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Analisi dello sguardo in Jean Paul Sartre

Date post: 18-Nov-2023
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Università degli studi di Siena Dipartimento di Scienze dell'educazione, Scienze umane e della Comunicazione interculturale Corso di laurea in Studi Umunistici L'INCONTRO CON L'ALTRO IL TEMA DELLO SGUARDO IN JEAN PAUL SARTRE Relatore: Candidata: Simone Zacchini Sara Pancini Anno Accademico 2014/2015
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Università degli studi di Siena

Dipartimento di Scienze dell'educazione, Scienze umane e della Comunicazione interculturale

Corso di laurea in Studi Umunistici

L'INCONTRO CON L'ALTROIL TEMA DELLO SGUARDO IN JEAN PAUL SARTRE

Relatore: Candidata:

Simone Zacchini Sara Pancini

Anno Accademico 2014/2015

A chi non considero “Altro”

Indice

INTRODUZIONE

Capitolo 1

PRESUPPOSTI E CONSEGUENZE DELL'INCONTRO CON L'ALTRO – LO SGUARDO

1.1 – La crisi e la malafede del pour soi

1.2 – Il primo incontro con l'Altro: lo sguardo

1.3 – Il sentimento dello sguardo: la vergogna

Capitolo 2

LE RELAZIONI CONCRETE CON GLI ALTRI

2.1 – I primi atteggiamenti verso gli Altri – Le modalità di assimilazione per sfuggire allo sguardo

dell'Altro: l'amore e il masochismo

2.2 – Le modalità di negazione per sfuggire allo sguardo dell'Altro: l'indifferenza e il desiderio, gli

atteggiamenti “difensivi”

2.3 – Le modalità di negazione per sfuggire allo sguardo dell'Altro: il sadismo e l'odio, gli

atteggiamenti “offensivi”

Capitolo 3

CONCLUSIONI

Bibliografia essenziale

Bibliografia secondaria

Ringraziamenti

INTRODUZIONE

Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.

Somigliano a noi, risposi

Platone, Repubblica, 514 a

La definizione di “Altro” proviene da lontano: già Platone nel Sofista, lo definisce come

appartenente ai 5 generi sommi, come speculare all'identico, ma anche all'essere (essere, quiete,

movimento, identico, altro).1 “Altro”, quindi, non ha mai avuto accezione positiva, la sua essenza è

la negazione stessa, una negazione che però si deve affermare in qualche modo. Nella filosofia

esistenzialista di Jean Paul Sartre, si scopre “l'Altro” come una presenza ingombrante che si coglie

principalmente con lo sguardo e l'incontro con gli altri è inevitabile.

Nel 1939 Sartre pubblica il breve saggio Un'idea fondamentale della fenomenologia di Husserl,

dove afferma che la coscienza e il mondo sono dati nello stesso momento e la coscienza è un atto

intenzionale. Specificato questo, Sartre continua riprendendo anche le idee affermate ne La

trascendenza dell'Ego, opera pubblicata nel 1938, per cui anche l'Io della coscienza (l'ego, appunto)

viene praticamente dissolto e colto solo come cosa tra le cose, sempre cioè su un piano

fenomenologico. Nel 1938 pubblica anche La nausea e nel 1939 Il muro, un romanzo e una raccolta

di racconti che hanno immediato successo. Il primo porta Sartre ad esser imposto sotto l'attenzione

dei lettori e dei critici (che hanno un giudizio positivo sull'opera quanto a maestria e talento

dell'autore e la tematica che influenzerà intere generazioni), il secondo farà più scalpore, dati i

caratteri perversi, folli e impotenti delle cinque “piccole disfatte”2, ma entrambi rappresentano

un'analisi feroce dell'esistenza umana, che si sfalda di fronte ad un mondo senza più un senso

preciso, che ha timore dell'Altro e attua diverse modalità per approcciarsi ad esso, ma tutte

fallimentari.

Se i saggi filosofici di questo primo Sartre hanno il compito di spiegare “ontologicamente” la

struttura esistenziale umana (in particolare La trascendenza dell'Ego, ma anche L'immaginario,

L'immaginazione e Idee per una teoria delle emozioni) sono in realtà i romanzi, i racconti e le opere

teatrali che esprimono al meglio la condizione dell'uomo descritto da Sartre e preparano il terreno

per quella grande opera che sarà L'essere e il nulla. Pubblicato nel 1943, il “saggio di ontologia

fenomenologica” ha come intento la ricerca dell'essere, ma la sua grandezza si esprime soprattutto

nella sezione dedicata ai rapporti con gli altri, dove vengono analizzati i comportamenti umani,

ponendoli in un circolo dialettico fallimentare che può volgere ora all'amore, ora al masochismo,

1 Cfr. N.Abbagnano, Dizionario di filosofia, Edizione Utet-De Agostini, Milano,2013, p.182 Così Sartre definisce i cinque racconti de Il muro; Cfr. Il muro, Giulio Einaudi Editore,Torino,1995, p.VI

ora al sadismo o all'odio. Sartre non si sente in grado di esporre una “psicanalisi fenomenologica”, o

tanto meno di dare giudizi sociologici o morali su determinati comportamenti (lo si esclude tanto

più dal fatto che Sartre non ammette l'esistenza di un ego che condiziona la coscienza: questa può

funzionare a prescindere da esso, seppur sempre coscienza di qualcosa). Egli osserva, con il metodo

fenomenologico e riporta le sue conclusioni – che non sono giudizi, ma osservazioni che portano ad

un'analisi dell'esistenza, esperienze fatte in un café, per strada, nella metropolitana: comportamenti

all'apparenza banali che rivelano la contingenza umana e il relativo malessere della consapevolezza

di questa. Ogni possibile disvelamento della mia contingenza è racchiuso innanzitutto nello sguardo

dell'Altro, che può oggettivarmi; allo stesso modo di come io guardo le cose, gli oggetti, l'Altro mi

appare dapprima inserito in questo contesto oggetto-mondo, e reciprocamente accade per lui nei

miei confronti. Ma quando mi rendo conto che l'Altro è un soggetto, e che con la sua libertà di agire

in quanto tale può minare la mia soggettività, ne ho timore e cerco di sfuggire o reagire al suo

sguardo, andando a creare diverse modalità di incontro.

In questo breve elaborato si è deciso di analizzare solo le modalità di incontro con l'Altro, e non

andremo alla ricerca di possibili soluzioni a questi fallimentari rapporti perché non è la sintesi che ci

interessa, ma il passaggio attraverso la negazione.

Si può obiettare che il superamento de La nausea, così come dell'angoscia portata dal rapportarsi

agli altri, siano necessari, pena il ritrovarsi in un circolo vizioso di continuo “No” al mondo, un

qualcosa che potrebbe esser giudicato come una “ribellione adolescenziale”, un'aderenza alla

negatività per protesta.

Sartre scrive L'essere e il nulla in piena maturità: non vuole essere un grido di protesta alla guerra o

alle convenzioni sociali, né un'adorazione del pessimismo.

È un'analisi dell'esistenza umana alla luce però di un terremoto, di un qualcosa di forte che accade

quando ci sovviene la crisi di tante certezze, quando il mondo che ci circonda perde di significato, e

la nostra soggettività, il nostro pour soi, prende consapevolezza di quell'ospite indesiderato che

alberga dentro di noi: il nulla. Mi rendo conto che vorrei aspirare alla pienezza, alla totalità sicura

del mio essere, ritornando in quelle certezze che non potrò più avere: sono corpo e contingenza

piena, ma racchiudo un vuoto. Proverò a colmare questa voragine investendo nei rapporti

interpersonali: ma l'Altro, come me, è incerto e instabile e si scatenano delle reazioni motivate dal

timore di essere posseduti e oggettivati dall'alterità, seppur conscio della mia soggettività (e di

quella altrui), che non potrà mai esser soppressa completamente, neanche qualora io lo volessi

(come nel caso del masochista).

Come lo schiavo che uscito dalla caverna, vi fa ritorno per raccontare ai compagni cosa ha visto e

questi lo deridono, lo umiliano, sino a massacrarlo fisicamente, così ho timore dell'incomprensione

dell'Altro; mi basta il suo sguardo per riportarmi alla realtà, per rendermi consapevole della mia

contingenza. Questo è necessario, così come sono necessari i tentativi di incontro che attuo, seppur

fallimentari: perché anche l'Altro può provare le mie stesse sensazioni, può ritrovarsi angosciato dal

deficit d'essere che lo pervade, sentirsi perso in un mondo che non riconosce più, e dalla negatività

dell'incontro potrebbe nascere anche qualcosa di positivo.

Sartre troverà questo positivo nella collettività e nell'impegno politico, che non analizzeremo in

questa sede. A prescindere dal risultato che può essere storicizzato o meno, l'analisi che compie

Sartre riguardo ai rapporti interpersonali si può collocare al di fuori dal tempo, e soprattutto le opere

letterarie comunicano efficacemente e senza bisogno di spiegazioni “ontologiche” il malessere

dell'uomo moderno.

Si è preferito analizzare questo Sartre prima dell'impegno politico proprio per l'analisi esistenziale

diretta che compie, seppur sempre con metodo fenomenologico, che arriva diretta soprattutto

durante la lettura delle opere narrative. Può talvolta esser definito cinico o crudo, ma i personaggi

sartriani, compresi quelli degli “esempi” ne L'essere e il nulla, ci mostrano sin dove possono

giungere i rapporti umani, anche alle estreme conseguenze dell'odio.

Capitolo 1

PRESUPPOSTI E CONSEGUENZE DELL'INCONTRO CON L'ALTRO – LO SGUARDO

1.1 – La crisi e la malafede del pour soi

Per comprendere il rapporto con gli altri, espresso in particolare ne L'essere e il nulla, si deve

prima far riferimento e precisare la concezione di epoché, ripresa da Sartre nell'ambito della

fenomenologia husserliana. Pur essendo un concetto già presente fin dall'antichità (scuola degli

scettici), inteso come sospensione del giudizio, si affina in Husserl come contemplazione

disinteressata, atteggiamento che svincola ogni interesse naturale o psicologico per il mondo e per

le cose esistenti:

“l'epoché fenomenologica mi vieta assolutamente ogni giudizio sull'esistente spazio-temporale”3

Epoché è dunque lo stato psico-fisico al quale si può aspirare per giungere ad una situazione

“ottimale” con se stessi, a “l'ego assoluto, l'ego in quanto centro funzionale ultimo di qualsiasi

costituzione”, continuando a vivere nonostante la crisi dei fondamenti, dell'ovvio, di un intero

sistema di conoscenze che viene meno soprattutto nel '900 (crolla quel sistema prettamente

naturalistico e positivistico, forte del razionalismo metafisico e del realismo).

Questa “perdita di un centro” fa si da sospendere ogni giudizio sulle conoscenze, poiché diventano

esse stesse cedevoli e carenti di valore. Proprio questo atteggiamento porta ad un nulla vissuto, ad

una modus vivendi caratterizzato dalla debolezza non solo dell'oggettività gnoseologica, ma anche

di ogni in sé4. Mi rendo conto che io non sono come le cose che mi circondano, non ho la stessa

pienezza d'essere di queste, non sono stabile e non ho una forma precisa, cambio nel tempo: ho

come un deficit d'essere rispetto agli oggetti.

