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D Laomenica - La Repubblica.it - News in tempo reale - Le...

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DOMENICA 8 GENNAIO 2006 D omenica La di Repubblica i luoghi il reportage India, la poesia del manager FRANCESCA CAFERRI e FEDERICO RAMPINI Navigli, l’acqua perduta di Milano GIANNI MURA il racconto Il “Muro” della nuova Europa PETER SCHNEIDER spettacoli La musa segreta di Rachmaninov CONCITA DE GREGORIO cultura Simenon e le memorie del vero Maigret DARIA GALATERIA e ANAIS GINORI N on sono ancora le dieci del mattino, quel 30 agosto 1982, quando la Mercedes nera con a bordo Yasser Arafat si inoltra nel centro di Beirut. I segni della lunga guerra civile sono ben visibili. I grandi alber- ghi affacciati sul mare sono ridotti a cumuli di ma- cerie. Il mitico Hotel Saint Georges, frequentato da sceicchi del Golfo, da contrabbandieri internazionali, da giorna- listi e da spie, non esiste più. Alle rovine della guerra civile si sono aggiunte quelle dell’invasione israeliana. Tsahal occupa il Liba- no e i fedayn palestinesi lasciano a scaglioni Beirut Ovest. Yasser Arafat, il loro capo, è appunto diretto verso il porto, da dove salperà per l’esilio. La Mercedes nera di Arafat è precedu- ta da camion carichi di legionari francesi, che gli fanno da scor- ta. Sempre i soldati della Legione Straniera hanno assunto il controllo del porto, mentre altre forze neutrali, tra le quali ma- rines americani e bersaglieri italiani, sorvegliano in quelle ore (e nei giorni successivi) la partenza dei fedayn, via mare verso la Tunisia, o via terra verso la Siria. I militari israeliani seguono l’o- perazione da lontano, senza intervenire (occuperanno in forza Beirut Ovest «per riportare l’ordine» in seguito all’assassinio, av- venuto il 14 settembre, di Béchir Gemayel, il presidente libane- se appena eletto, e proprio il 16 settembre, quando comincia il massacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila ad opera del- le milizie cristiane libanesi). A fine agosto e ai primi di settembre Beirut vive momenti ca- richi di emozioni. Gli uomini lanciano pugni di riso ai fedayn che se ne vanno. Le donne piangono. Ma coloro che applaudono e si commuovono sono i profughi palestinesi che rimangono nei campi, senza più protezione. Molti libanesi assistono invece con un misto di sollievo e di apprensione alla partenza dei sol- dati palestinesi. Considerati a volte come un’arrogante forza d’occupazione; a volte come una presenza amica o alleata. Per tanti libanesi cristiani erano una minaccia; per tanti libanesi musulmani un sostegno. In quel cocktail di sentimenti, i fedayn se ne vanno a testa alta. Si sono alzati prima dell’alba per prepa- rare i bagagli e stirare le divise. La parola d’ordine è che la par- tenza non deve apparire la ritirata di un esercito sconfitto ma la parata di un esercito vittorioso. Un esercito che comunque non si è arreso e se ne va con le proprie armi. La partenza di Arafat, come quella dei vari reparti in cui sono suddivisi gli undicimila fedayn, nei giorni precedenti e in quelli successivi, è ritmata da un’assordante, interminabile sparatoria. (segue nelle pagine successive) con un servizio di ENRICO FRANCESCHINI BERNARDO VALLI Fine d’epoca Un anno dopo la morte di Arafat si chiude anche la stagione politica di Sharon. Il loro lungo duello rispecchia la storia del conflitto israelo-palestinese la lettura Con Scorsese nella Rimini di Fellini CURZIO MALTESE FOTO AFP
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DOMENICA 8 GENNAIO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

il reportage

India, la poesia del managerFRANCESCA CAFERRI e FEDERICO RAMPINI

Navigli, l’acqua perduta di MilanoGIANNI MURA

il racconto

Il “Muro” della nuova EuropaPETER SCHNEIDER

spettacoli

La musa segreta di RachmaninovCONCITA DE GREGORIO

cultura

Simenon e le memorie del vero MaigretDARIA GALATERIA e ANAIS GINORI

Nonsono ancora le dieci del mattino, quel 30 agosto1982, quando la Mercedes nera con a bordo YasserArafat si inoltra nel centro di Beirut. I segni dellalunga guerra civile sono ben visibili. I grandi alber-ghi affacciati sul mare sono ridotti a cumuli di ma-cerie. Il mitico Hotel Saint Georges, frequentato da

sceicchi del Golfo, da contrabbandieri internazionali, da giorna-listi e da spie, non esiste più. Alle rovine della guerra civile si sonoaggiunte quelle dell’invasione israeliana. Tsahal occupa il Liba-no e i fedayn palestinesi lasciano a scaglioni Beirut Ovest.

Yasser Arafat, il loro capo, è appunto diretto verso il porto, dadove salperà per l’esilio. La Mercedes nera di Arafat è precedu-ta da camion carichi di legionari francesi, che gli fanno da scor-ta. Sempre i soldati della Legione Straniera hanno assunto ilcontrollo del porto, mentre altre forze neutrali, tra le quali ma-rines americani e bersaglieri italiani, sorvegliano in quelle ore (enei giorni successivi) la partenza dei fedayn, via mare verso laTunisia, o via terra verso la Siria. I militari israeliani seguono l’o-perazione da lontano, senza intervenire (occuperanno in forzaBeirut Ovest «per riportare l’ordine» in seguito all’assassinio, av-venuto il 14 settembre, di Béchir Gemayel, il presidente libane-

se appena eletto, e proprio il 16 settembre, quando comincia ilmassacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila ad opera del-le milizie cristiane libanesi).

A fine agosto e ai primi di settembre Beirut vive momenti ca-richi di emozioni. Gli uomini lanciano pugni di riso ai fedayn chese ne vanno. Le donne piangono. Ma coloro che applaudono esi commuovono sono i profughi palestinesi che rimangono neicampi, senza più protezione. Molti libanesi assistono invececon un misto di sollievo e di apprensione alla partenza dei sol-dati palestinesi. Considerati a volte come un’arrogante forzad’occupazione; a volte come una presenza amica o alleata. Pertanti libanesi cristiani erano una minaccia; per tanti libanesimusulmani un sostegno. In quel cocktail di sentimenti, i fedaynse ne vanno a testa alta. Si sono alzati prima dell’alba per prepa-rare i bagagli e stirare le divise. La parola d’ordine è che la par-tenza non deve apparire la ritirata di un esercito sconfitto ma laparata di un esercito vittorioso. Un esercito che comunque nonsi è arreso e se ne va con le proprie armi.

La partenza di Arafat, come quella dei vari reparti in cui sonosuddivisi gli undicimila fedayn, nei giorni precedenti e in quellisuccessivi, è ritmata da un’assordante, interminabile sparatoria.

(segue nelle pagine successive)con un servizio di ENRICO FRANCESCHINI

BERNARDO VALLI

Fined’epoca

Un anno dopo la mortedi Arafat si chiude anchela stagione politicadi Sharon. Il loro lungoduello rispecchiala storia del conflittoisraelo-palestinese

la lettura

Con Scorsese nella Rimini di FelliniCURZIO MALTESE

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la copertinaFine d’epoca

Per quattro decenni il premier israeliano e il leader palestinesesono stati rivali militari, legati da un implacabile odioreciproco ma spesso indispensabili l’uno alla sopravvivenzapolitica dell’altro. Una “coppia infernale”, tanto che, quandola sorte l’ha spezzata, il sopravvissuto, come se si fosse liberatodi un fantasma, ha cambiato la sua natura

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

(segue dalla prima pagina)

Tutti sparano per aria, come avviene per tradizione duran-te i matrimoni, e più in generale quando gli avvenimentispingono a sentimenti forti, non sempre gioiosi. È ungrande, insensato sciupio di munizioni. Le munizioni chesembravano destinate all’ultima battaglia, quella del«martirio», secondo Arafat. Battaglia che non c’è stata.

Perché, spiegherà Ariel Sharon, allora ministro della difesa, non si po-teva massacrare la popolazione civile, in mezzo alla quale erano anni-dati gli assediati. Ma anche perché Israele non poteva aggravare la suaposizione internazionale, già diventata difficile con l’invasione del Li-bano. Il primo ministro, Menahem Begin, non poteva permetterla. Laguerra voluta da Sharon gli aveva già creato abbastanza guai.

Arafat sale dunque a bordo dell’Atlantis, la nave da crociera mes-sagli a disposizione dalla Grecia, alzando le dita a V in segno di vitto-ria. Sorride trionfante come un generale che ha appena sconfitto ilnemico in uno scontro decisivo. In realtà, benché lo sconfitto sia lui,non se l’è cavata troppo male. È costretto a lasciare Beirut (cacciatocome dodici anni prima da Amman), ma se ne va con le armi, scor-tato da un incrociatore francese e da uno americano. Mentre tuona-no quindici cannonate a salve in suo onore.

Ariel Sharon sorveglia la scena dalla banchina del porto, mentre i

suoi tiratori scelti tengono Arafat nel mirino telescopico delle loro ca-rabine. Potrebbero ucciderlo facilmente. Basterebbe un suo segna-le. E Sharon lo darebbe volentieri quel segnale. Ha trascinato Israelein una guerra, promettendo al riluttante Begin che sarebbe duratapochi giorni, proprio per venire a snidare Arafat da Beirut. E in effet-ti l’ha stanato, e adesso costringe tutto l’apparato dell’Olp a lasciareil Libano, ma si vede sfuggire il suo capo, sorridente sul ponte dell’A-tlantis diretto a Occidente.

Se la sconfitta di Arafat ha qualcosa di positivo; la vittoria di Sharonha un sapore amaro. L’invasione del Libano doveva concludersi in po-chi giorni e dura da settimane; è iniziata ai primi di giugno e siamo or-mai a settembre; e il paese occupato si è rivelato un pantano nel qua-le è difficile compiere manovre sia militari che politiche. Quel giornoSharon può eliminare Arafat. Oltre ad essere un avversario, il capo pa-lestinese è un uomo che detesta. Sharon ha passato la sua vita di sol-dato a combattere gli arabi, ma Arafat è per il generale israeliano, ades-so ministro, un arabo particolare. In lui vede riassunti tutti i vizi di quelpopolo. Il suo odio è ampiamente ricambiato.

Durante l’assedio di Beirut Ovest Arafat ha spesso dato l’impressio-ne di essere impegnato in un diretto confronto con Sharon. Il loro re-ciproco odio è più intenso di quello che divide i rispettivi popoli. A Bei-rut, la mattina del 30 agosto 1982, la vita di Arafat è infine nelle mani diSharon. Dirà più tardi il capo palestinese che durante l’assedio il ge-nerale israeliano ha tentato di assassinarlo tredici volte. Sharon lo ne-gherà, aggiungendo però che, ripensandoci, avrebbe proprio dovuto

farlo. Comunque quel lontano 30 agosto egli deve mantenere la pro-messa di lasciarlo andare via sano e salvo. Ha assunto l’impegno du-rante i negoziati per l’evacuazione dei palestinesi. Non può farlo ucci-dere a freddo sotto gli occhi del primo ministro libanese, Shafiq al-Wazzan, del capo curdo Walid Jumblatt, degli ufficiali francesi e ame-ricani presenti con i loro legionari e marines. Soprattutto mentre de-cine di telecamere riprendono la trionfale partenza del rais sconfitto,diretto verso una nuova terra d’esilio.

Poco più di due settimane dopo la partenza di Arafat, il 16 settem-bre, comincia il massacro dei civili palestinesi nei campi profughi diSabra e Chatila, ad opera delle milizie cristiane libanesi. Massacroche, stando alla stampa israeliana, fece 470 morti, e tre volte tanto,1.500, stando alla protezione civile libanese. Sharon sarà indicato co-me indiretto responsabile della strage, da una commissione israelia-na, presieduta dal giudice Kahane. Secondo la commissione, Sharonvenne meno «al suo dovere di ministro della difesa», e quindi invita-to a dare le dimissioni da quella carica. Sharon ubbidirà, ma resterà algoverno come ministro senza portafogli. I due nemici uscirono mal-conci dall’avventura libanese: Arafat in esilio a Tunisi e Sharon con lacarriera politica compromessa (e il suo onore di soldato ferito). Ma sisarebbero presto ritrovati faccia a faccia.

La tenzone tra i due uomini, cominciata assai prima di Beirut, mache in quella capitale araba diventò spettacolare e che più tardi di-venterà ancor più violenta, non è ovviamente un capitolo decisivonel conflitto israelo-palestinese. Ma non c’è dubbio che gli accenti

BERNARDO VALLI

I destini paralleli

Al telefono da Tel Aviv, la voce arri-va inconfondibile ma appesanti-ta, velata di tristezza: «Provo ungrande dolore», dice l’uomo checinque anni fa era a un passo dal-la pace con i palestinesi. «Tutti noi

israeliani, in questi giorni, ci sentiamo come seavessimo un padre che lotta per non spegnersi,in un letto d’ospedale. Comprendiamo che lacarriera politica di Ariel Sharon è finita, ma pre-ghiamo che possa sopravvivere». Ehud Barak èstato il soldato più decorato al valore nella storiadi Israele, il commando che sbarcò travestito dadonna su una spiaggia del Libano per assassina-re una cellula di terroristi, poi il capo dei servizisegreti, il capo di Stato Maggiore, il ministro de-gli Esteri, e infine, dal 1999 al 2001, il primo mi-nistro, il leader laburista che voleva riprendere eportare a compimento l’opera del suo maestro,Yithzak Rabin. Al summit di Camp David nell’e-state del 2000, con Clinton e Arafat, non ci riuscìper un soffio, invece della pace scoppiò l’Intifa-da palestinese, Barak perse le successive elezio-ni e la premiership passò a Sharon. Ma ora, mor-to assassinato Rabin, con Sharon in comaprofondo per un nuovo ictus, è lui l’ultimo leg-gendario generale dello Stato ebraico, l’ultimoeroe guerriero che potrebbe tornare alla politica

per vincere la battaglia della pace. È stato davvero un padre, per Israele, Ariel

Sharon? E come ricordarlo: il generale irrefre-nabile, il fondatore del movimento dei colonioppure, nella sua ultima incarnazione, il primoministro che si ritira da Gaza e parla di pace?

«Come lei sa, Israele è un piccolo paese, in cuitutti si conoscono, e io ho conosciuto molto be-ne, per oltre quarant’anni, Ariel Sharon. Siamostati a lungo insieme nelle Forze Armate, più tar-di siamo stati fieri avversari politici, pur senzaperdere mai il rispetto reciproco. Ma quandoSharon mi ha battuto alle elezioni del 2001, pren-dendo il mio posto, ha intrapreso la stessa politi-ca che a quel punto, dopo il fallimento del sum-mit di Camp David con i palestinesi e lo scoppiodell’Intifada, proponevo io».

Vale a dire?«Disimpegno unilaterale dai territori palesti-

nesi. Barriera di sicurezza per proteggerci dal ter-rorismo. Smantellamento delle colonie isolatebadando a preservare i blocchi di insediamentipiù popolosi e vicini ai nostri confini del ‘67. Ci èvoluto un grande coraggio, da parte sua, cioè dacolui che ha creato e guidato il movimento dei co-loni, ad andare in questa direzione, capovolgen-do con pragmatismo i convincimenti di un tem-po. Io sono certo che verrà ricordato dalla storia

Barak.Spero semprenel sogno della pace

ENRICO FRANCESCHINI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 8 GENNAIO 2006

personali di quella tenzone abbiano influenzato negli ultimi anni ilconfronto tra i due popoli. Al punto da spingere molti a pensare chela loro simultanea uscita dalla vita politica avrebbe agevolato uncompromesso. Non c’è stata una stretta simultaneità nel destino deidue uomini. C’è mancato poco.

Sharon è sopravvissuto ad Arafat. E un anno fa, quando Arafat èmorto, Sharon ha subito via via una profonda metamorfosi politica.La scomparsa del leader palestinese l’ha trasformato da superfalcoin tenace partigiano di una soluzione pacifica. Come se la morte diArafat l’avesse liberato dai fantasmi che gli imponevano una lineaintransigente. Spesso provocatoria.

Tanti sono gli elementi politici a cui si può ricorrere per dare unaspiegazione più razionale a quel che è accaduto negli ultimi mesi; eche adesso, con Sharon in bilico tra la vita e la morte ma probabil-mente pure lui già uscito dalla vita politica, tiene in angoscia anchemolti un tempo tutt’altro che teneri con il generale spaccone e su-perfalco. Un’angoscia dovuta al timore che la sua fine politica com-prometta le speranze di una soluzione pacifica accese da lui. Primadi arrivare a questa svolta, tanti altri drammi hanno tuttavia anima-to il duello Sharon-Arafat.

La macchia di Sabra e Chatila non ha impedito a Ariel Sharon didiventare vent’anni dopo, nel febbraio 2001, primo ministro. Allatesta di un governo di coalizione in cui figurava il laburista ShimonPeres, titolare del premio Nobel per aver firmato con Yitzhak Rabine Yasser Arafat gli accordi di Oslo (1993). Accordi che Sharon aveva

condannato e continuava a condannare senza attenuanti.Israele è un paese impegnato in un conflitto permanente e le posi-

zioni politiche sono spesso dettate, in modo pragmatico, dall’anda-mento di quel conflitto. Quella che appare spregiudicatezza in altredemocrazie, a Gerusalemme non è che un adeguamento imposto dal-l’emergenza. Il generale de Gaulle, dicono molti israeliani, non è for-se ritornato al potere, nel 1958, promettendo che l’Algeria sarebbe ri-masta francese, e poi, nel 1962, adeguandosi alla realtà e alla ragione,le ha dato l’indipendenza? E Gorbaciov, uomo dell’apparato sovieti-co, non ha forse gestito la fine dell’Unione Sovietica? Perché dunquescandalizzarsi che Peres, premio Nobel per la pace, si trovasse a fian-co di Sharon? E perché stupirsi, più tardi, della svolta di Sharon?

Quando Sharon arrivò al potere, era in corso dall’autunno prece-dente la seconda Intifada. Al contrario di quel che era accaduto du-rante la prima Intifada (cominciata nel dicembre ‘87), i palestinesi nonlanciavano soltanto sassi, ma sparavano. Ed erano entrati in azione ikamikaze. Sharon disse che era la continuazione della guerra del ‘48(considerata da Israele la guerra di indipendenza perché portò allaproclamazione dello Stato ebraico), e applicò una strategia tesa a pro-vocare la disintegrazione dell’Autorità palestinese, nata con gli accor-di di Oslo (che avevano condotto Israele e l’Olp al reciproco riconosci-mento). Gli attacchi all’Autorità palestinese erano diretti a Yasser Ara-fat. Del quale Sharon voleva la fine, perlomeno la fine politica. Quellafisica era impedita, come a Beirut vent’anni prima, dagli sguardi delmondo puntati sul Medio Oriente.

