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Insegnare la lingua e la cultura italiane agli studenti di origine cinese in Nord America: nuove...

Date post: 10-Dec-2023
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Oggi parliamo...

Cultura&ComunicazioneAnno VI, N. 09 - Giugno 2016

Collana diretta daMarcel DanesiMichael Lettieri

Co-DirettoriAugusto PonzioMassimo Vedovelli

RedazioneMaria Teresa ZanolaEddo RigottiAugusto PonzioSusan Petrilli

c/o Guerra EdizioniVia Manna, 25 - 06132 Perugia (Italia)tel. +39 075 5270257/8 - fax +39 075 5288244www.guerraedizioni.com - e-mail: [email protected]

Grafica e impaginazioneGuerra Edizioni Edel srl - Perugia

© Copyright 2016 Guerra Edizioni Edel srl - Perugia

ISBN 978-88-557-0591-2

Tutti i diritti sono riservati. Notizie ed articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, disegni, foto e altri materiali inviati in redazione, anche se non pubblicati, non verranno, in nessun caso, restituiti.Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori.Collaborazioni, commenti, recensioni e indicazioni di ognitipo devono essere inviate al direttore scientifico all’indirizzo e-mail: [email protected]

Finito di stampare nel mese di Giugno 2016 da Guerra Edizioni Edel srl - Perugia

Cultura & ComunicazioneLingue, Linguaggi ecomunicazione /Didattica /Cultura, critica e letteratura

Giugno 2016

sommario

Marcel Danesi

Umberto Eco (1932-2016): semiotico, scrittore, intellettuale 5

Parte I: Lingua, linguaggi, didattica

Moira De Iaco

Il potere della grammatica 7

Gordon Davies

La semiotica della sctittura cinese 10

Frank Nuessel

L’uso degli eponimi nell’insegnamento dell’italiano a studenti anglofoni 12

Giuseppe Mininni

I media come specchio del mostruoso e del mirabile 14

Luciano PonzioIl differimentismo. Annotazioni di un percorso di ricerca in pittura-scrittura 16

Gaoheng ZhangInsegnare la lingua e la cultura italiane agli studenti di origine cinese in Nord America: nuove risorse didattiche per un approccio multiculturalista 23

Parte II: Letteratura e cultura

Raffaelle Cavalluzzi

Statue bianche contro il nero abisso (Pirandello, da Nietzsche) 26

De Santi Chiara

Alberto Moravia in Uzbekistan nel 1956 tra eurocentrismo, orientalismo e colonialismo 30

Francesco Loriggio

La poesia è una forma di conoscenza? E in che modo conosce? 37

Susan Petrilli e Augusto Ponzio

Verbale e figurativo nell’arte di Dario Fo 39

Julia PonzioL’articolazione come dimensione musicale del testo. La relazione fra parola e musica nell’opera di Salvatore Sciarrino 47

sommario

Parte III: La metafora nel discorso, nella mente, nella società

Sezione speciale a cura di Silvia De Ascaniis e Andrea Rocci, Università della Svizzera Italiana

Introduzione

Silvia De Ascaniis

Imparare/Insegnare a scrivere un testo scientifico 52

Lavori

Emily Berti

Coca-Cola: metafore come mezzo di persuasione nei manifesti pubblicitari di ieri e di oggi 54

Ottavia Gaggini

Hayao Miyazaki: rapporto uomo-natura tra favola e metafora 58

Mattia Gianinazzi

Il ruolo della metafora nella meccanica quantistica 61

Corinne GobertCaratteristiche dell’azienda moderna attraverso l’utilizzo della metafora della jazz-band 65

Giulia GrisendiLe metafore nella psicoterapia 68

Miguel ángel Marchesi

L’uso delle metafore nelle campagne politiche contro gli stranieri della SVP 71

Stefania Riva

Il mondo del business visto in chiave sentimentale: le aziende si sposano e divorziano 75

Annapaola Tucci

La metafora della finestra e della cornice nel cinema contemporaneo 79

Martina Wirth

Bambini: come capiscono e usano il linguaggio metaforico? 83

BIBLIOGRAFIA 86

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�Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Umberto Eco (1932-2016): semiotico, scrittore, intellettualeMarcel Danesi

Umberto Eco (1932-2016):semiotico, scrittore, intellettuale

Il 19 febbraio, 2016, è scomparso un grande semiotico, scrit-tore e intellettuale. Umberto Eco è probabilmente il nome di un italiano più riconosciuto nel mondo degli ultimi due o tre decenni. Il suo nome sarà sempre associato al suo grande romanzo Il nome della rosa, che si legge diversi livelli, da uno puramente di thriller a uno di trattato filosofico-semioti-co. Nato ad Alessandria in Piemonte nel 1932, Umberto si laureò in filosofia medioevale e letteratura all’Università di Torino. Il suo primo libro, pubblicato nel 1956, trattava l’importanza della filosofia scolastica di San Tommaso, in-troducendo al mondo l’idea della semiotica come lente sulla vita di ogni giorno. Mentre insegnava alla sua alma mater, lavorava nello stesso tempo alla RAI come commentatore sulla cultura italiana. Poco dopo, fece parte di un gruppo di intellettuali e scrittori, sviluppando in modo particolare un amore per James Joyce, la musica di Stockhausen, e la poesia di Mallarmé. Fondò una collana presso Bompiani editore che diventò una fonte di importante diffusione per le semiotiche e scienze affini. I suoi molti libri, come L’opera aperta (1962) e Lector in fabula (1962) sono diventati “classi-ci” sia in semiotica sia nel settore degli studi culturali-lette-rari. Assieme a Thomas A. Sebeok, Roland Barthes, Juri M. Lotman, Nicolas Ruwet, Meyer Shapiro, e Hansjakob Seiler è un fondatore della rivista Semiotica, oggi una maggiore rivista per la pubblicazione di studi su qualsiasi aspetto della semiotica e dei suoi rapporti con altre discipline. Conobbi Umberto verso la fine degli Anni Settanta quando veniva a Toronto per insegnare nell’ottica di un programma estivo sulla semiotica. Scrisse in parte il suo primo romanzo, Il nome della rosa, pubblicato nel 1990, mentre si trovava a Toronto. La biblioteca in quel romanzo assomiglia assai fe-delmente la biblioteca principale dell’Università di Toronto, anche se Eco non ha mai ammesso pubblicamente che iniziò il suo viaggio nella carriera di scrittore in quella biblioteca.

Quel romanzo fece non solo famosi l’autore, ma la sua di-sciplina; infatti, mai la semiotica gode di tanto favore tra gli intellettuali e anche tra il popolo come negli Anni Ottanta, subito dopo la pubblicazione del romanzo. Devo ammettere che quando conobbi Umberto ero, come linguistica, assai scettico verso la semiotica. Ma Umberto riuscì a convincer-mi che la semiotica non era solo uno strumento per i critici letterari, ma per chiunque volesse conoscere le “vie del mon-do” e come interpretarle.Uomo umile, nonostante la sua fama, mi resi conto che il mondo accademico aveva bisogno di umiltà e per questo rimanemmo amici fino alla fine. DA lui imparai che la logica e la scienza da soli non condurranno mai alla sapienza; ci vuole l’impostazione umanistica per fare scienza efficace-mente. L’interconnessione tra i domini di conoscenza ci per-mette di meglio capire fenomeni specifici e questo non è un paradosso: la realtà non è monolitica, studiabile con singoli strumenti scientifici, ma integrata e complessa.Il nome di Eco ha promosso lo studio della lingua e cul-tura italiana nel mondo, in un modo dignitoso e proficuo. A differenza delle immagini che derivano da invenzioni convenienti come The Godfather e The Sopranos, quelle che de-rivano dai romanzi di Eco sono positivi e brillanti. Umberto, arrivederci, ci mancherai molto!

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� Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Il potere della grammaticaMoira De Iaco

Il potere della grammatica

1. Note gramsciane

La grammatica è in grado di descrivere un quadro storico-sociale. Se da un lato essa è una fotografia della società così come questa è nel dato momento storico in cui viene scattata, dall’altro può agire sulla società e su ciascun parlante modifican-done i modi di vivere. Può anche descri-vere lo stato socio-culturale di un singolo parlante che in un preciso momento ne fa uso. Nel Quaderno 29 Gramsci ha scritto della grammatica nei termini di un «docu-mento storico», ne ha parlato come della «fotografia di una fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) formato-si storicamente e in continuo sviluppo»1. Quando ci fermiamo a guardare gli usi di una lingua possiamo rilevare, attraverso i modi in cui un certo gruppo di parlanti adopera le parole, i modi di pensare e di vivere in una determinata fase di svilup-po storico, linguistico, umano. Questo wittgensteiniano guardare attraverso gli usi segna il passaggio da una grammati-ca inconsapevole a una consapevole, da un saper usare i segni immediato a uno mediato. Mentre parliamo, infatti, non pensiamo sempre alle regole grammati-cali che applichiamo, le seguiamo e basta. È per questo che Gramsci tratta di una grammatica immanente «per cui uno par-la secondo grammatica senza saperlo»�. Il nostro parlare quotidiano è, nella mag-gior parte dei casi, un parlare irriflesso. La grammatica immanente è quel sapere inconsapevole che ci guida restando inesplicitato, un sapere appreso con prassi di apprendimento linguistico pubbliche, talvolta mediate dal pensiero talvolta no, per le quali ci ritroviamo in un parlare immediato privo di interruzioni che siano dovute alla richiesta di interpretazione delle regole del linguaggio. Capita tuttavia di non riuscire ad espri-merci al meglio e di avere pertanto biso-gno di tornare sulle parole per pensare quel che vogliamo dire, per sceglierle con attenzione o magari correggerle per evitare di essere fraintesi, di incorrere in

errori o per ridire quel che precedentemente detto non ci soddisfaceva. Oppure capita di non comprendere il senso di una frase o il significato di una parola e pertanto si rende necessaria un’interpretazione del detto. Ci sono poi casi come quelli di un bambino e uno straniero, parlanti inesperti che hanno continuo bisogno di spiegazioni per poter parlare o seguire il discorso. In tutti questi casi la grammatica deve essere interpretata e non viene più seguita in modo inconsapevo-le; possiamo avere la necessità di ricorrere a un manuale, a un dizionario, al parare di un esperto. La grammatica contenuta nei ma-nuali, nei dizionari, nel sapere di un parlante esperto, è una grammatica che con Gramsci possiamo definire «normativa»: questa può essere scritta o non. Quella scritta ha potere normativo maggiore in quanto tende «ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il “volume linguistico” per creare un conformismo linguistico nazionale unita-rio»�. Fare riferimento a una grammatica normativa significa sempre fare riferimento anche alla storia di quella grammatica, una storia particolare che, come dice Gramsci, si iscrive inevitabilmente «nel quadro della storia mondiale»�. Tale grammatica non può che essere comparativa, giacché deve tenere conto dell’evolversi dei fatti linguistici intesi come fatti storici e del quadro delle altre lingue «che influiscono per vie innumerevoli e spesso difficili da controllare su di essa»�. Alla grammatica normativa siamo vincolati per via di regole fissate in un certo periodo dell’evoluzione storico-sociale di una lingua e dei suoi parlanti e tuttavia non fisse giac-ché soggette, nel flusso del vivere e del dire, a cambiamento, sostituzione, adattamento. Gramsci scrive che

oltre alla “grammatica immanente” in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non scritta, una (o più) grammatica “normativa” […] costituita dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla “censura” reciproca, che si mani-festano con le domande, “Cosa hai inteso, o vuoi dire?”, “Spiegati me-

1 A.Gramsci,Quaderni del carcere, acuradiV.Gerratana,Voll.4,Einaudi,Torino,2007,p.2341.

2 Ivi,p.2342.

3 Ivi,p.2343.4 Ibidem. 5 Ivi,p.2344.

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�glio”, ecc., con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire “norme” o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc.�.

Tale conformismo grammaticale è alla base della comunicazione all’interno di un gruppo di parlanti in quanto per-mette la comprensione reciproca ed è a fondamento della vita sociale nonché della crescita culturale di essa. Senza quest’ultima esso diverrebbe un vincolo limitante. Affinché non si resti chiusi dentro pericolose cristallizzazioni del pensiero è necessario che la gramma-tica si rinnovi e resti critica. Il pensiero è infatti intimamente connesso alla grammatica. La sua capacità dipende da quella della grammatica, la quale può esercitare un potere sui modi di pensare e di agire. Se consideriamo che la grammatica normativa, come ci insegna Gramsci, è sempre frutto di un atto politico giacché si basa su una scelta di indiriz-zo politico-culturale da imprimere alla società�, ci rendiamo conto di quanto tale potere necessiti di un uso ben ponderato. La grammatica normativa è direzione politica di un popolo�; essa può dirigere il pensiero e pertanto tutti i mezzi di diffusione e sviluppo della lingua - quelli che controllano l’ege-monia linguistica - devono essere in grado di assumersi la responsabilità di tale potere. Gramsci scrive le sue riflessioni sulla grammatica in vista del conseguimento di un’egemonia linguistica nazionale in anni nei quali l’Italia, affetta ancora da un analfabeti-smo di massa, risultava profondamente frammentata da particolarismi - o sarebbe forse meglio dire individualismi - locali linguistici e culturali. Entro tale prospettiva, la grammatica normativa si imponeva come via d’uscita necessaria per colmare le distanze politiche tra gli umili e l’élite degli intellettuali, i pochi che detenevano la crescita culturale del paese. La sua diffusione molecolare era vista come lo strumento per ottenere una partecipazione politica democra-tica. Il potere della grammatica viene dunque letto da Gramsci come mezzo per il conseguimento di un’egemonia culturale in chiave democratica. Il limite è, tuttavia, quello di una strumentalizzazione del potere della grammatica di incidere sulla formazio-ne e lo sviluppo del pensiero in funzio-ne di un controllo del popolo da parte degli organi di governo. Basti pensare che ogni regime totalitario si afferma attraverso un controllo della lingua e una limitazione dei suoi usi. L’impor-

tanza della componente spontanea della grammatica che si contrappone come forza libera ai vincoli della grammatica norma-tiva risiede proprio nella sua capacità di tenere a bada questo limite. La grammatica spontanea è quella esposta all’intervento del singolo parlante che può personalizzarla spingendosi perfino a contravvenire una re-gola, magari con l’obiettivo di mostrare una differenza di pensiero o con quello di ren-derla esteticamente più piacevole o consona a un contesto. Quelli che Gramsci chiama movimenti disgregatori, ovvero le innumere-voli grammatiche spontanee o immanenti a proposito delle quali egli scrive che «teo-ricamente si può dire che ognuno ha una sua grammatica»�, sono necessari affinché l’unificazione operata dalle grammatiche normative – indispensabile terreno comune per la crescita socio-culturale di un inte-ro popolo o di gruppi di parlanti – non si trasformi in un procedimento di omologa-zione della produzione linguistica e dunque del pensiero. Disgregare può voler dire non lasciarsi aggregare in un pernicioso accen-tramento monolinguistico e monopensante che non accetta differenze, che non accoglie diversità, vitali per la crescita culturale e per l’evoluzione dello stesso linguaggio. La grammatica normativa assicura la condivi-sione, la partecipazione e limita l’individua-lismo, ma lasciata da sola può comportare sottrazioni di libertà creativa e di pensiero soffocando la singolarità di ciascun essere umano e trasformandosi nel lato oscuro del potere della grammatica.

�. Non un calcolo, ma una possibilità

Wittgenstein ci ha mostrato che il linguag-gio non può essere pensato come un calco-lo: non ci viene insegnato come un calcolo, né i parlanti lo usano quotidianamente come tale. In un passaggio molto significa-tivo del Blue Book leggiamo infatti:

in generale, noi non usiamo il linguaggio secondo regole rigoro-se – né, d’altronde, esso ci è stato insegnato secondo regole rigorose [..]. In pratica, ben di rado noi usiamo il linguaggio come un tale calcolo. Non solo noi non pensiamo alle regole d’uso (definizioni, etc.) mentre usiamo il linguaggio, ma in molti casi non sappiamo neppure indicarle quando ce lo chiedono. Noi non sappiamo circoscrivere chiaramente i concetti che usiamo; e questo non perché sia a noi igno-ta la loro definizione, ma perché una loro ‘definizione’ reale non esiste. Supporre che una definizio-ne reale debba esservi, sarebbe come supporre che i bambini, ogni volta che giocano a palla, giochino un gioco secondo regole rigorose10.3 Ivi,p.2343.

4 Ibidem. 5 Ivi,p.2344.

6 Ivi,p.2342.7 Ivi,p.2344.

8 Ibidem9 Ivi,p.2343.10L.Wittgenstein,The Blue

and Brown Books,BasilBlackwell,Oxford,1958;trad.it.Libro blu e libro marrone,acuradiA.G.Conte,Einaudi,Torino,2000,p.37.

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� Che il nostro linguaggio non si lasci de-finire e che quindi non sia possibile per noi spiegare ogni fatto linguistico, vuol dire che la grammatica di una lingua non può essere mai definita da regole rigorose in quanto a differenza dell’esecuzione di un calcolo, il parlare è soggetto a quelle che potremmo chiamare variabili umane. Essendo il linguaggio parte di una forma di vita11, la combinazione dei segni lingui-stici si intreccia con le situazioni di vita dei parlanti assumendo variazioni singolari nell’applicazione delle regole. È nella forma di vita, infatti, che gli uomini concordano e tale concordanza è una concordanza nel linguaggio e anche nei giudizi1�, non una concordanza assoluta nel modo di eseguire un calcolo come può essere quella delle scienze. Wittgenstein scrive perciò: «Quando parlia-mo del linguaggio come d’un simbolismo usato in un calcolo rigoroso, ciò che abbia-mo in mente si può trovare nelle scienze e nella matematica. Solo di rado il nostro uso comune del linguaggio è conforme a questo canone di rigore»1�. Egli introduce quindi il paragone con il gioco da sostituire al modello del calcolo: nel gioco, per quanto delle regole ci siano, queste non vengono mai seguite in modo rigoroso; se così fosse, tutti i giocatori raggiungerebbero lo stesso risultato. E invece c’è chi vince e chi perde, chi nel fare punto, se prendiamo il calcio, fa un goal di rovesciata, chi di punta, chi di tacco, chi di testa, ogni volta con an-golazioni della palla differenti. I bambini poi, che sono non a caso i protagonisti del paragone di Wittgenstein, sono molto creativi e tendono a personalizzare i giochi inventando nuove regole o nuove applica-zioni di esse: ed è proprio questo che accade quando noi giochiamo con la lingua; ci sono delle regole accettate, fondamento del nostro intenderci, che vengono modificate, ricreate, rinnovate da ciascun parlante. La lingua dunque cambia e quando cambia lo fa molecolarmente, per dirla con Gramsci, nel senso che il rinnovamento non è mai quello prodotto da un singolo parlante, ma quello accettato da gruppi di parlanti via via sem-pre più ampi. La lingua somiglia al gioco: vincola, ma allo stesso tempo concede spazi di libertà. Se i vincoli sono troppo stretti, la libertà viene soffocata e si ottiene uniformi-tà nei movimenti, ma si perde quella libertà d’azione che fa sì che il gioco sia tale, ossia che abbia la possibilità di scrostare le norme, di rompere le cristallizzazioni, di divertire e liberare dal giogo della sottomis-sione, della costrizione, della monotonia, dell’essere tutto identico.Non vi è un uso esatto delle parole di una lingua, ma vi sono tuttavia usi stabili, abitudini, su cui concordiamo e basiamo il nostro parlare. La grammatica normati-va - che, come abbiamo visto, svolge una funzione centrale nell’apprendimento della lingua e nell’affermazione di un’egemonia culturale e politica - non può sostituir-

si alle grammatiche spontanee senza le quali la lingua perderebbe contatto con la vita, non fareb-be più parte del flusso della vita. Se da una parte il vincolo della grammatica che esercita il potere della concordanza è necessario per il nostro vivere insieme, dall’altra la possibilità di svincolarci da essa muovendoci con una certa libertà tra le maglie del potere ci permette di apportare i contributi singolari della vita nel linguaggio rinnovandolo. Se da una parte la grammatica deve poter formare il pensiero dall’altra il pensiero attraverso l’uso della lingua deve poter formare la grammatica. E se la grammatica normativa è frutto di un pensiero uf-ficiale, consapevole, quelle spontanee contengono, oltre a tale pensiero spesso sedimentatosi inconsa-pevolmente, anche un pensiero spontaneo e sono in grado di rivelare una filosofia popolare fatta di senso comune. Guardare attraverso gli usi lingui-stici permette di svelare questa filosofia popolare smascherando pregiudizi e falsa coscienza, pensieri erranti e totalmente acritici.

�. Cosa accade oggi con i social network

La grammatica può tanto descrivere, manifesta-re, portare alla luce e quindi avviare la riflessione quanto agire, dirigere, far cambiare. Oggi con i social network la grammatica sembra aver perso gran parte del proprio potere, per lo meno di quello positivo che permetteva tanto di svelare la cattiva coscienza quanto di uniformare per unificare in vista di una partecipazione democratica e consa-pevole al potere politico e alla crescita culturale. Apparentemente siamo invasi dalla condivisione, dalla partecipazione e, verrebbe da pensare, dalla democrazia, ma a ben vedere siamo sovrastati da un regime di democrazia mediatica che in sostanza si risolve in affermazioni individualiste di pensiero. Ognuno cerca una finestra virtuale dalla quale dire la propria in una forma di autismo mediatico, ali-mentando un sistema di disgregazione sociale che fa da contraltare a un’incontrollata aggregazione virtuale che di effettivamente sociale presenta ben poco se non nulla. La grammatica subisce repentini cambiamenti dovendosi adattare alla velocità dell’ipercondivi-sione mediatica, spesso a discapito perfino degli usi stabili fondamentali su cui si basa lo scambio linguistico. Se Gramsci scriveva della grammati-ca riflettendo sui mezzi di comunicazione come intermediari per l’egemonia linguistica e culturale del paese, pensando a questa come a un obietti-vo necessario per l’innalzamento culturale della massa popolare, oggi occorre riflettere sui limiti di certi determinati usi dei mezzi di comunicazione che più che innalzare culturalmente rischiano di imbarbarire. La grammatica svuotata e impoverita nella quale si condividono pensieri individualisti sui social network è indice di un impoverimento delle possibilità di pensiero. Ed è tuttavia proprio dal suo potere, dalla sua capacità di mostrare usi ed abusi dei segni e dunque del pensiero, che occorre partire per prendere coscienza dello stato di sempre maggiore non curanza in cui rischia di finire la nostra lingua. A questo proposito possiamo pensare che Wittgenstein riteneva che il pensiero metafi-sico da cui occorreva liberarci fosse determinato da interpretazioni fuorvianti delle categorizzazioni della nostra grammatica, per cui, per esempio, a

11Cfr.L.Wittgenstein,Philosophische Untersu-chungen,BasilBlackwell,Oxford;trad.it.Ricerche filosofiche,acuradiM.Trinchero,Einaudi,Torino,1999,§23;241.

