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Formazione e primi secoli di vita del Comune di Montecosaro

Date post: 19-Nov-2023
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CARLO CASTIGNANI Formazione e primi secoli di vita del comune di Montecosaro * Il comune di Montecosaro al pari di tanti altri non ha una data precisa di nascita, neanche approssimativa, tuttavia possiamo dire che all’inizio del Duecento era una realtà consolidata. Alla fine dello stesso secolo ottenne di poter eleggere direttamente le proprie magistrature e godere così di una completa autonomia comunale, regolata da propri statuti. Nel Trecento infine si consolidò la gestione democratica della cosa pubblica e si affermarono le magistrature interne, che avevano la loro massima espressione nel confaloniere e nei priori eletti ogni due mesi tra i cittadini di Montecosaro. Mi sono imposto di riportare nelle pagine che seguono solo notizie confermate da documenti, per lo più consultabili anche oggi; non vi si troveranno fatti suggestivi riferiti da eruditi del passato, probabilmente degni di attenzione, ma fino ad ora privi di opportuni riscontri. Limitate eccezioni sono state fatte nei casi in cui i documenti, ora scomparsi, erano stati consultati da autori degni di fiducia, al pari del Compagnoni e del Vogel, specialmente se ne avevano curato una trascrizione totale o anche solo parziale. SECOLI INTORNO AL MILLE E FORMAZIONE DEL COMUNE Per fare un po’ di luce sulle vicende che hanno portato alla nascita del comune bisognerà far parlare i pochi documenti disponibili prima del Duecento seguendo anche le vicende di altre istituzioni presenti sul territorio. Ad esse è dedicato in questo volume * Abbreviazioni usate: ACMC = Archivio comunale di Montecosaro ACC = Archivio comunale di Civitanova ACMG = Archivio comunale di Montegiorgio ACMP = Archivio comunale di Monteprandone ACSE = Archivio comunale di S. Elpidio ASM = Archivio di Stato di Macerata ASC = Sezione di Archivio di Stato di Camerino ASF = Sezione di Archivio di Stato di Fermo ASR = Archivio di Stato di Roma ASV = Archivio Segreto Vaticano PM = Pergamene di Montecosaro, conservate presso l’Archivio di Stato di Macerata Liber = Liber diversarum copiarum bullarum, privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatum Firmi, codice membranaceo 1030 dell’Archivio diplomatico del comune di Fermo, conservato in ASF; ringrazio D. Pacini e G. Avarucci per avermi fornito il testo dei passi citati. Quando non specificato diversamente, il riferimento è ad articoli presenti in questo stesso volume e particolarmente: D. PACINI - La pieve di S. Lorenzo ed altre istituzioni medievali a Montecosaro; F. ALLEVI - Montecosaro nella continuità del suo tempo remoto; G.F. PACI - Il territorio di Montecosaro in età antica. Ringrazio Isabella Cervellini, Luciano Egidi e Rossano Cicconi dell’aiuto fornito nella lettura di alcuni documenti.
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CARLO CASTIGNANI

Formazione e primi secoli di vita del comune di Montecosaro∗

Il comune di Montecosaro al pari di tanti altri non ha una data precisa di nascita,

neanche approssimativa, tuttavia possiamo dire che all’inizio del Duecento era una realtà consolidata. Alla fine dello stesso secolo ottenne di poter eleggere direttamente le proprie magistrature e godere così di una completa autonomia comunale, regolata da propri statuti. Nel Trecento infine si consolidò la gestione democratica della cosa pubblica e si affermarono le magistrature interne, che avevano la loro massima espressione nel confaloniere e nei priori eletti ogni due mesi tra i cittadini di Montecosaro.

Mi sono imposto di riportare nelle pagine che seguono solo notizie confermate da documenti, per lo più consultabili anche oggi; non vi si troveranno fatti suggestivi riferiti da eruditi del passato, probabilmente degni di attenzione, ma fino ad ora privi di opportuni riscontri. Limitate eccezioni sono state fatte nei casi in cui i documenti, ora scomparsi, erano stati consultati da autori degni di fiducia, al pari del Compagnoni e del Vogel, specialmente se ne avevano curato una trascrizione totale o anche solo parziale. SECOLI INTORNO AL MILLE E FORMAZIONE DEL COMUNE

Per fare un po’ di luce sulle vicende che hanno portato alla nascita del comune bisognerà far parlare i pochi documenti disponibili prima del Duecento seguendo anche le vicende di altre istituzioni presenti sul territorio. Ad esse è dedicato in questo volume ∗ Abbreviazioni usate: ACMC = Archivio comunale di Montecosaro ACC = Archivio comunale di Civitanova ACMG = Archivio comunale di Montegiorgio ACMP = Archivio comunale di Monteprandone ACSE = Archivio comunale di S. Elpidio ASM = Archivio di Stato di Macerata ASC = Sezione di Archivio di Stato di Camerino ASF = Sezione di Archivio di Stato di Fermo ASR = Archivio di Stato di Roma ASV = Archivio Segreto Vaticano PM = Pergamene di Montecosaro, conservate presso l’Archivio di Stato di Macerata Liber = Liber diversarum copiarum bullarum, privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatum Firmi, codice membranaceo 1030 dell’Archivio diplomatico del comune di Fermo, conservato in ASF; ringrazio D. Pacini e G. Avarucci per avermi fornito il testo dei passi citati. Quando non specificato diversamente, il riferimento è ad articoli presenti in questo stesso volume e particolarmente: D. PACINI - La pieve di S. Lorenzo ed altre istituzioni medievali a Montecosaro; F. ALLEVI - Montecosaro nella continuità del suo tempo remoto; G.F. PACI - Il territorio di Montecosaro in età antica. Ringrazio Isabella Cervellini, Luciano Egidi e Rossano Cicconi dell’aiuto fornito nella lettura di alcuni documenti.

l’articolo di Delio Pacini che ben illustra anche il significato di alcuni termini che incontreremo strada facendo; per questo ed altri aspetti risulterà molto utile anche la lettura dell’articolo di Febo Allevi. Qualche argomento verrà ripreso sia per avere un quadro meno frammentato che per proporre considerazioni di una qualche utilità nel tentativo di seguire il formarsi di una comunità civile autonoma.

Sarò costretto molto spesso a proporre ragionamenti dettati più dalla logica che da adeguata documentazione; per non appesantire il discorso eviterò di ripetere in continuazione che si tratta di semplice ipotesi, e preciserò meglio in nota i casi più incerti.

Un primo grosso inciampo lo troviamo nel nome stesso di Montecosaro, certamente un po’ singolare e per certi aspetti abbastanza oscuro; il toponimo comincia a far capolino intorno al Mille, ma nessun documento di questo periodo ci parla direttamente di Montecosaro come centro abitato. Più chiara è la situazione per S. Maria di Chienti e per la pieve di S. Lorenzo, e anche per qualche cittadino di un certo rilievo, come Cinoco e più tardi Alberto di Montecosaro. Sarà utile dedicare un po’ di spazio a questi argomenti per tentare di carpire qualche spunto utile al tema in discussione. Santa Maria di Chienti e le sue dipendenze

Risale al 936 la più antica notizia di archivio collegata in qualche maniera a Montecosaro; ci parla appunto del monastero di Santa Maria, vicino al fiume Chienti, e della “corte” di San Martino. Il complesso non doveva essere di vaste dimensioni se in un altro documento la chiesa viene indicata semplicemente come “cella”, ma è pur tuttavia la chiara testimonianza di una piccola comunità che operava nella campagna circostante e si raccoglieva in preghiera nella piccola chiesa, già allora dedicata alla Madonna1. Alcuni autori dei secoli passati riferiscono vicende più o meno fantasiose che farebbero risalire la fondazione della chiesa addirittura al sesto secolo. Più recentemente C. G. Mor analizzando la “problematica cittadina precomunale nel piceno” è partito proprio dalla presenza della nostra chiesa per tracciare la frontiera settentrionale del “Ducato longobardo di Fermo”; analizzando alcuni elementi architettonici è arrivato a datare parte dell’edificio alla metà del secolo ottavo2. Sulla stessa lunghezza d’onda sono alcuni recenti studi sulla scultura nelle Marche i quali hanno posto in evidenza che un significativo frammento di decorazione, murato all’interno della chiesa, “trova precisi riscontri in opere di ambito longobardo della prima metà dell’VIII secolo”3.

1 Il Regesto di Farfa, di Gregorio di Catino, a cura di I. GIORGI e U. BALZANI , Roma 1879, vol. III, p. 84; Campone, abate di Farfa dal 936 al 962, concede all’amico Ildeprando chiese e terreni. “Iste namque dedit ... Curtem montis falconis, Monasterium sanctae Mariae iuxta fluvium Clentis, Curtem sancti Martini de aquatine, Curtem sancti Martini quam dedit alberto filio suo in dotalicia, et sui nuris, Curtem de moliano”. Il Chronicon Farfense, di Gregorio di Catino, a cura di U. BALZANI , Roma 1903, vol.I, p.38; “In ipsa denique Marchia dedit ei duas cellas, Sancte Marie iuxta lumen Clentis et Sancte Marie in Solestano”; a pagina 307 “duas ei cellas in Marchia dedit, Sancte Marie iuxta flumen Clentis, et Sancte Marie in Solestano”; vedi anche l’articolo di D. PACINI, p. 94. 2 C.G. MOR, Problematica cittadina precomunale nel piceno (in Studi maceratesi, n.7), Macerata 1973, p.7; vedi anche l’articolo di F. ALLEVI , p. 65. 3 F. BETTI, L’alto medioevo, decorazioni architettoniche e suppellettili liturgiche (in Scultura nelle Marche, a cura di P. Zampetti), Firenze 1993, p.85.

Ugualmente di arte longobarda dovrebbero essere altri due frammenti, murati anch’essi all’interno; molto probabilmente sono resti di una chiesa meno spoglia di quella attuale e per giunta finita di tutto punto, almeno in alcune sue parti, nella prima metà del ‘700.

Non è arbitrario considerare questa chiesa dell’ottavo secolo come la continuazione di un edificio ancora più antico, più semplice nelle forme e più spartano nelle finiture.

Per altro verso le ricerche effettuate nella zona, e raccolte nell’articolo di G. Paci, testimoniano la presenza di una vita organizzata nella tarda romanità. Non è fuori luogo ipotizzare una qualche continuità di vita tra i coloni romani in ritirata di fronte alle ripetute invasioni barbariche (che non hanno risparmiato certo le Marche) ed i primi monaci impegnati a bonificare un territorio spopolato e inselvatichito.

Non ci sorprende vedere dentro la chiesa, o inseriti nei muri, colonne o altro materiale di costruzioni romane, e ritrovare ancor oggi nel terreno circostante parti di fregi e tegole dello stesso periodo.

Dopo esser volati con la fantasia indietro nel tempo, è bene tornare ai documenti da cui eravamo partiti; uno del 1027 ci dice che il monastero aveva tra le proprie dipendenze anche un castello, in antagonismo magari con uno o più castelli sorti su altri cocuzzoli delle colline circostanti4.

Nel 1046 l’abbazia di Farfa, da cui dipendeva il monastero di S. Maria di Chienti, riceve una vastissima donazione dalla badessa Carizia e da sua sorella Beliarda monache del monastero di S. Salvatore di Cantalupo; sono figlie di un certo Adelberto, possibile discendente di qualche signore longobardo con vasti possedimenti nella nostra zona. Si tratta di circa 400 ettari di terra, suddivisa in 25 fondi, 4 chiese, tre corti, un castello e lo stesso monastero di Cantalupo; sono citati espressamente i fondi Lumirano e Sala, in territorio di Montegranaro, e, in prossimità del mare, i fondi di Monte Alperti, Alviano e Torliano5.

In quegli anni Santa Maria di Chienti riceve altre donazioni, regolarmente confermate dall’imperatore nel 1050, che ne accrescono l’influenza su tutta la zona; essa beneficia di castelli, chiese, mulini, di parte “de Lumerano” e “de Sala” (al di là del Chienti) e di terre e vigne in Torliano, con il lido del mare e il porto, nell’area di Civitanova. Nel 1084, in un’altra conferma imperiale, si attesta la dipendenza anche dei castelli “de Luritu” e “de monte Alberti”, entrambi in territorio di Civitanova. Da notare che il secondo castello faceva già parte della donazione del 1046, ma non compariva nella precedente conferma imperiale, per cui dobbiamo pensare che inizialmente non fosse stato assegnato a S. Maria; il castello “de Luritu” sembra invece frutto di una donazione posteriore, e per certi versi a danno di Civitanova che, forte anche di una certa

4 Il Regesto di Farfa cit., vol.IV, p.77, anno 1027; conferma dell’imperatore Corrado II; “Et sancti Benedicti atquae sanctae Mariae iuxta fluvium clentis, cum rebus et castello quod Adam filius Hardearadi in ibi contulit, et cum aliis rebus quae ab aliis fidelibus moderno tempore ibi concessae sunt. Et cum ministerio de Sparzano et de Valli in integrum”. 5 Il Regesto di Farfa cit., vol.IV, p. 305, anno 1046; donazione della badessa Carizia; “curtem nostram de lumetiano, in fundo lumiriano, et in fundo asiniano, et in fundo sala, ... in fundo monte alperti. Idest nostram portionem de ipso castello de monte alperti cum introitu et exitu et ... rebus quae sunt in fundo monte alperti, et in fundo alviano, et in fundo mantatiano, et in fundo toreliano”.

autonomia concessagli dal vescovo di Fermo, in quegli anni si adoperava per estendere i propri confini6.

Questi sono gli anni di maggior splendore e potenza di S. Maria di Chienti, anche se si va esaurendo progressivamente la missione originaria. Rimane da accennare alle dipendenze di S. Maria e in modo particolare alle diverse chiese dedicate a S. Martino, con le loro pertinenze, spesso citate nelle scritture dell’epoca. Le ripetute dedicazioni a S. Martino testimoniano la venerazione tributata al santo vescovo di Tours dalle popolazioni della nostra zona, retaggio di una significativa presenza di genti franche. Come vedremo più avanti questa devozione popolare si manterrà per molti secoli anche per opera degli Agostiniani. La pieve di S. Lorenzo

E’ una presenza molto antica che si lega direttamente alle origini del cristianesimo nel territorio di Montecosaro, all’antica diocesi di Civitanova e forse anche alla figura di S. Marone7. In questo contesto si instaurò un forte legame fra le varie chiese della primitiva diocesi e le rispettive comunità cristiane, unite nella venerazione dei primi martiri come S. Lorenzo e S. Marone. La comunità di Montecosaro ha tributato profonda venerazione a S. Marone anche nei momenti di aperto conflitto con gli uomini di Civitanova; una testimonianza tangibile la possiamo scorgere nell’altare dedicato al Santo e affidato alle cure di un apposito rettore, attestato nella pieve di S. Lorenzo dal 1386 fino al 17608. Questa pieve, forse ancor più della chiesa di S. Maria di Chienti, testimonia la continuità di vita in tutta la zona; per tutto il territorio fu la chiesa patronale e il punto di riferimento sicuro sull’altura.

Dell’antico edificio ci resta qualche traccia nei cortili delle case popolari costruite negli anni cinquanta, in prossimità della chiesa di S. Rocco. Alla pieve medioevale apparteneva il grande crocifisso, ora nella Collegiata, che alcune considerazioni iconografiche collocano nel secolo XIII, se non addirittura nel XII; vi campeggia infatti la figura ieratica del Cristo, trafitto da quattro chiodi, con il capo eretto e lo sguardo rivolto 6 Il Regesto di Farfa cit., vol.IV, p. 275, anno 1050; conferma dell’imperatore Enrico III; “Sanctam Mariam in clenti, cum castellis, aecclesiis, molendinis, et aquam deducere ubi necesse est, cum portione de lumerano, et portione de sala. Curtem sancti Martini cum meditate de colle bonelli, et medietate de Morru, et quarta parte ex alia. ... In troliano terram et vineas, cum litore maris et cum portu.” Il Regesto di Farfa cit., vol.V, p. 96, anno 1084; conferma dell’imperatore Enrico IV; “Sanctam Mariam in clenti cum castellis, et aecclesiis, et molendinis, et aquam deducere ubi necesse fuerit. Item contra fluvium clentis. Curtem sancti Silvestri intra civitatem firmanam. Et alibi curtem sancti Sabini. Et curtem sancti Martini cum mediedate collis bonelli et medietate de morru. Et quartam parte ex alio. ... In troliano terras et vineas cum litore maris et portu. Et medietatem de castello de luritu. Et medietatem de castello montis alberti, cum suis pertinentiis.” Per le concessioni fatte a Civitanova dal vescovo di Fermo vedi la nota 17. 7 Sull’antica diocesi vedi l’articolo di D. PACINI, p. 89. 8 Per il 1386 vedi nota 116; l’altare è attestato anche nell’anno 1473, quando la pieve era ancora fuori le mura; col successivo trasferimento della pieve l’altare fu eretto nella chiesa di S. Maria di piazza. Il manoscritto ottocentesco Memorie antiche e recenti riguardanti la parrocchia e il territorio di Montecosaro, conservato nella casa parrocchiale, nel descrivere le cappelle e gli altari laterali della chiesa Collegiata riporta testualmente: “Nello steso lato segue altra Cappella, ed Altare di pietra cotta dedicato una volta al SS.mo Salvatore, e S. Marone, poi circa il 1760, colle offerte dei Fedeli fu adornato di stucchi, e dedicato a S. Antonio Abbate di cui vi è il quadro in Tela coll’effige pure di S. Marone Prete e Martire”; una mano successiva ha aggiunto in fondo: “Nel 1872 fu riformato, e dedicato a S. Giuseppe Sp. di M. V”.

ai fedeli, secondo la classica iconografia del Cristo trionfatore della morte. Con Giotto e Cimabue si affermò più tardi la rappresentazione del Cristo morto, con le mani ed i piedi trafitti da tre chiodi e con il capo reclinato, che è poi l’iconografia attuale. Il territorio di Montecosaro e i suoi castelli

Da prima del Mille sono dunque documentati nel territorio di Montecosaro sia una

pieve che un monastero, con “corti” e chiese alle proprie dipendenze; dietro di loro vediamo una popolazione diffusa, dedita soprattutto all’agricoltura, guidata da un’autorità religiosa che assolveva anche a funzioni civili.

Nei vari atti del monastero di Farfa e della Chiesa fermana compaiono donatori e acquirenti dai nomi di ascendenza franca o longobarda; la donazione del 1046 ci fa vedere quanto vasti e articolati potessero essere, anche nella nostra zona, i possedimenti di eventuale eredi di vecchi dominatori.

E’ naturale quindi che già prima del Mille alcuni gastaldi o feudatari abbiano sfruttato la posizione strategica delle colline che punteggiano la zona per realizzare costruzioni fortificate a guardia dei fertili terreni della vallata del Chienti9. Queste considerazioni ben si raccordano con quanto leggiamo in carte del 1446 dove si afferma che Montecosaro era formato da cinque monti aventi cinque castellari (termine medievale indicante il territorio sottoposto al dominio fondiario o signorile di un castello)10. Ruderi di una di queste fortificazioni si vedevano ancora nel XVI secolo e Simone De Magistris, nell’affrescare la chiesa di S. Rocco, li raffigura con due poderosi archi posti sopra un rilievo dell’Asola. Altra memoria ci resta nel nome stesso della contrada Castellano, la più estesa di tutte, dominata dalle ripide pendici del colle del Cassero; qui sono ancora visibili i resti di un torrione medievale.

Probabilmente il signore di questo castello dominava il vasto territorio che si sviluppa a sud ovest del paese, e forse alla fine fu proprio lui a prevalere sui signori vicini, grazie anche alla posizione strategica occupata11.

Un’altra fortificazione poteva sorgere in corrispondenza della Collegiata, o S. Maria di piazza come si chiamava una volta. La torre romanica, che è parte integrante della chiesa, è tutta in laterizio, eccetto il basamento costituito da grosse pietre di arenaria squadrate in modo sommario; inoltre su un lato esso è più largo della base della torre per cui è probabile che facesse parte di un edificio anteriore, magari una fortificazione altomedievale, stante il materiale usato e la posizione elevata. Faccio osservare ancora 9 Per il fenomeno dell’incastellamento vedi J. C. MAIRE V IGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, Torino 1987, p. 5. 10 ACMC, Iura diversa infra Com. M Causarii et Civitatis Nove -1446, f.50v; causa d’appello per questioni di confine tra Montecosaro e Civitanova, celebrata nel 1446 dinanzi al rettore generale della Marca. “Item q. Mons Sancti Andree fuit et est situs in territorio Montiscasarii, et fuit et est unus de quinque montibus habentibus quinque Castellaria super ipsos de quibus terra Montis Causarii facta est, qua ratione arma Montis Causarii sunt quinque Montes significantia ex dictis quinque Castellaribus dictam terram factam fuisse et esse”; a margine in epoca successiva è stato scritto “Origo M.tis Causarii”. Lo stemma di Montecosaro a cui si riferisce questa testimonianza è quello attuale e all’epoca aveva almeno vent’anni, essendo stato impresso nel 1425 sulla campana di S. Maria di Chienti. 11 In verità il Monte della Giustizia sopravanza il Cassero di quasi venti metri e sarebbe stato un po’ più sicuro, anche perché domina parte della vallata dell’Asola; però essendo più arretrato non poteva controllare completamente la fertile vallata del Chienti, al contrario del Cassero.

che ad est della torre, sulle prime pendici del colle, sorgeva l’antica pieve di San Lorenzo che poi nel 1490 venne “trasferita” proprio a S. Maria di piazza. Queste considerazioni, aggiunte a quelle contenute nell’articolo dedicato alla nostra pieve, fanno supporre che essa sia rimasta per secoli distinta e separata dal centro civile formatosi attorno al castello che dominava il Cassero.

La separazione, anche fisica, tra i centri di riferimento per la vita civile e religiosa non guastava certo, anzi potrebbe aver favorito l’instaurarsi di una aperta collaborazione tra l’autorità religiosa e quella civile, che avremo modo di intravedere anche nei secoli successivi.

Il nome del paese, che emerge timidamente già nel 1008, potrebbe conservare traccia di un probabile castellano di Montecosaro; F. Allevi, in questo stesso volume, pensa di vedere un “Causarius” riconducibile al nostro territorio anche in documenti del 95712. Osservando che le poche notizie emerse finora sono quasi sempre riconducibile al mondo longobardo, sono portato a pensare che “Causario” sia il nome di un personaggio longobardo, in qualche maniera legato al nostro territorio13.

Un documento del 1054, analizzato in questo volume sia da D. Pacini che da F. Allevi, ci fornisce spunti precisi sulla vita del paese. Con un ampio e circostanziato atto il vescovo di Fermo cede ai fratelli Paolo e Grifo di Montecosaro numerosi beni appartenenti alla pieve di S. Lorenzo e ad altre sette chiese, tra cui quella dedicata a S. Salvatore14. La popolazione era aumentata in modo significativo rispetto al secolo precedente, come era da attendersi dopo l’esplosione demografica avutasi ovunque dopo il Mille; la presenza di un orafo ci testimonia dello sviluppo dell’artigianato e di un tenore di vita decoroso, almeno per alcuni15.

I fratelli Paolo e Grifo dovevano essere personaggi di rilievo se consideriamo l’estensione, la natura e la provenienza dei beni acquisiti; l’atto lascia intravedere uno stretto legame tra il vescovo di Fermo e i due fratelli, che forse erano i suoi fiduciari nella zona.

In un documento del 1062 emerge chiaro che Montecosaro, all’epoca, era già un centro ben organizzato e collegato con il territorio circostante da strade di primaria importanza; una saliva dall’Asola fino al paese, poi scendeva al fiume Chienti e proseguiva verso l’Ete e S. Elpidio. Su questa strada era situata anche la pieve di S. Lorenzo, ma il notaio che stila l’atto preferisce prendere a riferimento il centro civile, che evidentemente stava assumendo una sua precisa autonomia16. Il vescovo Ulderico e le prime libertà comunali

12 Vedi gli articoli di D. PACINI, p. 101 e F. ALLEVI , p. 62, anche per le varie ipotesi sull’origine del nome di Montecosaro. 13 A mia volta faccio osservare che nel 1550, secondo un atto dell’epoca, a Recanati ricorreva ancora il nome Cosaro; vedi D. CECCHI, Sull’istituto della Pax (in Studi Maceratesi, n.3), Macerata 1968, p. 145: “messer Aurelio, messer Cosaro et messer Lorenzo de Antici della dicta città de Recanati”. 14 Vedi gli articoli di D. PACINI, p. 103 e di F. ALLEVI , p. 67; la presenza di una chiesa dedicata a S. Salvatore potrebbe essere in relazione al monastero di S. Salvatore di Cantalupo (vedi testo e nota 5). 15 Vedi l’articolo di F. ALLEVI , p. 76. 16 Vedi l’articolo di D. PACINI, p. 104.