Il rais era accusato di non saper o di non voler controllare gruppi ter-roristici, quali Hamas e la Jihad islamica. Si creò un ciclo infernale, per-ché l’esercito israeliano attaccava le forze di polizia palestinesi cheavrebbero dovuto contenere i gruppi terroristici. Arafat, secondo Sha-ron, era di fatto loro complice, e non poteva essere un interlocutore.Dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri gemelle di New York, il ca-po palestinese fu paragonato a Osama bin Laden. E a partire dal 13 di-cembre di quell’anno gli fu proibito di lasciare Ramallah. Soltantoquando era in fin di vita gli fu consentito di raggiungere l’ospedale pa-rigino, dove poi morì.

Arafat non era insensibile al passato di Sharon come soldato. Anchelui, a suo modo, era un uomo di guerra. E aveva dato il meglio di se stes-so nell’azione. Il suo mito era nato così. Con la guerriglia, senza esclude-re l’attività terroristica, aveva imposto al mondo e a Israele, che l’ignora-va o la negava, di riconoscere l’esistenza dei palestinesi e di accettare l’i-dea di una loro nazione, con il diritto a uno Stato sovrano. Sul terreno po-litico Arafat era meno abile e meno affidabile. Per sopravvivere dovevacompiere contorsioni, che implicavano ripensamenti e sotterfugi.

Anche Sharon era un soldato coraggioso e un uomo politico senzatroppi scrupoli. I due uomini non avevano in comune soltanto l’odioreciproco. Con i loro comportamenti, erano in qualche modo comple-mentari: Arafat induceva gli israeliani a votare per Sharon, e Sharonspingeva i palestinesi a sostenere Arafat. Formavano una coppia infer-nale. Una volta spezzata, il sopravvissuto ha cambiato natura politica,nell’esiguo spazio di tempo che il destino sembra avergli concesso.

di Sharon e Arafat

più per questa svolta che per tutto il resto, e so-prattutto perciò dobbiamo essergli grati».

Come ha giudicato la decisione di Sharondi uscire dal Likud e fondare Kadima, il nuo-vo partito di centro, in vista delle imminen-ti elezioni?

«È stata anche questa una mossa moltoimportante. Sharon ha fatto emergere la ve-ra questione che oggi divide il nostro paese.Da un lato ci sono coloro, a mio avviso lamaggioranza e spero la stragrande maggio-ranza, convinti della necessità di avere duestati, Israele e Palestina, per due popoli chevivano in pace e reciproca sicurezza uno ac-canto all’altro. Dall’altro lato ci sono coloro,nell’estrema destra, che vogliono mantene-re l’occupazione, convinti che far convivereisraeliani e palestinesi sia la soluzione mi-gliore per Israele, e pure per i palestinesi».

E come vede la decisione di Shimon Peresdi lasciare il partito laburista per sostenere ilnuovo partito di Sharon?

«Capisco che Shimon si sentisse offeso, fe-rito, per la sconfitta patita nelle primarie la-buriste, in cui l’ex-sindacalista Peretz, graziealla mobilitazione dei sindacati, è stato elet-to nuovo leader del partito. Personalmente,dunque, non posso biasimare Peres. Ma po-

liticamente, e come membro del Labour,trovo la sua decisione deplorevole, imbaraz-zante. Shimon è stato uno dei padri del labu-rismo israeliano, una delle colonne del par-tito. Non è bello vedere che se ne va da un’al-tra parte perché ha perso un’elezione inter-na. Peres resta un grande simbolo in Israele,nei sondaggi gli viene ancora attribuito unampio consenso personale. Ma la sua trage-dia, come è noto, è che ha sempre vinto tuttii sondaggi tranne gli unici che contano dav-vero: quelli delle urne».

E lei, Ehud Barak? Si dice che Israele, per fa-re la pace con i palestinesi e difendere la pro-pria sicurezza, ha bisogno di un coraggiosoex-generale dotato di grande esperienza po-litica. Rabin è morto, Sharon è in fin di vita, ri-mane Barak: rientrerà in politica, tornerà acandidarsi alla premiership?

«Prima o poi probabilmente accadrà, ma èancora prematuro. Considerato che Sharonha 78 anni e Peres 82, un giovanotto come me(ha 62 anni, ndr) dovrebbe aver tempo fino al2025 per fare politica. Battute a parte, in Israe-le si finisce per votare quasi ogni due anni, percui potrei avere presto un’altra opportunità».

Ma è adesso che potrebbe esserci urgentebisogno di lei. Senza Rabin, senza Sharon,

dove sono i leader in grado di unire il paesedietro un programma di pace e sicurezza?

«Innanzi tutto pace e sicurezza non di-pendono solo da noi, ma anche dalla contro-parte, dai palestinesi: e se loro non fanno lemosse necessarie, le nostre non basterannomai. In secondo luogo spesso sono le circo-stanze a creare i leader: e credo che i leader ingrado di proseguire il cammino indicato daSharon ci siano, così come ho fiducia che ilpaese sia con loro».

A proposito dei palestinesi: molti diceva-no, lo disse anche lei dopo il fallito summitdi Camp David, che fare la pace con Arafatnon era possibile, che solo la sua scomparsaavrebbe rilanciato il negoziato. Ebbene,Arafat è morto ma il negoziato non procede,nonostante l’unilaterale ritiro israeliano daGaza. Perché?

«È un discorso complesso, così riassumibi-le: Abu Mazen, il successore di Arafat, meritaotto su dieci per quello che dice ma due su die-ci per quello che fa. Esita troppo, cede ad Ha-mas, non combatte come dovrebbe il terrori-smo, la violenza, l’illegalità tra i palestinesi, co-me si vede dal caos di Gaza. Un’azione impla-cabile per ristabilire l’ordine e la legalità tra ipalestinesi, viceversa, è la pre-condizione per

la ripresa del negoziato di pace».Bill Clinton continua a sostenere che, il

giorno in cui il negoziato di pace non solo ri-prenderà ma giungerà a conclusione conun accordo finale, esso dovrà basarsi sul-l’offerta fatta da lei e dal presidente ameri-cano, ma rifiutata da Arafat, al summit diCamp David nel 2000, poi perfezionata ne-gli ultimi mesi del suo governo. Resta anchelei di questa opinione?

«Assolutamente sì. Ed è terribile pensare aquanto sangue è stato e verrà versato inutil-mente, da entrambe le parti, per tornare dinuovo a quel punto. Avremmo potuto averegià la pace e due stati. Purtroppo non è statoancora smentito il vecchio detto secondo cui ipalestinesi non perdono mai l’occasione diperdere una buona occasione».

Un’ultima domanda, signor Barak. Le ca-pita spesso di pensare al suo mentore ed ami-co, al primo ministro assassinato dieci annior sono, a Yithzak Rabin?

«Penso a Yithzak quasi ogni giorno. Lo por-to nel cuore. Spero ardentemente che il suosogno di pace sia completato».

E io, per questo, spero di vederla di nuovonell’arena politica israeliana.

«Torni in Israele, e un giorno lo vedrà».

SHARON

1948

Il primo incontro

a distanza è sul campo

militare. Sharon comanda

un reparto di fanteria

Arafat è guerrigliero

a Gaza. Il primo è Arik,

“il bulldozer”. L’altro

è Abu Ammar

“il costruttore”

1982

Sharon a Beirut circonda

il quartier generale

di Arafat. In agosto

al porto di Beirut Arafat

è nel mirino delle forze

israeliane. Sharon dirà

più tardi: “Ho sbagliato

quel giorno a non

ucciderlo”

2002

Sharon ritenta a Ramallah

la tattica di Beirut:

assediare Arafat,

sotto le bombe

In aprile ne chiede

l’allontanamento

dai territori palestinesi

ma Washington lo ferma

ancora una volta

ARAFAT

1968

A Karame in Giordania,

Arafat respinge

le forze israeliane

Nell’agiografia

è la “prima vittoria

araba” contro Tsahal

E la rivincita contro il raid

di Sharon, cinque

anni prima, a Qibya

1998

Il primo e forse unico

incontro diretto fra i

due rivali, a Wye River

Plantation, negli Usa

Sharon, ministro degli

Esteri, rifiuta di stringere

la mano all’“arciterrorista,

nemico di Israele

e del mondo libero”

2001

Arafat, a sorpresa,

accoglie con un certo

favore l’elezione

dell’“arcinemico”

Sharon a primo ministro

Confida di ritenerlo più

forte del predecessore

Barak, e in grado

di favorire un accordo

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il reportageNuova frontiera

Un imprenditore, un uomo di Stato e un espertodi geopolitica: tre generazioni, tre biografie, trelavori diversi. Un filo comune che porta nel cuoredel gigante asiatico, destinato ad una crescitasempre maggiore. Tanto che capirlo è decisivoper affrontare il nostro futuro

Ognuno ha qualcosada guadagnarese questo Paesediventauna superpotenzadi livello mondialesenza perderela sua anima:“Se ci riusciamonoi, c’è una speranzaper tutti gli altri”

NEW DELHI

Il primo ha 63 anni, si è formato aHarvard, ha diretto la multina-zionale americana Procter &Gamble in India, ha scritto tre

commedie teatrali in inglese e un ro-manzo celebrato dalla critica, ora è uninvestitore di venture capital nel suopaese. Il secondo ha 52 anni, una bril-lante carriera di diplomatico all’Onu enella politica indiana; ha tradotto anti-chi poemi hindi, è l’autore di studi sul-la religione (Krishna, il Dio giocondo) esull’erotismo del Kamasutra. Il più gio-vane ha appena 40 anni e già collezionacattedre universitarie a Londra, Tokyo,ora alla Johns Hopkins University diWashington. Tre generazioni, tre bio-grafie, tre mestieri, un imprenditore,un uomo di Stato, un esperto di geopo-litica. Sono personaggi-chiave per ca-pire l’India di oggi. Fanno parte dellesorprese che riserva questo paese, a co-minciare dalla qualità della sua élitedove s’incontrano manager-poeti, tec-nocrati-umanisti, scienziati al governo(il presidente della Repubblica è unastrofisico, il padre dei satelliti india-ni). Sono talenti universali, versatili ecosmopoliti, a loro agio a Calcutta co-me a Hyde Park, capaci non solo di par-lare e scrivere in perfetto inglese ma so-prattutto di “pensare” in inglese: la lo-ro cultura abbraccia il sanscrito anticoe i principi liberaldemocratici, l’epicoMahabharata e lo Stato di diritto («L’In-dia l’avevo nel sangue eppure mi avvi-cinai a lei con lo spirito critico di unostraniero», scriveva nel 1946 il padredell’indipendenza Nehru, laureato ingiurisprudenza a Cambridge). Pur di-versi questi tre personaggi hanno unacosa in comune: sono intellettuali notiper aver prodotto le analisi più origina-li su “che cosa significa essere indiano”,tre punti di vista moderni sull’India ve-ra, lontana dagli stereotipi occidentali.

L’identità di questa nazione riguardail mondo intero visto che in questo se-colo un essere umano su sei è indiano.L’India sarà entro pochi decenni il se-condo mercato mondiale di consuma-tori dopo la Cina, con una middle classdi mezzo miliardo di persone. È la piùgrande democrazia del pianeta, ha labomba atomica, è leader globale nelsoftware informatico. Il numero deisuoi laureati supera l’intera popolazio-ne della Francia. La sua diaspora all’e-stero per dimensioni è seconda solo aicinesi; gli immigrati indiani sono la co-munità più ricca in California, a Lon-dra, negli emirati arabi. Che ci piaccia ono ci saranno degli indiani nel futuro diognuno di noi. L’India è un laboratoriodi problemi che riguardano anche lesocietà occidentali. Perciò questi trepersonaggi attirano l’attenzione.

«Sono nato nel 1942 — racconta Gur-charan Das, l’ex chief executive dellaProcter & Gamble a New Delhi che oggiè anche editorialista del Times of India— l’anno in cui il Mahatma Gandhi sfi-dava gli inglesi lanciando il movimen-to “Via dall’India” che nel 1947 sfociònell’indipendenza. La mia nascitacoincise anche con la Grande Carestiadel Bengala in cui morirono tre milionidi persone. Tutti e due gli eventi appar-tenevano alla normalità per le genera-zioni di mio padre e mio nonno, oggiinvece sembrano remoti nella memo-ria nazionale. L’anno della mia nascitacalava il sipario su un’epoca. La storiadella mia vita segue le pietre miliari del-l’India contemporanea. Quando andaia scuola negli anni Cinquanta eravamoliberi e credevamo di entrare in paradi-so: Nehru costruiva una nuova nazioneorgogliosa e laica, basata su democra-zia e socialismo. Da giovani abbiamocreduto appassionatamente nel suosogno di un’India moderna e giusta.Quando cominciai a lavorare negli an-

ni Sessanta il sogno svanì, il socialismostava portandoci allo statalismo e allaparalisi economica. Da giovane mana-ger mi ritrovai imprigionato nella giun-gla kafkiana dei controlli burocratici.Quando mi sposai e nacquero i miei fi-gli la disillusione era ai massimi, IndiraGandhi stava creando un potere dina-stico e ci portava in un vicolo cieco.Quando lei dichiarò lo stato di emer-genza a metà degli anni Settanta la li-bertà finiva e il paradiso era perduto.Per fortuna l’emergenza durò solo 22mesi e presto ritrovammo la libertà po-litica. Quella economica arrivò all’ini-zio degli anni Novanta con le riforme diNarashima Rao che furono una svoltaimportante quanto quella di DengXiaoping in Cina: aprì agli investimen-ti esteri e al commercio, smantellò icontrolli e i monopoli, ridus-se le tasse, portò l’India nelcuore dell’economia globalecon tassi di crescita del 7% al-l’anno».

L’India è ancora oggi la pa-tria di un terzo di tutti i poveridel pianeta. Il reddito pro ca-pite, 500 dollari l’anno, è lametà di quello cinese. Il 40%degli indiani vivono sotto lasoglia di miseria di un dollaroal giorno e più di un terzo so-no analfabeti. Ma il decolloindiano è una realtà e travol-ge sistemi di valori, ordini so-ciali, costumi antichi. «Nellascala gerarchica delle castetradizionali — osserva Das —i mercanti erano solo al terzoposto, sotto i colti brahmini,sotto i militari e i proprietariterrieri e solo un gradino al disopra dei lavoratori manuali.Oggi i figli dei brahmini fre-quentano i master delle Busi-ness School e vogliono diven-tare imprenditori. L’India è inmezzo a una rivoluzione so-ciale analoga all’ascesa dellanuova borghesia mercantilenipponica nella Restaurazio-ne Meiji del 1868, che tra-sformò il Giappone da un ar-cipelago di isole arcaiche inuna società moderna. Nessu-no strato sociale indiano è alriparo da questa rivoluzione.In un villaggio di seicento fa-miglie nel cuore della regionefeudale dell’Uttar Pradesh unmaestro elementare si la-menta perché anche gli ope-rai delle concerie tolgono i fi-gli dalla scuola pubblica permandarli negli istituti privatidove si insegna in inglese: tut-ti vogliono diventare ricchi».

Pavan Varma, il grandcommis dello Stato che si è di-stinto come ambasciatore aMosca e alle Nazioni Uniteprima di andare a dirigere ilNehru Center di Londra, daerudito studioso della religio-ne del suo paese ama sovver-tire i cliché occidentali sullospiritualismo indiano conquesto aneddoto: «Haridwar,dove il Gange discende dal-l’Himalaya e dilaga in pianura nel suolungo viaggio verso il mare, è una cittàsacra per gli indù. Migliaia di pellegrinila visitano ogni giorno. In mezzo a tan-ta pietà e preghiera in pieno inverno al-cuni uomini sprofondano a piedi nudinel fiume ghiacciato. In mano tengonouna lastra di vetro con cui scrutano leacque. I loro sguardi fissi denotano unaconcentrazione superiore ai fedeli piùdevoti. Ma il loro scopo non è la salvez-za dell’anima. La loro attenzione è pun-tata sulle monetine adagiate nel lettodel fiume, che adocchiano e acchiap-pano velocemente con i piedi». Varmacita la definizione che lo scrittore ame-ricano Mark Twain diede dell’India«madre di mille religioni e di due milio-ni di dèi». Ricorda il fascino misto acondiscendenza che l’imperialismobritannico sentiva per la patria dellametafisica e del misticismo. Tutti que-sti luoghi comuni possono essere rove-sciati nel loro contrario: «L’induismovenera anche Lakshimi, la dèa della ric-

IL CAMBIAMENTONelle foto, i mille volti

dell’India moderna.

Qui sopra,

un supermercato

di Calcutta. A sinistra

e a destra, panorami

e vita quotidiana

a Mumbay (la ex

Bombay). Sotto,

una boutique nella

regione del Kerala.

In basso, operai

nel porto di Calcutta

La poesia del managerecco l’India che ci aspettaFEDERICO RAMPINI

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chezza che esalta la ricerca del benes-sere materiale, artha, come lo scopoprincipale della vita. È una religionedove non esiste peccato originale, e i te-sti sacri sono popolati di dèi che si la-sciano comprare. Perché l’élite indianacon i suoi 5.000 anni di continuità sto-rica si fece colonizzare così facilmentedagli inglesi? Perché una nazione cheha Gandhi come modello di rettitudineè diventata così corrotta? Gli indianinella realtà sono straordinariamentesensibili ai calcoli di potere. Mostranoun’astuzia infinita nello scoprire dovesi annida il comando, sono pronti a col-ludere con il più forte e negli intrighi simuovono come pesci nell’acqua.Quelli che rinunciano al potere e allaricchezza, come Gandhi, vengono ado-rati non perché li si voglia emulare, maper la stupefazione che suscita la lorosovrumana capacità di trascenderel’irresistibile tentazione».

Sunil Khilnani, il più giovane dei tre,è stato allevato a Trinity Hall e al King’sCollege di Cambridge. Aveva vent’anniquando la sua vita fu devastata da unatragedia personale: padre e madre uc-cisi durante una rapina in casa loro aNew Delhi. Khilnani da allora ha fatto lasua carriera accademica all’estero traInghilterra, Stati Uniti e Francia (oltre ainglese e hindi parla un francese colto,collabora con Sciences Po e ha scritto unsaggio sul gauchismo parigino). È ilpromotore di una specie di Forum diDavos del sud-est asiatico, che riuniscevip e intellettuali indiani, cinesi e datutto l’Estremo oriente. La sua operapiù importante, The Idea of India, è unbest-seller negli Stati Uniti e ha ricevu-to il plauso del premio Nobel AmartyaSen. Anche Khilnani sfida gli stereotipiche abbiamo sull’India. «Una delle piùinquietanti immagini nella storia re-cente del mio paese — ricorda — è laprocessione di fedeli indù vestiti di tu-niche color zafferano che nel 1998 an-darono nel deserto del Rajahstan dovel’India aveva appena compiuto cinquetest nucleari: i pellegrini raccoglievanosabbia radioattiva da portare in giro peril paese come una reliquia sacra. Fu unasvolta nel cambiamento dell’idea chel’India ha di se stessa. Un paese co-struito sul pluralismo religioso e il paci-fismo è minacciato da uno sciovinismoreligioso che inneggia all’atomica».