Sartre in uno dei suoi primi scritti, La trascendenza dell'Ego, abbatte il soggetto trascendentale,

ponendo l'ego (insieme di Moi, dimensione materiale dell'Io, e di Je, aspetto attivo dell'individuo)

non più come struttura freudiana della coscienza, ma come “essere nel mondo”, che non risulta

indispensabile al funzionamento della coscienza stessa. L'Io esiste, ma non più come qualcosa dal

quale dipende ogni mia azione. Non c'è nessun “Super Io” o “Es”; io mi muovo nel mondo grazie

alla mia coscienza, che paradossalmente non necessita proprio di me per esistere: è sempre

“coscienza di qualcosa”, ma non sempre e necessariamente “coscienza di me stesso”.

“La coscienza è un essere per il quale, nel suo essere, c'è coscienza del nulla del suo essere”5

3 Cfr. E.Husserl, Die Idee der Phanomenologie, in Husserliana, Den Haag, Max Nijhoff, 1950, par. I4 Cfr. S.Zacchini, Il corpo del nulla,Edizioni Franco Angeli, Milano, 2005, pp.23-255 J.P.Sartre, L'essere e il nulla, Edizioni Il Saggiatore Tascabili, Milano, 2011, cit. p.83

Posso dunque esistere senza aver piena consapevolezza del mio essere e ritrovarmi in un mondo

che, come per me stesso, non riconosco. Pagine emblematiche di tale spaesamento si trovano ne La

nausea, romanzo di Sartre pubblicato nel 1938, l'opera forse più famosa e coinvolgente del

pensatore francese.

Il romanzo narra le vicissitudini dello storico Antonio Roquetin sotto forma di quaderni-diari

(trascritti così come sono stati ritrovati, come ben specificato dall'autore), trasferitosi a Bouville per

le sue ricerche storiche sul marchese di Rollebon.

In questa tranquilla cittadina, Roquetin perderà sempre di più l'interesse per la sua certezza storica e

sarà totalmente assuefatto dal mondo, formato dalle più insignificanti cose, dai nebbiosi paesaggi,

ma anche e soprattutto dalle sfocate personalità altrui. Tutto sarà minuziosamente osservato

dall'ormai non più storico Roquetin, dal ritratto dell'odioso marchese di Rollebon ad un foglio

accartocciato per terra, sino alle espressioni dei clienti di un café, dei passanti, dell'Autodidatta o

della padrona del “Ritrovo dei ferrovieri”; tutto, contribuirà a creare e far crescere quella sensazione

di nausea del mondo, di perdita di senso, che arriva al culmine quando ci si accorge che “le cose

sono soltanto ciò che paiono – e dietro di esse... non c'è nulla”6

Ci sono le cose, e c'è la mia soggettività: siamo due elementi ben distinti, ma soprattutto le prime

ben determinate nella loro esistenza, la mia soggettività no. Sono cedevole rispetto ad esse, il mio

essere è manchevole: posso dominare gli oggetti, possederli, avere un'oggettività ma non una

soggettività, in particolare la mia.

Già prima de La nausea, Sartre pone la fondamentale questione del rapporto soggetto-mondo, o

meglio coscienza-mondo. Ma che cos'è la coscienza?

La coscienza nasce all'insegna del non sapere, scaturito spesso dalla domanda “chi sono io?”,

impostando quella negazione che è sia contingente che intrinseca all'uomo, quel nulla che è in

continuo rapporto con l'essere; non è da pensarsi però come un qualcosa a priori,come un cogito

cartesiano o come una categoria kantiana: l'essenza della coscienza è la spontaneità.

La coscienza trascendentale – scrive – è una spontaneità impersonale. Essa si determina all'esistenza di ogni istante

senza che si possa concepire niente prima di essa. Ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela quindi una creazione

ex nihilo7.

La coscienza può definirsi come un modo di essere dell'esistenza, ed essere coscienza di qualche

cosa significa “essere dinanzi a una presenza concreta e piena che non è la coscienza”8; perciò non

potrò mai essere presente a me stesso, almeno non totalmente: io non sono una presenza piena e

concreta, dentro di me perversa anche il nulla.

6 J.P.Sartre, La nausea, , edizione Giulio Einaudi, Torino, 1948. cit. p. 1327 J.P.Sartre, La trascendenza dell'ego, cit. p. 678 J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p. 27

Essendo “pura spontaneità”, un “esplodere verso”, la coscienza tenterà di porre al di fuori di essa

anche l'Ego stesso, come cosa tra le cose: eppure, rimango consapevole che io non sono una cosa,

non ho la stessa validità d'essere.

Ciò perché non esiste una scala valoriale di coscienza che ponga l'Ego “al di sopra” : un'emozione,

un'immagine, un'idea, designano coscienza d'emozione, immaginante o ideante, ma tutte coscienze

irriflesse e non-posizionali di sé; come dire che la coscienza “non ha coscienza” di se stessa, esiste e

funziona a prescindere da quel soggetto che la rende operativa: essa è libera e spontanea, e così

anche l'uomo diventa “obbligatoriamente” libero.

L'immaginazione permette di isolarmi e annullarmi nel mondo, ed è forse l'atto che più testimonia

la libertà rispetto al mondo percepito, che viene comunque motivata da una percezione stessa.

Nonostante la fuga da questo mondo determinato,è infatti un fruscio tra gli alberi, un odore, un

sapore dolciastro, che mi fa capire che esisto. Brulico di esistenza, ne sono pieno, attivo

un'intenzionalità immaginativa ed emotiva che mi scompagina ogni percezione reale, seppur

partendo proprio da una di queste; e ho paura, orrore dell'esistenza, timore di incontrare me stesso,

consapevole del nulla che mi pervade, ma allo stesso tempo anche geloso della mia soggettività, e

non voglio che essa possa esser “oggettivata” da qualcuno, considerata alla stregua di un oggetto

che facilmente si può prendere e possedere.

“Il mio pensiero sono io : ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso... e non posso impedirmi di pensare. In

questo momento stesso – è spaventoso – se esisto è perché ho orrore di esistere. Sono io, io, che mi traggo dal niente al

quale aspiro: l'odio, il disgusto di esistere, sono altrettanti modi per farmi esistere; di affondarmi nell'esistenza” 9

Ho angoscia dell'esistenza. Sono frustrato dalle innumerevoli possibilità di essere che posso

sperimentare, conseguenze delle mie scelte, o meglio di un Io nel quale non mi identifico più. Inizio

però ad avere timore non solo dell'irrefrenabile libertà del mio essere, ma soprattutto di come questo

essere possa interagire con altre soggettività. So della mia cagionevolezza di esistere, della mia

incompletezza, ma altrettanto so che non posso diventare cosa tra le cose, e a questo punto neanche

lo voglio, perché non voglio sottostare all'avere di qualcuno, facilmente usato e posseduto come si

fa con gli oggetti; allo stesso tempo però non voglio che si scopra la mia fragilità di esistere, cosa

che però potrebbe rispecchiarsi anche esternamente, nel mio corpo, e non vorrei che uno specchio

veritiero mi renda consapevole di come realmente sono. Inizio dunque ad avere coscienza

dell'esistenza dell'Altro.

Con queste consapevolezze si arriva al “saggio di ontologia fenomenologica”10 che è L'essere e il

nulla, pubblicato da Sartre nel 1943, che si pone come obiettivo iniziale la ricerca dell'essere.

9 J.P.Sartre, Ivi, p. 13710 Sottotitolo della prima edizione,come specificato da S.Moravia, Introduzione a Sartre, Edizioni Laterza, Bari, 2010,

p.38

Sartre svolge un'analitica esistenziale, ma giunge a far coincidere l'essere con l'apparire,

strutturandolo in modo dualistico: lega cioè l'essere sia al fenomeno in sé (en soi), sia alla coscienza

(pour soi) , e riesce a far interagire questi duplici elementi definendo l'essere come relazione.

Relazione dinamica soprattutto tra essere e nulla, come dire tra necessità e libertà, tra esistenza pura

e totalizzante e quel particolare tipo di non- esistenza che mi getta nel mondo.

Il nulla è proprio dentro di me, fa parte della disponibilità che mi prospetto nel futuro prossimo e

nel presente.

Si noti, per inciso che il nulla inteso da Sartre non ha a che vedere con l'idea di nulla fornitaci ad

esempio da Gorgia da Lentini nell'antichità: egli pone il nulla dialetticamente in opposizione

all'essere ed anzi, il primo arriva ad annientare anche l'esistenza dell'essere stesso (“il non essere non è;

perché, supposto che il non essere sia, esso insieme sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non

sarà, ma in quanto esiste come non esistente, a sua volta esisterà; ora, è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia

e non sia; e dunque, il non essere non è”11).

Siamo lontani da giochi dialettici in cui il nulla è considerato una mera opposizione all'essere; certo

il nulla mina la pienezza dell'esistenza di ogni soggetto, il quale lo percepisce dentro e fuori se

stesso. Ma il nulla si rivela una negazione necessaria, ciò che fa scattare all'individuo il dubbio,

l'incertezza, che smuove la soggettività alla ricerca di altri fondamenti, aprendola liberamente a

molteplici possibilità di scelta dell'esistenza, portandola a interrogare se stessa e gli Altri, quando

giungerà il momento dell'incontro con quest'ultimi.

Il nulla deve far parte del nostro essere.

Non essendoci un Io assolutizzante “fichtiano”,è la coscienza stessa fa questione del suo essere,lo

investiga e lo pone al di fuori di sé, nel mondo, creando così un'esistenza “distinta da sé”12.

Questo “altro distinto” dalla coscienza è l'essere del fenomeno “ in sé” o en soi , quell'essere pieno e

totalizzante incompatibile con l'esistenza umana, che si definisce invece come l'essere “per sé”, o

pour soi, l'essere della coscienza stessa che ha consapevolezza del suo nulla.

Se l' en soi è riferibile alle cose nella loro immediatezza, che non hanno coscienza della propria

essenza e non sono presenti a se stesse, increato e atemporale, è il pour soi che caratterizza la

soggettività umana, la coscienza presente a se stessa capace di darsi liberamente più essenze, che si

auto-crea continuamente nel tempo. Tale libertà crea appunto indeterminatezza, che fa scaturire

nell'uomo la tendenza a fuggire da se stesso, continuamente, cercando di trascendersi in altri tipi di

esistenze. Il pour soi è movimento, slancio e capacità di nullificare la propria esistenza, ciò che non

può mai coincidere con sé.

“La coscienza è un essere per il quale, nel suo essere, c'è coscienza del nulla del suo essere”13

11 Cfr.Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 66, in I Presocratici, Edizioni Laterza, Bari, 1990 pp. 916-92012 Cfr. J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p. 2713 J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p. 83

A determinare la struttura del proprio essere è l'intenzionalità del soggetto : l'essere è governato

dalla possibilità e dalla libertà perché è l'intenzione della coscienza dargli le infinite possibilità di

scelta di essere come non è, annullandolo nella sua fatticità.

La trascendenza è il movimento attraverso il quale questo soggetto esce da sé e si dirige verso il

fondamento dell'essere, che allo stesso tempo lo rende distruttibile, negabile e annullabile : verso il

nulla. L'essere del soggetto è sì un “esserci”, ma è un esserci forzatamente gettato nel mondo.

Nonostante questa presenza forzata, Sartre ammette che la condizione necessaria dell'uomo è la

scelta, proprio a causa dell'instabilità che da il nulla. Per questo il nulla deve esserci: esso mi crea

possibilità di scelta, mi rende libero. E' una libertà che si crea grazie al nulla, e allo stesso tempo lo

manifesta: l'uomo deve essere libero per poter manifestare le sue infinite possibilità di scelta, poiché

se appartenesse ad un determinismo dello statico essere in sé, non potrebbe scegliere, vivrebbe nella

sicurezza d'identità al quale tanto aspira, ma senza decidere alcun che, senza vivere nella vita,

precaria e ineffabile per eccellenza.

