federazione provinciale Fascista dei commercianti di
Cagliari scrisse al prefetto, per smentire l’affermazione <<fatta dai dirigenti della
Federazione Cantine Sociali i quali assicuravano essere i prezzi delle uve troppo
bassi in relazione a quelli praticati nelle altre piazze d'Italia.>>175
Nel fascicolo “Cantine Sociali 1933-1946” sono presenti anche missive che il
Questore spedisce al Prefetto. Un esempio è dato dallo scritto della fine del 1930
che il Questore Laudadio invia al Prefetto in cui afferma che non è vero che a
Cagliari esista un monopolio nelle vendite delle licenze per il vino. Per il Questore
Piludu, le cantine non sanno adattarsi a vedere ridotte le proprie entrate per effetto
del diminuito valore del prodotto. <<Le cantine non sono chiamate a fare atti di
commercio perché le porterà ad essere al più presto distrutte, cosa che da buon
cittadino e fascista degenero.>>.176
La stessa federazione dei Commercianti riscrisse al Prefetto difendendo l’attività
dei rivenditori di vino a Cagliari:
Volendo accertare quanto ci fosse di vero nell'accusa mossa al
grosso commercio enologico d'aver monopolizzato la vendita di vino
al minuto in questa Città, ho esaminato l'elenco delle licenze di P.S.
per vendita di vino, elenco tratto dalla R.Questura a fine gennaio dello
scorso anno.
A tale epoca =e le eventuali successive variazioni non possono
essere considerevoli= le licenze per vendita di vino rilasciate per la
Città di Cagliari (escluse le frazioni) erano 241, delle quali 203 (oltre
l'84%) sono intestate ad altrettanti rivenditori che non esercitano il
commercio all'ingrosso e le rimanenti 38 (meno del 16%) alle seguenti
175 Ivi, Federazione Provinciale Fascista dei commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 5 febbraio 1930..
176 Ivi, Questore di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 31 dicembre 1930.
122
Ditte esercenti anche il commercio all'ingrosso e nella proporzione
rispettivamente indicata:
Ditta D'Atri Silverio licenze n. 8
" D'Atri Antonio " " 3
" Ebau Efisio " " 4
" Marci Tigellio " " 2
" Orrù Antonio " " 3
" Podda Efisio " " 2
" Podda Luigi " " 5
" Ruggeri Giorgio " " 9
" Trudu Cesello " " 2
Totale n. 38
Questa essendo la realtà, che alla E.V. è agevole controllare, è
evidente che non esiste alcun monopolio delle rivendite di vino.177
Un ennesimo esempio è costituito dalla lettera del 14 febbraio 1931 del questore
Laudadio al Prefetto di Cagliari sullo sfruttamento dello stato di disagio in cui si
trovano da qualche anno i viticultori del Campidano di Cagliari, da parte dei
dirigenti la Federazione delle Cantine Sociali e delle Cantine Sociali di Quartu e
Sestu, che da tempo hanno sferrato una offensiva a base di calunniose
affermazioni contro i commercianti in vini e grossisti, la cui azione nella
economia nazionale si è voluta presentare come sfruttamento. Il questore afferma
che già nel suo rapporto del 31 dicembre 1930 aveva prospettato la affermata
inettitudine e la incomprensione dei dirigenti la Federazione in atti di commercio.
Il rapporto presenta le condizioni delle cantine di Quartu e Sestu. Secondo il
questore gli scopi delle cantine non sono stati raggiunti, ma esse hanno permesso
177 Ivi, Federazione Provinciale Fascista dei Commercianti di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 6 febbraio 1930.
123
a poche famiglie di affermarsi: tre a Monserrato, una a Quartu e una a Sestu.