Si scontrano due idee dell’India checorrispondono a due visioni della suastoria: una vede il paese come la vittimadi invasioni ricorrenti — tribù ariane e

orde musulmane, imperialisti europeio multinazionali americane — e aspiraa ristabilire una “purezza indù” origi-naria; la visione opposta celebra il ca-rattere eclettico e meticcio dell’India,la sua civiltà-masala come un crogiuo-lo dove si fondono da millenni influen-ze diverse generando degli splendidiincroci culturali. Khilnani consideraquella indiana come la terza grande ri-voluzione democratica nella storia del-l’umanità — dopo la francese e l’ame-ricana — avvenuta sormontando enor-mi ostacoli sociali ed economici: le di-mensioni demografiche, la povertà e lediseguaglianze, l’analfabetismo dimassa, la disomogeneità etnica, reli-giosa e linguistica. Perciò il suo succes-so o fallimento riguarda l’umanità inte-ra.

L’esperimento indiano di “comuni-tarismo” — dove la democrazia e lo Sta-to laico devono riuscire a sanare la pia-ga delle caste, e mantenere una unionetra indù musulmani e cristiani rispet-tandone le identità — affronta proble-mi che neppure l’Occidente ha risolto,né a New Orleans né nelle banlieues pa-rigine. La passione con cui gli indiani ditutti i ceti, compresi gli “intoccabili”,usano gli strumenti della partecipazio-ne politica per far valere i propri dirittiè una sfida verso altri modelli che spri-gionano un fascino diametralmenteopposto. Il confronto tra India e Cinanon è solo la gara tra democrazia e au-toritarismo ma anche (ironia della sto-ria) tra la socialdemocrazia di Delhi el’iperliberismo di Pechino, tra il federa-lismo e il centralismo, tra il melting potmultietnico e il sino-centrismo. La sfi-da indiana parla anche all’Islam, a cuivuole dimostrare che lo Stato laico è su-periore a quello confessionale. È rivol-ta a quei paesi poveri a cui si fa credereche le loro condizioni economiche lirendono “immaturi” per la democra-zia. Tutti hanno qualcosa da guada-gnare, o da perdere, se l’India diventauna nuova superpotenza globale senzaperdere la sua anima. «Non saremo maitigre o dragone — dice Das —, l’elefan-te indiano è più lento ma saggio. Se ciriusciamo noi, c’è speranza per tutti».

FRANCESCA CAFERRI F

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 8 GENNAIO 2006

Lo scrittore Vikram Seth: vi insegneremo i segreti della convivenza fra culture

“Noi, maestri di tolleranza”

L’ex ragazzo d’oro della letteratura indianaè tornato a casa. Ci ha messo dodici anniVikram Seth per parlare di nuovo di India:

lo aveva fatto nelle 1.618 pagine del Il ragazzo giu-sto. Poi la sua penna aveva preso a viaggiare fra isentieri di Hyde Park e le calli di Venezia: il risul-tato è Una musica costante, il libro che ha consa-crato in tutto il mondo il suo talento di scrittore.Oggi Seth è tornato a raccontare il suo paese: è lastoria di una coppia divisa fra l’India e l’Europaquella che ha messo al centro di Due Vite, libro ap-pena uscito nei paesi anglosassoni e dal prossimosettembre in Italia per le edizioniLonganesi.

Negli ultimi anni sembra chel’India stia vivendo un’accelera-zione improvvisa: nella cultura,nella tecnologia, nel cinema, nel-l’economia. Cosa sta succedendo?

«In realtà questo è un processoche è in corso da anni: ma sembrache l’Occidente lo abbia scopertoda poco. In India nel recente passa-to ci sono state riforme economicheimportanti e questo ha facilitato lacrescita. Ora poi c’è un primo mini-stro (Manmohan Singh, n.d.r.) che èstato a lungo ministro delle Finan-ze: in questa sua doppia veste staandando avanti sulla strada delle liberalizzazioni,ma si sta preoccupando anche di attenuare i po-tenziali effetti negativi di questo processo. L’Indiasta percorrendo la sua via verso la modernizza-zione: forse è un percorso più lento di quello dipaesi vicini come la Cina, ma è anche più attentoalle conseguenze sociali e ambientali che la cre-scita porta».

Il progresso però finora sembra aver toccatosolo alcune fasce di popolazione. Un larghissimonumero di indiani, soprattutto nelle campagne,sono esclusi dal benessere che invece sembra di-lagare nelle grandi città e nei centri industriali.

«Credo che il governo abbia ben presente il pro-blema, che di certo è serio. Nel 2004 Sonia Gandhiha vinto le elezioni schierandosi dalla parte diquelli per i quali l’India non era la realtà splen-dente che il Bjp, il partito conservatore allora alla

guida del Paese, aveva disegnato durante la cam-pagna elettorale. A decretare la vittoria del partitodel Congresso sono stati gli esclusi. Oggi il gover-no sa che se non lavorerà per loro dovrà tornarse-ne a casa: questo paese è la più grande democra-zia del mondo, e il risultato a sorpresa delle ele-zioni del 2004 ha provato a tutti che in democraziala gente può scegliere di mandar via chi non lavo-ra bene».

Non teme che la globalizzazione possa allalunga cancellare le caratteristiche dell’India?

«Io non credo. Questo non è un Paese che seguetutte le correnti: non diventeremoamericani solo perché ora vanno dimoda i film americani. La gente quiha un profondo senso di apparte-nenza: l’India ha conservato la suatradizione musicale, ha un’industriadel cinema tutta sua, la maggior par-te della popolazione veste ancoracon gli abiti tradizionali, nelle cam-pagne ma anche nelle grandi città co-me Delhi e Mumbay. Noi andiamopiano, ma per la strada non perdia-mo la nostra identità: siamo stati persecoli un crocevia di culture e di reli-gioni. In India è passata la tradizionehindù, quella islamica, quella giu-daico-cristiana. L’India le ha vissute

tutte, ma non ha mai smarrito le sue peculiarità». Cosa può dare l’India al mondo?«Una certa maniera di guardare alla vita, una

certa impostazione filosofica e religiosa. Ma più ditutto, in questo momento, l’India può essere unesempio di convivenza. In questo paese ci sonomilioni di persone di religioni diverse, che vivonosecondo differenti tradizioni. Il mondo camminaa grandi passi verso un futuro in cui sempre piùdecisioni saranno prese a un livello superiore aquello dei singoli stati: occorrerà mettere d’accor-do modi di sentire, di pensare e di vivere diversi.L’India in questo ha una grande tradizione: inquesto momento abbiamo un primo ministrosikh, un presidente musulmano, una leader delpartito di maggioranza che è cristiana. È una cosapositiva per il Paese e una cosa da cui tanti paesidel mondo possono imparare».

Vikram Seth

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il raccontoImmagini d’autore

A un anno dall’ingresso nella Ue di dieci nuovi paesi,l’agenzia “Magnum” ha mandato dieci suoi fotografia documentare le mutazioni di luoghi e persone, riprendendoil filo del viaggio fatto nel 1955 da Cartier Bresson.Ecco l’anteprima del loro lavoro, arricchita dall’analisidi uno scrittore attento alle novità come Peter Schneider

Quello che mancaè la volontà di completarela trasformazione, il rischioè che resti in piediuna Cortina di ferro delleteste che divida gli europeidell’Ovest e quelli dell’Est

Il “Muro” della nuova EuropaPETER SCHNEIDER

Il primo anno dell’Europa allargata a Est è sta-to un anno di grandi chances, grandi sfide egrandi delusioni. Le delusioni sono venutedalla vittoria del “no” ai referendum sull’Eu-ropa in Francia e in Olanda. Una vittoria del“no” che esprime anche le diffuse paure nel-

l’Ovest per l’allargamento a Est: prima fra tutte lapaura della perdita di posti di lavoro, quell’incuboincarnato dalla definizione populista di Philippe deVilliers dell’«idraulico polacco» che sbarca a Ovest etrasforma il suo collega occidentale in un disoccu-pato. L’allargamento a Est dell’Europa, rivisitatooggi, è più cose insieme: è il Mitteleuropa che tornaa casa, è una chance fantastica, e insieme è una svol-ta che pone l’Europa davanti a sfide e problemi cuil’Europa occidentale non era preparata.

Ripenso oggi a quei giorni dell’89 in cui crollaro-no i Muri, e al recentissimo avvio dell’allargamen-to, e mi dico che con il ritorno di polacchi, cèchi, slo-vacchi, ungheresi in Europa si è quasi ripetuto suscala più grande quanto è accaduto a livello tedescocon la riunificazione. Si è presentata, con la fine delcomunismo, una chance che non poteva non esse-re colta. Proprio all’indomani della caduta del Mu-ro, la tragedia jugoslava ci ha mostrato quali posso-no essere le conseguenze di un vuoto di potere.L’Europa, dopo l’89, non poteva più restare la pic-cola Europa carolingia di prima. Ma allo stesso tem-po, la riunificazione tedesca ed europea ha impostoalla Germania e all’Europa uno stress eccessivo.

Cominciamo dal caso tedesco: le difficoltà dellariunificazione furono sottovalutate, e oggi siamo difronte a un insuccesso clamoroso. Ogni anno, unpiccolo territorio, l’ex Ddr, riceve dalla Repubblicafederale finanziamenti pari all’intero Piano Mar-shall. Eppure non funziona, anzi espone l’intera Ger-mania al rischio della spirale del declino. Se guardia-mo non più al solo caso tedesco ma all’Europa tor-nata unita, notiamo alcuni rischi di questo tipo, e ri-schi diversi. Primo fra tutti: la vecchia Europa non erapreparata alla concorrenza e alla competitività deipaesi del Centro-est, paesi che offrono lavoro e tec-nologia ad alto livello e a basso costo, decisi a decol-lare come fu per la Corea del Sud trent’anni fa.

Problemi analoghi nascono a volte da cause di-verse. Nell’ex Ddr, dopo la riunificazione tedesca, i

massicci aiuti federali hanno prodotto e diffuso unamentalità e un’abitudine a vivere di sovvenzioni,che pesa su tutto il Paese. Polacchi, cèchi, slovacchi,magiari non hanno avuto una valanga di aiuti comel’ex Ddr, e sono divenuti una sfida per la loro com-petitività. Colmare queste differenze richiederà ge-nerazioni. Verranno anni, decenni di grandi tensio-ni. Eppure sono ottimista, alla fine riusciremo acompletare la riunificazione dell’Europa. Il mio ot-timismo nasce prima di tutto dalla convinzione chenon c’era alternativa: non potevamo lasciare solinel mondo quei paesi, quelle nuove democraziespesso nate da coraggiose lotte per la libertà, di So-lidarnosc o dei dissidenti cecoslovacchi e unghere-si. La guerra del gas, con la politica punitiva russaverso un’Ucraina rivolta verso l’Europa, mostraquale sarebbe stata l’alternativa all’allargamento.

Non è tutto. Con l’allargamento, torna in parte ilvecchio Mitteleuropa. Le nazioni dell’altra Europasi riconoscono e si identificano di nuovo in se stes-se e nelle loro peculiarità, sono di nuovo fiere delleloro lingue e tradizione. Ciò detto, io non penso enon spero che il vecchio Mitteleuropa torni cosìcom’era. Nello straordinario processo in atto il nuo-vo si mescola con l’antico. Questi antichi Stati mit-teleuropei non sono stati abituati a lungo alla de-mocrazia: come fu per la Germania dopo il 1945, de-vono essere aiutati a riscoprirla. L’Europa può faremolto per aiutarli, se solo vorrà. L’idea europea diun capitalismo sociale — diverso da quello degliStati Uniti — ha una grande attrazione, anche fuoridell’Europa.Ma quel che manca nella “Vecchia Eu-ropa”, all’Ovest, è la volontà politica di completarequesta riunificazione. Il pericolo è che, così cometra tedeschi dell’Ovest e dell’Est si parla ancora di«Muro nelle teste», tra europei dell’Ovest e dell’Estresti in piedi una «cortina di ferro nelle teste», de-cenni dopo il crollo del comunismo.

Il governo Schroeder, purtroppo, ha rischiato dirianimare una vecchia sfiducia contro i tedeschi: hascelto relazioni privilegiate con Mosca, ha voluto ilgasdotto baltico Russia-Germania che aggira Polo-nia e Ucraina, ha ferito insomma le sensibilità stori-che dei polacchi e di altri popoli europei. Ma il pro-blema chiave resta la «Memoria divisa» dell’Euro-pa, un problema che un veterano della lotta per lademocrazia all’Est, Bronislaw Geremek, sottolineaspesso come centrale. Le due Europe sono molto di-

vise, e lo resteranno a lungo. Proprio della «Memo-ria divisa» si parla e si discute troppo poco. Mi spie-go: l’esperienza di cinquant’anni di dittatura haavuto un grande ruolo nella decisione dei polacchidi partecipare alla guerra in Iraq. Loro hanno unaesperienza fresca della dittatura ed una volontà dicombatterla ovunque, che a noi europei dell’Ovestsembra lontana ed esagerata. In modo troppo fret-toloso molti hanno liquidato quella scelta gabellan-dola come voglia di gettarsi nelle braccia del Gran-de Fratello americano. Sbagliato, Adam Michnik eVaclav Havel non sono amici di George W Bush:hanno fatto una scelta che si può non condividerema che si può rispettare.

Quel che è peggio, è che anche tra noi intellettua-li europei dell’Est e dell’Ovest si parla troppo poco,o quasi nulla, di questi grandi temi. Oggi, all’iniziodell’allargamento, non viviamo un clima compara-bile al grande, vitale e fecondo scambio d’idee chenel dopoguerra democratico dell’Europa occiden-tale unì e animò intellettuali tedeschi e francesi, in-glesi e italiani. Tra noi intellettuali dominano stan-chezza e silenzio, e nell’intellighenzia come nell’o-pinione pubblica dell’Est questo può solo rafforza-re delusioni. Noi, in Europa occidentale ma speciein Germania, non parliamo del terrore delle ditta-ture comuniste quanto parliamo del nazifascismo.I nostri film popolari sul passato della Ddr sono qua-si tutti commedie che descrivono la vita nel “socia-lismo reale” come un’esperienza un po’ assurda maabbastanza comoda: parlo di film come Goodbye

Lenin, Sonnenallee (Viale del sole) o NVA. Nessunoinsegna ai nostri giovani che la Ddr era un regimeche giustiziava i primi dissidenti con le vecchie ghi-gliottine della Gestapo.

Nella «Memoria divisa» si agitano anche brutti ri-cordi dell’Est per la tendenza di non pochi intellet-tuali e governi dell’Europa occidentale — ma spe-cie della vecchia Germania ovest — all’appease-ment verso Mosca. Questa mentalità dell’appease-ment contagiò anche gli intellettuali della Ddr, a dif-ferenza dei loro colleghi polacchi, cèchi o magiari. Eci fece udire in casa Spd disgustosi commenti su So-lidarnosc definita un movimento clericale-reazio-nario se non quasi fascista. Ma a questa fatale deri-va sfuggirono quegli intellettuali della Ddr fuggiti ocostretti a fuggire nella Repubblica federale. Questadifferenza in una scelta esistenziale — fuggire o ri-manere — creò e crea ancora un silenzio glaciale trai due gruppi di intellettuali — un silenzio del qualenon si parla nella Germania unita. Un fatto che fa ri-pensare al dissenso insanabile tra gli emigrati Tho-mas Mann e Bertold Brecht e i cosidetti “emigrati in-terni” che erano restati nella Germania di Hitler.

Qualcosa di simile si ripete oggi tra Europa del-l’Ovest e dell’Est, ma soprattutto tra gli intellettualitedeschi. Gli intellettuali francesi, da André Gluck-smann a Bernard Henry-Lévy, o gli inglesi da HaroldPinter a Timothy Garton Ash, a Salman Rushdie, ap-poggiarono il dissenso. L’intellighenzia di sinistratedesca si cullò troppo a lungo in un falso mito. Il mi-to secondo cui la divisione della Germania sarebbestata una “punizione” per il nazifascismo e perciòdoveva essere accettata. Ma se fosse così, perché ipolacchi che lottarono accanto alle truppe alleatedovevano patire la stessa punizione?

Questo silenzio m’induce a riflessioni amare. Mispinge a ricordare, ad esempio, quale grande soste-gno americani e inglesi dettero ai tedeschi dopo il‘45. Non solo con il Piano Marshall, ma anche aiu-tandoli a scrivere il Grundgesetz, la Costituzionedemocratica. Sulla «Memoria divisa» e le sue con-seguenze per il presente e il futuro dell’Est tornato acasa e dell’intero continente manca un dialogo. Ec-co cosa aiuta a tenere in piedi una specie di Cortinadi ferro senza comunismo.

Per l’Europa orientale — o meglio: per quella par-te del vecchio Mitteleuropa — la cultura angloame-ricana non a caso ha oggi più fascino della cultura

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della “Vecchia Europa”. Loro si ricordano dei nostrisilenzi o delle nostre parole di giustificazione per ilPutsch di Jaruzelski, loro vedono oggi come noicondanniamo a parole l’Iran, il cui presidente chie-de di liquidare Israele, ma poi continuiamo a dialo-gare con Teheran come se niente fosse successo.Noi europei, se non fosse venuto l’intervento ame-ricano, non saremmo stati capaci da soli di fermareil genocidio di Milosevic in Bosnia e in Kosovo. Que-sti ricordi rafforzano all’Est la memoria di un’Euro-pa occidentale debole e vile.

Certo, guai a farsi travolgere dal pessimismo. GliStati Uniti d’America ci hanno messo oltre un seco-lo a unificarsi, e nel processo soffrirono anche peruna guerra civile, la Guerra di secessione. Anche noieuropei tutti affronteremo un processo lungo: dob-biamo armarci di pazienza. Detto questo, per me leesperienze negative dei silenzi e dell’appeasementnel caso della Polonia, e dell’incapacità di agire nelcaso di Bosnia e Kosovo, sono spunto di riflessioniamare: l’Europa occidentale deve imparare a ri-pensarsi, riconoscere che ci fu una mancanza di so-lidarietà con la Polonia di Solidarnosc e con la lottadell’altra Europa per la libertà. Quasi nessuno par-la più del povero popolo dei ceceni, oggi violentatoda due terrorismi — il terrorismo statale del Crem-lino e quello dei “liberatori” diventati terroristi.

Ma soprattutto c’è da prendere sul serio il proble-ma più urgente: la diffusa paura degli europei del-l’Ovest che lavoratori qualificati dell’Est a basso co-sto li trasformino in disoccupati. Non si può chie-dere astrattamente entusiasmo per un’Europa do-ve i salari slovacchi sono un sesto di quelli dell’Ove-st del continente, ignorando che l’allargamentopuò significare — e significa per molti — la perditadel posto di lavoro. Finora i politici ci hanno conso-lato con la promessa che il mercato unito sarà un be-ne per tutti: per gli imprenditori e per i lavoratori.Non è così: finora il mercato unito sembra una gran-de occasione per le multinazionali, ma un fiasco pertanti lavoratori nella vecchia Europa. Gli stessi im-prenditori che facevano enormi profitti, nel 2005sono stati i primi a trasferire i posti di lavoro nel“nuovo paradiso”: i paesi dell’Europa dell’Est. Igno-rando questo problema — in cambio di un “regalo”ridicolo di una costituzione di cinquecento pagine— si costruisce una nuova Cortina di ferro.

(testo raccolto da Andrea Tarquini)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 8 GENNAIO 2006

LA MOSTRA EURO VISIONS.

