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S News 28 O - sssup.it€¦ · l’incontro è stato coordinato dagli ex-allievi Franco Mosca e...

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SANT’ANNA NEWS Newsletter dell’Associazione Ex-Allievi Scuola Superiore S. Anna – Pisa semestrale Numero 28 febbraio 2007 C on l’intervista al Presidente Ciampi continua il ciclo di in- contri volto ad offrire agli al- lievi ordinari e ai perfezionandi l’op- portunità di confrontarsi con persona- lità di spicco della vita del nostro Pae- se. Come è consuetudine, gli incontri sono promossi e coordinati da ex-allie- vi che preparano la strada all’interven- to diretto degli allievi. Questa volta l’incontro è stato coordinato dagli ex- allievi Franco Mosca e Vincenzo Di Nubila e gli allievi hanno fatto il resto in modo superbo. Nell’aula magna della Scuola Sant’Anna, stracolma di tutte le componenti dell’istituzione, il direttore del Sant’Anna News ha fatto gli onori di casa e ha aperto l’incontro con le domande al Presidente Ciampi preparate dai referenti per l’intervista, gli allievi Caterina Sganga e Davide Ragone, e agli interventi dalla platea. L’incontro si è svolto in un clima di particolare entusiasmo che il Presiden- te Ciampi ha saputo alimentare con il calore, la simpatia e il vigore della sua personalità. L’Associazione Allievi ringrazia il prof. Eugenio Ripepe per l’aiuto nella raccolta e selezione delle domande, e per il prezioso supporto fornito Michele Basile, Matteo Gno- cato, Marco Rizzone e Lorenzo Rossi, che hanno curato la preparazione dell’aula e delle locandine, la realizza- zione del DVD e della sbobinatura dell’evento. Altre quattro interviste so- no già in cantiere, ma per i nomi do- vrete aspettare la prossima puntata. Intanto, buona lettura… B. GHELARDUCCI Buona- sera Presidente, sono il direttore del giornale dell’Associazione Ex- Allievi, il «Sant’Anna News», e ho l’onore di porgere il benvenuto, a nome dell’Associazione e della Scuola a lei e alla Signora, che ci avete onorato con questa visita. E sono particolarmente lieto perché l’iniziativa di chiedere interviste a personaggi celebri della nostra epo- ca è importante per il giornale, che ne pubblica i testi. La ringrazio al- lora doppiamente, per essersi pre- stato così gentilmente alle doman- de dei nostri Allievi, che sono qui rappresentati da Caterina Sganga e Davide Ragone, entrambi del set- tore di Giurisprudenza e membri del Comitato Direttivo della neo- nata Associazione Allievi. Essa rappresenta un momento di transi- zione tra Allievi ed Ex-Allievi, per cercare di dare il massimo di conti- nuità tra il momento formativo e la parte post-formativa dell’esperienza dei giovani presso la Scuola. Han- no preparato le domande, e Lei, con tanta gentilezza e tanta dispo- nibilità, è venuto qui per risponde- re. Grazie Presidente, e benvenuto alla Scuola Sant’Anna. C.A. CIAMPI Grazie per l’ac- coglienza. C. SGANGA Ancora un senti- to ringraziamento, Presidente, a nome degli Allievi e dell’Associa- Editoriale Di rado il nostro giornale ha presentato una prima pagina così prestigiosa e densa di significato. Prestigiosa per il protagonista, Carlo Azeglio Ciampi, che ancora una volta ci ha stupito per il suo straordinario potere di comunica- zione, per il brio e la lucidità con cui ha risposto alle domande degli allievi durante due ore di serrato confronto in un crescendo di sim- patia e di partecipazione. Da ciò che abbiamo visto e sentito pos- siamo affermare che è stato un in- contro molto gradito. Vorrei poi sottolineare ciò che l’incontro con il Presidente Ciampi rappre- senta per la Scuola Sant’Anna e per tutti noi. Anzitutto un gesto di grande cordialità. L’amicizia affettuosa di un anziano signore che in gio- ventù ha vissuto la vita di comu- nità in una Scuola prestigiosa, cui la Scuola Sant’Anna attuale deve un contributo fondamentale per l’assistenza e il baliatico che essa offrì al neonato Collegio Medico Giuridico, fino all’avvento della SSSUP. Il Presidente Ciampi ha dimostrato affetto per la Scuola intrattenendosi con gli allievi e rispondendo con sincerità e con sentimento alle loro domande. Questa disponibilità è propria di uno spirito generoso e leale e, con i tempi che corrono, è sicuramen- te di grande conforto e di grande esempio per i giovani. Quando il nostro Coordinatore mi parlò dell’idea delle interviste, convenni sull’importanza che questi contatti avrebbero avuto per gli allievi aiutandoli a pren- dere confidenza con il mondo della cultura, dell’imprenditoria e della scienza. Non immaginavo che avrebbero potuto essere, co- me quest’ultima, anche fonte d’insegnamento di vita. Una notizia in anteprima per gli Ex-Allievi: il Consiglio Diret- tivo ha deciso che il tema del convegno d’autunno – quello del ventennale! – sarà La formazione dell’eccellenza. Il programma defi- nitivo nel prossimo numero. Buo- na lettura. bg “Finita la mia attività istituzionale, mi sto impegnando solo per l’Europa, perché so che questo è l’avvenire” Intervista degli Allievi a Carlo Azeglio Ciampi (Continua a pag. 9) Cortile della Scuola, 18 ottobre 2006: foto ricordo col Presidente. Da sinistra Marco Rizzone, Caterina Sganga, Carlo Azeglio Ciampi con la moglie Franca, Davide Ragone, Brunello Ghelarducci e Franco Mosca. (Foto: Giovanni Bassi). S_News_28_O.qxd5 5-03-2007 14:01 Pagina 1
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SANT’ANNA NEWSNewsletter dell’Associazione Ex-Allievi Scuola Superiore S. Anna – Pisa

semestraleNumero 28 • febbraio 2007

Con l’intervista al PresidenteCiampi continua il ciclo di in-contri volto ad offrire agli al-

lievi ordinari e ai perfezionandi l’op-portunità di confrontarsi con persona-lità di spicco della vita del nostro Pae-se. Come è consuetudine, gli incontrisono promossi e coordinati da ex-allie-vi che preparano la strada all’interven-to diretto degli allievi. Questa voltal’incontro è stato coordinato dagli ex-allievi Franco Mosca e Vincenzo DiNubila e gli allievi hanno fatto il restoin modo superbo. Nell’aula magnadella Scuola Sant’Anna, stracolma ditutte le componenti dell’istituzione, ildirettore del Sant’Anna News ha fattogli onori di casa e ha aperto l’incontrocon le domande al Presidente Ciampipreparate dai referenti per l’intervista,gli allievi Caterina Sganga e DavideRagone, e agli interventi dalla platea.L’incontro si è svolto in un clima diparticolare entusiasmo che il Presiden-te Ciampi ha saputo alimentare con ilcalore, la simpatia e il vigore della suapersonalità. L’Associazione Allievi

ringrazia il prof. Eugenio Ripepe perl’aiuto nella raccolta e selezione delledomande, e per il prezioso supportofornito Michele Basile, Matteo Gno-cato, Marco Rizzone e Lorenzo Rossi,che hanno curato la preparazionedell’aula e delle locandine, la realizza-zione del DVD e della sbobinaturadell’evento. Altre quattro interviste so-no già in cantiere, ma per i nomi do-vrete aspettare la prossima puntata.Intanto, buona lettura…

B. GHELARDUCCI Buona-sera Presidente, sono il direttoredel giornale dell’Associazione Ex-Allievi, il «Sant’Anna News», e hol’onore di porgere il benvenuto, anome dell’Associazione e dellaScuola a lei e alla Signora, che ciavete onorato con questa visita. Esono particolarmente lieto perchél’iniziativa di chiedere interviste apersonaggi celebri della nostra epo-ca è importante per il giornale, chene pubblica i testi. La ringrazio al-lora doppiamente, per essersi pre-

stato così gentilmente alle doman-de dei nostri Allievi, che sono quirappresentati da Caterina Sganga eDavide Ragone, entrambi del set-tore di Giurisprudenza e membridel Comitato Direttivo della neo-nata Associazione Allievi. Essarappresenta un momento di transi-zione tra Allievi ed Ex-Allievi, percercare di dare il massimo di conti-nuità tra il momento formativo e laparte post-formativa dell’esperienzadei giovani presso la Scuola. Han-no preparato le domande, e Lei,con tanta gentilezza e tanta dispo-nibilità, è venuto qui per risponde-re. Grazie Presidente, e benvenutoalla Scuola Sant’Anna.

C.A. CIAMPI Grazie per l’ac-coglienza.

C. SGANGA Ancora un senti-to ringraziamento, Presidente, anome degli Allievi e dell’Associa-

EditorialeDi rado il nostro giornale ha

presentato una prima pagina cosìprestigiosa e densa di significato.Prestigiosa per il protagonista,Carlo Azeglio Ciampi, che ancorauna volta ci ha stupito per il suostraordinario potere di comunica-zione, per il brio e la lucidità concui ha risposto alle domande degliallievi durante due ore di serratoconfronto in un crescendo di sim-patia e di partecipazione. Da ciòche abbiamo visto e sentito pos-siamo affermare che è stato un in-contro molto gradito. Vorrei poisottolineare ciò che l’incontrocon il Presidente Ciampi rappre-senta per la Scuola Sant’Anna eper tutti noi.

Anzitutto un gesto di grandecordialità. L’amicizia affettuosa diun anziano signore che in gio-ventù ha vissuto la vita di comu-nità in una Scuola prestigiosa, cuila Scuola Sant’Anna attuale deveun contributo fondamentale perl’assistenza e il baliatico che essaoffrì al neonato Collegio MedicoGiuridico, fino all’avvento dellaSSSUP. Il Presidente Ciampi hadimostrato affetto per la Scuolaintrattenendosi con gli allievi erispondendo con sincerità e consentimento alle loro domande.Questa disponibilità è propria diuno spirito generoso e leale e, coni tempi che corrono, è sicuramen-te di grande conforto e di grandeesempio per i giovani.

Quando il nostro Coordinatoremi parlò dell’idea delle interviste,convenni sull ’ importanza chequesti contatti avrebbero avutoper gli allievi aiutandoli a pren-dere confidenza con il mondodella cultura, dell’imprenditoria edella scienza. Non immaginavoche avrebbero potuto essere, co-me quest ’ultima, anche fonted’insegnamento di vita.

Una notizia in anteprima pergli Ex-Allievi: il Consiglio Diret-tivo ha deciso che il tema delconvegno d’autunno – quello delventennale! – sarà La formazionedell’eccellenza. Il programma defi-nitivo nel prossimo numero. Buo-na lettura. bg

“Finita la mia attività istituzionale,mi sto impegnando solo per l’Europa,

perché so che questo è l’avvenire”Intervista degli Allievi a Carlo Azeglio Ciampi

(Continua a pag. 9)

Cortile della Scuola, 18 ottobre 2006: foto ricordo col Presidente. Da sinistra Marco Rizzone, Caterina Sganga, CarloAzeglio Ciampi con la moglie Franca, Davide Ragone, Brunello Ghelarducci e Franco Mosca. (Foto: Giovanni Bassi).

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Sabato 20 gennaio presso l’aulamagna della Scuola SuperioreSant’Anna si è tenuta una

giornata in ricordo di Alfonso De-siata, ex allievo dell’istituzione pisa-na e personaggio di rilievo del mon-do economico-assicurativo italianoed internazionale. La sua recentescomparsa nel maggio 2006 ha in-dotto la Scuola Superiore Sant’An-na e la sua Associazione ex Allievi,in collaborazione con l’ANIA el’Associazione Amici della ScuolaNormale Superiore, ad organizzareun incontro con familiari, amici ecolleghi di Desiata, per ricordarne lafigura ed avviare una riflessione nonsoltanto sul suo lascito umano e cul-turale, ma anche sull’apporto scien-tifico della sua lunga carriera, tra-scorsa per intero all’interno delGruppo Generali.

Il grande successo di pubblicodella giornata ha immediatamenteevidenziato la generale stima, l’af-fetto e il rispetto per un uomo cheha coniugato nella sua vita profes-sionale impegno di ricerca e relazio-ni all’insegna della serietà e del rigo-re. La direzione dei lavori è stata af-fidata a Giuliano Amato, presidentedell’Associazione ex allievi, che hacoordinato una serie di interventi

dai quali sono emersi vari ambiti te-matici nel tentativo di riassumerecaratteristiche umane e professiona-li, gli apporti scientifici del lavoro diDesiata e il panorama culturale diriferimento per una formazione che,in prima battuta, lo stesso Amato hadefinito “generalista”.

Proprio Amato, infatti, presso laScuola si era intrattenuto con gli al-lievi il giorno precedente per festeg-giare la nascita della “Associazionedegli Allievi della Scuola SuperioreSant’Anna” discutendo limiti e pro-blemi attuali per la formazione dellafutura classe dirigente, intesa nonsoltanto nell’accezione più eminen-temente politica, ma estesa al mon-do delle istituzioni, delle professioni,della ricerca, della produzione e deiservizi. Insomma, come il mondodell’educazione universitaria edell’alta formazione possa rappre-sentare un veicolo per promuoverenon soltanto competenze tecnico-professionali ma senso di responsa-bilità verso il Paese. Il discorso na-turalmente è stato ripreso da Amatocome coordinatore della giornatadedicata ad Alfonso Desiata. Egli hasottolineato come il suo percorsoumano, professionale e di intellet-tuale abbia evidenziato proprio l’im-

portanza del senso di responsabilitàconiugato al rigore nelle scelte enelle relazioni con le istituzioni.

In aula magna, oltre ai familiaridi Desiata, erano presenti rappre-sentanti di istituzioni politiche e delmondo economico e finanziario, masoprattutto una vasta cerchia diamici e conoscenti. Fra questi, tantiex allievi della Scuola, compresi ov-viamente coloro che con Desiatacondivisero il periodo di studio uni-versitario negli anni Cinquanta.

Nella nutrita lista di interventi sisono alternati vari esponenti delmondo politico, economico e finan-ziario, della cultura e dell’università.

Il primo intervento è stato delPresidente della Scuola RiccardoVaraldo – che Desiata ha conosciu-to proprio durante il periodo univer-sitario – il quale, dopo aver ricorda-to il percorso di studi di Desiata (dal1953 al 1957) in quello che al tem-po era denominato Collegio Paci-notti, si è soffermato sul suo profon-do interesse per la matematica.Comprensibilmente, Varaldo hapuntualizzato l’affetto e il legameche Desiata mostrò verso la ScuolaSuperiore Sant’Anna, sia cercandodi promuovere il passaggio alle Assi-curazioni Generali di studenti e ri-

cercatori che necessitavano di fareesperienza in azienda, sia favorendola realizzazione di studi e iniziativedi alta formazione in tema assicura-tivo presso la Scuola, sia intratte-nendo un rapporto intenso conl’Associazione degli ex-allievi. De-siata rimane, secondo Varaldo, e inlinea con la convinzione di moltidei convenuti che hanno rilasciatouna testimonianza, un intellettualecurioso e concreto, oltre che un in-novatore. Fra i suoi interessi in annirecenti troviamo, infatti, l’impattodelle nuove tecnologie e le implica-zioni della riforma del settore sani-tario sul mondo assicurativo. Spiccanel ragionamento di Varaldo pro-prio la concretezza realizzativa diDesiata che lo portò ad esprimersiin varie occasioni con fastidio sultroppo parlare e il poco fare in variambiti discussi attraverso convegnie giornate di studio, soprattutto suirischi e le novità ai tempi dell’intro-duzione dell’euro, sul tema dellabanca-assicurazione e sui fondi pen-sione1.

L’intervento di Amato ha affron-tato l’aspetto dell’uomo di cultura,del rapporto fra impegno tecnico-scientifico e interessi umanistici al-largati. Desiata viene definito da

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Alfonso Desiata:l’assicuratore, l’intellettuale, la persona

di Simone Duranti e Giuseppe Turchetti*

Da sinistra: Riccardo Varaldo, Francesco Busnelli, Claudio Magris, Lorenza Desiata, Giuliano Amato. (le foto sono di Giovanni Bassi)

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Amato come esponente di una “raz-za mitteleuropea” in ambito cultura-le e come programmatore. Desiatacioè rientra nella categoria di quegliintellettuali che si possono definire“generalisti”, coloro che allo specia-lismo giungono da una visione uma-nistica e culturale molto accentuata,con particolare riferimento all’in-treccio centrale nella storia dellacultura europea moderna fra scienzeesatte e scienze umane. Questo ra-gionamento condotto da Amatocon enfasi espositiva e ricchezza disuggestioni ha una ragione partico-lare che non risiede soltanto neimodi e nello stile dell’ex allievo eministro degli Interni. Come abbia-mo già ricordato, è soprattutto laconclusione del ragionamento av-viato in precedenza presso la Scuolarelativamente alla formazione dellaclasse dirigente italiana, l’eventualestato di crisi della trasmissione fra ilmondo della ricerca e dell’universitàe il mondo delle professioni, delleimprese, delle istituzioni e della po-litica. In questo senso le perplessitàdi Amato sulla attuale situazioneeconomico-sociale del nostro Paesehanno trovato conferma col con-fronto con l’esperienza di formazio-ne e di crescita professionale di De-siata, prodotto di una Scuola d’ec-cellenza che negli anni Cinquantaha consentito a giovani di “provin-cia” di inserirsi con elevate compe-tenze nel mondo economico-finana-ziario con ruoli direttivi. Certo, haconcluso Amato, l’acquisizione dicompetenze tecniche e il coltivarsiculturalmente non va necessaria-mente d’accordo con la capacità digestire grandi responsabilità cheesorbitano spesso dai destini azien-dali e impattano sullo stato di salutedella nazione. Appare pertanto unpregio individuale di personaggi co-me Desiata l’aver coltivato il sensodello Stato e aver concepito il lavo-ro in azienda come una assunzionedi responsabilità che dal particolareraggiunge il bene collettivo.

Secondo Francesco Busnelli, lepeculiarità di Desiata sono state so-prattutto la vocazione alla interdi-sciplinarità e la fiducia nell’aperturaal nuovo. Se gli interessi verso nuo-ve problematiche giuridiche e socio-economiche, come il tema del dan-no alla persona, del danno biologi-co, hanno interessato Desiata per isuoi profondi risvolti in ambito assi-curativo, Busnelli è voluto ritornareagli aspetti culturali che gli appaio-no centrali, in consonanza col ra-gionamento di Amato, per com-prendere il mondo ideale e la forma-zione di un uomo di azienda, di unassicuratore che ha definito vero eproprio “emblema di come si facciascienza”. La chiave di lettura dellaformazione di Desiata secondo Bu-

snelli è quella di una cultura classicaproiettata verso le discipline speri-mentali, da qui l’interesse per la sto-ria della matematica (non solo fi-nanziaria e assicurativa, ma quellamatematica “che serve”, secondo ilcelebre motto del maestro Bruno DeFinetti) e – ci permettiamo di ag-giungere noi – per la filosofia dellinguaggio. A questo proposito sonopoco note ma assai interessanti leconferenze che in varie occasioniDesiata tenne sul tema “Capitali-smo e linguaggio” (spesso assiemeall’amico Claudio Magris) e che di-mostrano una spiccata propensionea problematizzare il significato e ilvalore sociale delle consuetudini,anche in un ambito apparentemen-te “neutro” come quello del gergotecnico-economico2. Anche Clau-dio De Ferra, già professore di Mate-matica Finanziaria all’Università diTrieste, ha insistito sugli interessimatematici di Desiata, il legamecon De Finetti che sentiva come ve-ro e proprio maestro3, e sul significa-to e il valore che all’amicizia Desia-ta ha sempre tributato.

Proprio Claudio Magris e Loren-za Desiata, insieme a Claudio DeFerra, hanno offerto un contributotestimoniale orientato a ricostruireil profilo personale, intimo e affetti-vo di Alfonso. È in questo contesto,come nella successiva testimonianzadi Enrico Salza, che sono emersi gliaspetti più privati e personali dellesfere amicali e familiari e dove più siè manifestata comprensibilmenteemozione e commozione.

La figlia Lorenza, che tra tutti gliintervenuti aveva senza dubbio ilcompito più difficile, si è sforzata di

fornire del padre un quadro certointimo e soggettivo ma allo stessotempo utile a comprendere le nu-merose tensioni e contraddizioni dicarattere di un uomo taciturno, se-vero, rigoroso ma anche capace digrandi emozioni affettive e genero-sità comunicativa. Lorenza, ripen-sando alla vita di suo padre, ha defi-nito tutto questo “una sorta di duali-smo, di contrasto permanente”. Ilsuo ricordo in famiglia è tornato adun Desiata isolato nei suoi pensieri,ferreo, logico, matematico e metodi-co. In famiglia – ha ricordato Loren-

za - si diceva che “sembrava un mo-naco”, relativamente al suo chiuder-si e immergersi nella lettura e nellostudio. Chi scrive ha presente alcu-ni ricordi privati di Lorenza e diChiaretta, moglie di Desiata, spessoincentrati sulla difficoltà di entrarein contatto con un uomo assai as-sorbito dal lavoro e da quelle occu-pazioni intellettuali a cui si dedica-

va a casa dopo l’ufficio o di ritornodai viaggi d’affari. Ma poi c’era l’en-tusiasmo di ricercare le compagniecare degli amici e della famiglia peri viaggi di piacere in luoghi lontani,cercando di coinvolgerli nella suacuriosità verso il mondo. “Così ci siapre la mente” è l’espressione cheLorenza ha ricordato aver sentito di-re spesso a suo padre, a dimostrazio-ne di una curiosità forte verso ilmondo ma più in generale verso ilsenso della ricerca. Una compresen-za del concreto e dell’astratto, la cu-riosità verso le diversità, attraverso

viaggi molto lunghi e allo stessotempo la metodicità nel lavoro.Una “vertigine intellettuale” con-dotta col rigore di chi ha messo laricerca al primo posto nella propriavita, tanto negli aspetti professionaliche nel tempo libero.

Con pudicizia e calore si è mossonel ricordo Claudio Magris, da tutticonsiderato come l’amico delle lun-

Una panoramica del pubblico

Da sinistra: Antonio Maccanico, la signora Chiara Desiata, Fabio Tamburini

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ghe passeggiate in montagna e capa-ce di suscitare la simpatia e il risodella platea nel rammentare i rifiutiimbarazzati di tutti quegli amici trie-stini che si trovavano coinvolti neiprogetti di viaggio di Desiata, uomodallo spirito duro, l’energia e il passodel montanaro. Ha ricordato Magrisla generosità dell’amico che ha sem-pre trovato e concesso tempo alleamicizie, la sua franchezza e anchela durezza, una puntigliosità unita aduno spirito fantasioso e stimolante.In conclusione, dopo una pausanell’eloquio per trovare le paroleadatte, Magris ha precisato che lavirtù essenziale di Desiata era la re-sponsabilità, come canone morale,da applicare ed intendere tanto neiconfronti della professione che dellerelazioni interpersonali.

Pur trattandosi di una giornatacelebrativa e di omaggio alla figuradi un ex allievo della Scuola, di unamico e di un collega, le successiverelazioni hanno riportato l’asse in-terpretativo su un binario maggior-mente orientato a sottolineare le ca-ratteristiche professionali e scientifi-che di Desiata. A questo ha in partee con puntualità contribuito il notogiornalista e saggista Fabio Tambu-rini che ha esordito ricordando unodei motti cari a Desiata: “più impre-sa e meno finanza”. Questo pare es-sere, in consonanza con le testimo-nianze reseci da amici e colleghi co-me Dusi e Salza, un aspetto centraledell’approccio professionale di De-siata che nel suo lungo militare aivertici delle Assicurazioni Generaliha manifestato spesso insofferenzaper logiche economico-finanziariesecondo le quali l’industria rischiavadi essere sopravanzata dalla finanza.Quindi, similmente per questo ap-proccio a Carlo Bombieri, la sua at-tenzione all’impresa, quella “impre-sa che crea ricchezza, mentre spessola finanza è funzionale a giochi e lo-giche di potere”.

Desiata, giunto alle Generali du-rante l’era di Cesare Merzagora, co-me hanno ricordato sia Tamburiniche Dusi e Perissinotto, ne è benpresto divenuto il delfino, entrandoin relazione con i principali perso-naggi del mondo economico-finan-ziario italiano ed internazionale.Quindi quello che con affetto Clau-dio De Ferra ha definito il giovane“impiegatuccio delle Generali” harealizzato una rapida carriera sottole insegne del leone triestino, dal la-voro nel settore degli investimentialla rapida nomina ad amministra-tore delegato negli anni Settanta,per giungere definitivamentenell’aprile del 1999 alla presidenzadel gruppo. Ovviamente per chi co-nosce il percorso economico-finan-ziario di questo Paese, come certa-mente larga parte dei convenuti, lastoria degli ultimi anni della carriera

di Desiata è assai più complessa, mastiamo parlando di fatti molto, trop-po recenti perché la tradizionale ri-servatezza e la ritrosia comunicativadei soggetti che compongono l’in-treccio fra politica e finanza, con-sentano una analisi piana e senzaimbarazzi. Sta di fatto, lo ha ricorda-to con un tratto secco Tamburini,che dopo due anni giungiamoall’addio polemico di Desiata, che,come titolarono all’epoca pratica-

mente tutti gli organi d’informazio-ne, uscì per la prima volta “sbatten-do la porta”, lui che da perfetto “uo-mo delle Generali” aveva fatto pro-prio della riservatezza e della difesadella “sua” azienda uno scopo di vi-ta. Ci sembra di rilevare, tuttavia,che anche in quella occasione, assaiprovante dal punto di vista persona-le, la polemica e lo sbattere dellaporta furono amplificate dalla stam-pa; Desiata, infatti, tenne tutto den-tro di sé, le emozioni e le delusioni,per il bene delle persone che a luifurono più vicine in azienda e perl’immagine della sua compagnia.Ancora una volta, la responsabilità.

Le testimonianze di AntonioMaccanico e di Enrico Salza hannodato conto sia di un lungo rapportoprofessionale che di amicizia conDesiata. Maccanico, in linea conmolti degli interventi che hannopreceduto il suo, si è concentratosul vero e proprio “rifiuto di Desiatadella contrapposizione fra culturascientifica e cultura umanistica” ene ha trovato l’origine nel tipo diformazione ricevuta presso i Collegipisani che lui stesso frequentò, an-che se un decennio prima. Macca-nico ha ricordato la stima generalenei confronti di Desiata, il suo inte-resse per l’innovazione e la capacitàdi visione sistemica, anche da partedi quegli ambienti con i quali ebbein concreto rapporti non semplicicome Mediobanca. Nonostantequesto, infatti, Cuccia espresse aMaccanico un chiaro apprezzamen-to per le doti di assoluto rilievo co-me assicuratore4. Come presidente

dell’ANIA, dal 1997 al 2001, se-condo Maccanico, Desiata fu ingrado di seguire con equilibrio tan-to gli interessi del settore assicurati-vo che quello della comunità nazio-nale, e questo grazie ad una spiccatacoscienza civile, all’etica del rigore,all’indipendenza di giudizio. Ancheper questa risoluta volontà di chia-rezza Desiata dovette pagare prezzielevati lungo tutta la sua carriera, ela coerenza del suo comportamento,

come la fermezza di carattere, furo-no causa di dispiaceri ma non dirimpianto.

Sullo stesso piano il giudizio diEnrico Salza che ha parlato di unuomo in possesso di “personalità, li-bertà, indipendenza di giudizio”. Ilcontributo di Salza è da segnalarefra i più stimolanti e ricchi di sugge-stioni, anche grazie ad una formaespositiva particolarmente semplicee diretta, probabilmente frutto diemozione per la circostanza del suoricordo. Da apprezzare infatti l’averfatto riferimento a dettagli preziosisu come due personaggi come lui eDesiata, alla fine degli anni Settan-ta, si siano incontrati, studiati e son-dati prima di stringere un duraturolegame di profonda stima e amicizia.Con chiarezza, commozione e affet-to Salza ha ricordato le perplessità,poi superate, di Desiata alla richie-sta del San Paolo di acquistare unpacchetto azionario delle Generali:“siete pubblici” fu il rimprovero diDesiata! Comunque la diffidenzainiziale fu vinta e un rapporto natosu un piano strettamente affaristicosi tramutò in amicizia, coinvolgendoanche le famiglie. Salza ha ricordatoi suoi viaggi in campagna a trovareDesiata nel paese natale della mo-glie ad Attimis in Friuli dove lo tro-vava intento nel lavoro della terra edove distillava quella grappa che ènel tempo diventata celebre fra gliamici che la ricevevano in dono.

È frequente che nelle occasioninelle quali si è chiamati a dare unatestimonianza privata e soggettivain ricordo di un amico si tralasci il

rigore analitico e di impostazione.Nel caso di Enrico Salza possiamodirettamente testimoniare del suoimpegno nel cercare documentazio-ne e persino una base bibliograficaaffinché fosse possibile tratteggiaremeglio il personaggio Desiata e inse-rirlo con più precisione nel contestodelle Generali. È sempre stata con-vinzione del presidente di Intesa-San Paolo – ce lo espresse anche inun incontro privato – che è difficileparlare e capire un “uomo delle Ge-nerali” se non si conoscono le pecu-liarità del mondo triestino e del suocelebre gruppo assicurativo. Ancheper questo Salza ha puntualizzatopresso la Scuola quanto poco ci siadi scritto sulla storia delle Assicura-zioni Generali fatta eccezione perun volume di difficile reperibilità5.Anche questa constatazione dimo-strerebbe secondo Salza, non tantoun atteggiamento di chiusura cultu-rale ma la sobrietà delle Generali ela riservatezza di un certo mondotriestino. E quanto a Desiata stesse acuore l’istituto nel quale ha spesouna vita, è dimostrato dal suo stre-nuo interesse a preservarne l’auto-nomia come bene del Paese.

Dopo aver ricordato l’interesse diDesiata per il cosiddetto sistemadualistico (dividere cioè la responsa-bilità del controllo rispetto alla re-sponsabilità della gestione), Salza siè espresso con gratitudine versol’amico scomparso in quanto fortesostenitore dell’operazione Intesa-San Paolo, a partire dalla costruzio-ne di un rapporto di mediazione fra idue istituti che Desiata ha cercatodi promuovere partendo dalle perso-ne, cioè Bazoli e lo stesso Salza.