Esempi di azioni di odio verso i commercianti ed i grossisti. Conclude che è
necessario intervenire in tempo per realizzare gli scopi per cui furono create.178
178 Ivi, Questore di Cagliari al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 14 febbraio 1931.
124
3.2.4 Il nuovo statuto della Cantina di Monserrato
Nel marzo 1933 si tenne l’assemblea ordinaria e straordinaria allo scopo di
adeguare lo statuto dell’ente alle nuove disposizioni fasciste.179
Il Commissario Governativo Arnaldi afferma che lo Statuto del 1924 era stato
ideato per regolare una situazione diversa da quella del 1933, <<quando il vostro
era veramente un Sindacato per la vendita del vino prodotto da ciascun socio nella
sua Cantina, non esistendo ancora uno stabilimento sociale.>>180
Poiché nel frattempo è stato eretto lo stabilimento sociale, Arnaldi sostiene che
anche se una disposizione di legge non vietasse l’uso del termine Sindacato, ,
questa definizione <<non conviene più alla vostra Società che attraverso ad una
serie più o meno felice di vicende è diventata cantina cooperativa, mentre nello
Statuto sono appena accennate o non completamente regolate quelle che devono
essere le norme fondamentali della attività di una Cantina Cooperativa. >>181
Nel nuovo primo articolo dello Statuto è stabilito che quella che era la Società
Anonima Cooperativa “Sindacato Nazionale Produttori Vini Monserrato” assume
il nome di “ Società Anonima Cooperativa Cantina Sociale di Monserrato”.182
Il nuovo articolo 6 recita che il Consiglio di Amministrazione per l'incremento
della Società e per concedere gli anticipi di cui parla l'articolo 14 bis può contrarre
mutui e prestiti cambiari e concedere ipoteche e privilegi all'Istituto mutuante:
Inoltre può delegare la vendita dei prodotti della Cantina ad Enti, organi o persone
179 Ivi, Convocazione dell’Assemblea ordinaria e straordinaria della Cantina di Monserrato del 26 marzo 1933 promossa dal Commissario Governativo Arnaldi, Monserrato, 2 marzo 1933.
180 Ibidem.
181 Ibidem.
182 Ibidem.
125
che siano autorizzati <<a versare il netto ricavo della vendita all’Istituto
mutuante>>.183
Il nuovo articolo 8 dice che le domande di iscrizione alla Società devono essere
presentate in forma scritta al Consiglio di Amministrazione specificando il
numero di azioni che si vuole sottoscrivere e impegnandosi a sottostare agli
obblighi prescritti nello Statuto <<dai regolamenti e dalle deliberazioni
sociali>>.184 La domanda deve essere sottoscritta da due soci che garantiscono
l’onorabilità del richiedente. La stessa domanda deve essere fatta anche da coloro
che vogliono acquistare nuove azioni.
Il nuovo articolo 9 prescrive che il valore delle azioni può essere versato anche
con il conferimento di uva, vino e mosto, ed in cinque annualità dello stesso
importo non oltre l’ultimo giorno dell’anno, tranne la prima rata che deve essere
versata al momento dell’iscrizione. Inoltre il Consiglio può autorizzare il
pagamento in venti annualità di uguale valore per le azioni che vengono
sottoscritte oltre a quelle già possedute.
Importante è la soppressione dell’ articolo 9 ter del vecchio Statuto <<I soci
rispondono in solido e tra di loro in proporzione delle azioni sottoscritte, di tutte le
operazioni sociali legalmente assunte.>>185
L’articolo 10 stabilisce che possono diventare soci solo i produttori d’uva, non
importa se siano proprietari o fittavoli o coloni, purché s’impegnino a conferire
ogni anno agli stabilimenti della Società per ogni azione sottoscritta la quantità
d’uva che sarà decisa dal Consiglio di Amministrazione in modo da consentire il
pieno funzionamento degli stabilimenti della Società. Inoltre può essere consentito
di sostituire all’uva, mosto o vino da liquidare a prezzo d’uva, << ragguagliando
183 Ibidem.
184 Ibidem.
185 Ibidem.
126
ad un quintale d'uva 75 Kg. di mosto o 60 Kg. di vino>>.186 Non possono far
parte della Società le persone interdette, inabilitate, fallite e quelle che abbiano
compiuto atti contrari agli interessi della Società. Se queste persone entrano in
possesso di azioni della Società grazie a eredità o per via giudiziaria hanno diritto
solamente a partecipare agli utili sociali. Gli azionisti che in certo anno non
producono uva non hanno l’obbligo di conferire il prodotto, però devono farne
segnalazione, prima del tempo della vendemmia, al Consiglio di Amministrazione
che provvede a rilasciare una ricevuta scritta. Se non viene fatta la suddetta
segnalazione il socio viene considerato inadempiente e soggetto alle penalità
previste per coloro che ricadono in quello stato.