I nuovi europei visti dai fotografi della Magnum, a cura di Diane Dufour e

Quentin Bajac, viene presentata dalla Triennale di Milano in partnership con

Alcatel (dal 14 gennaio al 12 febbraio).

Dopo una prima tappa al Centre Pompidou di Parigi, lo scorso settembre, la

mostra approda a Milano, da dove ripartirà per Budapest e poi ancora per

altre destinazioni europee, per chiudere a Bruxelles. La mostra nasce dalla

proposta fatta dalla Magnum Photos al Centre Pompidou

di presentare una missione fotografica sul tema dei “nuovi europei”, vale

a dire i dieci paesi entrati nell’Unione Europea il primo maggio 2004:

Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica

Ceca, Slovacchia e Slovenia. Dieci fotografi della Magnum hanno scelto di

esplorare ciascuno un diverso paese con una motivazione

e un approccio del tutto individuali. All’origine dell’operazione il libro

pubblicato da Henri Cartier-Bresson nel 1955, “Gli Europei”. Questi

i fotografi impegnati nel progetto: Carl De Keyzer, Martine Franck, Alex

Majoli, Peter Marlow, Martin Parr, Mark Power, Lise Sarfati, Chris

Steele-Perkins, Donovan Wylie, Patrick Zachmann.

Magnum Photos è rappresentata in Italia da Contrasto.

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i luoghiVecchie atmosfere

Dalle mappe antiche si capisce che la città era circondata dai canalie aveva un cuore navigabile. Ancora negli anni Cinquantasu queste vie passavano migliaia di barche con tonnellate di merce,che ne facevano il dodicesimo porto d’Italia. Poi la zona dei Navigliè diventata quella degli artisti, dei cabaret e delle osteriecon il Barbera. Prima di venir cancellata dalla metropoli di plastica

L’acqua perduta di MilanoMILANO

L’ultimobarcone con le bo-bine di carta per le rotati-ve arrivò sotto ilCorriere il15 marzo 1929. Le cartie-

re, la Burgo, la Binda, erano oltre le mu-ra, verso Corsico. Ma ancora nel ’51 al-la Darsena di Porta Ticinese si contaro-no 697.130 tonnellate di merce e questofaceva di Milano il dodicesimo portoitaliano, dopo Ancona e prima di Paler-mo. Parlare di Navigli oggi, a Milano, haqualcosa di scivoloso. Un po’ per l’ine-vitabile gioco passato-presente (chepoi non è un gioco), un po’ perché i Na-vigli non sono due, come molti credo-no (il Naviglio grande e il Pavese, unitidalla Darsena) ma cinque.

Quando il tassista dice «va bene sefacciamo la Cerchia dei Navigli?» unorisponde distrattamente di sì e nonpensa che una volta si diceva Cinta deiNavigli e quello della Martesana arri-vava a Milano in pieno centro: entravada via Gioia, fiancheggiava la Cassinadi Pomm (dove Casanova ebbe le gra-zie della bella Zenobia il giorno primadelle di lei nozze), passava il Ponte del-le Gabelle, arrivava in San Marco, doveformava un laghetto, e poi avanti, viaFatebenefratelli, via Senato, via sanDamiano verso corso Monforte: lì c’e-ra il ponte detto delle Sirenette, in ghi-sa, tanto che per la gente divennero fa-miliarmente le sorelle Ghisoni. Adessosono al Parco Sempione. “I cà di sciori”,le case dei signori, cioè dei nobili, deiricchi o di tutt’e due le cose insieme,sono concentrate qui, e la più bella, lapiù dipinta era quella dei Visconti diModrone, col suo splendido giardino ele preziose balconate. Un altro laghet-to era in Santo Stefano, realizzato in-torno al 1388, al tempo di Giangaleaz-zo Visconti, dalla Fabbrica del Duomo.

Già, il Duomo, «una cava di marmovestita da sposa» cantava Dario Fo.Tutto il marmo di Candoglia, sul lagoMaggiore, arrivava a Milano sull’ac-qua, e i barconi che trasportavano ma-teriale per la costruzioni non pagava-no dazio e recavano la scritta A. U. F.(ad usum Fabricae) e da qui deriva (adesignare gli scrocconi) l’espressione«andare a ufo». Ancora da quel mondoci arriva «non dare corda», perché «da-re corda»per i barcaioli era sciogliere lefuni che assicuravano il natante alla ri-va, mentre un altro con una pertica loindirizzava nel giusto senso della cor-rente. Non dare corda significa non da-re spazio a un tale che presumibilmen-te è un seccatore, non incoraggiarlo.

Dalle vecchie piantine di Milano (c’èuna bellissima incisione del Matthaus,seconda metà del Seicento) si capiscecom’era: circondata dall’acqua e conun cuore navigabile. Nessuna città eu-ropea aveva queste caratteristiche. IlNaviglio Grande fu il primo canale na-vigabile, al mondo. Esce dal Ticino aTornavento, va a morire nella Darsenadopo 57 chilometri. I lavori di scavo co-minciarono nel 1179 e terminaronodopo 32 anni. Secondo Guido Lopez,storico milanese, «nel 1929 fu perdutaun’isola pedonale già bella e pronta».In sostanza, da allora ci si sbatte per la

vivibilità di un centro storico che ladoppia cintura d’acqua garantiva, purcon qualche inconveniente (gli scari-chi, le zanzare), e che adesso non ga-rantisce più nessuno. Come nessuno,tranne qualche artista, protestò da-vanti all’interramento del Naviglio,una sepoltura vera e propria (progettodell’ingegner Cesare Albertini). Lacontestazione più forte uscì sul Mar-zocco, giornale di Firenze, a firma diLuca Beltrami, senatore del Regno, ar-chitetto, l’uomo che recuperò il Castel-lo Sforzesco. Questo Naviglio centraleviene inumato e festeggiato da unamostra di 301 dipinti sui Navigli. Ospi-te d’onore il padre della modernizza-zione, il Podestà Giuseppe Capitanid’Arzago, che non è un pesce piccolo:sottosegretario al Tesoro nel ministeroFacta, ministro dell’Agricoltura nelprimo ministero Mussolini. GiuseppePontiggia ha riassunto molto bene iltutto: «Le città attraversate da fiumi eda canali ne traggono una linfa vitale esegreta: ma gli uomini, nella loro ten-denza proterva a ridurre l’ideale al ma-teriale, la interpretano come efficienzadei trasporti. Anche Milano è stata vit-tima di questa allucinazione. Ha im-piegato secoli di lavoro geniale per tra-sformarsi in una città acquatica, ren-dendo sempre più capillare la trama deicanali e la civiltà dei rapporti. Ma poi,nel giro di un secolo, dominata da duemiti moderni,la macchina ela velocità, hainiziato e ingran parte co-perto il per-corso contra-rio. Trasfor-mare le vied’acqua in vieasfaltate ap-pariva un’o-p e r a z i o n ecoerente conlo sviluppodella città;non si capivache se ne tra-diva la storia,se ne spegne-va la bellezza,se ne impove-riva l ’uma-nità».

S e c o n d oStendhal (an-notazione del4 ottobre1816), «Mila-no è la cittàd’Europa conle strade piùcomode e ipiù bei cortili.Questi cortili,quadrati co-me quelli deigreci, sonocircondati dacolonne digranito. Intutta Milanosi trovano ben ventimila colonne digranito. Arrivano dal lago Maggiore suun canale che sta nella città come unboulevard, dalla Bastille alla Madelei-ne, canale cui mise mano anche Leo-nardo. Noi non siamo che dei barbari».E noi, chissà. Anche Simenon amava ilNaviglio, specie con la nebbiolina vagad’inverno. Il suo studio era in vicolo deiLavandai, ancora ci sono i lavatoi dipietra dove le lavandaie appoggiavano“el brellin”, un’asse di legno che le ri-parava dal freddo e dal ruvido. Le la-vandaie lavavano ancora, fino agli an-ni Sessanta. Quando Ivan Della Meacompose una canzone contro la retori-ca del Naviglio: «Gh’è chi dis che l’è be-la/ quest’acqua marscia/’sto scarichpubblich/ de cess, de ruera». Ruera èl’immondizia, i rifiuti in genere. Dice:«In quella zona ci ho vissuto e le lavan-daie, i barcaioli, i cavatori di sabbia e dighiaia facevano un lavoro da bestie.Nelle acque non cristalline c’erano giàdelle pantegane grosse così. Ricordoche in viale Gorizia abitava Elio Vittori-ni e faceva lunghissime passeggiate

notturne, da solo, specie dopo che gliera morto il figlio. Era una zona viva,dove sentivi il milanese vero e quelloarioso, si andava alla Magolfa dallasciora Maria a sentir cantare qualcuno,adesso è inutile muoversi, non c’è dasentire nessuno e soprattutto non c’èparcheggio». Nanni Svampa, un altroche ha molto cantato Milano, rievocala Briosca, col Pinza a cantare e la Wan-da che ballava sui tavoli: era un balleri-no gay della compagnia Osiris, di lì ilsoprannome.

Quegli anni un po’ li ho vissuti, ricor-do il Meazza che suonava i bicchieri, ilPraticello sotto lo svincolo per l’auto-strada di Genova. Andare sui Navigli lasera, specie con una ragazza, era con-siderato trasgressivo. Perché più o me-no il mangiare era sempre quello (mol-ti salumi, pasta e fagioli, polenta, trip-pa), il bere anche (Barbera, non sem-pre all’altezza, ma anche vino puglie-se, da cui “trani”, non sempre a gogò,come cantava Gaber). E poi partivanole canzoni, che erano sporche e in dia-letto. Questo consentiva alle signore dinon cogliere le decine di doppi sensi, eai signori di farglieli notare. Si comin-ciava con Porta Romana, La povera Ro-setta e il piatto forte era El gir del mond,di cui sono state incise versioni purga-te, castissime. Il tutto per poche lire.Chi aveva più soldi andava al Derby,verso San Siro, e lì era cabaret, spesso

grande caba-ret. Sui Navi-gli, canzonipopolari ocanzonaccespacciate co-me «del lamala». Gli ap-passionati dijazz andava-no al Capoli-nea. Joe Ve-nuti suonavail violino e di-ceva di sen-tirsi come aNew Orleans,ma forse vo-leva solo es-sere gentile oc o g l i e v aun’atmosfe-ra che c’era,e f f e t t i v a -mente, lungoquei corsid’acqua, ederivava dal-le personeche ci abita-vano e daquelle che ciandavano lasera. Un’ope-razione-no-stalgia puòidealmenteportare a unanuova mo-stra, e far ri-vedere i qua-dri di Angelo

Inganni, di Emilio Gola, di GiovanniSegantini, di Filippo De Pisis, di Um-berto Lilloni, o le incisioni di FedericaGalli: sono scorci, frammenti, pezzi diNaviglio. Che belli. E rileggere due ri-ghe di Dino Buzzati: «Il buon odore delNaviglio, che veniva su al tramontocon quel sapore di salsedine che sem-brava di essere a Venezia».

Il buon odore del Naviglio non so co-sa sia, non l’ho mai trovato e non l’homai cercato. Però mi piaceva quellasorta di melting pot, quel sentirsi insie-me a Milano e fuori Milano. Era unquartiere non ricco, se non di umanità.L’ideale per milanesi anziani, famiglienumerose di immigrati, artisti e bohé-mien, ma anche grandi e piccole fab-briche (scomparse una dopo l’altra) epiccolissimi, geniali artigiani. Lascia-mo perdere Parigi, la rive droite e la ri-ve gauche. C’era un’identità, questoc’era. Magari erano case di ringhiera,con problemi di umidità e, talvolta, iservizi sul ballatoio. Ma teneva caldo,in qualche modo. Il Naviglio della Mar-tesana ha mantenuto qualcosa del suo

fascino, nel fine settimana si vedonointere famiglie che pedalano sulla pistaciclabile e sono felici di mostrare ai pic-colini la bellezza di un giardino, di unacasa. Parlo della zona intorno allo Zelig.E ancora le bici servono per passeggia-te lungo l’argine, risalendo verso Ca-stelletto di Cuggiono, Cassinetta di Lu-gagnano, per ammirare le cà di scioriancora in piedi, ma attraversando pri-ma un orizzonte di fabbriche dismesse,da destinare chissà a che, di palazzisventrati per comodi loft. Perché ades-so la zona è modaiola, o trendy, e i prez-zi si sono impennati. I milanesi affolla-no i Navigli di notte, fino a tardi, fra unafinta osteria e un ristorante che haesposto il menù solo in inglese, tra de-cine di locali tutti uguali che hanno tra-sformato i Navigli in un divertimentifi-cio quasi obbligatorio. E ogni casa è im-brattata dallo spray: se ci fosse un con-corso per nominare i più stupidi spor-camuri d’Europa, lo vincerebberoquelli di Milano, non ho dubbi.

All’8 di via Alzaia Naviglio Grande c’èla botteghina di Giorgio Pastore (trova-robato, piccolo antiquariato, curiositàvarie). «Una volta veniva Moratti, e laprincipessa Trissino, e la contessa Bor-romeo che faceva collezione di bam-bole antiche». Genovese, Pastore è quidal ’67. Ancora cinque mesi e saràsfrattato. «Prima è toccato a quelli del12, poi a quelli del 10. Sono andati vial’Adolfo Valtorta, galvanotecnica, lostracciaio Crespi, il Dino che restaura-va da dio avori e tartarughe, il lattonie-re Brechet, il Negretti vinaio dell’Ol-trepò, un panettiere, un parrucchiere,una scuola di yoga, un calzolaio, è ri-masto un fruttivendolo ma sta facendofagotto anche lui. E vengono su comefunghi questi locali tutti uguali, sonocinquantotto da qui al ponte di via Va-lenza, poche centinaia di metri, ed era-no undici, sono cinquanta sul NaviglioPavese e una quarantina nelle stradinelaterali. E sa cosa significa? Che c’è fra-casso fino a dopo le 4 e alle 6.30 passa ilcamion della pulizia».

Di fianco c’è la bottega d’arte di Ma-ria Teresa Piantanida, che pure dipin-ge. Con Pastore e altri ha fondato Gen-te per il Naviglio: per resistere, per nonandare via, per sensibilizzare gli altrimilanesi. «Vede, è molto semplice. Quinon ti rinnovano l’affitto oppure sì, maquadruplicato. Comprare, per un pit-tore o un piccolo artigiano, è impossi-bile. Ne deriva uno spopolamento digiorno e un superaffollamento di not-te, che ha poco di milanese, davvero.Sembra un lunapark». Sembra anchepeggio, un non-luogo, un postosenz’anima, un guscio vuoto. La Dar-sena è quasi asciutta, stanno costruen-do un maxiparcheggio per i nottambu-li. «Restituiamo dignità a questi luoghiche sono stati umiliati e che devonotornare a essere espressione del viverecivile di un tempo e memoria storica diuna città», così c’è scritto sull’appello.Hanno già raccolto 4.500 firme da mar-zo. «Non cavalchiamo la nostalgia mala voglia di dignità» dicono. Hanno ra-gione, firmo anch’io, ma aver ragionein questa città incanaglita, incanalatae immemore è il modo più sicuro diaver torto. Finché il modello è una LasVegas di plastica, almeno.

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

‘‘Dino BuzzatiIl buon odoredel Naviglio

venivasu al tramonto

con quel saporedi salsedine

che sembravadi essere a Venezia

GIANNI MURA

PORTA TICINESESotto, il dipinto di Pompeo Calvi

“Porta Ticinese, vista dall’esterno” del 1857

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 8 GENNAIO 2006

IL CUORE ANTICO. Nelle foto sopra, a sinistra: il Naviglio Pavese all’altezza di San Cristoforo negli anni Cinquanta quando si poteva ancora fare il bagno. A destra, via Senato e il Naviglio interno in una foto dei fratelli Alinari di fine Ottocento

IERI E OGGI. Qui sotto, Ripa Ticinese nel 1956 quando era ancora navigabile, e sopra, lo stesso Naviglio Grande ai giorni nostri

I LOCALI. Sotto,la vita notturna a Ripa Ticinese e, accanto, un’immagine degli anni Settanta quando il Naviglio Grande non era stato ancora popolato dai locali

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Lo chiamavano lo “Sherlock Holmes” francese ed era un celebre poliziottodegli anni Venti. Simenon lo incontrò in più occasioni e a lui si ispiròper costruire la personalità del protagonista dei suoi libri

L’autobiografia di questo grande detective, appena ripubblicata,getta ora una nuova luce sui gialli che hannoappassionato intere generazioni di lettori

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

PARIGI

Cento anni fa, quando l’uomo che era Maigret comin-cia a fare il commissario il miglior strumento del me-stiere è il “buon senso”. Non esistono prelievi del dna,intercettazioni, test psicologici. «Ogni crimine, an-

che il più orribile, ha una sua logica», ama ripetere Marcel Guillau-me, questo il suo nome. È la Francia degli anni folli, una corsa fre-netica al piacere e al denaro, la Bourse e l’Opera come simboli di Pa-rigi. Le prime pagine dei giornali scandiscono il ritmo delle tre “s”— soldi, sesso, sangue — gli omicidi si trasformano in rebus collet-tivi, i cronisti fanno a gara per i particolari più truculenti. La gentechiede castigo e vendetta, la ghigliottina è uno spettacolo popola-re. Il 36 quai des Orfèvres diventa un indirizzo di culto nell’imma-ginario collettivo. La sede della polizia parigina, per tutti semplice-mente il “36”.

Nessuno all’epoca può pensare che il giovane uomo alto e slan-ciato appena assunto, profondamente cattolico e gran seduttore,diventerà il poliziotto francese più famoso, quello che ha sgomina-to la banda Bonnot, ha indagato sull’assassinio di un presidentedella Repubblica e sull’affare Stavisky e, infine, ha ricevuto qualco-sa di più di una medaglia: è diventato un personaggio lette-rario grazie alla penna di uno dei migliori ro-manzieri del secolo, Georges Simenon. Ilcommissario Guillaume è infatti il veroMaigret. «Quello in carne e ossa», secondoSimenon.

Il romanziere belga si mette sulle tracce diGuillaume dopo l’affaire Charles Mestolino:un noto gioielliere entrato al commissariatocome testimone per l’omicidio di un credito-re, uscito reo confesso dopo oltre diciotto oredi interrogatorio. Cosa ha fatto vacillare quel-l’uomo? È la primavera del 1928 e Simenonbussa alla porta del capo della “brigata specia-le”. È ancora soltanto un giornalista che tenta difare lo scrittore, ha pubblicato i primi quattroromanzi. Maigret esiste ma non ha incontrato ilsuo doppio reale. Guillaume invece è già stato ri-battezzato dai giornali lo «Sherlock Holmes fran-cese».

«Ho letto i suoi Maigret, potrei insegnarlequalche trucco del mestiere», dice il commissa-rio. Nasce una lunga amicizia, Simenon e Guil-laume cominciano a vedersi settimanalmente acolazione alla Brasserie Dauphine, vicino al quaides Orfèvres. Nei primi anni, il poliziotto rileggevolentieri i manoscritti di Maigret e Simenon giocacon il pubblico sul rapporto tra finzione e realtà. Di-ce: «Mi chiedete di quale Maigret si tratta? Del vero,certamente. O piuttosto del falso, perché non si chia-ma Maigret ma Guillaume. O piuttosto invece del ve-ro, visto che è lui Maigret».