L'uomo è “condannato alla libertà”, che si identifica con questo impulso interiore che è il

trascendimento dell'essere,ben percepibile nella figura “dialettica” della malafede.

Si definisce figura dialettica non a caso: in parte per i chiari influssi del neo hegelismo francese,

espliciti nel riferimento dove si spiega che la coscienza si pone come un “No” nel mondo, come

annientamento di una possibilità proiettata da una realtà umana, allo stesso modo in cui il servo

percepisce il padrone come “No”14; in parte perché la malafede è il primo passaggio che condiziona

i rapporti umani; la chiave sarebbe capire se si svolge malafede consapevolmente o meno.

Attraverso la malafede io mento; ma non è un mentire che implica dualità, è un mentire innanzitutto

a me stesso. C'è unità nella mia coscienza, che si contamina da sola di menzogna: dovrei

dunque essere consapevole di mentire a me stesso, saper riconoscere la verità che sto trasfigurando.

Ogni soggetto che compia malafede si crea, o meglio si ricrea di volta in volta, un'immagine di se

stesso che non è, si inganna, consapevole di ingannarsi sì, ma non del tutto; egli arriva ad incarnare

la propria menzogna, fino al punto di crederla come verità, come credenza, come “fede nella

malafede”, che crede appunto in questo mondo che si è costruito su misura.

Malafede è definita da Sartre come permanente fuga da se stessi, che si distingue dalla menzogna

proprio perché vi è unità della coscienza ingannatrice/ingannata. L'uomo pone se stesso come un

consistente e rassicurante en soi; scoprendolo però limitato, lo trascende, spesso senza neanche

rendersene conto. L'uomo è difatti definito come “presenza a sé”15 come continuo distacco da se

stesso, distanziamento dal proprio essere, contingenza alla ricerca di un fondamento, che prova ad

ottenerlo anche e soprattutto attraverso la malafede.

Sartre fa alcuni esempi di comportamenti di malafede: partendo da una donna al primo

14 Cfr. Ivi,p. 8315 Cfr. Ivi, p. 113

appuntamento, che si pone in malafede circoscrivendo l'atteggiamento del suo interlocutore,

filtrando solo ciò che di rispettoso dice ed elude ogni riferimento ad una possibile intimità(pur non

sapendo bene ancora cosa brama, essendo comunque attratta anche dal fattore fisico), scinde il

corpo dall'anima e vuole far prevalere quest'ultima; si struttura la duplicità umana di essere sia

fatticità(corpo, e in accezione più oggettivale “carne”) che trascendenza (o meglio capacità di

trascendersi in altri mondi sempre diversi, di fuggire da sé), che si pone come un essere che “è ciò

che non è, e non è ciò che è”.16

Ma l'esempio che meglio può farci capire il comportamento di malafede è quello del cameriere:

Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po' troppo preciso, un po' troppo rapido, viene

verso gli avventori con un passo un po' troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi esprimono un

interesse un po' troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco che torna tentando di imitare

nell'andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il vassoio con una specie di temerarietà da

funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un

movimento leggero del braccio e della mano. Tutta la sua condotta sembra un gioco.(...)gioca ad essere cameriere.17

egli recita una parte, gioca con se stesso in quel momento per realizzarsi. Ciascuno si sforza di

esaltare e rappresentare al meglio la sua parte poiché ne sente l'ineffabilità, ha paura di perderla: si è

ciò che non siamo, e ci si aggrappa a questa esistenza fino a che non viene trascesa, per poi passare

ad un'altra, ma non con scioltezza e facilità, bensì con una certa rigidità, perché vorremmo rimanere

in questa illusione di pienezza e completezza d'essere, allo stesso modo in cui l'en soi si immerge

nella sua forma traboccante di esistenza certa e stabile. Il cameriere si sforza innaturalmente di

reggere la parte, accentuando sin troppo ciò che vorrebbe essere e continuare ad essere, arrivando

ad essere quasi stucchevole. Pur sforzandosi, si capisce bene che il cameriere non ha fiducia di sé; e,

nonostante sia una sfiducia “consapevole”, agli altri non appare affatto così, e infatti, il cameriere

rimarrà assuefatto da questa credenza, prendendola per verità.

Altro tragico esempio di malafede lo troviamo nella raccolta di racconti Il muro, nel personaggio

protagonista del racconto Erostrato; Paolo Hilbert si presenta a noi con tutte le caratteristiche di un

uomo instabile mentalmente, perverso, estremamente e inverosibilmente cinico, pieno di rabbia

contro il mondo e gli uomini, che si sta preparando a fare esplodere questa rabbia progettando una

piccola strage, dotato di una pistola con sei colpi. Freddo, calcolatore nella sua “pazzia”, egli ci dice

che vuole uccidere solo perché è libero di farlo, e ne trae piacere: questa descrizione però, è quella

del ruolo che Hilbert vuole impersonare, è quella del feroce serial killer che vorrebbe essere, sicuro

di giungere al suo scopo che è quello di “risplendere” di celebrità come Erostrato per aver

incendiato il tempio di Efeso. Hilbert vuole essere giudicato e riconosciuto dagli altri come omicida,

16 Cfr. Ivi, p.9517 Cfr. Ivi, p.96

vuole che essi, che pare siano divenuti i soli sistemi valoriali del suo mondo, abbiano terrore di lui,

che sappiano che lui gli odia tutti e vorrebbe ucciderli. Ma, nonostante le premesse, Hilbert giunto

al momento dell'azione si comporterà goffamente, mancando tutte le vittime designate sul

momento. Creando solo una gran confusione tra la folla, spreca due pallottole in aria, e si nasconde

in un bar, ormai ricercato dalla polizia. Carico solo di una pallottolla, vorrebbe eroicamente usarla

su se stesso, ma non riesce neanche in questo: non riesce a giungere alla morte, con la quale sembra

giocare per tutta la vicenda. Non riesce a reggere la maschera, il malvagio assassino non riesce più a

trascendersi in quel qualcosa che sembra aver aspirato per tutto il racconto; è ormai inutile fuggire,

Hilbert esce dal suo nascondiglio e butta via la pistola.

Questo “gioco delle parti” può dunque facilmente sfuggire di mano, come testimonia il racconto di

Erostrato; non sempre si è capaci di credere nella parte, di sostenere la pienezza d'essere di quel

ruolo che vorremmo rappresentare e essere. E in questo ci si può chieder quanto la malafede di

Hilbert sia davvero consapevole: egli potrebbe davvero soffrire di instabilità mentale, e si sforza di

essere qualcun altro “insanamente stabile”, a suo modo.

Come riesco a capire il limite della mia “recita”? E soprattutto, come riesco a percepire il limite

della “recita” altrui? Quando posso affermare che l'altro sia in malafede o meno?

La malafede evidenzia l'estrema fragilità del pour soi, segnato da quella perdita di certezze, e

anche di quell'Io che ormai non è necessario neanche più al funzionamento della coscienza.

Scompare l'interiorità, siamo completamente proiettati all'esterno, in mezzo alle cose e in mezzo

agli altri, in una realtà che non riconosciamo del tutto, e cerchiamo di ricrearci nuovi mondi e nuove

esistenze in cui trascendersi. Ma evidenzia anche quanto l'alterità sia importante nella formazione

della singola coscienza. Quest'ultima, si è detto, è continua relazione riflesso-riflettente, il cui essere

pone in questione anche se stessa: chi e come allora mi definisce? Gli Altri, da intendere come

negazione della mia interiorità,coloro che evidenziano le mie differenze proprio da loro stessi, che

però fanno sì da distinguermi e caratterizzarmi.

Altri deve apparire al cogito come quello che io non sono. Questa negazione può essere concepita in due modi: o è pura

negazione esterna e separerà altri da me come una sostanza da un'altra sostanza – ed in questo caso ogni percezione

degli altri è per definizione impossibile – oppure sarà negazione interna, cioè legame sintetico e attivo di due termini dei

quali ciascuno si costituisce negando di essere l'altro. Questa relazione sarà dunque reciproca e di duplice interiorità.18

L'incontro con l'altro può dunque essere problematico e sradicante, ma neccesario. E' indispensabile

per il riconoscimento della coscienza come coscienza di sé; “proprio nell'opporsi all'altro , ognuno è

assolutamente per sé; afferma contro l'altro e di fronte all'altro il suo diritto di essere individualità”19

18 Cfr. J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p. 32119 Cfr. Ivi, p. 302

L'essere e il nulla si distingue nella carriera sartriana proprio per aver messo in luce dei capisaldi

per comprendere l'analisi delle relazioni concrete con gli Altri, espressi nelle sue opere precedenti:

la libertà e spontaneità della coscienza (Immaginario, Immaginazione, La trascendenza dell'ego),

l'assurdità dell'esistenza (La nausea), ma soprattutto l'essere-per-altri dell'uomo(l'Erostrato de Il

muro ad esempio). E l'incontro con l'alterità avviene attraverso lo sguardo.

1.2 – Il primo incontro con l'Altro: lo sguardo

Il foro di scarico dello sguardo dell'Altro

risucchia chi io sono per me

ricostituendolo attraverso la percezione

di uno che non sono io

Kilborne 1999

La modalità principale con cui percepisco il mondo è la vista, da distinguersi in vista oggettiva,

effettuata con gli occhi, e sguardo. In Visages(1939) Sartre affina questa distinzione, definendo

l'occhio come appartenente alla fisicità, necessario organo di percezione, e lo sguardo come

appartenente al mondo della possibilità e della libertà, “organo” del divenire della coscienza.

Quando si aprono gli occhi inizia lo sguardo; quest'ultimo, seppur sostenuto indispensabilmente

dall'organo visivo, è il presupposto della libertà umana, modo di espressione del pour soi immediato

e incisivo. Attraverso lo sguardo la coscienza attua quel primo disconoscimento di se stessa, poiché

riesce a riflettersi in quel riflettente che le sta di fronte, in particolare se è un volto. Un volto può

trascendere una coscienza: è una trascendenza visibile, istantanea, ma paradossalmente nessuno può

vedere il proprio volto, poiché sono proprio gli altri necessari volti, a farlo conoscere al soggetto.

Lo sguardo fa parte di un “polo vivente”, fonte di ogni visibilità ma escluso dalle cose visibili, non

inteso come un'operazione riflessiva, ma che comunque, a differenza dell'occhio, può scendere ad

una certa profondità delle cose.

Guardare significa compiere lacerazioni e disintegrazioni: ogni uomo che si accorge di essere

guardato si sente scisso, subito proiettato verso la sua negazione che gli permette di essere libero e

di scegliere. In uno scambio di sguardi ci si può sentire entrambi “assenti”, ma anche appartenti ad

una stessa condizione: entrambi si fugge da noi stessi, cercando di mascherarsi con malafede, e allo

stesso tempo si ricerca qualcuno che ci riconosca come soggetti. Lo sguardo diventa dunque da una

parte la possibilità di far valere la propria soggettività, ma dall'altra può definirsi come

un'esperienza radicale, perché non è solo un occhio che si ferma all'esteriorità, ma vuole andare

oltre, un'interiorità che potrebbe far giungere l'Altro a definirmi come un oggetto anziché come

soggetto, a conoscermi, a smascherarmi da una malafede difensiva.

Lo sguardo può impostarsi dapprima tra uomo e cose: alla maniera di come fa Roquetin ne La

nausea, l'uomo guarda le cose con una certa complicità, poiché esse gli permettono di evadere, di

fuggire dalla noia della quotidianità, confuse come sono nella loro contingenza.