L’aspetto di Desiata assicuratoreè stato affrontato dall’attuale ammi-nistratore delegato delle Generali,Giovanni Perissinotto che ne hariassunto il percorso curricolare inazienda a partire dal suo ingressonel 1960 con una borsa di studio, fi-no alle cariche di direttore generalenel 1977 e di amministratore dele-gato l’anno successivo. I meritiascrivibili a Desiata secondo Perissi-notto, un uomo guidato da una “in-crollabile fiducia nel futuro”, sonostati certamente l’introduzione dellepolizze rivalutabili e il piano caseper i dipendenti delle AssicurazioniGenerali. Poi negli anni Novanta ildecennio trascorso in Alleanza As-sicurazioni, la controllata leader nelramo Vita, che sotto la sua presi-denza ha fatto registrare una cresci-ta straordinaria e il rilancio nel ruo-lo di leadership nel settore. Nel1999 gli azionisti lo ricandidano al-la presidenza delle Generali e nelsuo breve mandato verrà perfeziona-ta (febbraio 2000) l’acquisizionedell’INA, portando la compagnia arafforzare la propria posizione com-petitiva a livello europeo.

Gabriele Galateri di Genola ed Enrico Salza

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Il presidente dell’ANIA FabioCerchiai non si è limitato a descri-vere il contributo di Desiata al mer-cato assicurativo come massimo di-rigente dell’Associazione nazionaledel settore alla fine degli anni No-vanta, ma ha individuato il suo me-rito centrale nell’aver sempre tenu-to in considerazione il rapporto “as-sicurazione – economia – società” enon soltanto la massimizzazione deirisultati particolari di settore. Tornaquindi nel ragionamento sulla figuradi Desiata quel ruolo sociale dellostudioso e del manager già eviden-ziato da Amato e da altri, dove lagrande attenzione alla società e allasua evoluzione appare indissociabiledal tentativo di inventare nuoviprodotti assicurativi in linea con imutamenti delle condizioni al con-torno. Desiata fu un innovatore, in-troducendo la polizza in monetaunica (al tempo l’ECU) e l’assicura-bilità delle catastrofi naturali. Se-condo Cerchiai fra i punti fermi chehanno ispirato la condotta di Desia-ta rimane la fiducia nella coopera-zione fra pubblico e privato e la verae propria necessità per il mercato dipuntare su un sistema di regole chediano garanzie.

Importante nella relazione diCerchiai il riferimento al contributoteorico di Desiata che negli anniSettanta scrisse i Lineamenti di unateoria economica dell’assicurazione,del quale ha auspicato la ripubblica-zione. Seguendo questo precisazio-ne, a conclusione del convegnoAmato ha esortato la Scuola e leistituzioni presenti a raccogliere icontributi teorici e scientifici di De-siata. In questo senso la Scuola Su-periore Sant’Anna, con la giornatain ricordo di Desiata, con la pubbli-cazione di alcuni contributi memo-rialistici apparsi nello scorso numerodella rivista degli ex allievi, ha mos-so solo il primo passo di un percorsoche prevede la realizzazione di unvolume biografico sul grande assicu-ratore e l’istituzione, con lo stimolodi vari amici di Desiata e la parteci-pazione di diverse istituzioni, della“Cattedra Alfonso Desiata”. L’obiet-tivo della Cattedra è quello di crea-re un punto di riferimento di altovalore scientifico per la formazionedi giovani a una cultura avanzatanel settore assicurativo, tenendoconto, in particolare modo, anchedelle nuove esigenze connesse alpercorso di internazionalizzazionedell’economia. La Cattedra AlfonsoDesiata è un progetto ambizioso che,lavorando su diversi fronti e valoriz-zando le competenze che è possibileattivare attraverso il collegamentocon i centri universitari internazio-nali più prestigiosi in ambito assicu-rativo, si propone di contribuire aformare giovani ricercatori e studio-si specializzati nelle tematiche

dell’economia, del management edella finanza delle assicurazioni ingrado di fornire nei prossimi anniun contributo significativo al settoreassicurativo-finanziario.

La giornata si è conclusa con latestimonianza di Emilio Dusi, unvero e proprio compagno di stradadi Desiata. Formatosi anch’egli nellascuola pisana, ai tempi del «Colle-gio Mussolini» fra gli anni Trenta eQuaranta, incontrò Desiata alle Ge-

nerali ed ebbe modo di notare la suarapidissima carriera promossa, comegià ricordato, da Cesare Merzagora,fino a quando se lo trovò a fianconel ruolo di amministratore delega-to assieme a Coppola di Canzano.Dusi, con sobrietà, ha elencato alcu-ne delle caratteristiche distintive diDesiata che ha potuto notare duran-te una lunghissima militanza comu-ne in azienda, a partire dallo “spiritodi servizio” che ne ha fatto un veroe proprio “uomo delle Generali”.Profondamente omogeneo alla logi-ca di un gruppo che – sono parole diDesiata – “prima fa le cose e poi ledice”, ha lavorato con spirito di in-ventiva costante, con estrema seve-rità verso se stesso e verso gli altri.Ma Dusi, indipendentemente dalmetodo collegiale caro alla Scuola,il lavoro interdisciplinare e d’équipeche lui stesso sostiene di avere im-parato nella sua esperienza pisana,definisce Desiata una eccezione inquesto senso, perché come metodo ecaratteristiche progettuali e lavora-tive appariva un solitario ed amavalavorare da solo. Da qui, nonostanteil rispetto per le competenze, le di-visioni dei ruoli e dei collaboratori,l’insofferenza per le ingessature dellelogiche aziendali poco snelle ed ec-cessivamente burocratizzate.

Desiata innovatore e uomo dagliindiscussi meriti per avere reinven-tato il ramo Vita assieme ad Anto-nio Longo, presidente dell’INA:questo uno dei successi principaliche Dusi riconosce dell’amico ecompagno di strada. Un uomo sem-plice e schietto anche quando giun-

se a cumulare, unico nella storia delmondo assicurativo italiano, le duecariche di presidente dell’ANIA epresidente delle Generali. In defini-tiva l’eccezionalità di Desiata risiedeproprio nel rappresentare il tipo dimanager di una volta, differente, se-condo Dusi, per il livello di prepara-zione umanistica e culturale in sen-so lato da molti dei tecnici di oggi.Ma allo stesso tempo era un “mon-tanaro”, un tipo duro, “che tirava

diritto” e guardava poco alla forma,pur comportandosi con correttezzanei rapporti umani e con i collabo-ratori.

In conclusione di questa scarnadisamina di un giorno di celebrazio-ne, vogliamo precisare che è difficileper chi scrive dare conto con pun-tualità dei punti di vista che atten-gono agli affetti privati di familiari,amici e colleghi. Con rispetto e ri-gore abbiamo cercato di riportarequanto udito nella mattina di con-vegno sapendo che altre confidenzee confessioni è giusto rimangano pa-trimonio interpersonale fra noi e co-loro che ce le hanno donate in col-loqui e nella frequentazione che ab-biamo avuto la fortuna di intratte-nere con i familiari più prossimi.

Una ulteriore, non comune, qua-lità di Alfonso Desiata, tuttavia, de-sideriamo sottolineare, per essernestati beneficiari: è la capacità diascolto, la curiosità, l’interesse e lafiducia che Alfonso Desiata ha sem-pre riposto nei confronti dei giova-ni. È una dote, questa, tanto raraquanto preziosa, in particolare in unsistema industriale, economico, po-litico e istituzionale così fondato sulogiche e meccanismi gerontocraticicome quello italiano. Questo, pernoi, è sicuramente un insegnamentodi grande valore e l’ennesima testi-monianza di quella responsabilità, diquella proiezione sul futuro, di quel-la centralità del bene collettivo chesono state ricordate in tutti gli in-terventi di questa intesa giornata pi-sana. Non sappiamo se tale capacitàsia possibile insegnarla o se sia una

qualità con la quale si nasce. Certa-mente questo è un contributo cheAlfonso Desiata fornisce, con il suoesempio, alla riflessione e al dibatti-to che la Scuola, la sua Associazioneex allievi e la sua Associazione allie-vi hanno avviato in merito ai pro-cessi di formazione della classe diri-gente italiana.

Simone Duranti*Ex allievo

Giuseppe Turchetti*Ex allievo e Professore pressola Scuola Superiore Sant’Anna

1 Varaldo ha citato a propositoun passaggio di una lettera di Desia-ta (in qualità di presidente di Al-leanza Assicurazioni) in risposta aun invito a prendere parte ad unatavola rotonda sui Fondi Pensione:“Come lei ben sa in Italia abbonda-no convegni su questa materia men-tre scarseggiano i risultati e l’opera-tività. Come Alleanza ci arroghia-mo l’eleganza di evitare – per quan-to è possibile – iniziative in questadirezione”.

2 Ci riferiamo ai due interventiche Desiata tenne il 18 febbraio2000 al convegno “Aziendalismouniversale? Linguaggio economico e de-scrizioni della realtà”, svoltosi a Trie-ste presso la SISSA (Scuola Inter-nazionale Superiore di Studi Avan-zati) e il 14 aprile 2000 presso laBanca Popolare di Sondrio.

3 Nel 2005 l’editore Giuffrè, inoccasione del ventennale della mor-te di Bruno De Finetti (20 luglio1985) e in previsione del centenariodella nascita (13 giugno 1906), hariedito nella collana Biblioteca IR-SA di Cultura del Rischio tre fra leprincipali opere del grande studiosodelle probabilità: Matematica logicointuitiva, Un matematico e l’econo-mia, Teoria delle probabilità. La sceltaeditoriale è stata di pubblicare i testisenza modifiche rispetto alle edizio-ni originali, con le relative introdu-zioni e note, con l’unica aggiuntadella prefazione, comune alle treopere, di Alfonso Desiata.

4 Già in precedenza Maccanicoaveva ricordato questo episodio:“Durante il breve periodo della miapresidenza Mediobanca un giorno ildottor Cuccia mi disse: ‘Ho piacereche lei sia tanto amico di AlfonsoDesiata: è senza dubbio il numerouno del nostro sistema assicurativo’”(dal discorso commemorativo diAlfonso Desiata pronunciato daAntonio Maccanico in occasionedell’assemblea dell’ANIA, Roma,27 giugno 2006).

5 Anna Di Martino, Il leone delleGenerali, Elio Sellino Editore, Mila-no, 1992.

Giovanni Perissinotto e Fabio Cerchiai

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Riproduciamo qui il discorso che Pao-lo Taviani pronunciò per ricordareGiuliano Marini a chiusura del con-vegno “Storicità del diritto, dignitàdel l'uomo, ideale cosmopolit ico.Giornata di studi in memoria di Giu-liano Marini” organizzato a Pisa il 3febbraio 2006 con la collaborazionedella Facoltà di Scienze Politiche, delDipartimento di Scienze della politicadell'Università di Pisa e la Scuola Su-periore Sant'Anna.

“Io sono qui non per aggiun-gere argomenti di studio sullavoro di Giuliano... non

ne sarei certo all’altezza. Lo hannofatto gli studiosi suoi amici e gli al-lievi. Con scienza e affetto.

Io, con commozione, vorrei ri-cordare anche Giuliano ragazzo e lanostra amicizia nata sui banchi discuola, una lunga rara amicizia, cheha accompagnato le nostre esisten-ze, pur così diverse.

Pisa non è lontana da Roma, ep-pure ci siamo incontrati poche vol-te: preferivamo affidare i nostripensieri alla pagina scritta. I tempidei nostri dialoghi erano lenti macostanti. Giuliano mi scriveva: “La

tua lettera mi ha tenuto compa-gnia, l’ho ripensata, ho ricordatoavvenimenti e sensazioni lontane...È privilegio delle conversazioni perscritto che si arricchiscano di tantiparticolari e diventino oggetto diinterpretazioni, secondo i momentie lo stato d’animo di chi legge.Hanno una capacità di comunica-zione che soltanto raramente laconversazione orale riesce ad attin-gere...”.

Si, eravamo compagni di banco,al ginnasio e al liceo. Giulianoamava la scuola, era bravo. Io no:per me la scuola ha rappresentatosolo ribellione e angoscia.

Ci volevamo bene proprio per-ché eravamo così diversi.

Ma ci faceva sentire vicini l’am-mirazione e lo stupore... ecco, si, lostupore nella scoperta dei grandiautori: un amore assoluto – comeassoluti sono i sentimenti dei gio-vani – per la musica, la letteratura,il cinema. Dopo il nostro ultimoincontro, allontanandomi dalla suacasa, bella e severa in via S. Ceci-lia, ho attraversato la vicina piazzaSanta Caterina ed ho ricordato chequella piazza, così luminosa, ci ap-

pariva ancora più abbagliantequando uscivamo dal buio del cine-ma Lux, la domenica mattina, an-cora emozionati dalle proiezioni delcineclub.

In quegli anni, tra compagni diclasse, resisteva la buffa consuetu-dine di chiamarci per cognome...Marini, Taviani, Mazzocchi... E fuproprio una di quelle mattine cheGiuliano, vincendo la sua timidez-za, ma con allegria, mi disse: Tavia-ni, ma perché continuiamo a chia-marci per cognome? Già, perché?

Da quel giorno ci chiamammoper nome, e da quel giorno capim-mo di essere veramente amici.

Andavo spesso a studiare a casasua in via Franceschi. Talvolta,mentre mi avvicinavo, mi raggiun-geva il suono del pianoforte cheGiuliano si era messo a studiarecon decisione inaspettata e accani-to entusiasmo. Le note erano spes-so quelle di Debussy. Oggi, in que-st’aula, si è parlato della riflessionefilosofica di Giuliano su Dilthey ela musica... e io sono tornato colpensiero all’immagine di lui, con lemani sulla tastiera.

Ci vedevamo per le lezioni, maGiuliano non aveva bisogno di ap-plicarsi, gli bastava stare attento,concentrato, in classe. Io desidera-vo parlare d’altro: di politica, di re-ligione, della mia incredulità e del-la sua religiosità, una religiosità chenon lo ha mai abbandonato.

Un giorno lo trovai con gli oc-chi accesi e un libro in mano Delit-to e castigo. Mi lesse le ultime pagi-ne di un capitolo della secondaparte, quello in cui Sonia, la pecca-trice, legge un brano del Vangelo a

Raskolnikov...“Sonia chiuse il libro e si alzò bru-

scamente dalla sedia... Il mozziconedi candela già da un pezzo si stavaspegnendo e illuminava con la sua lu-ce fioca, l’assassino e la peccatrice,stranamente riuniti nella lettura delLibro Eterno”.

Giuliano commentò commosso:“Dostoevskij è l’autore che mi è piùvicino”. Mi rendo conto che stodando un’immagine troppo severadella giovinezza di Giuliano. E in-vece vorrei ricordare anche il latogiocoso del suo carattere.

Ricorderò allora un episodio, frai tanti, che ho già raccontato aisuoi familiari.

Il nostro professore di filosofia,un tipo bizzarro e arguto, ci annun-ciò: domani vi farò incontrare conAristotele... di fronte a tanta mae-stà dovreste vestirvi come al pre-mio Nobel, frac e farfalla...

All’uscita Giuliano ci chiamò –aveva gli occhi illuminati da unaallegra invenzione – ...e noi doma-ni ci presenteremo con la camiciabianca e la farfalla al collo! L’ideaci entusiasmò, invece di studiareimpiegammo il pomeriggio a rime-diare farfalle e giacche scure.

La mattina dopo il professoreentrò in classe e ci scrutò. Capì:bravi, bravi... mi avete preso allalettera... troppo. Voglio sapere dichi è stata l’idea, chi è il responsa-bile. Subito Giuliano uscì dal ban-co: io. Il professore guardò stupitoil suo allievo migliore... taceva...poi: non credo proprio che lei Ma-rini farà strada nella filosofia, maun posto in qualche night club nonglielo toglierà nessuno!

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“...quei due ragazzi che ci vengono incontro– le mani in tasca – con spavalda serenità...”

di Paolo Taviani

Nella foto a sinistra: Giuliano Marini con Paolo Taviani da giovani a Pisa sulPonte di Mezzo. Sopra: una dedica di Paolo Taviani.

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Ho avuto la possibilità di segui-re il lungo, tenace, cammino diGiuliano nella filosofia. Ho ammi-rato la sua disciplina nel lavoro.Quel lavoro che gli permetteva disottrarre il senso della sua vita alcaso.

Gli piaceva insegnare. Mi scri-veva: “...gli esami - di cui mi chiedi- sono una grande prova psicologi-ca: ne faccio pochi per volta, lun-ghi e approfonditi e grande è la dif-ficoltà del giudicare... Ma è bellofar lezione e discutere con gli stu-denti ai seminari”.

L’ho seguito dai primi saggi, allapoderosa impresa di tradurre la Fi-losofia del diritto di Hegel, fino allariscoperta di Kant. Mi scriveva: “...se Hegel avvince, Kant convince”.

Kant – io credo – ha rappresen-tato per Giuliano una sponda feli-ce al suo desiderio di riconciliazio-ne con gli uomini. E aggiungeva:“a volte mi domando come si possareagire a tanti avvenimenti di que-sto tempo smarrito, e sono piena-mente convinto di dover trasmet-tere le speranze kantiane ai giovanii quali, ed è una gioia, se ne lascia-no entusiasmare... E mi fa anchepiacere che tu abbia apprezzato ilmio testo kantiano e che esso, inparte, possa rappresentare la nostraaffinità...”.

E del suo nuovo lavoro su Kantmi ha parlato anche l’ultimo gior-no che sono andato a trovarlo. Neera contento: “è ancora in bozze –mi diceva - ...avrei bisogno di alcu-ni mesi per correggere, pulire...”.Non gli sono stati concessi. Ma so-no certo che l’opera è compiuta.Anche lui ne era convinto, glielolessi negli occhi. Me ne parlò ac-compagnandomi al portone di casasua. Per scendere le scale si appog-giava al bastone, con fatica, masenza perdere la sua autoironia:“questo bastone mi fa sentire anti-co...”. Giù nell’andito mi ha ab-bracciato ed ha mormorato: “io lamia parte l’ho fatta... almeno cre-do... sono pronto”.

Poco tempo dopo una delle fi-glie mi chiamò al telefono... unavoce che voleva essere ferma, quasidura, per dominare la commozio-ne. Mi comunicò che Giuliano sene era andato.

Io sono convinto che l’esempio,la lezione di Giuliano, aiuterà isuoi allievi a non tradire, domani,i progetti, i desideri della giovinez-za, li aiuterà a credere nella vo-lontà e nella ricerca di una verità.Un modo anche questo di dareuna risposta, combattiva, a quelloche lui chiamava il nostro temposmarrito.”

Paolo TavianiPisa, 3 febbraio 2006

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Mitigare con il riserbo lacommozione mi consentedi dare una testimonianza

personale di cosa sia stata la brevee felice intersezione della mia vitaintellettuale con Giuliano Marini,e di quali siano alcuni degli effettiduraturi di tale incontro, che van-no ben oltre la mia persona e lamia appartenenza alla ScuolaSant’Anna, prima come allieva,poi come docente. Non potrei,perché a me certo non compete,tracciare il benché minimo trattodel percorso intellettuale di Giu-liano Marini; non so nemmeno chipotrebbe circoscriverlo in tutti isuoi risvolti, dai discreti e pur per-vasivi accenti, “non visti da oc-chio umano”. Chi lo ha conosciutosa in quali modalità riservate e lu-minose l’esempio di vita e il magi-stero intellettuale potessero essereuna cosa sola, all’insegna della piùaudace avversione contro ognidogmatismo, tanto meno altiso-nante, quanto più tenacementepraticata, e del più profondo ri-spetto per la dignità di chi interlo-quisse con lui; ciò che è vero perme non dubito lo sia anche per glialtri suoi allievi e allieve diretti eindiretti, molti dei quali continua-no nella più strenua individualità elibertà di ricerca – tuttora il più ri-voluzionario dei suoi insegnamenti– i filoni di studi da lui coltivati edarricchiti. Tale proliferazione di ri-cerche e di idee vive per un feliceeffetto diasporico in molte sediuniversitarie; ma ciò non deve far-ci dimenticare che i filoni connessialle tematiche politiche e interna-zionalistiche vengano coltivati inottica filosofica proprio entro que-sta istituzione.

Per convalidare quanto sto perdire è sufficiente leggere la prefa-zione che Giuliano Marini ha ap-posto al suo volume, testo crucialenel suo percorso, perché raccoglie isuoi scritti degli anni novanta sulcosmopolitismo kantiano1. La di-scussione dei testi kantiani era lìintrodotta e giustificata come oc-casione privilegiata per dibattere iconcetti utili alla comprensionedella situazione internazionale, ealla prefigurazione del futuro asset-to di essa. L’interpretazione inno-vativa di Marini del contributo delKant politico risulta oggi capace diinnervare le discussioni contempo-ranee sull’ordine/disordine inter-nazionale. Non deve passare inos-servato quanto la passione civile diGiuliano Marini per il rispetto e ladifesa istituzionalmente garantitidella dignità di ogni essere umano

sostenesse le analisi testuali e siste-matiche di quei testi che la criticaaveva per molti decenni ingiusta-mente considerato scritti occasio-nali di Kant. Un’eredità di studi ela passione civile ad essi conforme,come quelli simboleggiati da Giu-liano Marini, si inseriscono nell’al-veo delle tematiche della cui trat-tazione filosofica sentono tuttora

grande urgenza i cultori e cultricidi teoria politica, nonché i cittadi-ni e le cittadine sensibili alle que-stioni più importanti della vita as-sociata. Nelle sue analisi, Mariniha lumeggiato gli eventi geo-poli-tici contemporanei, fornendo argo-menti a uno dei tre modelli impie-gati dai teorici delle relazioni in-ternazionali: il modello kantiano,

Giuliano Marini, scomparso il 28 gennaio 2005, era nato in provincia di Pisa il1° febbraio 1932. Dopo la laurea con il prof. Lorenzo Mossa nel 1954, si eradedicato, assistente volontario con Vincenzo Palazzolo, alla filosofia del diritto.Ha insegnato ininterrottamente, salvo un breve intermezzo a Camerino, pressol’Università di Pisa prima Filosofia del Diritto, poi Filosofia Politica. È tra ifondatori della Facoltà di Scienze Politiche di Pisa, dirige l’allora Istituto di Stu-di Storico-Politici e di Filosofia del Diritto (ora Dipartimento di Scienze dellaPolitica), contribuisce alla fondazione della Scuola Superiore di Studi Universi-tari e Perfezionamento, poi Sant’Anna, alla quale rimane sempre vicino. È nel-la direzione delle più importanti riviste del settore, come di società italiane, laSocietà Italiana di Filosofia Politica e la Società Italiana di Studi Kantiani, e in-ternazionali, come la Hegel-Vereinigung, la Kant Gesellschaft. Dagli studi su Dilthey e la Scuola Storica, giunge alla filosofia del diritto di He-gel e, negli anni Novanta, al cosmopolitismo kantiano. Un percorso di ap-profondimento e in qualche caso di vera e propria innovazione, che produce unaampia e fondamentale bibliografia, nella quale si annoverano classici e pietremiliari della disciplina. Nel pensiero kantiano, Marini riscopre il progetto fede-rale cosmopoliticamente orientato e illuminato da una religione nei limiti dellaragione, in una rilettura che nel suo rigore interpretativo collega le soluzionikantiane pensate a livello cosmopolitico nell’alveo della sensibilità contempora-nea per i diritti umani, come nella Prolusione in apertura dell’anno accademicopisano 1991-2. Ad un anno dalla scomparsa, il 3 febbraio 2006, una giornatadi studi in sua memoria, intitolata “Storicità del diritto, dignità dell’uomo, idea-le cosmopolitico”, riunisce nell’Ateneo pisano e nella Scuola S. Anna studiosiitaliani e stranieri, che illustrano sotto vari profili la figura umana e scientificadel Maestro scomparso. Di Giuliano Marini è in corso di stampa presso Laterzail volume inedito: La filosofia cosmopolitica di Kant, a cura di Nico De Fe-dericis e Maria Chiara Pievatolo. (ms)

L’eredità di Giuliano Marini

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cosmopolitico e anti-realista, se-condo cui sarebbe pensabile la len-ta ma progressiva instaurazione diuna repubblica federale mondiale.

Al di là della specifica opzionekantiana, le impostazioni sistema-tiche che non diano per scontati iconcetti, impliciti o espliciti, im-piegati dai politici e dagli analisti,sembrano le più idonee a indivi-duare e sviscerare le particolarità, icasi specifici in cui la conoscenza el’esperienza individuale e colletti-va del mondo si è frammentata do-po il 1989 e il 2001. Ribadire la le-gittimità e l ’effettività di unosguardo critico e libero sugli eventiè il monito scientifico e metodicopiù rilevante che si possa trarre dalmagistero di Marini, che rifiutaval’idea che fra teoria e pratica nonvi fosse un rapporto stringente.

A ben vedere, anche gli stessidrammatici eventi internazionalidi questi ultimi anni2 mostranol’impossibilità di comprendere egestire il conflitto affidandosi sem-plicemente a misure coercitive, ri-ferite, nei casi estremi, a soggettistatuali sovrani, che agiscano co-me giudici in causa propria, secon-do la nota teoria, moderna e reali-sta, della sovranità e della guerra.Secondo Hegel e Clausewitz, gliStati possono dirsi sovrani inquanto non riconoscono alcunaautorità ad essi superiore, che siain grado di costituire una figuraimparziale e dotata di potere coat-tivo per sedare i vari tipi di con-

flitto. La guerra sarebbe di conse-guenza l’unico mezzo legittimo edi successo per risolvere le contro-versie3. L’attuale condizione dipresunto unipolarismo a favore de-gli Stati Uniti sarebbe il risultatodella vittoria su tutti gli altri delloStato sovrano più potente sulloscenario mondiale, nell’attuale pe-riodo storico.

Senza discutere l’efficacia de-scrittiva di tale quadro, non è tut-tavia sufficiente esibire come pro-va inconfutabile della sua veridi-cità la condizione di difficoltà incui versa il ‘sistema’ tradizionaledel diritto internazionale. Tanto-meno vale come argomento risolu-tivo la crisi che investe organismideputati all’uso di mezzi non belli-ci per la risoluzione dei conflitti(Onu, in primis). Infatti, accantoad essi, già adesso esistono formeistituzionali in cui la governance(governo policentrico e caratteriz-zato da condizioni di interdipen-denza) è una delle forme di politi-ca accanto al government (governoa struttura gerarchica). Prima manon unica fra esse è l’Unione Eu-ropea. Tali entità ‘composite’ giàampiamente superano le mere ag-gregazioni interstatuali. Gli studineo-regionali parlano di blocchicontinentali, indicando con essirealtà pur diverse fra loro come losono il NAFTA4, o l ’ASEAN5.Per asserirlo, non vi è bisogno diaderire, come Marini peraltroavrebbe voluto, all’impegnativo

ideale kantiano e cosmopoliticosecondo cui sarebbe realizzabile ol-treché auspicabile una repubblicafederale mondiale che abbraccitutta la terra6. Il neo-regionalsmosembra indicare infatti una terzavia, più duttile rispetto ai cambia-menti, più attenta alla stratifica-zione dei fenomeni e non pregiu-dicata da assunzioni valoriali oteoriche ‘forti’ (effettualità contromoralità, stato sovrano contro or-dinamento sovrastatuale e cosìvia). A ben vedere, tuttavia, le treletture dei fatti (realista, cosmopo-litico-kantiana, neo-regionalista),precedentemente delineate, inter-pretano i mutamenti delle relazio-ni internazionali in termini di rap-porti fra polit ical/ institutionalentities. Giuliano Marini, peraltro,ha nondimeno favorito studi dedi-cati ad ulteriori elementi di cam-biamento, impercettibili, ma piùdiffusi e pervasivi, favorevoliall’instaurazione di un ordine vera-cemente repubblicano, cha sia fau-tore dei diritti e nemico dei vari ti-pi di dispotismo. Non si può igno-rare il consolidamento progressivoe perdurante di un ‘apparato’ diprotezione a più livelli (internatio-nal human rights machinery) dei di-ritti umani. Si tratta di un assettointernazionale di norme, di istitu-zioni e procedure, fatto di livellinormativi (hard law e soft law), diprocedure di analisi, monitoraggio,controllo, di strumenti sanzionato-ri diversificati, cresciuto nei de-

cenni precedenti al 2001, e maiabolito; è esso stesso parte delmondo della sovranità statuale, in-terviene su di essa per controbilan-ciarne e ridurne la portata, talvoltaper guidarne alcuni effetti versoesiti meno distruttivi, o maggior-mente circoscritti. I limiti di taleinfluenza sono tuttavia evidenti.

Potremmo dire che, senza ri-nunciare alla lucidità di una anali-si impietosa dei fatti più crudeli, lastoria del sistema internazionaledegli anni novanta e degli studi sudi essa è costellata di esempi e diriflessioni che mostrano modellialternativi di analisi dei mutamen-ti, come pure di gestione e trasfor-mazione dei conflitti. Forse ancheMarini, con la consueta cautelametodica, avrebbe identificato itratti di una nascente, e in tal mi-sura vulnerabile senza l’interventodi istanze politiche adeguate, di-mensione pubblica globale.

Barbara HenryScuola Superiore Sant’Anna

1G. Marini, Tre studi sul cosmo-politismo kantiano, I.E.P.I., Pisa,1998.

2Dalla risposta bellica degliUSA al terrorismo internazionale,dopo il 2001, alla nuova escalationdi violenza tra Israele e Palestina,fino alla guerra in Libano e alle piùrecenti rilocalizzazioni dei vari ter-rorismi.

3Secondo una opinione tutt’oggidiffusa, il modello del realismo poli-tico, in particolare nella sua versio-ne più contemporanea del neoreali-smo (Waltz), risulta agli occhi dimolti analisti e attori politici il pa-radigma vincente; oltre a vantareascendenti illustri (Tucidite, Ma-chiavelli, Hobbes) gli eventi avreb-bero avvalorato i suoi tre capisaldi,secondo cui: a) gli attori della poli-tica internazionale sono gli Stati(titolari di sovranità come poteresuperiorem non recognoscens); b) talisoggetti sono attori razionali, ingrado di perseguire attraverso la mi-gliore strategia i propri interessi; c)tali attori operano all’internodell’agone internazionale inteso co-me un sistema anarchico, costruitosecondo l’immagine dello stato dinatura hobbesiano. Si veda la rivisi-tazione critica di A. Loretoni, Teo-rie della pace. Teorie della guerra,ETS, Pisa, 2005.

4North American Free TradeAgreement.

5Association of Southeast AsianNations.

6M. Telò, European Union andNew Regionalism. Regional Actorsand Global Governance in a Post-He-gemonic Era, Ashgate, Aldershot,2001.

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Giuliano Marini con Carlo Azeglio Ciampi in occasione del conferimento del premio Luigi Tartufari

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zione Allievi. La prima domanda ègenerale, di apertura: cos’è l’Italia,e cosa rappresenta per Lei?