Tra il 1057 e il 1073 fu vescovo di Fermo un personaggio di grande rilievo come Ulderico, citato con riverenza dai suoi successori; contemporaneo e amico di San Pier Damiani, ne condivise lo slancio per la riforma della Chiesa. Egli riconobbe e valorizzò i nuovi fermenti che stavano attraversando la società civile; con appositi atti formali il vescovo si impegnò a non interferire nelle questioni interne della città, lasciando libero corso agli attori in campo, pur continuando a vigilare sulla loro sicurezza come in passato.

Sembra che gli uomini di Civitanova siano stati i primi a ottenere dal vescovo Ulderico questa libertà, ma dell’atto formale ci resta solo una notizia indiretta. Nel 1115 Azzo, uno dei suoi successori, concesse a Corridonia, e l’anno successivo a Macerata, un primo nucleo di libertà comunali; nella formulazione è ricordato, in entrambi i casi e con le stesse parole, quanto concesso da Ulderico al popolo di Civitanova, a conferma dell’eccezionalità della cosa e della grande autorità morale del personaggio. In questi due atti c’è il riferimento a un “consilio” e ai consoli, che rappresentarono un po’ ovunque la prima magistratura comunale17.

A conferma di quanto abbiamo appena visto, in un atto del 1075 riusciamo a intravedere un primo abbozzo di comune a Civitanova quando venne stipulato una convenzione tra il vescovo Pietro e gli Aldonesi, signori di un castello posto verso il confine con Montecosaro. Essi accettano di trasferirsi all’interno della Città che è chiamata Nuova e promettono di rispettare e difendere i diritti dei cittadini; a garanzia delle prerogative signorili degli Aldonesi viene sancito il divieto per gli abitanti di trasferirsi altrove, divieto da sempre vigente nei castelli. Nell’atto in questione si fa cenno di un consiglio ma non dei consoli, anche se tra i firmatari troviamo rappresentanti della comunità18.

17 Liber, f.14r, anno 1115; “De castro Montis de Ulmo”. Azzo, vescovo di Fermo e Morico, abate di Santa Croce, concedono e confermano al popolo di Montolmo “omnia privilegia que antecessor noster dompnus Uldericus episcopus populo de Civitate Nova per cartulam condonavit et per obligationes et anathema confirmavit et assecuravit”; inoltre promettono di non interferire nelle faccende interne “neque per ecclesiasticam interpellationem neque per capitulum quod in edictis Longobardorum aut in lege Romana”; concedono di giudicare autonomamente tutti i delitti eccetto “de assalto et de homicidio et de furto et de incestuoso adulterio que intra suprascriptas carvonarias commictantur veniant emendata ad consilium ... et consulibus quos pro tempore abebitis”. Liber, f.6v, anno 1116; “Privilegia et pacta inter episcopum Azonem et homines Sancti Iuliani”; atto analogo al precedente con una chiara formulazione circa la libertà di compravendita; “Et ego promicto pro me meisque successoribus vobis supradictis vestrisque successoribus similiter vobiscum stare et defendere contra omnes homines; et abeatis licentiam vendendi, donandi, commutandi, vestrique heredibus reliquendi, excepto quod commitibus et capitaneis vel vavasoribus aut ad aliam Ecclesiam terram infra senaitas non alienetis”. 18 Liber, f.33v, anno 1075; “Conventio de Civita Nova que facta inter Aldonenses et Ecclesiam Firmanam”. “Aldonenses ... convenerunt vel obligaverunt cum episcopo sancte Firmane Ecclesie, scilicet Petro, de intentione quam abuerunt de Civitate que vocabatur Nova. Ab hac hora in antea in consilio neque in consensu neque in facto per aliquod ingenium neque fraudem neque per deceptionem ... ut supradicta civitas sit apprehensa aut accenssa vel destructa neque homines abitantes in eadem civitate sint reprehensi vel occisi aut assaltum habeant infra supradicta civitas neque vero consilio aut facto homines abitantes in eadem civitate foras civitatem exeant ad abitandum, et illos homines quos alicubi habetis vobis non tollemus, neque contradicemus. ... Firmo advocato Sancte Marie me rogaverunt scribere. Lungini ibi fuit. Adelberto ibi fuit. Paganello ibi fuit. Gualterius, Adam, Massaro, Adelberto, Truitunio ibi fuerunt conventione queam fuit iter episcopum Petrum et Aldonenses de intentione qua habuerunt de Civita Nova.” Notare come all’inizio si parli di “civitate” che è chiamata “nova”, mentre alla fine si scrive direttamente “Civitate Nova”.

Come suggerisce lo stesso nome, “Civita-nova” doveva avere un’esigenza molto viva di popolare il nuovo centro abitato, e parallelamente di espandere la propria zona di influenza; con l’arretramento del baricentro dalla costa sulla collina è del tutto naturale che crescesse l’interesse verso le vallate e le colline retrostanti. C’era poi l’esigenza di rafforzare e popolare il nuovo centro abitato, “Civita-nova”, per cui è probabile che siano stati fatti ponti d’oro ai signori dei dintorni per spingerli a traslocare entro le mura.

Un indizio di questa situazione, protrattasi per anni, potremmo averlo dalla lettura attenta di due concessioni del vescovo Ulderico: una del giugno 1057 e l’altra del febbraio 1073, due date che racchiudono per intero gli anni del suo episcopato. In entrambi i casi il richiedente è “Adelberto detto Cinoco”, personaggio che sembra ben accreditato presso il vescovo. L’intestazione “Precaria di Alberto detto Cinoco di Civitanova o di Montecosaro” sicuramente inconsueta e solo in parte spiegabile, specialmente nell’atto del 1057, con il fatto che i beni ceduti dovevano essere in territorio sia di Montecosaro che di Civitanova19. Io vi leggo una indeterminatezza di confini e anche un interesse dello stesso Cinoco a qualificarsi agli occhi del vescovo come civitanovese e contemporaneamente come montecosarese; egli potrebbe essere un fautore della politica espansionistica di Civitanova e un suo buon ambasciatore presso il vescovo Ulderico.

Se quanto detto non è del tutto inconsistente, l’azione di Civitanova verso Montecosaro iniziò molti anni prima dell’atto formale con cui il vescovo Ulderico le concesse alcune libertà comunali. Non abbiamo una data precisa per tale evento ma possiamo comunque dire che Civitanova precedette di una cinquantina d’anni altri importanti centri della regione.

La “politica” di Civitanova fu meno efficace per quello che riguarda Montecosaro, nei cui confronti ottenne solo qualche modesto ampliamento territoriale, che si intravede ancora oggi osservando con attenzione la linea di confine nella valle dell’Asola. Per contro si instaurò tra i due centri un clima di sospetto e di diffidenza che produsse per secoli aspri dissidi.

19 Liber, f.102v, anno 1057; “Precaria Adelberti qui supervocitatur Cinoco de Civitanova vel Montis Cosari”. Cinoco ottiene dal vescovo di Fermo Ulderico alcuni beni situati “in fundo Palumbolli infra ministerio de Valli” e “in fundo Polverina infra ministerio de Clenti”; tra i confini vediamo “ab uno lato terra Sancte Marie Savinense” e più sotto “ab uno lato terra Sancti Salvatoris”. Liber, f.102v, anno 1073; altra “Precaria Adelberti qui supervocabatur Cinoco de Civitanova vel de Monte Cossari” con cui Ulderico cede diversi beni; tra i confini troviamo”de capo casa Ardovini de Branconi et pervenientem in Sancta Cecilia et pervenientem in rigo de Spartiano”, e più sotto “ab alio lato fines madietas de ipso castello de Loreto”. Vedi anche l’articolo di D. PACINI, p. 104; alla nota 58 l’autore afferma che “le rubriche sono posteriori alla redazione originaria dei documenti, essendo state compilate dai copisti medesimi, ed i toponimi ivi espressi indicano generalmente i luoghi a cui gli atti si riferiscono”. Questa giusta osservazione conferma una situazione confinaria incerta, dal momento che i due centri di riferimento sono legati, caso unico in tutte le rubriche del codice 1030, da un “vel” invece che da un “et”; c’è anche da dire che nell’atto del 1057 i beni ceduti sono situati in due soli fondi ben distinti e chiaramente indicati (uno nel ministero “de Valli” e l’altro in quello “de Clenti”), per cui la rubrica premessa all’atto sembra più ricca del necessario, se avesse un significato solo topografico. Per il soprannome Cinoco aggiungo che nel catasto del 1785 è registrata una contrada con questo nome, vicino al confine con Morrovalle.

Spunti di vita civile a Montecosaro

Abbiamo incontrato in questi anni alcune donazione a beneficio di S. Maria di Chienti, fra cui quella molto significativa della badessa del monastero di Cantalupo; molti dei beni ceduti erano vicini al mare, in territorio di Civitanova, compresi alcuni castelli e il porto, e questo andava in senso contrario all’azione espansiva che “Civitanova” stava svolgendo. Il monastero benedettino, padrone di beni primari per la difesa di Civitanova e i suoi commerci, era un ostacolo in più che andava a sommarsi alla resistenza mostrata dai signori di Montecosaro, probabilmente in rapporti migliori con gli stessi monaci.

La contrapposizione con Civitanova nel corso del XI secolo avrà serrato le fila dei montecosaresi e accelerato l’evoluzione verso un primo abbozzo di autonomia comunale.

A questa situazione potrebbe far riferimento una carta del 1659 in cui leggiamo che nel 1101 gli uomini di Montecosaro ebbero in enfiteusi molti beni della chiesa di Santa Maria di Chienti20. La cosa si inquadra molto bene con l’attivismo di Berardo III, abate di Farfa dal 1099 e uomo di nobile famiglia marchigiana; egli intraprese un vasto programma edilizio per ristrutturare chiese e castelli, soprattutto nell’ascolano e particolarmente ad Offida dove in precedenza era stato “preposto” . Per finanziare tali attività dovette procedere ad una serie di cessioni, del tipo di quelle fatte agli uomini di Montecosaro; nel 1110 cedette il castello di “Mons Alperti”, in territorio di Civitanova, al prezzo “di cento bizanti d’oro e l’annuo canone di dodici denari” da pagarsi proprio a S. Maria di Chienti21.

I proventi di queste ed altre vendite possono essere stati utilizzati anche per finanziare la vasta ristrutturazione della chiesa di S. Maria di Chienti che gli studiosi datano al 1125; forse fu intrapresa dallo stesso Berardo e portata avanti per anni con l’impegno e il sudore di molti montecosaresi.

La cessione del castello di Monte Alperti, donato alla chiesa nel 1046, avvenne 64 anni dopo quella donazione e questo può esser visto come un altro successo della “politica” di Civitanova, accennata in precedenza. Essa mirava certamente ad acquisire altri beni dello stesso monastero, in modo particolare le terre vicino al Chienti, da cui Civitanova derivava l’acqua per il suo mulino. Queste terre invece furono cedute agli

20 ASC, Ipab, busta 50, fascicolo 25; Domenico Cagnarone, inportante personaggio del consiglio comunale di Montecosaro, in una relazione del 30 gennaio 1659 scrive che, sulla base “delle scritture pubbliche esistenti nel Archivio della Comunità” di Montecosaro, “da immemorabil tempo gli homini di Monte Cosaro hebbero in enfitesi dalla Chiesa di Santa Maria di Chienti, ò vero Abbazia e monaci di Farfa padroni di molti beni stabili di detta Chiesa, per che si del anno 1101 si legano scritture e strumenti nel archivio di questa Comonità”; il mulino, ancora necessario per il monastero, verrà ceduto nel 1385, come vedremo più avanti (vedi testo e nota 135). La relazione continua poi riportando i fatti del Quattrocento e del Cinquecento, trattati per esteso e correttamente, a parte qualche marginale imprecisione; tutti sono attualmente riscontrabili con documenti d’archivio. Non altrettanto può dirsi pei i fatti del 1101 e del 1385, per cui è utile riflettere sulla loro attendibilità. Prima del 1661 l’archivio del comune di Montecosaro fu frequentato da Pompeo Compagnoni per documentare a dovere La reggia picena; vi compaiono infatti alcune pergamene dell’archivio, qualcuna anche per esteso (vedi nota 92). Il Compagnoni deve aver consultato a fondo tutto l’archivio anche per motivi personali, visto che vantava tra i suoi antenati il famoso Alberto di Grimaldo di Montecosaro, vissuto intorno al 1130. E’ molto probabile che Domenico Cagnarone abbia chiesto aiuto a Pompeo Compagnoni per stilare la propria relazione; se questo è plausibile, dobbiamo considerare attendibili anche le notizie più antiche riportate in questa relazione, benché posteriore di 558 anni rispetto ai fatti riportati. 21 Vedi l’articolo di D. PACINI, nota 35.

uomini di Montecosaro e ciò può aver compromesso i rapporti di Civitanova con il monastero e acuito ancor più quelli con Montecosaro; per non compromettere il regolare funzionamento del proprio mulino ora Civitanova era costretta a faticosi accordi con gli scomodi vicini. La tensione non potrà che aumentare e sul finire del XII secolo assumerà una risonanza regionale.

Un ultimo accenno merita la cessione che nel 1192 l’abate di Farfa Pandolfo fa proprio sul sagrato della chiesa di S. Maria di Chienti; nel definire i confini dei beni ceduti si fa cenno degli “uomini di Montecosaro”, confermando ancora una volta la presenza di una comunità organizzata e intenta a coltivare in pace le proprie terre22. Tirando un po’ le fila del periodo in esame, abbiamo ipotizzato diversi castelli sui “monti” del territorio di Montecosaro; di alcuni abbiamo localizzato i ruderi mentre di altri ci parlano i documenti d’archivio. I castelli erano abitati da personaggi influenti, e uno di questi potrebbe aver legato il proprio nome a quello di Montecosaro. Altri castellani potrebbero essere i fratelli Paolo e Grifo e lo stesso Cinoco, tutti in azione nel nostro territorio intorno alla metà del secolo XI. Su questa realtà territoriale Civitanova esercitò con un certo successo la sua azione espansionistica, senza arrivare però al controllo di tutto il territorio, com’era forse nei suoi intenti23.

Possiamo qui ragionevolmente concludere che nel XI secolo, mentre alcuni signori insediati entro i confini naturali del territorio di Montecosaro erano favorevoli a trasferirsi entro le mura di Civitanova, altri preferivano salvaguardare la propria autonomia e la propria identità storica rafforzando il centro abitato che probabilmente perpetuava quell’antico “vicus” romano che G. Paci ipotizza.

Questo processo di aggregazione continuò per tutto il XII secolo col sostegno costante delle due istituzioni religiose presenti sul territorio di Montecosaro, la pieve di S. Lorenzo e il monastero di S. Maria di Chienti, una legata al vescovo di Fermo e l’altra all’abbazia di Farfa.

I signori di Montecosaro

Seppure le carte del tempo raramente lascino spazio a singoli personaggi, tuttavia possiamo tentare di seguire le vicende di alcuni di loro, tra cui i fratelli Paolo e Grifo e soprattutto quell’Adalberto, detto Cinoco, del quale s’è parlato poc’anzi.

Altre figure minori del secolo XI sono rintracciabili nei documenti studiati da D. Pacini; si tratta di acquirenti, donatori, testimoni, pievani, preposti e altri soggetti, spesso con strani nomi che ricordano le loro ascendenze franche o longobarde.

Nel XII secolo domina la figura di Alberto di Grimaldo di Montecosaro; è a lui che nel 1130 il vescovo di Fermo concede la stessa pieve di S. Lorenzo per tre generazioni, dietro il pagamento di un canone annuo da versare in occasione della festa

22 Vedi l’articolo di D. PACINI, p. 99, e G. Colucci, Antichità picene, vol.31, Fermo 1797, p. 7; “Actum ante Ecclesiam Sce Marie Clenti”; i beni ceduti in enfiteusi sono “iuxta hos fines: ab uno latere tenimentum ecclesie Sancte Marie Clentis et hominum de Montecausario, ab alio pons Trotite sicuti recte decurrit versus flumen Clentis et versus castrum Murri, a pede ipsum flumen Clentis, et a capite homines de Murro”. 23 Una conferma si può avere dallo studio attento del territorio comunale di Montecosaro in rapporto anche a quello di Civitanova; vedi in questo volume l’articolo su Montecosaro: topografia e toponimi antichi e moderni, p. 333.

dell’Assunta; Alberto deve offrire anche la cera che la stessa pieve doveva ogni anno alla Chiesa fermana per la festa della candelora.

Finché non si è diffusa l’energia elettrica per l’illuminazione la cera è stata considerata un bene prezioso e chi poteva ne faceva scorta. L’offerta a favore della cattedrale, che il vescovo si preoccupa di mantenere, non era un semplice atto simbolico, ed è lecito pensare che continuasse una vecchia e rispettata tradizione che non si voleva assolutamente interrompere.

Alberto era un personaggio influente in tutta la zona e aveva cura degli interessi del vescovo con la qualifica di visconte; per una decina d’anni a metà del XII secolo ebbe in feudo lo stesso Morrovalle24. Sono gli anni in cui molti comuni marchigiani conobbero la dominazione signorile, e Montecosaro fu tra questi, probabilmente ad opera del nostro Alberto e dei suoi figli signori del paese per decenni; in questa situazione del tutto nuova, l’impegno che Alberto e la sua famiglia avevano assunto, per tre generazioni, nei confronti della Chiesa fermana si trasferì di fatto a tutta la comunità25. Alcuni indizi ci dicono che Alberto operò anche a beneficio della comunità di Montecosaro; probabilmente fu proprio lui che fece costruire un canale di derivazione e “nuovi mulini”. I suoi figli Grimaldo e Alberto continuarono le gesta paterne, anche se con minor successo; essi compaiono in due atti di vendita con i quali cedono all’abate di Chiaravalle di Fiastra un pezzo di terra vicino al paese e la legna tagliata vicino al canale che alimentava i “nuovi mulini”26.

Nel 1199 incontriamo “Paulus Grimaldi”, forse un nipote di Alberto di Montecosaro, anch’egli in buoni rapporti con Fermo, visto che assiste ai patti stipulati dal vescovo e dal podestà di Fermo con gli uomini di Montesanto27.

Un’altra famiglia di rilievo doveva essere quella di Montanello di Giovanni, feudatario del vescovo di Fermo; nel 1166 ottenne i beni della pieve di S. Lorenzo, gli stessi che nel 1054 erano stati ceduti a terza generazione ai fratelli Paolo e Grifo di Montecosaro. Visto che Alberto di Grimaldo e la sua famiglia da 36 anni erano proprietari della stessa pieve, e visto il loro ruolo nella zona, è molto probabile che lo stesso Alberto o i suoi figli siano intervenuti attivamente in questa cessione. Le famiglie di Alberto e di Montanello, entrambe molto legate al vescovo di Fermo, possiamo ritenerle alleate tra di loro e non è da escludere che lo stesso Montanello, o suo figlio Tebaldo o altri ancora della sua famiglia, abbiano ricoperto qualche carica pubblica e magari siano stati consoli a Montecosaro28.

24 Vedi l’articolo di D. PACINI, p. 105 e seg. 25 A partire dal 1182, con la prima offerta del palio da da parte del castello di Monterubbiano, la festa dell’Assunta divenne particolarmente solenne (ASF, pergamena n.1933, del 1182); anche Montecosaro parteciperà attivamente per diversi secoli, come vedremo più avanti, offrendo un proprio palio. 26 E. OVIDI , Le carte dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Ancona 1908, doc.203, p. 180, anno 1181. “Breve recordationis qualiter in presentia mei et sub scriptorum testium Albertus et Grimaldus ff. Alberti Montis Cosari, dederunt donno Rogerio abb. omnia ligna rote Grimaldi inter fossatum molendinorum novorum et flumen Clentis”. Idem, doc.257, p. 219, anno 1187; “Ego Albertus et Grimaldus ff. Alberti Montis Causarii tradimus tibi Benedictus et Zarabonis rem iuris mei a vocabulo sub Ripe, per mensura XI staria et medio”. 27 Vedi anche la nota 33 e l’articolo di D. PACINI, nota 79. 28 Vedi l’articolo di D. PACINI, p. 107. Purtroppo nessun documento fa riferimento a consoli di Montecosaro, per cui possiamo parlare di un periodo consolare solo in via ipotetica, per analogia con altri comuni della zona.

Per chiudere queste considerazioni iniziali, possiamo dire in estrema sintesi e sulla base dei pochi elementi di cui disponiamo, che a Montecosaro l’evoluzione della società civile e delle sue istituzioni appare in linea con quanto avvenuto nell’Italia centrale e nelle Marche in particolare.

Tutto quello che abbiamo visto e analizzato non ci permette ancora di ipotizzare date precise per qualcuna delle tappe fondamentali della sua storia comunale; è probabile invece che qualche traguardo intermedio sia stato raggiunto in anticipo rispetto ad altri e più importanti centri. IL DUECENTO

In questo secolo il comune di Montecosaro si afferma definitivamente e noi possiamo giovarci di un primo nucleo di scritture ufficiali, contenute in 12 pergamene29.

La storia è un continuo capovolgimento di fronti, riconducibile sia all’endemica anarchia che caratterizzava i comuni della Marca che alle pesanti interferenze esterne, principalmente del papa e dell’imperatore.

I nomi dei paesi sono spesso preceduti dalla parola castello, a testimoniare una vita che si sviluppa in prevalenza entro i centri murati. Nelle pagine che seguono si incontreranno molti di questi castelli e, nei limiti del possibile, li indicherò con il nome riportato nei documenti dell’epoca, omettendo solo la parola “castello”; nella maggior parte dei casi è anche il nome attuale, mentre altre volte esso è ancora in uso tra la gente, come Morro per Morrovalle, S. Giusto per Monte S. Giusto, Montolmo per Corridonia, Loro per Loro Piceno, Montesanto per Potenza Picena, Monte S. Pietro per Monte San Pietrangeli, Penna per Penna S. Giovanni; al contrario Poggio S. Giuliano corrisponde all’attuale Macerata, S. Maria in Giorgio a Montegiorgio, Montemilone a Pollenza, e Monticolo o Montecchio a Treia.

Il secolo si caratterizza anche per la fioritura degli ordini mendicanti che preferirono stabilirsi all’interno delle mura, o comunque in prossimità delle città e lungo le vie d’accesso. A Montecosaro, proprio al centro del paese, prese stabile dimora uno dei primi insediamenti agostiniani. Pace di Polverigi

Il 28 settembre 1197 morì improvvisamente all’età di 32 anni l’imperatore Enrico VI. L’erede era Federico II, nato a Jesi il 26 dicembre 1194 da Costanza D’Altavilla, allora quarantenne; vista la sua tenera età, prima di morire la madre l’aveva affidato a Innocenzo III, da poco eletto papa.

Del vuoto di potere cercarono di trarre vantaggio città e castelli dell’Italia centrale nel tentativo di ampliare ognuno la propria zona di influenza, con gli immancabili contrasti che è facile immaginare. In questo contesto ebbe buon gioco la politica della

29 Le pergamene del comune di Montecosaro dal 1963 sono depositate presso l’Archivio di Stato di Macerata; sono costituite da 40 pezzi, dal 1248 al 1722, così suddivise: 12 del XIII secolo, 16 del XIV, 6 del XV, 1 del XVI, 3 del XVII secolo, 2 del XVIII; le prime 23, fino al 1341, sono tra i documenti pubblicati in questo volume.

Curia romana che si interpose fra i contendenti e contemporaneamente consolidò il potere temporale della Chiesa. Emblematica sotto questo aspetto è la vicenda che vide come protagonisti Montecosaro e Civitanova, da molti anni in aspra contesa anche per questioni di confini.

Con un breve apostolico del 17 aprile 1201 indirizzato al vescovo e al popolo di Osimo Innocenzo III chiese che con idonea cauzione venissero rilasciati tutti i prigionieri e incaricò il proprio legato nella Marca di prendere conoscenza dei fatti per arrivare ad un’equa composizione di tutte le vertenze. Nel passarle in rassegna il papa comincia proprio da Civitanova e Montecosaro, sollecitando la prima a consegnare nelle mani dei suoi procuratori i signori di Montecosaro con le mogli e i figli. Non è chiaro ma, vista la premessa, sembra di capire che Civitanova avesse costretto con la forza i montecosaresi a trasferirsi dentro le sue mura, risolvendo così alla radice ogni problema di confine.

E’ da notare che si parla di “dominos” di Montecosaro, segno che il comune era retto da “signori”, magari attraverso i consoli, come altri comuni della zona30.

L’azione del legato pontificio fu molto efficace, e nel giro di pochi mesi si giunse, almeno sulla carta, ad una pace generalizzata tra i comuni delle Marche, solennemente sottoscritta a Polverigi, nei pressi di Osimo, il 16 gennaio 1202 “anno V dopo la morte di Enrico imperatore dei Romani”.

Propongo la lettura di ampi passi del patto solenne stipulato tra i comuni per vedere più da vicino cosa stava succedendo tra Montecosaro e Civitanova e per avere una prima istantanea sul gioco di alleanze in atto31.