Il nuovo articolo 14 stabilisce che chi non porta uva e mosto alla Cantina sociale
nella misura stabilita dall’Amministrazione è tenuto a pagare una penalità il cui
valore, che non può essere inferiore alle 10 lire per azione posseduta, viene
stabilito ogni anno dal Consiglio di Amministrazione. Contro quest’ultima
decisione si può opporre ricorso al Comitato dei Probiviri.
Il nuovo articolo 14 bis contiene le regole per la liquidazione dei prodotti raccolti
per la lavorazione in comune: si elargiscono anticipi del valore di circa quattro
quinti del prezzo di piazza al termine della vendemmia o in seguito secondo
quanto stabilisce il Consiglio di Amministrazione in base alla quantità e grado dei
prodotti conferiti; l’apporto di mosto viene equiparato a quello di uva nella misura
di 75 chilogrammi di mosto o 60 di vino per un quintale di uva; la liquidazione
definitiva è fatta in sede di bilancio che deve consentire il pagamento delle spese
quali tasse e salari, l’interesse delle spese sociali, la quota di ammortamento dei
debiti a lunga scadenza, la diminuzione dei prestiti di miglioramento o per
passività registrati nei bilanci di esercizi precedenti, l'accantonamento di una
somma che assieme a quella spesa nell'esercizio per nuovi acquisti e riparazioni
raggiunga il 10 per cento del valore dei mobili, degli attrezzi e dei visi vinari, la
186 Ibidem.
127
corresponsione di non oltre il 5 per cento come dividendo delle azioni, quando la
liquidazione finale dei prodotti superi il valore dei mercuriali dell’anno e si
aumenta il fondo di riserva; quando il valore della liquidazione definitiva si rileva
inferiore al prezzo dell’anticipo già riscosso dal socio si provvede
immediatamente ad addebitare la differenza sul conto come debito liquido e
fruttifero.
L’articolo 14 ter serve per regolamentare in modo esaustivo la liquidazione dei
prodotti che la Società non acquista ma lavora per conto dei soci con lo scopo di
far realizzare ai soci il maggior utile possibile. L’articolo prescrive che sul vino
consegnato si elargisca un anticipo corrispondente a circa quatto quinti del prezzo
di piazza. La liquidazione finale è fatta in sede di bilancio secondo il prezzo
medio di vendita diminuito delle relative spese quali trasporto e lavorazione e di
un contributo, non superiore ai 50 centesimi a grado, per le spese sostenute dalla
Cantina.
Il nuovo articolo 15 stabilisce che un socio non può recedere dalla Società senza
l’autorizzazione del Consiglio di Amministrazione che emette solo in presenza di
giustificato motivo: l’ubicazione dei vigneti in una località molto distante dagli
stabilimenti della Società da rendere l’apporto dell’uva non conveniente dal punto
di vista economico. È possibile cedere le azioni possedute ad un altro socio o ad
un nuovo socio che abbia i requisiti, indicati nell’articolo 10, per diventarlo. Le
azioni dei soci rinunciatari vengono acquisite dalla Società per aumentare la
consistenza del fondo di riserva.
Il nuovo articolo 25 recita che la convocazione dell’Assemblea si deve fare con la
pubblicazione dell’ordine del giorno, indicando data, ora e luogo della
convocazione, per una sola volta su “L’Unione Sarda”, o, se il giornale dovesse
interrompere le pubblicazioni, su un altro quotidiano di Cagliari. Il Presidente
può, se lo reputa necessario usare altri mezzi. Per l’estensore del nuovo
regolamento in questo modo si riduce la spesa per fare la convocazione ritenuta
troppo onerosa.
128
Il nuovo articolo 26 stabilisce che l’Assemblea ordinaria nomini tre Sindaci
effettivi e due supplenti che possono essere soci o persone non facenti parte della
Società. L’articolo seguente specifica che i Sindaci restano in carica un anno e
svolgono tutte le funzioni stabilite per quel ruolo dal Codice di Commercio.