C.A. CIAMPI Io ho sempreavuto forte il sentimento di orgo-glio di essere italiano. Credo che laprofondità di questo sentimento sisia manifestata con il massimo vi-gore nel momento più drammaticodella vita mia e di quella degli Ita-liani: nel 1943, dopo l’8 settembre.In quel momento noi giovani di al-lora, che eravamo sotto le armi, citrovammo praticamente soli e do-vemmo cercare nella nostra co-scienza gli stimoli per reagire. Av-vertii fortissimo in me, allora, ilsentimento di appartenenza ad unarealtà che era l’Italia, una societàunita da valori antichi, secolar-mente sedimentati nella nostra co-scienza. E un sentimento che hosempre portato in me; anche senzavolerlo, spontaneamente, duranteil mio settennato al Quirinale, es-so ha ispirato la mia azione. Di quitutte le iniziative che ho assuntoper far sì che anche negli Italiani,che per anni avevano avuto unsenso di pudore nel pronunciare laparola Patria con la P maiuscola,tornasse vivo questo spirito. Così èstato, ed è stata una delle mie piùgrandi soddisfazioni, alla fine delmandato. Proprio questa mattina,passeggiando per Pisa, un giovanecome voi, uno studente, immagino,mi si è avvicinato per ringraziarmidi questo. Per me è il massimo dellaricompensa per quanto ho cercatodi fare.

D. RAGONE Buonasera, Pre-sidente. Una figura di riferimentoper la Sua crescita intellettuale edumana è stata senza dubbio quelladi Guido Calogero. Molti di noivolevano chiederLe quali tra i suoiinsegnamenti ritiene siano stati perLei più significativi e quali consi-dera di maggiore attualità.

C.A. CIAMPI Guido Caloge-ro, quando io entrai alla Normalenel lontanissimo 1937, era già tito-lare di cattedra, ed insegnavaall’Università di Pisa Filosofia Mo-rale e Storia della Filosofia. Nonfrequentai il suo corso, ma lo co-nobbi in occasione di alcuni semi-nari alla Normale, dove egli spessoveniva, e trassi, appunto, una de-terminata impressione circa la di-mensione umana ed etica dell’uo-mo. Ho ricordato poco innanzi l’8settembre. Quando mi detti allamacchia, capitai in un paesinodell’Abruzzo chiamato Scanno. Sa-

pevo, fra l’altro, che vi avrei trova-to Guido Calogero, che viveva conla sua famiglia proprio lì, dopo es-sere stato mandato al confino. Hopassato in quel luogo gran partedell’inverno del 1943-44, fino aquando, a marzo, andai a riprende-re servizio nell’esercito al Sud. Inquei mesi, la mia frequentazionecon Calogero fu quasi quotidiana,ed ebbi il privilegio di parlare e di-scutere con lui anche su temi di ca-rattere filosofico. Uno degli argo-menti che più mi interessava, pro-prio dopo l’8 settembre, era l’ap-profondimento della “responsabi-lità” e, la comprensione della suagenesi, dell’origine dell’autonomiadelle nostre azioni, rispetto alla co-noscenza. Soprattutto imparai dalui una profonda umanità, il sensoetico della vita, informato al rispet-to dell’altro, la pratica del dialogo,quale modo per comunicare, perconoscersi, per progredire insieme.Questa dimensione etica è ciò chemi ha dato Calogero, maestro cheio non ringrazierò mai abbastanza,maestro di vita. “La scuola dell’uo-mo”, titolo di un suo libro, riassumela pratica quotidiana dei suoi com-portamenti, ed in particolar modo isuoi rapporti con i giovani.

C. SGANGA Presidente, qualè la sua memoria legata all’antifa-scismo nell’ateneo pisano, in Nor-male, al Collegio Mussolini, il fer-mento tra gli studenti, fra i giovani?Cosa ricorda di quel periodo e comelo giudica a distanza di tempo?

C.A. CIAMPI Entrai in Nor-male, come vi dicevo, nell’ottobre

del 1937. Ero ancora immaturo,troppo giovane: avevo poco più di16 anni. Avevo avuto forse una ec-cessiva fretta di entrare nella vita,che mi aveva portato a saltare dueanni di scuola, la quinta elementa-re e poi la terza liceo. Ho rimpiantodi essere arrivato all’università for-se troppo presto. Vi fossi giuntodue anni dopo ne avrei beneficiatodi più. Gli anni in Normale furonoallora, per me, gli anni della matu-razione: anni drammatici, dal 1937al 1941, per il nostro Paese. Nel1939 scoppiava la Guerra Mondia-le, nel 1940 l’Italia entrava in guer-ra. In quegli anni abbiamo avutouna tra le più vergognose ed aber-ranti manifestazioni del periodo fa-scista: le leggi razziali. Le vissi perintero in Normale, che aveva comeinsegnanti, oltre a Calogero, perso-ne come Luigi Russo, che è statoper molti anni, poi, Direttore dellaScuola; come Augusto Mancini, re-pubblicano storico, che anche du-rante il periodo fascista indossavasempre il fiocco repubblicano. Uo-mini, quindi, dichiaratamente edapertamente antifascisti, ma chesul lavoro si comportavano come sideve comportare un insegnante,vale a dire secondo coscienza. Siapure in maniera non diretta, emer-geva la loro antinomia rispetto allasituazione politica del tempo. Glieventi cui ho accennato portaronoanche a momenti drammatici. Leleggi razziali costrinsero il nostrolettore di lingua tedesca, un giova-ne ebreo tedesco, il più famoso,Oskar Paul Kristeller, a lasciarel’Italia: questo fatto ci colpì profon-damente. Arrivò poi la guerra, e la

reazione dentro la Scuola, pur nondiventando mai apertamente mani-festa, si radicò fortemente. I senti-menti che ci agitavano erano di li-bertà e giustizia, di cui era intrisatotalmente l’atmosfera che respira-vamo. Bastava leggere “Storia d’Eu-ropa del Secolo XIX” di BenedettoCroce, che se ben ricordo, è uscitanel 1934-1935, per trovare unaspinta fortissima, in particolar mo-do nel primo capitolo del libro, de-dicato a “La religione delle libertà”.La Scuola visse momenti dramma-tici, tanto che Giovanni Gentileera in procinto di chiuderla, e solol’intervento appassionato di perso-ne come Russo e Calogero riuscì adevitarlo. Quando ci fu la dichiara-zione di guerra, un sommesso cantodella Marsigliese echeggiò a mensa.In quegli anni facemmo anche unosciopero della mensa per alcunigiorni, non ricordo con quale pre-testo.

Era questo il clima che si respi-rava in Normale, dal 1939 in poi.

D. RAGONE Presidente, ci so-no delle scelte giovanili che colpi-scono, nella sua vita. Fra tutte pen-so alla decisione di prendere unaseconda laurea in Giurisprudenza,dopo quella in Lettere a Pisa e inNormale, e poi quella di entrare al-la Banca d’Italia. Vorrei conoscerequali fossero le motivazioni chel’hanno sostenuta.

C.A. CIAMPI Scelsi “Lettere”perché mi piacevano soprattutto lelettere antiche. Ma non avevo l’in-tendimento di fare l’insegnante: ilmio ideale professionale era molto

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intervista a C.A. Ciampi

(segue dalla prima)

Numerose le domande che gli Allievi hanno rivolto a Carlo Azeglio Ciampi

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di più la carriera diplomatica. Il ra-gionamento fu questo: “ho guada-gnato due anni da studente allescuole medie, e posso utilizzare iltempo risparmiato per prenderedue lauree. Prima studio ciò chepiù mi interessa dal punto di vistapersonale, Lettere; poi prendo an-che la laurea in Legge, visto chedopo Lettere si veniva iscritti diret-tamente al terzo anno e venivanoabbuonati alcuni esami”. Mi lau-reai in lettere nel maggio del 1941.Proprio quell’anno gli appelli per letesi furono anticipati. Il primo diluglio fui chiamato sotto le armi.Furono quattro anni di “naja”, ivicompreso il periodo alla macchia;dopo l’8 settembre quando nell’ot-tobre del 1944 ritornai a Livorno,una Livorno semidistrutta dai bom-bardamenti, avevo bisogno di lavo-rare: arrivai che stavano per asse-gnare gli incarichi per la riaperturadelle scuole; il fatto di essere lau-reato e di avere il diploma dellaNormale mi pose in testa alle gra-duatorie. Ebbi l’incarico di italianoe latino al liceo di Livorno. Avevo24 anni. I miei allievi erano quasimiei coetanei o poco meno. Fu unabellissima esperienza, durata dueanni.

Attendevo che venissero banditii concorsi statali, che erano statipromessi soprattutto per noi excombattenti. Ma i concorsi non ar-rivavano, e sta qui la spiegazionedel mio ingresso in Banca d’Italia.Si dà il caso che avessi deciso disposarmi con una ex-studentessaconosciuta a Pisa. Mi si offrì l’op-portunità di entrare in Banca. Lofeci quasi per prova, nell’estate del1946, e non mi trovai male. Con-clusione fu che, quando arrivai adottobre, invece di fare la domandaper rinnovare l’incarico di insegna-mento, rimasi in Banca, però sem-pre con l’intenzione di sostenere iconcorsi per l’insegnamento quan-do sarebbero arrivati. I bandi usci-rono 4 anni dopo. Ricordo ancorail giorno che mi arrivò la lettera diconvocazione al concorso, che erasolamente orale per i combattenti.Era il giorno in cui nasceva la miaprima figlia. Trovai la lettera a ca-sa, dalla rabbia la strappai e la but-tai nel cestino. E rimasi in Bancad’Italia, non quindi per vocazione,ma per casualità.

G. DELLEDONNE Guardan-do alla Sua esistenza, la si vede co-stellata da lunghe e solide amicizie;per citarne solo due, Norberto Bob-bio ed il rabbino Elio Toaff. Puòrievocare un episodio significativorelativo a questi due rapporti?

C.A. CIAMPI Con Elio Toaffho avuto rapporti maggiori e piùfrequenti che con Bobbio, che hoconosciuto quando era già anziano.Elio Toaff è figlio dell’allora rabbi-no di Livorno, che avevo avutomodo di conoscere per motivi distudio: la tesi di laurea in Legge chescelsi, nel 1945, era sulla libertàdelle minoranze religiose in Italia.Perché? Eravamo nel periododell’Assemblea Costituente, e quel-lo era un argomento che mi appas-sionava tantissimo, dal Concordatoai rapporti tra Stato Italiano ed al-tre confessioni religiose. Per le miericerche ebbi contatti con i rappre-sentanti delle due più importanticomunità non cattoliche presenti aLivorno, gli ebrei ed i valdesi, e fucosì che conobbi il padre di Toaff,un rabbino “classico”, diverso dal fi-glio, non estroverso come Elio; edincontrai il pastore valdese, unapersona dalla passione politica for-te. Mi furono molto utili, forse piùil valdese che il rabbino, per l’impe-gno politico più vivo e per la mino-re differenza di età, il rabbino Toaffpadre mi incuteva un certo timore,sentivo la distanza, il distacco. ConElio ci siamo ritrovati a Roma, in-tessendo uno stretto rapporto diamicizia, di cui mi vanto, così comemi vanto di essere suo ammiratore.Domani avrò occasione di vederloqui a Pisa per il “Campano d’Oro”,e sono ben lieto di essere presente aquesta cerimonia, appunto per ren-dere onore ad Elio.

M. MANCINI Ormai sono tra-scorsi diversi anni dal suo addio allaBanca d’Italia e si sono verificati di-versi cambiamenti, vuoi formalivuoi sostanziali. Se Lei per assurdosi trovasse a fare nuovamente il Go-vernatore, si sentirebbe ancora acasa nella nostra Banca Centrale?

C.A. CIAMPI Non voglio en-trare in fatti recenti relativi alla vi-ta della Banca. Vi dico solo che hoseguito con molta partecipazionegli eventi che la hanno riguardatanel corso degli ultimi anni, e sonolieto che attualmente sia Governa-tore Mario Draghi, che ebbi comecollaboratore, prima quando fumandato a Washington dall’alloraMinistro del Tesoro, il povero Gio-vanni Goria, nel CDA della BancaMondiale, e poi quando rientrò inItalia, come consulente economicopresso la Banca d’Italia; lo ritrovaipoi nel 1996 al Ministero del Teso-ro, quando venni nominato Mini-stro: lui era lì, come Direttore Ge-nerale. Ho lavorato con Draghi fi-no al 1999, quando lasciai il Teso-ro per andare al Quirinale. Circa laBanca d’Italia debbo dire che sonosicuro che essa ha mantenuto le ca-ratteristiche che l’hanno segnata

nella sua storia ormai ultrasecolare.Fu costituita nel 1893: nel 1993 necelebrammo il primo centenario, inoccasione del quale presi l’iniziati-va di avviare una raccolta di studistorici sull’istituzione. I 35-40 volu-mi pubblicati da Laterza ne sono ilprodotto editoriale. I mutamenti direcente apportati allo Statuto dellaBanca e alla legge che ne regola-menta il funzionamento sono unaggiornamento necessario di unarealtà oramai diversa da quelladell’epoca della sua originaria co-stituzione, ma si tratta di un aggior-namento che ha mantenuto unapiena indipendenza dell’istituzione.La sua autonomia è fondamentaleper il Paese, specialmente ora cheabbiamo la moneta unica, di cuisono, come istituzione, un grandesostenitore. La Banca d’Italia è uni-ca, e come Banca centrale devemantenere l’indipendenza: notocon piacere che il GovernatoreDraghi la sta affermando e confer-mando. Proprio oggi ho visto sulSole 24 Ore il suo articolo rievoca-tivo di Luigi Einaudi, che egli con-sidera tra i suoi maestri.

E. FATTORI È noto il Suoimpegno nel processo di integrazio-ne e costruzione di un’Europa uni-ta, mosso non soltanto da mere esi-genze e leggi del mercato libero. Edè noto anche il Suo contributo allacausa europea in generale. Ecco, inquesta particolare fase di impasse,forse anche di crisi dell’Unione Eu-ropea, mi piacerebbe conoscere laSua opinione, in particolare perquanto riguarda la delicata questio-ne dell’approvazione del Trattatoche adotta una Costituzione perl’Europa.

C.A. CIAMPI La ringrazio perquesta domanda, perché è impor-tante che soprattutto voi giovaniparliate di Europa e cerchiate dicomprendere l’importanza dell’U-nione Europea. Voi siete nati me-diamente una ventina di anni fa,ed avete avuto quindi la fortuna dinon vivere nell’Europa dei nazio-nalismi, nell’Europa delle guerrefratricide, che hanno devastato ilnostro continente. La mia genera-zione nacque all’indomani dellaPrima Guerra Mondiale: alla vostraetà avemmo la Seconda GuerraMondiale. E quello che è scattatonella nostra coscienza allora fu:“mai più guerra fra i paesi Europei”.Certamente si deve all’intuizionedi persone quali, in Francia, JeanMonnet, in Italia, Altiero Spinelli,che già in tempo di guerra vagheg-giarono possibili soluzioni ai pro-blemi europei, non più attraversoalleanze tra singoli Stati, ma attra-verso un processo di integrazione.Fu un grande salto. La prima istitu-

zione che fu creata in quella cheoggi è l’Unione Europea fu la CE-CA (Comunità Europea del Carbo-ne e dell’Acciaio). Eravamonell’immediato dopoguerra ed unadelle cause ufficiali dell’ultimoconflitto mondiale era stato il pro-blema del carbone e dell’acciaio,bacino della Ruhr e compagniabella. Secondo la vecchia menta-lità, la soluzione più adatta sarebbestata quella di chiamare un gruppodi esperti giuridici ed economici echiedere loro di redigere un beltrattato che mettesse d’accordoFrancia, Germania, Belgio, Lus-semburgo, i più interessati a quellazona. Si pensò, invece, di costruireuna comunità alla quale non parte-cipassero solo i Paesi interessati,ma anche quelli che nessuna vici-nanza avevano con il bacino dellaRuhr, come l’Italia. Nacque così laCECA: fu un nuovo modo di gesti-re in comunione problemi più omeno condivisi. Lo stesso concettosta alla base dell’EURATOM, chefu la seconda delle grandi soluzionidel periodo. Su questa impostazio-ne di sopranazionalità si costruì poiil Mercato Comune. Si ebbe allorala prima spaccatura: i Paesi nordicie l’Inghilterra vi contrapposerol’EFTA, che si fondava su basi di-verse, sul vecchio concetto di al-leanze tra Stati. Il Mercato Comu-ne portava all’integrazione. Tra EF-TA e Mercato Comune, vinse ilMercato Comune: la prima si sciol-se ed i Paesi che ne facevano parteconfluirono nel secondo. Ci fu poiil tentativo di fare il grande salto,con la Comunità Europea di Dife-sa, ma il progetto si arenò nel pro-cesso di ratifica: l’obiettivo fu ab-bandonato. È venuta allora un’altraidea, la moneta comune. Credete-mi, non è stato facile, io ho parte-cipato a tutti i passaggi di questacreazione: prima il Sistema Mone-tario Europeo, lo SME, che comin-ciò nel 1979, esattamente quandoio diventai Governatore, e poi ne-gli anni Ottanta, quando si comin-ciò a studiare l’ipotesi Euro. Si ar-rivò al Comitato Delors, di cui eromembro, per studiare le possibilisoluzioni. Nacque l’accordo cheportò alla creazione della monetaunica. È stato un grande passo inavanti, perché non si tratta di unfatto solo economico, monetario,ma politico. Il ragionamento cheabbiamo fatto è che Paesi che han-no una moneta comune sono ormaipoliticamente indivisibili. Ricordoancora il 1993 quando ero da pocoPresidente del Consiglio. Ai primidi giugno, Helmut Kohl mi te-lefonò e mi disse : “Dobbiamo ve-derci, perché non vieni a Bonn?”.Andai a Bonn. Fu la mia primamissione all’estero. Ricordo ancoral’emozione che provai quando mi

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intervista a C.A. Ciampi

(segue dalla pagina precedente)

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trovai a sentire in terra di Germa-nia il nostro inno nazionale, a ve-dere salire il Tricolore accanto allabandiera tedesca sul pennone dellaCancelleria. Poi ebbi il colloquiocon Helmut Kohl, lui e io soli.Helmut disse: “Fuori anche gli am-basciatori, non voglio nessuno”.Restò solo il suo fedele interprete.E lui mi rivolse secco questa do-manda: “Cosa ne pensi della mone-ta comune?”. Eravamo nella fasedecisiva per la sua creazione, Ri-sposi: “Guarda, al di là dei fattieconomici, se riusciamo a realizzarela moneta comune è un passo irre-versibile verso una maggiore inte-grazione europea; l’integrazione po-litica. Se non la realizziamo rischia-mo di bloccare il processo e di re-gredire. Ed allora, prima o dopo,riemergeranno i nazionalismi e glispettri degli anni Trenta.”. Kohldisse: “Sono perfettamente d’accor-do con te” – e aggiunse – “io sonoin grado, oggi, quando c’è ancoraun terzo della popolazione tedescache ha vissuto e conosciuto la guer-ra, di far accettare in Germania lamoneta comune e di abbandonareil Deutsche Mark. Se perdiamoquesta occasione non ce la faremomai più, e l’integrazione dell’Euro-pa non andrà più avanti!”. Quellofu un momento cruciale.

Il Trattato costituzionale Euro-peo oggi purtroppo ha avuto unaimpasse con i referendum negatividi Francia ed Olanda, ma sonoconvinto che questo momento do-vrà essere necessariamente supera-to. Non so come, non so se quelTrattato sarà modificato o snellito.Forse è troppo lungo, ma sono cer-to, andremo avanti, perché ènell’interesse fondamentale dellenuove generazioni. Per questo mirivolgo a voi. Per continuare civuole un rinnovato slancio ideale,che non può non partire da voigiovani. Discutete tra di voi, allora,dei problemi europei, parlate diqueste cose, perché, per voi, è undato di fatto che non ci siano guer-re in Europa, è un dato di fatto chepossiate viaggiare per l’Europa sen-za nessuna difficoltà. Una delle mienipoti ha studiato a Londra, aOxford, un’altra è a Grenoble,viaggiano per l’Europa in continua-zione, per loro è un fatto acquisito.La prima volta che mi mossidall’Italia, nel 1939, non so quantomi ci volle per avere il passaportoper andare in Germania, Paese al-leato. Eri obbligato, al momentodella partenza, pur avendo tutti ivisti, ad andare in questura a di-chiarare: “domani io parto e pren-do il treno della tal ora”. E mi ri-cordo che quando arrivai al Bren-nero fui bloccato perché per un di-sguido non era arrivato il telegram-ma che segnalava che io quella

notte su quel treno avrei passato lafrontiera. Fui costretto a scendere eripartire solamente quando, dallaquestura di Livorno, arrivò la con-ferma. Oggi voi viaggiate per l’Eu-ropa in tutta libertà, senza neanchela seccatura e l’onere di cambiare lamoneta. Sono benefici enormi,non solo economici, ma politici, dimodi di vivere. La mia esortazioneè allora di discutere e ragionare diquesti temi. Finita la mia attivitàistituzionale, mi sto impegnandosolamente per l’Europa, perché soche questo è l’avvenire.

E. CASTELLARIN Nel corsodei decenni che L’hanno vista pro-tagonista della nostra storia le ge-rarchie di valori hanno subito deicambiamento spesso profondi. Tal-volta, addirittura, possiamo definir-le delle rivoluzioni. Oltre al sensodi appartenenza al nostro Paese,che Lei ha ricordato più volte, aquali valori attribuirebbe un’impor-tanza prioritaria?

C.A. CIAMPI Approfonditel’essenza della nostra cultura. Lacultura europea, che poi è la cultu-ra occidentale, si basa tutta sullacentralità dell’Uomo, sui valoriche riguardano i rapporti tra uomi-ni: il rispetto dell’altro, il senso diappartenenza alla stessa comunità.La realtà europea ha le sue radiciprofonde nel Mediterraneo, è natalì: in Grecia, a Roma, da Romaall’intera Europa. Non c’è dubbioche, poi, la componente cristiana

che vi si è inserita costituisca unaltro fondamentale nostro valore.Trovo che la distinzione tra laici ereligiosi abbia poca importanza:l’importante è avere in comune ilsenso del rispetto dell’altro. Pococonta come lo si definisca, qualefede si professi fra credenti e non:ciò che conta è riconoscere agli al-tri gli stessi diritti che rivendichia-mo per noi stessi, rispettarsi reci-procamente. Questa è l’essenzadella nostra cultura, questi sono ivalori che ci accomunano, che su-perano ogni differenza. Questi so-no i valori dell’Italia e dell’Europa.Noi Italiani, poi, abbiamo la no-stra unità linguistica, e non dob-biamo dimenticare, qui che siamoin un ambiente di studenti, l’im-portanza della nostra lingua. Credoche la lingua italiana sia la linguache nei secoli è rimasta più uguale.Una volta mi divertii a leggere adun gruppo di persone la canzoneall’Italia del Petrarca e quella diLeopardi, e domandai quale fossedell’uno e dell’altro. Ebbi risposteincerte. Le parole, il linguaggio edi sentimenti sono gli stessi a di-stanza di tanti secoli. Questa è unadelle cose più rilevanti dell’Unitàd’Italia. Per questo mi sono tantoimpegnato, per questo dico che lescritte che si possono leggere sulVittoriano sono scritte fondamen-tali: “Per la libertà dei cittadini eper l’Unità dell’Italia.”. Sono que-sti i valori che ci caratterizzano,dei quali voi giovani dovete esseresempre più portatori e diffusori.

C.A. CIAMPI Vi ringrazio perl’incontro che mi avete offerto.Quando mi hanno comunicato chegli Allievi della Scuola SuperioreSant’Anna volevano rivolgermidelle domande scritte ho detto chepreferivo un incontro più vivo edimmediato. Mettersi a risponderealle domande per iscritto ha sem-pre una sua aridità. Rispondereguardando le persone negli occhi èun’altra cosa. Si comprende fra l’al-tro – credo – la sincerità delle pa-role altrui, quanto l’altro crede inciò che dice. A volte lo scritto nonriesce a rappresentare in pieno tut-to questo. Vi ringrazio, allora, peravermi dato questa opportunità,che mi ha riportato in un ambienteche visitai personalmente quandoera ancora in ricostruzione, e chesono ora lieto di vedere così benfunzionante. Mi hanno detto chesiete ben 350 Allievi, quindi assie-me ai 500 della Normale costituiteuna massa di 850 giovani. Questonumero riflette l’aumento della po-polazione universitaria.

Oggi, girando per le strade conmia moglie, facevo un confrontofra la Pisa del 1937 e la Pisa di og-gi, siamo rimasti impressionatidalla quantità di giovani incontra-ti. Noi, giovani universitari, allora(sessanta anni fa) eravamo unaminoranza. Oggi Pisa è una città“occupata dagli studenti”. Sietevoi Pisa…

Il Consiglio Direttivodell’Associazione Allievi

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Finito l’incontro con gli studenti... rimane solo da presentare al Presidente l’ultimo numero del Sant’Anna News

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Seduti accanto al capo villag-gio sugli sgabelli in vimini,siamo progressivamente cir-

condati dagli abitanti dell’accam-pamento, le donne avvolte nei co-loratissimi abiti tradizionali ciguardano curiose e parlottano traloro, gli uomini attendono in piedi,fumando, o accolgono sulle gambei loro bambini intimiditi. Noi salu-tiamo ricorrendo alle poche parolein sango che conosciamo, poi iltraduttore presenta lo sparuto grup-po di cui faccio parte che ha rag-giunto il comune di Mbaiki, nelmezzo della foresta equatoriale. Latensione subito si distende ed ildialogo si dipana tra le nostre do-mande ed i loro racconti, le loro te-stimonianze, i loro occhi attentissi-mi su di noi. I Pigmei Aka voglio-no sapere che ne sarà del progettoche li ha coinvolti per tre anni eche ora va volgendo al termine.

Una missione del neo-costituitoInternational Center for Conflictand Development Studies della

Scuola Sant’Anna è stata inviatanella Lobaye, una provincia meri-dionale della Repubblica Centrafri-cana (Paese stupendo dilaniato daotto anni di guerra civile) proprioper valutare il progetto “Rafforza-mento delle azioni di lotta controla discriminazione dei Pigmei Akain Repubblica Cenrafricana e valo-rizzazione della loro identità socio-culturale” e formulare raccomanda-zioni e suggerimenti sulla sua possi-bile continuazione. L’équipe di va-lutazione è stata inviata dallaScuola “Sant’Anna” su incaricodell’ONG COOPI (CooperazioneInternazionale), che ha realizzato ilprogetto in questione. L’obiettivoera stilare il rapporto di valutazionefinale del progetto attraverso unapprofondito lavoro di studio ed unperiodo sul campo. L’équipe eracomposta da Guus Meijer, valuta-tore professionista di progetti disviluppo e gestione dei conflitti edalla sottoscritta. Avevo vissutouna precedente esperienza in Re-

pubblica Centrafricana, l’estatescorsa, come stagista alla missioneONU di ricostruzione (per la pre-parazione del Diploma di Licenza),che mi ha permesso di prendereparte alla valutazione del progettocome assistente. Si è trattata perme di una straordinaria occasionedi apprendimento e crescita, chemi ha permesso di apprezzare ap-pieno la complessità di un’attivitàdi monitoraggio di un progettomolto esteso ed innovativo.

Gli obiettivi sottesi al progettointendevano andare ad incidere sul-la drammatica condizione dei Pig-mei Aka nel Paese. Similmente adaltri gruppi minoritari, i Pigmei su-biscono continue discriminazionida parte della popolazione Bantu(largamente maggioritaria in Re-pubblica Centrafricana). Gli Akasono un’etnia pigmea concentratasoprattutto in un’area transnaziona-le a cavallo tra la Repubblica Cen-trafricana, il Camerun ed il CongoBrazzaville. La cultura orale degli

Aka è stata dichiarata nel 1998 pa-trimonio mondiale dell’Unesco,evento che ha contribuito, da unlato, a dare una certa visibilità alleproblematiche di questo gruppo e,dall’altro, a scatenare forme di sel-vaggio sfruttamento da parte del go-verno. Non si può comprenderetuttavia la complessità della que-stione senza tenere presente che gliAka sono un gruppo fortemente va-riegato al proprio interno con rela-zioni profondamente diverse con la“modernità”. Su un ipotetico conti-nuum, si possono rintracciare: (po-chissimi) gruppi di Aka totalmentenomadi, che vivono di raccolta dibacche, caccia e pesca nella forestae si curano con la farmacopea tradi-zionale, in una società paritaria e direlazioni monogamiche; fino agruppi sedentarizzati o seminomadi,con constanti contatti con la popo-lazione Bantu, forme di matrimonimisti, fonti di sostentamento ibride(attività in foresta ma anche agri-coltura). I Pigmei sono insomma

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Una missione della Scuola SuperioreSant’Anna nella terra dei Pigmei

di Chiara Ruffa*

L'incontro con la comunità pigmea di Mpissa, Lobaye, Repubblica Centrafricana, a 60 km dalla capitale del Paese, Bangui.

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una popolazione in cambiamento,straordinariamente lontani da unacerta semplicistica immagine occi-dentale che li descrive come “uomi-ni bassi nudi della foresta”.

Questa eterogeneità in seno allapopolazione Aka differenzia forte-mente anche le forme di discrimi-nazione che si ritrovano a subire, aseconda della frequenza e della ti-pologia dei contatti con il resto deicentrafricani. I Pigmei Aka sonoresi schiavi, sfruttati, picchiati dal-la popolazione Bantu, non hannodiritto alla terra (perché sono per iBantu mezzi uomini, come suggeri-sce l’epiteto “pigmeo”), non posso-no vendere frutti del loro lavoro,non hanno facile accesso allescuole, né agli ospedali, subisconola rapida deforestazione della regio-ne (perpetrata da aziende centrafri-cane, francesi e cinesi). Non è raroincontrare centrafricani che possie-dono un certo quantitativo di Pig-mei (addirittura un funzionario del-la missione ONU in RepubblicaCentrafricana mi ha confidato dipossederne alcuni), è frequente chetali Pigmei vengano pagati (se pa-gati) in sigarette e bottiglie di alco-lici con devastanti conseguenze su-gli equilibri interni delle comunità.