12 Ivi,§242.13Ibidem.

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�un sostantivo deve corrispondere una sostanza e a un verbo un’attività e nel momento in cui tali sostanze o attività non possono essere rintracciate nella realtà fisica si pensa che esse siano collocate in una realtà metafisica1�. La possibilità di svincolarci dalla sottomissione mediatica mantenendo quel che di positivo i mezzi di comunicazione oggi a nostra disposizione ci possono offrire – come l’oltre-passamento di barriere spazio-temporali che in passato sono state estremamente limitanti – passa dalla grammatica. Se lo spazio entro il quale potersi esprimere è ristretto, allora anche il pensiero espresso dovrà per forza di cose restringersi; se la grammatica è costretta a mutilarsi, sarà lo stesso pensiero a dover perdere pezzi, a impoverirsi. Se il limite della gramma-tica normativa – quello di imporsi come forza omologante del pensiero – può essere controllato solo dalla grammatica spontanea, non dobbiamo dimenticare che il pericolo che la grammatica spontanea costituisca perniciosi individualismi linguistici e di pensiero può essere controllato solo dal potere aggregativo della grammatica nella sua funzione sociale effet-tiva, non virtuale. Wittgenstein non ha creduto in un potere della grammatica - o meglio di una filosofia che si occupi della grammatica - di riformare il pensiero in quanto ha tra l’altro immaginato che la terapia per curare certi modi di vivere e pensare, i cui

sintomi sono i fuorvianti usi linguistici, sia quella messa a punto dal filosofo, che come singolo uomo non può che limitarsi a «descrivere il disordine dei giochi linguistici»: «questa cura intel-lettuale non avrà conseguenze sociali di rilievo»1�. Egli ha pensato che l’unico potere di una filosofia che muove dalla grammatica fosse quello di portare a galla i problemi, di smascherare i fraintendimenti, i pregiudizi, gli errori. Gramsci, invece, ha sempre pensato che la grammatica avesse potere d’azione e che la politica dovesse interessarsi a essa – con i limiti di eventuali strumentaliz-zazioni che ciò comporta – per produrre cambiamento, per dar vita a prassi di politica democratica. Indipendentemen-te dagli esiti e dagli obiettivi dei loro pensieri, pare evidente che entrambi abbiano ancora qualcosa da insegnarci per leggere il presente.

14Cfr.L.Wittgenstein,Libro blu,cit.,pp.13-14.

15G.H.vonWright,Witt-genstein,BasilBlackwell,Oxford,1982;trad.it.Wittgenstein,acuradiA.Emiliani,IlMulino,Bologna,1983,p.247.

Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Il potere della grammaticaMoira De Iaco

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10 Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /La semiotica della scrittura cineseGordon Davies

La semiotica della scritturacineseLa lingua più comunemente usata nel mondo è una delle pochissime a non usare un alfabeto. È scritta invece in ca-ratteri, più tecnicamente chiamati logogrammi, di cui 3500 sono sufficienti per la maggior parte delle comunicazioni (Norman 1988: 73). L’adozione di un alfabeto per la lingua cinese è discussa da quasi un secolo, ma è ostacolata dal numero enorme di omonimi che sarebbe indistinguibili in uno scritto fonetico. Il cinese mandarino moderno contiene solo circa 400 suoni possibili. E questi suoni comprendono solo 413 unità univoche e distinte. Queste sono lunghe una sillaba (ad es. lang) o due demi-sillabe (ad es. liang) (Syrdal 1994: 116).Per chi insegna lingue basate sull’alfabeto, come l’italiano, a studenti che possiedono tale sistema di scrittura dovrebbe meglio capire le strutture semiotiche di un linguaggio come il cinese, in quanto questo potrà fornire informazioni impor-tanti per il processo didattico.Ogni fonema è rappresentato nella scrittura da un logo-gramma, solitamente unico per quel fonema. ‘Oro’ per esempio è 金, pronunciato jin. Ma una rapida ricerca in un dizionario indica che jin ha oltre 120 significati. Il manda-rino moderno parlato ha cinque toni, ma jin espresso nel primo tono come ‘oro’ ha ancora oltre 30 significati.Le parole sono spesso create con due fonemi in combinazio-ne per rendere più preciso il significato e per ridurre la possi-bilità di equivoco. ‘Oro’ può dunque esprimersi in modo abbastanza chiaro come huangjin (黃金), letteralmente ‘oro giallo’. Ma secondo il contesto, soprattutto nel linguaggio scritto, uno stile più letterario e abbreviato permette a un carattere di comunicare il significato dei due caratteri nel-l’idioma più colloquiale. Nonostante l’esistenza di huangjin (黃金), ad esempio, ‘oro’ è spesso scritto solamente jin (金). I logogrammi fanno dunque parte centrale del significato in cinese. I logogrammi cinesi non sono creazioni casuali, né sono per la maggior parte pittogrammi o ideogrammi, come spesso sono immaginati. Sono invece adattamenti ingegnosi rispet-to alla fonetica del cinese parlato.I logogrammi sono tradizionalmente classificati in cinque categorie secondo la loro composizione, cioè pittogram-mi, ideogrammi, radicali, indicativi e simboli fonetici. (Una sesta categoria, spiegazioni reciproche, è considerata dubbiosa). Ognuno di questi tipi offre una vasta gamma di potenizali usi.Alcuni logogrammi sono infatti ‘pittogrammi’, rappresen-tazioni di oggetti materiali, molto semplificati col passare del tempo. I grafici per ‘sole’ (日), ‘luna’ (月) e ‘terra’ (土)

derivano dalle immagini per queste cose. Utilzzando la teoria di Charles Peirce, il representamen, la forma che il segno assume, assomiglia all’oggetto a cui riferisce. Per estensione, nel caso di ‘sole’ (日) e ‘luna’ (月), i sensi di ogni segno comprendono, rispettivamente, anche i significati ‘giorno’ e ‘mese’.Una minima componente di logogram-mi sono ‘indicativi’ che usano segni indicativi per trasmettere un significa-to. Esempi sono ‘uno’ (一), ‘due’ (二) e ‘alto’ (上) dove la breve linea oriz-zontale si mette ‘sopra’ per indicare il significato.Un ‘ideogramma’ combina due o più pittogrammi o indicativi per esprimere un concetto più astratto. Ad esempio, il pittogramma di un ‘albero’ (木) con il ‘sole’ (日) sovrapposto (東) signifi-ca ‘est’. Qui la lingua crea significati secondo un complesso di convenzioni, per esempio, così che quando il sole appare in basso tra gli alberi il segno risultante implica l’alba e quindi la direzione ‘orientale’. Il ‘sole’ (日) e la ‘luna’ (月) insieme sono ‘luminosi’ (明). Due ‘alberi’ (木) formano un ‘legno’ (林); tre un ‘boschetto’ (森). Questi ideogrammi sono ‘iconici’, nel senso che assomigliano vagamente all’oggetto che rappresentano.Una categoria denominata ‘prestiti fonetici’ utilizza un carattere per il va-lore fonetico e così viene utilizzato per esprimere una parola con la stessa pro-nuncia. Uno dei logogrammi per ‘orzo’, ad esempio, è 來. Al pittogramma 木 che abbiamo già visto per ‘albero’ o ‘pianta’ si aggiungono elementi per rappresentare il grano appeso (人人) e il risultato è 來, pronunciato lai. ‘ ‘Ve-nire’ ha la stessa pronuncia lai, e così il logoramma è stato preso in prestito per esprimere ‘venire’, senza tener conto delle sue qualità ideografiche.1

L’ultima classe di logogrammi è più complessa graficamente e semiotica-

1 Vedereriferimentieti-mologicinelprogram-masoftwareWenlin,v4.2.2,voceper來.

WenlinInstitute,Inc.Estrattoil19ottobre,2015.

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11mente. Oltre l’ottanto percento dei logo-grammi sono ‘picto-fonetici’. In questo caso, un elemento indica il significato e un altro elemento, il suono. Il carattere per ‘sole’ o ‘giorno’ (日), ad esempio, è anche un com-ponente in altri caratteri più complessi dove esprime significati vari. Può rappresentare ‘luce’ ma in alto a sinistra di 照 significa ‘illuminare, riflettere, brillare’. La parte inferiore (灬) raffigura ‘fuoco’ ed è un’altra indicazione del significato. L’altro tipo di segno ‘picto-fonetico’ indica il suono, a volte chiaramente, a volte più o meno anacro-nisticamente. 照, ad esempio, è pronun-ciato zhao. Il lato destro di 照è 召, e 召è un componente fonetico perché anche pronun-ciato zhao. In oltre, all’interno di召, la parte superiore刀è pronunciata dao, simile a zhao, indicante la pronuncia. 照 ha quindi due sensi, 日 ‘giorno’ e灬 ‘fuoco’, e due valori fonetici, 召 zhao e, all’interno di 召, 刀 dao.Gli elementi per ‘sole’ (日) e ‘fuoco’ (灬 anche scritto 火) possono rappresentare la ‘luce’, come abbiamo visto. Il ‘sole’ (日) può anche rappresentare un ‘giorno’, ‘tempo’, ‘chiaro’, ‘presto’, ‘tarde’, ‘stella’, ‘ripettere’ (presumibilmente perché il sole riappa-re). ‘Fuoco’ (灬 o 火) può anche indicare ‘cottura’, ‘bruciare’, ‘caldo’, ‘rabbia’, ‘secco’, ‘splendore’ (presumibilmente a causa dell’iridescenza dei beni pregiati), ‘vantare’ (cioè mostrarsi come una scintilla lumino-sa) e altro.‘Pace’ (安), pronunciato an, contiene due elementi. Uno, 宀, pronunciato mian, è un indizio fonetico del suono an. Ma di per sé, vuol dire ‘tetto’ e questo significato inoltre contribuisce al senso intero del logogram-ma. Il secondo elemento, 女, è un pitto-gramma per ‘donna’, cioè una figura seduta a gambe incrociate. I due insieme, una ‘donna’ sotto un ‘tetto’, produce il logoram-ma per la ‘pace’. La scrittura cinese sem-bra essere prodotta da mano maschile, in quanto il logogramma per la pace domestica mostra la propria moglie tranquillamente seduta sotto il tetto della casa.Poi, il segno 女, per ‘donna’, è presente nei seguenti logogrammi: ‘bambino’ 娃, ‘schiavo’ 奴, ‘as-surdo’ 妄, ‘infida’ 奸, ‘geloso’ 妒, ‘loquace’ 絮, ‘balbettare’ 呶 e ‘avaro’ 婪: tutti dei quali comunicano un punto di vista stereotipato dal punto di vista maschile.La visione culturale particolare si nota an-che in 夷, uno dei caratteri tradizionali per ‘straniero’, che implica persone pericolose e violenti tramite due elementi: ‘grandi’ (大) e ‘arco’ (弓). Può anche significare ‘stermi-nare’.Un altra categoria di logogrammi, quel-la semantico-fonetica, è assai complessa perché indica sia il significato sia il suono. Il logogramma 背, bei, per esempio, significa la ‘schiena’ di una persona. L’elemento 月 significa ‘carne’ e solitamente si trova in grafici per il corpo. La parte superiore 北 è un ideogramma di due persone che sono seduti schiena a schiena. Si legge bei, come 背.2 Ma il proprio significato di 北 è ‘nord’.

La schiena di una persona e la direzione nord non sembrano associate a meno che non si consideri che gli invasori della Cina solitamente vennero dal nord. Lì c’erano le terre barbariche a cui la Cina ha girato la sua ‘schiena’. Infatti, le bussole cinesi tradizionali puntano verso il sud.Donne tranquille a casa, barbari armati nei territori del nord: ovviamente i simboli rivestono di una semiotica prettamente culturale. La scrittura cinese è altamente suggestiva, ma talvolta riveste di con-cetti sessisti e xenofobici. In certi casi, la scrittura è anche una dichiarazione politica.Negli anni cinquanta, il partito comunista cinese in-trattenne una riforma del sistema di scrittura. Molti logorammi complessi furono semplificati. L’aspetto fonetico fu reso più importante in conformità alla pronuncia contemporanea. Ma alcuni ideogrammi furono alterati per sottolineare l’ideologia politica. Ad esempio, il carattere tradizionale per ‘povero’ è 窮 qiong; ma 躬 si pronuncia gong, e significa ‘inchinarsi dalla vita’. Secoli fa, venne scelto forse per codificare la pronuncia e il significato perché la gente ‘povera ‘si inchina’ davanti ai ricchi. Il Comitato per la riforma della lingua sostituì il carattere con 力 per creare un nuovo logogramma 穷. E 力 non fu sostituito per motivi fonetici perché il suono è diverso da qiong. Significa ‘forza’ e forse nell’ ideologia maoista, la ‘forza’ politica viene dalla gente ‘povera’ che non è più oppressa e quindi non deve inchinarsi. Per concludere, questa breve infarinatura di com-menti semiotici alla scrittura cinese può essere utile per capire che quando si insegna un linguaggio, la storia che un segno comporta sarà inevitabile. Sco-prire gli strati di significato all’interno di una lingua aiuta a capire la sua mentalità.

2 Nello studio del cinese scritto, quest’articolo non tiene conto delle differenze nei toni in cinese parlato.

Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /La semiotica della scrittura cineseGordon Davies

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12 Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /L’uso degli eponimi nell’insegnamentodell’italiano a studenti anglofoniFrank Nuessel

L’uso degli eponiminell’insegnamento dell’italiano a studenti anglofoniIntroduzione

Secondo l’Enciclopedia Treccani (Onomastica 2016), l’ono-mastica (dal greco epi ‘sopra’ e onoma ‘nome’) è:

amo della linguistica che studia, all’interno di una o più lingue o dialetti, il sistema dei nomi propri, i processi di denominazione e le loro caratteristiche. I nomi propri, infatti, presentano problemi diversi dalle altre parole in quanto, perduto il loro valore originario di appellativo, restano isolati da tutto il rimanente materiale lessicale della propria lingua, così che a volte presentano caratteri di estrema conservatività e arcaicità. L’o., le cui basi storiche e scientifiche furono poste verso la metà del 19° sec., si suddivide, a seconda che indaghi i nomi propri di persona o di località, in antroponimia e toponomasti-ca; in senso più ristretto è sinonimo di antroponimia.

L’Enciclopedia definisce l’eponimia come “il fatto di attribuire il nome di personaggi a periodi storici, a movimenti letterari o artistici, a invenzioni e scoperte, a organi anatomici, a ma-lattie, ecc.” (Eponimia 2016). Il Dictionarist (Eponimo 2016) definisce l’eponimo come “persona il cui nome viene dato a un luogo o a qualcosa; nome di malattia derivato dal nome del suo scopritore; nel passato funzionario il cui nome stava ad indicare l’anno della sua permanenza in carica”.

Si possono usare gli eponimi in una classe d’italiano per insegnare diversi aspetti della cultura italiana, ad esempio, le persone famose (scienziati e altre persone celebri) ed i personaggi teatrali e letterari.

Alcuni esempi di eponimi

Il grande linguista e filologo italiano, Bruno Migliorini (1896-1975), nel suo libro Dal nome proprio al nome comune (1927), descrive il processo linguistico del cambio di un nome proprio ad uno comune, come ad esempio, volt dal cognome del fisico Alessandro Volta (1745-1827) che ha inventato la pila voltaica, il prototipo della batteria elettrica (Bankava 2006: 604) e il suo cognome è un’unità dell’elet-tricità (cognome [Volta] > nome comune [volt]). In questo articolo, si parlerà degli eponimi a seconda di due aspetti

semantici: (1) persone famose (scienziati e altre persone note), e (2) personaggi teatrali e letterari.

Gli eponimi nell’insegnamento dell’italiano

Gli eponimi costituiscono un mezzo per insegnare alcuni elementi culturali e storici in una classe d’italiano.

Scienziati famosi

Alcuni eponimi di scienziati italiani sono compilati nella tabella 1.

Eponimo Spiegazione dell’eponimo

fermi, fermio, l’equazione di Fermi-Dirac

Enrico Fermi (1901-1954), fisico nato in Italia, il cui cognome si usa per un metro (il fermi) usato nella fisica atomica e nucleare (Bankava 2006: 604). Ci sono anche il fermio della tavola periodica e l’equazione della statistica di Fermi-Dirac. Ha ricevuto il Premio Nobel per la fisica (1938).

galvanonmetro, galvanizzare, galvanizzazione

Luigi Galvano (1739-1798), scopritore dell’elettricità biologica e delle sue applicazioni come il galvanometro e galvanizzazione (Bankava 2006: 604).

torr Evangelista Torricelli (1608-1647), fisico e matematico italiano, e il suo cognome è la base della misura del torr (Bankava 2006: 604). È la misura di pressione equivalente a un millimetro di mercurio.

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13apparato di Golgi Camillo Golgi (1843-1926) medico, professore di istologia e patologia. Era il primo italiano d’aver ricevuto il Premio Nobel (1906) per la fisiologia e la medicina. Ha scoperto un organulo di composizione lipo-proteica (l’apparato di golgi (Al Aboud e Al Aboud 2013: 438).

Tabella 1. Eponimi di scienziati

Altri eponimi formati dai cognomi di persone famose

Nella tabella 2 si troveranno eponimi in altri settori.

Eponimo Spiegazione dell’eponimo

Casanova Giacomo Girolamo Casanova (1725-1798), nato a Venezia, era un avventuriero e seduttore (Bankava 2006: 604). Ha scritto un libro in francese Histoire de ma vie (Storia della mia vita) dove tratta delle sue avventure. Ci sono molti film ispirati alla figura di Casanova, ad esempio, Il Casanova di Federico Fellini [1920-1993] (1976).

Amati (strumento a corda) Niccolò Amati (1596-1684), conosciuto per i suoi strumenti musicali, è il più noto liutaio di Cremona (Bankava 2006: 603). Lo strumento a corda si chiama “Amati”.

Tabella 2. Altri eponimi di persone famose

Personaggi teatrali e letterari

La Commedia dell’Arte emerge nel secolo XVI. È una comme-dia improvvisata. Alcuni personaggi della commedia indossa-vano maschere che rappresentavano certi stereotipi ben cono-sciuti, i quali fanno parte della tradizione letteraria italiana.

Eponimo Spiegazione dell’eponimo

Arlecchino Indossa una maschera nera. Rappresenta il servo stupido. C’è anche un modo di dire “fare l’arlecchino” che vuol dire comportarsi da buffone.

Pagliaccio Porta una maschera che rappresenta il buffone.

Pulcinella Rappresenta una persona poco seria: “fare il Pulcinella” vuol dire comportarsi da persona poco seria o opportunista.

Tabella 3. Eponimi di personaggi teatrali e letterari

Conclusione

Gli eponimi sono utili per insegnare alcuni aspetti della cul-tura storica italiana. Ci sono molti altri esempi che si possono introdurre in una classe d’italiano. L’idea è di integrare lingua e cultura storica in una maniera interessante e altamente comprensibile.

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14 Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /I media come specchiodel mostruoso e del mirabileGiuseppe Mininni

I media come specchiodel mostruoso e del mirabile

Puyan, fratello maggiore di Alì, la voce narrante nel famo-so romanzo autobiografico di Hamid Ziarati (2006), Salam, maman, dà una svolta decisiva al grigio tran tran della sua famiglia quando sfrutta l’occasione di vendere le foto da lui scattate, a rischio della vita, sull’eccidio in piazza Gjaleh, a Teheran, con cui lo shah Reza Pahlavi spianò la strada alla trasformazione dell’Iran in uno “Stato Islamico” con la rivo-luzione guidata dall’ayatollah Khomeini, all’epoca in esilio a Parigi. In effetti, la circolazione, nei media di tutto il mondo, delle immagini di centinaia di persone inermi trucidate mentre denunciavano gli effetti intollerabili di una dittatura agevolò quella svolta epocale. Non era la prima volta né sarebbe stata l’ultima in cui l’espe-rienza condivisa delle atrocità innesca dinamiche più ampie di consapevolezza, anche se non sempre esse si traducono in esiti sociopolitici altrettanto rilevanti o comunque positivi. Sempre però ci si è interrogati sull’opportunità o meno di “mettere in comune” l’insostenibile pesantezza del mal-esse-re, rendendo visibile l’orrore. Poiché “nella realtà attuale tutto si traduce in ‘immagini’ (… e) i media visivi non spiegano il rapporto fra il soggetto e il mondo esterno, ma lo ‘mostra-no’ secondo un determinato punto di vista” (De Luca 2007: VII e 38), gli psicologi sociali hanno rilevato sia il rischio di imitazione sia l’acuirsi delle tendenze depressive inerenti a un’eccessiva e/o prolungata esposizione delle persone alle rap-presentazioni violente della realtà circolanti nei mass media. Non v’è dubbio che i media siano artefatti della mente culturale umana talmente potenti da consentire alle persone di costruire un’esperienza condivisa del mondo. Essi sono percepiti (e usati) come tecnologie comunicative in grado di sorreggere le necessità di interazione tra le persone e tra i gruppi nonché di modellare le risposte ai loro bisogni di partecipazione alla vita sociale. Il loro funzionamento poggia sulla risorsa più preziosa della mente: l’attenzione. Ecco per-ché appare giustificata la preoccupazione di chi vede l’effetto boomerang prodottosi nella recente evoluzione del sistema mediatico –cioè Internet--, che deve il suo fascino più peri-coloso al fatto di funzionare da “tecnologia della distrazione di massa” (Carr 2011).In generale l’effetto psicosociale più rilevante dell’azione dei media è di catturare (almeno temporaneamente) l’attenzio-ne delle persone. L’informazione, la pubblicità, l’intratteni-mento sono i tre grandi generi discorsivi che, avvalendosi di strumenti e strategie differenti, mirano ad occupare, mo-mento per momento, il centro di elaborazione mentale che guida l’esperienza personale e collettiva del mondo. La nota formula giornalistica secondo cui “Paola ha morso Fido” fa

notizia e non lo è “Fido ha morso Paola” evoca il principio ineludibile che guida l’attenzione: l’inatteso, il sorprenden-te, il meraviglioso, il mostruoso vince su ciò che è ritenuto ovvio, normale e prevedibile. Ogni qualvolta la cronaca registra eventi di grave efferatez-za, si sviluppa una discussione sull’opportunità di diffonderne le immagini eventualmente disponibili. Finché è stata pratica-bile una gestione controllata dei media, era disponibile l’opzio-ne della (auto)censura, ancorché ritenuta sospetta e criticata da molti. Con l’avvento della Grande Rete, il mostruoso “si mostra” inevitabilmente e con una forza così incoercibile, da richiedere che, per non esserne sommersi, si attivi il coraggio della consapevolezza, proposta come risorsa collettiva.Com’è noto, quando le milizie dell’ISIS intesero richiamare l’attenzione del mondo sul loro progetto geo-politico, diffu-sero in rete dei filmati che mostravano la loro barbara deca-pitazione di alcuni ostaggi. In questo modo l’esibizione del più macabro rituale dell’odio si impadronì dell’immaginario globale, attivando la più ancestrale delle emozioni: il terrore. Nell’attacco alla sede del settimanale satirico Hebdò sferrato il 7 gennaio 2015, una telecamera registra l’attimo fuggente in cui uno degli aggressori raggiunge un addetto alla sorve-glianza caduto sul marciapiedi e in atteggiamento di resa per scaricargli addosso la raffica del suo mitra (cfr. Fig. 1).