Si inizia con lo scambio di premesse fra le due fazioni in lotta. “Noi Fermani ed uomini dei castelli del suo contado, cioè di Torre di Palme, Poggio S. Giuliano (Macerata), Morro, Montelupone, Montesanto, Montegranaro e S. Giusto, e gli Osimani e gli Jesini promettiamo e giuriamo in buona fede e senza frode di mantenere fine e pace perpetua cogli Anconetani e col loro contado, cioè cogli uomini di Civitanova e dipendenze, cogli uomini di Montolmo (Corridonia), e Recanati e Castelfidardo e loro dipendenze, nonché con i soldati degli alleati della valle dell’Esino, e di Senigallia e suo contado, ed a Pesaro ed a tutti i suoi cittadini (giuriamo fine) da ogni offesa ch’essi ci fecero in questa guerra”.

Dopo analoghe promesse dell’altra fazione si arriva al giuramento solenne di tutti i contendenti. “Giuriamo pertanto e promettiamo la completa fine e perpetua pace fra di noi di tutte le offese, malvolenze, rapine, furti, incendi, omicidi, ferimenti, catture che siansi perpetrate fra di noi: e risolviamo e condoniamo fra di noi tutte le azioni civili e

30 ACO, Libro rosso del comune di Osimo, f. 7v, anno 1201. “Litteras a domino Innocencio papa episcopo et populo Auximano directas”. “Precipimus siquidem universis sub debito iuramenti, ut reddant nobis omnes captivos in manus procuratorum nostrorum detinendos vel liberandos omnes vel aliquos secundum eorum arbitrium sub idonea caucione, quam iuratoriam et fideiussoriam intelligimus nobis prestandum ... De discordia que vertitur inter Homines Civitatis Nove et dominos Montis Causarii precipimus, ut ipsi domini cum uxoribus et filiis, universis familiis suis assignentur in manus procuratorum nostrorum secundum formam prescriptam; ac deinde cognoscatur inter eos per arbitros, quos ipsi comuniter eligant, vel per procuratores nostros vel per vestros, si nequiverint in arbitros convenire; et ipsa questio mediante concordia vel iustitia decidatur. Interim autem se nec in personis nec in rebus offendant, sed ad invicem sibi pacem offertam observent.” E’ il più antico documento che parli di vicende di Montecosaro. Vedi anche COLINI BALDESCHI, Libro rosso del comune di Osimo, Macerata 1909, p. 45. 31 ACO, Libro rosso, f. 8v, pace di Polverigi; ho utilizzato la traduzione contenuta nel fascicoletto Polverigi ai suoi figli caduti in guerra e per il patto di pace del 1202, Ancona 1933, p. 31. Vedi anche J.F.

LEONHARD, Ancona nel basso Medioevo, Ancona 1992, p. 98.

criminali derivanti da quelle malefatte, per quanto è di nostra competenza, salvo il diritto delle proprietà sottratte in questa guerre, salve le ragioni, reali e personali valevoli in precedenza da una parte e l’altra, e salvi i capitolari che appresso indicheremo.

Ed i rettori di tutte le terre spora elencate saranno obbligati a costringere i loro sudditi perché debbano giurare in buona fede questa pace. E se alcuna di dette terre non voglia giurare, quelli che giurano non avranno obblighi verso di loro, salvo Fano e Pesaro che non si accordano fra loro e giurano agli altri.

Quanto a Civitanova e Montecosaro si ordina che gli uomini di Montecosaro debbano far ragione a quelli di Civitanova avanti al legato o al cardinale o ad altri su cui le parti si accordino. E se la sentenza sia data da chi è stato chiamato a darla, e gli uomini di Montecosaro non vogliono eseguirla, i Fermani si obbligheranno a non essere contro quelli di Civitanova ed a non nuocerli. E se quelli di Montecosaro non vogliono stare alla detta sentenza i Fermani saran tenuti a non aiutarli, ed a non nuocere a quelli di Civitanova. Che se saranno quelli di Civitanova che non vogliono stare alla sentenza sopra detta, in tal caso i Fermani non saranno impediti dall’aiutare quelli di Montecosaro se gli uomini di Civitanova vogliono loro nuocere. E se quelli di Civitanova non ottenessero ragione sul fatto di Montecosaro potranno rivolgersi ai Fermani, e questi saran tenuti a far ragione in modo che dal detto fatto non derivi alcun pregiudizio”.

Seguono le condizioni per comporre la controversia tra Fermo e S. Elpidio, “circa il fatto di Monte Riario”, con una clausula molto illuminante sui poteri in gioco: “Ed i Fermani faranno che il loro vescovo e i loro canonici ratifichino questa scelta, salvo il diritto di ambe le parti sui detti uomini dovunque abiteranno”.

Dopo un breve accenno “alla discordia tra i Fermani e quelli di Montolmo” si passa a parlare di Montefano e Recanati. “Quanto poi agli uomini di Monte Fano si stabilisce che tutti gli uomini di Monte Fano che dopo la morte di Enrico imperatore andarono ad abitare a Recanati debbano tornare ad abitare a Monte Fano: eccettuato Gislerio che potrà abitare dove vorrà. Salva rimane la ragione e la consuetudine della servitù di ambe le parti: cioè che chi abbia possessi nel contado di Osimo li coltivi in dipendenza di Osimo, e che chi nel contado di Recanati li coltivi in dipendenza di Recanati: altrettanto si osservi per le servitù reali nel contado di Osimo”.

Dopo aver dettato norme per comporre i dissidi fra Camerino ed Osimo, si fissa il termine ultimo “per la restituzione degli uomini di Monte Riario, Castello (Castro) e Monte Fano”. Non si parla di montecosaresi prigionieri a Civitanova, per cui o furono rilasciati subito come richiesto dal papa, oppure non erano da considerare tali, oppure non c’erano mai stati.

Segue il lungo elenco dei firmatari tra cui spiccano i podestà di Ancona, Jesi e Osimo, i giudici di Fermo e Senigallia, i consoli di Recanati e altri imprecisati magistrati di Pesaro, S. Elpidio e Montolmo. Montecosaro, al pari di Civitanova e di molti altri centri interessati alla pace, non compare tra i firmatari e non sembra aver ruolo particolare in nessuna delle due alleanze in campo; è chiaramente dalla parte di Fermo, che svolge nei suoi confronti una funzione di tutore e garante.

Balza agli occhi l’attenzione riservata all’imperatore Enrico VI, morto da quasi 5 anni, e ricordato sia all’inizio che nel corpo dell’atto. Manca invece qualsiasi riferimento al papa, nonostante sia stato l’artefice primo della pacificazione generale; la presenza

temporale della Chiesa traspare invece nel breve accenno al vescovo e ai canonici di Fermo.

Quanto alla vita dei comuni, emerge chiaramente la “fame di braccia” che li assillava e l’attenzione posta nel ripristinare servitù e consuetudini del passato. La contemporanea presenza di consoli e podestà ci dice che i comuni marchigiani erano ancora nella fase di transizione delle proprie magistrature, che comunque si concluderà abbastanza in fretta; decisiva per questo è stata la preferenza accordata dal papa ai podestà, magistratura più democratica di quella consolare e meno legata ai signori locali.

Una esemplificazione di quanto detto l’abbiamo seguendo con attenzione le vicende di Montecosaro; infatti, mentre nel 1201 il papa si rivolgeva ai “signori” di Montecosaro, nella pace di Polverigi si parla sempre e solo di “uomini” di Montecosaro. Ho la sensazione che l’azione svolta dal legato pontificio abbia segnato il destino della signoria a Montecosaro e altrove32.

Si è appena intravista la grande autorità del vescovo di Fermo, e non desta meraviglia che egli riceva giuramento di fedeltà da parte degli “uomini” di Civitanova, Monte Santo, Macerata, Corridonia, San Giusto e Sant’Elpidio in occasione della sua investitura; è quanto avviene nel 1206 col nuovo vescovo Adinulfo. Sorprende un po’ che l’elenco dei 12 “uomini” di S. Elpidio venga aperto da Grimaldo di Montecosaro, probabilmente nipote di Alberto di Grimaldo, signore di Montecosaro nel secolo precedente33. Questa situazione indubbiamente fa riflettere su quale potesse essere la situazione interna a Montecosaro, che comunque è più chiara quattro anni dopo, nel 1210, quando troviamo un esplicito riferimento sia al comune che al suo podestà Marcellino; su loro delega il vicario Calvo vende ad Albertuccio del fu Berardo un edificio, una piazza e altri beni nel castello di Montecosaro34.

L’autorità del vescovo viene ribadita più volte dallo stesso papa; con una bolla del 1219 Onorio III conferma espressamente al vescovo Pietro e ai suoi successori ampi poteri, compreso quello di imporre propri tributi, sulla città di Fermo e sugli altri castelli della vastissima diocesi; una conferma del tutto analoga viene ribadita cinque anni dopo35.

Raramente però il vescovo entrava nel merito dei dissidi che dividevano così di frequente i comuni. Fermo da sempre era in contrasto con Civitanova per la questione del porto, e così ogni tanto scoppiava qualche scaramuccia; una particolarmente violenta si accese proprio in quegli anni, e nel giugno 1213 i due contendenti stipularono un nuovo patto di pace. Guardiamolo in dettaglio per capire ancor meglio i rapporti di forza nel Fermano. Anzitutto Civitanova promette: - di avere come “capo” la città di Fermo e di ritenere i suoi amici come propri amici e i suoi nemici come propri nemici; - di far guerra insieme a Fermo se richiesto, tuttavia solo entro il “comitato” fermano;

32 Vedi articolo di F. ALLEVI , p. 85. 33 Vedi l’articolo di D. PACINI, nota 29. 34 G. AVARUCCI, Le carte dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Macerata 1992 (edizione provvisoria), p. 140, anno 1210; vedi anche l’articolo di D. PACINI, p. 109. 35 Liber, f.48r, anno 1219; il papa Onorio III conferma al vescovo Pietro i privilegi che la Chiesa fermana ha “in civitate Firmana vel castellis, videlicet Sancto Elpidio, Castro, Civitate Nova, Monte Sancto, Monte Causarum, Muro Vallensi, Podio Sancti Iuliani sive Macerata” e altri. Liber, f.48v, anno 1224; Onorio III conferma gli stessi privilegi “in Civitate Firmana, vel castellis”.

- di tenere a disposizione di tutti la “via della Città”, (forse la via principale che lo collegava a Fermo); - di osservare i diritti e le ragioni del vescovo e della Chiesa fermana; - di non molestare Montecosaro e i suoi abitanti senza il consenso di Fermo. Fermo a sua volta promette di difendere Civitanova e di interporre i suoi buoni uffici per appianare eventuali controversie con altri comuni. In fine entrambi promettono di rimettersi vicendevolmente le offese e i danni subiti, e di prestarsi aiuto contro tutti gli uomini, eccetto la Chiesa fermana, l’imperatore, il sommo pontefice e i loro nunzi. E’ abbastanza chiaro che anche i montecosaresi abbiano partecipato all’azione contro Civitanova36.

Per capire meglio cosa stesse succedendo è bene tener presente gli schieramenti che andavano formandosi: da una parte i sostenitori del papa e dall’altra quelli dell’imperatore. In questo gioco di alleanze, nel 1229, Fermo strinse con i nobili del suo contado un patto di reciproco aiuto in cui vengono ipotizzati una serie di possibili eventi e i relativi comportamenti da tenere; nel caso in cui i comuni del “comitatus Firmi” si fossero coalizzati per far guerra ai nobili, il comune di Fermo doveva correre in loro aiuto, a meno che a muover guerra non fossero stati i comuni di Montelupone, Montecosaro e Montesanto37. Questa eccezione, secondo alcuni un po’ sibillina, per quanto riguarda Montecosaro era in linea con il particolare mandato di tutela che Fermo aveva sul comune, e che risaliva quanto meno alla pace di Polverigi. Incendi e distruzioni

La protezione accordata da Fermo non poteva preservare Montecosaro da un attacco improvviso mosso da qualche comune confinante.

Non era difficile per Civitanova endicarsi dei torti subiti da Montecosaro, e così nel 1220 assalì all’improvviso e indisturbata il paese, incendiò il castello e catturò alcuni abitanti. Il fatto ebbe tanta risonanza che intervenne direttamente il papa per intimare ai civitanovesi di rilasciare tutti i prigionieri; rimasto senza esito questo primo appello, Onorio III scrisse al podestà e al popolo di Fermo perché costringessero i civitanovesi a rilasciare i montecosaresi, anche perché non potessero menar vanto della propria ostinazione38. E’ la solita formula che sentiremo ripetere in altre occasioni e che mostra

36 ASF, pergamena 1567, anno 1213; “concordia seu compositio que facta est inter Civitatem firmanam cum adiutoribus suis scilicet hominibus Montis ulmi, podii S.ti Iuliani seu Macerate, Montis S.ti, et Montis Luponis et aliis ex una parte, et homines Castri Civitatis nove ex altera ... Item promittunt tenere viam civitatis, quam tam per se quam pro aliis suis sociis et ipsis, et pro communi utilitate omnium tenedam duxerit ... Item promittunt homines castri Civitatis nove, quod communitas vel universitas Civitatis nove non facient controversiam seu litem vel guerram communitati seu universitati Montis causarii sine consensu et voluntate communis et universalis consilii Civitatis Firmi, nec etiam singulares persone Castri Civitatis nove communitatem Montis causarii aliquo modo inquietabunt, et propter hoc non dabunt, nec dare debent, nec dederunt, nec promiserunt, nec promitti fecerunt aliquid alicui persone”. 37 G. PAGNANI, Patti tra il comune di Fermo e i nobili del contado nel 1229 (in Studi Maceratesi, n.6), Macerata 1972, p. 119; “si dicte communantie facerent societatem contra ipsos comites et frangerent guerram eisdem, quod commune Firmi teneatur eos iuvare in termino ipsorum, excepto Monte Lupone, Monte Causario, Monte Sancto, quod sit in arbitrio potestatis Firmi et consilii”. 38 ASF, pergamena n. 180, 5 dicembre 1220; lettera di Onorio III al podestà e al popolo di Fermo; pubblicata tra i documenti di Fermo.

l’impotenza di molti interventi dall’alto. Al di là di una generica solidarietà e di tante autorevoli parole il paese si dovette rimboccare le maniche e curarsi le ferite da solo.

Tra gli intenti dei civitanovesi potrebbe esserci stato quello di distruggere i documenti del comune; questa volontà di cancellare le radici del paese nemico non è tramontata, e con forme non molto diverse ha segnato i conflitti di questo secolo, al pari di quelli dei giorni nostri.

Forse proprio in questo assalto molte carte furono bruciate o disperse, e non è un caso che nessuna delle pergamene giunte fino a noi sia anteriore al 1220.

Una volta curate le ferite più profonde, le scritture importanti furono ripristinate con opportune copie dai documenti originali reperibili altrove. Questo era sicuramente possibile per le carte di S. Maria di Chienti per cui non dovrebbe essere stato difficile ricostruire i documenti più significativi che regolavano i rapporti tra il monastero e la comunità di Montecosaro.

E’ allora credibile quanto affermato nella relazione del 1659 circa l’esistenza nell’archivio comunale di carte del 1101, relative al possesso di beni di S. Maria di Chienti da parte degli “uomini” di Montecosaro39.

Per non addossare tutte le colpe sui civitanovesi è bene osservare che molti altri comuni della zona sono privi di documenti anteriori al XIII secolo; questo fatto secondo alcuni potrebbe essere messo in relazione con la soppressione dell’ordine cavalleresco dei templari, decretata nel 1312, e le conseguenti distruzioni dei documenti che ne attestavano le vaste proprietà e i notevoli benefici di cui godevano40.

Nel 1244 i rapporti tra Montecosaro e Civitanova si complicarono ulteriormente con l’inasprirsi della lotta tra Innocenzo IV e l’imperatore Federico II; Montecosaro rimase fedele al papa al pari di Morrovalle, Recanati, Ancona e altri, mentre Civitanova si schierò con le forze imperiali, che comprendevano città come Macerata, Osimo, Jesi e Senigallia. L’esercito imperiale, il cui nerbo era costituito da Teutonici e Saraceni, era guidato da Roberto di Castiglione e aveva la sua base a Macerata.

Nel ferreo triangolo formato da Macerata, Osimo e Civitanova, fra la fine del 1247 e l’inizio del 1248 si combatterono gli scontri decisivi tra i due eserciti; il primo, sotto Osimo, vide la cattura del vescovo Marcellino, comandante delle forze pontificie; il secondo si consumò tra Montecosaro e Civitanova e lasciò sul campo migliaia di morti41.

39 Vedi nota 20; questi documenti sono ora introvabili, ma potrebbero esistere ancora, sepolti dentro qualche archivio, magari a Roma; potrebbe essere utile fare una verifica nell’archivio Sforza-Cesarini, che contiene circa 600 pergamene a partire dall’anno 1052. Desta una certa meraviglia il fatto che solo due delle 40 pergamene dell’archivio di Montecosaro riguardino S. Maria di Chienti, e per di più una è del 1320 e l’altra del 1496. Quanto all’uso delle copie, fatte naturalmente anche per motivi diversi da quelli accennati, faccio notare che delle prime 13, le più antiche per Montecosaro, ben 5 sono le copie. 40 F. ALLEVI nel suo articolo (p. 82) fa presente come qualche antica testimonianza ci porti a non escludere una presenza dei templari nei paraggi di Montecosaro. 41 P. COLLENUCCIO, Compendio delle Istorie del Regno di Napoli, Bari 1929, p. 139; in questa cronaca del Cinquecento leggiamo: “Roberto da Castiglione, vicario imperiale ne la Marca, che stava a Macerata ... aveva preso e posto in ferri detto Marcellino e fatto un gran numero di prigionieri e morto circa quattromila uomini e guadagnato molte bandiere de le città ribelli che tenevano con esso.” P. COMPAGNONI, La reggia picena, Macerata 1661, pp. 107 e 110; parla di più di quattromila morti sotto Osimo e “di due mila tra presi e morti a Civitanova”.

E’ possibile che Roberto di Castiglione abbia inseguito quello che restava dell’esercito guelfo, privo del suo comandante, lungo l’antica strada che da Osimo andava verso Fermo, e che attraversava il territorio di Montecosaro da nord ovest a sud est; è allora possibile che lo scontro finale sia avvenuto vicino all’abitato, magari sotto il Monte della Giustizia, o nella pianura del Chienti, non lontano dal monastero di S. Maria.

Ai morti e ai prigionieri fatti in battaglia, e tra essi non pochi saranno stati i montecosaresi, dobbiamo aggiungere quanti furono sopraffatti dagli eventi che la precedettero e la seguirono; le conseguenze saranno state particolarmente nefaste per Montecosaro visto che i civitanovesi erano i vincitori e per di più in quel momento potevano farsi forti di un esercito vittorioso. Non ci vuol molto a immaginare quanto siano stati penosi quei giorni tra la fine del 1247 e l’inizio del 1248 per Montecosaro, sia per gli abitanti che per i loro beni.

La situazione militare venne ribaltata completamente il 18 febbraio 1248 con la dura sconfitta subita da Federico II davanti alle mura di Parma, l’inizio di un rapido e generale tracollo.

Dopo eventi così dolorosi, il 15 marzo 1248 agli uomini del castello di Montecosaro arriva una lettera di solidarietà e di incoraggiamento da parte del cardinale Raniero Capocci, legato pontificio. Per tentare di riequilibrare la situazione, dopo aver ordinato a Civitanova di restituire i prigionieri, egli: - concede di non pagare i debiti contratti con i civitanovesi fino a quando essi non avessero risarcito i danni e le perdite causate, - concede di trattenere tutte le merci in transito e destinate a Civitanova, - autorizza il comune a requisire tutti i beni di eventuali traditori o fuoriusciti. Appoggia inoltre altre rivendicazioni che angustiavano Montecosaro anche in tempo di pace, al pari di tanti altricomuni, e: - conferma possedimenti, territorio e confini avuti “ab antiquo”, - consente di accogliere entro le proprie mura chiunque provenga da Civitanova, o da altri castelli infedeli alla Chiesa, - vieta a qualsiasi altro castello della Marca di accogliere al suo interno cittadini di Montecosaro, - proibisce a chiunque di trasferirsi altrove. Il documento, che è poi il primo che parla in modo diretto ed esclusivo di Montecosaro, ci da modo di vedere quanto il comune fosse geloso della propria autonomia e come si preoccupasse di mantenere i suoi diritti fondamentali.

P. AMIANI , Memorie istoriche della città di Fano, Fano 1751, vol.I, p. 201; “Il fatto d’armi seguì nei contorni di Civitanova con molta strage degl’Ecclesiastici, con la prigionia dello stesso Marcellino Peto e con la morte di sopra 4.000 Marchigiani”. M. NATALUCCI, Ancona attraverso i secoli, Città di Castello, 1960, p. 340; “La battaglia, ripresa vittoriosamente dal Castiglione, si concludeva con la riconquista di Civitanova. Federico, nell’apprendere la notizia di questo successo militare, esprimeva la certezza che presto tutta la provincia sarebbe tornata alla fedeltà dell’impero”. M. NATALUCCI, I rapporti di Ancona con gli Svevi nei secoli XII-XIII (in Studi Maceratesi, n.6), Macerata 1972, p. 64. “Nella grande battaglia, che si svolse nel 1248 presso Osimo e Civitanova, Ancona, precipua esponente del partito guelfo, subì perdite fortissime: molti suoi uomini furono trucidati o fatti prigionieri”. Di queste vicende parlano anche G. SARACINI (Ancona, 1685), G. MARANGONI (Memorie, 1743), G. COLUCCI (Treia, 1780) e altri autori, ma nessuno fa riferimento a documenti precisi, lasciando nel vago sia gli eventi che la loro successione cronologica.

Molto più tranquillo è il tono della lettera con cui, dopo poco più di un anno, papa Innocenzo IV conferma ancora una volta i confini con Civitanova; egli “accoglie le preghiere di Montecosaro per l’attaccamento mostrato verso la Chiesa romana, a motivo del quale essi ebbero a sopportare gravi danni nelle persone e nelle cose per mano degli uomini di Civitanova e dei ministri dell’imperatore Federico”42.

Sconfitto Federico II la fazione imperiale si dissolse rapidamente, Civitanova tornò all’obbedienza al papa e il 24 novembre 1249 ricevette dal nuovo cardinale legato la conferma dei propri diritti; questo forse ingelosì Montecosaro per cui lo stesso cardinale il 12 febbraio 1250 non esitò a riconfermagli tutti i diritti43.

Dello stesso anno ci sono pervenuti tre atti del massaro di Fermo da cui traspare un paese ancora impaurito; il primo, del 22 aprile 1250, registra il pagamento a favore dei balestrieri stanziati a Montecosaro dal comune di Fermo; il secondo, del giorno successivo, parla di 15 balestrieri che dovevano andare a Montecosaro, secondo la volontà e le disposizioni del consiglio generale e sotto il controllo del podestà Saladino; il 24 aprile, alla presenza dello stesso Saladino, viene pagato un certo Bono di Giovanni

42 PM, pergamena n.1. Lettera del papa Innocenzo IV, scritta da Lione probabilmente nell’autunno del 1249, in merito alle vertenze con Civitanova; riporta integralmente la lettera che il 15 marzo 1248 il cardinale Rainerio aveva scritto alla comunità di Montecosaro sullo stesso argomento. Lo stato della pergamena non permette di leggere completamente la data, ma semplicemente “VIII kal. pontificatus nostri anno septimo”, e quindi dovrebbe esser compresa tra il 25 luglio 1249 e il 24 giugno 1250; il tono con cui il papa parla dell’imperatore e soprattutto dei civitanovesi può indurci a collocarla prima del 24 novembre 1249 (vedi nota seguente); allora le date probabili potrebbero essere solo il 24 luglio o il 25 agosto o il 24 settembre o il 25 ottobre. Il 25 luglio 1248 il cardinale Raniero scrisse analoga lettera agli uomini di Morrovalle (vedi G. PAGNANI, Archivi marchigiani: Civitanova, Corridonia, Morrovalle - inStudi Maceratesi n.1, Macerata 1966, p. 118). 43 ACC, Bullarium, f.2, anno 1249; il legato pontificio conferma i diritti di Civitanova. Stessa conferma per Montecosaro con un documento del legato pontificio emesso da Ancona il 12 febbraio 1250 (La reggia picena cit., p. 117). Propongo altri elementi a suffragio della ricostruzione dei fatti proposta, desunti da G. VOGEL, Documenti di divisione comuni della Marca (manoscritto 5.C.III.5), Recanati, Biblioteca Benedettucci. Nel fascicolo relativo a Morrovalle (f.175-189) annota: 1249 - Innocenzo IV rimette per 5 anni i pagamenti camerali alla comunità di Morro per essere terra fedele. Erano prigioni a Civitanova Petrus Bonizzi, Grimaldus Rovelli, Johannes Bartholomei, Compagnonus Genesii, Johannes Petri, Paulus Pastamonte. Bolla che Civitanova non sia ricevuta dalla sede Apostolica se non rifà danni agli uomini di Murro. 1250 - Il cardinale di S. Giorgio Legato per i molti danni patiti concede a Morro di poter far pagare il passo delle robe che vanno per il lor territorio specialmente a Civitanova, e di poter conoscere le prime cause. Nello stesso manoscritto, nel fascicolo relativo a Civitanova (f.190-205) annota: 1249 - Morresi prigionieri a Civitanova. Innocenzo IV promette di non ricevere in grazia Civitanova se non rifà i danni ai Morresi. L’evento che aveva portato alla cattura dei morrovallesi è sicuramente anteriore al novembre 1249, quando Civitanova ritornò all’obbedienza al papa; non sembra neanche che si tratti di una scaramuccia recente o di poco conto se il papa concede a Morrovalle un’esenzione quinquennale; probabilmente dobbiamo risalire a prima dell’agosto 1248, quando il cardinale Raniero scrisse agli uomini di Morrovalle per confortarli dopo i danni subiti per mano dei seguaci dell’imperatore. Forse tutto è da ricondurre allo stesso fatto d’armi che interessò da vicino sia Montecosaro che Morrovalle, tra la fine del 1247 e l’inizio del 1248. Sullabattaglia nei pressi di Montecosaro vedi anche la nota 47.