Il progetto che ci siamo trovati avalutare ha provato ad agire su talecomplesso coacervo di problemi e siè posto nel corso degli ultimi treanni obiettivi ambiziosi e comples-si, che sono in parte stati adattati indivenire alle esigenze del contesto.L’attenzione era inizialmente rivol-ta alla sensibilizzazione dei PigmeiAka circa i loro diritti, attraversosessioni di formazione nei villaggisui principi di uguaglianza e non di-scriminazione sulla base dell’appar-tenenza etnica. Gli Aka, 16.000nella regione d’interesse del proget-to, avevano sicuramente bisogno diprendere coscienza dei possibilistrumenti di difesa dei loro diritti,eppure ancora più dovevano farlo ipadroni dei Pigmei, i Bantu,188.000 beneficiari indiretti. Unaseconda fase del progetto ha cosìcoinvolto più in generale tutti icentrafricani, Pigmei e non, sia a li-vello istituzionale sia a livello dellecomunità di base. Le direzioni delprogetto si sono pertanto ampliate.Alle sensibilizzazioni dei gruppi Pig-mei si sono aggiunte quelle verso lapopolazione locale, attraverso lafondazione di scuole miste (con rit-mi di insegnamento rispettosi deiritmi stagionali di entrambe la po-polazioni), l’organizzazione di spet-tacoli teatrali, un centro di promo-zione della cultura Aka, forme dicoordinamento tra i villaggi pigmeiper la partecipazione alla vita deivillaggi, redazione di atti di nascita.Inoltre, nella capitale del Paese,Bangui, sono stati coinvolti in ma-

niera crescente le istituzioni politi-che nazionali, l’università e le orga-nizzazioni internazionali, sia attra-verso attività di sensibilizzazione(conferenze, manifestazioni) sia at-traverso pressioni indirette ai finidella ratifica di strumenti interna-zionali di protezione contro la di-scriminazione delle popolazioni au-toctone (ad es. la Convenzione 169del 1989 della OIL). Questa serie diattività è stata coordinata da COO-PI (Cooperazione Internazionale),l’ONG italiana che ha incaricato laScuola Sant’Anna di redigere lavalutazione del progetto. COOPIha lavorato con finanziamenti pro-venienti all’80% dalla Divisione ge-nerale “Democratizzazione e DirittiUmani” della Commissione Euro-pea. Tuttavia, COOPI, che purevanta una presenza trentennale nelPaese, ha collaborato (come richie-sto dalle linee guida del principale

finanziatore) con alcuni attori loca-li, ovvero la Caritas centrafricana,fortemente presente nella diocesidella Lobaye, e l’OCDH (Observa-toire Centrafricaine des Droits del’Homme).

La valutazione ha richiesto unlavoro approfondito di indaginedelle condizioni reali di svolgimen-to del progetto attraverso numerosiincontri, collettivi e individuali (espesso con l’utilizzo del metodoSWOT) con l’équipe tecnica delprogetto, i partner, i funzionari deiMinisteri centrafricani coinvolti, ilrettore ed i professori dell’univer-sità, giornalisti, sindaci, capi villag-gio e soprattutto la popolazionepigmea. Attraverso un meticolosolavoro di raccolta di dati, analisi eriflessione, una dimensione valuta-tiva problematica come l’impattodel progetto sulla popolazione pig-mea si è riempita di contenuti. Na-

turalmente, sono emerse diversecarenze nell’inquadramento delprogetto, nei rapporti coi partner dilavoro, nell’eccessiva astrattezza delprogetto rispetto alle concrete ne-cessità degli Aka prostrati dal biso-gno (in una società centrafricanain endemica condizione di post-conflitto). In generale, tuttavia, ilprogetto ha perseguito obiettiviastratti eppure percepibili, nel di-namismo nuovo di tanti Aka, nelrifiuto ad essere ancora schiavi, nelmandare i figli a Scuola, nel tenta-re di vendere i loro prodotti dellaterra, nelle loro strenue e ricorrentirichieste di continuare con il pro-getto. Lungo il sottile crinale chesepara il diritto all’autodetermina-zione individuale degli Aka dallaforzata sedentarizzazione nel nomedello sviluppo, i risultati sono pre-senti e visibili, eppure fragilissimida mantenere.

Seduti accanto al capo villaggiosugli sgabelli in vimini, in quellasecca giornata d’Africa equatoriale,continuiamo ad ascoltare le testi-monianze, speranze e richieste de-gli Aka. All’improvviso, arrivanodue padroni Bantu e ci chiedonoperché stiamo parlando con deimezzi uomini. Prima ancora di po-ter spiegare, una signora Aka, conuna tunica rossa ed un fagotto dipochi mesi tra le braccia, si volta,lo guarda negli occhi e dice di ave-re il diritto di parlare in quanto “zokwe zo”, un essere umano.

Chiara Ruffa*Allieva Ordinariadi Scienze Politiche

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La comunità pigmea dopo l'arrivo di alcuni capi Bantu. Nella foto in basso: un momento di incontro con il capo del rag-gruppamento pigmeo di Mbaiki Lobaye, Repubblica Centrafricana, a 120 km dalla capitale Bangui.

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Page 14: S News 28 O - sssup.it€¦ · l’incontro è stato coordinato dagli ex-allievi Franco Mosca e Vincenzo Di Nubila e gli allievi hanno fatto il resto in modo superbo. Nell’aula

Il due settembre scorso mi trova-vo nell’area duty free del KotokaInternational Airport di Accra.

Grazie alla ben nota efficienza dellanostra compagnia di bandiera, eroreduce da un giorno“terrificante”,trascorso da accampata insieme adaltre trecento persone, in attesa cheil personale dell’Alitalia trovasse ilmodo di farci raggiungere finalmen-te le nostre destinazioni.

Come si sa, in queste circostanzela disperazione e l’arrabbiatura(c’era chi attendeva invano da tregiorni) aiutano a stringere cono-scenze che, se si è un po’ fortunati,sono destinate a durare nel tempo.Ero quindi in compagnia di ungruppetto di persone, che con la lo-ro allegria e cordialità erano riuscitiad alleviare i disagi della mancatapartenza, quando un uomo alto egrosso mi si è seduto accanto e, do-po aver scambiato qualche frase dicircostanza, mi ha chiesto: “E allo-ra? Cosa ne pensi del Ghana?”.

Devo confessare che la doman-da, per quanto banale, mi ha spiaz-zata. Posta di fronte a questo inter-rogativo secco, mi sono resa contodell’estrema difficoltà di racchiude-re in qualche proposizione strimin-zita le mie sensazioni nei riguardi diun paese che mi aveva ospitato per

circa due mesi.Sono arrivata ad Accra nella

notte del 28 giugno del 2006, pron-ta ad iniziare il mio tirocinio pressol’ITPPGG, il programma di alta for-mazione che – grazie ai finanzia-menti del nostro Ministero degliAffari Esteri e dell’UNDESA – ve-de la cooperazione della Scuola Su-periore Sant’Anna e del LegonCentre for International Affairs perla realizzazione di corsi di formazio-ne destinati a civili africani deside-rosi di operare nel contesto di ope-razioni multinazionali di pace. Lamia presenza era giustificata dal fat-to che, nell’agosto successivo, ilcentro avrebbe visto lo svolgimentodi un corso di formazione sulle pro-cedure di Disarmo, Smobilitazionee Reintegrazione (DDR), oggettodella mia tesi di laurea specialistica.Il mio compito sarebbe consistitoquindi nella partecipazione all’orga-nizzazione del corso, con particolareriguardo a tutto quanto concernessela didattica.

Le mie uniche certezze al mo-mento della partenza erano quellerelative agli impegni che avrei do-vuto fronteggiare, ma avrei scopertopiù tardi che tanto il mio stagequanto il Ghana mi avrebbero inqualche modo sorpreso. L’improvvi-

sa assunzione presso il Ministero de-gli Affari Esteri di una delle miedue colleghe avrebbe infatti vistoaumentare le mie responsabilità, matutta la fatica in più è stata piena-mente ricompensata dal meravi-glioso ambiente lavorativo e dallabuona riuscita del corso. Le gratifi-cazioni nel lavoro, inoltre, mi han-no permesso di affrontare con mag-giore entusiasmo la scoperta di unpaese straordinario.

Atterrata sul suolo africano, ilprimo caloroso “Akwaaba!” (ben-venuto) mi è stato dato dal mio fu-turo “capo”, l’international consultantdel programma, l’italianissimo Fe-derico Lagi. Al momento ovvia-mente lo ignoravo, ma in seguitoavrei compreso che lo spirito delGhana si potrebbe in gran parteracchiudere nel suono gioioso diquesto saluto di benvenuto che pa-re quasi abbracciarti e accoglierti.

Il Ghana è riconosciuto comeuno dei paesi africani più tranquillie la sua popolazione gode una fama,del tutto meritata, di simpatia eospitalità. Nel parlarvi però dellapatria delle Black Stars, preferireiraccontarvi gli aspetti apparente-mente più insignificanti, ma chepossono invece assumere un’impor-tanza sostanziale allorquando ci si

trovi a soggiornare in un paese stra-niero.

In primo luogo direi che unamenzione particolare va riservata alclima. Il mio soggiorno si è svoltoin piena stagione delle piogge, laqual cosa presentava ovviamentel’aspetto piacevole di una tempera-tura assai tollerabile. Accanto aquesto però va detto che laggiùquando comincia a piovere nonscherza affatto, la sensazione è cheti stiano crollando addosso tutte leriserve d’acqua di cui il cielo di-sponga. La cosa straordinaria è cheperò, anche dopo una settimana dipioggia torrenziale senza sosta, èsufficiente circa mezzora di sole per-ché il terreno torni ad essere assolu-tamente asciutto.

Questa considerazione ci condu-ce immediatamente ad affrontareun altro aspetto fondamentaledell’Africa in generale e del Ghanain particolare: le strade. Le vastestrade del Ghana, il più delle voltenon asfaltate, sono completamentericoperte da un terriccio rossiccioassai bello a vedersi, ma assoluta-mente impossibile da levar via. Ilcontatto continuo con questa pol-vere color mattone è uno dei ricor-di più vivi e “indelebili” del Ghana.Ho dovuto infatti dire irrimediabil-

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“Akwaaba! Benvenuta in Ghana”La mia esperienza nella Costa d’Oro

di Manuela Torre*

Imbarcazioni tipiche a Pram Pram beach.

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mente addio ad una decina di calzi-ni e ad un po’ di pantaloni da cui il“rosso d’Africa” non ha voluto asso-lutamente andar via. Va detto peròche non me la sono sentita di farelo stesso, per ragioni affettive, conle mie scarpe da ginnastica, che mihanno fedelmente accompagnatodurante le mie interminabili cam-minate.

Altra caratteristica fondamenta-le delle strade in questione sono deiprofondi canali che le attraversanolateralmente, destinati a raccoglierel’acqua piovana, ma anche, nei fat-ti, un notevole quantitativo di im-mondizia, insieme a svariate decinedi galline e capretti. I suddetti ca-nali sono inoltre stati elevati dallapopolazione al rango di bagni pub-blici Tale pratica, induce il viaggia-tore a fare molta attenzione durantele proprie passeggiate, il rischio èinfatti quello di venire letteralmen-te “colpito” in pieno.

Già che siamo in tema di tra-sporti e affini, particolare menzionemeritano indubbiamente le centi-naia di taxi che, insieme ai tro-tro,intasano le strade di Accra. Prende-re un taxi è estremamente semplice,sono tantissimi e appena vedono unpossibile cliente cominciano astrombazzare a più non posso e perdi più, se questi è un bianco (quindipromessa di un maggior guadagno),molto probabilmente si sporgeran-no dal finestrino e cominceranno agridare “obruni, obruni!”, che lette-ralmente significa, per l’appunto,persona bianca. Una volta indivi-duato il taxi meno malandato co-mincia la trattativa per il prezzo. Bi-sogna sottolineare però che in Gha-na non esistono indirizzi, o meglio,anche se ci sono nessuno li cono-sce, tassisti compresi. Questo fa sìche molto spesso sia lo stesso pas-seggero a dover indicar loro la stra-da. I tassisti infatti non ti dirannomai di non sapere dove si trova undeterminato posto, per cui bisognaessere preparati a tutto. Discorso di-verso vale invece per i tro-tro e icossidetti shared taxi che viaggianoper tappe prefissate. Questi sono iprincipali mezzi di locomozione inGhana e sfrecciano a velocità proi-bitive col loro carico di gente pigia-ta fino all’inverosimile.

La vita di uno straniero nellavecchia Costa d’Oro è indubbia-mente stimolante e piacevole, manon manca di presentare inconve-nienti, soprattutto se si è delle ra-gazze. Già dopo circa tre giorni hosmesso di contare le proposte dimatrimonio. Non crediate che ciòsia dovuto ad una mia particolareavvenenza (ma figuriamoci), è piut-tosto lo “scotto” che bisogna pagareper essere una obruni. Sebbene que-sta prassi all’inizio possa essere an-che divertente, ci sono momenti in

cui può risultare piuttosto snervan-te. Ragion per cui ho deciso di ov-viare al problema comprando, perl’irrisoria cifra di 3,000 cedis, unafede finta, ma piuttosto convincen-te, e sono diventata automatica-mente madre di due gemelli che miaspettavano a casa insieme al papà.Sebbene possa sembrare un escamo-tage stupido ha funzionato abba-stanza bene. A differenza dei ganesi,però, la fede poco è servita con al-cuni esponenti della ricca minoran-za libanese che da anni ormai risie-de nel paese occupandosi soprattut-to di attività commerciali.

Al di là però di questi piccoli in-convenienti di poco conto, insiemecon qualche disavventura che hamesso a dura prova il mio sanguefreddo (ma su questo è meglio sor-volare), i “miei” due mesi ganesi so-no stati eccezionali per una serie diragioni. In primo luogo mi pare do-veroso menzionare la vittoria italia-na ai mondiali di calcio che ho vis-

suto insieme ad un nutrito gruppodi compatrioti presso la residenzadel nostro ambasciatore, che ringra-zio ancora per averci messo a dispo-sizione un fantastico mega-scher-mo, ma soprattutto dei prelibatissi-mi tortellini e delle meravigliose ta-gliatelle. Non che in Ghana simangi male. Certo, una fanaticadella linea vivrebbe in questo paesemomenti da incubo dal momentoche è assolutamente impossibile in-gerire qualcosa di ipocalorico. Deivari piatti tipici - banku, fufu, yam,kenkey, jollof - il mio preferito in as-soluto è il red red, ossia una porzio-ne di riso accompagnata da bananelegume fritte in olio di palma (me-ravigliose) ed un miscuglio di fagio-li rossi e pesce fritto il tutto letteral-mente inzuppato nel suddettoolio…leggero, no?

Il cibo mi fa venire in menteuna delle tante persone meraviglio-se che ho avuto il privilegio di in-contrare nel corso del mio tiroci-

nio. Si tratta di “Tantalising Lui-se”, una donna di etnia Ewe che siguadagna faticosamente da viverecucinando dolcetti e piatti tradizio-nali e vendendoli nel campusdell’università. L’immagine dellamia madanfo (amica) Luise col suocarico di cibo in testa è una delleistantanee più belle di un paese cheha tantissimo da offrire. Le costebattute dal vento, un tempo princi-pali porti della tratta degli schiavi,la natura rigogliosa e violenta, lepiantagioni di cacao e i villaggi conle capanne fatte di paglia e sterco,si sovrappongono ai mercati stra-colmi di gente e sporcizia, ai bam-bini saltellanti per strada, agli inta-gliatori di legno e, soprattutto, alsorriso contagioso e ai balli dellagente del Ghana. Lavorare lì, seb-bene per un periodo abbastanzabreve, mi ha permesso di confron-tarmi (e a volte, a dover essere sin-cera, a scontrarmi) con un approc-cio al lavoro e alla vita completa-mente diversi. Questa esperienza,costellata anche da momenti diffi-cili e da un po’ di stanchezza dovu-ta alla mancanza assai frequente diacqua, energia elettrica e della con-nessione a internet, è stata sicura-mente impagabile. Mi ha permessonon soltanto di migliorare le miecapacità relazionali e professionali,ma soprattutto mi ha consentito dicogliere sino in fondo la veridicitàdell’affermazione di uno degli auto-ri preferiti della mia infanzia, MarkTwain, “i viaggi sono rimedi infal-libili contro i pregiudizi, l’ignoran-za e la meschinità”.

Manuela Torre*Allieva ordinaria

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Cerimonia d'apertura del training course on Disarmament, Demobilization and Reintegration (14 Agosto 2006).

I partecipanti al corso durante una simulazione

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Riportiamo in questo numeroun’altra testimonianza del chirurgoplastico Daniele Gandini che dopo set-te missioni chirurgiche umanitarie inAfrica si è recato per la terza volta adoperare in Tibet.

La mia missione chirurgica diquest’anno con InterplastItaly, l’associazione di volon-

tariato in chirurgia plastica rico-struttiva di cui faccio parte, si èsvolta a Yushu, una piccola cittàsperduta sull’altipiano tibetano, acirca quattromila metri di altitudi-ne, nella regione del Quinghai (Ci-na).

Yushu si trova in una zona nonfacile da raggiungere, essendo colle-gata al resto del mondo solo da unaunica strada non asfaltata, spesso allimite del praticabile, di circa millechilometri, percorribile in non me-no di diciassette ore, che arriva aXining, città della Cina occidentaleche a sua volta si raggiunge daShanghai, con scalo a Chengdu concinque ore di volo e due cambi ae-rei; a questo vanno poi aggiunte letredici ore per il tratto Pisa-Milano-Shanghai.

La strada da Xining a Yushu at-traversa distese deserte e passi dimontagna spesso molto alti (fino acinquemila metri) ed è molto disse-

stata a causa delle frequenti franecausate dalle piogge monsoniche.

Lungo il percorso si incontranoinnumerevoli cantieri stradali dovelavorano per mesi e mesi, notte egiorno, centinaia di operai (spessopiu donne che uomini…) che prati-camente a mano, senza nessun mez-zo meccanico, cercano di rendere lastrada transitabile.

Questo ultimo tratto del viaggiolo abbiamo percorso a bordo di duevecchie autoambulanze cinesi e uncamion per il materiale sanitario(circa 100 scatoloni contenentitutto il necessario per operare) ri-partendo da Xining in Cina, allecinque di mattina per arrivare fi-nalmente a Yushu alle dieci di se-ra, dopo 45 ore dalla partenzadall’Italia.

Sia durante il viaggio che a de-stinazione, l’ altezza elevata ha resonecessaria da parte dei componentidel team, l’assunzione di particolarifarmaci come l’acetazolamide, undiuretico usato anche nell’alpini-smo estremo, per prevenire l’insor-genza del cosiddetto mal di monta-gna che può insorgere svolgendouna intensa attività fisica a quellealtitudini senza periodo di adatta-mento, e dovuto alla rarefazionedell’ossigeno nell’aria oltre i quat-tromila metri

Il team di interplast Italy di que-st’anno, oltre che da me era compo-sto da altri due chirurghi plastici(torinesi) Giancarlo Liguori, (vice-presidente dell’associazione e teamleader della missione), e DanieleBollero; da due anestesisti, LauraCeretto e Maurizio Turello di Tori-no da due infermiere strumentistedi sala operatoria, Valentina Lan-cellotti (Pisa) e Roberta Ferro, daun medico internista e da un pedia-tra (Adolfo Scala e Franco Garofa-lo) e da una collaboratrice, la gior-nalista milanese Renata Prevost.

La partecipazione della strumen-tista pisana, in servizio presso lachirurgia generale di Cisanello èstata possibile grazie alla disponibi-lità del prof. Franco Mosca, diretto-re della Clinica pisana, che attra-verso l’associazione Arpa da lui di-retta ha inoltre provveduto intera-mente alle spese di viaggio dell’in-fermiera.

Interplast Italy infatti, essendouna associazione Onlus, sopravviveed opera grazie a donazioni che legiungono da enti, associazioni, clubdi servizi ed anche privati cittadiniche con la loro generosità permet-tono ai chirurghi plastici di andaread operare chi ne ha bisogno.

Gia in precedenza ci eravamo re-cati ad operare in Tibet: l’anno

scorso nella città di Lhasa, e nel2004 a Shigatze, nella regione meri-dionale del paese, per un totale,con quest’anno, di 380 pazientioperati, prevalentemente bambini.

Questa nostra ultima missione,durata 20 giorni e conclusasi l’8 diagosto, si è svolta presso il piccolo“Yushu Prefecture Hospital”, l’uni-co della cittadina di Yushu, che, acausa del suo isolamento geografico,ha ben pochi contatti con il restodel paese e tantomeno con il mon-do occidentale, tant’è che nessuno,né pazienti né personale sanitariodell’ospedale, a qualunque livello,parlava una sola parola di inglese; icontatti con le persone sono statiperciò possibili solo grazie a duegiovani interpreti tibetane, Tory eJudith che in inglese ci facevano datramite con pazienti, genitori deibambini da operare e con i medicilocali, che parlavano esclusivamen-te tibetano o cinese (lingue com-pletamente diverse tra loro e a noiincomprensibili).

Anche a Yushu, potendo operarecontemporaneamente su due lettioperatori, come nelle precedentispedizioni tibetane di InterplastItaly, siamo riusciti a portare a ter-mine, senza complicanze, 120 inter-venti in 13 giorni di attività chirur-gica (i primi giorni, all’arrivo, sonosempre dedicati all’allestimentodella sala operatoria, alla prepara-zione del materiale e allo screeningdei pazienti, che informati dell’arri-vo dei chirurghi plastici, arrivanosempre in gran numero).

In questo caso si trattava di per-sone molto povere, perlopiù alleva-tori seminomadi di yak (e dzo, laversione domestica dello yak dimontagna) che con le loro tende, leloro famiglie e gli animali, si sposta-no in estate per le valli tibetane percercare i pascoli migliori; sono per-sone semplici e povere ma moltofiere, che sopravvivono con un red-dito annuo pro capite di poco più di200 euro, che vivono in comunitàin continuo movimento e si ferma-no al mercato di Yushu a venderelatte, carne, yogurt e burro di yak;tanti di loro appartengono all’etniaseminomade dei Kampa, con bellis-sime e antichissime tradizioni, ve-stiti dai colori sgargianti, monili co-loratissimi di turchese, ambra e co-rallo e grandi pugnali con manicod’osso in cintura (sia gli uomini chele donne).

Da Pisa a Yushu per curare i bambiniIl racconto di un chirurgo sull’altipiano tibetano

di Daniele Gandini*

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In alto: foto di gruppo con le famiglie di Yushu assistite dell’équipe medica di Interplast Italy il giorno dei ringraziamenti edegli addii. Nella pagina a fianco: Daniele Gandini tranquillizza un bambino in attesa di essere operato al labbro.

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Queste povere persone sono pra-ticamente senza assistenza sanitariae non potrebbero mai permettersile centinaia di euro necessarie perportare ad operare i loro bambiniin Cina, infatti, dal grandissimonumero di casi da trattare, abbiamoconstatato che a parte rarissimi ca-si, l’unica possibilità che hanno perguarire da malformazioni, ustioni ecicatrici deturpanti è quella deimedici volontari di Interplast.

A Yushu abbiamo operato pa-zienti di tutte le età, ma i bambini,spesso anche di pochi mesi, erano ipiu numerosi.

La patologia piu frequente (78casi su 120) è stata ancora una vol-ta la labiopalatoschisi (il cosiddettolabbro leporino) una grave malfor-mazione congenita della faccia do-ve il labbro e il palato fessurati nonconsentono a questi bambini diparlare e mangiare correttamenteoltre a provocare un grave dannoestetico. Abbiamo poi operato mol-te malformazioni della mano comela sindattilia (dita fuse insieme) ola polidattilia, cioè le dita sovran-numerarie; anche interventi comequest’ultimo, apparentemente diminor importanza, possono esserefondamentali per quella gente; hoinfatti operato una ragazza diciot-tenne che a causa di un pollice ri-curvo in più non riusciva a munge-re bene gli yak, e per questo moti-vo, non era considerata da nessunoai fini del matrimonio, dato che inquella realtà uno dei compiti svoltidelle donne, oltre accudire ai figli ealla tenda-casa, è quello di munge-re gli animali; ecco che un inter-vento per noi qui in Italia semplicee spesso superfluo, puo risolvere, inquelle zone, la vita ad una persona.

Altra patologia molto frequentein quella regione sono gli esiti cica-triziali da ustione, spesso molto gra-vi, che se non trattati con inter-venti di chirurgia plastica possonoimpedire il movimento e quindiuna vita normale alle persone,

Tutte queste patologie, sia con-genite che acquisite, se non trattatecon interventi di chirurgia plasticaricostruttiva rendono queste perso-ne incapaci sia di inserirsi nel mon-do del lavoro sia di avere una nor-male vita di relazione, con conse-guenze immaginabili ovunque, main particolar modo in una remotaregione dell’altipiano tibetano del-la Cina del nord-ovest.

Daniele Gandini*Dirigente Medico di 1° livello

nella Divisione di Chirurgia Plasticadell’Azienda Ospedaliera Pisana

a Cisanello, membro del comitatomedico di Interplast Italy.

[email protected]

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Nei paesi poveri centinaia dibambini portatori di malfor-

mazioni, esiti di ustioni, neopla-sie, sono destinati a una vita diabbandono e di emarginazione.

Là dove è difficile garantire lavita, è impensabile ricercarne unminimo di qualità. Chi può so-pravvivere, a volte è consideratofortunato, anche se deforme.

Ecco allora che uno strumentocome la chirurgia plastica rico-struttiva, nota ai più solo come unlusso e spesso confusa con la chi-rurgia estetica, può diventare spe-ranza di nuova vita per coloro chesono destinati all’emarginazione.Nei paesi poveri, infatti, questaspecialità è pressoché sconosciutae comunque inaccessibile ai pove-ri, come molte altre specialità me-diche. Sono queste le ragioni e gliscopi per cui è nata Interplast.

Interplast è un’organizzazioneinternazionale di solidarietà socia-le senza fini di lucro, composta dapersonale medico e paramedico:chirurghi plastici, anestesisti, pe-diatri, infermieri. Fondata nel1969 da Donald Laub, professoredi chirurgia plastica ricostruttivaalla Stanford University di PaloAlto (USA), Interplast si è poitrasformata in una organizzazioneinternazionale alla quale ogni an-no si sono associati sanitari e vo-lontari di ogni settore professio-nale. In Europa esiste in Italia,Francia, Olanda e Germania.Chirurgia plastica nei paesi delterzo mondo significa interveniresu gravi malformazioni del volto,labiopalatoschisi (il cosiddettolabbro leporino) sia in età neona-tale che in età adulta, altre

malformazioni dell’estremo cefali-co, sia congenite che acquisite co-me quelle del padiglione auricola-re e delle palpebre, importanti eseveri esiti di ustione, tumori dienormi dimensioni mai trattati,malformazioni dei genitali e degliarti, gravi traumi del volto e cica-trici detraenti ed invalidanti.

Interplast risponde attivamen-te alle richieste di aiuto privile-giando i bambini ed i pazienti conle patologie più gravi per offrireloro la possibilità di avere una vi-ta normale: non si limita ad assi-stere i pazienti nei loro paesi diorigine, poiché quando l’inter-vento da effettuare è particolar-mente complicato e richiede par-ticolari attrezzature, il paziente edi familiari vengono ospitati nelluogo dove ha sede Interplast pergarantire loro una più completaed adeguata assistenza.

Interplast Italy è nata nel 1988a Bologna, sotto la direzione diPaolo Morselli, chirurgo plasticobolognese, attuale presidentedell’Associazione: InizialmenteInterplast Italy era composta da 5persone. Oggi sono circa una ven-tina coloro che dedicando il lorotempo libero o le loro ferie di di-pendenti ospedalieri, collaboranoattivamente.

Interplast Italy ha già portato atermine circa 40 missioni in varipaesi del mondo: Zambia, Tibet,Honduras, Bangladesh, Albania,Perù, Cina, Thailandia, Togo,Bolivia, ecc…riuscendo ad opera-re, in 17 anni di attività circa4500 pazienti. Una spedizione du-ra mediamente tre settimane, mail contatto fra medici ed infermie-

ri locali continua anche dopo ilrientro in Italia del team di Inter-plast Italy. I pazienti che hannosubito un intervento di chirurgiaplastica ricostruttiva, infatti, ne-cessitano di una attenta cura neldecorso postoperatorio ed i sani-tari locali non solo vengono so-stenuti da tutte le indicazioni utilima vengono anche seguiti a di-stanza, via internet, dallo staff diInterplast Italy.

Interplast Italia ha avuto a Pisafin dal 1995 come suoi attivimembri Paolo Santoni Rugiu (giàprimario della Chirurgia Plasticadell’Ospedale S. Chiara) e Danie-le Gandini (chirurgo plasticopresso la Divisione di ChirurgiaPlastica all’ospedale Cisanello diPisa) che insieme, si sono recatiprima per sette anni, per circa unmese l’anno ad operare all’estero,a Lusaka in Zambia (Africa Cen-trale) presso un piccolo ospedalemissionario – lo Zambian ItalianHospital for Handicapped Chil-dren e successivamente in altreparti del mondo:

Il prof. Paolo Santoni infatti,dopo la settennale esperienzazambiana, ha poi operato in Iraqdurante i primi tre mesi dellaguerra, e, successivamente, inCambogia, presso l’ospedale diBattambang, come chirurgo di In-terplast in cooperazione con l’as-sociazione Emergency.

Il dott. Gandini invece, dopolo Zambia ha poi prestato la pro-pria opera di chirurgo plastico diInterplast Italy, in Tibet (Cina),prima a Shigatze nel 2004, poi aLhasa nel 2005 ed infine,quest’anno a Yushu.

Cos’è Interplast Italy (www.interplastitaly.it)

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Passeggiare sulla Fifth Avenue,pattinare al Rockefeller Cen-ter, ammirare dal vivo i capo-

lavori del Museum of Modern Art edel Metropolitan Museum, veleggia-re all’ombra della Statua della Li-bertà, calarsi nell’atmosfera horrordella notte delle streghe… Questo emolto altro ci ha regalato il “viaggiodi settore”, un’opportunità imperdi-bile, che il Sant’Anna offre ad ogniallievo durante il suo corso di studiper arricchire la propria esperienzaformativa.

La scelta degli Stati Uniti è statadettata da diverse ragioni: Paeseall’avanguardia nella ricerca e nellaclinica, ricco di strutture e di mezzimessi a disposizione di una comu-nità scientifica brillante e multietni-ca, non ha tradito le nostre entusia-

stiche aspettative. Nonostante ilprezioso e costante aiuto del prof.Fabio A. Recchia, docente di Fisio-logia presso la Scuola e presso ilNew York Medical College diValhalla, New York, tutor di moltidei partecipanti al viaggio, non so-no mancati, durante la fase organiz-zativa, ostacoli ed imprevisti. La dif-ficoltà principale si è rivelata lascarsa disponibilità delle impegna-tissime istituzioni contattate a dedi-care energie alla nostra visita, in unmondo in cui il tempo è (davvero)denaro. È venuto in nostro soccorsoil prof. Franco Mosca, che ci ha in-coraggiato a cercare la collaborazio-ne di ex allievi che da tempo lavo-rano negli Stati Uniti. Abbiamo,così, contattato il prof. Fabrizio Mi-chelassi, Lewis Atterbury Stimson

Professor of Surgery, Chairman delDipartimento di Chirurgia al WeillMedical College della Cornell Uni-versity e Surgeon-in-Chief al NewYork Presbyterian Hospital-WeillCornell Medical Center di NewYork, e la prof.ssa Ernestina Schipa-ni, Assistant Professor of Medicinedella Harvard Medical School diBoston. È proprio questa una dellepossibilità offerte dal “Progetto Re-te”, che si propone di creare unnetwork in grado di avvicinare allie-vi ed ex allievi, perché i primi pos-sano beneficiare dell’esperienza dichi li ha preceduti sui banchi delSant’Anna. Le tre settimane tra-scorse tra New York e Boston sonostate dense di incontri, conferenze,visite, attività di laboratorio, a diret-to contatto con personalità di indi-

scusso prestigio scientifico, dal cuicarisma e dalla cui cordiale disponi-bilità siamo stati piacevolmente sor-presi. Non immaginavamo certo dipoter pranzare con il prof. Moses Ju-dah Folkman, protagonista deglistudi sull’angiogenesi e pioniere del-la loro applicazione clinica, special-mente in ambito oncologico.