Fig. 1: L’orrore del disumano

Questa scena è resa tanto più orrenda dalla consapevolezza successiva che l’inerme era della stessa religione musul-mana cui l’assalitore dichiara di ispirarsi nel compiere la sua azione disumana. In ogni caso, quanto più orripilante è

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15una scena di vita reale ripresa dai media, più elevato diventa il tasso di interesse con cui opera nell’economia della mente collettiva. Gli scenari apocalittici che i media aprono sulla vita quotidiana di milioni di persone sprigionano quella stessa forza dirompente che caratterizza la dimensione del sacro come un intreccio incoercibile di “fascinans et tremendum”. Attrattività ed evitamento rinnovano il loro aspro confronto pulsionale nell’attirare la mente sull’”orrendo” che fa bella mostra di sé nel potere avvolgente dei media. Il “mostruoso” sbattuto in prima pagina dai quotidiani, dibattuto in prima serata dalle reti televisive e visitato in prima opzione tra i siti Internet esalta quell’inestirpabile deriva nel morboso da cui la mente tenta a fatica (e spesso invano) di sollevarsi con la sua aspirazione al ben-essere. Mettendo in scena l’orrore, i media rivitalizzano costantemente quella condizione di “insecuri-tas” che caratterizza l’esperienza umana della vita (Semerari 1985). Ma in questa azione di ripresentazione ininterrotta del-l’inquietudine i media svolgono anche una funzione catartica, in quanto individuano sempre un “altro” (e/o un “altrove”) cui attribuire il fascino del tremendo.Invero l’appello alla paura ha un’efficacia diversa a seconda dei contesti in cui opera. Infatti, è noto che le campagne di promozione sociale di condotte sane (ad es. non fumare o non bere alcolici prima di mettersi alla guida di un’auto) no perseguono gli scopi che ci si prefissa se puntano sulla forza dissuasiva attribuita alla paura delle conseguenze negative (cancro o rischio di incidente stradale), La paura suscitata dal-le scene di violenza brutale che in misura crescente occupano lo spazio simbolico gestito dai media produce effetti certi e ad amplissimo raggio. Infatti, la conseguenza principale del dila-gare del terrore nei media p quella di abolire la “dimensione tragica” dell’esistenza, sostituendola con quella di “gravità” (Benasayag 2015, 50). Inoltre il terrorismo mediatico fa sì che la capacità delle persone “di essere colpiti da qualche cosa di altro da sé, di sentirsi vibrare al ritmo della società e degli eventi storici, delle grandi speranze, dei grandi racconti è andata perduta” (ivi: 51).Come contrastare lo straripare del disperante sconcerto pro-vocato dalle scene di crudeltà circolanti nei media, soprattutto in Internet? Un primo asse di contrasto consiste nell’auspicare che i media in generale (e Internet in particolare) contribui-scano a ridurre la violenza politica, fornendo una più adeguata copertura degli argomenti proposti dai “dissidenti” politici, ma valorizzando il potere di influenza delle pratiche non vio-lente (Held 1997). Tuttavia, con crescente preoccupazione è avvertita la neces-sità di un’azione ancora più efficace nel contrasto al dilagare dell’orrore mediatico. Un secondo asse di rimarginazione alle “ferite simboliche” inferte per via immaginifica al corpo socia-le consiste nel richiamare l’attenzione sulle vicende –persone, situazioni, storie— che esaltano le “virtù sociali”, perché sono radicate nel potenziale di umanizzazione inerente al “lato luminoso dell’uomo” (Galli 1999: 9). Per poterlo fare, la psico-logia (dei media) deve abbandonare l’orientamento prevalen-te, ispirato al “principio del sospetto”, che dal senso comune degli “apocalittici” tracima in molte sue piste di ricerca (a cominciare dal “disagio della civiltà” esplorato dalla psicoa-nalisi), per adottare il “principio del rispetto”, che ha ispirato altre piste di ricerca, per lo più marginalizzate (a cominciare dalla Gestalttheorie). Invero, per contrastare l’orrore che si mette in mostra grazie a loro, i media dovrebbero far risaltare ancor più il valore dell’impegno per conseguire obiettivi personali e sociali, così da rendere “ammirabile” la condizione umana. La logica dei media prevede una necessaria azione di filtro sulla vita quo-tidiana, cosicché tutto ciò che è atteso, scontato o ovvio nella organizzazione del ben-essere individuale e collettivo non è degno di menzione perché “non fa notizia”. Per doloroso e/o faticoso che sia, l’agire bene è inteso come “sfondo”, mentre

l’agire male tende a emergere come “figura”, cioè come feno-meno saliente e capace di attirare l’attenzione. Questa legge istitutiva della comunicazione di massa risponde al principale modulo attivatore della vita psichica che consiste nel “pensiero narrativo” (Bruner 1990). Da Vygotskij a Cole, la psicologia culturale ha riconosciuto nella costruzione di storie (e di storia) la specificità della mente umana (Mininni 2013). Com’è noto, ogni testo narrativo –dal mito all’autobiografia-- regge sull’emergere di almeno una “peripeteia”, cioè sulla rottura di un equilibrio, sull’affiorare di una criticità in uno stato di relativo ben-essere. L’attrattività delle storie di vita risiede nella capacità della mente di immaginare dei percorsi di senso tali da fronteggiare il mal-essere. La tendenza a con-siderare il ben-essere come condizione di default per destinare le (scarse) risorse dell’attenzione e dell’interesse all’esperienza del male –dalla malattia agli sforzi di adattarsi alle asprezze del mondo naturale, dalla guerra alla morte-- risulta accen-tuata dalle forme della “comunicazione ai tempi di Internet” (Danesi 2013). Chi progetta siti e portali Internet è ben con-sapevole che, per raggiungere i propri obiettivi di persuasione e/o di manipolazione, è possibile sfruttare tutti il potenziale delle emozioni, perché la produzione di senso gestita in questo tipo di interazione avviene in un vuoto morale (Light 2004).Di conseguenza, per contrastare la tendenza naturale della mente narrativa a focalizzarsi sul male, per giunta aggravata dalle regole dei media, l’esperienza del bene deve apparire ed essere valutata come del tutto straordinaria. Un indizio della necessità di un tale giudizio implicito di valore è dato dalla differenza di genere nelle aspettative di una virtù sociale come il “coraggio”. Infatti, poiché tale caratteristica è ritenuta più scontata per il maschile che per il femminile, ne deriva che i media narrino più frequentemente di “donne coraggio” che di “uomini coraggio”. Ad esempio, se si esaminano i siti Internet relativi a tale “virtù sociale”, risulta che il “coraggio” di alcune donne consista nella determinazione ad opporsi alla forza dei luoghi comuni. In sintesi, il sistema dei media favorisce l’intreccio esplosi-vo tra il mostruoso e il barbarico quali forme supreme della disumanizzazione possibile. L’incertezza nell’organizzazione della vita quotidiana fa crescere a dismisura l’inquietudine come traccia interpretativa del mondo. Per contrastarla con qualche speranza di efficacia, i media hanno il compito morale di agire da megafoni di tutte quelle vicende in cui le persone (e/o le comunità) si rivelano capaci di “sincerità”, “coraggio”, “accoglienza”, “fiducia”, “tenerezza” e “dedizione”, cioè di tutte quelle “virtù sociali” che accrescono la dignità della con-dizione umana nel mondo.

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16 Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Il differimentismo. Annotazioni di un percorsodi ricerca in pittura-scritturaLuciano Ponzio

Il differimentismo. Annotazioni di un percorso di ricercain pittura-scrittura 1

1. Somiglianza e differimento

I segni pittorici s’innestano nella tela regolare della vita con un loro specifico distanziamento, grande o piccolo che sia, svincolati dalla convenzionalità, dalla rappresentazione, dalla pura e sempli-ce trascrizione. Essi sono interpretanti “iconici” nel senso di C. S. Peirce, cioé basati sulla somiglianza senza originale, sulla somiglianza non come risultato di un confronto con un originale, ma come il movimento stesso che dà luogo al segno, stabilendo un rapporto con ciò che origi-nariamente e naturalmente non si trova in rapporto. In questo rinvio che fa della somiglianza un differire, la raffigurazione iconica tenta un avvicinamento a ciò che si dà come altro — e il suo significato è questo stesso movimento oltre il dato, oltre il visibile: “Un’icona è un segno che possiede il carattere che lo renderebbe significante anche se il suo oggetto non esistesse — come un tratto di gesso che rappresenta una linea geometrica” (C. S. Peirce).L’intuizione artistica porta, attraverso vie logiche, alla nascita di qualcosa d’altro, qualcosa che “somigli” alla vita ma non la identifica! I segni pittorici potrebbero essere paragonati ai breaks del mondo jazzistico (M. Leiris) che si distanziano dal brano (pur attenendosi ad esso) per creare un effetto differito indebolendo l’impatto musicale ma accrescendone la risonanza.

1 Proseguimento del mio “La responsabilità del testo artistico” , in questa stessa rivista, V, 07, 2015, pp. 35-41.

Per fingere le parole la poesia supera la pittura, e per fingere fatti la pittura

supera la poesia [...]. Ma la pittura non per sapere i suoi operatori dire sua

ragione, è restata lungo tempo senza avvocati, perché essa non parla, ma per

sé si dimostra e termina ne’ fatti; e la poesia finisce in parole, con le quali

come briosa se stessa lauda. (Leonardo da Vinci)

Per poter cogliere sulla tela quegli stessi effetti differiti di somiglianza, l’artista guarda la vita non in maniera diretta, immediata, frontale, ma si distanzia dal mondo usuale, per poterlo deformare o, comunque, alterare con dei breaks pittorici.La pittura non rende i corpi, non rende i paesaggi, non rende la luce.La pittura è la resa dell’identità, ne è la parodia. Ritrae ritraendosi: la somiglianza come autoritrarsi nella resa del-l’altro, all’altro.

Luciano Ponzio, Il tempo della scrittura, 2014

Luciano Ponzio, Carto-grafie, 2015

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17La pittura non vuole riprodurre, non ha modelli da rappresen-tare o storie da narrare (G. Deleuze) e non è “arte di raccolta” (K. Malevič) ma lavoro di traduzione (e non di trascrizione), linguaggio creativo ricco di infinite possibilità, combinazioni e interferenze tra segni differenti e altri rispetto ai codici del dominio e della globalizzazione.La pretesa di “rendere il visibile” rassicura e tranquillizza. In-vece l’opera pittorica ha la capacità di ossessionare il “mondo degli oggetti”, d’inquietare la vita e di rompere la monotonia di qualsiasi muro al quale è appesa — restando sospesa e non fissata —, proprio per la sua forte propensione strutturale al-l’icona, al “figurale” (G. Deleuze), alla somiglianza, al differi-mento.

2. Cieli di luce

Disegnare la luce è cosa diversa dal dipingerla.La pittura fa ricorso alla varietà delle colorazioni che a sua vol-ta è ottenuta a partire da elementi cromogeni fondamentali.Tramite analisi fotometriche, colorimetriche e mediante la fluorescenza dei raggi X, è possibile identificare precisamente la luminosità e i contrasti di un dipinto, come pure la gamma cromatica e la composizione chimica dei materiali impiegati.Se si esamina radiograficamente un dipinto si può risalire dal-la gamma cromatica stabilita approssimativamente per esame ottico agli elementi cromogeni fondamentali.Un lavoro del genere è stato compiuto da Maltese (et Alii 1991) su alcuni dipinti del Caravaggio, nell’opera del quale notoriamente la luce gioca un ruolo fondamentale. Per esem-pio, esaminando per raggi X il dipinto del Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta (v. ivi: 3-8), risulta che all’ampia varietà delle colorazioni corrisponde un’estrema scarsezza del numero degli elementi cromogeni fondamentali, specificamente dei pigmenti minerali, di cui solo tre (piombo, ferro e stagno) rivelati dall’XFR.Le abbondanti e varie sfumature sono dovute a terre (di Siena, ocra bruciata, ecc.), ma anche a sostanze organiche (lacche e neri organici). Si dipinge la luce e si dipinge con la luce.In un dipinto è evidentemente l’illuminazione e la provenien-za della luce a delineare un oggetto, un volto, a materializzar-lo, a determinarne il contorno, a dare il senso della sua opaci-tà, trasparenza, ruvidezza, levigatezza, a variegare un colore, a dargli tonalità diverse, ad accenderlo o spegnerlo.Anche un disegno in bianco-nero è basato essenzialmente su un gioco di luci, di chiari e scuri.Dipingere la luce direttamente, anzi disegnarla senza colore col solo tratto di penna, e senza l’oggetto illuminato, questo l’intento delle tavole che accompagnano questo saggio, il cui numero (10) corrisponde a quello dei nove Cieli più l’Empireo.

2.1. Disegnare la luce

Un compito che sembra rievocare la pittura “elementale” del romanticismo inglese e tedesco della fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, che si proponeva la raffigurazione degli elementi della natura, nella loro singolarità e purez-za: “la représentation d’un pur élément, on serait tenté de dire un pur vide ou une pure absence”, “pure transparence” (Gandelmann, 1988: 35). Si pensi ad Abend (1824) di Caspar David Friedrich, la cui moglie pare dicesse agli amici venuti a trovarlo: “Nei giorni in cui dipinge l’aria non è assolutamente possibile parlargli!”.È difficile dire se la pittura elementale rientri pioneristicamen-te nella pittura non figurativa. In realtà essa si proponeva una raffigurazione, quella degli elementi puri, senza gli oggetti. Questa assenza dell’oggetto potrebbe farla indicare come non figurativa e farla accostare all’“intention mallarméenne” di mettere il vuoto al posto delle cose e nelle cose, fatte apposta per essere guardate, i quadri. Lo stesso Kandinskij chiama-

va le sue prime opere non figurative “pitture senza oggetti” (Gegenständlose Malerei).Piuttosto che abolire la rappresentazione, nei disegni della luce qui riprodotti si tratta di rappresentare, meglio, di raffi-gurare l’irrappresentabile, come nella pittura elementale, ma a differenza di questa servendosi del tratto di penna, di ciò dun-que che necessariamente traccia, delinea, delimita, racchiude. E non si tratta degli elementi, ma di ciò che nella narrazione biblica gli precede e viene creata prima di tutto, come l’assolu-tamente originario, la luce.

2. 2. Icone della luce

Esiste una iconografia della luce, in cui icona e simbolo, nel senso di Peirce, somiglianza e convenzione (la sua rappresen-tazione tramite raggi, per esempio: si pensi, anche sul piano della scultura, al Bernini e alla rappresentazione plastica, in questa maniera, della luce), si sostengono reciprocamente.La rappresentazione figurativa della luce può avvalersi delle icone verbali, delle immagini presenti nel parlare della luce, che più che metafore, sono espressioni che “letteralmente” dicono la luce in una fusione inscindibile di linguaggio figura-to e descrittivo.La stessa contrapposizione luce/oscurità, luce/tenebra, la sepa-razione (anche nel senso cosmogonico) della luce dall’ombra (post tenebra lux) fa parte dei luoghi comuni del parlare at-traverso cui la luce viene espressa, in qualsiasi lingua, fa parte del “parlare comune”, è presente in tutti i rituali di iniziazione e nelle metafore della rinascita e rigenerazione, come della conoscenza e della elevazione spirituale.La luce viene raffigurata, anche verbalmente, come irraggia-mento a partire da un punto, come estensione che da quel punto primordiale si genera, anche in senso letterale, è colle-gata all’idea di un ordinamento del caos tramite il suo stesso irradiarsi, geometricamente raffigurabile, come ripartizione, sezionamento, settorializzazione, dello spazio.La luce è espressa come splendore, come vibrazione, come emanazione, irradiamento diretto o come rifrazione, come brillare, sfavillare. La stessa teoria ondulatoria e quella corpu-scolare suggeriscono icone della luce, modalità rappresentati-ve di questo irrappresentabile.Luce/calore, Luce/oriente/aurora, Luce/mezzogiorno, Luce/na-scita, Luce/suoi gradi di intensità, Luce/forza creatrice, Luce/vita, Luce/resurrezione, Luce/epifania, Luce/elevazione: sono icone associative prestabilite che rendono possibile la rappre-sentazione della luce.

2.3. Disegnare la luce in bianco e nero

Perché bianco? In fisica, quella che noi definiamo generi-camente luce, è chiamata “luce bianca”, intesa come luce “pura”. Il di-segno della luce può dunque assumere come cri-terio di somiglianza con la luce, per esserne l’icona, questo suo interpretante verbale. La luce bianca è una luce “omogenea”, scomponibile, per mezzo di un prisma, in un numero indefi-nito di fonti di luce colorate (convenzionalmente sette) tra le quali la luce rossa e la luce blu sono le fonti più forti (teoria dei colori di Newton). Un altro esperimento interessante è il noto disco di Goethe. Formato da colori primari indipendenti, distribuiti a spicchio e quando lo si fa ruotare, la mescolanza di questi colori creano il colore bianco.Perché nero? Nella Genesi Dio, prima di creare la luce, creò anche le tenebre, poi le divise l’una dalle altre creando il giorno e la notte. Così, anche se opposti, la luce e le tenebre, come il bianco e il nero, sono in realtà complici di un’unica visione. Dunque se la vera luce è quella cosiddetta bianca, per disegnarla non si ha bisogno di altro colore quale il nero, suo opposto e, allo stesso tempo, complice.Un disegno della luce può esser fatto di questi segni-interpre-

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18 tanti basilari che, per convenzione, nel linguaggio ordinario, in quello della scienza, e dei miti della creazione rappresenta-no la luce.Un’icona è sempre “degenerata” (in senso matematico), come lo è anche il simbolo e l’indice, diceva Peirce a proposito della sua tipologia dei segni. Questo carattere “degenerato” riguar-da, nel nostro caso, una presenza nell’icona di convenzioni relative non solo e non tanto all’iconografia della luce, quanto alle convenzione verbale secondo cui è possibile parlare della luce. L’icona della luce è un ibrido di convenzioni iconografi-che e verbali.

3. I disegni (da Luciano Ponzio, Heavens Of Light, 1999)

Sia data una sorgente di luce che si irradia e illumina tutto ciò che incontra.Nel primo disegno con titolo Luce bianca, colore puro (Tav. 1), la sorgente si spande

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per linee rette incontrastate per tutta la tavola. I segni e i de-cori, più intensi e più fitti nei pressi della sorgente ne raffigu-rano l’intensità.L’indicibilità, a livello scientifico, fra “corpuscolo” e “onda”, si ripresenta nel disegno della luce. La luce si propaga anche per onde. È per questo che il secondo disegno intitolato proprio Luce e onde (Tav. 2) presenta dei segni ondulati o ondosi con la sorgente di luce che si irradia sempre per linee rette con segni bianchi contrastanti sul fondo nero.Nel disegno Luce e un ostacolo (Tav. 3), si tiene presente un ulteriore esperimento fisico, questa volta di Young, nel quale, se si frappone un ostacolo ad una sorgente di luce si vengo-no a creare nuove sorgenti. Un altro interessante elemento accompagna questo disegno: è un effetto ottico nel quale si spiega come la vista produca dei veri e propri raggi creando così una nuova sorgente, questa volta opposta alla luce e che possiede non raggi di luce ma raggi visivi. Questi raggi visivi si comportano allo stesso modo dei raggi di luce. I raggi visivi non percepiscono l’oggetto che si frappone (in questo caso la mano) e si proiettano nello sfondo, mettendolo a fuoco. Così anche la luce non “vede” solo il primo piano, ma, se riesce a passare, si proietta su altri piani. Al contrario, la luce non è in grado di “vedere” o di far luce al di là di un oggetto di super-ficie opaca se non riesce a far passare i suoi raggi, così come non potremmo mai sapere con il solo “tatto visivo” se c’è una persona dietro una casa se non riusciamo a vederla!

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Il disegno successivo Luce bianca, un prisma e lo spettro di colori (Tav. 4), prende in considerazione l’esperimento già citato di Newton sulla teoria dei colori. Esso fa riferimento anche alla velocità della luce, velocità notoriamente superiore a quella del suono; basta osservare un temporale: prima si vede la luce del fulmine e poi si sente il suono-rumore del tuono. Si dice che la velocità massima della luce avvenga proprio all’interno di un prisma, nell’esatto momento del passaggio della luce bianca che viene scomposta e proiettata su una superficie bianca formando lo spettro (banda di sette colori convenzio-nali: rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto).Anche il disegno Percorsi di interferenza tra sorgenti di luce (Tav. 5) è basato su un altro interessante principio fisico: il princi-pio di interferenza di Young. Il suo esperimento ha l’intento di spiegare il fenomeno di combinazione e di interazione tra diverse fonti di luce che con le loro onde tendono a annullarsi o a sommarsi reciprocamente. Così i segni raffigurano diverse fonti di luce, che si combinano fra loro convivendo, senza pre-valere l’una sull’altra, mantenendo un equilibrio nel totale.

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Il sesto disegno, Sole, Luna, Terra e Sirio (Tav. 6) raffigura una visione planetaria. Il tema di questo disegno è la discussione sui colori dei pianeti e delle stelle che circondano la nostra ga-lassia: Manilio nel suo libro Astronomica descrive Sirio di colore blu; al contrario nel libro Questioni Naturali di Seneca, Sirio è rubor, cioè rosso; Tolomeo nell’Almagesto definì Sirio giallastro. Le ragioni possono essere sia di natura culturale sia di grado e possibilità di conoscenza, ma si può anche ipotizzare che oltre ad approssimazioni iconiche, cioè per somiglianza, e a convenzioni, possano essere intervenute in queste “descrizio-ni” anche motivazioni di ordine indicale, cioè che nel sistema stellare vi sono state probabilmente delle evoluzioni.

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19Nel disegno dal titolo Il fuoco negli occhi (Tav. 7) si fa riferimen-to alla narrazione del Timeo di Platone, una seconda versione della Genesi. La storia narrata da Timeo, racconta di come un dio affidò ai suoi figli il compito di creare l’umanità. I primi organi creati furono proprio gli occhi che per poter far luce furono inseriti con fuoco sufficiente per non bruciare.

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Il disegno presenta il raggio visivo (raffigurato come un fuo-co) immaginato da Platone, Empedocle e altri, che, come un fascio di luce, si combina con la luce ambientale (raffigurata come un grande occhio) e insieme formano una sostanza che si proietta finché non incontra una superficie e ne individua il chrôma, colore e struttura, e la riporta all’osservatore.Nel disegno ottavo, intitolato Luci artificiali (Tav. 8), i segni circolari e concentrici si accavallano l’un l’altro e partono da diverse sorgenti ricoprendo l’intero cielo nero. Nel mare, an-ch’esso nero, si riflettono le stesse luci, questa volta spezzate (fenomeno della rifrazione).

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In questa pretesa di primità sta la maggiore possibilità di somiglianza con la luce, sia che la si consideri scientificamen-te come energia originaria dell’universo e assoluta unità di misura della velocità, sia che la si consideri miticamente come il primum della creazione. Nel Raggio di luce su una superfi-cie (Tav. 9) si cerca di immaginare un singolo raggio di luce che incontra una superficie opaca, illuminandola nella zona colpita. Il segno violento in linea retta del raggio di luce che impatta sulla superficie sta a significare la forza e la velocità con la quale penetra la luce.L’ultimo disegno E luce fu (Genesi) (Tav. 10), richiama il mo-mento della creazione della luce che tolse, in parte, le tenebre dalla terra che la ricoprivano creando il giorno e la notte e così pure il primo giorno.

Complessivamente le icone della luce, e questi disegni lo atte-stano, sono fatte della luce vista, della luce parlata e della luce raffigurata, con la commistione di iconicità, convenzionalità e indicalità. La somiglianza che esse possono avere con la luce è dunque “pretesa”. Ma, sul piano artistico, la loro pretesa è so-prattutto quella che l’immagine possa valere per sé, come dice Peirce dell’icona, che possa avere con la luce un rapporto di somiglianza nel senso dell’orienza e della primità, che possano avere significato e valore di segno indipendentemente da ciò a cui dovrebbe somigliare, senza riferimento a nient’altro che a sé stessa. È la pretesa di ogni immagine artistica, tanto più nel caso in cui si disegni la luce.