Simenon vede in questo uomo dai lunghi baffi arric-ciati e la bombetta sempre sulla testa il prototipo del po-liziotto all’antica. Di giorno come di notte, Guillaume sireca sul posto, ad “annusare” la scena del delitto. «Biso-gna respirare i luoghi», sostiene. Le sue indagini non so-no mai a senso unico. «È nelle vite apparentemente nor-mali che bisogna scovare il codicillo degli istinti più biechi». Disil-luso e sorprendente al tempo stesso.

«Una lunga e tragica frequentazione del mondo mi ha insegnatoche non bisogna considerare i criminali come dei paria. Chi di noipuò considerarsi al riparo da una debolezza, un errore, un moto dicollera, una passione segreta, un accecamento improvviso?», scri-ve il commissario nelle sue memorie apparse a puntate su Paris-Soire adesso ripubblicate (Mes grandes enquêtes criminelles, Éditionsdes Equateurs). Guillaume si definisce un «burbero romantico». Lorispettano nei bassifondi di Parigi perché sa trattare bene le sue fon-ti ma anche sui giornali in quanto fustigatore dei cattivi costumi.Scorbutico e testardo, paziente e giusto, può perseguitare fino allamorte un giovane ereditiero e graziare una prostituta.

Guillaume-Maigret è un custode dell’ordine capace di «sporcar-si le mani», di calarsi nella mente degli assassini. Spiega: «Anche nelpeggiore degli uomini si può trovare una corda sensibile — se cosìsi può dire — da far vibrare». Al romanziere insegna la tecnica degliinterrogatori: fingersi a turno padre e amico, consigliere e ricatta-tore, essere implacabile e assolutorio. «C’è sempre un angolo delcuore che non è completamente marcio», è la sua lezione. Prima diiniziare un faccia a faccia, studia la geografia affettiva del sospetta-to. «Occorre trovare una moglie, una madre, un bambino, a volteanche un semplice cane a cui l’assassino ha voluto bene».

Il suo passaporto per la celebrità è la cattura della banda Bonnot,gli anarchici che nel 1912 svaligiarono banche, uccidendo senza ri-morsi, «peggio dei gangster americani» secondo Guillaume. Il com-missario riesce a mettersi sulle tracce dei banditi grazie alle loro fi-danzate. «Un uomo che ama è già perduto», commenta. Dell’ope-raio Jules Bonnot riconosce però il coraggio di combattere «fino al-l’ultimo respiro» nell’assedio con la polizia. Quando porta in galeraHenri Landru, che ammazzava donne in serie e poi le bruciava nelcaminetto della sua villa, vede davanti a sé un «falso borghese, pru-dente e cordiale ma con uno sguardo da rapace» e aggiunge: «Maidimenticherò quella fiamma di acciaio blu che bruciava in fondo al-le sue orbite». Perspicace e colto, trova del «bovarismo» nella folliadi Paul Gorguloff, l’assassino del presidente Paul Doumer (1932) ela trama di un libro di Colette nella vicenda della Violette Nozières,giovane parricida. Indaga anche sulla morte dello speculatoreAlexandre Stavisky che ha portato alla caduta del governo. Ma sem-pre conclude: «La vita è meglio di un buon romanzo».

Senza Guillaume, Maigret non sarebbe stato lo stesso. La sua in-fluenza è stata riconosciuta più volte da Simenon e da biografi co-me Patrick Marnham. Il commissario Guillaume appare in vari li-bri (La trappola di Maigret, Maigret e il ladro pigro). Quando nel

ANAIS GINORI

Le memorie di Guillaumecommissario da romanzo

1937 si congeda dalla polizia, Simenon gli rende omaggio con unlungo articolo (In pensione commissario Maigret sulla rivista Con-fessions) e poi ancora anni dopo, nel 1963, in una lettera inviata a LeFigaro littéraire dopo la morte del commissario.

Le similitudini tra Guillaume e il suo doppio letterario non sonoperò né fisiche né morali. Maigret è piccolo e pingue, Guillaume al-to e sportivo. Quando non è nel suo ufficio la sera, Maigret si mettein pigiama e sta a letto con la sua signora. Guillaume invece ama fre-quentare la “bella gente”, è un infaticabile amante (cosa che lo ac-comuna piuttosto a Simenon). Maigret non si separa dalla sua pi-pa, Guillaume fuma sigarette. «Quel suo modo di guardare in mez-zo alla fronte come un corpo trasparente e di ascoltare con un’ariasempre distratta per poi esclamare improvvisamente qualcosa»,ha ricordato Simenon: «Cosa poteva fare il mio Maigret se non imi-tarlo? Senza la sigaretta ovviamente!».

In oltre trent’anni di carriera, il capo della “brigata degli assi”, ilnucleo speciale della polizia francese, ha avuto modo di classifica-re tre categorie di assassini. Quelli “malati”, per cui il commissarioha una fascinazione; quelli che uccidono per “cupidigia”, i più di-sprezzabili; e infine quelli “disperati” che per qualche destino fini-scono macchiati di sangue. Oppositore della pena di morte, nellesue memorie racconta di aver più volte graziato o chiuso un occhioper la terza categoria di criminali.

Un “flic” che usava la testa piuttosto che i muscoli. «Rifiuto me-todi medioevali che consistono nel torturare qualcuno per estor-cere una confessione», commentava Guillaume. Simenon lo con-siderava una specie in via d’estinzione, soppiantata dagli agenticon i «guanti bianchi». «Domani — profetizzava il romanziere — icapi della polizia saranno sostituiti da magistrati che non hannomai messo piede in un bordello o un bar di quartiere. E allora la so-cietà sarà peggiore».

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8 GENNAIO 2006

DARIA GALATERIA

Lo specchio di cartache catturò Simenon

Pipa a parte, la somiglianza tra Sime-non e Maigret è nascosta in particola-ri profondi. «Io non c’entro nulla»,

protestò a lungo Simenon. Ma, per esem-pio, il commissario più noto del Novecentoera orfano di padre a diciannove anni — co-me Simenon a diciotto («la data più impor-tante nella vita di uomo», dirà nel 1957 in Lefils, «è il giorno della morte di suo padre»).

Era cominciata allegramente, sulla Gi-nette, ormeggiata nel porticciolo olandesedi Delfzijl, tutto rosa al mattino, con le suecase fortificate di mattoni. La Ginette erauna barca minuscola, e si era dovuto ri-nunciare al peso del grammofono. Sul ta-volino pieghevole, Simenon tempestavatutti i giorni, dalle sei, sulla macchina dascrivere; poi, riflettendosi in una finestra diterra, si faceva la barba — un giorno, al di làdello specchio si era stagliata la faccia sba-lordita di una vecchia: la moglie Tigy e latonda cameriera Boule non smettevano diridere; Olaf, il cane, aveva l’itterizia, e stavacupo. Ma in quel settembre del 1929 in cuinacque Maigret, la Ginet-te era a calafatare, e Sime-non scriveva in una chiat-ta semiaffondata, la mac-china da scrivere su unagrande cassa che sorgevadalle acque, seduto suuna cassa più piccola, e ipiedi su due cassette dafrutta.

Era molto umido cioè; eper cominciare Simenondotò il suo commissario diuna stufa di ghisa, e di unbuon cappotto col baverodi velluto. Bei vestiti, ma luiinesorabilmente un uomodel popolo; corpulento,flemmatico, e semmai ca-pace — raramente — dimenare le mani. Ma lonta-nissimo dall’hardboiledamericano, tributario del-la violenza del proibizioni-smo. Con la Depressionenon era neanche più epo-ca da detectives cerebrali ededuttivi, intenti a portarela ragione (il movente) an-che nel campo insensatodella morte, la grande di-menticata del mondo bor-ghese del lavoro. «Io nonpenso», diceva sempreMaigret, «io non deducomai». «Ma non sono gialli»,obiettò infatti l’editoreFayard. Con le sue guance«color roast-beaf» e il gilè aquadri, Simenon peroròcon l’editore la causa diMaigret, sotto gli occhi af-fascinati di Jacques-EmileBlanche — il grande ritrattista degli aristo-cratici finiti nella Recherche di Proust. «Se-mi-alimentari?», ripeteva divertito. Sime-non spiegava: non voleva più fare solo libricommerciali. I libri semi-alimentari eranoquelli che si prendeva la pena di rileggere; eci impiegava, a scriverli, anche otto giorni. Civoleva un grande lancio, e in copertina foto-grafie — collaborò Man Ray.

Maigret non consolava dalla scriteriatamorte, ma dall’insensatezza della vita, l’e-sistenza soffocante, e già massificata, del-le “petites gens”, esseri amorfi perdutinelle grandi città, che commettevano tal-volta «delitti sbiaditi da cui la polizia li li-berava come se il poliziotto fosse un con-fessore», scrisse Robert Brasillach. Poli-ziotto dell’anima, Maigret confessa allamoglie: «Non posso fare a meno di met-termi nei loro panni»; parla dei colpevoli.Maigret nutre simpatia anche per il mor-to (Maigret et son mort), figurarsi per i cri-minali. Del resto, non sempre il vero col-pevole è l’assassino (Maigret se trompe).Quando un criminologo americano lo in-terroga sulla psicologia dei criminali, ilcommissario risponde con una doman-da: «Quali criminali? Prima o dopo? Per-ché prima, non sono ancora dei crimina-li. Per trenta, quarant’anni, sono personecome tutte le altre, non le pare?»; un uomocommette un delitto per avidità, gelosia,odio, le «passioni umane che tutti abbia-mo in noi» (Cécile est morte). Maigret sirassegna a consegnare il reo alla giustiziasolo quando non ne può proprio fare a

meno. «Non aveva mai avuto così poca vo-glia di scoprire l’assassino» (Un échec deMaigret); agli amici del Pendu de Saint-Pholien basta lasciare qualche giorno direspiro perché il delitto cada in prescri-zione. In Maigret en meublé il commissa-rio lascerebbe correre, senza lo zelo idio-ta di Lepointe che scova un vecchio fasci-colo. In certi casi il colpevole non esiste(Maigret chez le Coroner, Maigret et lesVeillards); in altri si è fatto giustizia da so-lo (Port des Brumes). L’indulgenza di Mai-gret è la nebbia, e la pietà dell’uniforme vi-ta anonima delle masse cui il crimine for-nisce una pallida fuga.

Il 20 febbraio 1931, a Montparnasse, un«ballo antropometrico» — dal metodo diidentificazione dei criminali — salutò l’ap-parizione del primo Maigret. All’entrata,prendevano le impronte agli invitati, trave-stiti da apaches, voyous e altri tipi di teppisti;c’era Colette, il regista Pabst, e il tout Paris.A agosto, Simenon era lo «scrittore più lettodell’anno», e Maigret gli cambiò la vita.

Continuava a fare a braccio di ferro coimarinai, ma girava in una Chrysler nera —

poi sostituita da una De-lage decappottabile ver-de pallido — per le stessecampagne attraversate,sui canali, con la Ginette,all’epoca in cui era in fugadalle «natiche ridenti» diJoséphine Baker; a Parigiora scendeva al GeorgesV. Faceva crociere su unagoletta di trenta metri,l’Araldo; arredava conmobili rustici una resi-denza di campagna; an-dava a pesca, e ne comu-nicava con un piccioneviaggiatore i risultati: senon c’era pesce sufficien-te per gli invitati, Bouleandava a comperarne daipescatori. Ore e ore, versosera, ai tavolini del Fou-quet’s, accanto a attori eproduttori: «Che cosacercavo? Esattamente,non lo so». Il cinema glisembrava un ambiente diassegni a vuoto; ma ciguadagnò l’amicizia diJean Renoir, ubriaco peramore.

Passò anche, nel ‘33, al-l’intellettualissima casaeditrice Gallimard, dovesi parlava a voce bassa co-me in chiesa; lui arrivavabiondo e tonante, e le se-gretarie volavano a ap-piattirsi contro i muri. Si-menon pensò allora diabbandonare Maigret;aveva abbastanza «impa-stato il gesso», e poteva

concedersi il suo primo «romanzo ro-manzo». E rimase fulminato quando l’au-stero Gide gli disse che non doveva dedi-carsi a nessun capolavoro — di capolavo-ri, ne aveva già scritti. Così, nel ‘39, men-tre componeva splendidi «romanzi duri»,risuscitò Maigret. Un po’ era paura dellaguerra; aveva strappato dalle aiuole i fio-ri, e piantato ortaggi e frutta; e ricomin-ciato con i fidati polizieschi.

«In fondo, cominciamo a assomigliarci»,disse del suo commissario, che scriveva gliappunti delle inchieste su una busta, comeSimenon i nomi dei protagonisti, primo at-to di ogni nuovo racconto. E quando neldopoguerra lo scrittore si trasferì in Ameri-ca — i francesi lo avevano trovato pocoostile all’Occupazione nazista — compar-vero, accanto al mitico cassoulet della si-gnora Maigret, i muffins dell’Arizona. Madel resto, da sempre, il metodo investigati-vo del commissario era lo stesso dello scrit-tore: assorbire, «come una spugna», il cli-ma di un ambiente: «Provava la casa comesi prova un abito nuovo». La metodicità, isuoi rituali di scrittura, gli venivano dal pa-dre, che «camminava come un metrono-mo»? gli chiesero nel ‘63 dei medici, inun’intervista. Sì, rispose lui: ma tutti gli ec-cessi — dalla voracità con le donne, allavorticosa produzione — gli venivano dauno zio materno, il “barbone” Léopold. Masullo scrivere Simenon non scavava volen-tieri: era una questione fisica; e in effetti siconsumava, ogni mattino, vomitando, tra-spirando; ci perdeva otto etti.

Pipa a parte,le somiglianzetra lo scrittore

e la sua creaturaletteraria sonomolte, anche

se sono nascostenei particolaripiù profondi

Il metodoinvestigativo

del commissarioera lo stessodell’autore:

assorbire comeuna spugna

il climadi un ambiente

Georges Simenon

Mi chiedetedi quale Maigret

si tratta?Del vero, certamente.O piuttosto del falso,perché non si chiama

Maigret ma Guillaume.O piuttosto

invece del vero,visto

che è lui Maigret

REALTÀ E FANTASIAQui sopra, Georges Simenon al lavoro sulla sua scrivania. A sinistra,

con la bombetta, il commissario Marcel Guillaume. Qui sotto, lo scrittore in piedi,

e il poliziotto fotografati durante uno dei loro numerosi incontri

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

la letturaRealtà e finzione

È la città dell’infanzia del maestro e ha fatto da cornice a tutti i suoi film,anche se non vi è mai stata girata nemmeno una sequenza.L’abbiamo visitata in inverno, quando l’assenza di turisti ne mostrala faccia più vera, con uno dei più grandi registi viventi. Che confessa:“Ho visto le immagini di questi luoghi, reinventati da Federico,a vent’anni. E da allora non mi hanno mai abbandonato”

RIMINI

La Rimini di Fellini è un luogo dell’immaginario collettivo. Le dueRimini, anzi. La città estiva, quella che si mostra al turismo, con illungomare, e quella invernale, dentro le mura antiche, dove sisvolge la vera vita. Fellini ha consegnato a tutti questi luoghi. Il

Grand Hotel che s’illumina per il ballo in giardino, il lungomare dove passeg-giano i Vitelloni, la piazza medievale imbiancata dalla neve in Amarcord, sonofotogrammi fissati nella storia del cinema e negli occhi di milioni di spettato-ri. È un bel paradosso che nella Rimini vera, la città della sua magica infanzia,Federico Fellini non abbia filmato un solo metro di pellicola. Fedele a una poe-

tica che chiedeva di falsificare la memoria per renderlapiù autentica («Mi sono del tutto inventato la mia infan-zia»), il genio riminese ha ricostruito la sua città a imma-gine e somiglianza dei sogni negli studi o in altri luoghi.Nessuno dei film “riminesi” di Fellini è stato girato in città.Amarcord è totalmente ambientato negli studi di Cine-città, dove il regista ha ridisegnato il mitico Grand Hotel,con l’aggiunta di qualche curva orientaleggiante per ren-dere più suggestivo lo sbarco dell’harem di uno sceicco,l’Adriatico pullulante di barche in attesa del Rex, i vialid’autunno e la spiaggia primaverile. Cinecittà si è trasfor-mata in Rimini per i ricordi infantili di 8 e ½. Perfino il piùriminese dei suoi film, I Vitelloni, non contiene un singo-lo fotogramma della città natale. Stavolta più per neces-

sità che per scelta poetica. Alberto Sordi, già comico famoso, era in tournée ela troupe lo inseguiva fra Firenze e Roma. Il lungomare delle avventure e la sta-zione dove Moraldo parte per Roma sono in realtà la spiaggia e la stazione diOstia.

Eppure se capita di visitare Rimini d’inverno si capisce il tenero amore per laprovincia che Fellini ha sempre conservato e trasmesso nello sguardo dei suoipersonaggi. Il mese migliore è dicembre, quando si celebra il premio intitola-to al maestro. In un clima che, grazie alla passione di Pupi Avati e di VittorioBoarini, ricorda nello spirito quello che un tempo era il Club Tenco. Serate fraamici piuttosto che celebrazioni ufficiali con i signori relatori e il pubblico. Illuogo è il più felliniano della città, il cinema Fulgor, rimasto tale e quale dagli

anni Venti, compresa la scritta liberty, le poltrone di velluto rosso. Un vero an-tidoto alla tristezza di alcuni multisala. Qui il piccolo Federico, fra la nebbia del-le sigarette, sulle ginocchia del padre, avvolto in un cappotto zuppo di pioggia,ha visto il primo film della vita: Maciste all’inferno. «L’emozione estetica piùforte della mia vita, un film al quale ritorno continuamente» ricordava Fellini,con il gusto di stupire i cinefili adoranti. La fondazione è riuscita a procurarsiuna copia restaurata del muscolare filmone e s’è visto che Fellini non esagera-va poi tanto. Nella galleria dei personaggi femminili di Maciste c’erano i proto-tipi di quasi tutte le donne di Fellini, da Cabiria alla Gradisca.

Quest’inverno al Fulgor è arrivato Martin Scorsese per ricevere il premioFellini e presentare in anteprima il suo magnifico documentario sull’Ame-rica di Bob Dylan, Il discorso di Scorsese su Fellini è cominciato con unomaggio alla città: «È abbastanza incredibile che questa sia la mia prima vi-sita a Rimini, dal momento che da quando ho visto I Vitelloni, a vent’anni,questa città in realtà non mi ha mai abbandonato. Ho conservato una me-moria vividissima di quelle immagini. So che non si trattava della vera Ri-mini. Ma come diceva Fellini, la vera Rimini inizia dove finisce la città fan-tastica».

La Rimini rimasta negli occhi di Scorsese è stata una «continua fonte d’ispi-razione». «Le immagini del circo, della piazza, dei matrimoni all’aperto; il sen-so dell’umorismo della gente ma anche un senso profondo di compassione. Perme vedere queste immagini di Rimini era una sorta di apparizione, sorpresa.Moltiplicata dal continuo armonizzarsi delle immagini conla musica incredibile di Nino Rota».