Il prof. Michelassi, uno dei refe-renti dell’Associazione per il Norda-merica, è stato il nostro punto di ri-ferimento a New York: senza il suoimpegno non avremmo potuto co-noscere dall’interno le tante realtàdel New York Presbyterian Hospital,uno dei più prestigiosi centri ospeda-lieri a livello mondiale, e soprattuttonon avremmo potuto partecipare alcongresso “Lymphoma & Myelo-ma”, tenutosi nella stupenda cornicedel Waldorf Astoria, il più antico edelegante hotel di Manhattan.

A Boston la prof.ssa Schipani ciha aperto le porte dell’esclusivo e“blindato” mondo di Harvard, sve-landoci i segreti dei più recenti epromettenti progetti di ricerca delDipartimento di Endocrinologia delMassachusetts General Hospital.

Nelle parole di questi affermatiex allievi abbiamo riconosciuto ilforte senso di appartenenza che li le-ga al Sant’Anna, lo stesso che uni-sce saldamente noi allievi e che vor-remmo un giorno saper comunicareagli allievi di domani.

Giovanni ColucciaChiara Cremolini

Federica SaponaroAlberto Tulipani

*Allievi del Settore di Medicina

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Undici allievi alla scoperta della Grande Meladi G. Coluccia, C. Cremolini, F. Saponaro, A. Tulipani*

Il prof. F. Michelassi con gli undici allievi partecipanti al Viaggio di Settore: da destra, Gabriele Ricco, Giovanni Coluccia, Alberto Tulipani, Chiara Cremolini,Carlotta Martini, Sara Ramacciotti, Marianna Di Filippi, Michela Faggioni, Giuseppe Vergaro, Federica Saponaro e Luigi Pastormerlo.

Nella foto di gruppo, da destra: Chiara Cremolini, Luigi Pastormerlo, Michela Faggioni, la professoressa Ernestina Schi-pani, Federica Saponaro e Marianna Di Filippi. Un ricordo della visita degli allievi a Boston.

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Cari amici e amiche, alcuni giorni fa,il 12 dicembre, ho avuto il piacere el’onore di essere presente - nel lasplendida cornice di palazzo Farnese -alla cerimonia con cui l’ambasciatoredi Francia in Italia, a nome del presi-dente della repubblica francese, haconferito al nostro socio Enzo Avanzil’onoreficenza di “Chevalier de l’Or-dre National du Merite”, uno dei ri-conoscimenti più alti dello stato fran-cese. Nel discorso dell’ambasciatore,che di seguito vi riporto, è contenutain sintesi la “storia” di Enzo e vienemesso ben in luce il contributo da luidato, e che seguita a dare, al dialogosociale europeo ed alla costruzione diun mondo migliore, con la passione el’impegno di un vero rotariano. A luied a Annie un grazie ed un abbraccioda tutti noi.

“Sono felice di accoglierequesta sera a Palazzo Far-nese una delle personalità

tra le più rappresentative dello spi-rito europeista dell’Italia e deglisforzi per promuovere in modo con-creto questo progetto comune chenoi tutti vogliamo portare avanti.Osservo con piacere che questa ce-rimonia riunisce attorno a Lei , caroPresidente, numerosi amici e colle-ghi. Saluto in particolar modo Suamoglie Annie, che da Lille e dalNord della Francia ha fatto il durosacrificio di seguirLa in Italia.Cari amici, mi consentirete di pro-seguire il mio discorso in francese,una lingua che tutti voi conoscete osiete in grado di capire.A vous tous qui êtes venus manifes-ter ici votre amitié à Enzo Avanzi,je voudrais dire en quelque motspourquoi la France a voulu l’hono-rer. Européen convaincu, hommede dialogue, vous n’avez jamais ces-sé d’être un acteur engagé et exi-gent. Permettez- moi donc de reve-nir quelques instant sur votre par-cours.1- Après une licence en droit àl’Université de Pise et des études aucollège juridique de la prestigieuseEcole normale supérieure – qui lais-sera en vous une soif intense de sa-voir, vous vous engagez dans unecarrière universitaire en 1967.Mais, pour intellectuel que vousêtes, vous avez besoin de vousconfronter à l’action concrète etaux réalités du terrain. Vous ralliezalors, en tant que conseiller juri-dique, l’association patronale IN-TERSIND qui gère les entreprisessidérurgiques à participation d’Etat.C’est à ce titre que vous avez vécules grandes mutations de l’industrie

publique, en particulier dans la si-dérurgie avec les difficiles restructu-rations du début des années 80 quivous ont confronté, comme tantd’autres, à une question centrale :comment rendre socialement ac-ceptables des adaptations écono-miques indispensables?Vous avez à cette époque constituéla première Agence du Travail sousforme de société par action pour gé-rer la mobilité des travailleurs ensurnombre dans les entreprises sici-liennes en crise. Dialogue social,concertation et paritarisme : voilàles lignes de conduite que vous vousêtes imposées depuis cette période.2- C’est donc tout naturellement,cher Enzo Avanzi, que vous deve-nez l’un des pionnier du dialoguesocial européen initié par JaquesDelors en 1985. Vous présidez eneffet aux destinées d’une organisa-tion le Centre Européen des entre-prises à participation publique(CEEP), qui sera l’un des trois ac-teurs de ce dialogue engageant lespartenaires sociaux européens sur lavoie d’un espace contractuel auto-nome, complémentaire de l’espacelégislatif. En tant que Président ducomité pour le dialoguesocial de ce centre, vous avezcompté parmi les négociateurs del’accord du 31 octobre 1991, quideviendra le Protocole Social duTraité de Maastricht – contribuantainsi à faire passer les partenairessociaux européens d’un rôle passifd’observateurs à un véritable rôled’acteurs.

Cette période fut celle d’une grandecomplicité avec Jaques Fournier,alors Président du Centre européendes entreprises à participation pu-blique et de la SNCF.C’est sous son impulsion que vousavez pu mener à bien, en septembre1990, le premier accord-cadre euro-péen avec la Confédération euro-péenne des syndicats, portant sur laformation professionnelle initiale,les nouvelle technologies, l’amélio-ration de la sécurité et l’égalitéentre les hommes et les femmes,dans deux secteurs-clés que sont letransport ferroviaire et la distribu-tion d’énergie.Votre engagement au service desentreprises à participation publiquene pouvait par ailleurs que dévelop-per votre sens naturel de l’intérêtgénéral. Que ce soit en Italie ou àBruxelles, vous avez toujours défen-du le rôle de ces entreprises commeélément central du modèle socialeuropéen, permettant l’accès detous les citoyens à des services es-sentiels et assurant la cohésion so-ciale et territoriale de nos pays.Nous n’oublions pas que vous avezeu un rôle décisif dans la prise encompte de cette réalité dans le tex-te du traité constitutionnel euro-péen et que vous avez contribué à larédaction d’une Charte des servicesd’intérêt général élaborée par votrecentre et par la Confédération eu-ropéenne des syndicats.3- Permettez-moi enfin, cher EnzoAvanzi, de rendre hommage à l’unede vos qualités les plus appréciées :

la passion du savoir, le sens de lapédagogie, l’engagement en faveurde la formation. Puisque le savoirconstitue le principal facteur deprogrès et d’émancipation, la for-mation tout au long de la vie estdonc une évidence – que vous avezportée haut tout au long de votreparcours, du monde de l’entrepriseà l’Europe. Dès 1987, vous avezdonc mis en place le premier orga-nisme paritaire pour la réalisationde projets conjoints dans les do-maines de l’orientation et de la for-mation professionnelle. Votre am-bition vous a même conduit à œu-vrer, même si le contexte financierfut hélas défavorable, pour l’expéri-mentation d’un Centre européenqui, auprès de l’Institut Universitai-re Européen de Florence, réunissaitpour des cycles de formation detrois semaines des dirigeants d’en-treprises et des syndicalistes de dif-férents pays. J’ajoute que vousn’avez jamais cessé ni votre activitééditoriale, ni votre activité d’ensei-gnement – restant fidèle à un pro-verbe chinois que vous faites vôtre :“ Si tu veux une année de prospéri-té, cultive du riz. Si tu veux dix an-nées de prospérité, cultive desarbres. Si tu veux cents ans de pros-périté, éduque des hommes”.Monsieur Enzo Avanzi, au nom duPrésident de la République, nous vousremettons les insignes de Chevalier del’Ordre national du Mérite.”

Yves Aubin de La Messuzière*Ambasciatore di Francia in Italia

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“Monsieur Enzo Avanzi, au nom du Président...”di Yves Aubin de La Messuzière*

L’Ambasciatore di Francia insignisce Enzo Avanzi dell’ordine di “Chevalier de l’Ordre National du Merite”

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Cosa fa dire comunementebella una fotografia. Pensosia soprattutto un bisogno,

il bisogno che essa risponda foto-genicamente ai comuni canoniestetici, consentendo così a chi laguarda un riconoscimento di sé edella propria visione del mondo:sarà “bella”, allora, quell’immagi-ne che appaga lo sguardo ora sullanatura, meglio se opportunamentecolorata, ora sulle accattivantiforme dell’umano, magari sui pic-chi dello sfarzo e della miseria, osui personaggi e miti di riferimen-to quotidianamente somministra-tici dai media, o ancora, su cose diieri spalmate dalla nostalgia deltempo. Il bello pare infatti risie-dere nella rassicurante confermadi ogni convenzione, nell’invo-lontaria spinta a identificarsi conil celebre, concorrendo così adaccrescerne la celebrazione.

Ma dov’è allora, mi chiedo, loscarto, la fantasia.

Mi occupo di narrativa fotogra-fica e sono interessato a quel ge-nere di immagini che, pur docu-

mentando la realtà, colta in unafrazione di secondo, non ne sianoprigioniere, ma riescano a tra-scenderla per andare oltre, magari

rompendo le regole degli equilibricompositivi preesistenti. Quindi,una fotografia non ancella di altrilinguaggi, che affermi la sua auto-nomia a partire dalla scelta dellastoria da raccontare, secondo mo-di e tempi sicuramente lontani daquelli propri della committenza.Credo infatti che solo ai contenu-ti della storia spetti di decidernesia i percorsi sia la stessa conclu-sione: come accade ad una buonapagina di letteratura, così ad unbuon fotolibro, naturale luogo diaccoglienza per racconti di ampio

respiro, esigenti una strutturazio-ne “narrativa”, con tagli in capi-toli, e titolature, impaginazione,grafica, didascalie ed epigrafi, benponderate.

In altre parole, una bella foto-grafia deve far pensare, e risve-gliare, pur testimoniando il sensodell’umano, una certa parte di noiche comunica con l’inconscio.

Forse anche per questo, apprez-zo e mi attrae quell’immagine, cuipoi ambisco, che tende ad elevareil familiare a mistero, riscattandolo sguardo dal torpore dell’ovvio,attraverso lo stupore, l’incanto, maanche l’energia, presente in unarinnovata verginità delle forme.

Fissando l’istante, provo a cat-turare la vita senza preavviso, rap-presentandola nel sistema dellerelazioni che le persone intessonotra loro e con se stesse, nonchécon l’ambiente in cui vivono, am-biente di solito abitato da appara-ti soltanto efficienti; lì cerco letracce delle loro reciprocità, e dafotografo devo offrire un rilievo fi-sico, visivo, alla mia ricerca, ben

attento a come corpi e cose si mo-dellino secondo un insieme di bi-sogni, di circostanze sia materialiche dello spirito, facendo “parla-re” posture, espressioni, gesti, for-me appunto, ma anche luci e om-bre, che a loro volta raccontano.

Così sul monitor della donnaingegnere trovi un’ochetta di pe-luche simile alla sua sciarpina dipelo, o sul suo desktop una parti-colare immagine che ne rivela ildesiderio di altrove, a dire l’insop-primibile attitudine, tutta umana,a rendere le cose a propria imma-gine e somiglianza, in una catenainesauribile di dettagli: sono que-sti a farsi segno di quel certo invi-sibile che solitamente non si è ingrado di cogliere, causa il fataleinsediarsi di una specie di cecitàambientale.

La mano che ogni giorno in-contra il manico della vanga e lo

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Qui, oggiFotografia per raccontare il quotidiano

di Enzo Cei*

Né grattacieli né capanne:per raccontarci, fotografo

la casa accanto.Nella mia, entrava grano

e usciva pane.

Il lavoro di Enzo Cei è visibilesul sito: www.enzocei.com

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stringe, ne è modellata e a suavolta lo modella. Strumenti mate-riali e organi umani che si fannocarico della quotidiana tensionedel lavoro, o di un’abitudine, nerimangono come scolpiti. Quelloche si fa è ciò che si è, inesorabil-mente abita in noi, leggibile nellefisicità plasmate dal tempo. Laletteratura lo racconta da secolicon la parola, la fotografia facen-dolo vedere. E il vedere è una for-ma particolare del capire, attra-verso la ragione dello sguardo, se-condo le leggi innate della perce-zione visiva, da rivitalizzare bu-cando coscientemente gli strati diuna civilizzazione indotta. È attra-versamento del buio.

Per questo, dico che si tratta diconferire mistero al familiare, conuna fotografia che sia più doman-da, che accomodante risposta.

Ritengo che tali esplorazionispettino a chi intenda raccontarela quotidianità dall’interno diun’area culturale ove sia cosciente-mente e profondamente radicato.

Ho infatti sperimentato cheper indagare “di persona” una sto-ria si rendono necessari momentidi qualità ben distinta, assai diffi-cilmente applicabili da un estra-neo all’ambiente: il beneficio diuna preparazione teorica preventi-va; l’effetto della curiosità visivadi fronte all’ignoto; poi, le perlecolte dalla gravida unicità del pri-mo impatto; e, infine, l’incidenzadi una lunga frequentazione di uncontesto, misurabile addirittura inanni, poiché può piacevolmenteaccadere che il comporsi della se-quenza fotografica riveli dei bu-chi, sollecitando così nuove im-magini affinché il discorso sia ilpiù possibile chiaro e aderente aifatti. Queste le fondamenta chepermettono di comporre in mododefinitivo i tasselli di un affresco.

Il mio agire, dunque, è nel ter-ritorio cui appartengo, da cui rica-vo anche le risorse per portare acompimento i miei progetti; allarealizzazione complessiva dei qua-li, sono poi essenziali ostinati e ri-petuti procedimenti di cameraoscura: nel buio, senza l’urgenza didover “anticipare” il tempo delloscatto, modulo in equivalenti pla-stici del bianco e nero l’oggettodella mia intuizione, e restituiscocosì alle fotografie il peso delleidee che contengono.

Di certo, mi porto addosso i se-mi della mia origine, per cui leggovisivamente il mondo secondomodelli poco istituzionali, di unimmaginario superato e arcaico,quello proprio della civiltà conta-dina: è lì che nasco, è lì che si ècostituito l’universo mitico chemi muove, affiancato da compo-nenti da me percepite ben vive ed

operanti, e tuttavia insondabili,che sono parte della mia natura.Ed è sempre da lì che ricevo laspinta per continuare ad arrampi-carmi, con la produttiva insolenzadi chi si è fatto da solo, col baga-glio di un sapere non imparato. Inquesto attingo impeto e motiva-zioni, fede e umanesimo, dedizio-ne al sacrificio e prontezza istinti-va allo scatto. Una mia parte sisente chiamata ad agire con unmoto la cui spinta è tanto più effi-cace, quanto più involontaria.Non mi piace l’intellettualismo,lo trovo una forma di rifugio dovetutto è permesso proprio perché cipossono sempre essere – e di fatto

ci sono – le parole che servonoper giustificarlo.

Meglio l’incalzare di un nodoemotivo nel repentino comporsidi un disegno, nella guglia rivela-trice di un istante, nell’insinuarsidi un raggio di sole a piegare leombre, nella cecità dei neri, chefuori portata da ogni parola, offra-no indizio dentro la breve stagio-ne dell’uomo. Allora miro. Ma ilmirare è un mirare a se stessi: ilbuon tiratore fa centro se sa offrir-si a bersaglio, se colpendo rimanecolpito. Qui, oggi.

Enzo Cei*fotografo narrativo

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Alcune immagini per dare un’idea dell’originalità del lavoro di Enzo Cei. Nella pagina a fianco: foto tratta dal libroVite, Follia e fotografia: cronaca di una svolta, (Regione Toscana-Marsilio); sopra: foto tratta dal libro in corsodi pubblicazione Trapianti, (Regione Toscana-Fondazione Arpa); in basso: foto tratta dal libro Cavatori, (Biblos).

Nato a Pisa da famiglia contadina,autodidatta, dagli anni ‘70 si oc-cupa di fotografia. Lontano dalleleggi della committenza, ha pro-gettato e pubblicato sette fotoli-bri, indagando per anni i suoi te-mi: lavoro, costume, sanità, vissu-ti sociali propri della terra cui ap-partiene. Attualmente collaboracol regista Paolo Benvenuti alfilm La fanciulla del lago, su Giaco-mo Puccini. Con un finanziamen-to ottenuto dal Ministero per iBeni e le Attività Culturali, stapreparando un cortometraggiosulla condizione dei bambini natiprematuramente.

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Nel 43 a.C. un amico di Cice-rone, Paetus, aveva decisodi non frequentare più i

banchetti. Cicerone decise di scri-vergli per dissuaderlo. Ecco un passodella lettera:

«Davvero, Paetus, a parte glischerzi, ti dò questo consiglio,convinto che ciò sia rilevante pervivere felicemente: di passaretempo in compagnia di uominionesti, piacevoli e che ti sonoamici. Niente rende la vita mi-gliore, niente è più in armoniacon il viverla felicemente. Nonsto pensando ai piaceri fisici, maalla condivisione delle gioie dellavita e del sollievo dell’animo, co-se che si ottengono, in massimogrado, grazie ad una conversazio-ne familiare; e la conversazioneraggiunge il massimo della piace-volezza nei convivi, come dicia-mo noi più sapientemente deiGreci. Quelli, infatti li chiamanosymposia o syndeipna, che significaletteralmente “fare una bevutainsieme” o “fare un pasto insie-me”; noi, invece, li chiamiamoconvivia, perché è in quell’occa-sione più che in ogni altra, che lavita viene vissuta insieme. Lo ve-di come, filosofando, cerco di ri-condurti alle cene?» (Cicero, AdFam., IX.2).

Cicerone distingue dunque lapratica del simposio greco da quelladel convivio romano nei termini diun’idea più onnicomprensiva di con-divisione: il termine stesso di simpo-sio ne sarebbe una declinazione ri-dotta e limitativa, in quanto la cir-coscriverebbe al solo bere. È statonotato1 che questa distinzione di Ci-cerone lascia perplessi da molti pun-ti vista: l’esaltazione del valoredell’amicizia e della condivisioneegualitaria, che implica l’abbatti-mento delle barriere sociali, quelladel valore dell’humanitas legata allaconversazione che ha luogo nel con-vivio, ignorano importanti differenzeculturali fra la pratica del convivioromano e quella del simposio grecoche ci sono note da altre fonti.

Il simposio greco ha origine nelVII secolo a.C. e vede la sua fioriturae codificazione nel VI. È un tratto di-stintivo dello stile di vita aristocrati-co: un gruppo ristretto di soli maschi– omogeneo e coeso – si riunisce perbere. Gli invitati occupano una stan-za detta andròn – sala degli uomini –le cui caratteristiche architettonichesono specificamente pensate per fa-vorire un’interazione paritaria; stan-no distesi due a due su letti (klinai)

appoggiando il braccio sinistro e la-sciando libero il destro; ogni kline hadavanti un tavolino. Il momento delsimposio è nettamente separato e in-dipendente dal pasto (deipnon): il suoinizio è segnato da gesti e rituali reli-giosi. È un momento di svago ma an-che di discorsi seri (ad esempio di na-tura politica o sulla vita e la morte,sulla vecchiaia, sull’amore, sul sim-

posio stesso). Durante la bevuta siparla, si canta, si gioca, si corteggial’amato o si perseguono i favori delleetere. Il supremo valore dell’egua-glianza fra amici-compagni, che riaf-ferma la coesione del gruppo e la so-lidarietà fra i suoi membri, è non soloaffermato ma esperito attraverso unaserie di comportamenti orientati daconvenzioni e regole. Il loro rispettoè garantito dalla presenza di un sim-posiarca – re del simposio. Si scegliepreliminarmente e si regola il nume-ro degli invitati, il numero e il tipo dibrindisi, gli argomenti di conversa-zione e, importantissimo, il grado diubriachezza che tutti i convitati do-vranno raggiungere, dal quale dipen-derà il tipo e la grandezza delle cop-pe e la mistura acqua/vino da utiliz-zare in quel particolare simposio. Unesempio di precettistica simposiale civiene offerto, fra molti altri, da un fa-mosissimo carme di Alceo, apparten-te ad un gruppo simposiale aristocra-tico fortemente impegnato nell’av-versare il governo tirannico della suacittà, Mitilene (Alceo, fr. 346 Lobel-Page):

Beviamo. Perché aspettare le lu-cerne? Breve il tempo / o amatofanciullo, prendi le grandi tazzevariopinte, / perché il figlio diZeus e di Semele / diede agli uo-mini il vino / per dimenticare idolori. / Versa due parti di acquae una di vino; / e colma le tazzefino all’orlo: / e l’una segua subi-to l’altra.

(Trad. S. Quasimodo)

È importante ricordare il conte-sto (lontano) nel quale furono ela-borati e codificati i valori cui Cice-rone, un appartente all’élite elleniz-zata di Roma, fa riferimento. Il sim-posio (come in generale le praticheconviviali) e i gruppi simposiali so-no funzionalmente intessuti nellastruttura e nell’organizzazione istitu-zionale e politica delle società che

ne videro il fiorire. La sua sopravvi-venza in età, società e culture moltodiverse, come sono quella etrusca eromana ma anche quella delle cittàellenistiche o della stessa Atene de-mocratica, comportò, fra altre im-portanti conseguenze, una spola frail piano delle pratiche concrete –che mutarono notevolmente – equello dei valori cui si continuò afar riferimento. Tanto per fare unesempio: Cicerone conosce un con-vivio misto, nel quale sono presentile donne, al quale prendono parteanche classi sociali basse, nel quale iposti sono assegnati in funzione delrango. Sembrerebbe quasi che ilconvivio romano divenga un palco-scenico sul quale inscenare e visua-lizzare le differenze sociali più che illuogo dell’eguaglianza fra amici-compagni. Questa spola comportauna serie di aggiustamenti rispetto aciò che potrebbe configurarsi comeuna sorta di dissociazione fra il pia-no dell’immaginario (valori cui ci siappella, immagini di cui ci si circon-da o che si hanno nella mente) e ilpiano delle pratiche.

La lettera di Cicerone è una te-stimonianza, fra molte, delle artico-late e diversificate percezioni, nellaseconda metà del I secolo a.C., delrapporto fra cultura greca e culturaromana 2. Cicerone, come moltidella sua generazione, si sentiva im-pegnato nella battaglia per la pro-clamazione della supremazia delleistituzioni romane, private e pubbli-che, su quelle greche. D’altra parte,

però, la considerazione stessa dei co-stumi alimentari e delle istituzioniconviviali di una società come indi-cativi dei valori sulla quale essa sifonda e perfino della sua organizza-zione sociale e politica, rimontavaad una tradizione già greca che ebbeun’importante e influente codifica-zione, declinata nei termini di unastoria evolutiva della cultura, versola fine del IV secolo a.C. 3

La lunghissima vita del simposioe del convivio comportò, findall’antichità, aggiustamenti, revi-sioni e puntualizzazioni riguardo aivalori affermati: uno di questi aggiu-stamenti, che ha anch’esso una suapropria storia, articolata e comples-sa, è quello che vide il progressivodistacco del valore della parola edella conversazione dal contestoconviviale vero e proprio e che det-te vita all’idea del “banchetto di pa-role”. La tradizione dura ancor oggi:simposio e convivio sono oggi ter-mini utilizzati per designare quegliincontri di tipo accademico chepongono, almeno idealmente, a pro-prio fondamento la parola e loscambio paritario: potremmo dire,con Cicerone, che sono queste leoccasioni nelle quali, “più che inogni altra, la vita viene vissuta in-sieme”?

*Maria Luisa CatoniRicercatrice di Storia

dell’arte e dell’archeologiaclassica presso la Scuola

Normale Superiore

1 O. Murray, Symposion and Män-nerbund, in P. Oliva- A. Frolìkòva(cura), Concilium Eirene, XVI/1, Pra-ga 1982, pp. 47-52; J. D’Arms, TheRoman Convivium and Equality, in O.Murray (cura), Sympotica. A sympo-sium on the Symposion, Oxford 1990,pp. 308-320; vd. anche il volume de-dicato a J. D’Arms curato da J.F.Do-nahue, Roman Dining, “AmericanJournal of Philology”, Special Issue,24/3 (2003), con bibliografia.

2 A. Wallace- Hadrill, Vivere allagreca per essere romani, in S. Settis(cura), I Greci. Storia Cultura ArteSocietà, vol. II.3, Torino 1998,pp.939-963, con bibliografia; K.Dunbabin, Ut Graeco More Bibere-tur. Greeks and Romans on the DiningCouch, in I. Nielsen-H.S.Nielsen,Meals in a Social Context, Aarhus1998, pp.81-101.

3 N. Purcell, The ways we used toeat: diet, community and history at Ro-me, in Donahue, Roman Dining cit.,pp. 329-358.

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Simposio o convivio?di Maria Luisa Catoni*

Pompei, Casa dei Casti Amanti, parete ovest del triclinio

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1. Una premessa anticaIn tema di docenti, i Romani anti-chi parlavano di maestri, di dottori edi precettori, con una frequenza cheil Thesaurus linguae latinae ci aiuta aquantificare. Magister: Cicerone 152volte, Seneca Fil. 14, Quinitiliano27, Agostino, De civ. Dei, 30; doctor:Cic. 37, Seneca Fil. 1, Quint. 13,Agost., De civ. Dei, 22; preceptor:Cic. 7, Seneca Fil. 25, Quint. 68,Agost., De civ. Dei, 2.Come ognun vede, nell’elenco figu-ra un titolo (precettore) che spariràpoi nel lessico universitario; nemancano altri – tardivi, rari o pro-blematici – come professor, mentresia magister, sia doctor non assumonol’accezione legale, che sarà specificanei gradi accademici. Per non diredei lemmi cui le università medieva-li spalancheranno le porte nel corsodella loro storia.

2. Dalle «Artes» alle facoltàSe la cultura classica produsse legrandi scuole dei retori e dei filoso-fi la Cristianità ebbe il merito didiffondere l’istruzione elementare(leggere, scrivere, contare e canta-re: nelle parrocchie) e media (Tri-vio e Quadrivio: presso le cattedra-li). Chi voleva approfondire le Ar-tes, doveva farsi giramondo, o glo-betrotter, andando a perfezionarlein scuole capitolari più attrezzate efamose: a Chartres, a Tours, aReims, a Orléans e a Parigi. Glischolares più esigenti passavanodall’una all’altra, secondo le specia-lità di ciascuna, rimanendo aglistudi una dozzina d’anni.

Da uno studio così approfondito, igiovani rimpatriavano «letterati»:ossia prosatori e poeti. Pronti acomporre in prosa e in versi, trova-vano onorevoli impieghi nelle curiee nelle corti. Oppure in Roma, pres-so la Sede Apostolica.La cuccagna non durò più di un se-colo. Verso la fine del 1100, glischolares aumentarono a dismisura.Le curie e le corti non offrivano offi-cia a tutte quelle folle di narratori edi versificatori. Era la «fame deichierici», mentre la nuova civiltàcomunale cercava commercialisti egiuristi, canonisti e avvocati, medi-ci, teologi e notai. Sicché tra i nuo-vi scholares, «cornificiani e borghesi,scoppiò un Sessantotto». Anni eanni di sciopero immobilizzaronoscuole e maestri, sino a che, «tutora-ti» da Innocenzo III e da GregorioIX, nel 1215 e nel 1231, maestri ediscepoli stabilirono in Parigi unanuova scuola corporativa, ossia laUniversitas magistrorum et scholarium.Gli studenti accettavano si studiareancora le Artes: ma non più di dueanni. Dopo i quali si davano alleScienze, nelle facoltà di teologia, dimedicina e di diritto, canonico e ci-vile. Il tutto fuori dei Capitoli, sottola guida di docenti liberi e pagati.Da quel momento non si vedrannopiù i poeti capaci di arricchire leraccolte tragiche dei Clerici vagantes.In compenso, usciranno dalle nuovescuole i manager soddisfatti e fieridella nuova Europa.

3 «Baccelliere mi fe’ Salamanca»Il primo ciclo delle Artes durava due

anni, e gli scholares ne uscivano bac-cellieri.Il nome deriva da una voce (bacca-laria), che nei diversi ordini indica-va i livelli subordinati. In agricoltu-ra, ad esempio, denotava fondi rusti-ci di chiese o di vassalli inferiori;nell’esercito, i giovani che aspirava-no al cavalierato (baccalarii); nellecompagnie artigianali, chi operavasotto la guida di capi. Nel lessicouniversitario, erano baccellieri (bac-calarius, bachelarius, ecc.) gli scolariche, avendo studiato le Artes perdue anni, conseguivano il baccellie-rato: il titolo che abilitava studiarele scienze nelle Facoltà.Il baccellierato, così, importava dueaspetti: da una parte, concludeva ilciclo di studi inferiori, abilitando aquelli superiori o scientifici; dall’al-tra costituiva il primo ciclo di studiuniversitari. Il doppio aspetto, carat-terizza la voce quale sopravvive neitempi moderni. In Francia, ad esem-pio, il Baccalaureato equivale allanostra licenza liceale. Nelle univer-sità pontificie in Inghilterra, negliStati Uniti ecc. stabilisce un primogrado nel cursus accademico. E tuttofilerebbe, se il bachelor’s degree nonpassasse per laurea: come avvienenei paesi anglosassoni (bachelor =laureato), in Francia (bachelier ès let-tres, ès science) e in Spagna: «Bac-celliere mi fe’ Salamanca».