4. Visioni, Descrittura, alterità. Tre tesi su arte e vita

L’idea di una pittura universale, di una totalizzazione della pittura, di una pittura totalmente realizzata, è un’idea senza senso. Durasse ancora milioni d’anni, il mondo, per i pittori, se ne resteranno, sarà ancora da dipingere, finirà senza essere stato conquistato.

(M. Merleau-Ponty, L’occhio e la mente)

4.1. La visione/lo sguardo

“Io guardo, e guardare” – scrive Bataille – “richiede la mia presenza pietrificata in questo punto del mondo e la mia condizione di uomo riporta ognuna delle verità sensibili da me riconosciute all’errore del suolo fisso, all’illusione di un fondamento immutabile”.Lo “sguardo” riproduce l’“immagine intellettualizzata del mondo” (G. Bataille) e tende a “identificare”, “nominare”, “pietrificare”, “mortificare” l’oggetto in un determinato, in un pre-scritto e, pur sempre, riduttivo contesto: “all’errore del suolo fisso”.Guardare significherebbe non riuscire a vedere – un abbaglio dovuto proprio a questo accanirsi a “far luce” – altro che l’og-getto inserito e sommerso nel “monotono ordinamento degli utensili”, procurandosi di conseguenza una sorta di cecità nei confronti di una caratteristica eccedente dei segni (cioè la loro valenza iconica nell’accezione di Peirce) per la quale il loro senso e valore restano autonomi e irriducibili alla rappresenta-zione che ne abbiamo, all’interpretazione che ne diamo e alla “realtà” a cui stabiliamo di assegnarli.Sottrarre “l’oggetto al mondo delle cose”, al mondo già dato, significa de-responsabilizzare l’opera artistica dall’obbligo di “valutare oggetti” definendoli e afferrandoli concettualmente sulla tela.I contenuti di questa vita sono “la carità che si offre all’arti-sta” (K. Malevič). L’arte non è di questo mondo, anche se in-tensamente in questo mondo vive, e non si lascia rinchiudere in questo periodo storico che la limiterebbe e ne ridurrebbe la forza del suo atto a un tempo piccolo. Non c’è una visione uni-taria della realtà, ma l’“artista ne ha una, l’ingegnere un’altra, lo scienziato una terza, il prete una quarta, e così via” (come direbbe Malevič).Una visione “ottusa” (Roland Barthes), interdisciplinare/indisciplinata fra produzioni artistiche e/o extra-artistiche contribuisce a creare traduzioni tra linguaggi differenti, fra rapporti di segni (semiosi). La “visione” opera con segni indipendenti dalla realtà e tende a “farsi un’ottica” (Paul Cézanne) altra rispetto a quella del codice di riconoscibi-lità e conferma della ragione.La visione artistica si orienta verso un affrancamento dal visto, dal vissuto, dal fatto, dal precostruito, dall’artefatto senza alcune limitazioni ordinarie, pre-scritte. I segni pittorici s’innestano nella tela regolare della vita con un loro specifico “distanziamento”, grande o piccolo che sia, “distanziamen-to”, se necessario, “abbastanza violento” “che possa rendere” – dice Leiris – “una rappresentazione slegata dalle percezioni consuete secondo cui, nell’esistenza comune, si smette o

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20 quasi di vedere questa realtà, offrirne una rappresentazione spiazzante, situata al di fuori delle abitudini che spengono lo sguardo”.

4.2. De-scrittura/descrizione

La pittura non vuole riprodurre, non ha modelli da rappresen-tare o storie da narrare (G. Deleuze) e non è “arte di raccolta” (K. Malevič) ma lavoro di traduzione (e non di trascrizione), di de-scrittura (e non di descrizione), linguaggio creativo ricco di infinite possibilità, combinazioni e interferenze tra segni differenti e altri rispetto ai codici del dominio e della globaliz-zazione. Un linguaggio inteso come congegno creativo capace di produrre “un numero infinito di mondi possibili” (Leibniz).La pittura s’è liberata da ogni funzione di “reportage” (F. Bacon), ha smesso di “far ‘trasparire’ il mondo sulla tela” (G. Bataille); essa si è emancipata dalla “servitù che le veniva imposta dalla società organizzata, e che la subordinava al sog-getto rappresentato” in cui “il valore di un quadro consisteva nella forza che dava a ciò che voleva dire” (G. Bataille).Sicché è necessario ricorrere a qualcosa che non sia una trascrizione pressoché “fotografica” ma sviluppare i propri tipi di raffigurazione. All’idea di “ritrarre una donna” e di rappresentarne la “naturale bellezza”, Braque dichiara di non esserne capace, aggiungendo che nessun altro (nessun artista) è in grado di farlo, per la semplice ragione che l’artista si trova nelle mani strumenti altri dal reale, e non può che creare “un nuovo genere di bellezza” che appare in termini di volume, di linea, di massa, di peso (F. Menna).La visione di un’arte che non fa più parte del mondo della rappresentazione, né che è la sua rappresentazione, fa sì che l’arte non rifletta più la realtà come in uno specchio in cui ci si possa tranquillamente mirare o appagare. L’arte supera la vita ponendola in continua discussione e la interroga in un dialogo serrato.

4.3. Alterità/identità

La pittura non rende i corpi, non rende i paesaggi, non rende la luce. La pittura è resa dell’identità, ne è la parodia: qualcosa che “somiglia” alla vita ma non la identifica! Ritrae ritraen-dosi: la somiglianza come autoritrarsi nella resa dell’altro, all’altro. “La divinità dell’artista sta nella sua appartenenza a una extralocalità suprema” (M. M. Bachtin) e situa la propria attività di ricerca fuori dalla contemporaneità. L’artista è colui che differisce, che non resta prigioniero dell’attuale, colui che “non soltanto dall’interno partecipa alla vita (pratica, sociale, politica, morale, religiosa) e dall’interno la comprende, ma che anche la ama dal di fuori, in un’attività extralocalizzata e avulsa dal senso” (Bachtin).Per deformare o alterare “un ordine convenuto” e cogliere sul-la tela degli effetti differiti di somiglianza, l’artista guarda la vita non in maniera diretta, immediata, frontale, ma si distan-zia dal mondo già dato senza, tuttavia, esserne indifferente. Il distanziamento da ogni contesto — secondo le indicazioni di Bachtin — comprende anche l’affrancamento dell’opera dal vincolo stretto, immediato, “ovvio” dell’autorità dell’autore.Come afferma anche Picasso, “spesso il quadro esprime molto di più di quello che l’autore voleva rappresentare” e “l’autore contempla stupefatto i risultati inattesi, che non ha previsto”.“Il pittore è l’unico ad avere il diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle”, e si pone nei confronti delle cose come se le vedesse per la prima volta, come “viste da un essere di un’altra specie” (M. Merleau-Ponty). Monet avrebbe confidato ad un giovane pittore il desiderio di nascere cieco per non conoscere nulla degli oggetti e recuperare di colpo la vista per ritrovarsi vergine di fronte alle apparenze, per poter raffigurare l’alterità della vita, superando e rinnovando l’uni-verso quotidiano, abituale, familiare e l’intera vita stessa.

L’atto artistico, l’opera, vive in un tempo grande e guarda a uno “stesso” fenomeno nelle sue molteplici tonalità, accen-tuazioni e risonanze oltre le omologazioni e oltre le illusorie e distruttive differenze identitarie. I segni di differenza hanno un evidente carattere distruttivo, la cui massima espressione è la guerra.L’idea – utopica – è quella dello spostamento verso una Babele felice, in un mescolamento delle differenze in cui esista non una sola parola, un solo linguaggio, una “Neolingua” (per usare l’espressione letteraria di Orwell in 1984) ma una produ-zione infinita di nuovi linguaggi capaci di differimento.

5. Visioni artistiche

Vi è una immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano e il vederla mentre la si disegna. O meglio, sono due cose assai differenti che si vedono. Anche l’oggetto più familiare ai nostri occhi diventa tutt’altro, se ci si mette a disegnarlo: ci accorgiamo che lo s’ignorava, che non lo s’era mai veramente veduto.

(Paul Valéry, Degas Danza Disegno)

Per molteplici tonalità, qualsiasi discorso sul corpo appare pri-vo di definizione. Difatti, l’uso metaforico della parola corpo si può trovare dappertutto: tutto è corpo, o almeno si vorrebbe ridurre ogni cosa ad un’unità corporale, al culto del corpo. La forma del corpo si mostra sotto infinite varietà ma è anche fortemente condizionata dalla tendenza di affermazione dell’identità – come direbbe Malevič, “lo Stato ammette come reale solo ciò che ha un nome” – e di umanizzazione isterica delle cose (più evidente nella cultura occidentale) che, in fin dei conti, violenta e riduce ogni corpo in corpo privato.Anche la pittura, tenuta “al guinzaglio dell’arte figurativa” (Malevič), è stata accorpata, fatta aderire e costretta a pla-smarsi col mondo, alla maniera di questo mondo, a mostrarsi sotto la sua luce. Tuttavia, questo mondo non è mai riuscito a costringere la pittura alla resa totale! La pittura non riprodu-ce il trompe-l’oeil della vita, né corrisponde alla “resa felice” condotta dalla tutrice logica della ragione che ridurrebbe l’arte ad illustrazione, a ciò che comporta indici sufficienti per lo sguardo che si rappresenta il mondo.La pittura, con i suoi segni eccedenti, non rende ragione e sa bene di girare a vuoto, intorno all’idea di significare; sa di non essere capace né di “abbracciare” l’esistenza o l’essere né, tan-to meno, di fissare il mondo su una tela, se non in un rapporto di somiglianza, di raffigurazione, di differimento. Differire per un certo grado dalla realtà “realistica” è essenziale alla pittura per sopra-vivere al di là di ogni codice e tempo (da qui il valore artistico di un’opera). Intorno all’idea di significare gli oggetti, persino “la parola va a tastoni” (Merleau-Ponty). “Se allontaniamo dal nostro spirito l’idea di un testo originale di cui il nostro linguaggio sarebbe la traduzione o la visione cifrata – dice Merleau-Ponty (“Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio”) –, vedremo che l’idea di un’espressione comple-ta è assurda, che ogni linguaggio è indiretto o allusivo, è, se si vuole, silenzio”.La pittura è visione altra, rovesciata, apocalittica. L’Apocalisse – comunemente intesa in maniera negativa e pessimistica come “finimondo”, “catastrofe” o “disastro” – è ricondotta al suo significato originario e positivo di “rivelazione”, di “svelamento”. Il quadrato di Malevič può essere considerato come l’icona dell’Apocalisse che, sotto la sua nera luce, rivela all’uomo prigioniero del proprio orizzonte, l’inconsistenza del “mondo degli oggetti”.Come scrive Nietzsche: “l’essenziale della nera arte dell’oscu-rantismo non è il voler offuscare le menti bensì il voler tingere di nero l’immagine del mondo, oscurare la nostra idea dell’esi-stenza” (Umano troppo umano, I-27).Nell’Aurélia di Nerval, la visione apocalittica è costituita dal

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21sogno, come alternativa alla realtà e come rivelatore di un mondo invisibile:

Arrivato a Place de la Concorde il mio pensiero era di uccidermi. A più riprese mi diressi verso la Senna, ma qualche cosa mi impediva di portare a termine il mio proposito. Le stelle brillavano nel firmamento; ad un tratto mi parve che tutte insieme si spegnessero come i ceri che avevo visto in chiesa. Credetti che i tempi fossero compiuti e fosse giunta la fine del mondo annunciata dall’Apocalisse di San Giovanni. Mi pareva di vedere il sole nero nel cielo deserto e un globo rosso di sangue sopra le Tuileries. Mi dissi: “Ecco, la notte eterna incomincia e sarà terribile. Che cosa succe-derà quando gli uomini si accorgeranno che non c’è più il sole?” (...) nei pressi del Louvre camminai fino alla piazza dove mi attendeva uno strano spettacolo. Attraverso nubi continuamente incalzate da un vento veloce, vidi diverse lune passare con rapidità estrema. Pensai che la terra fosse uscita dalla sua orbita e che errasse per il firmamento come una nave senza alberi, avvicinandosi e poi allontanandosi dalle stelle che ora ingrandivano ora rimpicciolivano. Per due o tre ore me ne rimasi in quel caos (...). I contadini stavano giun-gendo con le loro derrate e io mi dicevo: “Quale sarà il loro stupore quando vedranno che la notte continua a prolungarsi...”.

Nerval assume come vita reale il sogno e si concede solo qual-che barlume di realtà provocando una crisi dell’ottica “reali-stica” della realtà. Il sogno e la realtà coincidono in un unico regno dalle infinite possibilità di visione. Lo stesso discorso vale per il “sognatore” di Dostoevskij in Le notti bianche. Qui, la bianchezza ininterrotta di cinque notti primaverili contri-buisce a dare luogo a visioni rarefatte, abbozzate, processi diacronici, “alogici” (come potrebbe dire Malevič) della realtà. Lasciare la terra, le preoccupazioni terrestri per la visione incontrastata significa provocare e provare un’altra vita in cui è possibile “vedere il cielo svelarsi e aprirsi in mille aspetti di inaudita magnificenza” (Nerval).L’oscurità, il “sole nero” (v. anche Kristeva 2013) della visione artistica fa sprofondare la ragione “illuminata”, la logica convenzionale come quando Van Gogh “cominciò ad attribui-re al sole un significato che non aveva ancora avuto fino in quel momento. Lo fece entrare nelle sue tele [..., ed è] allora che tutta la sua pittura ha finito coll’essere irraggiamento, esplosione, fiamma [...]. Quando è cominciata questa danza solare, di colpo la natura stessa si è scossa, le piante si sono incendiate e la terra si è messa a ondeggiare come un mare veloce oppure è esplosa: non è rimasto più nulla della stabilità che costituisce il fondamento delle cose” (Bataille).Proseguendo nella critica nei confronti di una pittura rappre-sentativa, ed in particolare svolgendola nell’analisi del genere “ritratto”, riteniamo opportuno fare riferimento ad alcune opere letterarie, quali: L’opera di Zola, Il capolavoro sconosciuto di Balzac e, infine, Il ritratto ovale di Poe (queste ultime, sulla scorta rispettivamente di Leiris e di Derrida). Malgrado la loro differenza, possiamo riscontrare una somiglianza tra questi tre testi letterari. Infatti, sia ne L’opera di Zola, sia ne Il capolavoro sconosciuto di Balzac, sia ne Il ritratto ovale di Poe viene messa in scena l’unione impossibile tra arte e vita attraverso una nar-razione sì drammatica ma, se si vuole, anche particolarmente critica nei confronti della rappresentazione come mimesi della realtà.In ciascuno dei testi letterari citati, si narrano le differen-ti storie di tre artisti-pittori che, in un modo o nell’altro, mostrano di avere il medesimo accanimento e ostinazione nel credere di poter riprodurre la vita sulla tela. L’andamento delle narrazioni di Zola, di Balzac e di Poe, sembra quasi voler

simulare il vano e tortuoso rincorrere l’impossibile conciliazio-ne tra arte e vita da parte dell’artista. Le narrazioni giungono al culmine quando i tre artisti-pittori finiscono col credere di aver ottenuto tale impossibile conciliazione, la sovrapponibi-lità di arte e vita. In base a tale illusione, il pittore Frenhofer (il protagonista de Il capolavoro sconosciuto di Balzac), che per il suo perfezionismo maniacale giungerà a fare della sua donna dipinta una poltiglia incomprensibile – ne rimarrà visibile solo un piede nudo! –, non esita a sostenere di fronte ai suoi amici pittori che la sua opera: “non è una tela, è una donna!”.Analogamente, in L’opera di Zola, la modella Christine, inna-morata del suo pittore Claude, lo rimproverava perché gelosa di una tela: “Tu mi respingi,” finì violentemente, “tu ti scosti da me, la notte, come se ti repugnassi, tu vai altrove, e per amare che cosa? Un niente, un’apparenza, un poco di polvere, un poco di colore sulla tela!... Ma guardala, guardala ancora, la tua donna lassù! Guarda che mostro ne hai fatto, nella tua follia! Chi è che è fatto come quella roba? Chi è che ha le cosce d’oro e i fiori sul ventre?... Svegliati, apri gli occhi, rientra nella vita”.Il ritratto ovale, infine, si conclude con l’esultanza drammatica del marito pittore che, dopo aver impiegato giorno e notte come modella la moglie per poterla raffigurare perfettamente, dato il tocco conclusivo,: “[...] rimase per un attimo in estasi dinanzi all’opera ch’egli aveva compiuto; ma continuando a contemplarla, subito tremò e si fece pallido e, atterrito, scop-piando in un urlo: ‘Ma questa è la vita, che ho creato!’ si volse a guardare la sua beneamata, la quale era morta!”.Tutti e tre questi racconti narrano il paradosso di una inevi-tabile e duplice sconfitta: la perdita dell’arte e la perdita della vita. La distanza tra arte e vita è irriducibile e ineliminabile. Ogni vano tentativo in senso contrario precipita nella rappre-sentazione, in una maniacale e distruttiva identità. Lo scarto, la distanza, il distanziamento, il differimento di arte e vita sono la condizione stessa della raffigurazione artistica – addi-rittura ciò che essa mette in scena – per rendere sulla tela le possibilità altrimenti sacrificate.In riferimento alla portata, alla potenza interpretativa della visione artistica, Lévinas, in un saggio del 1948, intitolato “La realtà e la sua ombra”, contrappone l’“immagine”, che consi-dera propria della visione artistica, al “concetto”. L’immagine rivela l’alterità dell’oggetto, interpretato dal punto di vista conoscitivo e racchiuso nell’identità espressa dal concetto, facendolo risultare “doppio”: non solo oggetto di conoscenza, sottoposto a un concetto, ma anche altro da esso e altrettanto reale. La luce non rinnega l’ombra e l’immagine che il testo artistico raffigura è il doppio dell’oggetto, è, come dice Lévi-nas, “l’ombra” della realtà. “La realtà” – dice Lévinas – “non è soltanto ciò che è, ciò che si svela nella verità, ma anche il suo doppio, la sua ombra, la sua immagine”. Una qualsiasi cosa o una persona è sé stessa e la sua immagine, identità e alterità: la somiglianza consiste in questa non coincidenza, in questo rapporto che l’arte coglie nell’immagine. L’immagine è l’alterità che sfugge all’identità, la quale, osserva Lévinas, come un sacco bucato è incapace di contenerla.Alla stessa maniera Borges, nella poesia Le cose – che fa parte della raccolta Elogio dell’ombra (1981) – descrive l’indifferenza degli oggetti ordinari nei confronti di chi li usa credendo di padroneggiarli, mentre essi non si accorgono neppure della sua scomparsa, quando la morte se lo porta via. Di fronte a tutti i problemi che affannano il realismo umano della praticità oggettiva l’altro dall’oggetto, il suo non, il suo nulla (Malevič), resta del tutto indifferente. Il “non-oggetto” di Malevič resta indifferente al realismo pratico, all’oggetto, al-l’eccesso di forma, all’imputridimento delle categorie teoriche e pratiche che vogliono manipolarlo, fissarlo e imbalsamarlo nell’identità.Il non dell’essere oggettivo, l’essere non-oggettivo è estraneo all’ordine apparente del realismo pratico, ai suoi fini, alle sue

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22 necessità e ai suoi fallimenti. Ciò che rispetto al mondo ogget-tivo è un semplice negativo, un nulla restituisce ad esso la sua indifferenza.Il rapporto che intercorre tra arte e vita – intesa come vita af-francata dallo sguardo pietrificante e scientifico dell’uomo, un uomo che continuamente si dà a vedere una sintesi intellet-tuale sempre più delucidata del mondo – è inevitabile nonché inseparabile e ineliminabile.Con Malevič, la pittura è stata liberata e, con la svolta del su-prematismo, non solo si è de-testata l’arte dalla sua continua “mortificazione” e da un’ostinata pretesa generale di renderla un surrogato della vita o, peggio ancora, “serva” dello Stato, della Cultura, dell’Informazione, subordinata e ridotta a mere forme funzionali e convenienti, ma si è anche risvegliata la percezione del mondo generalmente intorpidita per il perdura-re di una posizione prevalentemente pratica o utilitaristica.

6. Arte e vita in un reciproco differimento

55. Il pittore realista: “Fedele in tutto alla natura!”. – Ma come ci riesce: quando mai la natura sarenbbe risolta in un quadro? Infinito è il più esiguo frammento di mondo! – E finisce col dipingere soltanto quello che piace a lui . E che cosa gli piace? Quel che dipingere sa”

(Nietzsche, “‘Scherzo, perfidia e vendetta. Preludio in rime tedesche’”, La gaia scienza e idilli di Messina, tr. 2011: 46)

Nella ricerca artistica è inaccettabile la concezione del valore intrinseco dell’arte, la concezione dell’arte per l’arte. In tale direzione, il rapporto di responsabilità fra arte e vita – se inte-so come non è dovuto al fatto che l’arte aderisce alla vita così com’è – va, come Michail Bachtin ci ha insegnato, totalmente rinnovato.L’arte non è impegnata entro i confini del mondo, già definito e già interpretato come lo sguardo se lo rappresenta. L’arte non rimane intrappolata in un mondo che impone l’identico ma vive al di fuori dei confini della “realtà”, riproponendo continuamente quest’ultima secondo nuove prospettive e nuovi rapporti. La ricerca dell’alterità si realizza nel testo arti-stico della pittura, con la ricerca di un’immagine altra. Non si

tratta di trovare una (unica) “teoria dell’arte” ma di svolgere una sperimentazione senza fine. È così che l’arte in generale e la pittura in particolare non si lasciano assorbire nella routine, nell’applicazione pratica e funzionale, non si lasciano ridur-re alla “logica di mercato”. Ne consegue l’orientamento ad allontanarsi dalla rappresentazione e dall’immagine di Stato, mediante le quali, in ambito artistico, non si può dire nulla di sostanziale.La partecipazione artistica alla vita è una forma di respon-sabilità nei suoi confronti ben più ampia di quella che si limita a viverla dal di dentro. Il punto di vista artistico, per il suo porsi fuori dalla vita, instaura un certo rapporto che consiste nel guardare sempre alle cose umane dall’“estrema soglia”, e quindi con una certa ironia, con un atteggiamento serio-comico più o meno accentuato. In qualche modo esso perciò sovverte la visione seria, “realistica” del mondo dei tempi moderni, disarciona la visione miope della vita in gran parte imbalsamata nei ruoli fissati dalla contemporaneità. La posizione distanziata, per la quale l’artista è sempre un pò “postumo” rispetto a sé stesso e alla propria contemporaneità, conferisce all’artista la possibilità di vivere oltre le preoccupa-zioni “terrestri” e proietta l’arte nel “tempo grande”.L’arte e la vita sono reciprocamente coinvolte; la vita deve guardare all’arte non come ornamento e decorazione – l’uso dei colori come cosmetici (K. Malevič) –, ma come ricerca, attività critica del “mondo degli oggetti”, e l’arte deve essere rivolta al rinnovamento della vita. Per essere effettivamente vita, e non inerte ripetizione e mantenimento dell’ordine con-venuto, la vita deve rinnovarsi attraverso il rapporto con l’arte. Da ciò si può comprendere come la vita non possa essere indifferente all’arte ma responsabile nei suoi confronti. L’arte raffigura l’alterità della vita, la sua ambivalenza, il suo doppio, le sue possibilità altrimenti sacrificate, cioè quelle possibilità che l’ideologia ufficiale, l’ordine costituito, le abitudini, i pre-giudizi, gli stereotipi, la routine della quotidianità le impedi-scono di scorgere e di vivere. La vita deve riconoscere che è con l’arte in un rapporto di coinvolgimento dialogico. La vita deve rispondere alla raffigurazione artistica, alla resa – anche in senso di restituirla libera da ciò che la immiserisce – che ne propone l’arte.