E poi, d'un tratto, il giardino s'è svuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto,

oppure mi sono risvegliato – in ogni caso non l'ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale

uscivano dei rami morti drizzati in aria. Mi sono alzato, sono uscito. Arrivato alla cancellata mi sono voltato. Allora il

giardino mi ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di

allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell'esistenza. Mi sono ricordato che una Domenica, non

più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie di aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con

disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno

sguardo. Era là, sul tronco del castagno... era il castagno. 20

Tale visione consente a Roquetin di vedere il suo corpo in quanto fatticità, oggetto tra gli altri nella

contingenza, non sopprimibile ; l'uomo ha così il terrore, la nausea appunto di questa fatticità, ma

soprattutto di poterne far parte, e si scinde qui la coscienza, che si ritrova nell'angoscia e nel disagio

della situazione, e inizia a cercare quell'Altro che potrà darle la dignità di soggetto.

Dall'Alterità della contingenza de La nausea, Sartre passa all'Alterità degli Altri, delle altre

coscienze, ne L'essere e il nulla: da una “coscienza-sguardo” che osserva soprattutto le cose del

presente, si giunge allo “sguardo dell'Altro”.

L'Altro mi appare improvvisamente, come presenza, e lo guardo; inizialmente colgo anch'esso come

un oggetto statico nel mondo. La coscienza però inizia a prendere le distanze dall'Altro quando

percepisce che egli, come me, può creare un suo personale rapporto con le cose: se osservo un

giardiniere, mi rendo chiaramente conto che questo non è come la siepe, riesce ad avere un rapporto

di dominio su essa, maneggiandola, potandola a suo piacimento; costui è un soggetto, che in quel

momento realizza un rapporto privilegiato con un oggetto, dal quale io sono escluso.

Giungo alla certezza che l'Altro sia un soggetto dotato di coscienza quando quest'ultimo alza gli

occhi e mi guarda : il suo sguardo, come era stato il mio inizialmente, mi coglie come oggetto.

Altri è definito come la “negazione radicale della mia esperienza”21, e il legame che si crea

istantaneamente con esso è collegato alla mia possibilità di esser visto : come per me, l'universo

dove colgo l'Altro è un insieme di oggettualità del quale egli stesso ne fa parte, allo stesso modo

anche lui percepisce il mio mondo e me come oggetto. Ma l'essere visto da altri diventa il mio

metro di misura di possibilità di esser riconosciuto come soggetto, o meglio come “soggetto tra

soggetti” ; se ciò non accade, vengo retrocesso al ruolo di oggetto dall'Altro, che mi trascende, mi

scopre, riuscendo a conoscere parti di me che neanche io conosco. L'Altro si pone come un “non –

20 J.P.Sartre, La nausea, pp. 204 - 20521 J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p.279

me”, come un qualcosa che mi limita e mi fa sentire inadeguato, facendomi provare una serie di

emozioni sgradevoli come il timore e la vergogna; ma è proprio questa opposizione che fa emergere

il mio diritto di essere individualità, e anche quello dell'Altro.

Lo sguardo infatti non è a senso unico, ma biunivoco : una volta appreso che entrambi non

vogliamo e non possiamo essere riconosciuti come oggetti, scatta un gioco di sguardi, dove potrei

tentare di oggettivare l'Altro rispondendo al suo sguardo;ciò porterebbe indubbiamente al

fallimento, poiché è il preciso carattere di alterità soggettuale che fa sì da definirmi soggetto, e se

trasformo l'Altro in oggetto divento oggetto anche io. Ma lo sguardo dell'Altro piomba su di me

innanzitutto sotto forma di possesso, e troppo forte è l'istinto che scatta, quasi di autoconservazione,

di difesa, che fa sì da farmi alzare gli occhi e riguardare chi in quel momento sta cercando di

scoprire il mio essere e di plasmare il mio corpo, dandomi un'identità per-Altri. Questo sentimento

diventa ovviamente reciproco:

“Tutto quello che vale per me, vale per gli altri. Mentre io tento di liberarmi dall'influenza d'altri, l'altro tenta di liberarsi

dalla mia, mentre io cerco di soggiogare l'altro, l'altro tenta di soggiogarmi(...)

Il conflitto è il senso originario dell'essere-per-altri.”22

Analizzeremo nel successivo capitolo le modalità di “reazioni” possibili rispetto allo sguardo altrui,

che andranno inevitabilmente ad impostare diversi atteggiamenti per relazionarsi agli Altri: l'amore,

il masochismo, il desiderio, il sadismo, l'odio.

Sguardo, se riferito all'Alterità dei soggetti, è dunque “accorgersi di essere guardati”; si è costretti

difatti ad operare una riduzione fenomenologica: o percepisco il mondo esterno nella sua fisicità

con gli occhi, o percepisco gli sguardi, come dire “o scelgo di conoscermi attraverso lo sguardo

dell'Altro, o mi attengo alla funzionalità corporea della sola vista”.

Dal momento che si sceglie di “gettarsi” nello sguardo altrui, possono sorgere problemi se il

soggetto si identifica con “l'essere guardato da Altri”.

“Io ti vedo, io. Tutta tutta. Domandami quello che vuoi, nessuno specchio ti risponderà più fedelmente”23

Il riconoscimento effettuato attraverso lo sguardo dell'Altro dovrebbe costituire la certezza di essere

un soggetto, la certezza che l'Altro è soggetto, e stabilire bene il confine tra i due individui, che

emergono proprio per le loro opposizioni. Il raggiungimento di questa sofferta ma necessaria

situazione spesso si inceppa, se uno dei due soggetti non si riconosce come tale, e riconosce

soggetto solo l'Altro, o viceversa se riconosce soggetto solo se stesso e non l'Altro. Per riuscire a

capire meglio questa “infernale” situazione, prendiamo in esempio l'opera teatrale Porta chiusa,

22 Cfr. J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p.42423 J.P.Sartre, Le mosche - Porta chiusa, edizioni Tascabili Bompiani, 2014, Roma, p.377

pubblicata da Sartre nel 1944. La apparentemente semplice rappresentazione può definirsi

l'emblema del problematico rapporto con gli Altri. Tre personaggi che non si conoscono e niente

hanno in comune, si ritrovano in un salotto con tre divanetti posti appositamente per loro : è

l'inferno. In breve tempo si rendono conto che dovranno condividere la stanza per l'eternità, la cui

unica via d'uscita è una porta, che può essere aperta solo da un cameriere, che dopo averli scortati

sino lì, scompare. I tre provano a conoscersi, ma la situazione diventa subito drammatica; le diverse

colpe per cui ciascuno si ritrova lì emergono subito dallo sguardo, e anche chi si nasconde dietro il

ruolo di brava moglie borghese(Estella) alla fine crollerà. Viene a crearsi una sorta di triangolo

amoroso(Estella-Ines, Estella-Garcin) ma di amore non c'è traccia: ciascuno si ritrova ad aver

bisogno dello sguardo dell'Altro, e tanta è la paura di essere esclusi e oggettivati che ognuno cerca

di attaccare per primo l'Altro.

“Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due.”24

Questa è la difficoltà dell'incontro con l'Altro: di giungere a dover dipendere costantemente dallo

sguardo altrui; lo ricerco continuamente, seppur vissuto come una sconcertante esperienza che può

congelarmi in una statica oggettualità, o peggio degradarmi, ricordandomi continuamente l'essere

cristallizzato che sono, dipendente dagli Altri, “un me che io sono senza conoscerlo”.

Il paradosso della rappresentazione teatrale è che ad un certo punto uno dei personaggi scopre che

in realtà la porta dal quale sono venuti può aprirsi; ma, al momento che si prospetta una possibile

via d'uscita, nessuno dei tre riesce ad andarsene.

“Sei tu quella ch'io debbo convincere: sei della mia razza, tu. Pensavi ch'io me ne sarei andato? Non potevo lasciarti

qui, trionfante, con tutti quei pensieri in testa, quei pensieri che riguardano me.”25

“L'inferno sono gli altri” sì, ma in questo inferno ci dobbiamo e vogliamo vivere; lo stesso Sarte

affermerà in seguito che la celebre frase è stata mal interpretata. Il nulla inghiotte tutte le esistenze,

e tutte sono legate da questo filo, di cui lo sguardo diventa espressione, poiché fa emergere

l'estraneità e l'alterità che devono andare a costituire l'esistenza umana. Lo sguardo diventa “il luogo

in cui la coscienza irriflessa e non-posizionale di sé coglie, senza mediazioni, il suo essere libertà

intersoggettiva”26: ed è per questo che spaventa, perché mi fa vedere come sono realmente, e mi

pone in equivalenza con la stessa condizione di altri uomini, anch'essi preda di quella continua

tensione tra aspirazione all'essere pieno e sicuro di un en soi e il nulla che li circonda dentro e fuori.

C'è però un sentimento che mi rivela immediatamente dopo lo sguardo che io sono quel tipo di

24 Ivi, p.36925 Ivi, pp. 461-46226 Cfr. G.Farina, L'alterità - lo sguardo nel pensiero di Sartre, Bulzoni Editore, Roma, 1998, p.83

esistenza: la vergogna.

1.3 – Il sentimento dello sguardo: la vergogna

Un'efficace definizione della vergogna è data dallo psicologo L. Binswanger, che la descrive come

il penoso affetto che accompagna la mutazione della percezione del Sé da soggetto-che-vede a

oggetto-visto.27La vergogna è per Sartre la modalità che prova il mio essere-per-Altri; all'Altro

appare innanzitutto il mio corpo,e perciò tenderà a cogliermi come en soi, come oggetto: sono

indifeso, smascherato di un'eventuale malafede, come nudo davanti all'Altro. La vergogna quindi

non è un feomeno di riflessione, ma è per definizione vergogna di fronte a qualcuno;

“Faccio un gesto maldestro o volgare; quel gesto aderisce a me, non lo giudico né lo biasimo, lo vivo semplicemente, lo

vivo semplicemente, lo realizzo al modo del per-sé. Ma ecco che improvvisamente alzo gli occhi: qualcuno era là e mi

ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e ho vergogna”28

Paradossalmente però è proprio quando svolgo certe azioni “volgari” o goffe che potrei distaccarmi

dalla definizione oggettivistica che mi appone l'Altro: nella mia intimità, quando sono sicuro di non

essere guardato da nessuno, è come se divenissi ancor più un soggetto, un pour soi libero di

comportarsi e di fare le scelte che vuole. Ma, non essendo appunto un sentimento intimo, Altri

diventa un mediatore indispensabile per me stesso, ed io credo di essere come egli mi vede.

La vergogna diventa riconoscimento: riconosco di essere come Altri mi vede; ecco allora che inizio

a giudicare il mio gesto, a giudicarmi come un oggetto che appare a qualcun altro, non solo come un

possibile cattivo “ritratto” di me stesso, ma faccio aderire lo sguardo altrui a me, che mi colpisce

fino in fondo.

Non riesco a mediare ciò che sono per-me e ciò che sono per-Altri; la vergogna mi arriva subito,

istantanea, come un “brivido immediato che mi percorre dalla testa ai piedi”29 e il mio corpo

esprime delle reazioni chiare e lampanti anche per l'Altro, perché arrossisco, mi irrigidisco, le mani

sudano, vorrei solo non esistere in quel momento, sprofondare e non essere più nel mondo.

Non a caso Sartre parla di vergogna come sentimento di “caduta originale” dell'uomo, riprendendo

quel leit motiv che si ripresenta spesso nella religione, in particolare quella cristiana: ogni uomo si

ritrova come caduto nel mondo, in mezzo alle cose, ha bisogno di Altri che lo definiscano per ciò

che è, e questi lo vedono innanzitutto come corpo.