Nella lezione all’Università di Bologna che gli ha confe-rito la laurea ad honorem, Scorsese ha ricordato il suo pri-mo sentimento di fronte ai film di Fellini. «L’ammirazionee subito la volontà di emulazione. Almeno fino a quando hocapito che era assolutamente impossibile imitare una visio-ne tanto originale». Non si trattava soltanto di un devotoomaggio. Nella visita a Rimini, il regista ha raccontato cheMean Streets, il film che lo ha segnalato sulla scena mondia-le, è nato dalla visione de I Vitelloni. «Ho pensato: se lui hafatto un film sulla gioventù di Rimini allora posso farlo an-ch’io sulla gioventù di Elisabeth Street, dove vivevano i fi-gli degli immigrati siciliani». Ammette che la scena sullaspiaggia è «quasi una citazione». Il provincialismo dei ra-gazzi italo-americani cresciuti nei sobborghi newyorkesi

CURZIO MALTESE

A spasso con Scorsesenella Rimini di Fellini

Il cinema Fulgorè il postopiù felliniano della zona:le sue poltrone di velluto

rosso sono un antidotoalla tristezza dei multisala

IL MARELa spiaggia della celebre località balneare

Rivabella, battuta dal forte vento invernale

IL GRAND HOTELCamerieri in divisa al lavoro nell’albergo riminese

che più ricorda le atmosfere fellinianeRep

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8 GENNAIO 2006

non era poi così lontano dalla provincia vera italiana, che in fondo le famiglieemigrate non avevano mai davvero lasciato.

Nel parlare di Fellini spesso si dimentica che non è stato soltanto un genio ar-tistico ma anche uno straordinario inventore di veri e propri generi. Un interofilm concepito sul racconto della vita di quattro amici di provincia, come I Vi-telloni, non era mai stato fatto. Dopo è diventato una specie di filone, una strut-tura narrativa. Si può dire che ogni generazione nuova di cineasti riproduce IVitelloni e lo aggiorna. Gli ultimi due casi, soltanto per parlare di cinema italia-no, sono stati Ecce Bombo di Nanni Moretti e L’Ultimo Bacio di Muccino, ovve-ro i vitelloni versioni anni Settanta e Novanta, entrambe di successo. Prima del-la Dolce Vita un film senza una storia ma con un affollarsi di personaggi comeun affresco, sarebbe stato respinto da qualsiasi produttore. Senza Fellini il ci-nema di Altman, per fare un esempio, è inconcepibile. Lo stesso si potrebbe di-re di 8 e ½ o Amarcord.

Alla generosità di Fellini e a 8 e ½ sono legati i ricordi più affettuosi di Scor-sese: «Era un artista e un uomo molto generoso. Ogni volta che venivano i mieigenitori a Roma li invitava sul set. Mio padre era un po’ puritano, aveva qual-che sussulto per certe scene di 8 e ½, e mia madre diceva: “Lasciati andare, èmeraviglioso!”. Il sogno sulla tomba in 8 e ½ è un’altra immagine straordina-ria, quando il padre si lamenta perché il coperchio della tomba è troppo bas-so. Poi si avvicina il produttore e lui gli chiede, riferendosi al figlio: “Come va?”.“Non va troppo bene”. E in quel momento la madre si allontana seguendo il

padre. Per me fu una sequenza davvero toccante. Or-mai sono dodici anni che è morto mio padre, anchelui in agosto esattamente della stessa malattia. È perquesto che lego sempre queste due cose. Mio padreserbava nel cuore i film di Fellini in maniera profondae forte».

Negli anni seguenti, Scorsese cercò di ricambiare lagenerosità. Con l’aiuto di Woody Allen provò a distri-buire La Voce della Luna nelle sale americane, senzasuccesso. Un trionfo invece salutò nelle grandi città ilritorno sullo schermo di Intervista. In Italia resiste un

pregiudizio sfavorevole sulle ultime opere felliniane chevengono studiate nelle scuole di cinema americane co-me capolavori.

Ormai anziano e malato, Fellini negli ultimi annitornò sempre più di rado nella sua città, che pure rima-

neva una presenza costante. Esistono almeno un paio di memorabili intervi-ste su Rimini, perse da qualche parte negli archivi della Rai e mai più andate inonda. Una è un’intervista di Vincenzo Mollica sull’essere provinciali, primache il maestro partisse per Los Angeles a ricevere l’Oscar alla carriera. L’altra ècontenuta in un memorabile documentario sulle Mille Miglia firmato da Bep-pe Viola, grande cronista sportivo e autore dei testi di alcune stupende canzo-ni di Jannacci. Fellini ricorda il passaggio della gara in città, che anima ancheuna sequenza di Amarcord. Era il momento più eccitante dell’anno. La prepa-razione cominciava tre mesi prima e nei mesi successivi se ne discuteva anco-ra nei bar. «C’era un tizio — racconta Fellini — che si piazzava sulla curva, do-ve i bolidi dovevano per forza rallentare, e pretendeva di omaggiare al volo Nu-volari con un piatto dei cappelletti in brodo fatti dalla sua mamma, che per luierano il regalo più bello del mondo. I carabinieri, che ormai lo conoscevano, loprelevavano direttamente al bar con il piatto fumante inmano. Un altro raccontava che mentre stava rientrando acasa gli si erano parati davanti, nella nebbia, due fari enor-mi. Era Ascari che si era perso: “Scusi, per le Mille Migliasi va di qua o di là?”. Lo raccontava a distanza di anni e ognivolta battendosi il petto fiero: “A me l’ha chiesto!”».

Piccole memorie in cui si ritrova lo sguardo tenero delprotagonista che lascia all’alba Rimini per Roma, guardaindietro all’universo della provincia. Nel viaggio fra Ri-mini e Roma, nel contrasto fra queste due città simbolo, ilcinema felliniano ha svelato l’anima italiana più di quan-to abbiano fatto centinaia di libri di storia e d’antropolo-gia.

Nel privato, la sua città era soprattutto la sua infanzia.Entrambe, città e infanzia, immaginarie. Meglio ancora, continuamente in-ventate. Chi l’ha conosciuto ne ricorda l’ironia, la curiosità e quel tratto tipicodella sua personalità ch’era la capacità di conservare uno sguardo meraviglia-to sulla vita quotidiana. Lo stupore di un bambino nello sguardo di uomo im-ponente e salutato dal mondo come un genio del secolo. Un gigante, come nel-l’ultimo ricordo di Martin Scorsese: «L’ho visto a un pranzo a casa di Suso Cec-chi D’Amico. Era il gennaio del ‘92. Parlammo di diversi progetti comuni. Malui dovette lasciare il pranzo perché aveva un appuntamento con il dottore. Loguardammo mentre si allontanava. Aveva la sciarpa e il cappello ed era vera-mente un gigante, era immenso. Non riuscii neanche a rivolgergli la parola. Lamacchina si allontanò e quella fu l’ultima volta che lo vidi».

“I Vitelloni hanno ispiratoMean Street, il mio primolavoro. Ho tentato di emularlofinché ho capito che tantaoriginalità è inimitabile”

LA FESTAOgni anno si celebra la festa “Gradisca”

in onore del personaggio di “Amarcord”

LA MAGIAIl parco di divertimenti Fiabilandia,

grande attrattiva dei bambini in vacanza a Rimini

IL PREMIO

Martin Scorsese è stato il primo

vincitore del Premio Fondazione Fellini,

istituito lo scorso anno. In occasione

della consegna del riconoscimento,

che è avvenuta a novembre, il regista

ha presentato il suo documentario “No

Direction Home”, dedicato a Bob Dylan

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Alexander Rachmaninov ha ottant’anni, è il nipote del compositore diventatopopolare in tutto il mondo dopo “Shine”, la pellicola che racconta la sagadi “Rach Tre”. Ora che i protagonisti della vicenda sono scomparsi,

ha deciso di aprire l’album di famiglia e di parlare dell’amante-fantasma che il grandemusicista tenne accanto a sé per tutta la vita, d’accordo con la moglie, dalla Russia allaCalifornia. “Una rivelazione che ci fa ascoltare la sua melodia infinita con altro orecchio”

Ora Hollywood faràun film sul “triangolodi passione”.Ne uscirà un altrouomo rispettoall’esule inconsolabilee depresso descrittofino ad oggi

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

Tatiana e il concerto impossibile

MusaLaRachmaninov

segretanov è un amore durato più di qua-rant’anni. Un’altra donna, la passio-ne di una vita. «Mia nonna Natalia,che di Sergei era anche cugina, nonera bella. Era una donna forte, solida,razionale, per così dire necessaria.L’altra era la passione, la sensualità,la corrente che spinge. Hanno vissu-to tutti e tre insieme, nell’esilio e finoalla morte».

Insieme nell’esilio americano. Nel-lo stesso perimetro di Beverly Hills,sotto la stessa luce nell’altra metà delmondo. «Mia nonna sapeva, natural-mente. Lo sapeva da prima di sposar-si, dall’inizio». Lo sapeva perché era aTatiana che Rachmaninov aveva de-dicato nel 1900 il suo Secondo Con-certo, quello della rinascita dopo lalunga crisi. Aveva poco più di

vent’anni, allora. E dunque ecco chebisogna riscrivere tutta la biografia,dimenticare la leggenda dell’uomomalinconico e incline alla depressio-ne che disperato consulta Tolstoi e fi-nisce a curarsi con l’ipnosi, che lega ilsuo destino a uno psichiatra, che vivela seconda metà dell’esistenza daesule in bilico sul crinale tra genio ecupa follia. Ecco che bisogna, diceAlexander, «ascoltare la sua musicacon altro orecchio». «Mio nonno eraun uomo molto diverso da quello chetutti voi credete». È vero, sì, che il Se-condo Concerto è dedicato — si leggenel manoscritto — al dottor NikolaiDahl: il medico, il terapista che l’ave-va curato con l’ipnosi. Ma è vero an-che che quello spartito era dedicatoin origine alla donna che amava. Fu

Natalia, fidanzata e sposa promessa,a chiedergli di cancellare quel nome,difatti scomparso.

Il racconto del nipote, il segreto cheAlexander ha saputo dalla nonna e hamesso per scritto nel soggetto che sitradurrà quest’anno in un film, riscri-ve la storia più o meno così. Sergei Ra-chmaninov, il virtuoso che farà im-pazzire i pianisti con la sua musica«scritta perché solo lui potesse suo-narla», ha ventiquattro anni quandola sua Prima Sinfonia viene eseguitain prima mondiale nella Sala Grandedella Filarmonica di San Pietroburgo.Dirige il maestro Glazunov, direttoredel Conservatorio: quella sera èubriaco. Dirà più tardi il suo allievoDimitri Shostakovich: «Glazunov na-scondeva le bottiglie sotto la catte-

ROMA

Un segreto, monsieur Ra-chmaninov? «Un segre-to. Mia nonna Nataliami chiamò un giorno e

mi disse: “Ci sono due tipi di animaliche presentono la loro morte, sono icigni e i cavalli, quando è il momentosi allontanano dal gruppo. Adesso è ilmio momento, ma prima di allonta-narmi ho una storia da raccontarti.Devi promettermi però che la terraiper te per molto tempo ancora, fino aquando di noi che l’abbiamo vissutanon sarà rimasto nessuno”. Così hofatto, per molto tempo». AlexanderRachmaninov ha ottant’anni, losguardo blu e un abito impeccabile.Porge il bicchiere all’ospite con gestocavalleresco e marziale insieme. Èmolto alto, magro e diritto, estrema-mente vigile: percorre di continuo lasala con lo sguardo. È nato in Russia ecresciuto a Parigi, ha avuto in mogliedonne tuttora bellissime, ha studiatoda avvocato e lavorato per l’intelli-gence francese. Si diletta ancora insport estremi, scala in solitaria paretidi roccia, l’ultima qualche mese fa.Vive in Svizzera non lontano da Zuri-go, sul lago dei Quattro Cantoni, nel-la villa del nonno. Villa Senar, dalleinziali dei coniugi: Sergei e NataliaRachmaninov. Presiede la fondazio-ne che porta il suo cognome, gestisceil patrimonio: la Russia, si rammari-ca, non paga i diritti d’autore. Ne ridecon gli amici ex sovietici, musicisti difama. Poi torna a rivolgersi in france-se a coloro che finanzieranno il filmche si comincia a girare quest’anno:un brindisi alla verità, propone. Al se-greto svelato. Cin, nasdrovie.

Il segreto è una donna. «Tatiana, secrede», sorride condiscendente per-ché potrebbe essere il suo vero nomema anche no. Tatiana come la donnadi Onegin, «È un nome talmente co-mune, da noi», comune e letterario, èil nome dell’amore: la Beatrice di Pu-skin. Il segreto di Sergei Rachmani-

In che cosa il filmin preparazione daràuna nuova prospettivasu Rachmaninov?«Ristabilirà l’intera veritàa partire da un segreto chemia nonna mi ha confidatoquando era sul puntodi morire. Quandolo scoprirete ascolteretela musica di Rachmaninovcon tutt’altro orecchio».

Alexander Rachmaninov,dal programma di sala

del Gala Rachmaninov,Santa Cecilia, dicembre 2005.

CONCITA DE GREGORIO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8 GENNAIO 2006

brano altro da quello che sono, era ca-pace di nascondere le sue passioni epreservarle». Anche Trotzky avevauna moglie di nome Natalia, anche luiamò Frida Kahlo vivendo in Messicocon le due donne sotto lo stesso tetto,fino a morirne.

Il film che si comincia a lavorarequest’anno promette un cast d’ecce-zione, hollywoodiano. Il finanziatoreè svizzero, trenta milioni di dollari so-no già disponibili: gli americani pre-mono, i nordeuropei pretendono. Ti-tolo provvisorio Triangolo di passio-ne. Scolastico e riduttivo, ma è per da-re l’idea del soggetto. Alexander hascritto il canovaccio e sovrintende lasceneggiatura: «Il segreto non è deltutto svelato, ancora. Quando lo saràcambierà la storia della musica».Questo invece è forse eccessivo. Macerto mettere in cuffia il Rach Tre epensare a Tatiana, immaginare il suolungo silenzio, le sue attese, i suoi oc-chi, i suoi quarant’anni nell’ombra fadiverso — un segreto — l’ascolto.

dra, durante le lezioni al Conservato-rio, e beveva di nascosto con una can-nuccia lunga e sottile». L’esecuzioneè un disastro. Qui le biografie, unani-mi, raccontano che per tre anni Rach-maninov non abbia più compostouna sola riga, distrutto dalle critichedurissime. Che sia stato indirizzatoda Tolstoi al dottor Dahl. Che si siafatto curare con l’ipnosi fino a guari-re dalla depressione e a comporre ilSecondo Concerto, la sua opera piùimportante e celebre.

In realtà è in questo periodo che co-nosce Tatiana. Alexander mette indubbio persino che il nonno si sia ef-fettivamente recato con regolaritàdal terapeuta. Il medico serviva inrealtà da copertura agli incontri conla donna amata, o anche a quello: na-sce un amore destinato a durare la vi-ta intera. Il Secondo Concerto è ispi-rato alla passione clandestina, la«melodia infinita» che lo percorreparla di quel segreto. Il matrimoniocon la cugina è però imminente.Quando Natalia capisce, quando ve-de su un foglio da musica il nome del-l’altra scritto in dedica chiede a Sergeidi scegliere: un atto solenne, un im-pegno. Rachmaninov cambia la dedi-ca alla donna amata in quella al dot-tor Dahl: se è vero che le visite setti-manali facevano da copertura agli in-contri amorosi è un gesto persino bef-fardo, un nome in codice che ne na-sconde un altro ai più intimi noto.

Il matrimonio si celebra, siamo nel1902. La relazione con la donna nel-l’ombra si consolida. Anche il TerzoConcerto è scritto sotto i benefici in-flussi dell’amore per Tatiana: il RachTre, quello che farà impazzire il piani-sta David Helfgot. Shine, il film che nenarra la storia, ha avuto un successodi pubblico tale da trasformare la mu-sica di Rachmaninov, in questi ultimirecenti anni, in una suoneria per te-lefonini. Dopo la rivoluzione d’Otto-bre, Sergei e sua moglie Natalia la-sciano la Russia. Tatiana con loro. Nel‘31 lui firma un manifesto contro il re-gime sovietico pubblicato dal NewYork Times. Fino alla morte di Stalin èinterdetto il suo rientro in patria: nonci tornerà mai.

La coppia si stabilisce a villa Senar,sul lago svizzero. Prendono casa negliStati Uniti. Tatiana con loro. «Di miononno ricordo che amava giocare apoker il sabato con gli amici, senzasoldi — racconta Alexander — che sientusiasmava per gli oggetti tecnolo-gici, aveva una vera passione per unaspirapolvere che gli aveva regalatoun amico, la mostrava a chiunque en-trasse in casa. Partecipò all’invenzio-ne dell’elicottero, nel senso che pro-tesse e aiutò per molti anni Igor Sikor-sky, l’uomo che brevettò il progetto enel ‘39 riuscì a realizzare il prototipo.Amava le automobili, ricordo che gui-dava sempre lui, l’autista al fianco.Era molto scherzoso. Metodico, lavo-rava sempre fino alle cinque del po-

meriggio. Passava ore mettendo la di-teggiatura sugli spartiti. Poi veniva ingiardino a giocare con noi bambini».

Un altro uomo rispetto all’esule in-consolabile, all’anima russa dolenteincatenata alla patria lontana descrit-ta da Tony Palmer nel film The harve-st of sorrow. È vero che la sua musicaera molto difficile da eseguire ma que-sto «perché lui aveva mani grandissi-me, davvero enormi». Un «cipiglio al-to due metri», lo descrive Stravinskij:aveva le gambe talmente lunghe chedoveva distenderle sotto il piano pernon pestare i pedali. «Amava molto lamusica religiosa e spesso andava inchiesa la mattina ad ascoltarla, ma poila sera restava seduto a tavola fino anotte a sentire canzoni tzigane. Nonindulgeva mai in sentimentalismi. Ri-cordo che a villa Senar, quando com-poneva, lavorava con le spalle rivoltealla finestra. Dalla sua stanza nonguardava il lago». Non male, per untardo romantico tacciato di manieri-smo. «Era uno di quei russi che sem-

L’INFANZIASergej Rachmaninov nasce

a Novgorod nel 1873 da una

famiglia nobile: a sei anni inizia

a suonare il piano, a nove

si iscrive al conservatorio

LA PRIMA SINFONIAA 22 anni compone la Prima

Sinfonia, ma quando l’opera

viene rappresentata

a San Pietroburgo ottiene

solo stroncature

IL SUCCESSONel 1899 debutta a Londra

con la fantasia “The Rock”.

Nel 1900 arriva il suo Secondo

Concerto, quello della rinascita,

quindi il celebre “Rach Tre”

L’ESILIOAll’apice della carriera,

dopo la Rivoluzione del 1917,

abbandona la Russia.