Grani, probabilmente un funzionario del comune di Fermo, che era stato a Montecosaro per 52 giorni44.

L’anno seguente il paese sembra sulla via di una completa ripresa, ma non altrettanto può dirsi di S. Maria; infatti il legato pontificio scrive al neo eletto vescovo di Fermo e ai comuni di Civitanova, Montefedele, Morrovalle, Montolmo, S. Giusto, Montegranaro perché difendano e mantengano i diritti e la stessa chiesa di S. Maria di Chienti. La situazione del monastero era davvero grave se il vescovo e tanti comuni, compreso Civitanova, vengono chiamati al suo capezzale; questa potrebbe essere una conferma indiretta che le sue mura siano state testimoni della sanguinosa battaglia tra guelfi e ghibellini45.

Ma dov’era il comune di Montefedele ? Dal documento sappiamo che aveva un certo Alberto come massaro e vicario del

podestà; la sequenza di comuni in cui è inserito ci dice chiaramente che si tratta proprio di Montecosaro, che non poteva mancare visto che si stava parlando di S. Maria di Chienti. Il nuovo nome dovrebbe essere abbastanza recente, se in un documento di un anno prima si leggeva ancora Montecosaro. Montefedele continuerà ad essere usato per qualche altro anno, quanto meno fino al 1255, quando compare in una lettera del rettore della Marca e diretta appunto agli uomini di Montefedele, “altrimenti detto Montecosaro”, come aggiunge il Compagnoni nel riferire la notizia46.

Nel 1251 Filippo, abate di Rambona, e vicario generale del legato pontificio nella Marca, ottenne dal comune di Civitanova un indennizzo di 100 libbre ravennati per le armi e i cavalli dei fratelli “morti nel conflitto tra la Chiesa e l’imperatore in territorio di Civitanova e Montecosaro”; in altra parte dello stesso documento vengono chiariti ancor meglio gli avvenimenti e si parla di “conflitto di Montecosaro e poi di Civitanova” e di minacce fatte dall’abate e dalle sue persone per ottenere l’indennizzo richiesto47.

44 ASF, pergamena n.1187 (22 aprile), n.1784 (23 aprile) e n.583 (24 aprile), anno 1250; tutte pubblicate tra i documenti di Fermo. 45 ASF, pergamena n.1566, anno 1251; pubblicata tra i documenti di Fermo. Anche se molto rovinata si riesce a ricostruire abbastanza bene il testo e stabilire con precisione le date. Il documento originale fu emesso dal cardinale ad Ascoli il 19 aprile 1251, e sappiamo che il 24 aprile era ancora lì (G. DE M INICIS, Cronache della città di Fermo, Firenze 1870, p. 339, n.175); la notifica al comune di Montefedele è del 25 aprile 1251, e corrisponde sia come indizione (IX) che come giorno della settimana (martedì). 46 La reggia picena cit., p. 121, anno 1255; riferisce di una lettera del rettore della Marca “in corroboratione de’ Privilegij degli huomini di Monte Fedele, altrimenti di Monte Cosaro”, spedita da Treia il 30 aprile 1255. Forse si tratta ancora della conferma dei privilegi concessi dal cardinale Raniero Capocci nel 1248, confermati dal papa l’anno successivo, e dal nuovo cardinale legato nel 1250 (vedi note 42 e 43). 47 ACMG, pergamene, serie I, n.47 del 13 novembre 1252; Pietro Bovarelli, procuratore del comune di Civitanova, interviene con quattro testimoni al processo contro Bartolomeo di Ruggero, padre di Filippo, un tempo abate di Rambona. “Intrante de pluribus Petrus Bovarelli sindicus comunis Civitatis Nove nomine dicti comunis contra dominum Bartholomeum patrem domini Phylippi olim abbatis Rambone et eius procuratorem, que deliberatio consilii ipsius comunis et ordinatum sindici, scilicet Mathei Gambonis, facta in publico consilio ad promittendum Bernardo de Amelia recipienti pro ipso domino Bartholomeo de mandato solvendo C libras ravennatum et anconitanorum nomine ipsius comunis facta fuit ex precepto et mandato domini Phylippi supradicti eiusdem domini Bartholomei filii, qui erat tunc vicarius generalis in Marchia pro domino Petro cardinale et precepto et mandato domini Odonis et domini Petri de Medicina consotiorum eiusdem domini Phylippi qui dominabantur in Marchia tunc pro domino Petro et ipsa deliberatio consilii et sindici ordinando et promissivo dictarum C librarum ravennatium et anconitarum. Instrumentum ... sindico facta metu timore et inpressione supradictorum domini Phylippi domini Oddonis

Il conflitto sembra possa essere quello a cavallo tra il 1247 e il 1248, visto anche il rango delle persone cadute; sembra inoltre che dopo il rovesciamento delle sorti ghibelline Civitanova sia stata chiamata a pagare alcuni indennizzi48.

Fermiamoci un attimo per fare alcune considerazioni riassuntive sulle varie vicende e per proporre una lettura unitaria di tutti gli spunti che sono apparsi qua e là: - la probabile battaglia tra guelfi e ghibellini oltre che per Montecosaro deve essere stata funesta anche per il monastero di S. Maria di Chienti, - le sanguinose vicende devono aver ridotto allo stremo tutto il paese, e Fermo dovette intervenire direttamente per sostenerlo e difenderlo, - il coraggio e l’attaccamento alla Chiesa, mostrati durante il conflitto e nei mesi successivi, furono riconosciuti tre anni dopo col nuovo nome (Montefedele) dato al paese, - un nome nuovo porta a pensare anche a un paese da ricostruire quasi per intero in seguito ai vasti danni subiti, - lo scontro armato ebbe effetti deleteri sul monastero benedettino e sui suoi beni, particolarmente sul delicato sistema di controllo delle acque, sul vallato e sul mulino. Molti elementi ci inducono a pensare che sia il cambio del nome del paese che il successivo appello per la difesa di S. Maria di Chienti non siano da considerare come semplici atti formali, alla stregua di tanti altri, ma la presa di coscienza di una situazione estremamente grave49.

et domini Petri de Medicina qui minabantur dicto comuni et terrebant ipsum supradicto mandato facere dictum comune”. Il primo teste, “Janni Andree” di S. Elpidio, podestà di Civitanova nel 1251, afferma che “dominus abbas Rambone olim vicarius Marchie petebat restaura armorum et equorum quorundam suorum fratrum qui mortui fuerunt in territorio Civitatis Nove et Monte Causario causa discordie que olim fuit inter ecclesiam et imperatorem”. Il quarto teste, “Bonus Martinus Grimaldi” di Civitanova, sindaco della città nel 1251, ricorda l’ingiunzione ricevuta dal comune per “concordare cum dicto domino abbate et cum patre suo domino Bartholomeo de emendatione equorum et armorum fratrum domini abbatis qui fuerunt mortui in conflictu Montis Causarii et posmodum Civitatis Nove, et si non facerent id, dominus Oddo minabatur quod intendant et depredabantur ipsos et dextruebat bona ipsius comunis ita quod ipse retulit in consilio dicte terre et homines haec audita faciamus morituri”. La pergamena in questione è una copia del 22 febbraio 1253; per un ampio regesto vedi W. HAGEMANN, Studien und Dokumente zur Geschichte der Marken im Zeitalter der Staufer, V - Montegiorgio II (in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken), Tubingen 1974, n.76, p. 95. 48 Circa gli indennizzi pagati da Civitanova e la data dell’evento bellico vedere anche quanto scritto a proposito di Morrovalle alla nota 43. 49 Nel documento del 1252, citato nella nota 47, si parla due volte di Montecosaro, senza accennare minimamente a Montefedele. Questo, per certi versi, potrebbe essere giusto, visto che gli eventi trattati sono anteriori al cambio del nome del paese; molto più semplicemente, forse il nuovo nome di Montefedele non era ancora entrato nell’uso comune, per cui non è stato riportato dal notaio che registrava la testimonianza (ammesso che i testi ne avessero parlato) per non introdurre un elemento di poca chiarezza nell’economia del processo. Debbo comunque far osservare che per trovare un altro documento ufficiale in cui compaia di nuovo Montecosaro bisogna arrivare fino al 1258 (vedi nota 85). Viste le vicende di molti cambiamenti di nome di città, possiamo ipotizzare tranquillamente che Montefedele non sia diventato di uso comune, ma potrebbe essere stato usato nelle carte ufficiali per una decina d’anni; questo fugace apparire è in sintonia con il silenzio che avvolge Montefedele, scalfito appena dal cenno che ne fa il Compagnoni nella “Reggia picena”. Con una buona dose di ottimismo immagino che in qualche archivio possano esistere altri documenti intorno a Montecosaro e catalogati in modo generico; oppure riferiti a Fermo, o a qualche altro grosso centro, dal momento che, ancor prima che finisse il secolo XIII, di Montefedele molto probabilmente non si ricordava più nessuno.

Gli Agostiniani

In mezzo a tanto frastuono stavano mettendo le radici piccole pianticelle che presto sarebbero diventati alberi rigogliosi; sto parlando della prodigiosa fioritura degli ordini mendicanti, insediatisi progressivamente in molti centri abitati. Essi svolsero un ruolo significativo nella vita dei comuni che li vedevano di buon occhio, anche perché i loro conventi non dipendevano né dal vescovo né dal legato pontificio. Pure il papa era al loro fianco, prima approvandone la regola e poi favorendone la diffusione; ciò valse in modo particolare per gli Eremitani, o Agostiniani, ordine voluto e sostenuto da Innocenzo IV durante tutto il suo pontificato.

Nel 1247 il papa concesse 40 giorni di indulgenza per completare la costruzione della chiesa di S. Martino e dell’annesso convento degli Eremitani entro l’abitato di Montecosaro50. Non abbiamo più la bolla del papa né altri documenti diretti, per cui la data riferita è un po’ controversa, ma tutt’altro che improbabile, visto il grande attaccamento che in quegli anni Montecosaro mostrava nei confronti del papa.

Possiamo ricavare altri elementi utili, sia per risolvere questo piccolo dubbio che per comprendere meglio quanto stava succedendo, seguendo la nascita di un altro importante centro agostiniano, quello di Gubbio. Nell’ottobre 1250 il papa aveva concesso agli eugubini i consueti 40 giorni di indulgenza per costruire “ecclesiam cum officinis”, come ci dice la bolla conservata nell’archivio comunale di Gubbio51. Tra quanti aderiscono all’invito c’è un certo Giacomello che nove mesi dopo dona agli Agostiniani della città, “in aptationem et constructionem dicti loci” una casa, una vigna, un campo ed altri beni; riserva anche piccole somme di denaro per le necessità dei frati: - 20 soldi a frate Giovanni “de Sancto Vito de Ravegnana”, - 20 soldi a frate Accurimbono “de Cingulo” per le sue necessità, - 10 soldi a frate Benvenuto “de Cingulo” per la veste talare, - 20 soldi a frate Giovanni “de Mutignano”, - 10 soldi a frate Bondi per la veste talare, - 5 soldi a frate Benvenuto “de Monte Cosero” per la veste talare, - 5 soldi a frate Bonaparte priore e guardiano52. Sette frati così assortiti, in un convento in via di sistemazione, chiaramente erano lì per costruire il nuovo convento; potremmo anche essere in presenza di un gruppo di mastri muratori, attivo magari in altri centri negli anni precedenti.

Un’organizzazione così fatta può renderci conto di come possano essere sorti, tra il 1244 e il 1250, tanti conventi agostiniani; nelle Marche se ne contano almeno 15 e tra essi quelli di Fermo, Cingoli, Macerata, Corridonia e Montesanto. Tutto questa è ancor più singolare se teniamo presente che quelli erano gli anni dell’aspro confronto tra il papa e l’imperatore che, come abbiamo visto, coinvolse pesantemente anche la Marca; appare comunque evidente quanto risoluta e determinante sia stata l’azione di Innocenzo IV a sostegno degli Agostiniani.

Conclusa la fase pionieristica, i bravi mastri muratori tornarono ai loro luoghi di origine, anche in posti di responsabilità; ‚ quello che accadde a frate Accurimbono, che

50 R. CICCONI, Insediamenti agostiniani nelle marche del XVII secolo, Tolentino 1994, p. 207. 51 Analecta Augustiniana, vol.XVI, Roma 1937, p. 42, anno 1250. 52 Idem, p. 43, anno 1251.

dodici anni dopo era priore a Cingoli, e forse anche per frate Benvenuto di Montecosaro53.

La dedicazione a S. Martino della chiesa annessa al convento si raccorda molto bene con la profonda venerazione che i montecosaresi avevano per il Santo, al quale nei secoli precedenti avevano dedicato diverse chiese del proprio territorio; non si può escludere nemmeno che quella appena costruita continuasse nelle mura, oltre che nello spirito, la memoria di una delle chiese di cui ci parlano le antiche carte.

Anche gli Agostiniani avevano una spiccata venerazione per S. Martino come ci testimonia un singolare avvenimento del 1358; in quell’anno ben 25 priori subirono una pena mortificante per aver trascurato nei propri conventi “quadragesimam sancti Martini”; questa ricorrenza venne dimenticata anche a Cerreto e Montecosaro, due conventi in quel momento affidati rispettivamente a frate Simone e a frate Floriano, entrambi montecosaresi54. Nonostante il progressivo affievolirsi della venerazione verso S. Martino, la dedicazione della chiesa non cambiò fino al Cinquecento, quando assunse quella attuale di S. Agostino.

La consonanza d’intenti, che si stabilì un po’ ovunque tra gli Agostiniani e i comuni che li ospitavano, balza all’occhio con particolare evidenza a Montecosaro dove le due istituzioni, anche fisicamente, erano a contatto di gomito. Lo stesso statuto comunale disponeva che l’archivio della comunità e la cassetta per l’estrazione delle magistrature fossero sempre conservati nella chiesa di S. Agostino; il comune si fece carico a più riprese della manutenzione della chiesa e del convento, e concesse ai frati contributi in denaro per eventi particolari, come poteva essere la celebrazione di un capitolo provinciale55.

Una bella sintesi grafica di questi stretti rapporti è in una pala d’altare della chiesa di S. Agostino dove in un unico ovale, chiuso con un’unica corona, sono rappresentati gli stemmi congiunti degli Agostiniani e del comune di Montecosaro. Vicende comunali

Torniamo ora a seguire da vicino la vita del comune che non ci mostra solo le movimentate vicende viste finora.

Nel 1210 abbiamo attivo un consiglio comunale, un podestà e il suo vicario, e nel 1237 la situazione non sembra molto diversa; è presente un podestà, Guglielmo da Follano, che nello stesso tempo era podestà di Fermo e Fano; la cosa può sembrare un po’

53 Gli Agostiniani e le Marche, a cura della Biblioteca Egidiana, Tolentino 1989, p. 51. Frate Benvenuto di Montecosaro potrebbe essere stato l’artefice, nel 1244, della costruzione o della ristrutturazione del convento e della chiesa di S. Martino a Montecosaro; al suo fianco potrebbero essere intervenuti sia frate Accurimbono che frate Benvenuto da Cingoli, che avevano già alle spalle l’esperienza acquisita nella costruzione del proprio convento nel 1244. 54 Registrum Gregorii Ariminensis OSA 1357-1358, Roma 1976, p. 218, anno 1358. 55 Statuta inclitae terrae Montis Causarii, Macerata 1597; “De Archivio, et Capsa Communis pro conservatione Privilegiorum, scripturarum, et actorum” (I,61). ACMC, Consigli 1494-1499, f.140v, 15 agosto 1498; “De petitione R.di patris Alexandri de S.to Genesio eremitanorum in agro piceno provincialis petentis die S.te Crucis mense maio proximo in M.te Causario celebrari Capitulum provinciale fratrum S.ti Aug.ni et de aliqua elemosyna pro Capitulo”; nel 1806 si tenne a Montecosaro un altro capitolo provinciale.

singolare, ma non più di tanto se teniamo presente che i tre comuni erano alleati già ai tempi della pace di Polverigi56. Nel 1250, come abbiamo visto, il podestà era un certo Saladino, probabilmente un fermano e non più a mezzo servizio.

Nel 1269 accade un curioso fatto di cronaca, come diremmo oggi, non raro a quei tempi. Il macellaio comunale, un certo Alberico di Macerata, e il suo socio Gennaro di Fabriano vennero assaliti da alcuni malfattori che, dopo averli disarmati e spogliati, si impadronirono del loro gruzzolo, 60 lire ravennati, e se ne scapparono con la mula e un paio di buoi. Il 15 aprile 1274 Marco di Montegiorgio, giudice del comune di Montecosaro, celebrò il processo alla presenza dei derubati e del sindaco Matteo di Attolinello, che difendeva il comune. Nonostante la presenza di una nutrita schiera di testimoni e l’assistenza di un altro giudice e di cinque notai, i malfattori rimasero ignoti e il comune dovette risarcire i danni57.

Troviamo tutto questo nella più antica pergamena che ci è pervenuta e che è stata scritta da Giovanni di Giacomo, notaio del comune anche negli anni 1285 e 1301.

L’entità del risarcimento concesso ci lascia intravedere una discreta disponibilità economica del comune; a questo proposito un documento attesta che nel 1283 Montecosaro doveva pagare alla Chiesa romana un censo di 40 libbre contro le 100 di Morrovalle e Montelupone, e le 150 di Civitanova58.

I comuni erano ancora relativamente giovani, e quindi piuttosto a corto di moneta, per cui questa ed altre imposizioni non erano certo ben accolte, come ci testimonia una pergamena del comune di Macerata del 30 gennaio 1282; vi si legge come di fatto si fosse stabilita un’alleanza tra Macerata, Montecosaro e altri 12 comuni della zona per appellarsi contro la tassa imposta dal rettore della Marca59.

Nel gennaio 1285 accadde un altro grave fatto di cronaca, ma questa volta venne punito rapidamente. C’era nel carcere comunale, sorvegliato dalle guardie, un fuoruscito molto influente localmente, tale Giovanni di Guicciardino; i suoi complici riuscirono a liberarlo dai ceppi e farlo uscire dal palazzo comunale, grazie anche all’aiuto fattivo di alcuni cittadini. Immediatamente venne convocato il parlamento generale che si riunì sulla piazza antistante lo stesso palazzo comunale; diede mandato al podestà, Gano di Bonagiunta di Fermo, di procedere contro gli autori del blitz e i loro complici o fiancheggiatori; gli vennero affiancati 12 uomini, 4 per ogni terziere, a spese del comune per tutto il tempo necessario; se le entrate non fossero state sufficienti il podestà poteva imporre un’apposita tassa, come consigliato pubblicamente da Stefano di Rainalduccio.

Nell’atto ricorre spesso il riferimento a norme o capitoli che regolavano la vita di tutta la comunità; inoltre veniamo a sapere anche che c’erano stati, probabilmente l’anno

56 W. HAGEMANN, Studien und Dokumente zur Geschichte der Marken im Zeitalter der Staufer, V - Montegiorgio I (in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken), Tubingen 1972, n.40, p. 373; lo stesso autore pubblica la foto della pergamena (Montegiorgio II cit., p. 64). 57 PM, pergamena n. 2, anno 1274; processo per risarcimento danni da parte del comune. 58 A. THEINER, Codex diplomaticus, Roma 1861, Vol.I, p. 269; censi da pagare per l’anno 1283: “Murru Valium lib. C vac. kal. ian., Montis Causarii lib. XL vac. kal. oct., S. Elpidii lib. CL vac. kal. nov., Civitanove lib.CL vac. kal octob., Castrum Montis Sancti usurpavit potestariam”. 59 ASM, Archivio priorale, pergamena n.IX/7, anno 1382; il consiglio generale di Macerata incarica il sindaco di promettere ai sindaci di Recanati, Montesanto, Montelupone, Morro, Montolmo, Civitanova, Montecosaro, S. Giusto, Montemilone, Monticolo, Tolentino, S. Maria in Giorgio e S. Elpidio di continuare ad appellarsi contro la tassa imposta dal rettore; sindaco di Montecosaro era “Marchiono Jacobi”.

precedente, contrasti con Recanati appianati grazie ad una missione dello stesso podestà60.

Il parlamento è l’organo supremo e come abbiamo appena visto si riunisce sulla piazza del paese, più che sufficiente per una comunità che non doveva essere molto numerosa. Gli elementi che abbiamo visto finora ci mostrano una organizzazione comunale stabile e capace di far rispettare le regole che tutta la comunità si era date o aveva fatto proprie.

In questo periodo il comune di Montecosaro acquista beni di pubblica utilità: dal settembre 1286 al marzo 1287 acquisisce cinque appezzamenti di terra ed una casa da altrettanti privati cittadini; tra i beni trattati ci sono uno staio di terra “pro rigu faciendo”, probabilmente un canale per derivare l’acqua, e un piazzale, forse già di uso pubblico. La piazza o piazzale venne ceduta da due signore, Anfelicia e Spene (le prime donne in assoluto che compaiono timidamente nelle carte di Montecosaro), tramite il loro procuratore Tommaso di Attone Birigotti e con il consenso dei rispettivi mariti, Alcone e Romano.

Per conto del comune i contraenti sono il podestà, oppure il notaio comunale, ma più spesso i sindaci che venivano nominati di volta in volta. L’atto di vendita della casa è redatto da Antonio Leonardi di Montecosaro che negli anni successivi sarà molto attivo a Fermo, com’era naturale visto lo stretto rapporto esistente tra i due comuni61. Questo ci dice anche che all’occorrenza Montecosaro poteva contare su cittadini esperti per la difesa dei propri diritti o per la stesura di norme sempre più rigorose a salvaguardia dei bisogni e degli interessi comuni. Autonomia comunale

Col passare degli anni i comuni aspiravano ad un’autonomia più ampia, a cominciare dalla scelta dei propri magistrati e dall’amministrazione della giustizia. Nel 1282 abbiamo una manifestazione palese della loro progressiva insofferenza su questo tema; quell’anno infatti il consiglio di Macerata nomina un proprio incaricato per protestare contro il rettore della Marca che aveva impedito ai comuni la libera scelta del podestà e degli ufficiali. L’anno successivo lo stesso consiglio nomina un procuratore perché interponga appello contro l’obbligo imposto al comune di Macerata di prendere un certo Sinibaldo come suo podestà62.

Anche a Montecosaro la situazione non era del tutto tranquilla. Nel dicembre del 1285 il rettore della Marca nominò Marcovaldo di Morrovalle podestà e giudice di Montecosaro, sotto la pena di mille libbre ravennati se il comune non l’avesse accettato; due giorni dopo Alberto di Giovanni, anch’egli di Morrovalle, venne nominato notaio del comune, e la pena minacciata era di cento libbre ravennati; il loro ufficio, della durata di un anno, doveva iniziare con il primo aprile. Gli atti di nomina vennero resi pubblici 60 PM, pergamena n. 3, 24 gennaio 1285; parlamento di Montecosaro. 61 PM, pergamene nn. 5, 6 e 7, anni 1286 e 1287; sono 5 atti di vendita e uno di permuta a favore del comune. 62 ASM, Archivio priorale, pergamena n.IX/8, anno 1282; il consiglio di Macerata elegge Marattolo perché protesti presso il rettore che aveva impedito ai comuni la libera scelta del podestà e degli ufficiali. Idem, pergamena n.IX/14, anno 1282; lo stesso consiglio elegge Nicola di Palmiero perché appelli presso il rettore contro l’obbligo imposto al comune di assumere tal Sinibaldo come podestà per un anno.

mercoledì 12 dicembre 1285, nel corso di un parlamento generale, e approvati all’unanimità e con la massima esultanza63. Con le premesse appena viste è difficile non avere dubbi su questa piena accoglienza, anche se non si può escludere che in qualche caso queste nomine fossero di fatto concordate preventivamente; potrebbe essere andata così nel caso appena riferito, vista la provenienza del podestà e del suo notaio, e visti i buoni rapporti che c’erano con Morrovalle.

Una situazione tranquilla era un buon viatico nella corsa verso la piena autonomia comunale; la fedeltà verso la Chiesa era un’altra condizione primaria, e sotto questo aspetto Montecosaro aveva le carte in regole. Importante era anche prepararsi adeguatamente mettendo ordine nella propria organizzazione e nelle proprie leggi, e anche qui abbiamo visto come negli anni 1286 e 1287 Montecosaro si fosse mosso bene. Sarebbe stato utile poter contare su un buon podestà che portasse avanti concretamente la richiesta di autonomia comunale; e nel 1288 fu podestà Montecosaro un uomo molto influente come Guglielmo Magno da Castiglione64.