Biblicamente la caduta della vergogna è rappresentata ovviamente da Adamo ed Eva, ma la

27 Cfr. D.Fagiolo, Il sé e lo sguardo dell'altro - considerazioni intorno alla vergogna, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2015, p.7

28 J.P.Sartre, L'essere e il nulla, cit. pp.271-27229 Ivi, cit. p.272

vergogna che provano non è tanto per aver commesso peccato, quanto nel rendersi conto una volta

giunti nel mondo terreno di essere nudi; essi si guardano “umanamente” per la prima volta.

Anche io vedo gli Altri come corpo, e lo sguardo fa sì da farci percepire entrambi come

“trascendenze trascese”: io infatti trascendo la mia situazione e il mondo che ho creato per il mio

pour soi, e anche l'Altro lo fa; le nostre coscienze e soprattutto il nostro sguardo ci rendono

consapevoli dell'esistenza del corpo dell'Altro, ma non del nostro, attribuendo così a quest'ultimo la

capacità di riconoscerci per come siamo realmente.

Lo sguardo altrui mi ricorda incessantemente che io sono fatticità, anche corporea, e la vergogna è il

sentimento che manifesta, soprattutto fisicamente, la consapevolezza del nulla che mi pervade

dentro e fuori e la “nudità” del mio precario essere, che emerge in un corpo che è essenzialmente

per-Altri.

Il corpo è definito come “punto di partenza e centro di riferimento sensibile dell'essere nel

mondo”30, e proprio per questa sua definizione diventa come un continuo superamento di ciò che

sono, un'incessante volontà tipica dell'uomo di proiettarsi sempre oltre questo “strumento”di mera

fatticità che è il corpo, un porsi sempre in una nuova e futura situazione. Sartre definisce tre

dimensioni ontologiche del corpo: la prima è riassumibile in “io esito per il mio corpo”,ovvero lo

strutturarsi del pour soi anche se non può conoscere il proprio corpo, la seconda in “il mio corpo è

conosciuto e utilizzato da Altri” ovvero la possibile realizzazione della capacità di oggettivarmi

dell'Altro, comunicatami con lo sguardo, il trasformarmi da un pour soi ad un en soi. La terza

dimensione ontologica mi rende consapevole del fatto che l'Altro riesce a cogliere il mio corpo

anche in questa continua opera di superamento di me stesso che cerco di svolgere consapevolmente

o meno: divento responsabile della mia esistenza per-Altri, che riescono a fare qualcosa di cui io

non sono capace,ovvero riconoscermi per come sono davvero. La vergogna scatta anche perché

sento di aver fallito in questa fuga da me stesso: l'Altro mi coglie comunque,ed anzi, mi coglie

soprattutto quando sono in situazione,quando sto cercando di crearmi un mondo ad hoc per il mio

pour soi, e pare quasi andare oltre la mia malafede attraverso una “banale”occhiata.

Riassumendo, lo sguardo dell'Altro testimonia la mia esistenza ma non intesa alla maniera del mio

essere, ma come un essere-per-Altri, che colgono soprattutto la contingenza del mio corpo in

situazione; ciò comporta delle specifiche modalità di relazionarmi agli Altri.

30 Cfr.A.P.Rovatti, Che cosa ha veramente detto Sartre, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1969, pp.72-73

Capitolo 2

LE RELAZIONI CONCRETE CON GLI ALTRI

2.1 – I primi atteggiamenti verso gli Altri – Le modalità di assimilazione per sfuggire allo

sguardo dell'Altro: l'amore e il masochismoTu, affogando per respirare

Imparando anche a sanguinare

Nel giorno che sfugge, il tempo reale sei tu

sai difendermi e farmi male,

sezionare la notte e il cuore, per sentirmi vivo

Sei tutti i miei sbagli

Subsonica, Tutti i miei sbagli

All'inizio della terza sezione de L'essere e il nulla dedicata alle relazioni concrete con gli Altri,

Sartre puntualizza e ripete che il corpo in situazione è pura fatticità, che cerca di essere superato

dalla continua “fuga verso” operata dal pour soi, destinata al fallimento, poiché tende

idealisticamente alla pienezza d'essere di un en soi. L'Altro guardandomi cristallizza questa fuga, mi

oggettiva, e allo stesso tempo riesce a identificarmi, osservandomi appunto per ciò che realmente

sono. Come già anticipato, io posso rispondere allo sguardo altrui, negando l'essere che mi viene

conferito, e posso farlo in due modi: o assimilando l'Altro, congiungendomi con la sua stessa

trascendenza, e quindi evitare di renderlo oggetto; o negando l'Altro, cercando quindi di

oggettivarlo. Come già premesso, tentare di “ri-oggettivare” a mia volta l'Altro con lo sguardo

porta, almeno teoricamente, ad una contraddizione: come può un oggetto riconoscermi come

soggetto? Tento allora di riconoscere l'Altro come essere-che-mi guarda, accettando che senza di lui

non potrebbe esserci neanche il mio essere: lo considero cioè come soggetto.

Il desiderio di appropriarmi dell'Altro però non cessa, anzi, si acuisce nell'amore. Per comprendere

tale passaggio, Sartre installa una sorta di dialettica amante-amata: superata apparentemente la

volontà di oggettivare l'Altro, la “futura” amata viene sopraelevata al grado di soggetto dall'amante.

Quest'ultimo però vorrebbe comunque assimilare il mondo dell'amata, in modo che coincida con il

proprio: vuole che ella diventi fatticità oggettivandosi nel suo mondo, ma rimanendo comunque

soggetto, “vuole possedere una libertà come libertà”31.

“Così l'amante chiede il giuramento e si irrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa

libertà come libertà non sia più libera. Vuole insieme che la libertà dell'altro si determini da sé a essere amore – e

questo, non solo all'inizio dell'avventura, ma a ogni istante – e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé, che

ritorni su se stessa, come nella follia, come nel sogno, per volere la sua prigionia. E questa prigionia deve essere

31 Cfr. J.P.Sartre, L'essere e il nulla, p.427

insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani.”32

L'amante sfugge allo sguardo dell'Altro trovando ragione d'esistere in quanto “tutto” per l'amata;

egli però deve accettare a sua volta di oggettivarsi nel mondo di lei, affinché questa possa gettarsi

nel mondo di lui, essendo libera di sceglierlo fra altri. L'amante si irrita di ciò: egli vorrebbe essere

una scelta a priori, il limite oggettivo della libertà dell'amata, poiché la scelta tra altri “contingenti”

evidenzierebbe non solo la limitatezza dell'amata, ma anche la stessa dell'amante. L'amore può

essere definito come contaminazione dell'Altro, che rende entrambi fatticità oggettiva. L'amante

deve accettare di essere colto dall'amata come oggetto tra gli altri, attraverso il suo sguardo; egli

può dunque solo operare attraverso la seduzione, correndo il rischio e pericolo di farsi guardare, al

fine di impadronirsi di questa presentandosi nella propria oggettità, che può sì rivelarsi affascinante

e prevalere sulle altre, ma rimane comunque oggettità.

Amore è dunque “progetto di farsi amare”33; ma ammettiamo che si consegua questo successo.

L'Altro mi ama, mi contraccambia; ma ciò diventa proprio la causa della mia delusione, egli mi

percepisce come soggetto, e sprofonda nella sua oggettività, quando io volevo essere riconosciuto e

amato da una soggettività libera. E' come se in una coppia di amanti ciascuno voglia essere

riconosciuto dall'Altro non tanto come soggetto ma come “oggetto privilegiato” che riesce a

limitare la libertà altrui: ma tale riconoscimento si vuole da un soggetto che mantenga la sua libertà.

Il fallimento dell'amore si esplica in alcune conseguenze dialetticamente intrecciate; l'amore è

inganno, perché rimanda all'infinito: amare è volere che mi si ami, volere che l'Altro voglia che io

lo ami – ciò causa continua insoddisfazione e paura, poiché gettandomi nel mondo dell'amato io

perdo il mio essere, mi presento come fatticità attraverso la seduzione; l'Altro potrebbe “svegliarsi”

improvvisamente, e non riconoscermi più ne come “oggetto privilegiato” ne tanto meno come

soggetto, ma semplicemente come oggetto tra gli Altri.

L'equilibrio precario e fallace dell'amore crolla ancor più rapidamente se poi allo sguardo reciproco

dei due amanti si aggiunge lo sguardo di un terzo: l'amore viene così totalmente relativizzato, e ciò

causa vergogna e disagio, ma soprattutto rende consapevole la coppia di essere contingenti, di

esistere comunque come soggetti singoli che possono essere oggettivati da Altri, non solo

“privilegialmente” dall'amato.

“ (...) a ogni istante, ciascuna coscienza può liberarsi dalle sue catene e contemplare improvvisamente l'altro come

oggetto. Allora la magia cessa, l'altro diventa mezzo tra altri mezzi, ed è oggetto per l'altro, come desiderava, ma è

oggetto-utile, continuamente trasceso; l'illusione, il gioco degli specchi che forma la realtà concreta dell'amore, cessa

improvvisamente.”34

32 Ivi, pp. 427-42833 Cfr. Ivi, p. 43634 Cfr. Ivi, p.437

Rivelatosi dunque fallimentare l'amore, il soggetto potrebbe procedere con un'altra modalità di

assimilazione dell'Altro, ma che non ha sin dall'inizio l'intento di mantenere l'alterità della coppia: il

masochismo. Lo scopo dell'amante è quello di farsi assorbire dall'Altro, nella sua soggettività, per

sbarazzarsi della propria. Egli vuole farsi oggetto, essere totalmente dominato dalla libertà

dell'Altro, e gode di questo, si nullifica, e ha piacere di sprofondare nella propria vergogna, tanto da

desiderarla. Sartre lo definisce efficacemente come “il tentativo di farmi affascinare dalla mia

oggettività-per-altri”35; desidero che l'Altro avverta la mia soggettività come un niente, rendendomi

colpevole verso me stesso, ma così rendo colpevole anche il mio carnefice, perché voglio che non

riconosca la mia libertà.

Il masochismo porta, come l'amore, al fallimento poiché io non sarò mai in grado di sapere se e

come l'Altro mi percepisce oggetto: non avrò mai la soddisfazione di sentirmi completamente

oggettivato, il nulla dal quale vorrei essere tanto lambito diventa per me impercettibile.

Inoltre sono io che prendo la scelta di farmi assuefare dalla soggettività di chi vorrei amare, sono io

che nego la mia trascendenza, io che voglio prefigurarmi come oggetto e smarrire me stesso,

dandomi continuamente determinati atteggiamenti che solo per l'Altro appariranno(forse) passivi e

ridicoli : la mia soggettività emerge comunque, e ciò mi causa insoddisfazione e angoscia, perché

non sono io che subisco, ma l'Altro.

Ecco che allora il masochista diventa “carnefice del carnefice prescelto”, poiché egli stesso

oggettivizza l'Altro al fine di utilizzarlo come strumento che gli provochi appagamento attraverso

l'umiliazione e il disprezzo; Sartre prende ad esempio il masochista che paga per essere frustato o

insultato, esplicando la strumentalizzazione dell'Altro (in questo caso molto fisica) per giungere alla

propria sconfitta soggettivistica.

Siamo giunti a constatare che le modalità di assimilazione con l'Altro sono fallimentari.

Si potrebbe controbattere che, soprattutto l'amore, è l'atteggiamento più spontaneo dell'essere

umano in quanto essere socievole, e il ridurlo a fallimento sarebbe svilente e controproducente.