4. Lezioni e «Vorlesungen»Nelle scuole medievali il docenteinsegnava leggendo, interpretando ecommentando un testo classico, omagistrale nelle singole discipline. Il

fatto diede un nome all’atto fonda-mentale della didattica: le lezioni.Alla lettura l’insegnante premettevauna introduzione, secondo le normealessandrine dell’«accessus ad aucto-res». Tali premesse si chiamavanopraelactiones. Con l’andare del tem-po e con lo sviluppo del metodo, ilsecondo termine (praelactiones) so-stituì il primo come si vede nelleuniversità pontificie e nell’esito ger-manico Vorlesungen. Nelle sue biblioteche il medioevodepositò un mare di lecturae. Nontutte sono opera di maestri. Anzi, lamaggior parte proviene da studenti.Questo dipendeva dal fatto che, unavolta baccellieri, gli scholares studia-vano da professori, non solo ascol-tando (un maestro), ma anche inse-gnando. E per insegnare dovevanoleggere. Nelle facoltà di teologia in-segnavano leggendo le Sententiae diPier Lombardo: il celebre MagisterSententiarum.

5. Lettori e MaestriLe «Quaestiones»Dal metodo didattico, i docentipresero il nome di lectores. Il termi-ne vive ancora negli ordini religiosi,che un tempo esercitavano il con-trollo delle facoltà di teologia. E conun’accezione particolare: distingue-vano il loro rango (inferiore) daquello (superiore) dei Maestri. Più autorevoli e venerandi (cf. n.13), i maestri dominavano i proble-mi culturali del tempo. Insegnava-no, perciò, leggendo, ma anche trat-tando (tractatores), risolvendo o de-terminando (determinatio) le que-

Sul lessico universitariodi Eugenio Massa*

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stioni. Così s. Tommaso. Egli lessePier Lombardo, Boezio, il De causise moltissime opere di Aristotele.Tuttavia insegnò trattando questioni(Quaestiones magistrales), scelte dalui medesimo – anche in ordine aidibattiti in corso (Quaestiones dispu-tatae) – ovvero proposte ex abruptodagli studenti (Quaestiones quodlibe-tales, ossia de quolibet <argumen-to>). Per non dire che espresse ilsuo pensiero personale nei trattati enelle opere sistematiche: il De enteet essentia, la Summa contra Gentilese la Summa theologiae.

6. «Master of Arts» e «PhilosophiaeDoctor» (PhD)Anche nelle Università lo studiodelle Arti scorreva sui parametriumanistici del Trivio e del Quadri-vio. Più avanti le cose cambiarono.Alcune discipline sfondarono i con-fini letterari, dilagando nel campo enel metodo scientifico e filosofico.Così la Dialettica dei letterati si di-latò nella Logica dei filosofi, giuntial possesso dell’Organon aristotelico,mentre l’Astronomia allungò il pas-so verso l’Almagesto di Tolomeo e ilDe coelo dello Stagirita: ce lo rac-conta Giovanni di Salisbury nelMetalogicon, nel Policraticus,nell’Entheticus.Il movimento accelerò nel sec. XIIquando in Sicilia si tradussero dalgreco le opere di Euclide e di Tolo-meo; quando una valanga di tradu-zioni arabo-latine invase le univer-sità europee da Toledo. Allora Ge-rardo da Cremona († 1187) volgevain latino l’enciclopedia aristotelica(Kitab al Schifa) e il grandioso Ca-non medicinae di Avicenna (†1037), mentre altri latinizzavano al-tre compilazioni scientifiche arabe ele stesse opere di Aristotele: quelleche, quattro o cinque secoli prima, icristiani di Siria avevano tradottodal greco o dal siriaco in arabo su ri-chiesta dei Califfi.Verso la metà del Duecento, l’evo-luzione fissò il suo volto. Filosofi escienziati correvano alla scopertadelle scienze antiche, mentre studia-vano e insegnavano sui testi di Ari-stotele e altri, tradotti di rettamentedal greco grazie a un Roberto il Ca-poccione (Grossi Capitis: † 1253) oda un Guglielmo di Moerbeke († ca1286). Brillava quel che si dice ilPrimo Rinascimento. Un rinascimen-to scientifico. Dal punto di vista universitario,l’introduzione umanistica delle Artisi trasformava, così, in una facoltàscientifica: Facultas Artium o Philo-sophia.Le fasi e il termine di quella evolu-zione spiegano storicamente alcunitermini, nuovi o antiquari.In primis, il baccellierato. Esso non hapiù motivo di esistere nel senso del-

la preparazione o dell’accesso; tutta-via può assumere questa nuova ac-cezione. È quanto succede in GranBretagna, negli Stati Uniti ecc., do-ve vale sempre come primo grado ac-cademico (elemento antico), ma alivello di laurea (elemento nuovo).Nel mondo anglosassone corronodue formule per indicare il dottorein discipline umanistiche: master ofArts e Philosophiae Doctor / Doctor ofPhilosophy: con la celebre sigla PhD.Ambedue suppongono il passaggiodalle Arti alla Filosofia. La primaperò mantiene il riferimento al ter-mine originario (le Artes); la secon-da tien conto di quello terminale (laPhilosophia). Si noti che le Artes non hanno nul-la a che spartire con le nostre BelleArti. Per questo l’anglosassone che silaurea in Storia dell’Arte non è unMaster of Arts bensì un Master of Fi-ne Arts.Anche Abelardo merita una notici-na. Egli parlava di «philosophos et lit-teratas feminas». Voleva dire: uomi-ni e donne istruiti nelle disciplineletterarie. Alla moderna: inFilosofia. Perciò diceva gli uomini«philosophos». Ma per le signore nonpossedeva il femminile «filosofesse».Sicché ricorreva al vecchio termine:litteratas.

7. «Physic» e «Physician». Dal«gran filosofo» al «Medico»Il seguito dipese dai caratteri del Pe-ripato. Per quanto autore anche diuna metafisica, Aristotele studiava escriveva di anatomia, di fisiologia e difisica. Una fisica non meccanica (ga-lileiana), bensì biologica, così comeindicava il nome: fuvsi" dalla radi-ce fu di fuvw (= genero) da cui an-che femina (= generatrice). Etimolo-gia mantenuta in latino, dove natu-ra viene da nascor e indica i caratte-ri che l’individuo riporta alla nasci-ta. Al dunque, studiare la natura (=filosofia) significava indagare ilmondo della generazione e dellacorruzione.In termini del genere, la Filosofia,che si era appena insediata nell’al-veo delle Artes, diveniva essa mede-sima prodromo dell’altra facoltà: laMedicina. L’anticipava. Le offriva in-dirizzi e teorie. Alla fine, il nuovostudio della Natura (fuvsi") o Filoso-fia, finì per continuare nel vecchio,la Medicina, sollevadolo dall’empiriadelle tradizioni curative e farmaceu-tiche. Se ne vedono le conseguenzein due direzioni. In area anglossasso-ne, la medicina prese a dirsi Physic eil medico Physician. Altrove, il pro-fessore di Filosofia aspirava a corona-re la carriera accademica con la cat-tedra di Medicina (grande filosofo =medicus). E di fatto, in Toscana l’ot-tennero, con fulgore Mediceo (Medi-ces), sia il neoplatonico Marsilio Fi-

cino (Firenze), sia l’aristotelico Ago-stino Nifo (Pisa).

8. Licenza e LaureaPer secoli il corso degli studi univer-sitari si concluse a due livelli: con lalicenza o con quello che – alla mo-derna – si dice laurea.La diversità perdura nelle universitàpontificie (dove i due titoli si op-pongono) e vigoreggia in area fran-cese, dove la licenza non laurea, maabilita all’esercezio d’una professio-ne. Così il licencié ès lettres può inse-gnare, come il licenziato in dirittopuò fare l’avvocato.La distinzione, invece non signoreg-gia in altre aree. In quella spagnola,ad esempio, i lessici d’uso dànno li-cenciado per laureato e licenciar perlaureare, pur esitando in licenciatura,che interpretano sia come laurea siacome diploma universitario.Stando ai lessicografi, anche in areainglese la tradizione più rigida vienea mancare. Così, dopo aver ignoratoqualsiasi accezione accademica, s.v.licence e license, il Ragazzini inter-preta licentiate (1) quale «licenziatodall’esercizio di una professione» e(2), «in talune università», quale«licenziato, diplomato»: come se li-cenza e diploma potessero equivalersisenza problemi. Da parte sua, ilGrande dizionario Sansoni (Rizzoli-Corriere della Sera 2004), s.v. licen-tiate sentenzia: (1) «persona abilita-ta all’esercizio di una professione»;(2) «(Univ.) licenziato (...) laurea-to». Come se licenza e laurea fosserointerscambiabili. Alla fine, qualcuno dovrà pure chia-rirsi le idee, perché diploma, licenza elaurea hanno occupato scranni di-versi nella storia dei gradi.

9. Dottorato e libera docenzaLa riforma Moratti ha introdotto inItalia due livelli di laurea, con unprimo e un secondo dottorato. Nulladi eccezionale: tra lauree, dottorati emasters, in altre nazioni i titoli uni-versitari si articolano almeno su trelivelli.Nelle università medievali tutto riu-sciva più semplice: gli studi univer-sitari si conchiudevano a due livelli:la licenza e il dottorato. Interpretia-mo i due gradi sul pentagrama deldoceo, Qui giungeva il licenziato: os-sia il doctus, ovvero l’istruito, capacedi esercitare una professione (giuri-dica, medica, ecc.). Là avanzava ildoctor, non solo istruito (doctus), macapace di istruire (doctor, docens). ildottorato, così, si opponeva alla li-cenza professionale come una licentiadocendi. Ossia, abilitava a insegnare.Dove? In tutte le università dell’Eu-ropa cristiana. Detto alla moderna,il dottore conseguiva la liberadocenza. Il concetto di dottore quale docente

universitario si mantiene, ad esem-pio, nell’ordinamento tedesco. Danoi valeva un bivio. Tutti si laurea-vano dottori: todos caballeros. Chiaspirava all’insegnamento universi-tario si cimentava ai concorsi per lalibera docenza. Chi li vinceva, veni-va abilitato a professare la sua disci-plina nelle università. Oggi non più,perché la libera docenza è sparita dadecenni. Tutti i dottori, quindi, ma-gari a più livelli; ma non esistonopiù professori, fin quando un dottorenon vince un concorso a cattedrauniversitaria.

10. Dottori e Professori in ospedalePiù d’ogni altra categoria, l’abolizio-ne della libera docenza colpì i medi-ci, lasciando a livello di semplicidottori anche i primari, che non re-cuperano il titolo di professore me-diante una cattedra universitaria.Sembra che questo abbia percepitoil lessico Treccani ( 1986 ss.), allemma professore: «Nell’eserciziodell’attività di medico, titolo chespetta al primario ospedaliero, e ingenerale al medico che esercita laprofessione sia in una struttura siacome privato, quando abbia ancheun insegnamento universitario».Altri, invece, pasticciano. Fra di lo-ro il Sabatini- Coletti, che ancoranel 2004 vuole professore «il medicoospedaliero s p e c i a l m e n t e secon libera docenza». Lo «special-mente» equivoca. Per esso, la liberadocenza non sarebbe indispensabileper attribuire il titolo di professore al«medico ospedaliero». E poi, chi po-trebbe imporla? I camici bianchi selo sognano come un eldorado, cheda decenni e decenni in Italia è sva-nito nel nulla.

11. Niente professoriManco a farlo apposta, l’incertezza el’ambiguità hanno radici lontane,Gli antichi, infatti, parlano di Mae-stri, di dottori e di precettori, mentreil vocabolo professore sembra assentetardo e raro.Sul professore docente Ernout e Meil-let non sprecano un lemma nella lo-ro Histoire des mots: tanto considera-vano evidente che professor derivada profiteri, e che profiteri significa«dichiarare pubblicamente», «pro-fessare un mestiere o un’attività» (>professione), «manifestare un’opi-nione».Per la latinità medievale e posterio-re, il Du Cange vede professori appe-na nei religiosi che professano unaRegola monastica. Potrebbe suggerire qualche idea unacompleta rassegna storica del voca-bolo. Di fatto, i capoccioni delleuniversità tedesche lavorano comebisonti intorno a un Thesaurus Lin-guae Latinae (TLL) fin dai tempi diBismarck. Ne pubblicarono il primo

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volume l’anno 1900, giungendo acoprire la lettera O nel 2001. Per lap di professor, manderanno in biblio-teca un fascicolo nei prossimi anni.Per toccare la z ne hanno ancoraper un secolo. Dobbiamo, dunque racimolare. Ilprofessore professa. In primo luogouna professione. Così il medico pro-fessa la medicna, che Celso dice«salutare professio». Altri professa-no le arti: «geometrae et grammati-ci ceterarumque artium professores»(Quintiliano); altri l’eloquenza (Ci-cerone); altri ancora la filosofia: «sa-pientiae professores» (Tacito). Lun-go questa via, il professor si ritrovamaestro di qualcosa (Quintiliano,Svetonio, Columella). Sicché nelsecolo XVIII Forcellini penserà chesi usasse il vocabolo professor «de eoqui publice aliquam liberalem ar-tem docet».

12. Tutti i medici professoriA dispetto di tutto e di tutti il titoloprofessore si affaccia nel lessico acca-demico. Di lì, anzi, si apre un varcoverso il volgare, che dice professoritutti i medici (o cerusici): con o sen-za cattedra, con o senza primariato.Tanto che Salvatore Battaglia regi-stra l’eccezione: è professore – scrive– chi esercita la professione medica.Tra l’altro illustra il lemma conesempi. Ne trae uno da una cronacadel 1553 (L’assedio di Montalcino):

Il signor don Grazia mandò il suotamburino alla muraglia, a dire al si-gnor Giordano che, se li facea biso-gno di cerusici e medicamenti, glie-ne avrebbe mandati. Al quale fugraziosamente risposto (...) che nonfacea bisogno di niente, avendo se-co e nella città buonissima como-dità di professori e antidoti.

Prende l’altro dal Beccaria, il qualesulla distribuzione delle condottemediche lamenta che «tanto la par-te montuosa quanto la parte piùbassa dello Stato siano le più sprov-viste di professori».L’identificazione medici/professoriviene da un tramite dotto, che gi-ganteggia nelle scuole e nelle fa-coltà di giurisprudenza. Risale infat-ti al Corpus iuris di Giustiniano chein Codex X, 52 tratta De professori-bus et medicis. Là il grande Forcelli-ni (I ed. 1731) scoprì una teoria: imedici appartengono alla categoriadei professori, non perché dotati dicattedra o di insegnamento, maperché ricevono uno stipendio pro-fessorale. Lo osservano già Onorio eTeodosio: figurano «professori igrammatici, gli oratori, i maestri difilosofia e anche i medici» perchéricevono una «pubblica mercede».Secondo Ulpiano, anzi, i medici lameritano più degli altri, «perché glialtri curano gli studi, loro la salutedegli uomini».

13. Notarella sui maestriRicordo Francesco Carnelutti, giuri-sta e oratore. Anche per un partico-lare: voleva che i suoi lo chiamasse-ro, non professore, bensì maestro. Inrealtà al teologo e al giurista il titoloda lui preferito riconosceva un’ec-cellenza (cfr n. 5) che travalicavagli organigrammi della scuola, emer-gendo da una tradizione antica euniversale.Il punto focale prende luce dall’eti-mologia. Magister è forma nominaleda magis (più) magis-tero-s, ed ha ilsuo contrario non in discipulus, ben-sì in minister, che, a sua volta, vieneda minus (minus-tero-s). Onde lecoppie magistratus (autorità) e mini-sterium (servizio); magist(e)ro, - as, -are (governare) e ministro, -as, -are(servire).Confermano la vetustà e l’estensio-ne dell’etimo le forme etrusche,macstr(na), e umbra: mestru.Dall’origine etimologica l’accezionegenerale del lemma: «praefectus,princeps, de eo cui potestas imperan-di, regendi (vel homines vel res), do-cendi» ecc. (TLL). Come ognun ve-de, il primato si estende fino adocere, ma spazia, prima, sul potere:dal dittatore (magister populi di Isi-doro) al comando militare (magisterequitum) dal magister civium (Burger-meister: podestà) al magister ingenio-rum (machinator, ingegnere) e al ma-gister chori (maestro di cappella). Per

non dire dei «capoccioni» nel mon-do del lavoro: il magister asciae (car-pentiere capo), il magister caementa-riorum (capomastro), il magister pa-naterius ( il grand panetier) e il magi-ster lapidum ( maître maçon). Il DuCange elenca almen 140 voci. oggine aggiungerebbe una nuova: bade-meister (il bagnino).Il senso originario della superioritàmantiene il magister che sale in cat-tedra: «potestas docendi» (TTL).Storicamente egli prende vigore an-che da altri fattori specifici.Che sono, in primo luogo, l’autore-volezza dei grandi pensatori occi-dentali (Socrate, Platone, Aristote-le, ecc.).Poi la tradizione religiosa. Nel Nuo-vo Testamento Gesù Cristo vienedetto Rabi o il maestro «sic et simpli-citer» (Lc. 3, 12; 11, 28; Io. 1, 38ecc.) E lo imita s. Paolo laddove sipropone quale «apostolus et magistergentium» (II Tim., 1, 11).Infine la grande personalità di alcu-ni autori cristiani: Agustinusmagister, magister Sententiarum, Mei-ster Eckhardt ecc. Su s. Tommasospiove l’ombra del Divin Mestro,quando prende il nome di DivusThomas.

Eugenio Massa* Già ordinario di filologia

medievale ed umanisticanell’Università di Pisa e Roma.

Amico dell’Associazione Ex-Allievi

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Negli ultimi anni in Toscanai libri in corsia sono sempredi più. Chi ha vissuto

l’esperienza di un ricovero ospeda-liero sa bene che le ore possono es-sere molto lunghe. Allora immer-gersi in una storia, leggere un libropuò aiutare, anche a lenire in partele sofferenze. All’insegna del motto“con più cultura siamo più sani” so-no ormai molti gli ospedali in To-scana che danno la possibilità ai pa-zienti di usufruire di veri e propriservizi bibliotecari. Per l’esattezzasono 22 su 55 gli ospedali della no-stra regione dove è attiva una bi-blioteca: tre in provincia di Arezzo,sette in quella di Firenze, uno aGrosseto, uno a Livorno, due inprovincia di Lucca, uno a MassaCarrara, due in provincia di Pisa,uno ciascuno in provincia di Pistoiae di Prato e infine tre in quella diSiena. Per quanto riguarda i servizidisponibili si va dal prestito dei librie di altri materiali, alla lettura ad al-ta voce, alle proposte di animazioninelle sale d’aspetto o in corsia. Tut-te queste iniziative nascono dallacooperazione tra le biblioteche pub-

bliche, le aziende sanitarie e le asso-ciazioni di volontariato, senza di-menticare l’apporto della RegioneToscana che ha cofinanziato nume-rosi progetti.

A volte degli ospedali si parla so-lo per casi di “malasanità”, a volte,fortunatamente, balzano in primopiano anche alcune iniziative positi-ve. E così, qualche mese fa è salitaagli onori della cronaca la notiziadel servizio di letture ad alta voceper i pazienti dell’Ospedale NuovoSan Giovanni di Dio. L’iniziativa,promossa dalla Asl 10 di Firenze, faparte di un più ampio progetto diumanizzazione e accoglienza dellestrutture sanitarie che ha preso il vianel 2005. Il servizio nell’ospedaleSan Giovanni è realizzato grazie allacollaborazione con le bibliotechecomunali del Quartiere 4 e di Scan-dicci più alcune associazioni di vo-lontariato: Auser, Avo, Koinonia eLib(e)ramente (Amici della Biblio-teca Isolotto). Le letture ad alta vo-ce, a cura dei “Nonni Leggendari”un gruppo di “super adulti” formatoda esperti in comunicazione e lettu-ra animata, si svolgono direttamen-

te presso il letto dei pazienti, e,quando è possibile, nelle sale svagoall’interno dei reparti. Il servizio dibiblioteca prevede inoltre il prestitoe la distribuzione dei libri con uncarrello attrezzato a piccola bibliote-ca circolante che si rivolge sia ai pa-zienti che agli operatori sanitari.

Che l’iniziativa nel suo comples-so sia un successo – raccontano dal-la Asl 10 – lo dimostrano alcuni da-ti: i libri distribuiti nel 2006 infattisono stati 1211 e i lettori in corsia1041 (il 40% dei quali sono opera-tori sanitari) di cui 752 donne e 289uomini. Per il futuro, fra le iniziativein cantiere, la Asl 10 intende realiz-zare anche “Lo Scambialibro”, unoscaffale pieno di libri a disposizionedegli utenti che si trovano ad nellesale d’attesa o nel Pronto Soccorsodell’Ospedale Nuovo S. Giovannidi Dio o presso l’ambulatorio dellaAsl 10 del Quartiere 4.

Marina Magnani

Si ringraziano Isabella Frati e Luigi-na Simonetti per le informazioni fornitesul progetto P.Um.A.

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Libri in corsia:“con più cultura siamo più sani”

di Marina Magnani

Il Progetto P.Um.A.

Gli obiettivi generali del ProgettoUmanizzazione e Accoglienza sonoil miglioramento dei percorsi assi-stenziali nei presidi ospedalieri eterritoriali dell’Asl 10 di Firenze. Ilproject leader del progetto è il Dr.Alberto Appicciafuoco, DirettoreSanitario del Presidio OspedalieroNuovo San Giovanni di Dio di Fi-renze, oltre che coordinatore azien-dale del Progetto HPH. Il projectteam è poi composto da personeche provengono da ambiti diversidell’Asl 10: Simone Naldini (medi-co), Maria Teresa Benghi, Marinet-ta Nembrini, Marcella Gostinelli(infermiera), Isabella Frati,Vincen-za Fusari e Lorella Parigi (ammini-strative). Libri a parte, ecco unabreve rassegna di alcune iniziativegià realizzate o in corso.

Umanizzare i momenti di lutto. Aquesto riguardo è stata elaboratauna procedura per garantire il ri-spetto del morente e l’accoglienzadei familiari in lutto, nell’osservan-za dei diversi culti religiosi. Al temaè stata inoltre dedicata una giornatadi formazione per gli operatori sani-tari, nella quale sono intervenuti irappresentanti di diverse religioni.

Ospedali più belli. Sono già stateavviate molteplici iniziative per ab-bellire gli atri, i corridoi e i reparti didegenza. A questo scopo sono staticoinvolti licei e scuole d’arte, so-printendenze, il corpo di ballo e l’or-chestra del Maggio Musicale, asso-ciazioni culturali, di volontariato eprivati. Vari floricoltori locali stan-no inoltre contribuendo con dona-zioni di piante per abbellire gli in-gressi e gli spazi comuni degli ospe-dali. Sempre su questo tema, unodegli aspetti più innovativi del pro-getto sarà l’istituzione di un “hou-sekeeper” in ogni presidio ospedalie-ro, una nuova figura professionaleche dovrà preoccuparsi del comforte del decoro ambientale.

Migliorare l’accoglienza. Il mo-dello è quello di un desk posto ne-gli atri dei presidi ospedalieri conpersonale opportunamente forma-to sui temi della comunicazione erelazione, a cui si affiancherannoanche rappresentanti del volonta-riato e mediatori culturali. In casodi situazioni più complesse o cherichiedano maggiore riservatezza, èprevista la realizzazione di un uffi-cio mediazione e accoglienza di se-condo livello.

Dei volontari mentre distribuiscono libri a pazienti e operatori sanitari

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Il 19 gennaio scorso si è svolto l’in-contro inaugurale dell’Associazione de-gli Allievi della Scuola SuperioreSant’Anna sul tema della formazionedella nuova classe dirigente italiana. Ri-portiamo in queste pagine la trascrizio-ne dell’intervento di Giuliano Amato.

“Per me è una gioia esserequi, e ci sono venuto pro-prio volentieri. A vent’an-

ni di distanza è facile per noi ricor-dare cos’erano le nostre tante Scuo-le, prima della nascita “della” Scuo-la. Nessuno poteva mettere suun’Associazione di Allievi, né tanto-meno di Ex-Allievi, perché eravamodegli spezzoni, separati. Quando, inanni che ormai non ricordo neppu-re, persone come Bartalena e Barzul-li erano giovani, eravamo quattrogatti, un piccolo nucleo, non faceva-mo massa critica. Voi ora siete tantie fra l’altro, per chi come me ha unaqualche responsabilità ed amore perl’Associazione degli Ex-Allievi, rap-presentate tanto “sangue fresco”pronto ad entrarvi. Forse avrete l’op-portunità di entrare prima lì che nelmercato del lavoro, con l’aria che ti-ra in questo Paese, e noi vi accoglie-remo a braccia aperte, subito, imme-diatamente, non vi faremo aspettareneanche un giorno!

Questa serata è iniziata in modoimpegnativo. Sono stati posti sul ta-volo con grande serietà alcuni temi,e direi che c’è una riflessione profon-da dietro quelle tre pagine che aveteletto. Non so se sarò in grado di ri-spondere, ma proverò ad avviare unariflessione, da fare insieme, su quelloche si avverte come un problema,quale la formazione di un élite chefaccia da motore per lo sviluppo delnostro Paese.

Non è soltanto un problema diprocessi formativi, ma di cultura col-lettiva. Il nostro è un Paese nel qua-le la nozione stessa di élite è messa indiscussione nei suoi confini. C’è unantico “sinistrese” così democraticoche contesta la nozione stessa inquanto tale, e questo è assurdo: or-mai la storia ha dimostrato che ilproblema delle democrazie è rappre-sentato dalla circolazione e dal ri-cambio delle élites, che si formanoper necessità in ogni ambito in cuisia necessario affidare ad alcuni delleresponsabilità esclusive, che per unacerta fase spetteranno a loro, per es-sere poi sostituiti. Il problema non èl’esistenza delle élites, ma l’assenza diun ricambio e la loro relativa esi-guità. Noi abbiamo un problema, a

mio avviso, diverso, che non è unopseudo-problema ideologico: nellanostra cultura nazionale, se esisteun’élite che decide anche per gli altriin funzione di un bene comune, ab-biamo la dannata propensione adidentificare quell’attività come poli-tica e a disinteressarcene. Ciascunoè legittimato a farsi gli affari suoi,mentre la politica diventa il caproespiatorio al quale imputare qualun-que cosa che si svolga in modo nonappropriato, non opportuno, nongradito all’interesse collettivo e nonritenuto conforme al bene comune.

Ho scoperto, attraverso la PoliziaStradale (che è, in questa fase dellamia vita, uno dei miei occhi sulmondo) che è convinzione assoluta-mente maggioritaria degli Italianiche, ogniqualvolta ci sia un rischioper la sicurezza, la responsabilità èpubblica. Chiunque di voi abbia ache fare con la circolazione sa che lapresenza delle buche in città è di si-curo una responsabilità pubblica cherende insicuro il percorrere le viecittadine: ma l’eccesso di velocità oil guidare in stato di ubriachezza onei cosiddetti fumi della droga non èuna responsabilità dello Stato, bensìdi ciascuno di noi, che danneggiacosì se stesso e l’interesse collettivo.

Il fatto che chiunque decida pergli altri sia élite, e che questa, in unPaese, debba avere una visione pro-pria dell’interesse comune, è un con-cetto che deve essere imparato, percominciare, da noi italiani. Se nonviene assimilato, ciascuno di noi si

addestra all’arte di arrangiarsi, di tro-vare il posto, di sistemarsi, di rime-diare un reddito, di sposarsi, di averefigli e, un domani, se è andata bene,di avere anche un BMW... Cos’altrogli si deve chiedere? È appagato!Qualcuno parla, a proposito di que-sta nostra propensione, di familismo:Loredana Sciolla, un’ottima sociolo-ga che insegna a Bologna, ha dimo-strato come non si tratti di un pro-blema soltanto italiano; ma non c’èdubbio che tra noi e altri Paesi perquesto a noi simili, come gli StatiUniti, con il quale ho dimestichezza,c’è una profonda differenza, che va atutto vantaggio loro. Non ha nulla ache vedere – per non destare equi-voci – con l’Iraq o con le basi di Vi-cenza. Ha a che vedere col fatto chequando parlate con un professore,un imprenditore, un professionistaamericano, lo sentite partecipe ecorresponsabile dei destini sia inter-ni che di politica estera del suo Pae-se. La considera una sua responsabi-lità, e non pensa che si tratti di unaffare del solo Dipartimento di Sta-to. Sa benissimo che il Dipartimentodi Stato può rappresentare il Gover-no degli Stati Uniti più di quantopossa farlo un professore, ma inter-preta il proprio ruolo e la propriamissione pensando al proprio Paese.Se perde studenti stranieri che van-no nella sua università a prendere ilmaster o il PhD, non si pone il pro-blema solo perché è sceso lo standingdel suo ateneo, ma perché ha la sen-sazione che il suo Paese stia riducen-

do il proprio ruolo di formatore, checonsidera importante nel mondo.

Noi non siamo, tendenzialmentecosì: riteniamo sia un problema diMussi. C’è una forte deformazione,che deriva dalla profondissima storiadi una nazione nella quale per secolile elité non hanno rappresentato icittadini, ma potenze straniere opropri interessi, visibilmente distantida quelli della collettività. A stento,quando abbiamo fatto l’Unità d’Ita-lia, siamo riusciti a creare una condi-zione nella quale ci siamo tutti iden-tificati in una causa nazionale, masempre fino ad un certo punto: pocodopo, l’Italia è sembrata appartenerealle élites che l’avevano unita. Colo-ro che lasciavano la Calabria o la Si-cilia per gli Stati Uniti, portandosiin un fagotto tutto quello che aveva-no potuto racimolare, se ne andava-no perché pensavano che anche Ga-ribaldi li avesse traditi, che non liavesse coinvolti, resi partecipi. Lastoria atavica degli italiani è la storiadi chi d’istinto si deve difendere dal-le élites, perché le élites tirano qual-che bidone, e non ci si identifica.

È una grande difficoltà che abbia-mo avuto storicamente, pur dimo-strando poi, nei momenti topici, disaperci identificare con il Paese,quando l’abbiamo sentito come tale.Non è retorica: se andate agli anni’43, ’45, ’46, troverete straordinariepisodi di autoidentificazione conl’interesse nazionale, e non delle éli-tes politiche. Gli operai del ’43 diTorino che salvano gli impianti per

“Creare un’adeguata selezione in base al merito”Riflessioni sulla formazione di una classe dirigente

Giuliano Amato

Riccardo Varaldo, Giuliano Amato, Paolo Ancilotti presidono l’incontro inaugurale dell’Associazione Allievi

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evitare che vengano distrutti non lofanno per loro stessi, ma pensando alfuturo del proprio Paese: questo è unesempio che sta nei libri di scuola,ma che dimostra come, in determi-nate circostanze eccezionali l’identi-ficazione salti fuori. Anche AlbertoSordi e Vittorio Gassman, soldatiitaliani presi in giro dagli austriaci,nella convinzione che pur di averesalva la vita diranno tutto quello cheviene loro chiesto sul reggimentoche hanno lasciato addormentando-si in quella cascina, reagiscono e siidentificano con l’interesse del loroPaese, facendosi uccidere. È necessa-rio riportare alla normalità questacapacità di autoidentificare chiun-que sia élite, perché appunto élite nonè il politico soltanto: élite è il profes-sore perché decide per altri, élite èl’imprenditore perché decide per al-tri, élite è chiunque, lavorando conaltri (direbbe un giurista) ha il pote-re di adottare decisioni di cui gli altrisubiscono gli effetti, senza avere pre-stato consenso.