Ma forse l’evento più significativo fu, in quello stesso anno e dopo un lungo e contrastato conclave, l’elezione di papa Nicola IV, un frate ascolano; la sua estraneità alla curia romana e le sue origini furono certamente di buon auspicio per i comuni marchigiani. Una conferma indiretta potremmo trovarla anche nella nomina di Pietro di Rinaldo Mari di Fermo a podestà di Montecosaro, avvenuta il 28 agosto 1289; in questo caso, nel decreto di nomina del rettore della Marca Giovanni Colonna, non si minacciano sanzioni di sorta. Per inciso, questo decreto ci è pervenuto grazie ad una copia del 1290 per mandato di Simone di maestro Tommaso di Montecosaro65.

Una copia così ravvicinata è in relazione proprio con la richiesta di autonomia comunale formalizzata il 20 settembre 1290. Quel giorno, su mandato di Boccio di Paolo di Macerata giudice del comune di Montecosaro, si riunì il consiglio generale e speciale del comune per impetrare dal papa la facoltà di eleggere il podestà e gli altri ufficiali; il consiglio si impegnava anche a pagare ogni anno, in occasione della pasqua, un censo di 30 libbre ravennati. L’atto formale venne redatto nel palazzo del comune dal notaio Giovanni Corradi alla presenza di molti testimoni, il primo dei quali era quel Simone di maestro Tommaso che abbiamo appena visto. Non compare esplicitamente il podestà che doveva essere Pietro di Rinaldo Mari, ma vista l’evoluzione in atto non è detto che non se ne fosse già tornato a Fermo, evitando di entrare in una questione che lo coinvolgeva direttamente. Al contrario Simone di maestro Tommaso dovrebbe essere stato il tessitore discreto di tutta la tela e l’ambasciatore inviato a Roma con la petizione. Il passo compiuto da Montecosaro valse a dare il via agli altri comuni nella corsa verso l’autonomia; in rapida successione lo seguirono: Macerata il 30 settembre, S. Vittoria il 10 ottobre, Montecchio il 26 ottobre, Ripatransone il 15 novembre e un’altra ventina di comuni66. L’azione fu corale, e con un unico regista, e la formulazione era praticamente la stessa per i diversi comuni.

Non sorprende così che nel giro di qualche settimana la maggior parte delle richieste vengano accolte; si comincia il 27 ottobre con Montelparo, comune

63 PM, pergamena n. 4, anno 1285; nomina del podestà di Montecosaro. 64 La reggia picena cit., p. 149. 65 PM, pergamena n. 8, anno 1289; nomina del podestà di Montecosaro. 66 ASV, A.A.Arm. I-XVIII, nn. 3785, 3794 e 3795, rispettivamente per Monticolo, Montecosaro e S. Vittoria; Codex diplomaticus cit., vol.I, p. 311 per Macerata e Ripatransone.

dell’ascolano, seguito a ruota, il 28 ottobre 1290, da Montecosaro. Questa rapida evoluzione della situazione non meraviglia più di tanto; vista la crescente insofferenza dei comuni, sia il papa che i suoi legati avevano grosse difficoltà a controllare direttamente tante città e castelli; inoltre, fatto non secondario, incamerando un tributo annuale in cambio della concessa autonomia riuscivano a rimpinguare le non floride casse della Chiesa. Nel giro di 4 mesi Nicola IV accolse le richieste di 28 comuni marchigiani, dietro l’impegno solenne a versare il tributo richiesto: oltre duemila libbre ravennati ogni anno. Beneficiarono della concessione 16 comuni della diocesi di Fermo, 3 di quella di Ascoli, 4 di quella di Camerino, due di quella di Osimo, due di quella di Numana ed uno di quella di Senigallia. Dopo Montelparo e Montecosaro, a novembre seguirono Macerata, Montegranaro e Montelupone, a dicembre Tolentino e S. Severino; a gennaio fu la volta di Morrovalle e il 6 febbraio 1291 toccò a Civitanova, che chiuse in pratica la fila.

Le bolle pontificie riprendono nella sostanza le richieste dei vari comuni e differiscono solo per pochi particolari. Per avere un’idea più precisa delle libertà concesse e dei vincoli imposti basterà scorrere la bolla emessa da Orvieto il 28 ottobre 1290 e indirizzata agli uomini e al consiglio del castello di Montecosaro. Il papa concedeva loro, fino a quando fossero rimasti fedeli alla Chiesa romana, la facoltà di eleggere liberamente il podestà e gli altri ufficiali, con l’unico vincolo che anch’essi fossero stati fedeli alla Chiesa; il comune aveva facoltà di fare piena giustizia sia nelle cause civile che in quelle penali, eccetto che nei casi di lesa maestà ed eresia; Montecosaro doveva onorare la promessa di pagare ogni anno a pasqua, al tesoriere della Chiesa romana, 30 libbre ravennati67.

Le somme pagate dai singoli comuni possono darci un’idea della loro capacità contributiva e in parte anche della loro dimensione; a fronte delle 30 libbre di Montecosaro ne abbiamo 20 per Force, 40 per Numana, 51 per Castelfidardo, 70 per Morrovalle, 76 per Montelupone e Montegranaro, 120 per Treia e Civitanova, 150 per Macerata e Tolentino, e 170 per San Severino.

Forse per le devastazioni sofferte, Montecosaro ebbe in qualche maniera un trattamento di favore, perché non sembra del tutto realistico che Montelupone e Morrovalle avessero una capacità contributiva più che doppia e Civitanova addirittura quadrupla.

L’autonomia acquisita si sarà riflessa nelle norme statutarie di Montecosaro; il clima era propizio anche per rimettere ordine e fare chiarezza in qualche faccenda un po’ ingarbugliata, ereditata dal passato. Era finalmente giunto il momento di ristabilire una completa legalità sotto la responsabilità di propri magistrati, scelti in piena libertà dal consiglio comunale. Forse a questa opera di bonifica fa riferimento un capitolo degli statuti di Montecosaro, pervenutoci in una copia del 1301, anche se molto danneggiata. Ne propongo ugualmente una lettura per valorizzare in qualche modo questo piccolo frammento degli statuti del XIII secolo, perduti da quasi tutti i comuni marchigiani.

Si stabilisce che il rettore con i capitani e due uomini per ogni porta, nel giro di due mesi, debbono pronunciare le condanne richieste dinanzi al consiglio comunale; in caso di mancata condanna nei termini stabiliti, le persone coinvolte dovranno essere considerate totalmente assolte e il rettore ed i fideiussori dovranno rimborsare in proprio

67 ASV, Registro n.45, editto 503.2; pubblicato integralmente in Codex diplomaticus cit., vol.I, p. 312. La bolla non è presente nel nostro archivio ma non doveva essere diversa da quella di Civitanova, riprodotta in foto in M. e A. GUARNIERI, Civitanova: la storia, la vita e i giorni, Civitanova 1994, p. 111.

al comune e alle parti i danni patiti; il rettore non potrà chiedere dilazioni di sorta né il consiglio può concederle, anche se in altra parte dello statuto si stabilisse diversamente68.

La norma non è molto chiara ma ci permette di vedere una giustizia molto rapida e amministrata con il concorso di tutto il paese; sono bandite possibili manovre dilatorie e le assunzioni di responsabilità sono precise.

Questa pergamena riporta anche il nome di uno dei primi podestà eletti liberamente dal consiglio comunale, Manziotti di Gentile di Fermo, e la sua provenienza non ci meraviglia affatto. Altro magistrato elettivo era il notaio del comune, equivalente al cancelliere dei secoli successivi e per certi versi all’attuale segretario comunale; in genere veniva da un paese diverso da quello del podestà. Per questo magistrato siamo più fortunati e conosciamo proprio il primo che venne eletto direttamente dal comune, si tratta di maestro Armilto di Macerata. E’ lui che, ad un anno esatto dalla richiesta di autonomia comunale, redige l’atto con cui il comune acquista 28 staia di terra, in contrada Toliano, al prezzo di 11 libbre e 13 soldi; nell’occasione il comune non è più rappresentato dal sindaco ma da un massaro, Matteo di Leonardo69.

Anche questa era una figura centrale nei primi comuni, di fatto l’amministratore fiduciario dei beni pubblici, e forse le sue competenze erano state ampliate da poco e meglio definite dal nuovo statuto.

Parallelamente agli onori crescono gli oneri e non è un caso che dopo appena due mesi di autonomia Montecosaro debba contribuire alla spedizione in Romagna del vicario generale delle Marca70. Si ha la sensazione che il comune goda di una vita piena: ha proprie e libere magistrature, amministra la giustizia, partecipa alle azioni militari e sostiene gli oneri richiesti.

Per completare il quadro aggiungo che nel settembre 1290 era giunto da Macerata l’invito a iscrivere allo studio di Giulioso da Montegranaro quanti avessero avuto interesse ad approfondire le proprie conoscenze di diritto71. A partire dal 1286 sia a Montecosaro che a Fermo compaiono atti del notaio Antonio di maestro Leonardo di Montecosaro per cui è da ritenere che l’invito ricevuto potesse non essere stato del tutto generico. Antonio lo troviamo ancora a Fermo negli anni 1296 e 1297, e magari era allora coadiuvato da qualche giovane praticante di sua fiducia; uno potrebbe essere stato Simone di Montecosaro, giudice e vicario nella vicina Monte S. Pietro nel 1295. Un altro potrebbe essere “Francisco Dompnini de Monte Causario”, nel 1297 notaio del comune di Petriolo; è lui che il 10 luglio stila il famoso atto con cui Rinalduccio vende parte del castello di Petriolo al comune di Montolmo; vista l’importanza dell’evento cosa vi presenziarono sia il podestà che i giudici di Montolmo, tra i quali troviamo un certo Paolo di Montecosaro72. Francesco, il notaio, Simone e Paolo, i giudici, potrebbero essere stati

68 PM, pergamena n.12, anno 1301; capitolo degli statuti di Montecosaro. 69 PM, pergamena n.9, anno 1291; vendita di un pezzo di terra. 70 La reggia picena cit., p. 150. 71 Idem, p. 151; oltre che a Montecosaro l’invito è esteso ad Ascoli, Fabriano, Matelica, Camerino, S. Severino, Montecchio, Tolentino, Recanati, Monte Santo, Civitanova e ad altri 13 comuni. 72 Cronache della città di Fermo cit., pp. 400-522; diversi atti tra il 1287 e il 1297 sono redatti da “Antonio magistri Leonardi de Monte Causario”. Idem, pp. 520-521; due atti del 1297 del comune di Petriolo sono redatti da “Francisco Dompnini de Monte Causario”; l’atto del 10 luglio 1297 è pubblicato in Studi Maceratesi n.25 (Macerata 1991, p. 352). ASF, pergamena n.2026, per la notizia su Simone di Montecosaro (vedi anche V. GALIÈ, In pellegrinaggio lungo le antiche strade di Civitanova e Montecosaro, Macerata 1995, p. 47).

tra i primi allievi di Giulioso, e successivamente qualcuno potrebbe aver fatto pratica nello studio di Antonio di maestro Leonardo di Montecosaro. Nuovi scontri con Civitanova

Il 4 aprile 1292 morì papa Nicola IV e la sede rimase vacante fino al 5 luglio 1294, quando venne eletto Celestino V, il pontefice del gran rifiuto; fu questo un periodo di grande turbolenza che vide molti comuni brigare per estendere la propria area di influenza. Fermo, in aperto contrasto con Civitanova per la questione del porto, fu tra i primi a entrare in azione intrecciando vecchie e nuove alleanze. Il 10 giugno 1292 strinse un patto quinquennale con Ancona e Recanati contro Osimo, Montecassiano e Civitanova; il 5 settembre l’alleanza venne rinnovata ed estesa anche a Jesi. Ogni città si impegnava a mantenere in assetto di guerra una milizia formata da 700 cavalli e da un sufficiente numero di mercenari; la sola Fermo contribuiva con un proprio contingente di 300 cavalli73. Alla testa di questo piccolo esercito si posero due valenti capitani come Gentile da Mogliano e Giovanni da Massa e il 7 settembre 1292 irruppero come furie su Civitanova con l’obiettivo preciso di distruggere il porto. Nell’azione dettero man forte Montesanto, Montelupone, Morrovalle, S. Giusto, Montegranaro e Montecosaro, di fatto tutti i comuni vicini a Civitanova ad esclusione di S. Elpidio; ognuno aveva sicuramente qualcosa da recriminare per torti subiti in passato, a cominciare da Morrovalle e soprattutto da Montecosaro. L’azione improvvisa non permise a Civitanova di opporre nessuna difesa e per otto giorni rimase in balia dei nemici; non si lamentarono morti ma vi furono saccheggi di ogni genere, come denunciarono gli stessi civitanovesi con dovizia di particolari. Passata la tempesta si riunì immediatamente il consiglio comunale di Civitanova per discutere sull’accaduto e incaricare il sindaco Pinzoco di sporgere querela contro i Fermani e i loro alleati74.

Il 2 gennaio 1293 gli assalitori vennero giudicati in contumacia dal giudice generale della Marca, Francesco d’Assisi e furono condannati a pagare pesanti multe, oltre al risarcimento dei danni arrecati a tutte le persone secondo un minuzioso elenco preparato dai civitanovesi. E’ una lista di circa 450 nomi con i relativi danni lamentati: oltre le 100 libbre una volta su due, e in una decina di casi addirittura oltre le 1.000. Sulla base di una stima sommaria si arriva a 55.000 libbre; la cifra reale sarà stata inferiore, e

73 ASF, pergamena n.1209, 10 giugno 1292; patto di alleanza tra Ancona, Recanati e Fermo. I preparativi erano iniziati il 22 aprile quando il comune di Ancona aveva deciso di rinnovare e confermare l’antica amicizia col comune di Fermo (ASF, pergamena n.183); il 7 maggio rispose Fermo promettendo ad Ancona e Recanati di mettere a disposizione 300 cavalli per 5 anni, contro un impegno di 200 per Ancona e di 125 per Recanati (ASF, pergamena n.35); il 28 maggio si chiuse il cerchio con la risposta di Recanati (ASF, pergamena n.49). Il 3 settembre (ASF, pergamena n.528) il consiglio generale e speciale e i priori delle arti di Jesi decisero di rinnovare e confermare l’antica amicizia con i comuni di Fermo, Ancona e Recanati, impegnandosi a fornire 100 cavalli; e il 5 settembre 1292 (ASF, pergamena n.1292), si arrivò al patto di alleanza tra Ancona, Recanati, Fermo e Jesi. Vedi anche Ancona nel basso Medioevo cit., p. 130 e relative note; la trascrizione dei patti del 10 giugno e del 5 settembre 1292 è nel volume originale J.F. LEONHARD, Die Seestadt Ancona im Spätmittelater, Tubingen 1983, pp. 352 e 355. Il regesto di tutte le pergamene citate, con qualche piccola lacuna e imprecisione nelle date, è in Cronache della città di Fermo cit., pp. 499 e 500, nn. 503-508. 74 ACC, Pergamena n.A23, del 16 settembre 1292.

non di poco, ma pur sempre ragguardevole75. La pesante condanna, se di fatto rimase sulla carta, autorizzava comunque i civitanovesi a rivalersi nei confronti dei vicini, in particolare dei montecosaresi. Viene alla mente una serie di azioni di sabotaggio e di dispetti reciproci, che tra l’altro esponevano Montecosaro a nuove denunce e a condanne.

E’ quello che accade in febbraio quando il servo di Bartoluccio di Monaldo fu depredato in casa sua di denari e altre cose, andate poi a beneficio del comune di Montecosaro; il 28 dello stesso mese Bartoluccio nominò Matteo di Dionisio suo procuratore nella causa contro il comune di Montecosaro rappresentato da Matteo di Attolinello76.

Due mesi dopo il giudice Francesco d’Assisi pronunciò una dura sentenza contro Montecosaro, ribelle alla Chiesa romana, e lo condannò ad una pena di 1.000 libbre ravennati; concesse inoltre a Bartoluccio la facoltà di impossessarsi di beni e cose del comune e di singoli cittadini finché non avesse avuto adeguato risarcimento77.

Di fatto Civitanova godeva in quel momento di una situazione di impunità e si stava macchiando di gravi misfatti a danno dei beni e degli uomini di Montecosaro. Fermo e i suoi alleati però erano sempre là minacciosi, e alla fine Civitanova si dovette piegare alle pesanti condizioni di pace imposte dalla coalizione78. Il 26 agosto 1293 esse furono integralmente recepite da tutto il consiglio comunale di Civitanova, celebrato alla presenza di una folta delegazione fermana; il comune di Civitanova si impegnava a: - osservare e far osservare tutte le disposizioni del podestà e del capitano di Fermo;

75 ACC, Bullarium, f.24, 2 gennaio 1293; il giudice della Marca Francesco d’Assisi pronuncia la sentenza contro Fermo e i suoi alleati, tutti contumaci. Il documento è composto da una dettagliata denuncia e dalla sentenza; i comuni di Montelupone, Morrovalle, Montesanto e S. Giusto, benché presenti nella denuncia, non compaiono tra quelli condannati; l’esatto contrario succede per Jesi. Una parte significativa del documento, con l’eccezione del lungo elenco dei danneggiati, è pubblicato da G. MARANGONI, Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana oggi Civitanova, Roma 1743, pp. 288 e seguenti. “Nos Franciscus Judex praefatus in contumaciam, et absentiam dictorum Firmanorum, quorum sit Dei repleta praesentia, ab eodem Sindico, et Procuratore praedictarum Communis Civitatis novae, et specialem Personarum super existimatione, et quantitate damnorum, declarat eorum in petitionibus supradictis in forma Juris juramento recepto. Christi nomine invocato, Praedictos Commune, Universitatem, et homines Civitatis Firmi ad emendationem, et restitutionem damnorum hujusmodi, et quantitatem praedictarum declaratarum juramento Procuratoris, et Sindici memorati faciendam praedictis Communi, et Universitati Civitatisnovae, et singularibus personis”. L’elenco delle persone danneggiate e dei danni subiti, espressi in libbre, e in qualche caso in fiorini aurei, occupava 5 pagine del bollario (due purtroppo sono andate perse). Per calcolare l’importo complessivo ho sommato i valori reali, quando superiori a 100 libbre, e assunto un valore medio di 40 libbre negli altri casi; così facendo il danno complessivo ammonterebbe a 55.000 libbre, pari a 27 volte il censo annuale pagato dai 28 comuni in cambio delle libertà comunali (vedi testo e nota 67). Dal momento che la sentenza fu pronunciata in assenza degli imputati e sulla base delle sole testimonianze dei civitanovesi, l’ammontare reale deve essere stato inferiore ma pur sempre molto alto. 76 PM, pergamena n.10, 28 febbraio 1293. Bartolutius Monaldi nomina il procuratore per la causa relativa al furto subito dal suo servo. Potrebbe essere la stessa persona che in gennaio aveva chiesto e ottenuto un indennizzo di 1.007 fiorini aurei; infatti il secondo della lunghissima lista di civitanovesi danneggiati (vedi nota precedente) è proprio un certo Bartholomeus Mualdi, e non è improbabile che si tratti di un errore di trascrizione. Matteo di Attolinello era il sindaco che 19 anni prima aveva rappresentato il comune nella causa di risarcimento mossa dal macellaio Alberico di Macerata (vedi testo e nota 57). 77 PM, pergamena n.11, 25 aprile 1293; sentenza a favore di Bartoluccio di Monaldo. 78 ASF, pergamena n.866, del 18 agosto 1293; il consiglio generale e speciale di Fermo stabilisce i termini per la pace con Civitanova; vedi anche Cronache della città di Fermo cit., p. 501, n.514.

- rilasciare gli uomini di Montecosaro trattenuti a Civitanova, restituendo anche tutti i beni sottratti; - conservare, mantenere e restituire al vescovo di Fermo tutti i diritti e le consuetudini, su semplice richiesta dello stesso; - non realizzare approdi di nessun genere dal fiume Potenza fino al porto di S. Giorgio; - considerare come propri nemici i banditi e i nemici della città di Fermo e del castello di Montecosaro, e non accoglierli a Civitanova o nel suo territorio, e non prestar loro nessun aiuto reale o personale; - non cospirare né fare lega alcuna contro la città di Fermo e il castello di Montecosaro, e non considerarla giusta se fossero stati altri a farla; - scendere in guerra insieme al comune di Fermo, in buona fede e senza inganno, non appena fossero state recapitate le opportune lettere dai messi del podestà e del capitano di Fermo; - sottoscrivere una pace generale con Fermo e il suo distretto, con le città di Ancona, Jesi e Recanati, e con le comunità di Montegranaro, S. Giusto, Morro, Montecosaro, Montelupone e Montesanto; - non chiedere altro né muovere ulteriori liti in perpetuo. Civitanova si impegnava in fine a non chiedere conto in nessuna maniera di tutte le offese, gli eccessi, i delitti, gli incendi e le rapine subite. Alcuni impegni ricalcavano da vicino quelli imposti da Fermo nel 1213, ma ora sono più dettagliati e più severi; come allora c’è una particolare attenzione per Montecosaro, spesso equiparato a Fermo, e per i suoi abitanti, che erano stati depredati dei loro beni e alcuni erano ancora prigionieri dei civitanovesi. Terminato il consiglio comunale si passò subito alla stesura dell’atto di pace; vi presenziarono 350 persone, elencate in testa al documento, e tra esse un certo Marsilio di Montecosaro; fu poi siglato congiuntamente dai notai dei comuni di Fermo, Recanati, Jesi e Ancona79. Santa Maria e gli altri centri monastici

Prima di chiudere le note sul secolo XIII seguiamo un po’ la vita dei centri monastici della nostra zona in cui erano attivi, oltre quello di S. Maria di Chienti e degli Agostiniani di Montecosaro, anche le abbazie benedettine di S. Croce al Chienti, Chiaravalle di Fiastra e S. Firmano, vicina al fiume Potenza. Quest’ultima aveva chiese e beni in territorio di Civitanova, alcuni a confine con Montecosaro; nella vertenza del 1446 i civitanovesi portarono a proprio sostegno ben 5 carte dell’abbazia di S. Firmano, comprese tra gli anni 1255 e 1338, che ci testimoniano un rapporto stretto con Civitanova. Lo stesso non si può dire per Montecosaro, e c’era da aspettarselo, vista la forte presenza farfense; abbiamo un solo modesto cenno con la cessione che Raniero, l’abate di S. Firmano fa a Firmo di Montecosaro nel 123780.

79 ASF, pergamena n. 1576, del 26 agosto 1293; il consiglio generale e parlamento di Civitanova fa proprie le condizioni di pace con Fermo; vedi anche Cronache della città di Fermo cit., p. 502, n.515. ASF, pergamena n.1583, del 26 agosto 1293; patto di pace tra Civitanova, Fermo, Recanati, Jesi e Ancona e loro alleati. Per la pace del 1213 vedi testo e nota 36. 80 Per il 1446 vedi ACMC, Iura diversa infra Com. M. Causarii et Civitatis Nove-1446, f. 37v. Per i benedettini vedi I Benedettini nelle valli del maceratese, Macerata 1967. Per il 1237 vedi G. VOGEL, Documenti di divisione comuni della Marca (manoscritto 5.C.III.5), Recanati, Biblioteca Benedettucci, f.123r, e In pellegrinaggio lungo le antiche strade di Civitanova e Montecosaro,cit., p. 39.

Per quanto riguarda gli Agostiniani abbiamo già ipotizzato che una delle chiese di S. Martino, alle dipendenze di S. Maria di Chienti, sia stata la culla per gli Agostiniani a ontecosaro. Questo ideale passaggio di consegne, molto affascinante ma per ora poco più che un’ipotesi, è in linea con le trasformazioni subite dal monastero di S. Maria nel corso del Duecento; ad esso faceva capo la gestione del vasto patrimonio, per conto della sempre più lontana Farfa, e la riscossione dei canoni di enfiteusi dai contadini della zona. Gli edifici religiosi, per loro natura privi di un particolare valore venale, erano i primi a risentire della notevole attenzione riservata alle cose terrene e alcuni saranno stati di fatto abbandonati a se stessi. E’ plausibile che per favorire l’insediamento degli Agostiniani il papa, oltre ai 40 giorni di indulgenza, abbia concesso una chiesa adatta allo scopo e magari in disuso da anni. Se questo corrisponde al vero, la chiesa era dentro il paese e con probabilità era già dedicata a S. Martino. A sostegno di questa tesi posso aggiungere che il monastero aveva quasi certamente beni entro il centro abitato; una carta del 1706 (fig.13) ci presenta infatti una casa di proprietà dell’ospedale di Camerino adiacente proprio alla chiesa e al convento di S. Agostino81.