Cultura & Comunicazione /Lingue, linguaggi e comunicazione /Il differimentismo. Annotazioni di un percorsodi ricerca in pittura-scritturaLuciano Ponzio

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23Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Insegnare la lingua e la cultura italianeagli studenti di origine cinese in Nord America:nuove risorse didattiche per un approccio multiculturalistaGaoheng Zhang - University of British Columbia

Insegnare la lingua e la culturaitaliane agli studenti di originecinese in Nord America: nuoverisorse didattiche per un approccio multiculturalista

Il presente contributo intende proporre e descrivere un ap-proccio multiculturale all’insegnamento della lingua e della cultura italiane agli studenti cinesi o a quelli nordamerica-ni d’origine cinese nelle università nordamericane. Il mio studio di caso è un modulo da me sviluppato per un corso d’italiano intermedio sulla base del sito cross-media del film Giallo a Milano: Made in Chinatown (Sergio Basso 2009), che ha per tema l’immigrazione cinese in Italia. In Italia ci sono studi dedicati alle peculiarità dei parlanti sinofoni nell’apprendimento della lingua italiana (Rastelli). Esistono anche diversi manuali d’italiano sviluppati specifi-camente per studenti o migranti sinofoni (Maggini e Yang; Bigliazzi et al; Dente, Franzese e Wang). Tuttavia, tale stu-dio è molto meno sviluppato nell’ambito dell’insegnamento dell’italiano come lingua straniera in Nord America. È poi vero che lo studente cinese, ma anche lo studente della cul-tura dell’Asia Orientale, rappresenta un caso che facilmente si presta a stereotipi legati a fattori culturali o linguistici, nonché ad abitudini di apprendimento precedentemente ac-quisite, che favoriscono una procedura cognitiva diversa da quella dell’approccio comunicativo. Per esempio, per quanto riguarda l’interazione tra studenti e insegnanti, è luogo comune che lo studente cinese non parli volontariamente, che tenda a lavorare per conto suo durante un’attività in gruppo o in coppia, che preferisca parlare la lingua piuttosto più con l’insegnante che con gli altri studenti, che il cine-se sia troppo diverso dall’italiano e che lo studente appaia “lento” nell’apprendimento della lingua rispetto a quelli che conoscono altre lingue romanze. Con una presenza sempre più massiccia degli studenti cinesi e di altri paesi dell’Asia Orientale nelle università nordame-ricane, è arrivato il momento di ripensare le modalità che noi insegnanti possiamo attuare per favorire l’inserimento di tali studenti nella classe d’italiano. A questo proposito, il modo convenzionale per affrontare queste problematiche in classe è incoraggiare più energicamente gli studenti a parte-cipare alle interazioni, magari chiamandoli a rispondere alle

domande e affidando loro l’incarico di presentare le soluzio-ni del gruppo alla fine dell’attività. Per un approccio interculturale più sensibile si può anche seguire il suggerimento di Roger Tweed e Darrin Lehman, i quali, nel 2002, parlano di due modelli di apprendimento tra studenti di cultura cinese e studenti di cultura occidentale, ovvero il modello Confucio e il modello Socrate. Il model-lo Socrate, secondo gli studiosi, è caratterizzato da cinque aspetti: tendency to question; tendency to evaluate; esteem for self-generated knowledge; focus on error to evoke doubt; and search for knowledge, not true belief. Il modello Con-fucio, invece, abbraccia effort learning, behavioral learning, pragmatic learning, acquisition of essential knowledge, and respectful learning (89-99). Bisogna aggiungere subito che la maggioranza degli studen-ti, cinesi e non, esibiscono una miscela di componenti com-portamentali di questi due modelli. Per esempio, gli studenti di un community college frequentemente sono molto più pragmatici, mentre lo studente cinese percepisce la self-ge-nerated knowledge come l’ultimo passo nella sequenza di apprendimento che inizia con l’essential knowledge e finisce con la self-generated knowledge. Qui la sfida per l’insegnan-te consiste nella capacità di individuare quale learning habit or technique lo studente usa per adempiere a uno scopo e valutare se tale scopo è in conformità con quello educativo della lezione. Basandomi sulle osservazioni riportate sopra, per motivare le interazioni dello studente cinese, propongo un approccio che utilizzi materiali autentici relativi ai rapporti tra Italia e Cina. Il ragionamento di base di questo approcio è infat-ti ben conosciuto a tutti gli insegnanti d’italiano in Nord America: spesso nei manuali d’italiano le attività richiedono considerazioni interculturali, in particolare quelle tra Italia e Usa. Mettendo a confronto due tradizioni culturali, lo studente raggiunge una maggiore comprensione intercultu-rale attraverso un maggiore utilizzo delle risorse linguistiche e culturali a sua disposizione. Lo stesso processo, evidente-

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24 mente, vale anche per la situazione Italia-Cina, o Italia-Corea/Giappone. Inserire una componente Italia-Cina, a mio parere, può anche servire a coinvolgere altri studenti che in classe imparano i vari aspetti della globalizzazione in Italia, immigrazione compresa. Capire l’Italia contemporanea vuol dire capire la sua realtà multiculturale, quella che nasce da rapporto tra le regioni, quella generata dal turismo, quella relativa al flusso migratorio. Inoltre, attraverso l’italiano gli studenti appro-fondiscono anche la loro competenza culturale generale. In questa sede concepisco l’apprendimento dell’italiano non solo come un’impresa orientata esclusivamente a insegnare agli studenti il contesto italiano, ma penso più generalmente all’utilizzo dell’italiano come lingua veicolare per allargare il loro orizzonte culturale. In questo quadro la finalità dell’ap-prendimento di una lingua straniera consiste non solo nel miglioramento linguistico e culturale della target language ma anche nel sapere utilizzare quella lingua e quella tradizione culturale per continuare a conoscere il mondo. Ora propongo un modulo che ho creato sulla base del sito cross-media del film Giallo a Milano (http://www.corriere.it/spettacoli/speciali/2010/giallo-a-milano/). Il film parla della vita sociale degli immigrati cinesi a Milano a seguito degli scontri tra immigrati e polizia italiana avvenuti nella China-town milanese nell’aprile del 2007. Ecco l’handout di un task per un corso intermedio suddiviso in pre-task, task, e post-task phases. Questo task può essere usato nel capitolo in cui si parla dell’immigrazione straniera in Italia perché il contesto è indispensabile per uno svolgimento ottimizzato del task. Se invece non c’è la possibilità di svolgere questo task in tale condizione, si può chiedere se gli studenti conoscano qualche immigrato in Nord America allo scopo di avere una minima dimestichezza mentale con l’argomento prima del task. A seconda dei vari curricula d’italiano, questo task può essere svolto come un task cycle, oppure come un unit per una lezione di circa un’ora.

Titolo del task: Come fare un buon giallo con 15 ingredien-ti?: Un soggetto sulla vita dei giovani sino-italiani a Milano

Livello: Intermedio.

Funzioni comunicative: discutere dell’immigrazione stra-niera in Italia, descrivere la vita quotidiana, trovare informa-zioni da un sito cross-media, scrivere un breve soggetto per un film.

Grammatica: coniugazione dei verbi in prima e terza persona singolare e plurale, indicativo presente.

Lessico: immigrazione, attività quotidiane, il genere giallo.

Pre-task Phase (Motivazione):

1. Annuncio del titolo del task: “Come fare un buon giallo con 15 ingredienti?: Un soggetto sulla vita dei giovani sino-italiani a Milano”.

2. Prima visione del trailer del film Giallo a Milano: http://www.corriere.it/spettacoli/speciali/2010/giallo-a-milano/.

3. Elaborazione introduttiva dell’insegnante sulla frase citata dal trailer: “Dicono che per fare un buon giallo servano 15 ingredienti”. “Capite cosa significa un giallo?” “Cosa sono gli ingredienti?” “Avete mai scritto un soggetto per un film?”

4. Esercizi sulla definizione del giallo.

1) Un “giallo” è …

Scegli le parole associate con il “giallo”:

un animale, un film di Hitchcock, un immigrato, un colo-re, un genere cinematografico, un film con dei poliziotti, una persona cinese, un libro o film di fantascienza, un thriller, un criminale, una commedia.

2) Riordina le seguenti frasi per dare una definizione del “giallo”:

a) un genere cinematografico, il cinema giallo, i criminali, dall’omonimo, combattono, è ispirato, in cui, genere lette-rario, i poliziotti

b) deriva da, pubblicati in Italia, della copertina, di questo genere, il colore giallo, quello dei primi libri

5. Esercizi per trovare gli ingredienti per scrivere il soggetto di un film giallo.

5.1 Quali sono gli ingredienti per fare un buon giallo proposti nel trailer? Cosa fanno gli immigrati cinesi? Seconda visio-ne del trailer del film “Giallo a Milano”.

1) Quali delle seguenti attività sono nel clip? Coniuga i verbi al presente:

fare jogging, praticare boxe, cantare, scrivere una lettera, fare pugilato, protestare in strada, seguire una lezione, aprire un negozio, raccontare una storia, fare ginnastica, andare in bicicletta, fare il barista, guidare, costruire una casa, dipingere un quadro, giocare a biliardo

2) Cerchiamo altri ingredienti per fare un buon giallo nella mappa del sito. Lo studente legge velocemente la mappa e i luoghi indicati con le frecce. Lavorano in coppie con un i-pad, o insieme all’insegnante sullo schermo.

5.2 Dopo aver letto le informazioni sulla mappa del sito, decidi se le seguenti affermazioni sono vere o false, e motiva le tue risposte:

1) La maggioranza dei luoghi d’interesse della comunità cinese a Milano si trova nel nordest della città. (Falso. Si trova nel nordovest della città. Vicino al Parco Sempione. Vicino al centro storico.)

2) La Chinatown milanese è un quartiere in cui si trovano molti bar, ristoranti e negozi di gestione cinese. (Vero.)

3) Nella Chinatown milanese ci sono scuole con soli ragazzi cinesi. (Falso. Le scuole in cui i ragazzi cinesi sono in mag-gioranza si trovano fuori dalla Chinatown. Le scuole nella Chinatown non sono frequentate solo dai ragazzi cinesi.)

4) La maggioranza dei cinesi a Milano vive nella Chinatown. (Falso. Se i ragazzi cinesi vanno a scuola altrove, significa che la maggioranza dei cinesi non vive nella Chinatown.)

Task Phase (Elaborazione del task):

1. Goal: Ottenere più ingredienti per scrivere il soggetto del film giallo.

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252. Task format: Information/Reasoning Gap.

L’insegnante ripete che l’idea di guardare i clip serve per ottenere altri spunti per costruire il soggetto sulla vita quotidiana degli immigrati cinesi. L’insegnante divide la classe in due gruppi. L’insegnante mostra il primo vi-deoclip al primo gruppo dopo aver fatto uscire il secondo gruppo dall’aula. Ripete la stessa procedura con il secondo gruppo e il secondo video. Dopo la visione, con la classe al completo, cominciano le discussioni tra i due studenti che hanno guardato i due clip diversi. Gli studenti racconta-no cosa hanno capito della vita dei giovani sino-italiani e scrivono insieme il soggetto.

3. Materiali:

1) Video: “Interrogazione: I primi cinesi in Italia”

Domande per facilitare il note-taking:

Che lingua imparano questi ragazzi? Sono tutti cinesi? Perché imparano questa lingua? Da dove provengono i primi cinesi in Italia?

2) Video: “Il Ponte”

Domande per facilitare ilnote-taking:

Dove si trovano questi ragazzi? Di che cosa parlano? Cosa significa “essere ricchi doppiamente”?

4. Planning and report.

Dopo le discussioni e la scrittura, gli studenti presentano alla classe il loro soggetto.

Post-task Phase (Valutazione del task):

1. Esercitazioni della grammatica. Focus sulla forma lingui-stica. Correzioni esplicite.

2. Intervista. (Role-play activity)

Intervistato: un giovane immigrato cinese che è studente universitario alla Bocconi o un barista in una città italiana.

Intervistatore: uno studente universitario americano pres-so l’University of Southern California.

Goal: L’intervistatore vuole scoprire il background dell’im-migrato cinese e cosa fa all’università o al bar e nel tempo libero.

3. Riscrittura basandosi sulla lettura delle informazioni dal sito.

4. Proiezione del film intero che è disponibile per l’acquisto su http://www.lasarraz.com/it/home-video#223.

Vorrei ringraziare i suggerimenti che mi hanno gentilmente dato Francesca Italiano e Gianluca Parisi nella stesura di questo saggio.

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Cultura & Comunicazione /Lingua, linguaggi e didattica /Insegnare la lingua e la cultura italianeagli studenti di origine cinese in Nord America:nuove risorse didattiche per un approccio multiculturalistaGaoheng Zhang - University of British Columbia

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26 Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Statue bianche contro il nero abisso (Pirandello, da Nietzsche)Raffaele Cavalluzzi

Statue bianche contro il neroabisso (Pirandello, da Nietzsche)

Dalle radici siciliane dell’esperienza lette-raria di Luigi Pirandello agli scenari della singolare avanguardia del suo «teatro nel teatro» sembra esserci uno spazio inter-medio pressoché illimitato, tanto diver-sificate appaiono le forme attraversate dalla vicenda creativa e intellettuale del grande scrittore, e così differente l’ap-prodo rivoluzionario rispetto alle origini�. Tuttavia, a un’attenta considerazione, proprio di alcuni aspetti di quelle forme non è difficile individuare - se non conti-nuità - somiglianze e, per di più, univoci condizionamenti genetici.Al proposito c’è un bel film, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Kaos (del �984), che ha colto con efficacia almeno il tratto fondamentale del processo che portò Pi-randello dalla cultura profonda della sua Sicilia alla scoperta essenziale maturata dalla sua poetica, quello che, con le sue medesime parole, possiamo definire come il passaggio della «nascita del perso-naggio» e della sua intensa autonomia morfologica�. Dunque, in Kaos, è quanto mai presente, nelle situazioni, nelle ambientazioni, nella luce, nei colori, nelle suggestioni musicali, e soprattutto nelle storie (è un film a episodi ispirati ad alcune delle Novelle per un anno ambientate nell’isola in una temperie culturale che stenta a stac-carsi dal Verismo)�, è presente lo spirito e la dimensione propria del mondo arcaico che il Sud trasferisce all’albeggiante mo-dernità (attraverso il cinema, e la magia tecnologica che traduce effica-cemente lo sdoppiamento di Pirandello uomo tra lo scrittore e il personaggio del figlio attaccato alla memoria viva della madre che non c’è più, nell’episodio tratto dai Colloquii con i personaggi). Il Caos ance-strale è contrassegnato perciò da spunti mitografici e dalla forza con cui questi si offrono all’immaginario del moderno spettatore, costituendo le coordinate della primitiva formazione pirandelliana4, mai

più in futuro rinnegata, anche a costo di lasciar intravedere, pur nell’accesso alle più spregiudicate forme dell’avan-guardia letteraria e teatrale, quel legame antico con l’Ottocento così vi-sibilmente stravolto. Gli episodi portati sullo schermo dai Taviani con Colloquio con la madre, Il figlio della colpa – che qui assume il titolo de L’altro figlio –, Male di luna, La giara, Requiem e Il corvo, sono capaci di ricavare, dal Caos primordiale della Sicilia in qualche modo ancora dell’oggi, il senso anarchico e miste-rioso delle cose che non abbandonerà mai l’ispirazione del nostro Autore, in qualunque forma espressiva essa sarà destinata a materializzarsi.

Del resto la cifra visionaria esatta-mente centrata dal film prodotto in uno degli ultimi decenni del ‘900 è una costante, variamente combi-nata, dei tanti momenti della storia artistica di Pirandello, e si ritrova con rilevanza proprio quando la teatralità siciliana assume lo spiccato profilo della filosofia, non proprio relativisti-ca, come spesso si è detto a proposito del moderno nichilismo pirandellia-no�, ma, per così dire, parmenidea, quasi mistica, di una civiltà contras-segnata fin dai tempi più remoti da un’abbacinante immodificabilità di passioni e di modi di vita.

1 Fondamentale per la bibliogra-fia critica circa la diversifica-zione formale della scrittura pirandelliana resta G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura. Milano, Mondadori 1981.

2 Cfr. A. Leone de Castris, Storia di Pirandello. Bari, Laterza 1971.

3 Cfr. S. Costa, Novelle per un anno. Torino, Loescher 2015. Per il film dei Taviani vedi poi L.Cuccu, Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani. Roma, Greme-se 2001.

4 Cfr. A. Leone de Castris, Storie di Pirandello, già cit.

5 Cfr. V. Masiello, L’età del disincanto ne “I vecchi e i giovani”. Morte del-l’ideologia e ontologia negativa dell’esistenza, in “Problemi” n.93, gen-naio-aprile 1992, nonché R. Cavalluzzi, Pirandello: la soglia del nulla. Bari, Dedalo 2003.

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27Ad esempio, ci si vuole riferire a tal proposito, in particolare, a un emblema-tico snodo sentimentale e ad un tempo conoscitivo riscontrabile – nello scenario oltremodo suggestivo di una Valle dei Templi affidata dai secoli alle rovine e al degrado tratteggiato nel cuore dei Vecchi e i giovani – nello sguardo assorto e malinconico rivolto dal principe Ippolito al paesaggio della sua terra:

«Don Ippolito guardò i Tempii che si raccoglievano austeri e solenni nell’ombra, e sentì una pena indefinita per quei supersti-ti d’un altro mondo e d’un’altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città scomparsa solo ad essi era toccato la sorte di vedere quegli anni lontani: vivi essi soli già, tra la rovina spaventevole della città; morti ora essi soli in mezzo a tanta vita d’alberi palpitanti, nel silenzio, di foglie e d’ali. Dal prossimo poggio di Tamburello pareva che movesse al tempio di Hera Lacinia, sospe-so lassù, quasi a precipizio sul burrone dell’Akragas, una lunga e folta teoria d’antichi chiomati olivi; e uno era là, innanzi a tutti, curvo sul tronco ginocchiuto, come sopraffatto dalla maestà imminente delle sacre colonne; e forse pregava pace per quei clivi abbandonati, pace da quei Tempii, spettri d’un altro mondo e di ben altra vita.«Sonò a un tratto, nel bujo sopavvenuto, il chiurlo lontano d’un assiolo, come un singulto. «Don Ippolito si sentì stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto. Guardò le stelle che già sfavillavano nel cielo, e gli parve che al loro lucido tremolio rispondesse dalle cam-pagne deserte il tremulo canto sonoro dei grilli»�.

E, ancor più, ci si riferisce al rapporto con la dimensione del sogno, che, in non pochi passaggi del romanzo, sembra annientare la vita in un nonsenso da cui non si torna indietro, e che la stessa natura, nel paesaggio della riposante località di Colimbetra, ancora un altro esempio, stimola costantemente per la scettica immaginazione del vero e pro-prio protagonista dell’opera tra decine e decine di altri non meno significativi personaggi: don Cosmo Laurentano:

«Guardò gli alberi, davanti alla villa: gli parvero assorti anch’essi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del giorno, invano l’aria smovendo loro le frondi tentassero di scuoterli. Da un

pezzo ormai, nel fruscio lungo e lieve di quelle fronde egli sentiva, come da un’infinita lontananza la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita»�.

D’altronde, questo stampo di grecità (perché di questo si tratta) non è destinato a scomparire nemmeno nel più noto dei romanzi pirandelliani, Il fu Mattia Pascal, allorché, ad esempio, da parte di Ansel-mo Paleari, improbabile teosofo del buon senso, in occasione non a caso di una performance a cui egli invita Mattia Pascal reincarnato come Adriano Meis (uno spet-tacolo di marionette che mette in scena un pezzo dell’Orestiade), si traccia la parabo-la della trasformazione, grazie all’ormai proverbiale «strappo nel cielo di carta», del tragico Oreste matricida (nel mito, per leg-ge divina) nel moderno Amleto, perplesso vendicatore dell’ingiustizia del potere e del sangue, in virtù, in ultima istanza, della verità scientifica annichilente della scoper-ta copernicana dell’infinito. Intanto, qualche tempo prima degli stessi romanzi qui citati, il � maggio del �899, sulle pagine del «Marzocco», appariva l’articolo intitolato L’azione parlata, che può considerarsi il primo scritto teorico di Pirandello sul teatro; e, quel che più conta, la prima intuizione dell’autonomiz-zazione drammatica del suo «personag-gio». Lo spunto, com’è noto, è tratto da un romanzo di Heine; e dall’episodio del «prodigio operato dal raggio di luna» in un vecchio castello disabitato: «Le figure degli arazzi - viene così citato il poeta tedesco - cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore (Jauffrè Rudel) e la dama (Meli-senda) scuotono le addormentate mem-bra di fantasimi, scendono giù dal muro e passeggiano su e giù per la sala» 8. Il poeta drammatico - commenta Pirandello - dovrebbe appunto così «operare». Come, peraltro, avevano operato i più grandi tra-gici greci «spirando... una possente anima nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica». Le «figure s’eran mosse parlando», dunque; e, allo stesso modo, «dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbe-ro venire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico». E, almeno sulla pagina, in tempi diversi, Pirandello, prima anco-ra del miracolo epifanico - chiamiamolo così - dei Sei personaggi in cerca d’autore, consegnerà questa intuizione, e i segnali di una poetica destinata a sconvolgere la tradizione drammatica e le forme del suo stesso teatro, almeno a due novelle per questo particolarmente significative, che della più alta drammaturgia di Pirandello sono in un certo senso, come è stato detto, l’«antefatto» e la «preistoria»: La tragedia di un personaggio, del �9��, e, appunto, i Colloquii con i personaggi, del �9��.Su questa scia, col tempo, maturerà non solo la stagione giustamente famosa della

6 L. Pirandello, I vecchi e i giovani in Tutti i romanzi. Milano, Mon-dadori 1971 (8), p.575.

7 L. Pirandello, I vecchi e i giovani, già cit., p. 513.

8 L. Pirandello, L’azione parlata, da Scritti sul teatro in Saggi, Poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti. Milano, Mondadori 1973 (3), p. 1015.