L’élite esercita il suo potere e lasua responsabilità per il Paese, coin-nestando l’interesse nazionalesull’interesse dell’istituzione per cuilavora: è l’esempio dell’universitàche pensa non soltanto a se stessa,ma al peso che ha il suo Paese nellaformazione. Se inizierete a pensarlacosì, vi accorgerete che dovete ac-cettare di uscire dalla vostra pigriziaed avere un numero rilevante di in-segnamenti in inglese, in lingua nonnazionale, altrimenti non potreteavere alcun ruolo formativo che va-da al di là dei vostri confini.

Perché si possa praticare la cultu-ra della responsabilità nazionale so-no necessari tanti elementi. Tra tut-ti, che il Paese sia meno gerontocra-tico di quanto è. Rimanere venti an-ni in attesa di avere certezze checonsentano di pianificare il propriofuturo significa non essere più in gra-do di concorrere a pianificare il futu-ro del proprio Paese. Esiste, quindi,un’interazione tra la gerontocrazia ela ristrettezza della élite che ha in ca-rico i problemi del Paese, e che poi,non a caso, finisce per essere preva-lentemente l’élite politica, l’unica adaver mantenuto nel proprio mansio-nario gli affari altrui, quantomenoperché è proprio questo l’unico tito-lo legittimante l’attività politicastessa.

Sono tre i punti da trattare perparlare di costruzione dell’élite di unPaese. Il primo è la cultura della re-sponsabilità nazionale, di cui abbia-mo appena parlato; il secondo è lacultura del merito e della mobilità,che ho già in parte anticipato; l’ulti-mo è la cultura dell’orizzonte globalenel nostro tempo, perché non esistecollocazione nazionale se non in unmondo più largo, per cui non è piùpossibile esercitare una responsabi-

lità nazionale in chiave autarchica.Si tratta della cultura più difficile daintrodurre, ma è l’ingrediente essen-ziale, perché dipende da un insiemedi fattori, da una storia di cui ci dob-biamo liberare, perché, ormai il Pae-se è nostro e non c’è più un altrocon il quale ce la possiamo prendereo al quale ne possiamo delegare ilgoverno. È nostro, per cui chiunquevi cresca ha la responsabilità dell’in-teresse nazionale.

Tante cose si potrebbero fare.Noi stiamo mettendo su all’Aspen,un osservatorio sull’interesse nazio-nale, ed una delle cose da analizzaresono gli stilemi stereotipati deglistessi media, che parlano ancora del-le élites come se ne poteva parlarequando trattavasi di Carlo VIII o diNapoleone Bonaparte, o di altri go-vernanti per conto di Imperatorid’Austria o di Imperatori di Spagna,“Carli Quinti” ed altri: vale a direpuntando su quella piccola cerchia,deresponsabilizzando gli altri, dandoquesta soddisfazione qualunquistica-mente distruttiva di potersela pren-dere sempre con qualcun altro perqualunque cosa accada, avendo lacertezza di essere lindo e puro, e sot-tratto ad ogni possibile corresponsa-bilità. È una tendenza diffusissima,che fa mercato, ed è fortemente di-seducativa. Vi si innesta anche il te-ma della gerontocrazia, insieme contante altre variabili.

Più facile sarebbe maneggiare ilsecondo ingrediente, la cultura delmerito e quindi della mobilità, e ciòricade prevalentemente nelle nostreresponsabilità: qui sono davvero iformatori ad essere in prima lineaanche se, ancora, si può essere forte-mente scoraggiati da un contesto nelquale più del merito possono preva-lere influenze legate a rapporti perso-nali. È la storia italica della racco-mandazione, che fa parte di un’anti-ca estraneità al potere, a cui rivol-gersi per chiedere ciò a cui in realtàsi ha diritto, circostanza che di per sébasta a scoraggiare la ricerca di sestessi attraverso il mondo.

Le istituzioni formative debbonotuttavia, in primo luogo preoccupar-si di formare e di creare una adegua-ta selezione in base al merito. Loscherzo peggiore che si può fare adun essere umano è quello di dargli lalaurea di medico e la specializzazionedi cardiologo se non sa esattamentedov’è il cuore: lo si manda probabil-mente in galera, o altrimenti a ren-dere precaria l’esistenza di coloroche hanno la sventura di incrociarlocome cardiologo. Non voglio diredelle banalità, ma il problemadell’insegnante elementare è quellodi portarsi tutti gli alunni dietro pos-sibilmente fino all’ultimo anno, ta-randosi sull’ultimo e non sul primo;via via che si va avanti nel ciclo for-mativo il criterio si deve lentamente

rovesciare, e il benchmark non puòpiù essere l’ultimo. Questo va accet-tato, sempre che chiunque abbia lapossibilità materiale e sia messo nel-le condizioni di non essere l’ultimoper cause indipendenti da lui. Ab-biamo, sotto questo profilo, tante ca-renze: il solo fatto che il 70% dei fi-gli di operai facciano gli operai di-mostra, intanto, che la selezione,ammesso che ci sia, avviene su unabase falsa, che esclude a priori chiinvece, potenzialmente, avrebbe ti-tolo ad esserci. Tra i molti problemimi limito ad accennare, poi, alle mo-dalità della nostra formazione: nonmi fate partire in una filippica suglieffetti nefasti della semestralizzazio-ne di quasi tutti i corsi dell’univer-sità italiana, sul fatto che quando iostudiavo in questa città, diritto pri-vato era un esame che tutti temeva-mo e al quale ci preparavamo perdue anni, e Ugo Natoli non ci face-va sconti quando si trattava, poi, diesaminarci. Oggi è diventato un cor-so semestrale. Per quale ragione? As-secondando quali bisogni di chi?Che rapporto c’è tra i bisogni di co-loro che così sono stati soddisfatti eun percorso formativo che poi per-metta ad un giovane di padroneggia-re una contrattualistica con ferratis-simi avvocati che gli vengono da-vanti da ogni parte del mondo?

Ci siamo trovati davanti ad unautentico tradimento, intervenutoin questi anni, dei metodi di valuta-zione dello studente. Nel 2000 si de-cise che i crediti formativi potesseroessere assegnati per vie diversedall’esame, e in ragione, ad esempio,della frequentazione del seminario,di un paper scritto, dell’interazionecon gli insegnanti e coi colleghi. Suquesta base, due anni dopo, una leg-ge finanziaria e poi un decreto mini-steriale che ricompresero tra questeattività anche le esperienze profes-sionali e amministrative pregresse.Su questa base sono fiorite, con lacomplicità dei sindacati del pubblicoimpiego, vergognose convenzionicon università compiacenti, chehanno portato ad ammettere un nu-mero maggioritario di crediti deri-vanti da altre attività sul totale diquelli necessari per la laurea, in mo-do che, con pochissimi esami e conesperienze fatte in qualità di archivi-sta, di vice-prefetto o di vicario inun dato ufficio, si poteva conseguireil titolo. L’attuale Ministro della Ri-cerca ha rispostato l’asse e reso mi-noritario il numero dei crediti cosìdestinato. Resta il fatto che un Paesenon dovrebbe mai arrivare a questolivello di facilitazione nell’otteni-mento di un titolo di studio che ser-ve a fini esclusivamente stipendiali,e non per acquisire una competenzasuperiore, una professionalità cherenda più capaci di dominare ilmondo che si ha intorno.

Arriviamo così al tema specificodel settore pubblico, pieno di figureche appartengono alle élites. Chiun-que faccia il direttore generale o ildirettore di unità operativa vi appar-tiene per definizione, quale organiz-zatore di lavoro altrui. La disperanteassenza nel settore pubblico di unacultura del risultato si scontra controla convinzione di essere lì per attra-versare una procedura, di aver esau-rito le proprie responsabilità unavolta che le carte sono uscite dalproprio tavolo. Il risultato è il grandeassente, e i tempi si accavallano epassano inutilmente.

La cultura del risultato è legataanche alla cultura manageriale, per-ché il manager è colui che inun’azienda è il responsabile dei risul-tati raggiunti. Oltre all’assenza delmerito come bussola determinante,esiste proprio una carenza disciplina-re: si prepara a ruoli di élite senza in-segnare ciò che serve ad esserlo.

Se entrate nella Pubblica Ammi-nistrazione da giuristi che hannoesclusivamente studiato il dirittoamministrativo e la giustizia ammi-nistrativa, voi sapete esattamentequal è l’atto presupposto rispetto adun altro atto, quali sono le gare chedovete fare e quali sono gli acquistiche dovete fare con gara o senza ga-ra. Ma non vi hanno insegnato chetutto questo serve a fare una cosa,non vi hanno insegnato come met-tere insieme i pezzi di diritto cheavete imparato per produrre un risul-tato, ma ne siete responsabili. Il ri-sultato finale è un’assenza di risultatiche sgomenta. Lo riscontro ovun-que, e vi faccio un esempio che hotrovato disperante.

Una della cose che inseguo è ilcolmare il gap fra le domande di per-messi di soggiorno e i permessi disoggiorno negati o concessi. C’èsempre un arretrato, come c’è un ar-retrato di domande di cittadinanza edi visti. Si capisce che gli ufficidell’amministrazione non hannoquesta cultura, non riescono a segui-re tutto, e manca il personale. Il go-verno precedente, allora, aveva fattouna convenzione con le Poste, chesono un’impresa: gli sono arrivate87.000 domande e ne hanno esauri-te 3.000. Evidentemente anche lìmanca il management innovativo,anche lì c’è il dannato problema diassenza di una cultura del risultato. El’Italia sprofonda per la sua difficoltàdi produrre risultati.

Quando noi, gente che bazzicanella politica e nei governi, veniamoaccusati di non avere un progetto,provo un moto di profonda ilarità,perché se c’è una cosa di cui siamocapaci è fare progetti. Non ci chie-dete di scatenarci nei progetti per-ché diventiamo peggio di un concer-to rock al quale venga chiesta musi-ca rock. Noi abbiamo progetti per

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tutte le classi, per tutte le regioni,per tutti i territori, per tutte le disci-pline ma... non sappiamo come rea-lizzarli. Ecco, questo è il vero proble-ma! E allora qui, nella formazionedelle élites, la cultura del merito e lacultura del risultato diventano dueelementi essenziali.

L’ultimo elemento è quello dellaglobalità. Se voi siete élite, non po-tete esserlo con un orizzonte nazio-nale, perché ormai dovete essereparte di una élite più ampia. Se sieteimpresa, per esistere e non essereproprio una nicchia interna al Pae-se, dovete guardare a un mercatoche è sovranazionale, che vi mettein un sistema di interrelazioni fraimprese di Paesi diversi del mondo.Se siete accademia, non potete ca-varvela con la conferenza dei Ret-tori, ma dovete far parte di un esta-blishment accademico sovranaziona-le, perché altrimenti non sietenell’élite. Si tratta di un problemache può essere risolto solo in partecon la formazione, perché per altraparte dipende da come si è. È con-trario alla pigrizia il fatto di far par-te di un’élite sovranazionale. Biso-gna essere disposti a muoversi, apassare serate e serate non parlandola propria lingua, ma parlando lin-gue altrui. Bisogna saperne almenoun paio per potersi muovere, perchéil mondo ormai è cambiato.

Si torna così al punto di partenza,al fatto che c’è una responsabilitàche chiama a sacrificare alcune abi-tudini che rendono la vita comodae che inducono a ritenere che il pro-prio compito sia finito quando ci si èsistemati. Noi formatori dobbiamofare molto per coinvolgervi in tuttoquesto già nella fase degli studi.

Sento fortissimo uno dei temidai quali sono partito, questa storiadella gerontocrazia. Se non riuscia-mo a smuovere i meccanismi che vitengono fino ai cinquant’anni nellacondizione di persone sottopostealla responsabilità altrui, diventadifficilissimo per voi rendervi par-tecipi della responsabilità verso glialtri. Forse il tema cruciale, la levada cui partire nell’orientarsi in que-sta selva di problemi che si affolla-no attorno alla formazione delle éli-tes è proprio quella del ringiovani-mento delle responsabilità. Do-vremmo cercare di capire insiemequali sono i meccanismi che rendo-no l’Italia gerontocratica e come sifa a smontarli. La Cina ha comin-ciato a farlo stabilendo che un ret-tore non possa avere più di 50 an-ni. Sapete che sterminio di rettoriche faremmo in Italia? Ma certo,mi direte, è perché sono dei danna-ti comunisti cinesi, dicono una co-sa e un miliardo di esseri umani siconforma. E proviamo a farlo inmaniera democratica! Ne dovrem-mo discutere.

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L’Associazione degli Allievi dellaScuola Superiore Sant’Anna si è

costituita nel maggio del 2006 per tro-vare nuovi stimoli e fornire nuovi stru-menti all’iniziativa culturale autonomadegli allievi. Suo scopo istituzionale èinfatti la promozione di ogni iniziativadi carattere culturale, scientifico, socia-le e ricreativo, facendo così confluire inuna struttura organizzata appositamen-te pensata impulsi, idee e iniziative pro-venienti dal corpo allievi.Da un puntodi vista di strutturazione, l’Associazioneè costituita da alcuni organi istituzionali(Consiglio Direttivo, Collegio dei Pro-biviri e Collegio dei Revisori dei Conti)eletti annualmente e dall’Assemblea deiSoci. Per quanto concerne invece i con-tenuti, l’Associazione si rifà al proprioManifesto, che potrete leggere nel pro-sieguo, ed al proprio Statuto: le sue ini-ziative si prefiggono di abbracciare il piùampio raggio di temi, anche esulandodalle branche del sapere di stretto inte-resse della Scuola e rivolgendo in parti-colare una costante attenzione alle pro-blematiche contemporanee.

Quanto al metodo, la scelta di fondoè nel segno dell’interdisciplinarietà: daun lato si vogliono incentivare iniziativeche coinvolgano trasversalmente disci-pline distinte; dall’altro, anche le inizia-tive dal carattere più marcatamente set-toriale dovranno presentare un forte ereale interesse collettivo e diffuso. Atutto ciò si aggiungono come naturaliconseguenze l’apertura verso la cittadi-nanza e il territorio, la promozione dicollegamenti con altre Associazioni stu-dentesche e la collaborazione con gli exallievi della Scuola, così da portare unprezioso valore aggiunto alla Scuolastessa, agli allievi e alla collettività. Po-tete seguire le attività dall’Associazionetramite il sito web:http://sssupa.sssup.it/associazioneallievie contattarla all’indirizzo [email protected] .

Il ManifestoL’idea di dare vita ad una asso-

ciazione avente carattere culturale,a partecipazione riservata agli allievidella Scuola, nasce dalla sentita esi-genza di trovare nuovi stimoli e for-nire nuovi strumenti all’iniziativaculturale autonoma degli allievi.Crediamo infatti che le innumere-voli opportunità offerte dalla Scuo-la, in termini di strutture, risorseumane ed economiche, imponganoa chi ne fruisce un costante impe-gno teso alla promozione, organizza-zione e diffusione, anche nel pubbli-co esterno alla Scuola, di iniziativedel segno più vario. Un impegnoche a nostro avviso deve derivareanche dal senso di responsabilitàche necessariamente accompagna ilfruire di una posizione di grande pri-vilegio, come quella degli allievidella Scuola rispetto agli altri stu-denti universitari. Il fine ultimo,sotteso a questa iniziativa, è dunquequello di promuovere, convoglian-doli in una struttura organizzataall’uopo costituita, quegli impulsi,idee ed iniziative che provenganodal corpo allievi.

L’attività che l’Associazione in-tende portare avanti vuole assume-re precisi connotati, nel merito co-me nel metodo. Nel merito, l’Asso-ciazione, secondo quanto previstodallo Statuto, ha lo scopo di pro-muovere ogni iniziativa di carattereculturale, scientifico, sociale e ri-creativo. Rientrano pertanto nelladescrizione, iniziative delle tipolo-gie menzionate intese nel loro si-gnificato più ampio. Il riferimentoad iniziative di carattere culturale escientifico vuole cioè includere, senon valorizzare in modo particola-re, anche l’attenzione rivolta aquelle branche del sapere che esula-no dal panorama e dall’orbita di

stretto interesse della Scuola. Arafforzare questa impostazione dimassima apertura ed ampio respiroche l’attività dell’Associazione sipropone di perseguire, intervienepoi la volontà, fortemente richia-mata, di rivolgere costante atten-zione alle problematiche contem-poranee. Il medesimo spirito è infi-ne da leggersi nel riferimento adiniziative aventi carattere ricreati-vo, inclusive di attività artistiche esportive, e così pure, da ultimo, nelrichiamo ad iniziative che rivestanoun interesse sociale.

Coerente rispetto alle scelte dimerito è da intendersi l’opzione difondo effettuata relativamente almetodo dell’operare dell’Associazio-ne, caratterizzato dall’interdiscipli-narietà, declinata in un duplice sen-so. Da una parte si vogliono incenti-vare quelle iniziative che coinvolga-no trasversalmente discipline distin-te. Dall’altra, nel promuovere ancheiniziative aventi invece caratterepiù settoriale, si ritiene che questedebbano presentare un forte e realeinteresse collettivo e diffuso, evitan-dosi così l’eventuale rischio di unaduplicazione di quanto già presentenell’offerta della Scuola. L’imposta-zione metodologica prescelta, appe-na descritta, comporta poi come na-turale conseguenza l’apertura versola collettività e il territorio, nonchéla promozione di collegamenti conAssociazioni studentesche aventianaloghi obbiettivi.

Siamo convinti che operando perquesta via, e in ciò auspicando l’aiu-to e la collaborazione degli ex-allievidella Scuola, l’Associazione, attra-verso la sua attività, a cui sono invi-tati a contribuire tutti gli aderenti,sarà in grado di portare un preziosovalore aggiunto alla Scuola stessa,agli Allievi, e alla collettività.

L’Associazione Allievi

I soci fondatori dell'Associazione Allievi. Da sinistra, fila in alto: Giacomo Delledonne, Luca Gori, Andrea Bertolini,Marco Rizzi, Marco Mazzarella, Ivan Libero Nocera. Seconda fila: Marco Mancini, Calogero Oddo, Antonio Cuoco,Caterina Sganga, Giulia Ghiani, Luca Baù, Davide Ragone, Riccardo Bresciani, Federico Tamagni. In basso: MarcoRizzone. Assente: Carlo Michele Petracca.L’attuale Consiglio Direttivo è composto da: Riccardo Bresciani, Giulia Ghia-ni, Marco Mazzarella, Carlo Michele Petracca, Davide Ragone, Caterina Sganga (Presidente).

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Un Anonimo (questa volta,a quanto sembra, pisano,anche se soltanto di ado-

zione) ci ha fatto la sorpresa, gradi-tissima, di regalarci un gustoso vo-lumetto (verrò sfidato a duello peril diminutivo?) che rievoca gli “al-legri casini” al Collegio Medico-Giuridico di Pisa sullo scrimolo de-gli anni ‘50-‘60.

La nostra storia recente, cometutti sappiamo, è contrassegnatadallo spartiacque del ’68. Il ’68,nell’orticello accademico, ha sep-pellito i baroni; ha bruciato in piaz-za i papiri o li ha fatti diventare og-getti di antiquariato; ha restituito lemutande alle matricole; ha inalbe-rato il vessillo del voto politico o dimassa, dando così maggiore spessoreal canone dell’uguaglianza di cuiall’art. 3 della nostra Costituzione.In termini più generali, questagrande data ha spalancato le porteal nuovo mondo, offuscando il pre-stigio di altre (ormai piccole) datecome quelle del 1492 e del 1789.Ma prima che questo cuneo si inse-risse nel grande solco della storia, epiù esattamente quando, come dice

il nostro Autore, venne il (più mo-desto) ’58, il nostro piccolo mondo(racchiuso nel perimetro che vadalla Sapienza a Piazza dei Cavalie-ri, ai Lungarni, alle Piagge, a Piazzadel Duomo o poco più in là, fino alcampo di calcio dell’Abetone, tea-tro di epiche ma incruente contese)come si presentava ai nostri occhie, insomma, com’era? E, quale chefosse, dobbiamo rimuoverlo e di-menticarlo? O dobbiamo piuttosto(e senza pudori) rievocarlo, per evi-tare che se ne perda la memoria?

D’accordo, ma chi poteva assu-mersi questo impegno (e questa re-sponsabilità)? L’Anonimo non haavuto esitazioni e ha perseguito condeterminazione il suo ambizioso di-segno, offrendoci un suggestivo af-fresco di quegli anni. Lo ha fatto dahomo ludens, forse ricordando l’inse-gnamento di Huizinga, secondo ilquale la pratica dell’Università hasempre assunto (non scandalizzate-vi) forme ludiche. E per fortuna èbene che sia stato, e sia ancora, così.

Dobbiamo porci, però, una do-manda preliminare. Dobbiamochiederci, cioè, se il nostro Aedo –

che si presenta come un Io Anoni-mo, ma pur sempre, individualisti-camente, come Io – esista vera-mente in rerum natura, o se la sua(supposta) individualità si dissolvain un coro di voci “altre” ed abbiaquindi una valenza corale o collet-tiva.

Si apre così, anche per noi, unapiccola questione… omerica. Certoricorderete che intorno alla metàdel Seicento, e cioè sotto LuigiXIV, François Hédelin, abbé d’Au-bignac, scrisse un saggio (peraltropubblicato solo nel 1715, proprionell’anno in cui moriva il grandesovrano) nel quale mise in dubbiol’esistenza di Omero. Anche noidobbiamo dubitare dell’esistenza delnostro moderno Aedo? E quindidobbiamo chiederci se gli “Allegricasini” siano veramente un canto,solitario, dell’Anonimo, o siano sol-tanto una raccolta di canti di diver-si cantori raccolti da un modernoPisistrato? Io credo che l’abbé d’Au-bignac abbia fatto torto ad Omerodubitando della sua esistenza; cosìcome credo che noi faremmo tortoal nostro Anonimo dubitando della

sua. Del resto, una anche sommariaanalisi filologica conforta questaconclusione: l’unità linguisticadell’opera (e si tratta di una buonalingua, di un ottimo dettato: l’ap-partenenza alla scuola di GaetanoAfeltra è fin troppo trasparente)non lascia adito a dubbi. Quindil’Autore, ancorché Anonimo, esi-ste: e sta a noi, pirandellianamente,cercarlo. Credo che l’Autore, nonsolo esista, ma sia addirittura in tre-pido ascolto: e, desideroso (se nonaddirittura narcisisticamente sma-nioso) di uscire dal suo (mortifican-te) anonimato che lo priva dell’al-loro della gloria, sia pronto (vanito-samente) a rivelarsi. Ed io, toccan-do le sue corde e sperando in un suoimprovviso cedimento, gli dirò,semplicemente, tervetuloa! Espres-sione criptica, in codice? Ebbene sì:e la impiego sperando che il nostrovenga così allo scoperto. In casocontrario, e poiché ho fondati so-spetti sulla sua identità, si potrebbeprocedere ad una ispezione corpora-le per verificare se una matricolad’antan che, pur studiando giuri-sprudenza, preferiva i “pezzi di colo-

Un “anonimo” Collegiale rievoca in un librogli “allegri casini” (e non solo) del Medico-Giuridico

di Nino Piras*

Presentazione del libro lo scorso 23 novembre. Da sinistra: Nino Piras, Dino Satriano (nei panni di portavoce dell’“Anonimo”), Gino Bartalena, Luca Curti.

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re” alle glosse, abbia ancora qualchetraccia di quella pictio culi (lo sotto-lineo, pictio, in quanto tale indele-bile come un tatuaggio, e non giàsemplice ed effimera lustratio) chegli fu a suo tempo doverosamentepraticata per segnarne l’appartenen-za alla gloriosa koiné.

Ma lasciamo l’Anonimo, e ve-niamo al suo opus (così è doverosochiamarlo, visto che il suo Autore èstato avvicinato ad Omero). La no-stra generazione – lo si sottolinea dapiù parti – sembra contrassegnata daun deficit di memoria. Ma fino a chepunto ciò è vero? L’opus recuperafatti, vicende, situazioni che si col-locano in un non trascurabile arcotemporale che va dall’ultimo dopo-guerra alla metà degli anni ’60 eruotano attorno ad un gruppo digiovani, futuri medici e futuri giuri-sti, approdati, da ogni parte dellaPenisola, ad una benemerita istitu-zione che allora si chiamava (maancora per poco, ormai) CollegioMedico-Giuridico. E la rievocazioneriguarda, indubbiamente, cose alle-gre, ma anche cose molto, molto se-rie: ricomposte, tutte, nell’unitarioprisma, dalle molte facce, della vita.

Fra le cose serie, vorrei ricordarequelle che riguardano:

- le diverse iniziative assunte allafine degli anni ’30 da GiovanniGentile, allora Direttore della Nor-male, a tutela di Paul Oskar Kristel-ler, studioso di Marsilio Ficino, ap-prodato a Pisa come lettore di tede-sco, ma colpito, in quanto ebreo,dalla scure delle leggi razziali (epi-sodio, questo, che contribuisce asfatare molte cose e a restituire di-gnità alla figura del grande e sven-turato filosofo);

- l’allontanamento, sempre permotivi razziali, di Bruno Bassani dalCollegio Medico e di Giorgio Fuàda quello Giuridico (allora denomi-nato, et pour cause, Collegio Musso-lini);

- la tragica fine di Rurik Spolido-ro e di Francesco Pinardi, giovanigiuristi, caduti, come scrisse Loren-zo Mossa rievocando il loro marti-rio, “in un bagno di sangue e dieroismo”;

- la nascita delle nuove coscien-ze, che ebbe fertile humus nel Col-legio e che ci rende fieri di poterannoverare, fra i nostri padri, nomicome quelli di Taviani, Levi-San-dri, Ferrari Aggradi, Corona, Pie-raccini, Maccanico, De Cocci,Smuraglia, Di Giulio. Per non dire,poi, dei più giovani, degli Amicidella nostra generazione: basti pen-sare a Nino Cassese (sia consentitochiamare, amichevolmente, col di-minutivo di Nino un Antonio di-ventato Presidente del Tribunaledell’Aja) e al compianto GiovanniFabbrini, che, dall’esilio campagno-lo o dall’eremo delle Piagge, come

ricorda l’Anonimo, gridarono agran voce nel ’55, con un articolosu La provincia pisana, “Ridateci ilCollegio” (appello raccolto e rilan-ciato da Smuraglia, già allora impe-gnato in politica).

Anche a seguito di questo appel-lo, la nuova sede del Medico-Giuri-dico, di lì a poco, venne. E vennein pieno centro cittadino, proprioin piazza dei Cavalieri, alle spalledell’edificio vasariano della Norma-le, forse anche a confermare che, ri-spetto ai normalisti, eravamo fratel-li minori, ma pur sempre fratelli.Alle Piagge, in un palazzetto dellaFacoltà di Agraria, erano stati di-sposti, in camere a due letti, degliabbinamenti che allora ci sembra-vano bizzarri: un (aspirante) medicoed un (aspirante) giurista (ed iovorrei ricordare, per esperienza di-retta, quello fra Erik e Barbagia).Abbinamenti, peraltro, rivelatisi fe-condi, perché consentivano, anchenelle lunghe ore notturne di studio,confidenze e scambi di idee e diesperienze, che ci arricchivano, re-ciprocamente, quanto e forse piùdegli sporadici contatti con i nostriMaestri. Ecco, è proprio così: cia-scuno di noi si sentiva ed era allie-vo e maestro dell’altro; ciascuno dinoi (di diversa estrazione e di diver-sa provenienza geografica) davaall’altro e riceveva dall’altro, ancheperché restava affascinato dal fattoche esistessero mondi diversi dalsuo (quello dal quale lui provenivae che, sino allora, era l’unico da luiconosciuto).

Ma, come dicevo, arrivò ad uncerto punto il Collegio di piazza deiCavalieri. Dunque, si traslocava. Siabbandonava la campagna e si an-dava in città. Già, ma come ci siandava? Bisognava organizzare iltrasloco. Presto fatto: bastò procu-rarsi il carretto di un cenciaio (figu-ra mitica ora scomparsa, che allorafaceva sentire per le vie di Pisa lasua squillante voce mattutina, a ga-ra con quella del gallo), caricarvi lemasserizie (valigie, pacchi di libri equant’altro) e percorrere via delBorghetto, Lungarno Buozzi, Lun-garno Mediceo, Borgo Stretto, viaUlisse Dini, per approdare in Piazzadei Cavalieri, che era per noi (e for-se è ancora per molti) il centro delmondo (altro che la Stazione diPerpignano, con buona pace di Sal-vador Dalì). E lì, appartato e discre-to, il nuovo Collegio, il CollegioMedico-Giuridico, finalmente de-stinato ad accoglierci con le sue ca-mere singole, luminose, moderna-mente arredate (in quello stile unpo’ nordico che poi sarebbe statoglobalizzato da Ikea), e dotate tuttenon solo di lavandino, ma anche(udite udite) di bidet, ai più ancoraignoto, che il Grande Dizionariodel Gabrielli definisce “vaschetta

per lavature intime” ma che, nellessico del Collegio, venne irrive-rentemente chiamato sciacquapot-te. Fu proprio questo avveniristico eun po’ misterioso oggetto a colpireun aspirante medico di originimontanare, appena arrivato tra noi,e a far sì che egli affermasse, solen-nemente, che, se lo Stato offrivaanche questo comfort, era necessa-rio impegnarsi al massimo e studia-re, studiare. Insomma, come avreb-be detto più tardi un altro acutocollegiale, “il bidet come incentivoallo studio”! Dobbiamo quindi esse-re grati a questo aggeggio se oggipossiamo annoverare fra i nostriamici un grande chirurgo.

In Piazza dei Cavalieri, per quelnutrito ma selezionato gruppo diaspiranti medici e giuristi, cominciòuna nuova vita. Un Eden: con pra-tiche (liturgiche) di iniziazione, tal-volta al limite della sopportazione;con incursioni notturne in Piazzadei Miracoli per soddisfare esigenze(peraltro non delegabili) di caratte-re, diciamo così, idraulico; con me-morabili incontri di calcio con i no-stri confratelli di prima fascia, i nor-malisti doc; con serate dedicate allalettura e al commento di testi lette-rari, da Garcia Lorca a ThomasMann; con veglie e scherzi memo-rabili; con punitive incursioni nellecamere dei nuovi arrivati (il ’68 eraancora di là da venire), ma anchecon notti insonni di studio, dopatidall’allora diffusissimo (complici ifuturi medici) Preludin. E poi, l’ine-sorabile uscita di tutti noi: peraltrofrenati da una inarrestabile forza diinerzia che ci portava a uscire conlentezza, e quindi a continuare afrequentare il Collegio anche dopoil forzato esodo per missione com-piuta.