Non si intenda però la dialettica amorosa-di assimilazione presentata ne L'essere e il nulla come un

tentativo di sabotaggio e disconoscimento della socialità umana; Sartre va al di là del rapporto io-

Altro introducendo le figure dell'essere-con e il noi nell'ultima sezione dedicata alle relazioni con

gli Altri.

Premesso che un noi della coppia non implica necessariamente il legame amoroso( è un noi anche

l'insieme di spettatori di fronte ad una rappresentazione teatrale, dei clienti in un bar,ecc...), esiste

un terzo che guarda la coppia, che mi fa rendere conto dello sfondo di soggetti che mi circonda.

35 Cfr. Ivi, p.439

L'essere-per-altri apre la strada al noi, fondando in prima istanza l'essere-con-gli altri: dal “essi mi

guardano”, in cui mi sento un singolo soggetto tramutato in oggetto, giungo a “essi ci guardano”,

dove sento che sono sì in balìa dello sguardo e oggettivazione altrui, ma non sono solo. Faccio parte

di una comunità di coscienze trascese, e il noi si intende come essere oggetti insieme. La vergogna

di essere guardati diventa comune, e noi ci sentiamo trascesi da loro, pieni soggetti che ci

defraudano a oggetti. Può succedere anche che sia io a trovarmi nella situazione di guardare Altri,

facendomeli apparire come essi soggetti: l'Altro guarda il “mio” Altro, lo stesso che sto osservando

anche io; allo stesso tempo quest'ultimo può comunicarmi la presenza dell'Altro che lo sta

guardando. Si ricostruisce quella corsa all'infinito del “chi oggettiva per primo chi”, dove la mia

trascendenza può essere trascesa, così come la trascendenza dell'Altro può essere trascesa da me, o

da un Altro ancora; si riforma la stessa situazione fallimentare dell'amore.

Nonostante tutto, in queste situazioni così alienanti, io posso sentirmi equivalente e solidale con

l'Altro. Sartre non parla di empatia o di qualche sentimento “umano”, eppure definisce questa forma

oggettiva che ho in comune con l'Altro come un qualcosa di cui non ho conoscenza,un tutto in cui

io e l'alterità non ci distinguiamo più, ma allo stesso tempo mi devo sentire impegnato dal di fuori

nell'Altro, e viceversa assumo l'Altro come impegnato dal di fuori in me. Il tentativo di mantenere

integra la soggettività in questo noi oggettivo non ha risultati duraturi: esperienze comuni che

possono portarci più di altre a sentirci parte di un noi, sono le stesse che inevitabilmente ci

oggettivano ancora di più, rendendoci parte di una totalità umana trascesa da un loro-soggetto, che

assume la stessa funzione dell'essere-per-altri, ovvero ci svela come siamo realmente. L'assunzione

del noi implica comunque il progetto di “de-oggettivarsi” e riconquistare la soggettività trascesa,

oggettivando quel loro che era riuscito a trascendere una molteplicità.

Ogni situazione umana può essere sentita come un noi (Sartre fa l'esempio del lavoro in comune,

osservato dal terzo che è il padrone,facendo riferimento anche ad una coscienza di classe),ma non

tutti possono sentirsene parte; anche una sola coscienza particolare può sentirsi implicata e formare

il noi. Questo ci fa comprendere il desiderio di sentirsi parte di un noi soggettivo, anziché di un noi

oggettivato: vorremmo essere riconosciuti tutti come soggetti facenti parte di una comunità che

riesca ad inglobare ogni possibile terzo, senza ricorrere al riconoscimento di quest'ultimo.

Ovviamente questa totalizzazione è impossibile, poiché esisterà sempre un'alterità-limite, un essere

che guarda ma non potrà mai essere guardato, cioé Dio.

Ma posso fare esperienza del noi soggettivo anche da solo:

“Certo, mi differenzio da ogni passeggero della metropolitana sia per il sorgere individuale del mio essere, che per i fini

lontani che cerco di raggiungere. Ma questi fini ultimi sono solamente all'orizzonte del mio atto. I miei fini prossimi

sono i fini del “sì”, e io mi sento come intermutabile con uno qualsiasi dei miei vicini. In questo senso, perdiamo la

nostra individualità reale, perché il progetto che noi siamo è precisamente il progetto che sono gli altri”36

Ogni azione che posso svolgere quotidianamente mi mette nella possibilità di fare esperienza di un

noi soggetto: salgo sulla metropolitana, attraverso la strada, mi fermo ad un semaforo; trovo altre

presenze reali con i miei medesimi progetti, circondate dagli stessi oggetti che circondano me e che

confermano il mio pour soi, trascendenze in legame con me ed altre, che tutte insieme andiamo a

formare una trascendenza comune, del quale non sono che una parte. Ciò però è solo una mia

esperienza, di ordine psicologico. E' un processo puramente mentale, non ontologico: nessuna delle

soggettività che io ritengo coinvolte mi darà la certezza della formazione di un noi. Gli oggetti che

usiamo mi certificano della loro esistenza e dei nostri progetti comuni; ma non posso definire

quanto i miei atti siano collegati con i loro, e i loro con i miei.

Questa è la speranza normale, tipica dell'umanità: la possibilità di raggiungere un noi unificato,

mantenendo però le nostre soggettività. Ma non è forse lo stesso presupposto con cui iniziamo una

relazione amorosa? Nella realtà però, prevale il noi oggettivo, dettato anch'esso dal per-Altri, allo

stesso modo del rapporto di coppia amoroso o meno. Si ritorna nella dialettica trascendere l'Altro-

essere trasceso dall'Altro. Il rapporto dominante è dunque conflittuale, seppur espresso in modalità

diverse: di assimilazione, che tenta perlomeno un approccio “pacifico” all'Altro, anche se

fallimentare, o di esclusione-negazione, che si specificano in indifferenza, desiderio, sadismo, per

arrivare all'odio.

2.2 – Le modalità di negazione per sfuggire allo sguardo dell'Altro:

l'indifferenza e il desiderio, gli atteggiamenti “difensivi”

Constatato che le modalità di assimilazione portano comunque ad un fallimento, si può decidere di

imboccare un'altra strada nell'approccio con gli Altri.

Ritorniamo al primo incontro, cioè allo sguardo: egli mi guarda, e io mi sento privato della mia

soggettività, vorrei sfuggire all'evidenza della mia fatticità e allo stesso tempo oggettivare l'Altro, e

l'unico modo che ho è alzare gli occhi e riguardarlo a mia volta, sino a provare indifferenza per lui.

Con questo gesto sono consapevole che l'Altro non potrà più riconoscermi come soggetto, ma

neanche come oggetto, ed è questo il mio obiettivo. In qualche modo faccio svanire lo sguardo,

perché dell'Altro mi rimangono solo i suoi occhi; l'ho trasceso in oggetto, egli non mi è più

necessario perché non può più riconoscermi come soggetto, e quindi diventa cose tra le cose, mi è

indifferente. Attuo nei confronti dell'Altro una sorta di cecità voluta, una malafede consapevole,

poiché implicitamente mentre da una parte credo di esser riuscito ad oggettivare e possedere

36 Cfr. Ivi, p. 487

totalmente la trascendenza altrui, dall'altra ricado ancor di più nella mia soggettività infondata, nel

mio nulla, e non sono neanche più riconosciuto come tale poiché non sono più guardato da un

soggetto. Mi sento dunque ancora insoddisfatto, l'ignorare l'Altro non porta a farmi sentire un pieno

soggetto, non vengo più riconosciuto da questo, cerco di considerarlo alla stregua di un oggetto, ma

lo sento comunque in possesso di una trascendenza che non sono riuscito ancora ad annullare.

Decido allora che voglio affrontare l'Altro, tentando di possedere la sua soggettività proprio

attraverso la sua oggettività, “usando” il suo corpo: lo voglio come un “oggetto vivo” e immerso

nella sua situazione , aspiro alla sua fatticità attraverso la quale potrò dominare la sua trascendenza,

lo desidero.

Sartre definisce il desiderio sessuale come “il tentativo originario di impossessarmi della

soggettività libera dell'altro attraverso la sua oggettività-per-me”37, e distingue il desiderio da una

sessualità accidentale e fisiologica. La genitalità è solo la simbolizzazione di questa sessualità

originaria: è certo desiderando l'Altro o sentendomi desiderato che mi scopro e lo scopro sessuato,

ma il desiderio non è un semplice stato per provare piacere o far cessare un dolore (non è puro e

semplice istinto), è un qualcosa che proviene dalla coscienza irriflessa, è desiderio di possedere

l'Altro come oggetto trascendente. Il desiderio infatti può non implicare necessariamente l'atto

sessuale, ma è comunque il corpo che mi fa desiderare quella forma di soggettività in situazione: un

particolare fa sì da turbarmi, da farmi cogliere il mondo dell'Altro svelato da una bella mano, un

portamento o un gesto preciso, cui però fa sempre da sfondo una coscienza che ne fornisce il senso

unitario.

“Un corpo vivente come totalità organica in situazione con la coscienza all'orizzonte: questo è l'oggetto al quale si

rivolge il desiderio.” 38

La coscienza viene come affossata dal desiderio,e il corpo diventa espressione di questo

turbamento: il corpo dell'Altro diventa desiderabile, e la coscienza si fattifica, diventa carne per

poter incarnare l'Altro, per far sì che anche la coscienza di quest'ultimo sprofondi nella sua fatticità.

Posso allora possedere questa corporeità altrui possedendo il corpo dell'Altro: nell'atto sessuale le

coscienze si dissolvono, l'una incarna e possiede l'altra, voglio disconoscere ed annullare l'Altro;

ma, similmente all'amore, il desiderio mi fa capire che non lo voglio semplicemente come oggetto,

bensì come corpo in situazione.

L'azione che precede il desiderio è la carezza: tramite essa io foggio l'Altro: esprimo il desiderio,

ma lo faccio riconoscendo il corpo dell'Altro come coscienza che si è inabissata nella sua fatticità.

La carezza massifica la carne del corpo che tocco, sfiora le parti più inerti, enfatizza la carnalità

37 Cfr. Ivi, cit. p.44338 Cfr. Ivi, p.448

nuda: io stesso mi faccio carne per poter incarnare l'Altro, per renderlo consapevole del suo farsi

oggetto per me.

“Il corpo d'altri è originariamente corpo in situazione; la carne, invece, appare come contingenza pura della presenza. E'

di solito nascosta dal belletto, dai vestiti ecc.; soprattutto, è dissimulata dai movimenti; niente è meno <<in carne>> di

una danzatrice, anche se nuda. Il desiderio è un tentativo di svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di

farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell'altro. Solo in questo caso le carezze sono

appropriazione del corpo dell'altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non

potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come

gli sguardi, e non potrebbero rendermi padrone dell'altro.”39

Questo processo fa giungere al desiderio, all'incontro con l'Altro, ma in maniera quasi egualitaria:

io voglio sì conquistare il corpo altrui tramutandolo in carne-oggetto, ma lo faccio ponendomi io

stesso come carne. Il desiderio diventa una risposta che può diventare positiva all'indifferenza

provocata dal rispondere allo sguardo; il mio scopo iniziale era quello di voler possedere l'Altro,

Ma non potrebbe trasformarsi in un'occasione piacevole per poter scoprire l'Altro, anche se “solo”

attraverso la carnalità? Un annullamento di due coscienze che però riescono ad incontrarsi

(finalmente) decidendo volontariamente di diventare soggetti incarnati?