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28 trilogia metateatrale, ma – da parte dell’Autore – il modo stesso di vedere lo spazio e la realtà fisica della scena. Anzi, la «scenotecnica» (con la lumi-notecnica e la gestione diretta degli attori, dei costumi e dello stesso ma-terializzato palcoscenico), sempre più affidata dettagliatamente alle didascalie, è proiettata così, ad esempio, nella sua dinamica inventiva, se consideriamo l’universo teorico pirandelliano, nel famoso Discorso al Convegno «Volta» sul teatro drammatico del �9�4, a proposito del cruciale, ma problematico rapporto tra autore e regista: «È sperabile che sia definita la questione che da tempo si dibatte, se il teatro sia fatto per offrire uno spettacolo in cui l’opera d’arte, la creazione del poeta entri come uno dei tanti elementi in mano e al comando d’un regista, al pari dell’apparato sceni-co e del giuoco delle luci e di quello degli attori, o se invece tutti questi elementi e l’opera unificatrice dello stesso regista, creatore responsabile soltanto dello spettacolo, non debbano essere adope-rati a dar vita all’opera d’arte che tutti li comprende e senza la quale ciascuno per se stesso, sera per sera, non avrebbe ragion d’essere: quella vita, intendo, in-violabile perché coerente in ogni punto a se stessa che l’opera d’arte vuole avere per sé e che perciò non dovrebbe essere ad arbitrio del regista alterare né tanto meno manomettere»9.Non solo, dunque, Pirandello in quel Discorso finisce, come si sa, per proporre riaggiustamenti dimensionali e ambien-tali del teatro rispetto agli altri moderni spettacoli che chiamava «di massa» – da quelli sportivi a quelli cinematografici –�0, ma abbozzava un’idea della forma medesima dell’operazione scenica desti-nata a rendere singolari e inimitabili le sue intuizioni: a superare una dicotomia, un conflitto, peraltro già toccato dallo scrittore nel saggio Illustratori, attori e tra-duttori, tra la poesia dell’autore e l’azione del regista, che il teatro nel teatro, ormai ampiamente consacrato dalla fama europea e mondiale, negli anni Venti, aveva testimoniato di essere in grado di trascendere, nei fatti, attraverso un ecce-zionale risultato estetico unitario.Al centro di questo lungo percorso vi è dunque, per via della speciale stagione dei Sei personaggi in cerca d’autore, di Cia-scuno a suo modo e di Questa sera si recita a soggetto, la realizzazione drammatica più vivida del cuore della poetica di Piran-dello: quella che da tempo egli aveva intravisto come mondi illusori e visionari nella percezione dell’essenza della realtà. Ricapitolando in qualche misura, allora, alla luce di quanto s’è detto: l’approdo di Pirandello al teatro è un tentativo di approdo alla verità dell’arte. La soluzio-ne narrativa data alla ricerca artistica, a lungo perseguita nei primi decenni della

sua attività letteraria, si manifestava, alla fine, come crisi della narrativi-tà, soprattutto se confrontata con il trionfo dell’età della meccanizzazione. I quaderni di Serafino Gubbio operatore ne erano la testimonianza più concreta alla vigilia della svolta teatrale��. Il re-cupero della spazio aperto della scena e della rappresentazione, con la verità, in quel luogo e in quel preciso momento, della fisica realtà del corpo e dell’am-bientazione teatrale (del rapporto diretto, senza mediazioni perifrastiche della pagina scritta, con il pubblico) era frutto, allora, di una scelta che voleva liberare l’Autore dal destino sui-cida dell’ammutolimento. E la lunga battaglia tra inganno (e autoinganno) e percezione del reale, da quel punto avviata, non era soltanto il contesto di un contenuto che avrebbe continua-to a caratterizzare l’acuta, dolorosa indagine di smascheramento delle contraddizioni della dinamica sociale come della fenomenologia individuale, ma la forma - finalmente negli anni del teatro pirandelliano - di una sfida euristica che si trasferiva dalla scrittu-ra al palcoscenico.Pirandello, allora, giunge ad essere perfino ossessionato dalla natura, autentica e ad un tempo irrimediabil-mente falsata, delle creature della sua fantasia, da Così è (se vi pare) fino alla pièce più mature di Come tu mi vuoi e di Trovarsi. Ed è ossessionato dal mec-canismo attraverso cui la verità delle cose e i «germi della vita» finivano per modellare la sua spirituale disponibi-lità a coglierli e a rappresentarli (o, al contrario, proprio all’atto del loro rece-pimento da parte del suo io profondo, ne venivano ad essere inevitabilmente deformati). Ne conseguiva che l’as-sumer forma di personaggi dei suoi fantasmi interiori costituiva certo un addensarsi di verità forti ed espressive, ma, passato il filtro dell’io, risultava tutt’altra cosa rispetto alla verità pri-migenia. In altre parole, il meccanismo della metaforizzazione, nel momento in cui coinvolgeva l’intera operazione creativa nella dinamica trascendentale, rivelava la precarietà dell’apprendi-mento del mondo donde s’era mossa e tutta la relatività del metabolismo tramite cui sulla scena (come, prima, sulla pagina) tornava a squadernarsi un’ipotesi di senso��. Allora, com’è stato rilevato da Ro-berto Alonge��, la prima messinscena all’estero dei Sei personaggi in cerca d’autore – quella di Pitoĕff a Parigi, il �0 agosto del �9��, nella versione del ‘�� - ha forse colto, a suo modo, questo nodo che è essenziale nel capolavo-ro pirandelliano, quando ha dovuto affrontare il problema dell’apparizione sul palcoscenico della sei misteriose

9 L. Pirandello, Discorso al convegno “Volta” sul teatro drammatico, da Scritti sul teatro, etc, già cit, p.1041.

10 Cfr. W. Bejamin, L’arte nell’epoca della sua ripro-ducibilità tecnica. Torino, Einaudi 1966 (7).

11 Per la svolta verso il grande teatro cfr. ancora A. Leone de Castris, Storia di Pirandel-lo, già cit.

12 Cfr. P. Guaragnella, Il matto e il poeta. Temi e figure in Pirandello, Sbarbaro, Vittorini. Bari, Dedalo 2000, e, più in generale, i fondamentali G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo. Bologna, Il Mulino 1987, A. Leone de Castris, Il decadentismo italiano. Svevo, Pirandello, d’ Annunzio. Bari, Laterza 1989, R. Luperini, L. Pirandello. Bari, Laterza 1999, e R. Baril-li, La linea Svevo-Pirandello. Milano, Mondadori 2003 (n.e.).

13 R. Alonge, Introduzione a L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Enrico IV. Milano, Mondadori 1993.

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29creature piombate all’improvviso dall’alto (con un montacarichi) a sconquassare, con la falsa mimesi della rappresentazione naturalistica, la stessa certezza operativa dell’io artistico, proclamandone l’eclis-sarsi. Pertanto, è vero che l’insegnamento che forse Pirandello ne ricavò lo portò poi, nella revisione testuale del �9��, alla rivoluzionaria risoluzione di sostituire l’ingresso dei «personaggi», dalla stessa porticina nel palcoscenico da cui entrano ed escono gli «attori», con l’ingresso dalla parte del pubblico, dalla platea. Ma è vero altresì che quell’entrata in scena calando dall’alto, escogitata da Pitoĕff, è il segno di un contrasto, di una contrapposizione che, nell’individuare «due universi differenti e separati», conferisce denotazione essenzia-le alla ricerca pirandelliana, al suo inter-rogarsi, mai veramente soddisfatto, sulla formalizzazione del processo estetico.

«Sono una sorta di entità extra-terrestri che vengono a una specie di rito magico di incarnazione», è stato giustamente detto, ancora da Alonge, di quell’intervento epifa-nico.Del resto, come verifica della natura e della forma di tale dinamica, nel testo pirandelliano basta considera-re, insieme al modo con cui è stato pensato l’ingresso dei sei personag-gi sulla scena, la loro uscita da essa. La didascalia recita così al mo-mento dell’interruzione dell’azione dovuta al suicidio del Giovinetto e al trasporto del suo corpo «dietro la tenda bianca»: «Tutti, tranne il Capocomico e il Padre, rimasto per terra presso la scaletta, saranno scomparsi dietro il fondalino ab-bassato, che fa da cielo». E qualche momento più tardi anche il Padre scomparirà «disperatamente», dietro il fondalino. Alle spalle di questo, a sua volta, quando la scena prima è invasa da una sfolgorande «vivissima luce» e poi piomba con tutto il teatro «per un attimo nella più fitta oscurità», «come per uno sbaglio d’attacco, s’accenderà un ri-flettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina». Al grido, quindi, del Capocomico terrorizzato, il Figlio, la Madre e il Padre, spentosi il riflettore dietro il fondalino, torneranno «con forma trasognata» nella luce azzurra del palcoscenico. La Figliastra inve-ce verrà fuori ultima e, con una stridula risata, si precipiterà nella sala e scomparirà nel ridotto prima che cali la tela. Intanto movimenti, atteggiamenti, gesti, luci, colori e vie di fuga sono mescolati a dare la fascinosa evidenza di un’atmo-sfera surreale alla dinamica della

scomparsa, in tal guisa fatta quasi di ritualità e di sospesa magia�4.

Del resto è la stessa «magia» chiamata esplicitamente in causa dall’Autore nella Prefazione a proposito dell’appa-rizione (e perciò della nascita) del personaggio di Mada-ma Pace. L’operazione di creazione artistica che abbiamo chiamato trascendentale è significativamente definita, infatti, come «il passo per la soglia tra il nulla e l’eternità», sicché la creatura che vien fuori «pare un miracolo, anzi, un trucco su quel palcoscenico rappresentato realisticamen-te». E se l’Autore precisa che non si tratta poi di un vero e proprio trucco e che l’«improvviso mutamento del piano di realtà della scena» segue soltanto alla nascita del personag-gio «nella fantasia del poeta», la messa in evidenza della «fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso», non annulla l’enigma del «mutarsi improvviso e incontrollabile di un’apparenza da un piano di realtà a un altro», come «miracolo arbitrario». Infatti – è ancora la Prefazione –: «Anche il piano di realtà in cui si muta e si rimuta questa informe vita che anela alla sua forma arriva così a spostarsi, organicamente».È nota quella sorta di labirinto di specchi d’interferenza in cui si muove instancabilmente l’ansia dell’inventiva letteraria di Pirandello, e la costanza tesa a riaffiorare e a portare alla superficie – specie nelle commedie di cui stiamo parlando – temi e motivi già presenti in altri suoi scritti pre-cedenti. Il giuoco delle parti è, non a caso, la commedia che la compagnia teatrale e il suo Capocomico si apprestano a mettere in scena come spunto e substrato drammatico nelle battute d’avvio dei Sei personaggi. E la stessa vicenda, densa di amaro sarcasmo del Leone Gala ancora del Giuoco delle parti, riecheggia nell’obbligo al duello che sembra prospet-tarsi nello scambio di ruoli dei due personaggi antagonisti (Doro Palegari e Francesco Savio) di Ciascuno a suo modo, mentre la tragica storia di gelosia e di morte che si intreccia intorno al personaggio dell’attrice Delia Morello richiama subito alla mente il racconto periglioso della vita della Varia Nestoroff, dei Quaderni. Infine ciò che appare come una sorta di tripudio contaminatorio è quello che si celebra in Questa sera si recita a soggetto (ispirato nel contenuto alla no-vella Leonora, addio) fra teatro drammatico e melodramma, chiamando in causa il Trovatore verdiano, in primo luogo. Questo labirinto, divenuto, così, programmaticamente com-binatorio, è esaltato tuttavia dall’estro scenico che si fa più acuto aldilà degli stessi Sei personaggi, nelle altre due com-medie. Esso supporta la visionarietà pirandelliana tramite ad esempio, in Ciascuno a suo modo, lo sfondamento del pal-coscenico, insieme alla messa a nudo del tema del regista grazie al personaggio del dottor Hinkfuss, e l’induzione più volte del nome e delle responsabilità dell’autore medesimo, cioè di Pirandello. E in Questa sera si recita a soggetto incrocia gli effetti propriamente cinematografici, sia nell’intreccio tra la scena del cabaret e quella della quasi-orgia in casa La Croce, sia nell’evocazione dello spazio claustrofobico «della carcere» in cui è rinchiusa l’angoscia intollerabile della pro-tagonista femminile e della realtà-finzione della sua morte.Non più il classico dialogo, dunque, ma la scena dei perso-naggi, potremmo dire, allo sbando della rappresentabilità è alla fine, il luogo in cui, riprendere un’espressione di Nietzsche, le statue bianche delle umane divinità del mon-do antico si stagliano contro il nero abisso, non più tuttavia ferme nella loro sublime ieraticità, ma rese vibranti, quasi squassate dal problematico genio moderno dell’instabilità della forma, tra realtà e menzogna, di Luigi Pirandello.

14 Per l’incantamento pirandelliano cfr. G. Bonifacino, Incontri figu-rati. Studi sul Novecento letterario italiano: Gadda, Pirandello, Bontempelli. Lecce, Pensa 2002.

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30 Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Alberto Moravia in Uzbekistan nel 1956 tra eurocentrismo,orientalismo e colonialismoDe Santi Chiara

Alberto Moravia in Uzbekistan nel 1956 tra eurocentrismo, orientalismo e colonialismo Innamorato dell’Africa, affascinato dall’India, viaggiatore

in Cina e Unione Sovietica, Alberto Moravia ci ha lasciato pagine d’intense riflessioni anche culturali che spaziano dalla letteratura alla religione, dall’economia alla politica, dalla storia all’antropologia. Viaggiatore curioso e attento, Moravia era però figlio del suo tempo e di quell’Europa che ancora a metà degli anni Cinquanta faceva i conti con la Seconda Guerra Mondiale e con una Guerra Fredda ancora agli inizi. Nato nel 1907, nel secondo dopoguerra l’intellet-tuale romano non poteva non avere una prospettiva euro-centrica radicata che gli faceva naturalmente contrapporre l’Europa come centro del mondo al resto periferico, e tale atteggiamento è piuttosto evidente negli scritti dedicati al suo viaggio in U.R.S.S. e in particolare in Uzbekistan.Quando Moravia viaggiò per circa un mese e mezzo nel paese di Lenin e di Stalin era il 1956. Era stato invitato dal-l’Unione degli Scrittori Sovietici, che gli permise di visitare non solo San Pietroburgo, allora Leningrado, e Mosca, ma anche anche il Caucaso (in particolare la Georgia e l’Arme-nia) e l’Asia Centrale (l’Uzbekistan). Le sue note di viaggio furono pubblicate in forma di articoli sul “Corriere della Sera” e sull’“Espresso”, per poi essere raccolte da Bompiani nel 1958 in un libro intitolato Un mese in U.R.S.S., che però non include le riflessioni sull’Ucraina e sulla Siberia, che pure Moravia ebbe modo di visitare (Moravia e Elkann 1990: 186). In questi scritti, è palese come l’eurocentrismo abbia plasmato la visione moraviana del Caucaso e dell’Uz-bekistan, ritenuti luoghi altri rispetto all’Europa, mentre le considerazioni sul colonialismo hanno influito sul suo modo di percepire e descrivere la realtà centro-asiatica. Infatti, nonostante la sua proclamata indipendenza dal Partito Co-munista e dalla sua ideologia tanto da definirsi “né comu-nista né anticomunista” (Moravia 1958: 77), Moravia alla fine accetta la realtà propugnata dai sovietici i quali, se si ergevano pubblicamente contro ogni forma di colonialismo, in realtà lo perpetravano anche in Asia Centrale. Si sostiene, infatti, che l’Uzbekistan fosse una colonia interna di Mosca, la quale vi operava come un vero e proprio stato coloniale e con un’agenda modernizzatrice ben precisa (De Santi 2009). E se Moravia si proponeva “non soltanto di tener conto così del bene come del male dell’U.R.S.S. ma anche di storicizzar-li, ossia di definire questo bene e questo male fuori di ogni propaganda favorevole o contraria, nella prospettiva della

storia” (Moravia 1958: 150), in realtà lo scrittore finisce per accettare la verità di Mosca. Ma il problema maggiore di Moravia è che, ancora nel 1956, la sua prospettiva storica è prettamente eurocentrica e orien-talista, con l’Europa che si erge come centro del mondo, con la Russia che tutto sommato ne resta esclusa e con l’Orien-te, quindi l’Asia, che ancora rappresenta l’altro, l’estraneo, il diverso, l’esotico. E la sua visione eurocentrica emerge chiaramente ancora nel 1962 quando lo scrittore pubblica Un’idea dell’India, dove spiega cosa potrebbe essere l’Europa per un indiano, che poi tutto sommato è l’idea che Moravia aveva dell’Europa:

l’Europa, quel continente dove l’uomo è convinto di esistere e di essere al centro del mondo, e il passato si chiama storia, e l’azione è preferita alla contem-plazione; l’Europa dove si crede comunemente che la vita val la pena di essere vissuta e il soggetto e l’oggetto convivono in buona armonia, e due illusioni come la scienza e la politica sono prese sul serio e la realtà non nasconde niente, eppure, non per questo, è niente. (Moravia 1962: 6)

L’idea di Europa e l’eurocentrismo

Come si avrà modo di sottolineare, anche l’orientalismo, definito da Edward Said come “un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale” (Said 1978: 11), ha un peso nelle riflessioni moraviane sull’Asia Centrale, ma è soprattutto attraverso la lente eurocentrica come teoria profondamente inserita nel discorso modernista occidentale che Moravia legge l’Oriente come antitesi del moderno.Per comprendere l’eurocentrismo di Moravia, si deve tutta-via avere presente come l’idea di Europa, ritenuta a lungo il centro propulsore della storia mondiale, abbia origini antiche e profonde, sia nata come mito già nella Grecia Antica (Passerini 2002) e si sia poi sviluppata nel corso dei secoli (Dainotto 2007; Todorov 1993). Almeno fino alla metà del XX secolo, l’idea dell’Europa come centro della storia del mondo – che altro nome non ha che eurocentrismo – ha continuato a rappresentare la lente attraverso cui leggere la

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31storia universale, ed è in questo contesto ideologico che Mora-via si è sviluppato intellettualmente, ovvero quando la teoria eurocentrica non era ancora stata messa in discussione (Wolf 1982; Dussel 1993; Blaut 1993; Chakrabarty 2000). Ma come si sviluppa l’idea di Europa e quindi l’eurocentri-smo? Lo storico Danys Hay teorizza che già nel V secolo l’Asia era considerata antitetica alla Grecia e ai suoi valori, che identificavano l’essenza europea (Hay 1957: 3). Più tardi, nel Medioevo l’Asia come mondo non-cristiano era stata di nuovo contrapposta alla cristianità (Hay 1957: 22-23), contrapposi-zione che si risolse nell’opposizione tra civiltà e barbarie, la quale ha resistito a lungo nell’immaginario collettivo (Hay 1957: 16-36). Nel XIV e XV secolo, l’utilizzo del termine Euro-pa crebbe per il ridimensionamento del mondo cristiano come concetto e per la fine delle Crociate, che avevano contribuito alla polarità dei due mondi (Hay 1957: 50-51), e anche per i cambiamenti interni alla Chiesa (Hay 1957: 73; Chabod 1962: 38), mentre il termine Europaeus venne ufficialmente coniato da Enea Silvio Piccolomini nel XV secolo (Hay 1957: 83-87). Seguendo l’impostazione analitica di Hay, Federico Chabod analizza storicamente e filosoficamente il concetto di Europa considerandolo soprattutto da un “punto di vista culturale e morale; […] come «individualità» storica, che ha una sua tradizione, che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato, nei secoli, una impronta incancellabile” (Chabod 1962: 12). Chabod sostiene che in realtà l’Europa è una forma mentis da cui non si può prescin-dere e che modella i nostri pensieri sin dall’infanzia, secondo delle tradizioni che si tramandano dai padri ai figli (Chabod 1962: 13). Trattandosi di una forma mentis, quindi così radicata da essere parte degli europei stessi, va da se che Moravia fosse così europeo da essere naturalmente eurocentrico e questo anche nel suo modo di concepire l’altro da un punto di vista politico. Infatti, sin dai tempi della Grecia classica, il conti-nente europeo si era opposto anche politicamente a quello asiatico attraverso un “criterio fondamentale di differenziazio-ne [che] è quello della «libertà» politica, ellenica, contrapposta alla «tirannide» asiatica; e la libertà significa partecipazione di tutti alla vita pubblica (onde si hanno «cittadini», non sudditi) e vivere «secondo le leggi», non secondo l’arbitrio di un despo-ta” (Chabod 1962: 19). Ma il discorso politico non è solo quello che contribuisce alla forma mentis europea (e quindi moraviana), poiché anche lo sviluppo del discorso religioso nei secoli ha avuto un peso non indifferente. A questo proposito si ricordi come Chabod sviluppi concetti quali Respublica Christiana, christianitas ed Ecclesia, che definiscono esattamente la cristianità medievale (Chabod 1962: 23), tanto che ancora durante l’Umanesimo il cittadino Europeo è ancora il cristiano (Chabod 1962: 46-47). Il laicizzamento del pensiero arriva nel Cinquecento, quando gli Europei iniziano a sentirsi più europei e meno cristiani (Chabod 1962: 64-65), giungendo “alla constatazione che, in opposizione al barbaro e selvaggio, viene ampiamente elabora-to il concetto di civiltà” (Chabod 1962: 79), anche se ovvia-mente la civiltà per antonomasia è l’Europa civile (Chabod 1962: 85). Ancora nel Settecento e nella prima metà dell’Ot-tocento permangono “il senso della superiorità della civiltà europea su tutte le altre, passate e presenti, e la fiducia piena nell’avvenire, che dovrà vedere ulteriori progressi e nuovi splendori dell’Europa” (Chabod 1962: 189). Ma perché Moravia deve essere considerato un cristiano eu-ropeo che non avrebbe potuto essere altrimenti ancora a metà degli anni Cinquanta? Perché, come ci dice Chabod,

Noi [europei] siamo cristiani e non possiamo non esserlo […]. Non possiamo non esserlo, anche se non seguiamo più le pratiche di culto, perché il Cristia-nesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile […]. Anche i cosiddetti

«liberi pensatori», anche gli «anticlericali» non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo. […] [Q]uel che resta di più proprio dell’Europa sono le sue tradizioni morali e culturali, la sua storia, politica e spirituale. (Chabod 1962: 195-197)

E la forma mentis di Moravia come europeo non poteva essere diversa in quanto forgiata da secoli di storia culturale e morale, da cui non poteva ovviamente prescindere e che era necessariamente l’approccio e la prospettiva con cui lo scrit-tore riflette sulle popolazioni e sui paesi non europei, consa-pevolmente o inconsapevolmente, e che gli fa contrapporre l’Europa moderna come centro del mondo al resto periferico arretrato, tanto che, come Enrique Dussel spiega, “Modernity appears when Europe affirms itself as the ‘center’ of a World History that it inaugurates; the ‘periphery’ that surrounds this center is consequently part of its self-definition (La moderni-tà appare quando l’Europa afferma se stessa come il ‘centro’ della Storia Mondiale, che inaugura; la ‘periferia’ che circonda questo centro è di conseguenza parte della sua stessa defini-zione)” (Dussel 1993: 65). È solo con il secondo dopoguerra che l’America settentrionale si affermerà come forza mondia-le, sostituendosi così all’Europa. Ma se il cambiamento degli equilibri mondiali non ha bisogno di secoli, la modifica di una forma mentis richiede certamente più di dieci anni, e nel 1956, ovvero quando Moravia si recò in U.R.S.S., lo scrittore era an-cora profondamente, e senza ombra di dubbio, eurocentrico.