Il nuovo articolo 41 elenca i poteri del Consiglio di Amministrazione: accettare
nuovi soci, permettere l’ammissione o la rinuncia delle azioni e il passaggio delle
azioni secondo quanto è stabilito dall’articolo 15; assumere e licenziare impiegati
a tempo determinato e sottoporre all’assemblea la nomina e il licenziamento di
quelli a tempo indeterminato; aprire agenzie, depositi e rivendite al minuto;
stabilire la misura e il modo di elargire la liquidazione provvisoria dei prodotti
raccolti dai soci secondo quanto stabilito dall’articolo 2; stanziare le spese di
amministrazione; compilare i bilanci; stabilire la misura degli interessi attivi e
passivi; formare i regolamenti; aprire conti correnti e contrarre mutui con o senza
garanzia del patrimonio sociale; comprare con l’aiuto del direttore tecnico
macchine, strumenti, attrezzi, vasi vinari e attrezzature tecniche; transigere conti e
giudizi della Società; ordinare i bilanci e gli inventari da proporre all’assemblea;
presentare agli azionisti in occasione dell’Assemblea ordinaria una relazione sullo
stato della Società, il bilancio annuale, gli inventari e gli elementi necessari alla
liquidazione definitiva dei prodotti portati dai soci; presentare all’assemblea le
modificazioni allo Statuto ritenute utili per lo sviluppo della Società; svolgere tutti
gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che non siano riservati
all’assemblea o ad altro organo amministrativo; fare proposte di nuovi acquisti e
di nuovi impianti per un valore superiore alle otto mila lire; in caso d’urgenza
assumere i poteri dell’assemblea che viene informata dall’iniziativa assunta nella
prima convocazione utile. Inoltre l’articolo in questione stabilisce che il Consiglio
di amministrazione per la trattazione degli affari dell’Ente può delegare i suoi
poteri a uno o più dei suoi membri, a commissioni formate da soci, al Direttore o a
un procuratore speciale.
Il Commissario Arnaldi afferma che bisogna modificare gli articoli 43 e 46 che
indicano i compiti del direttore tecnico che erano adeguati quando l’Ente era un
129
Sindacato <<mentre in una Cantina Cooperativa il Direttore non può essere che
consigliere ed esecutore di ordini.>>187
Il nuovo articolo 43 indica gli attributi del direttore tecnico: egli deve svolgere gli
incarichi che gli vengono assegnati dal Direttore o dal Consiglio di
Amministrazione; organizzare il movimento interno della Cantina, il lavoro delle
macchine e dei filtri e di tutto ciò che serve per una buona lavorazione del
prodotto; esprimere il suo parere sul prezzo delle uve e dei mosti, classificare i
prodotti versati dai soci, determinare gli elementi per valutarli secondo i criteri
stabiliti dal Consiglio, concludere contrati per comprare vino, materiale enologico
e attrezzi per la Cantina secondo i limiti imposti dal Presidente.
Il nuovo articolo 46 recita che in caso di disaccordo tra un socio e il Direttore
tecnico nello stabilire il prezzo o la classificazione ritirato da esso per conto della
Società, decide un Collegio di Arbitri che viene costituito ogni vota che sia
necessario da tre membri che sono il Presidente del Consiglio di Amministrazione
o un suo delegato e due membri scelti dal socio in un elenco di esperti formato dal
Consiglio. Il Collegio decide senza spese, senza formalità e senza alcun vincolo di
procedura.188
187 Ibidem.
188 Ibidem.
130
3.2.5 Le cantine negli anni della guerra
Negli anni della seconda guerra mondiale soprattutto per merito del commissario
governativo Siro Riccadonna le condizioni dell’attività vinicola registrarono un
miglioramento, riguardo soprattutto la Cantina di Quartu.
In seguito a queste circostanze il ministero delle Corporazioni decide di attribuire
al Riccadonna un compenso mensile.
Il 27 dicembre 1941 la Direzione Generale del Commercio del Ministero delle
Corporazioni inviò pertanto al Prefetto di Cagliari (e per conoscenza all’Ente
Nazionale Fascista della Cooperazione) la seguente lettera di risposta:
Questo Ministero ha esaminato la relazione del Commissario
sull'andamento della gestione straordinaria della Cooperativa in
oggetto ed ha preso atto del lavoro proficuo da lui finora svolto per la
sistemazione dell'azienda.
Per quanto concerne la Vostra proposta, intesa a
corrispondere al Comm.Riccadonna un compenso di lire I.500
mensili, si fa presente che questo Ministero è venuto nella
determinazione di massima di fissare i compensi dovuti ai Commissari
soltanto al termine della loro gestione.