Muore il 28 marzo del 1943

a Beverly Hills

LA STORIAI RITRATTISopra, e nella pagina

accanto, Sergej

Rachmaninov

in quattro momenti

della sua tormentata

vita. In alto a sinistra,

il compositore

da ragazzo in una foto

rara. Al centro

con la moglie Natalja

Satina e, a destra,

durante un’esecuzione

al pianoforte

IL CINEMA

È con “Shine” di Scott Hicks che Rachmaninov viene

conosciuto dal grande pubblico. Il film, uscito nelle sale

nel 1996, ha avuto infatti il merito di rendere popolare il Terzo

Concerto: “Rach Tre”, nella pellicola, è l’opera che mette

in crisi il pianista David Helfgott, interpretato sullo schermo

da Geoffrey Rush. Per questo ruolo nel 1997 Rush ottiene

l’Oscar come miglior attore

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Per questo sarebbe importante non offenderne la qualità con trucchi e scorciatoie, che in-gannano il palato e minano la salute. Siamo proprio convinti di volerlo cuocere in una man-ciata di minuti, pagarlo meno di una coscia di pollo, glissando sull’inquietante elenco di ad-ditivi in etichetta?

In un insaccato possono finire impasti meravigliosi o assemblaggi da novelli Frankenstein. E an-che nel migliore dei casi, la chimica andrebbe dosata con maniacale parsimonia. I nitriti, per esem-

pio, colorano e conservano. Gli aromi — se non è specificato “naturali”, sono ar-tificiali e più economici — possono dare gusto a carne che di suo ne ha poco. Ilguaio è che si tratta di sostanze a rischio di cancro e allergie. Un poco meglio so-no i nitrati, meno pesanti, e resi meno offensivi dalla vitamina C (motivo in piùper abbinare i salumi, tutti, con abbondanti porzioni di verdure), anche se l’idea-le è farne a meno del tutto, opera di maestria norcinaia, difficile ma non impossi-bile. A patto, una volta di più, che la carne sia di alta qualità.

Come agguantare il salume giusto? Facile. Se dai regali di Natale vi è avanzatoqualche soldo, mettetevi in società con una paio di amici e adottate un esemplaredi razza autoctona. Cercate il vostro bebè con le setole sul sito www. adottaunsui-no. com, attingendo ai branchi di un gruppo di piccoli allevatori certificati Aiab.Ultimi nati, al motto “Bio, brado, buono”, i piccoli di Grigio Senese, incrocio traCinte e verri (maschi riproduttori) bianchi. Oppure andate a trovare Massimo Spi-garoli a Polesine Parmense e aspettate fiduciosi che le stagioni vi portino a casa iprodotti, dalle costine al culatello. Poco più in là, la famiglia Palmieri vi farà ricon-ciliare con la mortadella, salume ad alto rischio di bruciori di stomaco quandofatto in maniera mascalzona, eppure meraviglioso nella versione “favo-la”, solo da maiali doc e cotta al vapore nella sua cotenna. Regalate-vene un manciata di cubetti con un bicchiere di Lambrusco se-rio. L’inverno vi volerà via in un momento.

i saporiGusto e tradizione

È tra dicembre e gennaio che nelle campagne italianesi rinnova il rito antico della “maialata”, ovverol’uccisione del suinoche dà carne, salumi e condimentoancora oggi alla nostra tavola. Di questo animale, comeè noto, non si butta via niente a patto che sia stato allevatoe nutrito per offrire ai più ghiotti norcinerie d’alta qualità

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

Il lato più grasso e goloso dell’inverno

Vecchio, è vecchio. Eppure, dieci milioni d’anni dopo l’ingresso del suo progeni-tore cinghiale sulla scena del mondo, il maiale ancora regala salivazioni abbon-danti e grugniti (oh sì!) golosi a chi ne gusta una qualsiasi parte, cruda o cotta, inqualsiasi zona d’Italia, semplicemente seguendo la strada delle ricette regionali.Questo è il suo tempo: dicembre e gennaio sono i mesi della “Maialata”, il rito con-tadino che celebra l’uccisione del maiale. Da lì in poi, in un tem-

po dilatato solo dalla stagionatura, le varie parti del Sus — nome del suino nel-la classificazione biologica — si tramutano in cibo, più o meno allettante, a se-conda della qualità della materia prima (fondamentale) e dell’abilità del nor-cino.

Perché del maiale non si butta via niente: nota meritoria solo a patto che sia ungran maiale. Una conditio sine qua non che si traduce in richiesta quando com-priamo un salume. Nessun altro alimento al mondo ci fa sentire così coinvolti conchi ce lo vende. «Mi dia un buon salame» è una frase che applicata a qualsiasi al-tra gourmandise perde buona parte del significato. Un taglio di carne, un tranciodi pesce, frutta e verdura: perfino comprando il pane, ormai, evitiamo di preten-dere che sia buono.

Il salame sì. Il salame impone attenzione e confidenza. Mangiare un cattivo pa-nino al salame grida vendetta al cospetto del dio dei salumi, perché ci offende nelprofondo della nostra umanità golosa. Gli appassionati, se non sono soddisfattidel salumiere di quartiere, cercano conforto nei cacciatorini del contadino cheancora ammazza il maiale come un tempo. Il fratello grande, cotechino o zam-pone che sia, impone anche un rispetto del rituale, a cominciare dalla lunga cot-tura, da compiere in compagnia, a stretto contatto di pentola con lenticchie opurè. Un piatto della festa, protagonista sulle tavole di Capodanno, che è memo-ria d’infanzia e allegria del presente.

7. SpallaÈ destinata alla realizzazione

del prosciutto, preferibilmente cotto

(ma cresce la qualità della spalla cruda)

Le due parti che la compongono, fesa

e muscolo, possono essere divise

con utilizzi diversi: la prima si macina

nella pasta del salame e col muscolo

si fanno cotechini, mortadelle, würstel

2. Guanciale e golaSono le parti morbide e grasse

che vanno dal muso alla spalla

Apparentemente meno appetibili

delle parti più magre, rappresentano

la benedizione delle produzioni

tradizionali: oltre che nel salame,

entrano nello zampone e nel cotechino

perché resistono bene alla cottura

GrassoLo strato adiposo sottocutaneo

cambia nome seguendo la colonna

vertebrale: grasso di gola, spallotto

di lardo, grasso duro di schiena,

grasso perirenale (sugna), lardo e

lardello

La sugna viene lavorata

per fare lo strutto

I tagliEcco lo schemadel norcino

1 Testa

2 Gola o guanciale

3 Lardo

4 Coppa

5 Lombo o lonza

6 Costine

7 Spalla

8 Zampino

9 Pancetta

10 Filetto

11 Culatello o carrè

12 Coscia, prosciutto

Meglio sarebbe preferire le razzeautoctoneche garantisconomaterie prime eccellenti

I SALAMI COTTI

Cappello del prete Diffuso nell’alta Emilia,

è un assemblaggio di carne

suina magra – nervetti,

tendini, cotenne – e parti

più grasse, con sale, pepe,

aglio pestato in vino bianco

e aromi. Insaccato e cucito

a forma di tricorno

CotechinoIl classico trito di carne

di maiale magra e grassa

da parti poco pregiate –

cotenne, orecchie, nervetti,

muso - viene salato

e addizionato di aromi (noce

moscata, cannella, chiodi

di garofano) e pepe

Mariola Appartiene alla storia

gastronomica cremonese

Il trito di maiale (in parte

sgrassato) si insacca

in un doppio budello

ricavato dall’intestino cieco

Nel mezzo si spalma

uno strato di grasso

Zampone Leggenda vuole che

l’impasto di carni pressato

nella zampa sia stato creato

a Mirandola (Modena)

ai primi del ’500. Ammollare

per una notte, punzecchiare

e avvolgere in un telo legato

con spago prima di cuocere

Maialeil

LICIA GRANELLO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 8 GENNAIO 2006

itinerariMassimoSpigaroli è figliod’arte: la famigliagestisceda generazioniun’attività di altanorcineria

a Polesine ParmenseCosì bravo che lo chefFulvio Pierangelinigli affida i taglipiù pregiati dei maialidi Cinta Senese allevatidal figlio per farne culatelli

La capitale

della Food Valley

è legata alla cultura

della carne suina.

Dall’allevamento

di razze autoctone

(maiale nero

di Valceno) ai musei

monodedicati

il parmense brulica di attività legate alla produzione

norcina, complice il microclima nebbioso e ventilato

perfetto per le stagionature

DOVE DORMIREB&B DUE MONDI

Via Barilli 5

Tel.340-2544445

Camera doppia da 80 euro

DOVE MANGIAREHOSTARIA DA IVAN

Via Villa 73, Fontanelle

Tel.0521-870113

Chiuso lunedì e martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA CORTE PALLAVICINA

Strada Palazzo Due Torri 1, Polesine Parmense

Tel.0524-96136

ParmaNelle campagne

intorno alla città

famosa

per la stupenda

reggia vanvitelliana,

con annessi giardini

da piccola

Versailles, si alleva

il maiale nero

autoctono, detto “Pelatiello” per la quasi totale

mancanza di setole. Meno di due anni

fa è nato il consorzio che ne promuove il recupero

DOVE DORMIREAMADEUS

Via Verdi 72

Tel. 0823-352663

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREVAIRO DEL VOLTURNO

Via IV Novembre 1, Vairano Patenora

Tel. 0823-643018

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DOVE COMPRARECONSORZIO ALLEVATORI RAZZA CASERTANA

Corso Trieste 64

Tel. 0823-444441

CasertaIl legame

con il territorio passa

anche dal recupero

dell’allevamento

della Cinta Senese,

raffigurata

in un affresco

trecentesco

del Lorenzetti

esposto nel palazzo Comunale. Ma il maiale

autoctono più famoso d’Italia è allevato in tutta

la Toscana, soprattutto nelle zone boschive

DOVE DORMIREANTICA RESIDENZA CICOGNA

Via dei Termini, 67

Tel.0577-285613

Camera doppia da 78 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREHOSTERIA IL CARROCCIO

Via del Casato di Sotto 32

Tel.0577-41165

Chiuso martedì sera e mercoledì, menù da 28 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRITURISTICA LE MACCHIE

Via delle Macchie 1, Usigliano di Lari

Tel.0587-685327

Siena

9. PancettaLa parte sotto il costato (ventrale)

dà il nome a uno dei salumi più golosi

e gustosi. Si presenta a strati più

o meno sottili di carne magra e grassa

Lavorata con spezie e aromi per le varie

ricette - arrotolata, tesa, affumicata –

la carne può essere tagliata e rosolata

in padella, o utilizzata per il salame

Icona della lasciviapoi il lento riscatto

L’alterna fortuna del suino

Al maiale, nell’antichità pagana, nonera andata poi troppo male. Lo chia-mavano così in onore di Maia, la ma-

dre di Mercurio, a cui veniva frequente-mente immolato: un signore rispettabile,dunque. E i romani, nei sacrifici pubblici,

avevano creato ai suini una par condiciocon le pecore e i tori: suovetaurilia si intitola-

va il cerimoniale. Anche la versione popolare— e non castrata — dell’animale, il porco, eradegna di considerazione filosofica: «Pelle lu-cida e tirata, sono un porco del gregge di Epi-curo», proclamava Orazio.

Le cose cominciarono a mettersi male conl’espansione romana in Oriente, data la notaavversione degli Ebrei alle carni suine. E poi cifu l’incidente di Gerasa. Gesù predicava inTransgiordania, tra popolazioni arabe nonancora islamizzate e quindi immuni dal tabùantisuino. Caccia i diavoli da un sepolcreto equesti — ubbidienti ma lagnoni — gli chiedo-no il possesso di un grosso branco di porci chepascolava lì attorno. Il Maestro glielo conce-de e i maiali, appena indemoniati, si precipi-tano nel lago per un suicidio collettivo.

Di qui la cattiva fama dell’animale. Se a Ge-rasa fossero stati disponibili delle antilopi odegli struzzi la nomea del maiale non sarebbestata così cattiva. Simbolo della lascivia, ilporco tenta Sant’Antonio nel deserto, perde ei pittori si esaltano a mostrare l’asceta col sui-no sotto i piedi. Ma il popolo, che doveva allesue carni tante lecite soddisfazioni, non ap-prezzò la raffigurazione. Gradatamente ilporco scivolò da sotto i piedi del santo e gli simise a camminare a fianco. Ecco perchéSant’Antonio abate, quello del 17 gennaio, èdiventato il protettore dei maiali e degli ani-mali in genere.

Il popolo aveva intuito che il suino eraun’incomparabile riserva di sapori: Plinio necontava cinquanta, tutti diversi. E giocava alribasso. Tanara, alla metà del Seicento, era ar-rivato a centodieci. Oggi l’Atlante dei prodot-ti tipici dedicato ai salumi, edito da Agra-RaiEri, veleggia oltre i duecento, senza contare ipiatti di cucina. Con una differenza, però. Imaiali antichi erano principalmente neri: lascrofa che indica a Enea il luogo dello sbarcoera fatidica proprio perché bianca. Il loro pe-so difficilmente oltrepassava i sessanta/set-tanta chili. Con una conseguenza immediata.I prosciutti erano prosciuttini: a settembreerano già stagionati, pronti ad accompagna-re gli ultimi meloni. È probabile che cento an-ni fa, quando il prosciutto di Parma non eraancora così denominato e si celava sotto il ti-tolo di un comune montano, Vianino, moltecosce fossero nere. E “niru” era, in Calabria, ilsinonimo di maiale. A lungo la lotta rimase in-certa ma non vi sono dubbi che la sensazio-nale espansione del prosciutto di Parma sialegata al trionfo delle razze bianche, Landra-ce e Large White.

Oggi i nuovi sport gastronomici indugianosul rimpianto per le razze nere, capaci col lo-ro grasso di conferire profumi particolari. Sista perciò creando un’opinione pubblica vol-ta al loro recupero. È un movimento che, par-tito dal beneventano comune di Circello, do-ve opera il professor Matassino, tocca ormaialcuni comuni della stessa provincia di Par-ma. Con risultati ancora incerti, non definiti-vi: non solo sotto il profilo economico ma or-ganolettico. Basta rifare una razza o non si de-ve creare attorno ad essa tutto quell’habitatche le era caratteristico, l’allevamento brado,l’alimentazione etc.? Walter Darrè, famosoministro dei contadini hitleriani, aveva presoil maiale come criterio differenziativo dellerazze nordiche, in contrapposizione alle se-mitiche. Ma il gusto non lo dà solo la razza. An-cora una volta la biologia deve scontrarsi conla cultura.

L’autore è Presidente dell’Istituto nazionaledi Sociologia rurale

5. Lombo o lonzaEquivale alla lombata bovina, sopra le vertebre toraciche

e lombari. Delle tre parti che lo compongono, il carrè

dà origine alle braciole, la lonza si prepara arrosto

o a fettine e dal capocollo - sgrassato e rifilato -

si ricavano il salume omonimo (nel Centrosud)

e la coppa (al Nord) protetti dalla Dop

LE RAZZE AUTOCTONE

CORRADO BARBERIS

Nera e rustica, carne

saporita per cacciatorini

e salami

Nero dei nebrodi

Fascia chiara sul manto

grigio, si alleva allo stato

brado

Mora romagnola

Piccolo e scurissimo,

molto simile al cinghiale,

predilige le zone boschive

Cinta senese

Colore bruno, stazza

piccola: è la carne

del ragù napoletano

Casertana‘‘Edgar Allan PoeMaiale: l’animale che ha ricevuto

più ingiustiziedi ogni altro al mondo

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le tendenzeSpazi moderni

Nella consueta altalenanza tra vacanze sulla neve o neiparadisi esotici, a Natale è spuntata l’outsider. La canti-na d’autore, quella griffata come un luogo d’arte, ri-strutturata dai grandi architetti e attrezzata per ospita-re i visitatori — la legione dei nuovi turisti del gusto — inpiccole foresterie e per offrire degustazioni raffinate o

una cena in grande stile. Le antesignane del genere hanno visto la luce già a metà degli anni No-

vanta. E piano piano sono diventate una moda. Oggi, esattamente comeaccade per le maison dei grandi stilisti, anche i produttori di vino hannodeciso di dare ai propri templi enologici un’immagine più seduttiva perappassionati di lungo corso e nuovi fan. Ma qual è l’identikit di queste cas-seforti di vini pregiati? Al centro la raffinata ricerca sui materiali e il dise-gno sapiente, che punta a inserirle nel modo più morbido nel paesaggiocircostante. In una parola: belle delle bellezza griffata di una prova d’au-tore d’architettura contemporanea. Ma anche rivoluzionarie, visto cheda sempre la cantina è stata sinonimo di antro buio, ultimo recesso dellacasa. Una sorta di zona d’ombra che nessuno aveva voglia di esibire.

«Si è creata una tipologia nuova che prima non esisteva», spiega l’ar-chitetto Marco Casamonti, che sull’argomento architettura e vino hascritto un libro (Cantine, architetture 1990-2005, Federico Motta edito-re) e sta realizzando la nuove cantine Antinori a San Casciano. «Ora lecantine uniscono tre esigenze: creare un luogo di lavoro, un posto sa-crale e una fabbrica industriale ma in mezzo alla campagna». Di conse-guenza la loro realizzazione è il rigoroso frutto della ricerca di questi treelementi. «Generalmente non sono edifici ad altissima tecnologia», ag-giunge Casamonti, «o meglio si basano su una tecnica di antica tradi-zione in cui si fonde l’innovazione. Nella scelta dei materiali, quindi, po-co vetro e acciaio e molta muratura e pietra».

Tra i protagonisti di questa nuova tipologia progettuale c’è l’architet-to Mario Botta. È lui l’esecutore della Cantina Petra a Suvereto, nel cuo-re della Maremma toscana. Un complesso architettonico d’impiantopiuttosto classico. «Anche per noi architetti è stata una novità lavoraresulle cantine», dice Botta, «e ci ha rivelato un bisogno d’immagine che iproduttori di vini tendono a soddisfare attraverso l’architettura. Ulti-mamente è come se molti industriali ci chiedessero la realizzazione diun sogno. C’è una tendenza che lega la produzione all’edonismo dellarappresentazione e del resto tutto il ventesimo secolo si è basato sulleicone e sul bisogno di mostrarsi». E così la cantina nata dal progetto Bot-ta si presenta da un lato modernissima e dall’altro arcaica. Un oggettofuori dalle mode e dagli stili, quasi un’astronave sulla collina che attraefolle di visitatori e alimenta una nuova e originale tendenza turistico-esplorativa.

E per chi, invece, la bella cantina vorrebbe ammirarla magari in casapropria? I maestri dell’architettura sono convinti che le dimensioni delprogetto non contino. L’importante è che la “segreta custode delle no-stre bottiglie” sia inserita in un luogo fresco, magari vicina a madre ter-ra dove non è necessario il condizionamento artificiale. I materiali perrealizzarla consigliati dai “maestri” sono, come è ovvio quelli naturali: ilcemento, il cotto, la roccia e la pietra.