Il desiderio potrebbe annunciare l'incontro tra due corpi (corpi, e non carni) che dovrebbero

giungere al piacere involontariamente, senza far riemergere una coscienza che ha come scopo il solo

raggiungimento del piacere stesso, il puro godimento contingente. Ma il fallimento del desiderio è

scaturito proprio dal fine del piacere: basta che una sola coscienza si risvegli e perda di vista

l'incarnazione altrui, ovvero l'iniziale progetto di incarnare e far proprio l'Altro, e volga l'interesse

solo alla propria incarnazione che gode nell'impadronirsi dell'Altro, così da far cessare

l'ambivalenza generata dall'affossarsi comune nella corporeità l'uno dell'altro.

Il desiderio non è più contemplato come possibilità alternativa all'indifferenza dello sguardo, ma

come semplice fine di una voluttà fisica: perde la sua valenza ontologica, cade il costitutivo ed

equivalente passaggio della carezza, riemerge il pour soi, e l'Altro non è più incarnazione ma

strumento-oggetto, che uso al fine del mio piacere.

Il passaggio indifferenza-per-l'Altro/desiderio è molto simile alla dinamica sguardo/amore: in

entrambi si cerca di superare una situazione in cui ci sente soggiogati dall'Altro, e si vorrebbe

possedere la soggettività altrui, inizialmente al fine di oggettivarlo.

Poi però mi rendo conto che non posso/non voglio oggettivarlo: sia perché risulta difficile

oggettivare un soggetto, sia perché se lo rendo oggetto, questo non potrà più riconoscermi come

39 Cfr. Ivi, p.451

soggetto. Accetto comunque l'idea di oggettivare l'Altro (ma sappiamo che in questi casi specifici

questo intento rimarrà solo come presupposto), e dunque riguardo l'Altro, o decido di possederlo

come coscienza incarnata; ma in qualche modo mi pongo anche io come un “oggetto privilegiato” o

come “incarnazione” e pare, almeno per un attimo(durante l'atto sessuale preceduto dalla carezza, o

mentre percepisco di essere amato) di incontrare davvero l'Altro per ciò che è, e in realtà come

soggetti che volontariamente decidono di trascendere le proprie coscienze.

Certo, ci incontriamo come oggetti, almeno apparentemente entrambi, ma sia nell'amore che nel

desiderio si evince la brama di incontrarsi come soggetti, di essere riconosciuti come tali.

“Questo è l'ideale impossibile del desiderio: possedere la trascendenza dell'altro come pura trascendenza e tuttavia come

corpo”40

Come in parte già visto, sia l'amore che il desiderio sono destinati a fallire: uno dei due pour soi

rimane consapevole nella sua coscienza, o si riprende dalla propria incarnazione, e l'Altro diventa

irrimediabilmente oggetto-strumento.

Nel caso dell'amore, si arriva alle estreme conseguenze del masochismo, in cui l'Altro designato da

me come carnefice diventa il mio oggetto-strumento, poiché voglio che mi provochi vergogna e

umiliazione, e quindi lo uso, facendo riemergere la mia soggettività.

Nel caso del desiderio, si giunge invece al comportamento opposto, cioè al sadismo.

2.3 – Le modalità di negazione per sfuggire allo sguardo dell'Altro:

il sadismo e l'odio, gli atteggiamenti “offensivi”

Il sadismo si crea quando un corpo saturo di coscienza prende totalmente il possesso dell'altro

corpo; si esaurisce il desiderio ontologico a causa del raggiungimento fisico del piacere, e rimane il

desiderio astratto, volto alla carne in quanto oggetto di godimento. Sartre lo definisce come

“passione,aridità e accanimento”41 insieme: io esco dalla mia carnalità e mi pongo come corpo, ma

non riconosco l'Altro allo stesso modo ed anzi, torno a quella situazione in cui è sempre in agguato

il pericolo di oggettivare-essere oggettivato. Ci si accanisce infatti non più su un corpo, ma su una

carne: l'Altro però non è più coscienza incarnata, ma risulta una carne oggettivata; esso può

continuare a sentirsi preso e turbato nel suo desiderio, ma non sarà più corrisposto.

Il sadico ha orrore del turbamento provocato dal desiderio ontologico; si sente impegnato ma non sa

con chi, o con cosa, continua ad impegnarsi ma non capisce il fine delle sue azioni, trovandosi a

disposizione una carne-oggetto, ma che si sente ancora incarnata nel suo desiderio verso il sadico

40 Cfr. Ivi, p.45741 Cfr. Ivi, p.461

stesso, tanto che potrebbe “reagire” accarezzandolo.

Chi sodomizza cerca in ogni modo di evitare questa situazione, e agisce in maniera quasi

meccanica, considerando ogni elemento che gli si prospetta davanti come strumento: il corpo

dell'Altro è innanzitutto strumento, sul quale si può utilizzare altri oggetti “materiali” esterni, ma

soprattutto che può essere usato dal sadico, che strumentalizza anche il proprio corpo. Egli gode

della potenza che ha sull'Altro, della sua non-incarnazione, di essere soggettività libera rispetto a

qualcuno che sente come in suo possesso. Ma per quanto sia eminente lo sforzo di voler definire

l'Altro come oggetto, il sadico prova piacere proprio quando si rende conto che l'Altro si incarna, si

presenta come una libera coscienza trascesa, e lotta per poter tornare tale, ma alla fine cede,

collassando nella propria fatticità – questa lotta, e poi la decisione stessa del sodomizzato di

arrendersi, è comunque una scelta, e quindi un riemergere del pour soi. Come nell'amore, voglio

che l'Altro decida di trascendersi nel mio mondo, ma voglio che lo faccia come soggetto.

Il fine del sadico è quindi quello di ottenere una vittima, un masochista che liberamente decide di

sottomettersi a lui, di voler diventare oggetto, e lo vuole porre in maniera oscena. Sartre specifica

che “l'osceno appare quando il corpo adotta degli atteggiamenti che lo spogliano del tutto dei suoi

atti e che rivelano l'inerzia della sua carne”42 e lo definisce appartenente al genere dello sgraziato,

come una sua estremizzazione.

Per descrivere brevemente la grazia e capire dunque il suo contrario, possiamo definirla come un

“rivestimento” della fatticità, una psichicità che si adatta al mondo armonizzando la situazione in

cui si trova, manifestando la sua libertà e giustificando l'esistenza anche di un corpo: come dire il

corpo esiste, mi muovo irrimediabilmente tramite esso, ma posso farlo velatamente e

armonizzandomi al contesto.

L'atto sgraziato sarà dunque ciò che al contrario rivela tutta la sua fatticità:

“l'atto sgraziato è ingiustificabile; tutta la sua fatticità, che era impegnata nella situazione, viene riassorbita da questa e

rifluisce su di lui. Chi è goffo, libera inopportunamente la sua fatticità e la pone di colpo sotto i nostri occhi;”43

Lo sgraziato si muove rigidamente, poiché è totalmente determinato dalla situazione, non riesce ad

armonizzarsi al mondo, e con movimenti meccanici, brutti e goffi mette inevitabilmente in risalto il

suo corpo, spogliato da ogni difesa.

L'oscenità si crea in un soggetto quando questo rivela la sua carne, ma lo fa in maniera meccanica,

come un oggetto che si presenta grottescamente in un contesto a lui non idoneo, e risulta quindi

eccessivo, quel qualcosa in più che stona. L'osceno apprezzato nel sadismo è questa inerzia della

carne, eccessività che si muove disarmonica e non solo non suscita desiderio in colui che la sta

42 Cfr. Ivi, p.46443 Cfr. Ivi, p. 463

guardando(può suscitare disgusto, ed è proprio quello che il sadico vuole), ma non vuole neanche

suscitare desiderio, trovandosi lei per prima in uno stato di non-desiderio verso l'osservatore; se

inizialmente infatti poteva esserci nella vittima ancora un barlume di desiderio verso chi la stava

sodomizzando, arrivati a questo punto ella non ne prova più perché non può essere rivalutata come

corpo che suscita desiderio, e lei stessa si sente saccheggiata di una corporeità ormai trasformata in

carne sgraziata e umiliata.

Il sadico distrugge ogni possibile grazia nell'Altro perché è espressione di una soggettività che sa

muoversi nel mondo, e può dominare gli oggetti; è un individuo che decide di svelare la sua carne

solo in una situazione che sa gestire e in cui si riconosce come soggetto. Il carnefice vuole far

emergere violentemente la carne, talmente da far degradare subito la dignità altrui, sentendosi in

diritto di oscenizzarla, defraudarla e utilizzarla come strumento, sino all'apice del suo godimento,

quando finalmente la soggettività si arrende volontariamente a lui.

Il sadico vuole sentire dunque un pour soi che soffre così tanto da implorare streguamente pietà,

riconoscendo la supremazia del carnefice. Ma la vittima, ormai decisa ad arrendersi, può mettere in

difficoltà il suo aguzzino con semplice gesto: guardandolo.

Per capire la portata dello sguardo di una soggettività che si arrende, riportiamo lo stesso esempio

che propone Sartre, ripreso da Luce d'agosto di Faulkner:

“Ma l'uomo, per terra, non si era mosso. Giaceva là; con gli occhi aperti, vuoti di tutto tranne che della conoscenza.

Qualche cosa, un'ombra, circondava la sua bocca. Durante un lungo momento, li guardò con i suoi occhi tranquilli,

insondabili, intollerabili. Poi il suo viso, il suo corpo, sembrarono svanire, restringersi e, dai vestiti laceri intorno ai

fianchi e alle reni, il fiotto compresso di sangue nero zampillò come un sospiro emesso improvvisamente... E, da questa

nera esplosione, l'uomo sembrava elevarsi e fluttuare per sempre nella loro memoria”44

Il sadico si trova dunque al punto di partenza: si rende conto che proprio quella soggettività che

voleva possedere, non può essere oggettivata fino in fondo, e lo sguardo sofferente della vittima

stessa oggettiva il carnefice. Nel breve estratto citato di Luce d'agosto, l'uomo agonizzante è stato

appena evirato. E' stato privato del suo sesso, di una sua caratteristica che lo definisce, privato della

capacità sessuale di approcciarsi ad Altri; nel romanzo egli è accusato appunto di omicidio di una

donna e di avere sangue “negro”, e rappresenta efficacemente quel concetto di Altro da oggettivare,

ma soprattutto di vittima. Colpevole o meno, non è questo l'importante: nella morte è

indubbiamente indifeso, collassato nella sua carne agonizzante, e l'unica cosa che ancora può

permettergli di esprimersi è il suo sguardo. Nei carnefici “perbenisti”, rimarrà sempre impressa

l'immagine di quegli occhi in un corpo morto, di una carne estremizzata da loro stessi, dalla quale è

emerso un ultimo barlume di soggettività.

44 Cfr. Ivi, cit. p.469

Qualunque modalità di rapportarsi con gli Altri sin qui analizzata prevede un iniziale progetto di

oggettivazione dell'Altro, la quale presenta allo stesso tempo un implicito riferimento alla

soggettività proprio di quest'ultimo. La soggettività altrui però si rivela, come la mia, inconsistente,

e tendente al suo nulla: egli può facilmente oggettivarmi, e cerco con atteggiamenti diversi di

evitare ciò, oppure decido io stesso di rendermi oggetto “particolare” per lui, ma per mia scelta, e

fallisco poiché la mia soggettività, come d'altronde la sua, riemerge sempre. Io potrei accettare

l'Altro solo se questo mi si presentasse contemporaneamente sia come oggetto che come soggetto;

in questa utopica condizione, riconosceremmo a vicenda le nostre libertà.