Nel 1262 il papa pose sotto la sua protezione l’abbazia di Farfa con tutti i suoi centri monastici, che vennero progressivamente abbandonati a se stessi. S. Maria, che abbiamo lasciato nel 1251 in gravi difficoltà, stava lentamente riducendosi a semplice chiesa di campagna; il legame con il monastero di Farfa si limitava al pagamento di un censo annuale, che nel 1295 ammontava a 20 denari ravennati82. Nel 1290 era retta da un preposto e pagava decime per 22 soldi83; forse aveva ancora alle sue dipendenze la chiesa di S. Michele, sotto il colle Lumirano, la quale nel 1290 pagava le sue decime ed era retta dal cappellano Firmone84.

Nonostante il lento sfiorire di S. Maria di Chienti, lo spirito benedettino non tramontò del tutto nella zona, soprattutto grazie all’opera dei cistercensi che nel secolo precedente si erano insediati a Chiaravalle di Fiastra.

Abbiamo visto come questa abbazia avesse possedimenti anche in territorio di Montecosaro, e non è improbabile che avesse incamerato nella grancia di Sarrocciano

81 ASC, Ipab, busta 50, fascicolo 27, anno 1706; richiesta di approvazione per l’esecuzione di modifiche ad una casa, di proprietà dell’ospedale di Camerino, con annessa piantina della casa e dello spazio circostante. Non ho elementi per dubitare che tale casa non facesse parte dei beni di S. Maria di Chienti anche nei secoli precedenti; questa potrebbe essere una parziale conferma di quanto sostenuto da A. BASSI, A Montecosaro della Marca nell’anno 1568, Montecosaro 1992, p. 23. 82 Il Regesto di Farfa cit., vol.V, p. 331, anno 1295; “Monasterium sancte Marie de Clento XX solidos”; così è scritto in fondo all’ultimo documento della celebre raccolta iniziata da Gregorio da Catino; nel corpo dello stesso documento è riportato “Monasterium sanctae Marie de clenti cum ecclesiis suis”. Faccio notare come anche questi tardi documenti riportino sempre e solo la denominazione “S. Maria di Chienti”. 83 D. PACINI, I monaci di Farfa nelle valli picene del Chienti e del Potenza (in Studi Maceratesi, vol.2), Macerata 1967, p. 172; il 23 febbraio 1262 Urbano IV mette sotto la protezione della Santa Sede il monastero di Farfa e le relative dipendenze; “in comitatu Firmano ... monasterium S. Marie in Clenti cum villis, cellis, ecclesiis et pertinentis suis”. Rationes decimarum Italiae, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1950,pp. 504,514 e 548, nn.6160, 6490 e 7232; è sempre indicata come “S. Maria de Clento”. 84 Rationes decimarum cit.; nell’anno 1290 (n.5713 e 6609) paga 50 soldi e 9 denari; nell’anno 1291 (n. 6790 e 7002) paga 33 soldi e 6 denari; per il suo collegamento con S. Maria di Chienti vedi testo e nota 130.

qualche possedimento di S. Maria. Nei documenti c’è traccia di queste fase di espansione e degli immancabili screzi con i comuni della zona, Montecosaro compreso85.

I beni dell’abbazia di Fiastra aumentarono in modo significativo nel 1266 con l’unione dell’antichissima e potente abbazia di Santa Croce, situata alla confluenza dell’Ete con il Chienti, in territorio di S. Elpidio. S. Croce era in rapporti anche con la pieve di S. Lorenzo e con Montecosaro, a cui la univa una primaria strada di comunicazione descritta in un atto del 1062. Nel 1198 l’abate Rainerio, con il consenso dei monaci di S. Croce, concesse in enfiteusi a Nicola di Attucciolo 15 staia di terra nel fondo “Valle Letari”; la cessione avvenne proprio nella casa della pieve di S. Lorenzo. A partire dal 1197 ompaiono nelle conferme del papa beni dell’abbazia situati a Montecosaro86.

E’ del tutto naturale che a Santa Croce operassero personaggi di Montecosaro, visto che era distante solo pochi chilometri. Il 12 aprile 1266 i monaci di S. Croce incaricarono l’abate Giacomo per trattare con Chiaravalle di Fiastra le condizioni per l’unione delle due abbazie; assisteva all’atto anche Gentile di Einoci di Montecosaro87.

I documenti pervenuti non ci parlano di particolari rapporti tra S. Maria di Chienti e S. Croce, distanti appena 5 chilometri, ma separate da un fiume; entrambe poi avevano possedimenti sulle due sponde del Chienti, e la chiesa di S. Michele, appena al di là del Chienti, in comune di Montegranaro, da molti anni dipendeva da S. Maria.

Non ci sono neanche notizie di contrasti di interessi, sempre possibili vista la contiguità fisica; è allora verosimile immaginare un rapporto di buon vicinato e scambi di un certo tipo tra questi due grandi monasteri.

Mi sia permesso qui un breve inciso per accennare alla situazione penosa in cui versa oggi S. Croce, non di rado sconosciuta anche a persone sensibili alle bellezze 85 F. ALLEVI , Con Dante e la Sibilla ed altri, Milano 1965, p. 172, anno 1210; diploma di Ottone IV con cui si delimita la grancia di Sarrocciano; “et per secundum latus usque ad S. Maria de Clente, et a S. Maria per quartum latus usque ad Castrum Murri”. O. GENTILI, Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Roma 1984, p. 154; nell’anno 1258 l’abate di Fiastra nomina un monaco come giudice per tutte le liti in corso in vari comuni, compreso Montecosaro. Idem, p. 285; nell’anno 1272 un contadino, che lavora una terra dell’abbazia di Fiastra a Montecosaro, chiede di versare in un’unica soluzione l’affitto di 25 anni “poiché gli rimane assai difficile andare ogni anno fino all’abbazia”. 86 Per il 1062 vedi testo e nota 16. Le carte dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra cit., anno 1198, p. 286, n. 339; atto in “domo plebe Sancti Laurentiii”; vedi anche l’articolo di D. PACINI, p. 109. ACSE, Archivio segreto, cassa 5, n.16, manoscritto del 1413; nel 1197 il papa Celestino III conferma al monastero di S. Croce “possessiones quas habet in Monte Cosari” e in altri luoghi. W. HAGEMANN, Studien und Dokumente zur Geschichte der Marken im Zeitalter der Staufer, III - S. Elpidio (in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken), Tubingen 1964; nel 1220 Federico II conferma a Corrado, abate di Santa Croce, quanto appartiene al monastero “maxime in castro Sancti Elpidii, in Castello Castri, in Civita Nova, in Monte Causario, in Murro de Valli, in Podio et Macerata, in Castello Sancti Justi, in Monte Granario et in omnibus predictarum pertinentis et synaidis”. M. DE CARLO, L’Abbazia di S. Croce del Chienti nei secoli IX-XIII (tesi di laurea), Macerata 1979, p. 243; Festa, sindaco e abate di Chiaravalle di Fiastra, alla presenza dell’abate Servadeo, assegna nel 1266 a Giacomo, abate di S. Croce, vari possedimenti, compresi quelli situati a Montecosaro. 87 ACSE, Archivio segreto, cassa 5, n.4, pergamena del 12 aprile 1266; nomina del procuratore per le trattative con Chiaravalle di Fiastra; compaiono come testi “Nicolao Joannis Einoci, Marutio Alberti de Civita Nova, Gentili Einoci de Monte Causario”. L’abbazia di S. Croce del Chienti nei secoli IX-XIII cit., p. 281, anno 1280; Bonguadagno, abate di S. Croce, concede in enfiteusi 6 moggi di terra e l’atto è sottoscritto, come teste, da “Andriolo de Monte Cosaro”.

storiche e artistiche. Invito tutti quelli che avranno la pazienza di leggere queste pagine a cercare in mezzo ai campi coltivati la chiesa di Santa Croce; potranno ammirare le sue linee eleganti e sostenere di fatto l’azione dei volenterosi che si stanno battendo per il suo recupero, prima che qualche malaugurato crollo, tutt’altro che improbabile, cancelli questa più che millenaria presenza. MONTECOSARO NEL TRECENTO

Con il progredire degli anni aumentano le notizie di cui disponiamo, grazie anche all’opera di alcuni eruditi dei secoli scorsi che disponevano anche di documenti ora introvabili; uno dei maggiori fu il maceratese Pompeo Compagnoni che nel Seicento ha frequentato l’archivio di Montecosaro e ne ha trascritto e pubblicato alcuni documenti poi andate disperse. Una fonte preziosa e inedita è rappresentata dalle pergamene del palio di Fermo, di cui oltre 40 sono quelle relative alla partecipazione del comune di Montecosaro.

Grazie a tutto questo materiale potremo seguire gli avvenimenti con una certa continuità pur nella mutevolezza degli attori che si alternano velocemente sulla scena. Cercherò di seguire più da vicino le vicende di Montecosaro con particolare riguardo alla vita del comune, presentando anche fatti minori e inediti.

Vicende comunali prima dell’Albornoz

L’inizio del secolo non presenta un quadro molto diverso da quello di cento anni prima con ripetuti scontri tra i diversi comuni della regione e moti di ribellione alla Chiesa, causati anche dal malgoverno dei rettori locali. In questa situazione non era difficile delinquere, ma non era difficile neanche ottenere il perdono; è quello che successe nel 1301 al comune di Montecosaro che ottenne clemenza dal legato della Marca per la negligenza mostrata nel controllo del proprio territorio, mentre la curia si affannava nella ricerca di due banditi88.

Tra luglio 1304 e giugno 1305 si ebbe un altro lungo periodo di sede vacante, e come era già successo nel 1292 i comuni ne approfittano per regolare vecchie pendenze; Fermo fu tra i più intraprendenti e venne spalleggiato da molti altri comuni, tra i quali non poteva mancare Montecosaro.

Nell’ottobre 1304 i Fermani attaccarono S. Ginesio e “taglian vigne, olive, guastan molini, ma non si accostarono entro un miglio dalle mura”, come ci riferisce una cronaca del Cinquecento; si riproposero così situazioni già viste e le pesanti conseguenze sperimentate dodici anni prima. Oltre alla condanna Montecosaro subì una multa di ben 5.000 marche d’argento89. 88 PM, pergamena n.13, anno 1301; assoluzione del giudice della Marca. 89 M. SEVERINI, Istoria della terra di S. Ginesio della Marca (dall’omonimo manoscritto inedito delle “Antichità Picene”), Ripatransone 1994, vol.XXXIV, p. 47; nell’ottobre del 1304 oltre che da Montecosaro Fermo era fiancheggiata da Ascoli, S. Severino, S. Elpidio, Civitanova, Monte Santo, Montolmo, Montelupone, Santa Vittoria, Ripatransone, S. Angelo, Monterubbiano, Amandola e Monte S. Pietro. Nel maggio successivo i Fermani tornarono nuovamente all’attaccarono. Sullo stesso argomento vedi M.

LEOPARDI, Annali di Recanati, Varese 1945, p. 47.

Anche questa volta è molto probabile che la somma pagata sia stata minore, dal momento che l’anno successivo il legato pontificio convocò a Montolmo il parlamento dei comuni delle Marche, con il dichiarato intento di comporre ogni controversia in atto; intervennero una settantina di delegazioni e Montecosaro era presente con il vicario del comune, Ranuccio di Giovanni, e con il sindaco Tommaso Attone Birrigotti. Solo 32 comuni, a cui se ne aggiunsero altri 12 nei tre mesi successivi, firmarono il protocollo d’intesa proposto; le forti pressioni esercitate dall’alto non ebbero l’effetto voluto sugli altri comuni tra i quali annoveriamo Ascoli, Fermo, S. Giusto, Montelupone, Monte Santo, Civitanova e Montecosaro90. La cosa potrebbe essere costata cara al comune e negli anni successivi fu costretto a contrarre ripetuti e ingenti mutui, prima con cinque uomini di Fermo e poi con un nutrito gruppo di ebrei, sempre di Fermo.

In quegli anni qualche cittadino si stava facendo apprezzare al di fuori delle proprie mura, come maestro Berardo di Montecosaro, massaro di Penna; è lui che il 25 agosto 1306 paga diverse somme “ai nobili di esso luogo per quietarli di tutte le varie loro pretenzioni, che affacciavano per varj titoli”91.

Nel frattempo si andava ricostituendo la vecchia lega ghibellina e ne fecero le spese alcuni comuni fedeli alla Chiesa, come Iesi e Macerata. Ciò provocò l’intervento diretto del papa che il 21 giugno 1310, da Avignone lanciò scomuniche e interdetti contro i 18 comuni della lega; com’era naturale Clemente V invocava forti condanne pecuniarie, perché nessuno si potesse gloriare di tanta audacia, come recita la solita formula. Montecosaro era uno dei destinatari degli anatemi papali tanto che nel Seicento conservava ancora questa bolla con l’elenco completo dei comuni ribelli; per nostra fortuna essa venne trascritta quasi per intero dal Compagnoni, visto che poi è andata dispersa al pari di altre92. Nel dicembre dello stesso anno si riunì il consiglio generale di Montecosaro che nominò tre sindaci per contrarre un mutuo di 20 libbre con maestro Mero di Monturano, massaro del comune, e pagare la multa inflitta qualche mese prima dal legato pontificio93.

L’appoggio richiesto al comune per la spedizione contro S. Severino e altri ribelli della Chiesa fu all’origine di una nuova multa, questa volta molto più salata94. C’erano poi da pagare gli avvocati che difendevano il comune in queste e in altre cause celebrate presso la curia95.

Nel 1318, forse al termine di un periodo di turbolenze, si ha notizia di una nuova partecipazione di Montecosaro al palio di Fermo; il 14 agosto, su mandato di Tommaso

90 L. ZDEKAUER, Gli atti del parlamento di Montolmo, Roma 1915. PM, pergamena n.14, anno 1308, ricevuta di pagamento. 91 G. COLUCCI, Antichità picene, vol.30, Fermo 1796, p. 7, e In pellegrinaggio lungo le antiche strade di Civitanova e Montecosaro cit., p. 48. 92 La reggia picena cit., p. 167, anno 1310, bolla di Clemente V; partecipano alla lega ghibellina le città di Ancona, Senigallia, Numana, Ascoli, Ripatransone, Monte Rubbiano, S. Elpidio, Monte Fiore, Monte Granaro, S.Giusto, Civitanova, Monte Cosaro, Morrovalle, Monte Lupone, Monte Santo, Castelfidardo, Offagana e Monte Santa Maria in Giorgio. La bolla è stata trascritta dal Compagnoni “in Tabular. M. Causarii”, come è stampato a margine della pagina. 93 PM, pergamena n.15, anno 1310; consiglio convocato da Francesco Lambertini di Falerone, vicario del podestà Pietro di Bartolomeo di Fermo. 94 PM, pergamena n.16, 22 dicembre 1311; ricevuta del tesoriere della Marca. 95 ) PM, pergamena n.17, 17 gennaio 1314; quietanza di Tristano di Montegranaro.

di Monterubbiano, giudice e vicario del comune, si riunì il consiglio generale e speciale per eleggere la delegazione da inviare il giorno successivo a Fermo96.

Tre giorni dopo annotiamo la promessa di due montecosaresi di consegnare 30 salme di grano ad un ebreo, che le aveva già pagate 50 soldi ognuna; siamo evidentemente in presenza di un finanziamento più che di una vendita97.

La tranquillità, se mai ce ne fu, non durò a lungo per Montecosaro, anche se era rientrato tra i comuni fedeli alla Chiesa; subì infatti insieme ad altri comuni l’occupazione dei ghibellini lamentando ancora una volta morti e devastazioni, come sappiamo dal processo subito dai rivoltosi nel 132098.

In questo trambusto i vecchi signori, orfani dei passati privilegi, si stavano preparando a rientrare in gioco, come avvenne di li a poco un po’ dovunque. Vedremo più avanti che in questi anni si aggiravano intorno a Montecosaro due potenti signori come Baccalario e Mercenario di Monteverde, che potrebbero non essere stati solo spettatori in alcuni dei fatti narrati.

Per inquadrare un attimo la situazione aggiungo che il castello di Monteverde era posto tra Falerone e Montegiorgio, e che Mercenario fu signore e tiranno di Fermo a partire dal 1331.

Non desta meraviglia ritrovare, nel 1328, Montecosaro nel lungo elenco di castelli e città recuperati e custoditi dal rettore della Marca. Nel dicembre di quell’anno venne pagato lo stipendio a quanti si erano impegnati nell’opera di restaurazione, come Bartolo da Prato e Cola da Morrovalle che avevano fornito per tre mesi 30 uomini per la custodia del castello di Montecosaro, oppure come Alatrino e Domenico di Montecosaro che avevano prestato 4 cavalli e 3 ronzini “nella spedizione fatta contro gli osimani ribelli”.

Chi era questo signore cacciato da Montecosaro ? Secondo una testimonianza del 1341 l’indiziato dovrebbe essere il maceratese Fredo Mulucci, ma questi non può essere se nell’estate del 1328 i Mulucci erano impegnati a recuperare varie città a fianco dello rettore della Marca, e per tale prestazione lo stesso Fredo ottenne 43 fiorini99.

La situazione è tutt’altro che chiara, al di là anche delle testimonianze che potrebbero essere di parte; altri indiziati potrebbero essere i signori di Monteverde, e la cosa non sarebbe in contrasto con quanto vedremo più avanti.

Nell’agosto del 1329 il parlamento di Montecosaro venne convocato per eleggere la sua rappresentanza per il palio di Fermo; la convocazione avvenne ad opera di Nallo di Macerata, vicario del podestà che era proprio Fredo Mulucci. E’ chiaro che appena liberato da un tiranno, Montecosaro venne affidato alle cure di Fredo Mulucci, che non dovrebbe essere stato da meno100. Intanto, per una questione tutto sommato marginale come quella del palio, si scomoda il parlamento generale, per cui dobbiamo pensare che il

96 ASF, rotolo n.1786 (pergamene del palio), anno 1318; la prima partecipazione è attestata nel 1300; vedi anche testo e nota 122. 97 PM, pergamena n.18, anno 1318; promessa di consegnare 30 salme di grano. 98 ASV, Reg.Vat.71, e p. 22, ottobre 1320, “castrum Montiscausarii occupando a rebellibus”. Ancona nel basso medioevo cit., pp. 176 e 225. 99 Codex diplomaticus cit., vol.I, pp. 585 e seguenti. 100 ASF, rotolo n.1786 (pergamene del palio), anno 1329; “congregato plublico et generali parlamento comunis et hominum Castri Montis Causarii ad sonum campane vocem preconis in palatio dicti comunis ut moris est et mandato nobilis et sapientis viri d.ni Nalli de Macerata vicarii mangnifici et potentis Domicelli Fredi de Mulutiis honorabilis potestatis dicti Castri”.

consiglio comunale fosse stato esautorato al pari di altre magistrature. La “custodia” del Mulucci deve essersi trasformata velocemente in una dominazione vera e propria.

Il parlamento si riunì nuovamente nel 1333 e ancora per una questione di ordinaria amministrazione come poteva essere la nomina di un sindaco per pagare la seconda rata di una taglia di 79 fiorini. La convocazione del parlamento avvenne ad opera di Tommaso da Offida, “giudice e vicario del castello di Montecosaro”, e la deliberazione fu assunta con il consenso dei nove signori di credenza, che sembrano agire all’unisono con lo stesso vicario. Non è chiaro chi siano e chi rappresentino questi nove signori, forse erano proprio i componenti di uno dei primi consigli di credenza (di cui però non si hanno altre notizie per tutto il secolo), con tre rappresentanti per ogni terziere101.

L’anno successivo Montecosaro intervenne, con altri comuni, al fianco del cardinale legato Bertrando dal Poggetto per reprimere i moti di Bologna; la cosa riuscì particolarmente gradita al papa che da Avignone si premurò di scrivere a tutti i comuni per ringraziarli dell’aiuto prestato102. Non c’è dubbio che il bel gesto, suggellato dalle belle parole di Giovanni XXII, sia stato un ottimo tonificante per la varie dominazioni signorili, compresa quella dei Mulucci.

Guardando un attimo i fatti interni del comune, c’è da dire che in quegli anni si era aperta una controversia tra il comune di Civitanova e un certo Giovanni di Giacomello di Montecosaro, a causa dell’acquisto da parte sua di alcuni beni in territorio di Civitanova. La cosa era molto delicata ed era regolata dagli statuti di Civitanova che riservavano al comune il diritto di prelazione; di questo doveva essere informato anche Giovanni di Giacomello dal momento che gli statuti di Civitanova erano stati pubblicati e banditi anche a Montecosaro, come ci informa lo stesso documento. Questa speciale procedura rappresenta un primo passo verso rapporti più tranquilli tra i due comuni, chiaramente stanchi di litigare anche per piccole questioni103.

Ai fatti di cui abbiamo conoscenza più diretta possiamo aggiungere quelli desunti dall’inchiesta condotta nel giugno 1341 dal commissario di Benedetto XII sulle condizioni della Marca. Lo stesso rettore, fiancheggiato da 480 cavalieri, quell’anno aveva riconquistato alla Chiesa molti centri tra cui Montecosaro, Montelupone, Montesanto e Civitanova104.

In una testimonianza del 15 giugno 1341 il tesoriere della provincia, l’arcidiacono Bozio da Montelupone e gli avvocati Francesco di Matelica, Accursio da Tolentino,

101 PM, pergamena n.20, anno 1333; parlamento generale; non c’è traccia dell’ipotetico signore che dovrebbe essere ancora il Mulucci. 102 La reggia picena cit., p. 195; il Compagnoni riporta un estratto della lettera, una volta nell’archivio di Montecosaro. 103 ACC, Bullarium, f.51, B31, 12 agosto 1337; sentenza del rettore della Marca. Dopo i gravi fatti del Duecento e le continue dispute di confine, i due comuni furono indotti forse a uniformare le norme che nei propri statuti regolavano alcune materie; è probabile che gli eventuali aggiornamenti degli statuti fossero comunicati all’altro comune, che in pratica era chiamato a dare l’assenso adeguando a sua volta i propri statuti. Questa procedura sarà meglio definita nella pace di Monte S. Andrea che nel 1487 porrà fine a una lunga vertenza di confini (vedi Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana oggi Civitanova cit., p. 344). Il progressivo riavvicinamento tra i due comuni sarà tale che nel 1408 ser Venanzio di Cola di Civitanova venga eletto podestà di Montecosaro (ASF,rotolo n.1787, pergamene del palio). 104 Codex diplomaticus cit., vol.II, p. 115; il rettore della Marca riconquista alla Chiesa “Terre Montis Luponis, Montis Causarii, Montissancti et Civitani, que per tirampnos erant occupate, nunc reguntur ad populum in pace, et in ipsis fuerunt reintroducti extitii, et dicte terre tenentur per Ecclesia.”

Francesco da Montelupone, Diotisalvi da Fermo e Archossino da Rocca, tutti residenti a Macerata, affermarono sotto giuramento che: - Mercenario di Monteverde aveva tenuto come tiranno, per 9 anni, Fermo, S. Elpidio, Montegranaro e altri centri del contado con l’aiuto di signorotti locali; - i tiranni delle varie città erano legati tra loro, anche segretamente, da un patto di mutuo soccorso; - lo stesso Fredo Mulucci aveva tenuto come tiranno, per 15 anni e più, le città di Macerata, Morrovalle e Montecosaro105. Come si vede questi testimoni, benché fossero molto vicini al teatro degli avvenimenti, rendono una testimonianza che è in contrasto con alcuni dei fatti analizzati; forse erano interessati in qualche modo a delineare un quadro a tinte fosche, magari per compiacere il commissario pontificio, o per rifarsi di eventuali torti subiti.

Notiamo che l’anno precedente l’avvocato Francesco da Matelica, uno dei cinque interrogati dal commissario del papa, aveva sostenuto in curia alcune cause per conto del comune di Montecosaro, e il 5 settembre 1340 aveva rilasciato una quietanza di 3 libbre di moneta corrente per il salario pagatogli dal comune106.

Cerchiamo ora di entrare un po’ nella vita di tutti i giorni a Montecosaro leggendo il lungo e articolato testamento con le ultime volontà di Pietro Festa di Caldarola. Per inquadrare il personaggio diciamo che un recente pellegrinaggio a Santiago de Compostela, sulla tomba dell’apostolo Giacomo, in Galizia, lo aveva indotto a dettare un nuovo testamento, annullando quello fatto prima di partire. Innanzitutto lascia un cero da dieci soldi alle chiese di S. Lorenzo, S. Martino, S. Maria di Chienti e, a Caldarola, a quelle di S. Martino e S. Giovanni; si ricorda pure del pievano di S. Lorenzo, del vescovo di Fermo, dei frati, dei canonici e anche dei chierici. Lascia 6 denari ad ognuno dei circa 150 fumanti o famiglie di Caldarola, a cui era rimasto molto legato; 12 denari vanno a diversi montecosaresi e altrettanti a due civitanovesi.

Ci parla poi della moglie Simonetta, della figlia di lei, Firmana, e della dote della propria figlia Giovanna; è da sottolineare la timida presenza di queste tre donne in un mondo che a giudicare dai documenti pervenutici sembra popolato solo da uomini, e nel pieno delle proprie facoltà. Leggiamo anche di panni di lino sottile e di coperte doppie, di orzo e fava, di vino puro e di acquaticcio, in uso da sempre nella zona107.