Maestosi, futuristici, ma con moltissime suggestioni arcaiche,i grandi complessi dove si producono le etichette di pregiohanno cambiato look e oggi ospitano centinaia di appassionatiin pellegrinaggio architettonico. E così tra botti, archi e voltein pietra antica si consuma oggi l’ultima moda enoturisticache ha caratterizzato le vacanze natalizie

CANTINA PETRA DI SUVERETOProgettata dall’architetto Mario Botta, la nuova Cantina Petra

a Suvereto (Livorno) ha una monumentalità da sacrario

pur utilizzando materiali classici come il cotto dell’Impruneta

CANTINA CA’ MARCANDA A CASTAGNETO CARDUCCIProgettata da Giovanni Bo, la cantina Ca’ Marcanda a

Castagneto (Livorno) è caratterizzata all’esterno da una serie

di muri in pietra che si fondono con la campagna maremmana

CANTINE MEZZACORONA DI TRENTOProgettato dall’architetto Alberto Cecchetto, il complesso

Mezzacorona (Trento) è il più grande dedicato alla produzione

di vino costruito negli ultimi anni in Italia

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

In visita come al museonelle nuove cattedrali del vinoIRENE MARIA SCALISE

Cantinegriffate

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‘‘Gianni BreraDerubo mio padre

ambizioso di cantinafrugando a caso

nella sabbiadove ha nascosto

le bottiglie più estroseSchizzi rivelatori di spumaallo schiocco del turacciolostrattonato quasi gemendo

fuori dal vetro

Da IL VINO CHE SORRIDE

MICHELE SERRA

Perfino gli astemi sono stati in qualchemodo toccati dalla stagione ruggentevissuta negli ultimi anni dal vino italia-

no. Che ai suoi antichi meriti ha visto som-marsi, nel bene e nel male, l’impetuosa mu-tazione suggerita, o imposta, dalla fenome-nologia della griffe: alta qualità ma anchequel tanto di pretenzioso e modaiolo chespesso deforma i piaceri fino a farne doverimondani.

A chi scrive è capitato, in breve arco di tem-po, di visitare due cantine che si pongonoesattamente ai due opposti della cultura delvino. La prima, sbalorditiva per la magnifi-cenza architettonica ma quasi intimidatoriaper dimensioni e classe, è quella di AngeloGaia a Bolgheri, enorme bolla di silenziosivuoti e spazi solenni mimetizzata tra ulivi e ci-pressi toscani. Quasi una galleria d’arte mo-derna, dove l’infinito underground delle bot-ti rimanda a un’installazione potente e acce-cante, un pacifico esercito di legni allineati aperdita d’occhio, e i macchinari d’eccellenzaa fare corona in un ordine metafisico.

La seconda, arroccata in cima ai bricchidelle Langhe, sopra Monforte d’Alba, è quel-la, intima e bellissima, di Flavio Roddolo, vi-gnaiolo di punta delle terre di Barolo, uno diquei produttori medio-piccoli che è riuscitoa sfondare nelle hit-parades rimanendo, nel-la sostanza e anche nella forma, un contadi-no piemontese. La cantina di Roddolo è an-che la sua casa, una vecchia cascina sommi-tale di quelle che non finiscono nei dèpliantdelle immobiliari per gli stranieri ricchi, tan-to austeri e semplici sono i suoi muri di mat-tone intonacato. Gli spazi della vita e quellidel lavoro, nella casa di Roddolo, sono cosìaddossati che non è facile distinguerli. Le co-se del vino, botti, attrezzi, tini, bottiglie, mac-chine, sono stipate in uno spazio logico maminimo, nel quale ci si muove come in ognibottega artigiana, facendo attenzione a noningombrare e non urtare, con un rispettosimmetrico ma opposto a quello che suscitala cantina toscana di Gaia: se là ci si addentraattoniti per la grandezza (del marchio, dellafama mondiale, dell’immenso show-roomdegno di una delle massime case di moda),qui ci si muove emozionati dalla misura do-mestica del tutto, avvertendo ovunque l’or-

dine cocciuto e sapiente del padrone di casa,ospiti di un savoir-faire insieme umile e ma-gistrale, così ordinario per lo sguardo, cosìstraordinario per i risultati.

La cantina di Roddolo assomiglia a quelledell’infanzia, dell’iconografia contadina pri-ma del boom del “mangiare bene”. Solo cheda molte di quelle cantine, quando vigeva ilmito del “vino genuino del contadino”, usci-va un vinaccio rozzo e spesso pessimo, buo-no per accontentare le famiglie in gita fuori-porta. Qui, in cima a uno dei tanti crinali lan-garoli spettacolosamente incorniciati dalleAlpi, il lavoro dei padri e dei nonni ha invecegenerato, senza mutare più di tanto l’antro-pologia e il paesaggio, una qualità altissima,che concilia l’antica e radicale idea del vinocome prodotto strettamente territoriale conuna raffinatezza produttiva di livello mon-diale. Internazionale.

Il genius loci è percepibile a colpo d’occhio.La vigna è tutto attorno, scende tranquillalungo i fianchi argillosi dei colli fino a lambirei roveti e i boschetti di fondovalle. Le piantesono di Roddolo filare per filare e una per una,è un possesso fisico prima che catastale, unconoscere ogni ristagno d’umidità e ogni mi-nuta variazione dovuta all’esposizione sola-re. La casa del vignaiolo è come il ragno al cen-tro della sua tela, ne domina e ne controllaogni diramazione, passa ogni stagione a veri-ficare lo stato delle cose, a rinsaldare i filari,sostituire le piante troppo vecchie e isterilite,avvedersi per tempo delle possibili malattie,dello sfinimento di qualche pianta.

Ci si sente, nella casa-cantina di Roddolo,dentro un gioco impeccabile, regole antichevivificate da uno spirito moderno, attento almondo. Flavio Roddolo viaggia poco e soloper ragioni commerciali, a Milano preferisceandarci accompagnato da qualche amicoper non spaesarsi, eppure il suo barolo è cita-to nelle riviste importanti, appoggiate su ta-voli molto disegnati di case molto arredate.Nemmeno un dettaglio, né in casa né in can-tina, denuncia pretese “estetiche”, che rive-lino l’approdo del vignaiolo nel mondo mol-to glamour della sua clientela. Fuori la tra-montana di gennaio picchia sugli angoli delcascinale, ma i tralci di nebiolo riposano al ri-paro dentro le anse tiepide della collina.

Una vecchia cascina nelle Langhecosì resiste la bottega del contadino

CANTINA PERUSINI DI GRAMOGLIANOProgettata dall’architetto Augusto Romano Burelli, la cantina Perusini a Gramogliano

(Udine) ha l’aspetto di una torre tronca sormontata da una volta lignea.

È rivestita in grandi lastre di cotto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 8 GENNAIO 2006

CANTINE SACRESono le cantine ideate con archi a volta,

come fossero cripte o navate di chiesa,

per esaltare la sacralità del luogo

CANTINE FABBRICASono le cantine in cui negli spazi viene

privilegiato l’aspetto lavoro. Pensate

e realizzate come opifici

BODEGAS CHIVITEDI ARÌNZANO, IN NAVARRA

Progettata

da Rafael Moneo,

la Bodegas della Navarra

(Spagna) è inserita

in un antico borgo

dove il moderno si fonde

nel preesistente grazie

alla mescolanza dei materiali

Le foto nella pagina sono

tratte dal libro “Cantine,

architetture 1990-2005”

di Marco Casamonti

e Vincenzo Pavan,

Federico Motta editore

CANTINE BORGOSono le cantine suddivise in diverse

aree e padiglioni che ricostruiscono

in toto l’ambiente rurale

TERRE DA VINO BAROLO DI CUNEOIl complesso permette con un percorso aereo

di visitare tutte le aree produttive e conservative

proprio come si fa in un museo

LE TIPOLOGIE

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 GENNAIO 2006

l’incontroGrandi maestri

NEW YORK

Sarà per i jeans che indossaperennemente, per la dedi-zione con cui segue i quattrofilm che sta producendo

contemporaneamente, o per il sorrisocon cui racconta che pilota di personail proprio jet privato anche nei voli in-tercontinentali, ma è veramente diffi-cile credere che Sydney Pollack com-pirà a luglio 72 anni. È uno dei registipiù celebrati ed ammirati in America,un produttore di grande successo e unattore che può vantarsi di aver recitatocon Stanley Kubrick, Woody Allen e Ro-bert Altman, ma è soprattutto un genti-luomo che ha compreso da molti anniil valore dell’ironia e dell’autoironia.

Sin dall’inizio la sua carriera è stataun’alternanza di successi travolgenti efiaschi clamorosi, caratterizzati tutta-via da una fattura impeccabile e da am-bizioni sempre grandiose: ha osato ilremake di un film perfetto come Sabri-na, scommettendo su Julia Ormond alposto di Audrey Hepburn ed HarrisonFord al posto di Humphrey Bogart, e haproposto una esplicita variazione sultema di Casablanca con Havana, sosti-tuendo questa volta Bogart con RobertRedford. Ma la lista dei trionfi è di granlunga più impressionante: se la criticalo ha consacrato come uno dei registipiù importanti apparsi sulla scena su-bito dopo il crollo dello studio systemcon film come Non si uccidono così an-che i cavalli? e Corvo rosso non avrai ilmio scalpo, il pubblico di ogni parte delmondo si è divertito immensamentecon Tootsie, e commosso fino alle lacri-me con Come eravamo e La mia Africa.I successi non si esauriscono certa-mente con questi titoli (basti pensare aitrionfi commerciali de I tre giorni delCondor e Il Socio, o a pellicole in cui haposto la propria firma solo come pro-duttore quali Presunto innocente e Ra-gione e sentimento), e la lista dei filmrealizzati in una carriera iniziata nel1961 con la serie televisiva The Defen-ders lo colloca tra i registi che hanno sa-

e il velo di tristezza che compare nellosguardo quando accenna alla propriafamiglia (il figlio maggiore Steven, cheaveva ereditato da lui la passione per ilvolo, è morto in un incidente aereo) simescola all’orgoglio per la figlia Rebec-ca, che lo ha seguito nell’attività di pro-duttore. Ritiene che il momento più ap-passionante della lavorazione di unfilm sia il montaggio, che paragona allascultura ed ama particolarmente per lapossibilità di lavorare in relativa solitu-dine. Non nasconde la sorpresa perl’apprezzamento europeo di alcunisuoi film che non hanno avuto succes-so negli Stati Uniti («In un omaggio or-ganizzato in Italia proiettarono Yaku-za, un film che credevo fosse stato com-pletamente dimenticato»), e rivendicala necessità di reinventare anche dra-sticamente i romanzi che vengonoadattati sullo schermo: per I tre giornidel Condor, abbiamo utilizzato solo l’i-dea del protagonista che al ritorno dalpranzo scopre che tutti i suoi colleghid’ufficio sono stati massacrati, e perfi-no nel Socio ho dovuto aggiungere per-sonaggi, e rinforzare situazioni nonmolto logiche. Ma se James Grady è ar-rivato a dire che il film è migliore del li-bro, Grisham seduto accanto a me la se-

puto conciliare nella maniera più am-mirevole l’anima industriale ed artisti-ca del cinema americano.

Quando fu premiato a Locarno con ilPardo d’Oro, spiegò eloquentemente:«Hollywood è un mondo assurdo, ridi-colo e viziato, dove però accade il mira-colo di veder nascere ogni tanto dei filmbellissimi». E adesso, a distanza di treanni, ammette che la situazione è di-ventata ancora più complicata: «L’in-dustria hollywoodiana è concentratasu prodotti studiati per un pubblico diadolescenti che potenzialmente pos-sono vedere il film più di una volta. So-no tra quelli che rimangono freddi ri-spetto alle commedie che trionfano og-gi al botteghino. So bene che il mondodello spettacolo ha proposto testi vol-gari sin dall’antichità, e la mia freddez-za non è basata tanto su questo aspet-to, quanto sulla stupidità e sulla unidi-mensionalità dei personaggi e delle si-tuazioni rappresentate. Non voglio ge-neralizzare, e in molti mi dicono adesempio che 40 anni, Vergine è tutt’al-tro che un film stupido, ma mi sembraevidente che il livello generale scendacostantemente, e le preoccupazioni dichi realizza questo tipo di prodotti nonsono mai di livello qualitativo. È odiosoparlare di se stessi, ma voglio fare unesempio chiaro: quando realizzammoTootsie, la nostra maggiore preoccupa-zione fu quella di strutturare il film inmodo che non si risolvesse con un’uni-ca trovata: un attore non riesce a trova-re lavoro ed è costretto a travestirsi dadonna. Il cinema è un’arte collettiva e ilrisultato finale va diviso con tutti colo-ro che hanno partecipato, ma le do-mande che oggi sembrano determi-nanti e che sono alla base di ogni attua-le ricerca di marketing (quanto incas-seremo il primo weekend? Siamo certiche questa battuta sia compresa da unquattordicenne?) non erano certa-mente tra le nostre primarie preoccu-pazioni. A questo dato va aggiunto chela generazione degli adolescenti di og-gi non ha nei confronti dei divi che han-no più di quaranta anni lo stesso rap-porto che avevamo noi con attori comead esempio Humphrey Bogart».

Per Tootsie Pollack interpretò la par-te dell’agente di Dustin Hoffman, susollecitazione dello stesso attore: «Nonne avevo alcuna intenzione, ma Dustincominciò a perseguitarmi, con unamotivazione tipica del suo modo diconcepire la recitazione: “Per il ruolo diun agente che non mi stima ed ha le sca-tole piene del mio carattere, non possoavere un collega, ma qualcuno che mifaccia sentire in soggezione, come ilmio regista”. Io tentati di resistere, e lastoria della soggezione mi sembravauna tipica furbizia d’attore, ma poi ca-pitolai quando mi arrivò un mazzo dirose da parte di Dustin con scritto: “Tiprego, accetta di essere il mio agente.Dorothy”».

Sydney Pollack parla volentieri delpassato e delle sue origini ebreo-russe,

ra della prima, continuava a chiedermi:“Ma questa battuta è tua o mia?”».

All’inizio della carriera, Pollack pen-sava di dedicarsi unicamente alla reci-tazione, ma scoprì la passione del rac-conto lavorando sul set di un capolavo-ro del cinema italiano: Il Gattopardo. «Èstata una delle esperienze più impor-tanti della mia intera esistenza, che tut-tavia vissi in un periodo in cui non eroin grado di apprezzarla. Ero un giovanesenza cultura che si era appena trasfe-rito dall’Indiana a New York, e mi tro-vavo di fronte a Luchino Visconti: nonsolo uno straordinario regista, ma unuomo raffinatissimo e una personalitàpotente. Fu Burt Lancaster, per il qualelavoravo come assistente, a trascinar-mi in quell’avventura, e ancora oggiScorsese mi dice quanto ne sia invidio-so. Io capivo a malapena quello chesuccedeva ed ero frastornato da tuttaquella bellezza. Ricordo quel gran si-gnore di Goffredo Lombardo, che, uni-co tra tutti i produttori che abbia maiconosciuto, ha pagato di tasca propriagli enormi debiti del film, e ricordo so-prattutto una lezione che mi diede Vi-sconti: “Se vuoi fare il regista devi esse-re intransigente”. Probabilmente è suquel set che ho capito che avrei preferi-to dirigere, ma la passione per la recita-zione non è mai passata, e oggi, avendoil privilegio di essere chiamato per del-le produzioni importanti, scelgo i filmche mi permettono di studiare il mododi lavorare dei registi che ammiro. Perquanto mi riguarda è come fare un cor-so di approfondimento di una materiache può essere sviluppata in una infi-nità di maniere diverse, all’interno dilavorazioni dove non sento la pressio-ne dei film dei quali sono responsabile.Forse il ruolo più importante che ho re-citato è quello dell’uomo che tradisce lamoglie per una ragazza molto giovanein Mariti e mogli di Woody Allen, ma houn ricordo altrettanto forte di Eyes Wi-de Shut dove Kubrick mi chiamò a so-stituire Harvey Keitel. Qualche mesedopo la fine della lavorazione incontraiHarvey che passeggiava insieme al fi-glio. Andai a salutarlo, e lui, rivolto alpiccolo disse: “Questo è il signore cheha rubato il ruolo a papà”. Per fortunapoi si è messo a ridere e subito dopo cisiamo abbracciati, ma in quel momen-to ho capito come si deve sentire ogniattore rifiutato».

Si deve certamente al suo retroterradi interprete se Pollack è uno dei piùsensibili registi di attori che esista sulpianeta: ha diretto praticamente tutti imaggiori divi americani (da BarbraStreisand a Meryl Streep, da Jane Fon-da a Tom Cruise, sino a Sean Penn e Ni-cole Kidman in The Interpreter). Sonoben dodici gli interpreti dei suoi filmche hanno ottenuto una candidaturaagli Oscar, ma è certamente con RobertRedford che ha instaurato il rapportopiù solido e fertile, dirigendolo per set-te volte.

Anche quando ha affrontato temi

scottanti o dalla importante rilevanzasociale Pollack ha rifiutato con fastidioil titolo di regista impegnato, ma ricor-da con una punta di orgoglio la realiz-zazione di Diritto di Cronaca, il film incui una ambiziosa giornalista interpre-tata da Sally Field distrugge la reputa-zione di Paul Newman nella convinzio-ne, assolutamente errata, che egli siaun mafioso. «Riflettere sull’etica delgiornalismo significa affrontare un ar-gomento tabù: esistono decine di filmche raccontano personaggi negativi digiornalisti, ma è molto più raro trovareun film che si interroghi se non ci siaqualcosa di geneticamente pericolosoradicato nella stessa professione.Quando realizzavo quel film mi sonoconvinto che l’approccio che bisognamantenere in ogni scelta lavorativa de-ve essere segnato dall’umiltà e dal ri-spetto per il proprio interlocutore. Èuna riflessione che estendo ad ogniaspetto del mio lavoro, a cominciaredal rapporto con il pubblico: dopo unaserie di contrasti con un regista di cuinon faccio il nome, Benicio Del Toro miha chiesto di dirigere un film sulla sto-ria d’amore tra Filippo Lippi, che era unfrate, e una monaca da cui ebbe un fi-glio che noi conosciamo come Filippi-no Lippi. La storia è estremamente af-fascinante, e ho cercato di documen-tarmi studiando a fondo quel periodostorico. Ma più studiavo e più mi dice-vo: ma sono davvero io il regista giustoper una storia del genere? Non dovreb-be realizzarlo un europeo, o comunqueuna persona con una cultura ed unasensibilità diverse dalla mia? Lo stessomi è capitato recentemente quandoFrank Gehry, che conosco da moltissi-mi anni, mi ha chiesto di realizzare undocumentario su di lui. Non ho saputodire di no, ma ho cominciato a lavorarecon tremore: non sapevo niente di ar-chitettura e non avevo mai girato undocumentario. Ho deciso di lasciarloparlare e di fatto lasciar impostaredrammaturgicamente a lui l’interoprogetto. Da un punto di vista registicoio sono quasi scomparso ed ora mi di-cono tutti che sia una delle cose miglio-ri che abbia mai realizzato».

Ho reinventatoi romanzi da cui sonotratti i miei film.Guardando accantoa me “Il socio”,Grisham mi chiedevacontinuamente:“Ma questa battutaè tua o mia?”

Ci ha fatto ridere con “Tootsie”e piangere con “Come eravamo”,ha girato film memorabili come “I tregiorni del Condor” e diretto i piùgrandi divi di Hollywood. Oggi però

confessa di non amareil cinema americano,troppo concentratosui gusti degli adolescenti.E ricorda gli inizi, quandosul set del “Gattopardo”decise di passaredalla recitazione

alla regia. Seguendo il consigliodi Visconti: “Se vuoi fare questomestiere devi essere intransigente”

ANTONIO MONDA

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