Tuttavia, in via assolutamente eccezionale, questo
Ministero può consentire la corresponsione di modesti anticipi,
sopratutto nei casi in cui i Commissari debbano fronteggiare spese di
viaggio e di soggiorno fuori sede.
Ciò premesso, Vi si prega, ove lo crediate opportuno, di
voler formulare concrete proposte nei riguardi del suddetto
Commissario.189
Il Commissario Governativo Siro Riccadonna nella Relazione che presentò
all’Assemblea straordinaria del 28 dicembre 1941 offriva un quadro ormai
rassicurante, superate, quindi, le maggiori difficoltà riscontrate negli anni
precedenti, e trovato vantaggio dalle difficoltà in cui si trovavano, invece, gli
stabilimenti della penisola:
189 Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Prefettura, Gabinetto, fascicolo n’425, Direzione Generale del Commercio del Ministero delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 27 dicembre 1941.
131
Dopo i buoni risultati ottenuti nei primi cinque mesi di esercizio
(Marzo=Luglio I94I) e che sono stati resi noti all'Assemblea
Ordinaria dei Soci del 5 Ottobre scorso, la nostra 0opera non ha subito
soste anzi abbiamo intensificato il ritmo del nostro lavoro al fine di
procurare alla Cantina con ampio respiro lo sfruttamento massimo del
suo potenziale.
Rientrata in pieno la fiducia dei più importanti clienti del Continente e
sopratutto quella dell'Istituto di Credito per la Sardegna, l'acquisto e
confezione dei prodotti si sono sviluppati con larghezza di mezzi in
una atmosfera serena e lontana da ogni preoccupazione consetendoci
la lavorazione di Qli 4.640 di materia prima presso il nostro
Stabilimento e per conto nostro sul posto di produzione.
I vini bianchi sono tutti venduti e da consegnare in Continente, questi
da soli consentiranno la liquidazione di un utile cospicuo.
I vini rossi, dei quali il mercato sardo difetta fortemente, potrebbero
essere subito venduti ma, per misura di prudenza e per i bisogni dei
nostri clienti consumatori, sono stati risparmiati per intero poiché,
consentendoci la maggiorazione legale, daranno utili di molto
superiori alla vendita al prezzo di blocco.
La situazione della Cantina è oggi la seguente:
Dal 3I Luglio ad oggi si sono quindi realizzati utili lordi per L. 750
mila circa e con l'aggiunta dei profitti che darà il previsto importante
lavoro di giro I° Gennaio 3I Luglio I942 si raggiungerà con sicurezza
quella base solida ed indispensabile che dovrà servire come punto di
partenza per l'attività che dovrà svolgere la nuova amministrazione
che il sottoscritto, d'intesa con l'Ente Nazionale della Cooperazione,
proporrà di ricostruire.190
I buoni risultati ottenuti dal Riccadonna consentivano alla cantina di Quartu di
avvantaggiarsi della sua attività anche nel 1942.
Il 24 febbraio 1942 il Ministro Segretario di Stato per le Corporazioni scrive:
Visto il decreto commissariale in data 4 febbraio 194I-XIX con il
quale venne nominato Commissario della Soc.An.Cooop.Cantina
Sociale Cooperativa, con sede in Quartu S.Elena il sig. Siro
Riccadonna, in sostituzione del sig. Luigi Cao;
Vista la relazione rimessa dal Prefetto di Cagliari con lettera in
190 Ivi, Commissario Governativo Siro Riccadonna, Relazione all’Assemblea straordinaria della Cantina di Quartu Sant’Elena, 28 dicembre 1941.
132
data 13 febbraio 1942-XX;
Ritenuta la necessità di prorogare ulteriormente il periodo di
straordinaria gestione della predetta Società per dar modo al
Commissario di condurre a termine l'incarico affidatogli;
d e c r e t a :
I poteri conferiti al Sig. Comm. Siro Riccadonna, Commissario
della Soc. An. Coop Cantina Sociale Cooperativa, con sede in Quartu
S.Elena, sono prorogati dal 16 febbraio 1942-XX al 15 maggio 1942.191
È quindi di grande interesse ricavare dalle note dello stesso Riccadonna il quadro
economico della cantina quartese nel 1942 attraverso la lettera che Siro
Riccadonna inviò il 30 Aprile I942 alla Segreteria Interprovinciale di Cagliari
dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione i:
La Cantina Sociale di Quartu S.Elena confeziona una media di
vini liquorosi e speciali ( Malvasia - Nasco - Moscato - Cannonao -
Monica - Nuragus - ecc.) per un quantitativo annuo base di Qli 3.000.