105 Codex diplomaticus cit., vol.II, p. 116 e seguenti. “Mercenarius de Monteviridi districtus Firmani per tirannidem tenebat occupatam civitatem Firmanam cum suo districtu toto, quam tenuerat per VIIII annos et plus, et castra seu terras Montis Rubiani, Cosingani, Montisfortini, Montisflorum, Offide, S. Elpidii, Montisgranarii. ... Alii vero infrascripti sub velamine fidelitatis Ecclesie asserebant se infrascriptas terras tenere, tamen revera ligati erant cum omnibus aliis tirannis predictis, saltem occulte in tractatibus et confederationibus pro defendendo se mutuo in eorum tiranniis, dantes sibi adinvicem occulta subsidia. ... Fredus de Molutiis de Macerata tenebat per tirannidem civitatem Macerate et castrum Montis Causarii et castrum Murri, et dictam civitatem tenuerat inter se et dominum Molutium eius patruum per XV. annos et plus. Nuziarellus de Molutiis favebat et adherebat dicto Fedro. Vannes de Molutiis filius dicti domini Molutii potentiam et maioritatem aliquam in dicta civitate habebat, licet non esset in tota concordia cum Fedro”. 106 PM, pergamena n.21, anno 1340 (pubblicata come XXII documento); ricevuta dell’avvocato del commune. 107 PM, pergamena n.22, anno 1341 (pubblicata come XXIII documento); testamento di Pietro Festa di Caldarola; vi compaiono Gentile pievano di S. Lorenzo, Pietro de Caule, Monte Caule e la contrada Monte S. Pietro. Per Caldarola ipotizzo una dimensione molto vicina a quella di Belforte, che contava 160 fumanti contro i 300 di Montecosaro.

Abbandoniamo questo sereno quadretto familiare e torniamo alle vicende del comune, piuttosto oscure in quegli anni, appena illuminate da qualche spunto che possiamo desumere da una pergamena del 1347. Nel dicembre di quell’anno Pietro di Marco di Montegiorgio, vicario di Lambertuccio di Tebaldo di Montelupone, podestà, convocò il consiglio generale e speciale dei 150 (un parlamento viste le dimensioni del paese); l’argomento sembra abbastanza scottante perché fu deciso di revocare tutti gli avvocati che patrocinavano il comune presso la curia generale. Il mandato venne affidato a Francesco Cervellini che in poco tempo sbrigò la faccenda; il 17 gennaio 1348 saldò con 4 libbre l’avvocato Diotisalvi da Fermo e subito dopo procedette alla sua revoca; stesso trattamento per Francesco Giacomo da Montelupone; il giorno dopo toccò agli avvocati Domenico da Amandola e Giovanni Aldovrandini da Tolentino, soggetti alla sola revoca, forse perché erano stati già saldati oppure non avevano ancora operato affatto.

Le somme pagate non ci testimoniano una intensa attività legale, almeno nei mesi precedenti, e quindi questo azzeramento di nomine non dovrebbe essere letto come un’azione per sgravare le casse comunali; può essere stato invece un regolamento di conti caldeggiato dai Mulucci, o dai Monteverde, oggetto di pesanti apprezzamenti nel 1341 da parte di Francesco da Montelupone, di Diotisalvi da Fermo e di Francesco da Matelica.

Nell’agosto 1348 si rinnovò la partecipazione al palio di Fermo, che forse si era interrotta per 19 anni; la situazione è un po’ confusa perché, accanto al consiglio dei 150, da un lato abbiamo per la prima volta i priori, ma dall’altro troviamo Paolino di Montesanto, vicario e rettore, che sembra proprio l’uomo forte della situazione108.

Ho la sensazione che i Monteverde o i Mulucci riuscissero ancora a condizionare in qualche maniera la vita di Montecosaro, ammesso che non ne fossero i signori effettivi.

108 PM, pergamena n.23; sono in effetti 2 pergamene cucite insieme. La prima, del giorno 11 dicembre 1347; “Congregato consilio generale et spetiale centum et quinquaginta de populo comunis et hominum terre Montis Causarii in palatio dicti comunis ut moris est ad sonum campane voceque preconis de mandato sapientis et discreti viri domini Petri domini Marci de Monte Sancto Marie in Georgio iudice et vicario terre Montis Causarii per manificum et potentem virum Lambertutium domini Thobaldi de Montelupone honorabilem potestatem dicte terre”; viene dato mandato a Francesco Cervellini di revocare tutti gli avvocati del comune; registra il tutto “Symonutius Pichyni de Montelupone publicus notarius et nunc notarius et offitialis terre Montis Causarii”. La seconda pergamena contiene 5 atti: il 17 gennaio 1348 Francesco Cervellini, sulla piazza del comune di Macerata, salda Diotisalvi da Fermo, e poi revoca il suo mandato alla presenza di 7 testimoni; lo stesso giorno, nella pubblica strada, salda Francesco Giacomo da Montelupone alla presenza di 8 testimoni; il giorno dopo, in casa dello stesso Francesco, revoca il suo mandato alla presenza di 3 testimoni. Per ultimo, sempre il 18 gennaio, nella piazza del comune ai piedi delle scale dello stesso palazzo comunale, revoca il mandato di Domenico di Amandola e Giovanni Aldrovandini da Tolentino alla presenza di 3 testimoni. I 5 atti sono redatti dal notaio “Vannis M. Laurenti” di Montecosaro. Francesco da Matelica era stato liquidato nel 1340 e non compare tra gli avvocati revocati; forse proprio a lui erano subentrati Domenico da Amandola e Giovanni Aldrovandini da Tolentino. La conclusione sbrigativa della vicenda, gli attori coinvolti e le modalità adottate ci confermano che non dovrebbe essersi trattato di una vicenda molto tranquilla; la presenza di un vicario di Montegiorgio getta qualche sospetto in più sui Monteverde, magari su qualche figlio di Mercenario o di Baccalario. Il 14 agosto 1348 (ASF, rotolo n.1786, pergamene del palio) si riunì ancora il consiglio dei 150; “congregato et condunato consilio dominorum priorum et centun et quinquaginta terre Montis Causarii de mandato providi viri ser Paulini de Monte Sancto, vicarii et rectoris dicti castri, et dictum consilium totum una cum sensu et vollutate dicti vicario et rectoris fecerunt, constituerunt et ordinaverunt discretum virum Angelutium ...”; il notaio è “Ranutius Iohannis Floris de Monte Causario”.

Montecosaro al tempo dell’Albornoz

Furono, quelli, anni difficili per Montecosaro e per il resto della regione flagellata dalle avversità naturali e dalle scorribande delle compagnie di ventura. Il nostro comune era anche nelle mire di signori di rango come Galeotto Malatesta e Gentile da Mogliano; quest’ultimo forse lo tenne per un breve periodo e di certo lo chiese in feudo, ma nutilmente vista la rapidità con cui le cose stavano mutando per tutti109.

La svolta si ebbe nel 1353 con l’arrivo del cardinale Egidio Albornoz che raffreddò tutti i bollenti spiriti e impose rapidamente l’ordine nella regione. Ciononostante Montecosaro trovò il modo di commettere eccessi, delitti e malefici per i quali fu chiamato in tribunale dal rettore della Marca Blascho Ferrando de Belviso; la cosa fu indubbiamente di una certa gravità se il 4 gennaio 1356 il podestà Pietro Caetani convocò un pubblico e generale parlamento che elesse Giovanni Andrea Fantolini di Montecosaro come procuratore per la causa in questione110.

Da un documento che analizzeremo più avanti sappiamo che Innocenzo VI confermò nuovamente i privilegi concessi da papa Nicola IV nel 1290 “super electionem officialium et iurisditionem”; una data possibile potrebbe essere proprio il 1356, quando la decisione del parlamento potrebbe aver favorito il ristabilirsi di buoni rapporti con la Chiesa.

Questo potrebbe trovare una conferma indiretta nel fatto che nell’agosto successivo in consiglio comunale compaiono i 4 priori, dei quali invece non si faceva cenno nel parlamento di gennaio111. Si trattava probabilmente di un ripristino di libertà comunali susseguente ad un periodo di dominazione di qualche signore o tiranno; i pretendenti non mancavano, da Gentile da Mogliano a Galeotto Malatesta, dai Mulucci ai Monteverde.

Un significativo passo verso la normalizzazione di tutta la regione si ebbe nel 1357 quando il cardinale Egidio Albornoz convocò a Fano un parlamento di tutti i comuni delle Marche e fece approvare le “Costituzioni della Santa Madre Chiesa”, più note come Costituzioni egidane. In esse erano contenute nuove e più complete norme, a cui tutti i comuni dovevano attenersi, per una ordinata vita civile; molti statuti comunali furono rielaborati e ordinati per assumere una struttura più organica e recepire norme più generali e meno legate alle particolarità del singolo comune.

109 Il 29 agosto 1350 Galeotto Malatesta si recò con tre compagnie all’acquisto di Montecchio, “sorte seguita inappresso da Montecosaro e Monterubbiano, che ritenuti erano da Gentil di Mogliano (Memorie istoriche della città di Fano cit., vol.I, p. 275). Nel 1353 Montecosaro, Montelupone ed altri comuni sono soggetti alle scorrerie della compagnia di ventura di Fra Moriale (A. DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, Ascoli Piceno 1988, vol.II, p. 332); il suo vero nome era in realtà “Giovanni di Montreal, già appartenente all’ordine dei Templari” (A. MERIGGI, Storia di Treia, Tolentino 1984, p. 140). Nel 1354 papa Innocenzo IV concesse in feudo a Gentile da Mogliano i castelli di Civitanova, Montecosaro e Montefortino (Codex diplomaticus cit., vol.II, p. 277),ma la cosa di fatto non andò in porto. 110 PM, pergamena n.24, anno 1356, parlamento generale. 111 ASF, rotolo n.1786 (pergamene del palio), anno 1356; al consiglio comunale del 13 agosto partecipano “Colutii magistri Jacobini, Thome magistri Raynaldutii, Dominici Alexandri et Grimaldi Johannis Jacobi priores”. I priori sono attestati 1348 da una pergamena del 1348 (vedi nota 108), ma questa è la prima volta che abbiamo anche i loro nomi. Il pontificato di Innocenzo VI va dal 18 dicembre 1352 al 12 settembre 1362.

Le Costituzioni egidiane comprendono anche l’elenco dei comuni marchigiani, raggruppati in 5 classi di merito, come diremmo oggi: Fermo è inserita nella prima, quella delle “civitates maiores”, Macerata nella seconda, Civitanova nella terza, Montecosaro nella quarta e Numana nella quinta ed ultima dove sono elencate le “civitates minores”.

Ingenti risorse vennero impiegate per rivedere il sistema difensivo dei vari centri abitati; furono ampliate e rinforzate le mura e le porte d’accesso, innalzate rocche nei punti più elevati e inaccessibili, molto utili anche per scoprire movimenti sospetti col massimo anticipo possibile. A quegli anni si fanno risalire anche le mura di Montecosaro, le tre porte di accesso, il castello e il torrione del Cassero112.

Il riordino amministrativo messo in atto dall’Albornoz si basava su una buona conoscenza della realtà marchigiana; sotto questo aspetto, di una certa utilità fu il numero dei fumanti, da tempo adottato in ogni comune come base per la tassa famiglia dell’epoca. Un quadro sintetico dei comuni marchigiani ci viene da un documento dell’epoca che va sotto il nome di “Descriptio Marchiae”; per ogni centro presenta, oltre al numero dei fumanti, le tasse da versare ogni anno alla camera apostolica e altri obblighi che gravavano sul comune. Su queste basi possiamo fare una stima di massima degli abitanti dei vari comuni marchigiani, e limitandoci alla nostra zona abbiamo all’incirca 1.200 persone a Montecosaro, 1.800 a Montelupone, 2.500 a Morrovalle e 3.500 a Civitanova113.

Per la loro posizione strategica Montecosaro e altri 8 comuni costituivano una rete di controllo e di difesa per tutta la Marca, soprattutto per l’avvistamento delle compagnie di ventura; in caso di pericolo il torriere del castello di Montecosaro doveva accendere un grande fuoco e mandare segnalazioni a quelli di Fermo e Recanati, a loro volta collegati con Camerino e San Severino114.

112 Architettura fortificata nelle Marche, a cura dell’ Istituto Italiano dei Castelli, Milano 1985, p. 222, didascalie e foto 126-128. 113 Codex diplomaticus cit., vol.II, p. 343, Descriptio Marchiae. Confrontando i fumanti con le varie imposizioni che gravavano ogni anno su 8 comuni della zona possiamo costruire la tabella che segue e stimare la consistenza numerica dei vari centri abitati (tallia, censo e affitto sono espressi in fiorini). M.Cosaro M.Lupone Civitanova M.Granaro Morro S.Giusto M.Santo S.Elpidio tallia 300 500 300 400 700 1400 500 1.500 censo 13 31 34 ? 55 ? 34 45 affitto 2 4 9 7 18 ? ? 23 fumanti 300 900 500 400 1.100 1.000 500 1.200 abit. 1.200 3.600 2.000 1.600 4.400 4.000 2.000 4.800 abit. 1.200 2.500 1.800 1.500 3.500 4.500 2.000 5.000

La prima stima degli abitanti è fatta semplicemente ipotizzando 4 persone per gni famiglia o fumante; ho la sensazione che su Monte Santo si sia calcata la mano, mentre ci sia stato un occhio di riguardo per Civitanova e soprattutto per Morro. C’è però da osservare che i fumanti sono desunti da “antiquum Registrum Camere Romane ecclesie” e quindi non erano aggiornati; i pesi imposti potrebbero tornare sostanzialmente in equilibrio se assumiamo che gli abitanti effettivi fossero allora quelli riportati nell’ultima riga e calcolati introducendo un piccolo correttivo sulla base dell’affitto, del censo e soprattutto della tallia pagata all’epoca. 114 A. GRASSI-COLUZI, Annali di Montecchio, Macerata 1905, p. 97; lettera del giorno 8 maggio 1366 con cui il rettore della Marca da istruzioni operative nel caso la “Compagnia di S. Giorgio” entrasse nella Marca.

Montecosaro sotto i Varano

Alla morte del cardinale Albornoz le turbolenze ripresero con vigore, favorite anche dalle lotte che si scatenarono tra i sostenitori del papa e quelli dell’antipapa; negli anni intorno al 1376 Montecosaro entrò nella sfera d’influenza dei Varano di Camerino.

Formalmente tutto continuava come prima: c’era il confaloniere, c’erano i priori, il consiglio comunale sembrava funzionare regolarmente, ma il podestà veniva sempre da una città fedele ai signori di Camerino; Rodolfo Varano compare come signore di Montecosaro nelle carte del 1376 e del 1384115. Sotto la sua guida il comune venne schierato dalla parte dell’antipapa Clemente VII, e si macchiò di delitti gravissimi agli occhi del papa: lesa maestà, ribellione ed eresia.

Nell’ottobre 1386 Montecosaro si solleva cacciando i Varano e invocando il cardinale Andrea Bontempi, legato della Marca116; questi concesse il suo perdono e decretò: - l’assoluzione per tutti i delitti commessi sotto la dominazione tirannica di Rodolfo, Giovanni, Gentile e Berardo Varano; - la reintegrazione del comune negli onori e nei privilegi concessi dal papa Nicola IV e poi confermati da Innocenzo VI “super electionem officialium et iurisdictionem”; - la libertà di costruire mulini e di difenderli eventualmente con una torre o un fortilizio. Per quel che riguarda la parte economica, il cardinale chiedeva il pagamento del censo, dell’affitto e della tallia dovuti per tutto il 1386. Il documento si chiude con i nomi dei garanti delle promesse fatte, circa 180 persone, tra cui troviamo Monaldo, pievano di S. Lorenzo, Francesco, rettore dell’altare di S. Marone nella stessa pieve, e frate Antonio, priore della chiesa di S. Martino dell’ordine degli Eremitani117.

Il ripristino di tutte le libertà comunali ci conferma come sotto i Varano il comune avesse perso tali facoltà; analoga parentesi, come si vede, deve essersi verificata sotto Innocenzo VI, prima dell’arrivo del cardinale Albornoz.

Quanto al mulino c’è da osservare che due anni prima, nel 1385, il comune era riuscito ad avere il mulino di S. Maria di Chienti, per cui la facoltà di costruire e difendere liberamente propri mulini era molto significativa e permetteva di guardare al futuro con una certa tranquillità; analoghe concessioni furono fatte a Morrovalle, compresa quella “di fabbricare il molino in fortezza”. Ogni mulino necessitava di acqua con continuità, anche in periodi di magra del Chienti, e ben presto sorsero dispute con

115 ASF, rotolo n.1786 (pergamene del palio), anni dal 1376 al 1384. 116 Cronache della città di Fermo cit., p. 14, anno 1386; “mensis octobris, Macerate fecit populum, et primo dixit velle stare ad statum populare et eligere dominum Antonium domini Aceti in potestatem, et demum, istigati alio spiritu, vocaverunt dominum Cardinalem. Eodem anno et die dicti mensis octobris, terra Murri, Vallium, Civitanove, et Montis Causarii similiter fecerunt”. 117 PM, pergamena n.26, 12 novembre 1386, assoluzione Bontempi; le persone citate in fondo all’atto sono chiamate a garantire gli impegni presi, e forse in precedenza avevano firmato una domanda di grazia; potrebbero essere tutti i capi famiglia di Montecosaro con l’aggiunta dei rappresentanti del clero. A Civitanova la resistenza della fazione dell’antipapa dovrebbe essere stata maggiore e l’assoluzione venne concessa solo il 5 dicembre 1387 (ACC, Bullarium, f.54, B34).

Morrovalle, che sfociarono in una vertenza vera e propria “sopra la chiusa e vallato”, risolta nel 1392 con una “sentenza contro M.Cosaro”118.

La restaurazione dell’autorità pontificia non durò a lungo e dopo le cose tornarono al punto di partenza. La regione era percorsa nuovamente da compagnie di ventura, tra le quali faceva spicco quella di Boldrino da Panicale; grazie all’intervento del legato pontificio, nel 1390 si giunse a un trattato di pace tra lo stesso Boldrino, il comune di Ancona e diversi altri comuni tra i quali lo stesso Montecosaro119.

Il comune sotto sotto tornò a parteggiare per l’antipapa, come ci lascia intuire una pergamena del luglio 1396; in quel giorno si riunì il parlamento per eleggere come suoi inviati speciali Monaldo, pievano di S. Lorenzo, Pace di Burgarino e Latino di Nicola perché si presentassero da Angelo Rainaldi, vescovo di Recanati e commissario di Bonifacio IX, per giurare fedeltà al papa, impegnandosi contemporaneamente a non prestare aiuto in alcun modo all’antipapa Urbano VI120.

La situazione rimase molto labile anche nei decenni successivi e sul castello del Cassero si avvicendarono signori come Ludovico Migliorati e i Malatesta. Nel 1407 la fedeltà a un signore di parte ghibellina costò a Montecosaro, ancora una volta, la resa alle preponderanti forze della Chiesa. Ce ne dà notizia il Compagnoni che riporta una lettera con cui il rettore della Marca Benedetto di Montefeltro, respinto dai montecosaresi il 13 agosto 1407, scrisse immediatamente ai maceratesi chiedendo loro di partire armati di notte, uno per casa, per arrivare a Montecosaro la mattina del 14 e dare, insieme alle forze al suo seguito, l’assalto a quel difficile castello: Questa mattina ho preso Montegranaro, ma questi di Montecosaro sono protervi. Perciò vi comandiamo che veniate subito ... perché voglio vincere questi protervi.

Anche i Varano, c’era da aspettarselo, ritornarono per brevi periodi a Montecosaro, nel 1418 e nel 1430; in quest’ultima occasione Berardo di Rodolfo di Camerino ebbe modo di portare a termine l’aggiornamento dell’antico volume degli statuti comunali121.

118 A. VOGEL, Documenti di divisione comuni della Marca (manoscritto 5C.III.C), Recanati, Biblioteca Benedettucci, Morrovalle (f.175-189), anni 1386 e 1392; il corsivo nel testo evidenzia le note del Vogel. L’Archivio comunale di Morrovalle, che non ho potuto consultare, dovrebbe custodire documenti sulla questione del mulino (li ha visti G. PAGNANI, L’archivio comunale di Morrovalle - dattiloscritto, Falconara 1963, p. 7); sul finire del XIV secolo vi fu una “grossa vertenza con il comune di Montecosaro a motivo di una presa d’acqua in territorio di Morrovalle per cui il comune vicino era tenuto a pagare 25 scudi annui”. 119 Die Seestadt Ancona im Spätmittelater cit., p. 404; riporta il testo integrale della pace di Ancona del 24 aprile 1390; oltre ad Ancona e Montecosaro sono coinvolte Recanati, Osimo, Macerata, Montesanto, Montelupone, Civitanova, Morrovalle, Montolmo, Montecchio ed altri centri; ulteriori notizie in Ancona nel basso medioevo cit., p. 209 e 243. 120 PM, pergamena n.27, parlamento del 29 luglio 1396; il coinvolgimento in prima persona del pievano attesta la fattiva collaborazione del comune, oltre che con gli Agostiniani, anche con la pieve di S. Lorenzo. In fondo alla pergamena, separati dall’atto, sono annotati 103 “fumanti”, tra i quali ritroviamo, spesso nello stesso ordine, moltissimi dei nomi presenti nell’assoluzione Bontempi del 1386, a parte gli ecclesiastici (vedi nota 117). 121 ACMC, Iura diversa infra Comunitates Montis Causarii et Civitatis Nove - 1446, f.30 e 31, anno 1430; contiene l’introduzione e la dedica del nuovo statuto “magnifici et excellentissimi domini BERARDI RODULFI DE CAMERINO protectoris, gubernatoris et defensoris dicte terre, pro Santa Romana Ecclesia Vicarii generalis “, la rubrica XXIII (“DE MODO PER RECTOREM SUPER PROPOSITIS ET REFORMATIONIBUS IN CONSILIIS ET PARLAMENTIS RETINENDO”) e l’approvazione del legato della Marca del 15 marzo 1430; lo statuto era diviso in 4 libri: I - DE OFFICIALIBUS ET EORUM OFFICIIS,

Palio di Fermo e magistrature comunali

Il comune mantenne sempre una stretta alleanza con Fermo, la città che era scesa più volte al suo fianco soprattutto contro Civitanova. Cittadini fermani erano stati chiamati spesso a rivestire la carica di podestà di Montecosaro e Fermo da secoli era la sede del vescovo, con tutto quello che ciò poteva comportare per la vita religiosa e civile.

A partire dal Duecento, se non prima, questo vincolo venne rinsaldato anno dopo anno in occasione del palio dell’Assunta. La prima testimonianza ci viene da una pergamena del 15 agosto 1300, nella quale i priori e il vescovo di Fermo ringraziano il comune di Montecosaro per il palio che il sindaco, secondo un’antica consuetudine, aveva offerto loro122.

In queste occasioni si riuniva il consiglio comunale e deliberava l’offerta di un buon palio di seta, incaricando il sindaco di portarlo personalmente a Fermo il giorno della festa. Egli rappresentava tutto ilcomune nel folto corteo che si snodava lungo le vie cittadine prima di concludersi in duomo; qui il palio veniva consegnato al vescovo e ai priori della città che poi, come si è appena visto, non si limitavano a un semplice ringraziamento verbale ma compilavano un vero e proprio atto formale, redatto da un notaio.

Analoga procedura seguivano i comuni di Monterubbiano, Montegiorgio, Ripatransone e Montesanto, anch’essi da secoli legati alla città di Fermo.

Per nostra fortuna ci sono pervenute decine di pergamene legate a questa solenne ricorrenza, e la maggior parte sono relative agli anni che vanno dal 1356 al 1395; i periodi privi di questi documenti si coniugano bene con quelli di maggiore turbolenza (1301-1317, 1319-1328, 1330-1347, 1349-1355), e la cosa non desta meraviglia visto che il palio era pur sempre una festa per Fermo e per i comuni che vi partecipavano123.

Grazie soprattutto a questi documenti abbiamo la possibilità di seguire con una certa continuità l’evoluzione delle magistrature comunali a Montecosaro, soprattutto nel periodo di maggior tranquillità seguito all’arrivo del cardinale Albornoz. Osserviamo così che: - in 6 occasioni, anziché il consiglio, viene convocato il parlamento; - nel 1347 e nel 1348 si riunisce il consiglio dei 150, nel 1360 quello dei 70 e nel 1368 quello dei 48; -nel 1348 compaiono per la prima volta i priori e nel 1356 conosciamo i loro nomi: Coluccio di maestro Giacomino, Tommaso di maestro Rainalduccio, Domenico di Alessandro e Grimaldo di Giangiacomo;

II - DE MALEFICIIS ET PENIS, III- DE CAUSIS CIVILIBUS, IV - DE VIIS PONTIBUS ET FONTIBUS ET ALIIS EXTRAORDINARIIS. Per la notizia tratta dal Compagnoni vedi La reggia picena cit., p. 282. 122 ASF, pergamena n. 1971, anno 1300, ricevuta per il palio al sindaco di Montecosaro. 123 ASF, Pergamene del palio; 29 sono contenute nel rotolo n.1786, 9 nel rotolo n.1787, una al n.1788 e un’altra al n.1312; sono coperti gli anni: 1318, 1329, 1348, 1356 -60, 1363-64, 1368 -74, 1376, 1380 -84, 1387-88, 1392 -1395, 1406, 1408, 1410 -12, 1417-18, 1431-32, 1454 e 1506.