È in quegli anni che ci siamo resiconto che l’Italia, geograficamente,è lunga e larga. Lunga, perché ilCollegio ci aveva fatto conosceregiovani che venivano da RoggianoGravina, e da Baragiano (chi cono-sceva, prima, questi toponimi?); lar-ga, perché c’era anche chi venivadalla Sardegna, che si collocava, adovest della penisola, più o menosullo stesso meridiano di Napoli eaveva sempre avuto con Pisa rap-porti che ora i suoi figli erano felicidi poter rinsaldare. Nel crogiuolodel Collegio personalità, sensibilità,culture diverse potevano confron-tarsi ed arricchirsi a vicenda.

Ma poi – a un certo punto, comeè inevitabile – la lenta, graduale einesorabile diaspora. Ciascuno perla sua strada, nel grande mondo,verso nuovi approdi. Ci attendeva-no impegnativi ruoli accademici,professionali, diplomatici, politici, aseconda della propria vocazione o aseconda del proprio destino (che, losi voglia o no, ci prende inesorabil-

mente per mano e ci conduce a me-te non sempre previste).

Da qualche anno il CollegioMedico-Giuridico in quanto tale, ecioè come microcosmo, non esistepiù. Qual è il suo “dopo”? Parafra-sando il felice incipit del nostroAnonimo potremmo ora dire: “edopo venne il S. Anna”. E venneper merito di chi aveva capito l’im-portanza di questa piccola comu-nità pisana e aveva tenacementeoperato per creare una Scuola cheriunisse, in un unico contesto, nonsolo le Facoltà di Giurisprudenza edi Medicina, ma anche altre Fa-coltà che non erano state contem-plate nel disegno napoleonico dellaNormale. Col S. Anna siamo, co-me si diceva una volta, all’Ameri-ca, e non solo in senso metaforico.La sede, nella vecchia Pisa, è splen-dida; la (sana) competizione fra gliallievi è forte; gli incroci di espe-rienze si moltiplicano. Fiorisconopersino i brevetti. Ed abbiamo unnostro giornale che è stato chiama-to S. Anna News perché ormai,non solo nella conversazione (cheogni tanto ci porta a dire che unadeterminata cosa è o non è political-ly correct), l’inglese è d’obbligo. Seavessimo vinto (Dio ne scampi) laguerra e se ancora dovessimo infie-rire contro la perfida Albione; opiù semplicemente se l’iniziativaeditoriale fosse stata assunta ai no-stri tempi, quando, suggestionatidai nostri Maestri, eravamo ancorasoggiogati dal mito del tedesco (al-cuni di noi lo sono ancora), il gior-nale della Scuola si sarebbe chia-mato S. Anna Nachrichten.

Oggi, insomma, tutto è cambiatoe, naturalmente, in meglio. Ma, sevogliamo pagare un tributo al lin-guaggio di stagione, non certo nelsegno della discontinuità. Perchénon ci sarebbe la realtà di oggi, senon ci fosse stata quella di ieri:quella di cui l’Anonimo ha volutodarci, a distanza di alcuni lustri, te-stimonianza. E l’augurio che noifacciamo ai giovani studenti è cheuno di loro, fra cinquant’anni, possaraccontare a coloro che verrannogli “allegri casini di oggi” (quelli delS. Anna, appunto).

Nino Piras*Ex-Allievo del Medico Giuridico

Anonimo Collegiale, Ma primavenne il ’58. Quegli allegri casini alMedico-Giuridico di Pisa, Ed. ETS,Pisa, 2006.

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... e se qualcuno non avesseancora indovinato, ecco un’ul-tima, definitiva traccia per ca-pire chi è l’autore misterioso:Oggi ha scritto di ieri, ieri erauomo di Oggi...

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Presentato il catalogo dellamostra di Francesco Tomassi

Lo scorso gennaio Riccardo Varaldo, Salvatore Settis e Vittorio Sgarbihanno presentato presso l’aula magna della Scuola il catalogo della mo-stra dell’architetto Francesco Tomassi Miti senza fede, (Edizioni Ets). Lamostra è attualmente in corso al Museo San Matteo di Pisa. L’esposizione,curata da Ilario Luperini, è stata prorogata fino al 4 marzo 2007.

Il premio Matteottia Barbara Henry e Alberto Pirni

Il libro La via identitaria al Multiculturalismo. Charles Taylor e oltre di Bar-bara Henry e Alberto Pirni, docenti di Filosofia politica alla Scuola Supe-riore Sant’Anna di Pisa, si è aggiudicato il premio Matteotti, prestigiosoriconoscimento assegnato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri aquelle opere che illustrino gli ideali di fratellanza tra i popoli, di libertà edi giustizia sociale che hanno ispirato la vita di Giacomo Matteotti. Ilpremio, istituito con decreto del Presidente della Repubblica e assegnatoa partire dall’anno 2005, è suddiviso in tre sezioni: saggistica, opere lette-rarie e teatrali, tesi di laurea. La cerimonia di premiazione si è tenuta aRoma il 12 dicembre 2006 presso la sala stampa della Presidenza del Con-siglio dei Ministri. La giuria ha premiato l’opera di Barbara Henry e Al-berto Pirni per la novità tematica della conclusione cui giungono i dueautori, ossia alla necessità, in Occidente, di andare oltre i concetti di “as-similazione” e “integrazione” per ricercare un rapporto sociale nuovo ecreativo tra le diverse identità. Nel testo, gli autori si interrogano sull’im-portanza dell’identità nel contesto delle società contemporanee e sull’au-tentico significato del “multiculturalismo”. Offrendo un inquadramentoanalitico ed un’ampia discussione della prospettiva di Charles Taylor, ilvolume propone una serie di possibili risposte per ripensare il vivere de-mocratico in forme adeguate alle sfide del presente.

Consegnato il Premio Spitali

Il dott. Enrico Bini (primo da destra) ha vinto l’edizione 2006 del PremioSpitali con la tesi di perfezionamento in Ingegneria Informatica dal titolo"The design domain of real-time systems", discussa il 1 ottobre 2004.

Consegnato il Premio Baroncelli

In occasione della cerimonia di consegna dei diplomi di licenza e perfe-zionamento, tenutasi il 16 dicembre 2006, è stato conferito il premio Ba-roncelli, destinato ad una tesi di laurea in biorobotica. La biorobotica èuna nuova disciplina che ha per obiettivo lo studio dei sistemi biologicida un punto di vista ingegneristico, con il duplice scopo di sviluppare di-spositivi per applicazioni biomediche (per esempio in chirurgia e in riabi-litazione) e di approfondire la conoscenza del funzionamento dei sistemibiologici stessi. Il premio è stato cortesemente offerto dall’ingegner Artu-ro Baroncelli (al centro nella foto), ex allievo della Scuola, e i vincitorisono stati Umberto Olcese (a destra) e Calogero Oddo (a sinistra).

Nozze fra ex allieviFrancesco Bosco (giurisprudenza, entratonell’a.a. 1991-1992) e Gaetana Morgante (giuri-sprudenza, entrata nell’a.a. 1992-1993 ed attual-mente professore associato di diritto penale allaScuola) si sono sposati lo scorso luglio a Fosdino-vo presso l’Oratorio dei Bianchi. Il ricevimentosi è svolto a casa dello sposo, a Villa Malaspina aCaniparola di Fosdinovo. Fra gli ex allievi pre-senti Alberto di Martino, Marco Giuliani (giuri-sprudenza), Giulio Fancello (agraria) ed ErikaGuerri (giurisprudenza).

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Workshop Italia-CinaUna conferenza internazionle

Il 23 e 24 ottobre si è svolto a Xi’an il “China-Italy Bilateral Workshop onPhotonic Processing for Communications and Sensing”. Tra i relatori del-la conferenza internazionale, alcuni docenti e ricercatori del Centro di Ec-cellenza per l’Ingegneria delle Reti di Comunicazione: il prof. Fabrizio DiPasquale, il prof. Ernesto Ciaramella, i ricercatori Antonella Bodoni, LucaPotì, Giampiero Contestabile, Filippo Cugini. Il prof. Giancarlo Prati hainaugurato i lavori insieme al prof. Wei Zhao, del Xi’an Institute of Opticsand Precision Mechanics of Chinese Accademy of Science.

Firmato un accordocon l’Università di Osaka

Il 30 ottobre, il Direttore della Scuola Superiore Sant’Anna Paolo Anci-lotti e il Direttore della “Graduate School of Engineering” dell’Universitàdi Osaka, Masao Toyoda, hanno firmano un memorandum di accordo perla collaborazione nella ricerca e per lo scambio di studenti, ricercatori edocenti tra i due atenei nel settore dell’ICT e delle tecnologie fotonicheper le reti di comunicazione. Alla cerimonia della firma, in qualità di re-sponsabile del progetto, era presente anche il prof. Giancarlo Prati. Nellafoto, stretta di mano tra Toyoda e Ancilotti al momento della firma.

Intesa con Chongqing University

Il 16 dicembre 2006 si è tenuta alla Scuola la cerimonia di apertura dei cor-si dell’anno accademico 2006-2007. Quest’anno la prolusione è stata svoltada Guido Maria Rey, ordinario di economia politica della Scuola, mentrela lezione inaugurale è stata affidata a Pier Francesco Guarguaglini, Presi-dente e Amministratore Delegato del Gruppo Finmeccanica. Durante lacerimonia è stato inoltre sottoscritto un accordo fra la Scuola e la Chong-qing University per sostenere scambi accademici, culturali e di cooperazio-ne scientifica. L’intesa è stata siglata dal prof. Varaldo, dall’ing. Guarguagli-ni e da Mr Ou Keping, Chongqing University Council Chairman.

C’era una voltail Conservatorio Sant’Anna

In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico è stato distribuito ilvolume L’educazione del cuore e la formazione del carattere. Vita collegialedella giovine al Conservatorio di Sant’Anna in Pisa. 1860-1920 di SilviaAlessi e curato da Carla Papa – un’affascinante e rigorosa ricostruzionedella vita delle collegiali attraverso documenti d’epoca.

Una serata JazzIl 14 gennaio si è svoltopresso la Chiesa diSant’Anna un evento mu-sicale che ha degnamentesalutato l’inizio del nuovoanno. Il concerto dei PippiSextet rappresenta infattiuna piacevole novità nel-l’ambito del calendario de-gli incontri musicali allaScuola. Grazie alla colla-borazione dell’Associazio-ne Allievi ed ex-Allievi edel prof. Claudio Marcocci, questo gruppo di giovani jazzisti del BerkleyCollege of Music di Boston ha avuto l’opportunità di esibirsi a Pisa riscuo-tendo un notevole successo di pubblico. Il contrabbassista e compositoreFrancesco Marcocci porta nel suo progetto musicale “Pippi Sextet” i cin-que jazzisti statunitensi: Dave Cole alle percussioni, Carlos Homs al pia-noforte, Rob Hanlon al sassofono, Patriq Moody alla tromba e DannyHeat al trombone. Il Sestetto ha eseguito nella serata numerosi pezzi delrepertorio personale, offrendo agli ascoltatori momenti unici attraverso lafusione di improvvisazione, istinto melodico e un certo intellettualismo,rivelando l’essenza della musica del genere. Anche per i neofiti l’esibizioneha rappresentato un’interessante occasione per gustare una musica che personorità, tempi e virtuosismi esce dai canoni del melodico puro inauguran-do un mondo nuovo miscelato di accademia e improvvisata fantasia. Taledifficile equilibrio è stato raggiunto attraverso un percorso in crescendo, fi-no alla solare esplosione dei pezzi finali in cui l’ascoltatore si è trovato per-so; il tutto reso fortemente suggestivo dal teatro artistico della Chiesa. Nelcorso di quest’ evento sono state raccolte offerte libere per il progetto “Me-dici per i poveri”. Elena Galli

Musica alla ScuolaTra gli incontri musicali organizza-ti dall’Associazione insieme allaScuola e alla Società FilarmonicaPisana ricordiamo quello del 10novembre nel corso del quale sisono esibiti il baritono Paolo Stec-chi, il soprano Marisa Vitali e, alpianoforte, Vincenzo di Nubila(foto); e quello, del 16 dicembre,

nel corso del quale si è esibita l’orchestra da camera aquilana diretta dalmaestro Carlo Franceschini con un repertorio dal classico al barocco.

Ricordate l'appuntamento a Pisa il 30 aprile e il 1° maggio per la secondaedizione del “Convivio di Primavera”. La sera del 30 cena e spettacolo, il1° megagrigliata offerta dagli allievi sul prato della Scuola. Non mancate!

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Maurizio Ferraris, Babbo Natale,Gesù Adulto. In cosa crede chicrede?, Milano, Bompiani, 2006.

In quanto non credente confesso eprofessore ordinario di filosofia teo-retica a Torino, poco prima di que-sto Natale, Ferraris ha pubblicatocon Bompiani Babbo Natale, Gesùadulto. 151 pagine, che sconfessanoi sé-credenti, ossia i sedicenti cre-denti. Per chiarire: come può la fe-de non essere atto di conoscenza?Al cristiano basterebbe recitare ilCredo, se non fosse che un immagi-nario exit poll fuori dalle Chiese po-trebbe sconfessarlo. Un esempiol’Immacolata concezione. Quale delletre, pone Ferraris: a) concepimentosenza rapporti sessuali; b) concepi-mento senza trasmissione del pecca-to originale; c) ragionamento chenon fa una pecca. E quanti credononella resurrezione dopo aver smessodi credere in Babbo Natale?

In cosa crede chi crede, è un in-terrogativo sociologico attuale epregnante, visto il riflusso religiosopresente e la caduta delle ideologie.In cosa è possibile credere? È questio-ne ontologica di non poco conto.Per dirla con Kant non si può slega-re il concetto (il credere) dall’og-getto (Dio, l’ente). Pertanto, direche la religione sopravvive comeguida morale è negare i suoi dogmi,la base stessa dell’atto di fede. Ilcrocifisso non è un simbolo laico, latransustansazione non è metafora,sennò la messa è rito senza mito. Lafede per l’autore è, semmai, una vi-sione del mondo che se assunta si-stematicamente, inevitabilmentecollide con ciò che l’uomo moder-no – “erede di un’idea umanisticadella ragione” – è : quale padre, og-gi, potrebbe, come Abramo, anchesolo immaginare di sacrificare suofiglio in nome di Dio?

Quando Dio è etica, ma non og-getto, quando il papa è televisibile

occorre distinguere scienza e tecni-ca, l’una in grado di affrancare da“stupore e ferocia” di vichiana me-moria, l’altra capace di far convive-re la più sfrenata modernità con lesuperstizioni più arcaiche. Con lin-guaggio scorrevole, toni appassio-nati ma scanzonati, tra il teoreticoe il leggero, Ferraris con Weberrimprovera il credente a caccia dimiracoli: “chi vuole una visionevada al cinematografo”.

Annalisa Miranda

Cristina Zagaria, Processo all’uni-versità cronache dagli atenei ita-liani tra inefficienze e malcostu-me, Dedalo edizioni, 2007.

“Professori che si tramandano lecattedre come fossero un’eredità difamiglia, come se l’istituzione fosseuna cosa propria. Concorsi truccati,commissioni pilotate, nepotismo,ingiustizie, corse al potere. È questal’università di “cosa nostra”, che ge-nera docenti tanto corrotti, quantoinefficienti, e studenti che un gior-no, imparata bene la “lezione”, sa-ranno i loro “replicanti”.

Comincia così il j’accuse di Cri-stina Zagaria nel suo recente libroProcesso all’università. Cronache dagliatenei italiani tra inefficienze e malco-stume. L’autrice, che è anche gior-nalista de «la Repubblica» dove sioccupa prevalentemente di cronacanera, ha cominciato ad interessarsiall’università proprio a partire daquesta angolazione: celebre adesempio il caso in cui, fintasi unastudentessa, fece scoppiare unoscandalo all’università di Bari per lapresunta richiesta di favori sessualiin cambio delle soluzioni ai test diammissione per scienze delle comu-nicazioni.

E così il libro di Cristina Zagaria,

attraverso un’attenta e documentataanalisi fatta anche di intercettazio-ni telefoniche, confessioni, conver-sazioni rubate con microspie e de-nunce, racconta il volto malato de-gli atenei italiani, da Palermo a Mi-lano. Storie vere, avvincenti, connomi e cognomi di singoli atenei,professori e studenti. Storie, però,che al di là della cronaca, diventanoesempi generali e offrono uno sguar-do senza censure su una certa uni-versità che è a sua volta specchio diuna società malata nel suo comples-so: “Tutto sommato non c’è da stu-pirsi. Perché l’università non è ununiverso astratto, un mondo a sé.Riproduce solo lo schema di una so-cietà altrettanto malata, in cui i po-chi cambiamenti che si tenta di in-trodurre incontrano ostilità e impe-dimenti, più o meno mascherati. Infondo, nella vita quotidiana dichiunque, cosa c’è di diverso? Chivuole lavorare in televisione, in ungiornale, in un grande studio legaleche chance ha di dribblare il siste-ma di cooptazione nepotistica? Qua-si nessuna”. mm

M. Giaquinta, A. Guerraggio,Ipotesi sull’università, Torino,Codice edizioni, 2006.

Mario Giaquinta e AngeloGuerraggio parlano di universitàpartendo da una prospettiva inter-na: il primo è docente di analisimatematica alla Normale di Pisa, ilsecondo insegna matematica gene-rale alla Bocconi di Milano. La lo-ro Ipotesi sull’università è un libroagile, poco più di 80 pagine, cheesamina lucidamente gli esisti del-la cosiddetta riforma del 3+2 e, piùin generale, la situazione degli ate-nei italiani con riferimento a tuttoil sistema Paese, o meglio, alla suacrisi. Per spiegare la nuova univer-

sità, i due autori partono da lonta-no, prendono una “rincorsa stori-ca”, sino a giungere ad un’analisidella ratio e degli obiettivi dellariforma Berlinguer: aumentare leimmatricolazioni, diminuire iltempo medio per giungere alla lau-rea triennale, creare un vero siste-ma a due livelli, uno per le profes-sioni intermedie, l’altro per quellead alta qualificazione. Risultatiraggiunti? Solo in parte e solo peril numero di matricole anche se,ammettono gli autori, è difficile fa-re una valutazione dopo così pocotempo.

Molto più evidenti, a detta deidue docenti, sono invece i difettidella riforma. Il primo “punto do-lente” che individuano è sul ver-sante della qualità, fra “licealizza-zione” e generale concorrenza alribasso degli atenei. Il secondo ri-guarda la distanza sempre maggiorefra didattica e ricerca. Il terzocoinvolge l’assetto generale delleuniversità e la loro governance, conla piaga dei professori che diventa-no manager delle istituzioni per lequali lavorano. Ma gli effetti per-niciosi del 3+2 sono da imputare –sempre secondo Giaquinta e Guer-raggio – anche agli errori dei rifor-matori. Ecco l’elenco delle lorocolpe: “Quella paradossale di nonaver creduto alla politica, comeprogettualità originale e mediazio-ne di diverse istanze. Quella diaver lasciato la guida di processiabbandonati a se stessi, credendofideisticamente alla capacità delmercato come sostituto dell’impe-gno di stato”.

Dopo le critiche, nell’ultimo ca-pitolo, le proposte. Non un’altrariforma avvertono gli autori per-ché il sistema non sopporterebbeun ulteriore stress così a breve di-stanza. E così la ricetta di Giaquin-ta e Guerraggio cerca di introdurredei correttivi e si sintetizza nel ri-fiuto dei mega atenei bulimici. Ba-sta, cioè, con le università chehanno troppe missioni e vocazioni- la didattica, la ricerca e il territo-rio. Nessun ateneo può far tutto,bisogna “dividere, separare, distin-guere, diversificare” perché solocosì il sistema può funzionare nelsuo complesso. “Pensiamo a unarete di università. Ogni nodo avràle sue specializzazioni, per l’ambitotematico e/o per il livello prescel-to. Ogni nodo sarà collegato aglialtri. Con qualcuno, i legami sa-ranno più stretti; con altri meno.Ma insistiamo sulla specializzazioneo, se si preferisce, sulla specificamissione dei singoli nodi”. mm

Letti per voi

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Alga D. Foschi, Imprenditricidella provincia di Livorno: voca-zioni, motivazioni, ostacoli easpettative, Quaderni della Ca-mera di Commercio Industria eArtigianato.

È un’indagine conoscitiva di ta-glio prevalentemente statistico, conabbondanza di numeri, tabelle, figu-re, diagrammi, però interessante an-che per i non addetti ai lavori e direspiro più ampio di quanto la di-mensione locale farebbe pensare,come specchio della realtà naziona-le, alla quale si fanno diversi richia-mi (aggiungendovi un’occhiata allasituazione complessiva in Europa).Ne risulta che il mondo dell’im-prenditoria femminile si muove,progredisce, manifesta una notevolevitalità e un confortante ottimismo– a dispetto della forte congiunturanegativa in atto nel periodo dellaricerca - ma è ancora molto limita-to, restando in una posizione di re-troguardia rispetto agli altri Paesipiù avanzati, e non è sostenuto co-me meriterebbe.

Già coordinatrice del lavoro sulcampo, la curatrice di questo volu-me -perfino nella veste grafica, co-pertina compresa (un merito inpiù) - è Alga D. Foschi, ricercatricedi economia applicata e docente dieconomia industriale all’Universitàdi Pisa (e fresca vicepresidente, au-guri!, dell’Associazione ex allievi.Le pari opportunità, in casaSant’Anna, sono effettive, come sivede). Altre donne hanno collabo-rato con lei sia nell’indagine, sianella sistemazione e interpretazionedei dati raccolti. E voglio citare ilfelice contributo extra di ChiaraCertonà, ricercatrice di filosofiadella scienza, che nel prologo ponela questione di fondo del diverso

“spirito d’impresa” (in senso lato,considerando ogni umana attivitàdi rilevanza sociale) degli uomini edelle donne, ovviamente caldeg-giando la prevalenza dello spiritofemminile, che molto di più e dimeglio potrebbe darci. Condivido,per via di un’approfondita cono-scenza della società scandinava, fin-landese in particolare, che tanto dipositivo ha ottenuto dalle sue don-ne investite delle più alte responsa-bilità tutti i campi, anche quellopolitico-istituzionale.

L’indagine, promossa dal Comi-tato Imprenditoria Femminile dellaCamera di Commercio livornese, èstata condotta su un vasto campio-ne rappresentativo delle 8973 im-prese esistenti in città e provincia,di ogni settore economico e di ognidimensione, dalle più piccole (indi-viduali), del terziario tradizionale,alle più grandi, di tipo industriale,fondate dalle donne stesse oppuredi seconda generazione, dove una“lei” ha preso il posto di un “lui”,spesso in ambito familiare.

Al riguardo emerge un elementosignificativo. Le donne che suben-trano a maschi vengono accolte eosservate con diffidenza, tanto mag-giore quanto più atipico è il settorein cui si cimentano rispetto ad atti-vità già in parte femminilizzate.Sicché diventa molto impegnativa,una vera sfida, la conquista dellastima e della fiducia dei collabora-tori e delle maestranze, in un climadi aspettativa negativa: “con quellaal timone, la barca affonda…”. Mapoi, la donna che supera la prova as-sume una sorta di belliniana sacralità:ci si fida ciecamente di lei e la si portaad esempio. Promozione piena, conlode. (Non sarà che noi maschiettiabbiamo cercato di tenere le fem-minucce ai margini del gioco in-

tuendo che altrimenti avrebberovinto loro?).

Un altro dato che conta. E quan-do sono al posto di comando, comun-que ci arrivino, le donne non mancanomai d’innovare, di portare qualcosa dipiù moderno e personalizzato. Infatti,dalle risposte al questionario risultache già nella decisione di avviareun’attività in proprio, il 40 per cen-to di esse è stato spinto anche dalla“voglia di creatività imprenditoria-le”. Lo slogan di un tempo, “la fan-tasia al potere”, tradotto in politicaaziendale e di marketing.

Del resto loro, le donne, ci cre-dono a quello che fanno. Dall’inda-gine scopriamo o piuttosto abbiamoconferma che sono sempre moltomotivate, e in genere hanno unasolida coscienza della loro capacitàdi ben operare (secondo metà delcampione, una capacità percepitaanche dalla società; secondo l’altrametà, invece, non adeguatamentericonosciuta). Sì, esiste un talentopropriamente femminile, che nellaconduzione di un’azienda si manifestainnanzitutto nella facilità di relazione,nella pazienza e nella capacità di ascol-to, qualità che si aggiungono, miglio-randolo e arricchendolo, al modelloimprenditoriale maschile.

Le imprenditrici prestano più at-tenzione ai rapporti con i clienti ene sanno instaurare di ottimi con idiretti collaboratori e i dipendenti,forti di una lunga esperienza diplo-matica all’interno della famiglia.Più in concreto, guardando al mer-cato, considerano determinante peril successo dell’azienda, la garanziadi qualità del prodotto, ovvero ilbuon rapporto qualità-prezzo (fa ca-polino l’esperienza della massaia), odel servizio che offrono.

Ottima interpretazione del lororuolo. Dovrebbero essere facilitatee aiutate. Invece lamentano l’insuf-ficienza di attività informative, for-mative, di orientamento, di consu-lenza, e vacillano sotto il peso del-la burocrazia, con la quale hannomeno dimestichezza degli uomini.Ma il punto più dolente è quellodella difficoltà a ottenere finanzia-menti, un ostacolo capace di bloc-care ogni iniziativa. Vi battono latesta anche i loro colleghi maschi.Ma per le donne è peggio. Allelungaggini e complicazioni del si-stema creditizio si aggiunge una ra-dicata diffidenza delle banche versole imprenditrici, soprattutto giova-ni, all’inizio dell’attività, con laconseguente pretesa di garanzie ecoperture più estese di quelle ri-chieste alla clientela maschile. Esenza quattrini, nemmeno la “crea-tività” femminile può combinaremolto.

Infine, il capitolo del welfarestate (siamo in piena attualità).

Queste donne che producendo ric-chezza rischiando di persona chie-dono servizi per l’infanzia e assi-stenza domiciliare per gli anziani,maggiore flessibilità degli orari diuffici, negozi, servizi pubblici e pri-vati, aiuti fiscali per i periodi dimaternità. Cioè - scrive Alga Fo-schi - chiedono alla società, nelle suemolteplici componenti, di diventarepiù efficiente e solidale, di evolversi insenso globale e non semplicemente diriuscire a far crescere di qualche puntopercentuale il Pil, costi quel che costi.Tutti d’accordo, anche noi maschi.

Dino Satriano

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La Sibilla e altri studisulla religione degli antichiCollana: il mito [3]A. SANTONI [CUR.]S. SETTIS [CON UN TESTO DI]2007, pp. 154

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Sulla mia attività di scrittoreCollana: parva philosophica [5]ANDREA SCARAMUCCIA [CUR.]2006, PP. 68

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Introduzione a Martin HeideggerCollana: parva philosophica [4]ANNAMARIA LOSSI [CUR.]2006, PP. 216

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Senso e indifferenzaUn clusterbook di filosofiaCollana: parva philosophica [7]2007, PP. 144

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Interpretazione tra mondiIl pensiero figurale di David LynchCollana: La Piazza Universale [6]2006, pp. 536

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Scrittura, gestualità, immagineLa novella e le suetrasformazioni visive Collana: Letteratura italiana [10]2007, PP. 116

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SANT’ANNA NEWSnotiziario semestrale

Direttore responsabile: Brunello GhelarducciComitato redazionale: Amedeo Alpi, Giovanni Comandè, Alga Fo-schi, Vincenzo Letta, Franco Mosca, Mauro Stampacchia, GiuseppeTurchetti.Segreteria di redazione: Marina MagnaniEditore: Associazione ex allievi Scuola Superiore di Studi Universitarie di Perfezionamento S. Anna, Pisa. Pubblicato con un contributodella Scuola Superiore Sant’Anna e della «Fondazione Spitali».Presidente: Giuliano AmatoCoordinatore: Franco MoscaSegreteria: Anna LettaSede: Piazza Martiri della Libertà, 33 – 56100 Pisa.

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Page 36: S News 28 O - sssup.it€¦ · l’incontro è stato coordinato dagli ex-allievi Franco Mosca e Vincenzo Di Nubila e gli allievi hanno fatto il resto in modo superbo. Nell’aula

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AGRARIA - Da sinistra: Alice Ruckert (Chianti - PI), Enrico Maratona(Moconesi - GE)

SCIENZE POLITICHE - Alberto Rini (Ventimiglia di Sicilia - PA); As-sente: Carlo Ludovico Cordasco (Messina).

ECONOMIA - Da sinistra: Mattia Ricci (Parma), Lorenzo Profico (Pesca-ra), Riccardo Molteni (Cinisello Balsamo - Mi), Angela Abbate (Torreanodi Martignacco - Ud), Mara Cappelletti (Lurago d’Erba - Co), Michele For-tezza (Medesano - Pr), Lorenzo Busca (Fano - Pu).

INGEGNERIA - Da sinistra in alto: In alto: Fiorenzo Artoni (Cremona),Mirko Ferrati (Pistoia), Leucio Iannace (Benevento), Valerio De Palma(Brindisi), Francesco Viola (Roma); in basso: Alessandro Pienotti (Roma),Alessio Lenzi (Pistoia), Andrea Baù (Palermo), Alessandro Cattabiani(Parma), Francesco Dragoni (Arezzo), Laura Buti (Pistoia).

GIURISPRUDENZA - Da sinistra in alto: In alto: Tommaso Virgili (Ca-stelfiorentino - FI), Marco Serraino (Roma), Andrea Nicola Ludovico Ga-boardi (Cremona), Andrea Blasini (L’Aquila), Sara Lamonaca (L’Aquila),Andrea Presotto (Pordenone); in basso: Giuseppe Francesco Aiello (Girifal-co - CZ), Fabio Pacini (Colle Val d’Elsa - SI), Vincenzo Carbonelli (Ro-ma), Giovanni Poggiani (Bergamo), Bruno Brancati (Reggio Calabria).

MEDICINA - Da sinistra: Domenico Tricò (Cosenza), Maria FrancescaRenzelli (Cosenza), Davide Defennu (Sassari), Marina Baretti (Gela -CL), Grazia Rutigliano (Bitetto - BA), Francesca Quaglia (Verona), An-nalisa Ravanelli (Pistoia); Assente: Marco Capecchi (Pistoia).

Ecco i nuovi allievi della Scuola Superiore Sant’Anna*

*Si ringraziano i rappresentanti degli allievi, la Dottoressa Chiara Busnelli, e il personale della Divisione Formazione per la collaborazione.

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