Prepara inoltre, con i vini bianchi di sua produzione e di maggior
gradazione, Vermut per un quantitativo di I.000 quintali.192
Nello stabilimento si producono:
vini pregiati e di normale consumo che nel l'annata I94I / 1942 sorpassa i 20 mila
quintali. Infatti la nostra Cantina che fu sempre la maggiore esportatrice di vino
sardo e che ha conquistato per la prima i mercati di maggiore consumo del
continente come:
Genova = Milano = Livorno = Spezia e Roma;
ha assunto con il prodotto vinificato nell'ultima vendemmia, impegni
con le seguenti ditte:
Cav. Dante Lomazzi - Milano Qli. 6.000
Ditta G. Calissano & Figli - Roma " 3.000
" G. R. Bisso - Livorno( Via S. Marco 6 ) " 6.000
" Emanuele Reta - Genova ( Via del Campo I2 ) “ 6.000
191 Ivi, Decreto del Ministro Segretario di Stato per le Corporazioni, Roma, 24 febbraio 1942.
192 Ivi, Commissario Governativo Siro Riccadonna alla Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione, Cagliari, 30 aprile 1942. .
133
" Zecchini - La Spezia “ I.000193
Dopo il risanamento ottenuto dal commissario, nell’ottobre 1942 poté essere
finalmente nominato un nuovo consiglio di amministrazione. È quanto si legge
lettera inviata al Prefetto di Cagliari il 9 ottobre 1942:
Il Consiglio di Amministrazione eletto all'unanimità in
Assemblea ordinaria tenutasi il giorno 4 ct. sostituisce il Commissario
Governativo che cessa dalla carica.
Si rende noto che, da oggi, la firma della Società a sensi
dell'articolo 36 dello Statuto Sociale spetta al Sig. Giuseppe Curreli
nominato Presidente del Consiglio in seduta 6 corr.194
Nella lettera, datata I3 Ottobre I942, anche questa, inviata al Prefetto, da parte
della Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della
Cooperazione, si informa il Prefetto che si era tenuta l’Assemblea generale
ordinaria in cui:
sono stati eletti i nuovi Amministratori, in sostituzione dell'uscente
Commissario Governativo Comm. Siro Riccadonna, nelle persone dei
fascisti:
I) Lai Prof. Efisio
2) Curreli Dr. Giuseppe - Presidente
3) Sanna Vincenzo
4) Cocco Dr. Pietro
5) Ibba Ennas Efisio. 195
Con queste nomine si chiude un periodo nel quale la cantina quartese era stata
commissariata.
Il 4 novembre 1942 la Direzione Generale del Commercio del Ministero delle
Corporazioni rende noto al Prefetto di Cagliari e per conoscenza all’Ente
193 Ibidem.
194 Ivi, Cantina Sociale di Quartu Sant’Elena al Prefetto di Cagliari, Quartu Sant’Elena, 9 ottobre 1942.
195 Ivi, Segreteria Interprovinciale di Cagliari dell’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione al Prefetto di Cagliari, Cagliari, 13 ottobre 1942 .
134
Nazionale Fascista della Cooperazione le competenze spretanti al meritevole
commissario:
OGGETTO : Soc. An. Coop. Cantina Sociale di Quartu S. Elena.-
Questo Ministero ha esaminato la relazione del commissario
ed ha preso atto, con compiacimento, dei vantaggi che la cooperativa
in oggetto ha conseguito, mercé l'opera impiegata dal commissario
stesso.
Per quanto riguarda il compenso spettante al commissario,
lo scrivente, tenuto conto della proposta formulata da codesta
Prefettura con il foglio cui si risponde, lo determina nella misura
complessiva di L. 20.000 - (ventimila-----) da far carico al bilancio
della società, a termini dell'art. 6 del R. D. legge 11 dicembre 1930, n.
1882.196
196 Ivi, Direzione Generale del Commercio del Ministero delle Corporazioni al Prefetto di Cagliari, Roma, 4 novembre 1942.
135
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