- nel 1370 compare il gonfaloniere e l’anno successivo abbiamo anche il primo nome: Giovanni di Giacomino, affiancato dai priori Giacomo di Michele, Nicola di Paolo e Giannetto di Marino; - nel 1363 compare per la prima volta la dizione priori del popolo che ritorna negli anni 1393, 1394, 1406 e 1408; - negli anni 1380, 1382 e 1384, sotto i Varano, abbiamo lo stesso confaloniere (Lorenzo di Giovanni Giacomelli) e gli stessi priori (Vanni di Guglielmo, Nicola di Blasio e Filippo di Bartolomeo). I Varano compaiono esplicitamente nel 1376 e poi nel 1384 con il magnifico, e potente signore Rodolfo di Camerino, preposto, difensore e governatore generale del castello di Montecosaro. Li intravediamo anche in altri periodi, quando i podestà vengono: - Sarnano, S. Ginesio, Montecchio e Montecassiano, prima del 1376; - Sentino, Sarnano, Camerino, Cerreto, S. Ginesio e Montecchio, negli anni tra il 1376 e il 1384; - S. Ginesio e Appignano negli anni tra il 1387 e il 1395. Gran parte dei centri elencati furono sotto il controllo dei Varano per cui non è azzardato considerare Montecosaro sotto la sfera di influenza dei signori di Camerino per un lungo periodo; la cosa è certa per il periodo che va dal 1376 al 1384, e per 5 anni almeno non fu mai rinnovato il “bossolo” per l’estrazione delle magistrature interne124.

Se dopo un solo anno, per tre volte, vengono riproposti lo stesso confaloniere e gli stessi priori, occorre pensare a estese compiacenze interne di varia natura; siffatta singolarità non si riscontra, neanche parzialmente, in altre occasioni, per cui non è proprio il caso di parlare di libertà comunali nel quinquennio in esame. Non si può neanche concludere frettolosamente che siano stati anni bui, vista anche la spiccata personalità di Rodolfo Varano, tipico signore rinascimentale, amico di Franco Sacchetti e protagonista di alcune sue novelle125.

Buoni rapporti con Rodolfo doveva avere il nostro confaloniere, Lorenzo di Giovanni Giacomelli; egli era sicuramente un personaggio di rilievo se aveva cominciato la sua carriera quanto meno nel 1372, quando compare tra i priori, e poi rivestirà ancora la carica di confaloniere nel 1387 e forse anche più tardi. Stante la sua indubbia affinità con i Varano non è infondato pensare che questi, cacciati dalla porta nel 1386, siano rientrati subito dopo dalla finestra, come sembrano suggerire anche i luoghi di origine dei podestà di quegli anni.

Podestà vennero anche da fuori regioni e da città come Assisi (2 volte), Cesena, Montevarchi, Napoli e Roma; altri podestà vennero da Ascoli (1358), da S. Severino (1371), da Recanati (1387), da Civitanova (1408), dal Fermano (Montefortino, Amandola, S. Vittoria, S. Giusto e Montegranaro) e soprattutto da Fermo.

A questa città Montecosaro era legato da antichi vincoli di amicizia e ne dette buona prova quando il vescovo di Macerata, per espandere i confini della propria giovane diocesi e avere uno sbocco sulla costa, aveva chiesto al papa di estendere la propria

124 P. FERRANTI, Memorie storiche della città di Amandola, Ripatransone 1985, vol.II, p. 274, documento n.874 bis del 6 giugno 1380; la compagnia di ventura di S. Giorgio promette ai Varano di non molestare per 15 mesi le terre a loro soggette; sono elencate 30 località tra cui Montecosaro, Macerata, Tolentino, S.Ginesio, Sarnano, Amandola, Montecchio, Montolmo, Civitanova, Appignano, Montecassiano e Visso. 125 Per la figura di Rodolfo Varano e i suoi rapporti col Sacchetti vedi F. ALLEVI , Per una lettura storica della composizione (in Il quadro di S. Andrea), S. Ginesio 1994, p. 17.

competenza su S. Claudio, Montolmo, Morrovalle, Montecosaro e Civitanova. Fermo si oppose a tali pretese, e anche Montecosaro il 23 novembre 1371 riunì il suo parlamento per discutere la questione; venne eletto proprio un fermano, Sante di Massuccio, come procuratore del comune nella causa da celebrarsi davanti al vescovo di Albano, vicario generale d’Italia e del regno di Sicilia. I tentativi del vescovo di Macerata si protrassero ancora per qualche anno ma senza alcun risultato concreto, visto che quel confine non fu mai rivisto126.

Tornando a parlare del palio, sappiamo che esso si svolgeva secondo precise norme minuziosamente riportate in tre rubriche degli antichi statuti di Fermo. Di tutto questo cerimoniale ci sono pervenute molte scritture, ma quelle che ci interessano sono principalmente di due tipi: l’offerta del palio da parte dei comuni e la ricevuta con il breve indirizzo di saluto ai sindaci da parte dei magistrati di Fermo. Quest’ultimo documento, che al rientro veniva letto, spesso in volgare, ai consiglieri comunali, poi veniva allegato o trascritto nel libro dei consigli; è chiaro quanto tale cerimoniale giovasse a rinsaldare i vincoli di amicizia tra il comune e Fermo. Risale al 1472, per quello che riguarda Montecosaro, l’esemplificazione più remota di tutta questa procedura.

Trascrivo interamente il breve indirizzo di saluto anche per conoscere uno dei primi atti comunali in volgare; occorre fare un piccolo sforzo per afferrare completamente il senso delle parole, ma alla fine potrebbe risultare inferiore a quello richiesto al notaio del comune, un po’ in difficoltà sia con il volgare che con in latino.

“Spectabiles viri amicii nostri carissimi salutem. Per lu vostro Scindico cestato presentato el palio de questa comunità et consignato ali operarii de la ecclesia de santa Maria de lo vescovato, como è obligato subito commendamo et regratiamo le vostre spettabilità et per quisto anno li facimo fine et quietanza del dicto palio. Offerendoce continuamente a tutti vostri piaceri. Firmi die XV augusti 1472”127. Fiera dell’Annunziata

S. Maria di Chienti, che in questo secolo si integra ancor più nella realtà comunale. La chiesa stava assolvendo sempre più ad una specifica funzione economica e in questa veste riscuoteva le rendite dei beni dati in enfiteusi a molti privati, principalmente coltivatori; a sua volta era tributaria di un censo al monastero di Santa Vittoria e per suo tramite all’abbazia di Farfa128.

Tra i beneficiari c’erano soprattutto piccoli contadini, ma anche personaggi del calibro di Baccalario e Mercenario di Monteverde; i due fratelli avevano altri interessi in zona, e da una pergamena del 1313 sappiamo che in precedenza avevano dato in enfiteusi

126 ASF, pergamena n. 1785, anno 1371, consiglio comunale di Montecosaro; la causa fu celebrata nel 1372 (ASF, pergamena n.1604). 127 ACMC, Consigli 1471-1518, f.3v; in testa è scritto “quetatio comunitatis firmi facto dicte comunitati de palio debito in festo Sancte Marie de mense augusti”, e in fondo “Priores populi civitatis firmi, a tergo vero, Spectabilibus viris amicis nostris carissimi prioribus et comuni Montiscausarii”; quella trascritta dovrebbe essere la trascrizione fedele di un documento originale redatto nel latino del Quattrocento. 128 G. COLUCCI, Antichità picene, vol.29, Fermo 1797, p. 178, anno 1334; il monastero di S. Vittoria riscuote “censum annuum videlicet XX solidorum ravennat. quem tenetur dare monasterium sive ecclesia Sanctae Mariae in Clenti”.

a Mariuccio di Tommaso un terreno di una decina di ettari, posto nelle vicinanze di S. Maria di Chienti129. L’atto non è affatto chiaro e lascia nel vago i diritti che sul bene avevano i Monteverde.

Siamo nel periodo in cui molto signori stavano rialzando la testa e accampavano vecchi diritti su terre e beni altrui, a danno anche della Chiesa e dei Comuni; questi a lor volta, per reazione, compilavano lunghi elenchi dei propri possedimenti erecuperavano le carte che attestavano i propri diritti.

La continua cessione di parte dei vasti possedimenti, se da un lato permetteva ad un numero sempre maggiore di contadini di sfruttare fertili appezzamenti di terreno, dall’altro comportava crescenti difficoltà di gestione; arrivati ormai a quasi 170 affittuari, sarebbe stato utile avere un documento che per ognuno indicasse il bene goduto e gli obblighi da soddisfare.

Non è chiara la motivazione, ma sta di fatto che proprio Baccalario e Mercenario si fecero carico di questo delicato lavoro, compilando prima un dettagliato registro dei beni che S. Maria di Chienti aveva a Montegranaro, S. Giusto e Morrovalle, e incaricando poi, nel 1320, Gualtiero Diotisalvi di Francavilla di raccogliere dati analoghi per quelli situati a Montecosaro. Il tutto fu trascritto ad opera del notaio fermano Pietro di Giacomo in due grandi pergamene, che possiamo considerare altrettanti catasti dei beni di S. Maria di Chienti.

Il lavoro deve essere stato molto pesante anche per il notaio, a causa della ripetitività di confini e confinanti, contrade, censi ed altro, per cui qualche svista è più che giustificata.

La prima pergamena fu redatta il 10 settembre 1320, con la trascrizione in forma breve dei dati dei registri di Baccalario e Mercenario di Monteverde; erano presenti come testimoni, con le orecchie ben aperte, come sottolinea il notaio, Corrado e Paolo di Pietro di Montegiorgio, Vincenzo di Simone di Montecosaro e altri, probabilmente tutti buoni conoscitori della zona, al pari del nostro Vincenzo di Simone enfiteuta egli stesso. La pergamena elenca 14 affittuari di Morro, uno di S. Giusto e 28 di Montegranaro.

Spulciando qua e là notiamo un certo Paolo Golini che aveva un orto sotto le mura del castello di Morro, vicino alla torre. La contrada “Sala”, prossima al monte Lumirano, era dominata dall’omonimo castellare e nella collina sottostante c’erano diverse vigne; una la deteneva un ebreo, senza alcun titolo da parte della chiesa di S. Maria, avendola occupata per usura.

Il maggiore beneficiario era il comune di Montegranaro che aveva in enfiteusi il mulino con il relativo vallato e tutto il piano di S.Michele, sotto il monte Lumirano, dal confine con S. Elpidio fino a quello con S. Giusto; aveva anche la chiesa di S. Michele, la stessa che nel 1291 abbiamo visto ufficiata dal cappellano Firmone. Ogni anno, per la festa dell’Assunta, il comune di Montegranaro era tenuto a pagare 100 soldi, una bella somma rispetto ai tre o quattro denari pagati mediamente dagli altri.

129 ASF, pergamena n.1783, anno 1313, pubblicata tra i documenti di Fermo; Bonaccorsio Moricelli dichiara di aver venduto un pezzo di terra per 100 libbre di denari; tra i confinanti c’era Santesio Moricelli, probabilmente un fratello. L’atto non è molto chiaro, al pari del ruolo svolto da Baccalario e Mercenario, che in precedenza avrebbero addirittura concesso in enfiteusi lo stesso bene; e il notaio si affretta ad aggiungere che la cosa era avvenuta “de voluntate et consensu iam dicti Bonacurscii”, ma c’è d’avere qualche dubbio (vedi nota 131). Ho stimato l’estensione del terreno tenendo presente che il comune nel 1287 aveva pagato 16 libbre per una casa e nel 1291 11 libbre per un ettaro circa di terra (vedi i relativi atti tra i documenti).

Ad evitare possibili confusioni, visto che siamo un po’ distanti dalla chiesa, nel documento 9 volte si cita per intero S. Maria di Chienti, mentre 6 volte il riferimento è semplicemente a S. Maria130.

Il mese dopo si procedette a registrare i 125 affittuari di Montecosaro in una grande pergamena, conservata da secoli nell’archivio comunale. Erano presenti nella Rocca di Monteverde, sede dell’atto, molti dei testimoni che avevano assistito all’atto precedente; c’era sempre il nostro Vincenzo di Simone, titolare anche di un appezzamento di terra (in contrada S. Martino, vicino alla chiesa di S. Maria) per il quale pagava ogni anno un barile di grano e un censo di 4 denari. C’erano ancora i fratelli Corrado e Paolo di Pietro di Montegranaro, non più di Montegiorgio come indicati nella pergamena precedente.

Si tratta chiaramente di un errore del notaio. Più di 100 enfiteuti avevano un solo e modesto appezzamento di terra; facevano

eccezione Giacomino di Giacomuccio Rubei con tre appezzamenti, Matteo di Giovanni Montanari con quattro, e Marino de Melis con cinque.

Segnalo tra gli enfiteuti un certo Simone Lombardo, che aveva un pezzo di terra in contrada Sanbuchi (per la quale pagava ogni anno il solito barile di grano e un censo di 3 denari) e che potrebbe essere figlio di qualche mastro muratore lombardo impegnato in passato in lavori di manutenzione o di ampliamento del complesso monastico. Il grosso dei beni erano vicino alla chiesa, nel piano, ed è naturale che si incontrino poche vigne, e due di queste si trovino sul monte S. Michele.

Come già detto i maggiori beneficiari erano Baccalario e Mercenario di Monteverde, e le loro terre andavano dal fiume Chienti al vallato del mulino; pagavano ogni anno 20 soldi, molto di più di tutti gli altri, ma non doveva essere una gran somma visto che era appena un quinto di quello che pagava il comune di Montegranaro.

Il comune di Montecosaro non compare da nessuna parte, e tra i beni elencati non ci sono né il mulino né il vallato, spesso citati per delimitare i confini; essi erano sfruttati direttamente dal monastero, a vantaggio proprio e di tutta la comunità.

Due appezzamenti di terra, posti l’uno in contrada fonte S. Pietro e l’altro nella contrada di Monte S. Pietro, confinano con la pieve di S. Lorenzo e con la via pubblica; questo fatto, oltre a permetterci una migliore localizzazione della pieve ci fa intravedere antichi rapporti tra le due chiese. In contrada Pantano troviamo ancora un castellare, forse era lo stesso che abbiamo incontrato nel 1027.

Contrariamente a quanto poteva verificarsi con l’altra pergamena, ora non potevano sorgere dubbi di sorta riferendosi semplicemente a S. Maria, che infatti compare ben 21 volte; solo una volta appare S. Maria di Chienti e due volte S. Maria a piè di Chienti. Questa dizione, assolutamente nuova, è contenuta nella seconda riga della pergamena, praticamente nell’intestazione, e poi nel corpo del documento quando vengono definiti i confini per un certo Corrado Bonaparte, il settantacinquesimo enfiteuta.

Potrebbe però trattarsi di una semplice omissione di una virgola, una svista del notaio. A sostegno di questa tesi riporto il passo, inserendo la virgola incriminata: “Corradus Bonaparte habet unum petium terre positum in contrata Sancti Martini iuxta Iacobinum Iacubutii Rubey, terre ecclesie Sancte Marie, de pede Clentis et alios fines”;

130 ASF, pergamena n. 1873, del 10 settembre 1320, pubblicata tra i documenti di Fermo; notare tra i beni posti a confine, il possedimento che i signori di Petriolo avevano avuto in enfiteusi dal monastero di Farfa.

mi sembra che il senso non venga stravolto, mentre i confini, definiti su tre lati, potrebbero essere anche più chiari131.

Purtroppo nel secolo successivo, grazie ad alcuni atti ufficiali, la strana dizione si farà strada, anche se non riuscirà mai a soppiantare l’antica denominazione con cui la chiesa era conosciuta; la contaminazione potrebbe essere stata favorita indirettamente dalle secolari controversie per il possesso dei beni del monastero, accuratamente documentati nelle pergamene appena analizzate132. Entrambe furono redatte nella Rocca di Monteverde, ma la prima in seguito è finita a Fermo, mentre la seconda è da tempo conservata nell’archivio di Montecosaro. Abbiamo visto come Baccalario e Mercenario avessero consistenti interessi nella zona per cui non è da escludere che possano essere stati i Monteverde a trasferire la pergamena dal loro castello a quello di Montecosaro, magari in coincidenza con una eventuale dominazione signorile133.

Vent’anni più tardi, nel 1341, l’abbazia di Farfa compì un ultimo vano tentativo per recuperare i propri diritti nella Marca, con particolare riguardo proprio a quelli di S. Maria di Chienti; nel documento si ipotizzano diffuse usurpazioni, ma non si fa cenno alcuno ai Monteverde. S. Maria di Chienti è l’unica chiesa citata, e tutte e 4 le volte con questo nome; ciò ci autorizza ad affermare con una certa sicurezza che l’abbazia di Farfa non conobbe mai S. Maria a piè di Chienti134.

131 PM, pergamena n.19, del 12 ottobre 1320. Non si capisce come l’unico riferimento a S. Maria a piè di Chienti sia stato preferito all’altro, e riportato addirittura in testa al documento; potremmo leggerci una qualche volontà di confondere le acque, magari per rendere meno certi i diritti vantati dalla chiesa. Sul retro della pergamena, lo stesso notaio annota Catasto della chiesa di S. Maria di Chienti, denunciando chiaramente quale fosse la vera denominazione della chiesa; solo due secoli dopo venne aggiunto l’altro regesto, di fatto uguale al precedente, a parte l’esplicito riferimento a S. Maria di piè di Chienti. Definendo i beni di un enfiteuta, il quinto partendo dal fondo, si parla di terra “que olim fuit Bonacursi Morichelli de Monte Causario revoluta”; dovrebbe trattarsi dello stesso Bonaccorsio Moricelli che sette anni prima aveva dichiarato di aver venduto un altro pezzo di terra, e il meno che possiamo dire è che questo Bonaccorsio non navigava in buone acque (vedi nota 129). Il grosso dei beni della chiesa di S. Maria sono nelle contrade Campo Cabbiano, Cannapale, Fontis Sanbuci, Pantano, Pantanetto, Partitoris, Petra Carpita e soprattutto nella contrada Bucingiano (chiaramente un prediale) a cavallo con Morrovalle. Quanto alla contrada Monte S. Pietro essa è comparsa già nel 1154 (vedi D. Pacini, nota 70)e comparirà ancora nel 1341 (vedi nota 107). Segnalo tra i tanti nomi citati quello di Marcovalduccio di Morro, pievano di Montelupone e proprietario di un appezzamento di terra in contrada Fonte Rosa. Da ultimo, in fondo al documento è ribadito solennemente il divieto di vendere o alienare i beni concessi in enfiteusi “sine expressa licentia et mandato dominorum ecclesie Sancte Marie”; non si aggiunge altro su questi “signori”, ma potrebbe essere lecito sospettare di Baccalario e Mercenario di Monteverde; se così fosse sarebbe chiaro il motivo per cui essi si erano fatti carico del censimento dei beni. 132 Si può osservare che, aldilà di tutto, la confusione creata da una variazione di nome poteva far gioco a quanti fossero interessati ad usurpare diritti altrui. Per seguire la vicenda delle varie denominazioni con cui è stata indicata la chiesa nei secoli rimando all’articolo Montecosaro: topografia e toponimi antichi e moderni, pp. 325 e segg. 133 Probabili signori di Montecosaro, non meglio identificati, li abbiamo incontrati nel 1328, nel 1347 e nel 1356 (vedi pp. 161, 164, 166). Per ulteriori notizie sui signori da Monteverde vedi D. PACINI, Sulle origini dei signori da Mogliano (in Studi Maceratesi n.23), Macerata 1989, p. 210. 134 ACMP, pergamena n.5, del 23 agosto 1341; l’amministratore di Farfa Arnaldo d’Albiac, con il consenso dei monaci, nomina Francesco da Orvieto, monaco farfense, e Almerico “de Lentario” procuratori per rivendicare e recuperare i censi spettanti a Farfa ed alle sue dipendenze, in particolare le decime, le pensioni, i terratici, gli affitti dei mulini e gli altri diritti spettanti a S. Maria di Chienti. L’atto ci è pervenuto grazie a una copia fatta a Monteprandone nel 1345, ma non è chiaro il motivo per cui sia stato necessario farne una copia così ravvicinata (ringrazio il professor T. Leggio per la segnalazione).

Una quarantina d’anni dopo, come ci attesta la relazione di Domenico Cagnarone, fu ceduto il mulino e altre terre; “Li 24 gennaro 1385 gli offitiali di detto Monastero a Nicola Latino, et altro di questa terra concessero in efiteosi il molino e terre”. Questo Nicola Latino non è comparso mai tra i magistrati del comune, anche se è tra i garanti elencati in fondo all’assoluzione del 1386; potrebbe essere il mugnaio del comune o comunque un personaggio che riscuoteva ampia fiducia, se come abbiamo visto nel 1396 fu inviato a Recanati per giurare fedeltà al papa135.

Da lì a qualche anno morì l’ultimo abate di Farfa e il papa nominò al suo posto un cardinale commendatario, che di fatto si occuperà della sola gestione del vasto patrimonio dell’abbazia. Alla luce di questi fatti la cessione del mulino, sicuramente a beneficio di tutti, assunse unparticolare rilievo che andava oltre il puro fatto economico.

Questo passaggio di consegne tra l’abbazia al termine della sua secolare missione e la comunità di Montecosaro, ormai adulta, mi evoca alla memoria il vegliardo che sentendo prossima la sua fine destina le cose più preziose ai propri figli.

Nella sua autonomia Santa Maria di Chienti ben presto diventò un attivo polo di commerci; questa nuova dimensione venne sancita da Urbano VI con il riconoscimento ufficiale della fiera che ogni 25 marzo si svolgeva nei presi della chiesa, in concomitanza con la festa dell’Annunziata.

L’antico statuto di Montecosaro imponeva che la fiera fosse presidiata da un drappello di soldati al comando dello stesso confaloniere136.

Il fiorire dei commerci e delle attività collegate portò nuova ricchezza che non tardò a riflettersi sull’edificio religioso con ampliamenti e decorazioni: nacque la serie di affreschi che possiamo ammirare ancora oggi, e tra essi non poteva mancarne uno dedicato all’annunciazione della Madonna, anche se non è tra i più imponenti137. L’opera di ristrutturazione e di decorazione dovrebbe essersi conclusa intorno al 1425, anno della fusione della campana che ancor oggi richiama i fedeli della vallata; essa reca impresso, oltre alla data di fusione, il più antico stemma comunale che ci sia pervenuto.

“Gli homini di Monte Cosaro” da più di tre secoli tenevano cospicui beni della chiesa di S. Maria di Chienti, e mai ho trovato accenni a possibili screzi o controversie. Lo stesso può dirsi circa i rapporti con la pieve di S. Lorenzo, anche se in questo caso non erano in gioco cospicui interessi materiali; non altrettanto per l’abbazia di Chiaravalle di Fiastra, che però venne a contatto con Montecosaro quando ormai il comune era una realtà consolidata.

135 Vedi la nota 20 per la relazione Cagnaroni, la 117 per l’assoluzione del 1386, la 120 per l’anno 1396; il Nicola Latino della relazione molto probabilmente è identificabile col Latino di Nicola dei due atti citati. 136 R. GARULLI , Cenni istorici della terra di Montecosaro e della Chiesa di S. Maria a Piedichiento nel Piceno (manoscritto n. 1354), Fermo, Biblioteca comunale, anno 1843 (di recente è stato pubblicato da R.

CORTESE, L’abbazia di S. Maria a piè di Chienti, Roma 1995); l’autore riferisce che la fiera del 25 marzo fu concessa da Urbano VI, e quindi negli anni compresi tra il 1378 e il 1389. Risalirebbe a questo periodo l’Annunciazione affrescata in una nicchia della chiesa superiore; ricordo anche che questi sono gli anni della signoria di Rodolfo da arano su Montecosaro. Circa la vigilanza sulla fiera vedi Statuta Montis Causarii, Macerata 1597, libro I, rubrica 52. 137 La festa dell’Annunziata è una delle più antiche feste della Madonna e risale ai primi secoli del cristianesimo; in linea di principio la chiesa potrebbe essere stata dedicata a Maria SS. Annunziata ancor prima dell’istituzione della fiera, ma nessun documento conferma questa ipotesi.

Non abbiamo neanche notizia di dissidi tra la pieve di S. Lorenzo e S. Maria di Chienti, per cui c’era quanto meno uno scambievole rispetto e forse anche qualcosa di più, se alcune terre di S. Maria erano adiacenti alla pieve.

Sento di poter concludere che il comune di Montecosaro è nato quanto meno in un clima di profonda collaborazione e di completa concordia con il monastero di Santa Maria di Chienti e con la pieve di S. Lorenzo; e forse il ruolo delle due istituzioni andò molto oltre la semplice collaborazione.


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