Ma dal momento che esisto, mi pongo automaticamente come limite della libertà altrui, ed egli fa lo

stesso nei miei confronti; ogni comportamento, che vada dalla totale accettazione alla completa

indifferenza per l'Altro, pone comunque in rapporto la mia soggettività con quella degli altri, e ci

limitiamo a vicenda. Siamo talmente limitanti per l'Altro (e la cosa è sempre reciproca) che

possiamo definirci colpevoli: sia per l'oggettivazione che attuiamo verso di lui anche solamente con

lo sguardo, sia per il semplice fatto di essere presenti in un mondo in cui l'Altro c'è già, ci sarà e c'è

sempre stato, e continuerò a limitare la sua soggettività.

Neanche la morte può cancellare il ricordo di me nell'Altro: come si è visto, neanche la mia

condizione di vittima sodomizzata fino alla morte indebolisce il potere oggettivante del mio

sguardo.

Consapevole del fallimento continuo di ogni rapporto umano e di questa continua dialettica

guardare/esser guardato, posso arrivare a cercare non la mia morte, ma quella dell'Altro, e questa

ultima modalità di rapportarsi all'alterità è l'odio.

L'odio è la modalità della disperazione: ormai rassegnatomi dal progetto di poter realizzare

un'unione con l'Altro, non voglio neanche più utilizzarlo come strumento al fine di far prevalere la

mia soggettività. Allo stesso tempo però, voglio neutralizzare ogni possibile riferimento al mio

essere-per-Altri e al possibile pericolo di essere oggettivato: l'Altro quindi, non mi è indifferente.

Non si tratta di attuare un isolazionismo per non avere più niente a che fare con l'Altro; non è fuga

dai rapporti, ma presa coscienza della loro infattibilità, e quindi scontro. Io riconosco la libertà

dell'Altro, ma in maniera negativa e oggettivandolo: mi appare come oggetto, ma so che è anche e

soprattutto soggettività, perciò voglio distruggere quel soggetto partendo dalla totalità della sua

presenza fisica. Si potrebbe qui trovare un'analogia con il comportamento sadico: ma chi odia, a

differenza di chi vuol sodomizzare, non vuole possedere l'Altro, anzi ne ha un disgusto “naturale”,

non attribuito in maniera oscena per umiliarlo. Probabilmente come il sadico, chi odia potrebbe

godere nel vedere una soggettività che soffre e lotta per mantenersi libera coscienza: ma più

credibilmente chi odia non vuole proprio sentire un soggetto che riemerge, tanta è la volontà di non

essere più oggetto, in nessun modo. L'odio infatti nasce spesso da un atto dell'Altro che mi ha posto

sotto la sua libertà, e cioè mi ha strumentalmente oggettivato. Un sentimento che paradossalmente

fa giungere all'odio è la riconoscenza: io mi sento in debito con l'Altro per un'azione che ha svolto

nella sua totale libertà, e per liberarmi da questa sottomissione devo distruggere chi me la impone.

Si può ovviamente essere portati ad odiare anche per un torto ricevuto, un'offesa, un'umiliazione; in

ogni caso io odio la totalità dell'Altro, non un suo particolare, un suo vizio o virtù (altrimenti

sarebbe solo fastidio) – e la totalità dell'Altro mi riporta alla totalità degli Altri in generale, e il

progetto di sopprimerlo è l'obiettivo di sopprimere l'alterità in toto, in modo da conquistare e

affermare il mio pour soi senza più il pericolo dell'oggettivazione altrui.

Ma come le altre modalità di incontro con gli Altri, anche l'odio giunge al fallimento: anche se si

riuscisse ad abolire l'alterità nel momento presente, non si potrebbe cancellare il fatto che l'Altro sia

stato. Io odio proprio per questo, perché ho riconosciuto l'Altro come soggetto che poteva farmi

oggetto: anche se ora, nel momento, io sono riuscito a sopprimerlo, avrò sempre il ricordo di lui che

è stato. Come si è visto dal breve estratto di Luce d'agosto, l'Altro continua ad imperversare nella

mia esistenza anche dopo la morte, ed anzi soprattutto nella morte: il suo sguardo mi congelerà per

sempre, e ogni qual volta incontrerò qualcun altro, sarò sempre in allarme e succube di qualunque

alterità, nella certezza che esso mi possa oggettivare e defraudare con il suo sguardo.

L'odio è un sentimento controproducente: forse può darmi sollievo in un attimo nel presente,

essendo convinto di aver annientato ogni possibilità di essere oggettivato, ma ecco che ritorna il

ricordo dell'Altro, e sono costretto a rigettarmi nella spirale dialettica delle molteplici modalità di

incontro con gli Altri.

Capitolo 3

CONCLUSIONI

Si può esser portati a considerare le riflessioni di Sartre concerni i rapporti interpersonali

decisamente pessimistiche e materialiste. Difatti sono queste le maggiori critiche che gli vengono

presentate sia da Gabriel Marcel, di influsso cattolico, sia dall'amico Maurice Merleau-Ponty, di

idee marxiste. La conclusione negativa che l'uomo possa essere un “Dio mancato” fa accusare

Sartre di ateismo, oltre che dell'evidente materialismo che emerge negando ogni possibile rinascita

umana per causa spirituale: gli uomini vivono qui e adesso, e i loro comportamenti non sono guidati

da una futura punizione/gratificazione ultraterrena, bensì dall'Altro; anche nella morte, mia o altrui,

rimane sempre il ricordo dell'Altro.

Il tema de L'essere e il nulla è indubbiamente la situazione di crisi e “coscienza infelice”; e ciò

viene imputato a Sartre come perdita di fiducia nel futuro, di voglia di rinascita che aveva

caratterizzato anche il suo impegno politico nella Resistenza. Questa amara consapevolezza va

dunque ricollegata in parte al periodo storico che vive l'autore, che incide anche sul suo pensiero;

seppur a differenza di Jean Améry che in Un intellettuale ad Auschwizt abbandona la possibilità

della cultura, Sartre “approfitta” del periodo di prigionia a a Tréves (dal '40 al '41) per scrivere e

riflettere, (certo in un ambiente più facile rispetto ad Améry, qui scriverà Lettere a Castoro,

riflessioni scritte alla compagna Simone De Beauvoir inerenti la guerra e non solo), il periodo della

guerra può aver comunque contribuito alla rassegnazione del fallimento dell'incontro con l'Altro. La

direzione politica ancora incerta sino al '45 (ma già in parte annunciata con la “lotta di classe” del

noi oggettivo), sicuro per ora solo della Resistenza, gli costeranno le critiche di Merleau-Ponty, di

un marxismo “inoperante”, e di un pour soi immerso nel proprio nulla anziché nell'agire

intersoggettivo del mondo.

Sartre fu accusato anche di materialismo dai cattolici: è però facilmente percepibile anche in questo

caso che, dopo “l'identificazione” con il Roquetin de La nausea, il Sartre del '43 non possa fare

altrimenti che riconoscere il fallimento dell'uomo come un “Dio mancato”, e data l'impossibilità di

avere delle modalità appaganti nei rapporti con un'alterità umana, come è possibile averne con lo

“sguardo che guarda ma non è guardato”, cioè la divinità?

Per dover di cronaca, è necessario ricordare che Sartre riuscirà a rispondere e ad arginare queste

critiche già nel 1945 con la conferenza L'esistenzialismo è un umanismo, pubblicata poi in un

saggio omonimo nel '46, ma non è questa la sede per poterne esporre il contenuto.

Si potrebbe inoltre constatare che il terrore dello sguardo oggettivante di Sartre possa essere

positivamente trasformato in vojer dai personalisti francesi, corrente di pensiero poco prossima

all'esistenzialismo di Sartre, del quale faranno parte autori come Mounier, De Rougemont e lo

stesso Marcel solo per citarne alcuni. In questo caso non si parla più di Altro ma di Persona, la quale

diventa avvenimento irripetibile di incontro, e il “vedere gli altri” implica un “vedere se stessi”, un

saper stare da soli, chez soi.

Indubbiamente la visione personalista(che qui non possiamo analizzare) è una ventata di freschezza

rispetto alle insicurezze dei rapporti umani esposti ne L'essere e il nulla; ma il raggiungimento di un

equilibrio, se possibile, necessita “dialetticamente” di una negazione totale, di giungere alle radici

della crisi, osservare il mondo che ci circonda in quel momento, e trarne delle conclusioni. Sartre

attua, in ogni analisi dell'esistenza, il metodo fenomenologico: perciò diventa scorretto anche

storicizzare troppo l'opera sartriana, riconducendola alle disillusioni e al malessere della guerra.

Gli esempi adoperati nel “saggio di ontologia fenomenologica” sono espressivi del suddetto

metodo: Sartre osserva, anzi guarda di volta in volta la donna al primo appuntamento, il cameriere,

ma anche il temperino sul tavolo, la gente in metropolitana; egli guarda come potrebbe guardare

chiunque altro, e le reazioni che possono emergere sono del tutto naturali: guardo e ho paura di

essere guardato.

Probabilmente Sartre sarà stato condizionato anche dal proprio periodo storico; ma tutti, sono

condizionati dalla loro esistenza in un determinato periodo, e non è solo quello che porta alla

coscienza della crisi: è la perdita di fondamenti, di certezze culturali e non, che fanno giungere al

dubbio, allo spaesamento , in un'esplicita espressione, alla nausea di esistere.

Non tutti potranno accogliere la crisi: c'è chi cercherà di evitarla in ogni modo, chi proverà ad

ignorarla seppur consapevole della sua esistenza, chi probabilmente non la avvertirà proprio.

Come in un processo dialettico in cui la negazione è necessaria, Sartre mette in luce la negatività

dell'esistenza, che può esser percepita solo dopo la perdita di determinati punti di riferimento, in

primis dentro se stessi.

Lungi dal voler esser un'analisi psicologica, questo breve elaborato ha voluto evidenziare

determinate particolarità di alcuni comportamenti esistenziali che portano spesso al fallimento,

soprattutto nei rapporti con gli altri; non si vuole qui esaltare la negatività in toto, ma comprendere

il perché del fallimento di queste modalità, in parte oggettivamente fallaci, ma in parte divenute tali

perché avvertite così dal soggetto,che, insicuro della propria esistenza, si riconosce solo in parte,

(talvolta come sguardo, altre come corpo, altre ancora come carne, raramente come soggetto) e non

può dunque esser sereno nell'affrontare un rapporto con un'altra soggettività, insicura anch'essa.

Il personalismo annuncerà la sfida di riuscire a vedere l'Altro, e non più a guardarlo, provando allo

stesso tempo la vertigine di stare “bene” da soli, chez soi, riuscendo a vedere prima di tutto se stessi.

Ma anche l'incontro con sé è dapprima scontro, che comporta una negatività intrinseca, una

dialettica dettata dall'avere: io sono ciò che ho, il mondo che mi circonda assume di significato dal

momento che io lo posseggo, e vorrei appropriarmi di quel me che appare ed è per gli Altri.

L'uomo di Sartre esprime l'irriducibile mancanza dell'esistenza, che si acuisce sapendo che gli Altri

possono scoprire questo deficit, e definirlo in base ad esso. Gli Altri ci sono stati, ci sono e ci

saranno sempre, ed io non posso rinchiudermi nella mia torre d'avorio per evitarli. Lo scontro è

necessario, le modalità fallimentari anche, il loro sguardo soprattutto rivela come sono realmente:

ma rivela solo una parte della mia realtà; sta a me poi se decidere di incontrare o meno il mio pour

soi, consapevole che sarà uno scontro anche con questo, e sintetizzare le due cose.

Bibliografia essenziale

bibliografia secondaria

ringraziamenti


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