Un mese in U.R.S.S.: viaggiando verso l’Uzbekistan

Il soggiorno di Moravia in Unione Sovietica viene dunque sviscerato e ricostituito nelle pagine del libro pubblicato da Bompiani nel 1958, offrendo al pubblico di lettori una sinergia di riflessioni che non seguono però l’andamento cronologico del viaggio. Le date, infatti, sono omesse, ma sappiamo che almeno il due aprile, ovvero il Lunedì di Pasqua del 1956, Mo-ravia era al monastero Troizki, a settanta chilometri da Mosca, mentre un mese dopo, il 2 maggio, era nella capitale moscovi-ta (Moravia 1958: 35, 47). Da un punto di vista strutturale, Un mese in U.R.S.S. è suddiviso in dodici capitoli, i quali sono piuttosto dei saggi con una loro vita autonoma, al punto che il libro non ha una sua omoge-neità e coerenza, presentandosi piuttosto come una raccolta di riflessioni scaturite dal viaggio. Forse è proprio per questo che Renzo Paris liquida velocemente e anche fin troppo sempli-cisticamente il testo di Moravia come “un saggio romanzato su Dostoevskij” (Paris 2007: 215), mentre dei dodici capito-li, soltanto uno è dedicato al romanziere russo e un altro è incentrato sull’antieroe nella letteratura russa. Altri capitoli sono riservati rispettivamente a Tbilisi (Georgia), a Erevan (Armenia) e ben tre all’Uzbekistan, di cui uno è sulla capitale Tashkent, un secondo su un colcos usbeco e il terzo su Samar-canda. I restanti capitoli del libro narrano di Mosca e dei suoi dintorni, dell’economia sovietica e perfino della destalinizza-zione inaugurata da Nikita Khrushchev (Moravia 1958: 17, 22-23, 66-67, 75, 149) al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico (14-25 febbraio 1956), importante anche per Mora-via, che si era recato in Unione Sovietica soltanto un paio di mesi dopo il fatidico evento. Essendo capitato in U.R.S.S. in un momento di svolta e di transizione così importante, non sorprende che nelle sue con-siderazioni Moravia ponga il lettore critico nel difficile ruolo di stabilire cosa sia effettivamente l’Unione Sovietica. Prima di tutto Moravia fa un’operazione prettamente eurocentrica quando spiega la storia dell’altro, ovvero del non-europeo, con la storia europea; in secondo luogo, lo scrittore fa un’opera-zione anacronistica quando afferma che l’Unione Sovietica del 1956, nonostante le sue prerogative moderniste (non si dimentichi che di lì a pochi anni gli Stati Uniti e l’Unione

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32 Sovietica saranno antagonisti nella corsa allo spazio), fosse ancora ferma all’Ottocento di Dostoievski, tra l’altro ostraciz-zato ai tempi dell’U.R.S.S.. A questo proposito si deve ricorda-re come Moravia dichiari, a torto o a ragione, come la Russia sovietica fosse rimasta a uno stadio evolutivo simile a quello dell’Europa ottocentesca, “stranamente conservato e soprav-vissuto al crollo dello zarismo” (Moravia 1958: 152). Infine, Moravia non si esime dall’affermare come l’Unione Sovietica debba unirsi all’Europa, sostenendo così che la prima sia altro e quindi diverso e periferico rispetto all’Europa stessa, e che vi sia una sola civiltà – quella europea, appunto – e non due (capitalista e comunista): “[…] e insomma la sensazione che si riporta [è] che la Russia non può restar divisa troppo a lungo dall’Europa; che non vi sono due civiltà, l’una capita-lista e l’altra comunista, ma una sola civiltà eguale in tutto il mondo; che il centro creativo del mondo è tuttora in Europa” (Moravia 1958: 56-67). La visione moraviana si riconferma, dunque, nella sua visione eurocentrica del mondo e della storia, con l’Europa al centro di questi ancora nel 1956, tanto più che Moravia lo dichiara esplicitamente quando scrive che “la storia ebbe il suo pernio ora in una zona d’Europa e ora in un’altra” (Moravia 1958: 64), quindi sempre e comunque nell’ambito del continente europeo, di cui non farebbe parte la Russia né tanto meno l’Asia Centrale, la cui colonizzazione da parte sovietica viene dichiarata e allo stesso tempo negata dallo scrittore. Ma come?Nei suoi scritti di viaggio, Moravia menziona il “gigantesco programma di colonizzazione della Siberia (tre milioni di per-sone dovrebbero emigrarci nei prossimi cinque anni); [e] [i]l dissodamento delle cosidette terre incolte (il Kazakstan, gran-de quasi quanto l’Europa, un tempo distesa di steppe spopola-te)” (Moravia 1958: 50). Con queste osservazioni, Moravia so-stiene dunque l’intenzione dei sovietici non solo di colonizzare la Siberia, ovvero una regione interna alla stessa U.R.S.S., ma anche di dissodare, ovvero di colonizzare, il Kazakistan, parte dell’Asia Centrale assieme all’Uzbekistan, al Kirghizistan, al Tagikistan e al Turkmenistan. Ma perché, in quest’accezione, dissodare significa colonizzare? Perché per dissodare una terra incolta e spopolata deve essere trasferito un ingente numero di personale dal centro alla periferia secondo una pianificazio-ne coloniale ben precisa. Inoltre, Moravia pensa al Kazakistan (e quindi, attraverso una sineddoche, anche all’Asia Centrale) come a uno stato interno di cui sfruttare le risorse ed è per questo che è possibile definire quello sovietico un colonia-lismo interno, il quale acquista poi i caratteri di una vera e propria sovietizzazione imposta da Mosca sulla periferia, la quale ha il volto di una modernizzazione forzata che riconosce le popolazioni centro-asiatiche musulmane come arretrate e necessitanti di essere appunto modernizzate (De Santi 2009). E nonostante Moravia ritenga, come d’altronde i sovietici, che Mosca non stesse colonizzando l’Uzbekistan, nelle sue riflessioni su questa repubblica centro-asiatica in realtà Mo-ravia ammette come i sovietici vi operassero da veri e propri colonizzatori. Inoltre, nei saggi sulla Georgia e sull’Armenia, oltre ad emergere la visione eurocentrica, già si avverte una tensione verso il colonialismo interno, poi definitivamente ammesso, seppure con riserva e talvolta in maniera contrad-dittoria, nei tre saggi dedicati all’Uzbekistan. Ma è proprio nella sua progressione verso l’Uzbekistan, passando almeno ideologicamente attraverso il Caucaso, che l’eurocentrismo e l’orientalismo di Moravia iniziano a pale-sarsi, al punto che la capitale della Georgia, Tbilisi, è descritta come in possesso di “un carattere indefinibilmente leggenda-rio, orientale, esotico” (Moravia 1958: 76), aggettivi con un valore semantico che evoca l’altro, il diverso, e per estensione, il non-europeo. E l’intellettuale romano va anche oltre quando paragona la Georgia all’Italia e all’Europa, rafforzando così l’opposizione contrastiva Europa-Asia:

[…] uno sfaciume di vecchie case sbilenche, a più piani, con belvederi sospesi di bruno decrepito legno che fanno pensare alle musciarabie d’Oriente. È la parte più vecchia di Tbilissi, dove è più turchesca, più georgiana. Quelle case senza stile, ma tanto vecchie, mi ricordano una volta di più che non mi trovo nell’Alto Adige o nel Tirolo, bensì nel Caucaso, questa strana regione sulla quale continuamente si sovrappone l’im-magine delle Alpi, soltanto per rivelarne la profonda diversità. (Moravia 1958: 77)

E ancora, proprio per la sua conformazione montagnosa, il Caucaso fa ricordare a Moravia l’Austria, la Svizzera e il Nord Italia, mentre la presenza di popolazioni altre come “azeirba-giani, osseti, abkasi, georgiani e via dicendo” (Moravia 1958: 77) diventa motivo d’insolita sorpresa “per un occidentale” (Moravia 1958: 77), confermando l’idea di un Occidente op-posto all’Oriente. Infine, l’ultima considerazione di Moravia in Georgia ha un carattere politico ed è destinata a Stalin, nato qui nel 1878:

Stalin, prima di tutto, dove bisogna situarlo? In Asia come uomo politico marxista, come creatore dell’ideo-logia della rivoluzione industriale nelle zone depresse, come fautore del progresso di marca europea? Oppu-re in Europa come tiranno asiatico, come parente di Tamerlano e di Gengis Khan e altri simili catastrofici personaggi, che, come lui, ignoravano il valore della vita umana e trattavano le masse all’ingrosso ed erano collettivisti per difetto? Certo che egli è bifronte, con la faccia asiatica che guarda all’Europa e quella europea che guarda all’Asia. (Moravia 1958: 79)

Nelle sue argomentazioni, Moravia non si pone il problema solo di Stalin, ma anche dell’Unione Sovietica in generale, ovvero di questa come un organismo bifronte che ha le fat-tezze europee quando cerca di modernizzare – quindi di co-lonizzare, secondo l’idea coloniale europea – le zone periferi-che ritenute arretrate, mentre ha le fattezze asiatiche quando si considera l’U.R.S.S. come uno stato totalitario senza libertà politiche, che è anche la caratteristica che denota l’Oriente come opposto all’Occidente secondo l’idea esposta da Cha-bod. Tra l’altro, il pensiero di Moravia si riconferma quando pensa al “bifronte atteggiamento dei russi nei confronti così degli orientali come degli occidentali: verso i primi i russi non riescono talvolta a dissimulare un certo complesso di superiorità; verso i secondi il complesso opposto” (Mora-via 1958: 107). In ogni caso, lo scrittore continua a vedere l’Unione Sovietica come in possesso di un carattere bifronte che la rende ambigua, non essendo né completamente euro-pea né completamente asiatica, fermo restando che l’Eu-ropa rimane l’entità con cui spiegare quest’ambiguità: nei confronti dell’Europa la Russia si sente asiatica, mentre nei confronti dell’Asia si sente e si adopera come europea, con Stalin che alla fine ne rappresenta la sintesi migliore.Analoghe incertezze sull’appartenenza non solo geografica ma anche ideologica si palesano anche quando Moravia si reca a Erevan, in Armenia, la cui fisionomia di nuovo in bilico tra l’Asia arretrata e l’Europa moderna anticipa l’Uz-bekistan:

La vecchia Erivan che ancora trenta o quaranta anni or sono non era che un borgo asiatico di casupole di fan-go seccato, arrampicato su colline sassose, oggi, a chi lo contempli da una delle tante colline, appare come assediata e rosa dai nuovi quartieri che impetuosamen-te si vanno fabbricando. (Moravia 1958: 88).

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33Moravia in Uzbekistan Se già il Caucaso aveva suscitato in Moravia delle considera-zioni alla fine eurocentriche e orientaliste, quelle sull’Uzbeki-stan reiterano un tale approccio. Le prime riflessioni offerte al lettore riguardano non solo Tashkent, ma anche e prima di tutto l’Asia Centrale:

Confesso la mia sorpresa. Il nome stesso di Asia Centra-le evocava nella mia mente l’immagine di una regione semidesertica, con città sonnolente fabbricate di fango secco, sole a picco, diroccate moschee ornate di maio-liche azzurre, polvere, asini e mendicanti. Donde mi veniva questa immagine? Forse da altri viaggi in Asia, quella del Medio Oriente, forse dal ricordo della musica facile e malinconica di Borodin, forse da vecchie letture di esplorazioni dell’Ottocento. Ma Tashkent, capitale dell’Uzbekistan e città principale dell’Asia Centrale (quasi un milione di abitanti), non rassomiglia affatto a quest’immagine. (Moravia 1958: 97)

Prima di tutto si noti l’immagine evocata da un nome esotico come quello di Asia Centrale strettamente legato ai viaggi in Asia, antagonista per antonomasia dell’Europa, nome anche connesso ai prodotti della cultura alta come la musica o la letteratura di viaggio. Menzionando i resoconti dei viaggiatori del XIX secolo, Moravia si pone storicamente nell’ottica otto-centesca, che si ricordi aveva una natura ancora fortemente eurocentrica. Ma quello che colpisce nelle parole di Moravia è la mancata soddisfazione delle aspettative, in quanto alla fine Tashkent non è poi così asiatica come si sarebbe aspet-tato, e questo proprio perché vi si alternano le architetture sovietiche e asiatiche, con la seconda essenzialmente formata da “casupole di fango seccato” (Moravia 1958: 98). Questa combinazione di stili sembra accennare a una “simbiosi […] russo-asiatica” (Moravia 1958: 98) non solo di tipo architetto-nico, ma anche demografico, anche se questo rende perplesso il lettore visto che, come sostiene Moravia, “il trenta per cento della popolazione è russa (emigrati per lo più al tempo dello zarismo) e il settanta per cento usbeca” (Moravia 1958: 98). La cosiddetta simbiosi rivelata da Moravia sarebbe dunque data dalla presenza di russi occidentali e di centro-asiatici nelle strade di Tashkent, ove le due etnie rimangono comun-que divise:

[…] matrone russe vestite di scuro che portavano per mano ragazzine bionde e pallide e donne usbeche bru-ne e aduste, vestite di cretonne vivaci o addirittura dei variopinti costumi nazionali, con le lunghe trecce nere sul petto e i bruni bambini infilati in zaini, sulle spalle, alla maniera asiatica; soldati dell’esercito sovietico, biondi, rasati a zero, con la giubba stretta alla vita (le vite più snelle di tutta l’U.R.S.S.), i pantaloni sbuffanti e gli stivali, e piccoli tartari gialli e grinzosi, con il giub-betto e il berrettone di karakul; camion innumerevoli condotti di gran corsa da disinvolti autisti russi e so-marelli pazienti cavalcati da venerabili sceicchi barbuti e inturbantati. (Moravia 1958: 98-99)

Si deve notare che Moravia parla di “simbiosi” – più tardi definita anche “simbiosi slavo-asiatica” (Moravia 1958: 100) e ancora “contaminazione russo-asiatica” (Moravia 1958: 99) – solo avendo superficialmente accertato l’esistenza di due popolazioni che sembrano vivere in sintonia, l’una accan-to all’altra, in una realtà però non del tutto sperimentata da Moravia, viaggiatore di passaggio. Infatti, quello che lo scrittore nota nelle persone presenti nelle strade sono soprat-tutto gli abiti e le fisionomie, quindi solo l’aspetto esteriore. In ogni caso, il tipo occidentale è senza dubbio contrapposto a

quello orientale, con l’ultimo che assume spesso dei connotati negativi: si parla, infatti, di donne usbeche “brune e aduste”, ovvero di un colore scuro, come bruciato, che si oppone al biondo pallido – caratteristica dell’Europa centro-settentrio-nale – delle bambine russe; il biondo dei soldati – che sugge-risce piuttosto il tipo germanico – viene poi contrapposto da Moravia ai “tartari gialli e grinzosi”, connotazioni certamente negative rispetto a quelle russe definitivamente più europee; infine i camion – che identificano la modernizzazione russa a carattere occidentale – sono messi a contrasto con gli asini come mezzo di trasporto asiatico, i quali simbolizzano uno stato pregresso alla modernizzazione. Quello che Moravia, dunque, registra sono due mondi che coesistono, vivendo tuttavia vite separate, anche se parallele. Pensando in termini di simbiosi biologica, per cui uno di due organismi che vivono assieme ha comunque la meglio sull’altro, si può sostenere che nel caso centro-asiatico sia l’organismo russo colonizza-tore che detiene la supremazia sull’organismo locale. Infatti, nonostante questa presunta simbiosi notata in prima istanza ad un livello superficiale, è proprio la relazione tra l’Europa e l’Asia che spinge Moravia a realizzare la mancata integrazione di questi due organismi:

Passammo davanti un grande edificio con le colonne corinzie, il teatro; e io compitai, leggendo sui cartello-ni: «Car-lo Gol-do-ni»; una compagnia russa dava «La Locandiera», ma poco più giù, nella stessa strada, scor-si il bianco muro merlato, la cupola a cipolla e il sottile minareto di una moschea. L’Europa, durante questo mio primo giro per Tashkent, mi diceva ogni tanto: «sono qui», con vetrine di farmacie o di negozi di ap-parecchi radio e televisivi, con fontane municipali dai multipli rampilli e monumenti di famosi uomini locali e russi scolpiti secondo i moduli del più convenzionale naturalismo ottocentesco; ma subito dopo l’Asia mi gridava: «sono qui anch’io», con visioni fuggitive di in-teri quartieri di casucce di fango secco, dai muri alti e bianchi, dalle viuzze polverose, dai tetti di terra erbosa. (Moravia 1958: 99)

Prima di tutto Moravia vuole scorgere, cercandola, l’Europa come punto di riferimento da cui non può prescindere; in se-condo luogo, questa sua Europa viene identificata non solo da uno stile architettonico ottocentesco, ma soprattutto dall’idea di centro propulsore della modernizzazione emanata dal con-cetto stesso di Europa, ovvero la tecnica (radio e televisione) che lo scrittore non si sarebbe aspettato in un paese asiatico perché considerato antiquato e tutto sommato da moderniz-zare. Quello che trova e che sorprende Moravia è dopo tutto la farmacia come istituzione, la quale tende a rappresentare la medicina moderna importata in un paese che doveva essere civilizzato, ovvero che doveva essere portato allo stesso livello della civile Europa (in questo caso, inclusa la Russia, visto, che Moravia parla di relazioni russo/slavo-asiatiche). Ora si sa che l’imposizione della medicina occidentale è stata un fattore determinante nel sistema di colonizzazione, in quanto si riteneva che questa avrebbe contribuito a debellare le creden-ze popolari dei non europei. Che questa medicina abbia poi concorso allo sterminio di intere popolazioni, questo è un altro discorso, ma senza dubbio la farmacia come identificativo della medicina occidentale gioca un ruolo chiave nel mostrare la faccia del colonialismo interno, alla fine rassicurante per Moravia, che nel solo atto di notare la farmacia vi riconosce la positività della sua presenza. Si deve, inoltre, sottolineare come l’idea di colonizzazione – che per Moravia è piuttosto europeizzazione nonostante lo stesso non usi mai questo termine – attraverso la rivoluzione industriale fosse in realtà promossa e auspicata dai sovietici. Questo accadeva proprio perché l’Asia Centrale, come “regio-

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34 ne tradizionalmente popolata da nomadi e agricoltori” (Mora-via 1958: 101), doveva essere necessariamente modernizzata attraverso l’industrializzazione stessa, che di nuovo il Mora-via eurocentrico non poteva non vedere in termini positivi. Inoltre, come la medicina, anche l’immagine dell’agricoltura implica una relazione anche di tipo coloniale tra l’Occidente e l’Oriente in termini concettuali e di visione del mondo. Nel caso moraviano, una tale relazione si espleta nella descrizione del mercato colcosiano, la cui natura, se sovietica nel nome (da colcos, la cooperativa sovietica), è però del tutto usbeca e questo a partire dagli astanti del mercato e dai suoi venditori:

[…] non c’erano che contadini usbechi. Vestiti spes-so dei costumi nazionali che sono assai vivaci, con lo zucchettino multicolore o nero e bianco in cima al capo, questi uomini e queste donne di pelle bruna, dalle facce piatte, dagli occhi sovente mongolici, dai nasi ricurvi, dall’espressione contemplativa, se ne stavano immobili dietro i banchi sui quali esponevano i prodotti delle loro campagne […]. Era un mercato tipicamente asiatico così per i tratti raziali dei colcosia-ni, come per il loro atteggiamento dignitoso, paziente, silenzioso, privo di quell’avida vivacità che distingue simili luoghi in Occidente. […] [L]a parità [tra russi e usbechi] sembra essere completa e le razze si mischia-no. (Moravia 1958: 101-102)

Nella descrizione dei centro-asiatici, ovvero dei contadini usbechi che popolano il mercato colcosiano, Moravia utilizza dei cliché di natura orientalistica, mentre il concetto di razza s’impone nelle sue riflessioni e questo per ribadire l’opposi-zione Occidente-Oriente, che lo scrittore vuole però vedere annullata grazie all’elemento sovietico identificato dal colcos. In realtà Moravia vuole riconoscere una parità che non c’era, visto che i sovietici avevano comunque il controllo dei colcos, dei mezzi di produzione, del sistema educativo, medico e così via. Per di più Moravia sostiene che le razze si fossero mi-schiate, ma questo avveniva non tanto attraverso le relazioni esogamiche quanto piuttosto per un’obbligata coesistenza parallela. Infatti, più che mischiate, le razze dovevano sem-brare mescolate, come Moravia sostiene quando, a supporto di questa sua visione, porta l’esempio di un asilo infantile dove i bambini sono distinti sulla base delle razze, identificate da “un Tamerlano oppure un Tolstoi” (Moravia 1958: 103). È opportuno notare come le due razze siano rappresentate da due personalità molto diverse, ovvero da Tamerlano, un imperatore e conquistatore turco-mongolo alquanto sanguina-rio morto nel 1405, e da Tolstoi, uno scrittore russo cristiano che nell’immaginario collettivo occidentale di stampo euro-peo sicuramente evoca un’immagine più positiva che non un Tamerlano non-cristiano. È interessante notare come queste considerazioni portino necessariamente Moravia a riflettere sul colonialismo per offrire il suo giudizio in maniera diretta:

Da parte americana, più volte, l’Unione Sovietica è stata accusata di essere oggi, in piena liquidazione del colonialismo ottocentesco [di marca zarista], la nuova e maggiore potenza colonialista del mondo. […] [T]uttavia questa espansione sovietica non può chia-marsi colonialista perché non presenta i due caratteri principali del colonialismo tradizionale: lo sfruttamen-to sistematico delle colonie da parte della metropoli e la condizione di inferiorità economica e sociale di quel-le di fronte a questa. […] A riprova si potrebbe addurre il fatto che queste repubbliche periferiche sembrano essere sovente più prospere e più progredite delle re-pubbliche metropolitane. (Moravia 1958: 104-105)

Moravia cerca dunque di persuadere il lettore che quello

messo in atto dall’Unione Sovietica nelle repubbliche centro-asiatiche non sia colonialismo proprio per quei due motivi che cita, ovvero lo sfruttamento delle colonie e la condizione d’inferiorità di queste. Prima di tutto, in questo modo Moravia ribadisce la dicotomia centro-periferia (quindi, la dicotomia metropoli-colonie) con la giustificazione della prosperità usbeca sulla base della produzione del cotone, citando tra l’altro che “dall’Asia Centrale viene il 65 per cento di tutto il cotone russo” (Moravia 1958: 105). In questo contesto non è importante tanto verificare le informazioni di Moravia, quanto piuttosto valutare l’uso che lo scrittore ne fa. A questo propo-sito ci sono alcune considerazioni da fare. Prima di tutto, Mo-ravia è nel torto quando sostiene che non vi sia “sfruttamento sistematico delle colonie da parte della metropoli [perché] in un regime colonialista tradizionale il cotone usbeco arricchi-rebbe i proprietari moscoviti” (Moravia 1958: 105): in realtà il cotone veniva spedito a Mosca, andando così ad arricchire le casse dello Stato. Inoltre, Moravia sostiene che in un regime coloniale tradizionale sarebbe palese l’“inferiorità economica e sociale” delle colonie rispetto alla metropoli, che è esatta-mente il caso dell’Uzbekistan (e anche delle altre repubbliche centro-asiatiche) nei confronti di Mosca, anche se Moravia non vuole riconoscerlo. Alla fine, il discorso eurocentrico che Moravia porta avanti nei suoi scritti reitera come la dicotomia centro-periferia in realtà rappresenti proprio la dicotomia Oc-cidente-Oriente, con il primo che è considerato ad uno stadio molto più avanzato di sviluppo rispetto al secondo. E se Moravia pensa in termini di colonialismo tradizionale con le colonie che debbano essere poste oltremare come nel caso del colonialismo inglese, francese oppure olandese, quello che gli manca è di considerare quello sovietico come un coloniali-smo interno, che pure segue l’andatura di quello tradizionale sin dalla Rivoluzione d’Ottobre e in continuità con il coloniali-smo zarista. Alla fine, la modernizzazione come europeizzazio-ne è il nodo che risolve la questione perché questa è ritenuta necessaria e anzi auspicata per l’Asia Centrale:

Non basta: la vita in queste repubbliche, benché pro-vinciale [quindi periferica], sembra essere più lieta e più libera che non a Mosca o a Leningrado. Gli è che a Mosca e a Leningrado lo stadio iniziale della rivolu-zione industriale è stato superato da un pezzo (forse era già stato superato sotto lo zarismo) e il marxismo significa inestricabili e dolorosi problemi politici, culturali e sociali; mentre nell’Uzbekistan, dove ancora quarant’anni or sono sopravviveva il sonnacchioso e retrivo dominio dei khan e le strade erano piste di polvere, e le città erano assembramenti di casucce di fango e il mezzo di trasporto più comune era l’asino e la popolazione era per il 90 per cento analfabeta, qui la rivoluzione industriale è appena avviata e il marxismo significa macchinismo, elettrificazione, istruzione, tram, automobili e strade asfaltate. In altri termini il marxismo a Mosca e a Leningrado, sembra essere qua-si diventato, nell’interpretazione dogmatica staliniana, un ostacolo al rinnovamento e aggiornamento della politica e della cultura; qui in Asia Centrale, invece, è il canale benefico per cui la cultura e la scienza europee vengono finalmente introdotte in Asia. (Moravia 1958: 105-106)

Moravia fa un discorso ideologico nel momento in cui il marxismo stesso viene criticato nella sua variante evolutiva stalinista, mentre il marxismo come complesso filosofico dell’Ottocento diventa il propulsore della modernizzazione e la sua giustificazione nella periferia centro-asiatica. Si noti, inoltre, come Moravia caratterizzi il dominio dei khan tipi-camente centro-asiatico con un aggettivo alquanto negativo come “retrivo”, mentre la regione è vista come necessaria di

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35modernizzazione proprio per la sua costituzione intrinseca (piste invece di strade, casucce di fango invece di solide case di mattoni, asini invece di moderni mezzi di trasporto, anal-fabetismo invece di educazione di massa). Ma il marxismo, veicolato dallo stalinismo che Moravia tanto critica, avrebbe comunque portato quegli elementi positivi di marca tutta eu-ropea, come “macchinismo, elettrificazione, istruzione, tram, automobili e strade asfaltate”, che avrebbero sostituito le piste di polvere, le casucce e gli asini, oltre a sradicare l’analfabe-tismo. Alla fin fine Moravia, secondo un approccio non solo eurocentrico ma colonialista, si congratula per quella cultura e quella scienza europee imposte dal centro (Mosca e quindi l’Europa mediata da Marx) sulla periferia (l’Asia Centrale). L’idea che Moravia propugna è dunque quella della neces-sità d’imporre la visione europea in una dicotomia per cui l’Europa si contrappone necessariamente al resto del mondo, soprattutto a quello orientale e musulmano, di cui d’altronde l’Asia Centrale fa parte. Tra l’altro, a conferma di quest’at-teggiamento, Moravia ammette che “la Russia marxista è certamente la maestra di molti popoli asiatici che appena oggi escono da condizioni medievali incredibilmente arretra-te” (Moravia 1958: 107). La retorica del paese arretrato che vada civilizzato e modernizzato secondo i parametri europei caratterizza quegli approcci che sono a ragion veduta criticati negli studi post-coloniali (post-colonial studies) e in quelli subalterni (subaltern studies), di cui Ranajit Guha (Guha e Spivak 1988; Guha 1997b) è stato il fondatore, tanto che si è iniziato a tenere in maggiore considerazione la storia dei colonizzati piuttosto che quella dei colonizzatori. Tra l’altro proprio negli anni in cui Moravia si recò in Unione Sovietica, le opere di Frantz Fanon (1952, 1959, 1961) sulla rivoluzio-ne anticoloniale algerina stavano contribuendo al recupero di un discorso sulle popolazioni cosiddette subalterne, ma lo scrittore romano era ancora lontano dall’assorbire questi nuovi concetti tanto che le popolazioni subalterne centro-asiatiche erano ancora viste dallo stesso scrittore attraverso la lente “colonizzatrice”.Ancora nelle sue considerazioni sull’Asia Centrale, Mora-via s’interroga nuovamente “se l’Unione Sovietica sia una potenza asiatica o europea o meglio se l’Unione Sovietica sia la potenza-guida dell’Asia o quella dell’Europa o di tutte e due” (Moravia 1958: 106). Nonostante Moravia non rispon-da a questa domanda, dà comunque per scontato che le popolazioni centro-asiatiche guardino “alla Unione Sovietica come alla loro patria ideale; al marxismo come all’ideologia energica che li ha fatti uscire da un letargo di secoli; e a Mo-sca come alla loro vera capitale” (Moravia 1958: 106-107). L’ingenuità di Moravia si palesa proprio in queste considera-zioni in quanto al viaggiatore occidentale in Unione Sovieti-ca, secondo i canoni del turismo politico che anche lo stesso menziona (Moravia 1958: 26), veniva raccontata la versione sovietica ufficiale, che Moravia accetta acriticamente secon-do le linee della propaganda di Mosca. Tra l’altro, ancora negli anni Cinquanta, i centro-asiatici continuavano a essere profondamente musulmani e non vi è certezza che costoro riconoscessero nell’U.R.S.S. la loro patria ideale, né che rico-noscessero Mosca come la loro capitale (una città, tra l’altro, molto lontana che solo pochi locali avevano avuto o avevano la possibilità di visitare), né che avessero bisogno di essere modernizzati come popoli arretrati. Quest’ultimo aspetto è soprattutto quello che in Europa si voleva credere, ovvero che l’altro fosse ben felice di essere modernizzato (e coloniz-zato), e che anzi non volesse altro che questo per uscire da quello che gli europei consideravano uno stato medievale. In questo contesto, è piuttosto sintomatico che Moravia voglia per forza riconoscere il “senso di isolamento dell’Asia centrale […]. Questa regione lontanissima da Mosca e ancora più lon-tana dall’Europa e dove tuttavia si guarda a Mosca e all’Eu-ropa come alla patria ideale” (Moravia 1958: 105). Il discorso

moraviano che colloca l’Asia Centrale come “lontanissima” da Mosca e dall’Europa riafferma la retorica dell’altro e del diverso, mentre la sensazione di isolamento non fa che confer-mare l’eurocentrismo che costringe a descrivere le popolazioni centro-asiatiche come ansiose di approssimarsi ai parametri europei.Tra l’altro, nel capitolo dedicato al colcos usbeco, Moravia se-gue il dogmatismo sovietico, in realtà piuttosto sterile e spesso non verificabile per com’era offerto all’osservatore occidentale, e lo fa attraverso le statistiche come il mezzo con cui misurare i risultati raggiunti. Ma alla fine, l’operazione che Moravia fa nel raccontare il suo incontro con i contadini della cooperativa agricola è di universalizzarli alla maniera di Carlo Levi e lo fa quando dice che “questa faccia per me esotica tuttavia aveva una espressione che io conoscevo molto bene: la stessa che hanno i contadini di tutto il mondo allorché li si interroga su cose che li tocchino da vicino” (Moravia 1958: 113). Per di più, oltre ad offrire al lettore delle informazioni a carattere etnografico spiegando le usanze e l’architettura delle case tradizionali, Moravia paragona la struttura della cooperativa a “quanto si poteva vedere in un comune rustico dell’Italia centrale” (Moravia 1958: 117), un modo per universalizzare il contadino e le sue case, specialmente quando Moravia nota come queste condividano dei tratti con quelle dei contadini di tutto il mondo attraverso gli “attestati agricoli e oleografie di argomento fiabesco o cavalleresco” (Moravia 1958: 118) appesi alle pareti.E se i contadini fanno riflettere Moravia, sono i conquistato-ri asiatici come Tamerlano che danno modo allo scrittore di valutare ancora una volta la dicotomia Occidente-Oriente:

In Europa dove, per nostra fortuna, Tamerlano non mise mai piede, il conquistatore asiatico non è mai sta-to più che un nome circonfuso di una fama leggenda-ria e imprecisa, un po’ come quello di Gengis Khan, dal quale egli pretendeva di discendere; ma in Asia, che fu la sede del suo impero, il suo ricordo è ancor vivo e probabilmente mescolato di terrore e di ammirazione come quello dell’eruzione gigantesca di un vulcano, che in seguito non si sia più risvegliato dal suo letargo. […] Comunque, a questo hanno servito almeno le due guerre mondiali: a renderci la figura di Tamerlano vici-nissima e comprensibilissima, nient’affatto pittoresca e «storica» come per i nostri nonni dell’Ottocento. Ta-merlano tagliava teste in quantità prodigiosa; a Delhi tagliò la testa a centomila prigionieri di cui non sapeva che fare. Ma che altro fece Hitler pochi anni or sono? (Moravia 1958: 126-127)

Partendo dall’ultima considerazione, Moravia paragona Hitler a Tamerlano. Il problema, però, si pone quando Moravia identifica Tamerlano, un conquistatore sanguinario, con la popolazione centro-asiatica e questo avviene quando visita il già citato asilo infantile: come si è avuto modo di dire la forte connotazione negativa di una tale identificazione contrasta nettamente con la figura pacifica di un Tolstoi russo, sicura-mente più europeo e più cristiano. Ma riconoscendo, dunque, nei centro-asiatici dei Tamerlani, Moravia non fa che ricon-fermare il suo atteggiamento da occidentale europeo che si sente superiore rispetto agli usbechi, una “razza” alla fine considerata inferiore e non civilizzata. Inoltre, da un punto di vista europeo, Tamerlano è riconosciuto da Moravia come in possesso di una fama leggendaria che non può non ricor-darci il Gengis Khan tramandatoci da Marco Polo attraverso Il Milione, dove non mancano salienti digressioni non solo sul Caucaso e sull’Asia Centrale (Polo 1982: 15-17, 25-29, 51-52, 60-67), ma anche sulla Russia (Polo 1982: 229 e seguenti). In ogni caso, l’ultima riflessione su Tamerlano è per Moravia “rattristante e sconsolata, [ovvero] che questa in fondo era

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36 l’ultima e maggiore vittoria di Tamerlano: di essere riuscito a sopravvivere con le sue atrocità nella memoria degli uomini che ancora oggi lo odiano mentre tanti, che hanno voluto il bene di questi stessi uomini, sono da loro del tutto dimen-ticati” (Moravia 1958: 128). Evidentemente i centro-asiatici sono considerati da Moravia degli esseri incapaci di analisi critica e questo perché gli stessi non sarebbero in grado di discernere chi sia da ricordare e chi no, anche se non è del tutto chiaro a chi si riferisca Moravia quando parla di coloro che hanno voluto il bene di questi popoli e che sono stati alla fine dimenticati. In fin dei conti, anche la tomba di Tamerlano a Samarcanda, ovvero il suo mausoleo, è dimenticato poiché nessuno vi fa la fila come invece ancora nel 1956 accadeva a Mosca, dovei ci si accalcava per vedere i corpi mummificati di Lenin e di Stalin, ancora dentro la storia: l’assenza registrata alla tomba di Tamerlano conferma come lo stesso conquistato-re alla fine sia “fuori del tempo e della storia” (Moravia 1958: 133), un po’ come le stesse popolazioni centro-asiatiche so-spese in un vacuum storico tra colonialismo zarista e colonia-lismo sovietico, che si esplica in un fatto susseguitosi in “un albergo del tempo dello zarismo, un albergo coloniale asiatico” (Moravia 1958: 128), dove l’approccio eurocentrico di Moravia viene nuovamente confermato quando racconta di un gruppo di tartari a cui viene impedito di entrare nel suddetto albergo: “si poteva supporre che essi desiderassero entrare nell’albergo perché esso rappresentava ai loro occhi l’Europa e la sua civil-tà alla quale tutta l’Asia aspira e cerca di uniformarsi. Fuori dell’albergo c’era dunque l’Asia, dentro l’Europa” (Moravia 1958: 129). L’albergo sembra rappresentare metaforicamente la storia del mondo, mentre l’immagine del dentro e del fuori ci ricorda ancora una volta l’idea eurocentrica che spiega la storia a partire dell’Europa, che è appunto dentro la storia e che fa la storia, mentre l’Asia ne è fuori. Ma l’albergo che tro-va Moravia non ha gli standard europei, tanto che lo stesso ci informa, sarcasticamente, che “una volta dentro l’albergo, po-tei vedere di che razza di Europa si trattasse” (Moravia 1958: 129), ovvero un albergo dove una piccola orchestra intonava “vecchie canzonette italiane dell’altro dopoguerra: Fru Fru del tabarin; No, cara piccina no. E io, sedendomi a tavola, ripensai

ai tartari che erano rimasti fuori di questo paradiso europeo” (Moravia 1958: 130). Quella che Moravia incontra è dunque un’Europa fossilizzata nel tempo tra le due guerre, una critica che rimarca come la visione che gli asiatici dovevano avere dell’Europa non era quella che Moravia si sarebbe aspettato o avrebbe voluto. L’idea dell’Europa come patria ideale dei cen-tro-asiatici e ritenuta tale dallo scrittore viene meno proprio in quell’albergo di Samarcanda, mentre la visita al mausoleo di Tamerlano citata poc’anzi conduce Moravia all’ultima rifles-sione mediata proprio dalla guida che lo sta accompagnando:

L’archeologo intanto conclude il suo discorso con queste parole: «I mongoli… voialtri europei dovreste esserci grati perché siete stati salvati da noialtri russi che abbiamo ricevuto e fermato l’impeto della furia mongolica». Riflessione giusta e storicamente esatta, ma poco consolante egualmente, come penso. Infatti, quella furia non era dovuta alla forza bruta, ma ad una maniera di concepire la vita e dunque anche la politica e la guerra. Domani, questa mentalità dei secoli per-duti potrà risorgere, nuova e imprevedibile, non più in Asia, ma ai confini stessi, oggi così incerti e così mobili, dell’Europa. (Moravia 1958: 134)

Il timore di Moravia che gli europei debbano scontrarsi in futuro con l’altro, identificato qui con il mongolo, ha una con-notazione estremamente negativa, la quale precorre la visione pessimistica di Samuel P. Huntington che, con il suo famoso e dibattuto The Clash of Civilizations? (1993), anticipa scontri inevitabili lungo gli assi culturali delle diverse civiltà. La paura di Moravia viene, però, dall’Asia medievale, che si oppone alla cristiana Europa, con una mentalità altra che alla fine sembra non possa mai essere del tutto modificata e quindi moderniz-zata secondo i canoni europei. E alla fine la preoccupazione ultima è che l’Asia musulmana entri nell’albergo della storia e che colonizzi l’Europa, terrorizzandola, una visione apocalit-tica che oggi molti ritengono plausibile a causa dei sanguinari attentati terroristici dello Stato Islamico.

Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Alberto Moravia in Uzbekistan nel 1956 tra eurocentrismo,orientalismo e colonialismoDe Santi Chiara

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37Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /La poesia è una forma di conoscenza?E in che modo conosce?Loriggio Francesco

La poesia è una forma di conoscenza? E in che modo conosce?

La poesia è una forma di conoscenza? E in che modo cono-sce? Sono le domande che si pone Cristina Caracchini nel suo libro dal titolo Cognizione e discorso poetico. A dialogo con Dante, Pessoa, Guillén, Caproni e Ashbury (Fiesole: Edizioni Cadmo, 2009), pubblicato ormai alcuni anni fa e passato troppo presto e troppo in sordina dai tavoli dei librai agli scaffali delle biblioteche specializzate. La risposta, come indica la seconda parte del titolo del volume, ci viene data in un’analisi di grande respiro, che se ha come bersaglio prima-rio la portata teorica delle domande tiene conto anche degli atteggiamenti con cui autori di diversa estrazione e diversa collocazione storica le hanno affrontate.Punto di partenza della Caracchini, ben sottolineato nelle pagine introduttive, è l’affermazione di Theodor Adorno che identifica il “contenuto di verità” di un’opera con “il suo enigma”. Un preambolo forte, di doppio rilievo critico. Infat-ti se la cognizione consiste nella “possibilità di comprendere e di esprimere la relazione dell’uomo con il proprio mondo”, secondo quanto ci ingiunge sempre il libro, il sapere che in base alla formula del filosofo tedesco si può distillare dalla poesia è un sapere del tutto problematico: l’ambiguità insita ai singoli testi ci obbliga a privilegiare da una parte le loro strategie espressive, dunque il rapporto dell’autore con la lingua e il linguaggio, e dall’altra la nostra reazione di fronte a quella lingua, quel linguaggio, dunque le nostre strategie interpretative. Inoltre, ed è importante, il lavoro, la cautela esegetica che presuppone la paradossale, antinomica for-mula di Adorno, ha anche una sua motivazione cronologica: l’essere “difficile”, “oscura”, l’aver spostato l’enfasi dal con-tenuto, nelle sue varie manifestazioni, al processo creativo o al ruolo e alla responsabilità del lettore, è da tempo conside-rato il contrassegno dominante della poesia degli ultimi due secoli. Per cui il libro della Carracchini finisce per profilarsi anche come una specie di conferma della preeminenza di una quota significativa della modernità letteraria.Nel quadro teorico-storico che ci viene tracciato nell’intro-duzione e poi nel capitolo dedicato alla Commmedia, Dante è l’antecedente mediante cui (o contro cui) situare il Nove-cento. Lo è perché crede nella capacità dell’autore di offrire al lettore una visione ragionata del mondo e lo strumenta-rio mediante cui accedere a quella visione e a quel mondo. Nella grande epica del poeta fiorentino avremo una sintesi sia della sua biografia privata, sia del suo destino di autore.

Dante non ha nessuna remora di fronte agli eventi maggiori o minori della sua epoca, che riepiloga secondo criteri abba-stanza collettivi, e nel suo pellegrinaggio attraverso l’infer-no, il purgatorio e il paradiso dichiarerà la sua insufficienza solo davanti all’incontro con la divinità, l’unico momento, veramente, in cui all’“alta fantasia” mancherà “la possa”. Ma al di là di questo, della descrizione dell’ambito del rappresentabile e del decifrabile, abbiamo simultaneamente il Dante che obbedisce ad impulsi apertamente pedagogici: la Lettera a Cangrande e il Convivio ci danno indicazioni sulle varie estensioni del senso di ciò che si può esprimere, sulle sue componenti letterali, allegoriche, morali e anagogiche, oltre che esempi su come tale modello interpretativo vada applicato ad alcune delle sue canzoni più complesse, su come aiuti a renderle meno astruse e impenetrabili di quan-to sembrino.Per la Caracchini è l’italiano Giorgio Caproni, tra i poeti di cui lei si occupa negli altri capitoli, che confuta più diret-tamente la fiducia di Dante nella leggibilità del reale o dei testi che lo descrivono. Nonostante la scorrevolezza dell’elo-quio, sempre di un vocabolario e di una sintassi abbastanza normale (siamo lontani dal plurilinguismo o dall’elaborata ipotassi della Commedia), opere come Il passaggio di Enea, Il muro della terra o Il franco cacciatore ci depositeranno prima o poi – e sempre improvvisamente – di fronte ad impasse semantiche, a brani in cui la logica quotidiana s’inceppa, come nei seguenti versi:“Se volete incontrarmi/cercatemi dove non mi trovo”, oppure, ancora,“ Se non dovessi tor-nare,/sappiate che non sono mai/partito// Il mio viaggiare/è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai.” Soprattutto, ad innescare e giustificare le aporie è l’assenza di quell’esse-re supremo che in Dante era il garante dell’ordine – e quindi della coerenza – dell’universo e dello scibile umano. Per Caproni Dio non si nasconde: è inesistente, oppure, peggio, un Dio inevitabilmente “suicida”.Due degli autori su cui si dilunga il libro minano le cer-tezze conoscitive veicolate dalla Commedia senza indurci al richiamo a Dante. Nelle poesie di John Ashbury l’io parlante procede con un tono vicino alla prosa, il ritmo riflessivo della mente raziocinante da cui ci aspettiamo una qualche tesi da dimostrare o qualche lezione definitiva sulle cose a cui si riferisce. Tra gli oggetti o gli eventi che il locutore via via ci sciorina però non esiste nessun legame, oppure c’è un legame molto labile. E quindi, declinate le sue prerogative,

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38 disatteso qualsiasi impegno gnoseologico, l’autore lascerà ai lettori piena libertà, il compito di accettare gli oggetti e gli eventi per quelli che sono oppure di tentare di stabilire i nessi che potrebbero collegarli. Su una falsariga simile ma con un metodo ancora più radicalmente straniante si muove Fernan-do Pessoa. Il momento in cui ci accorgiamo che i vari Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares e altri che avevano pubblicato raccolte in uno stile sempre atipico, personale sono in effetti dei prestanome, ciascuno un suo alter ego in incognito, vacilla l’immagine dell’autore, viene offuscandosi la funzione dell’enunciatore, tradizionalmen-te fonte del testo e una una delle più inoppugnabili riprove della percettibilità e della solidità del suo significato. Contra-riamente a quanto dovrebbe accadere, visto che una lunga consuetudine l’ha dotata di un “io” dai contorni ben delineati e inoppugnabili, la poesia lirica diventa così un teatro delle voci: adesso, con Pessoa, è di complicata attribuzione, spari-glia, anche qui inequivocabilmente, le carte del lettore. Chiude la rassegna della Caracchini il capitolo su Jorge Guillén, nella cui opera riaffioreranno invece, di nuovo, echi di Dante, questa volta in positivo. Il poeta spagnolo non esita a reclamare per sè l’auctoritas dell’autore, a rivendicare una priorità cognitiva su ciò che scrive e quindi a sostenere che il testo comunica “un messaggio che gli preesiste”. Cantico, la sua raccolta maggiore, dal titolo già di per sé dantesco, inoltre tradisce aspirazioni cosmografiche senza remore o imbarazzi di sorta: l’io parlante rispecchia l’intera umanità intera con un antropomorfismo apertamente assunto, il paesaggio si dispiega in termini geometrici, e il tono delle poesie è sempre meditativo, intellettualizzante. Allo stesso tempo i testi di Guillén non sfuggono alle loro contraddizioni, al destino della poesia lirica: possono anelare al tutto, evocarlo astrattamente o tratteggiarne piccoli frammenti, ma non rappresentarlo o dare ad esso un principo e una fine.Che dire del libro nel suo insieme? La discussione dei sin-goli autori getta luce su aspetti essenziali della loro opera e varrebbe da sola il prezzo del biglietto. Tra l’altro, per il lettore italiano – o per l’italianista – la Caracchini ha il doppio me-rito di trasporre in una dimensione internazionale un poeta come Caproni, la cui consacrazione nostrana è recente (risale a due o tre decenni fa), e, per converso, di recuperare un classico come Dante per un dibattito sulla poesia novecentesca e tardo-novecentesca. Ugualmente pregevole e stimolante la rivisitazione della modernità dall’angolatura scelta dalla Caracchini: ci rammenta che la cognizione ha i suoi risvolti filosofici, da affiancare o da aggiungere a quelli di matrice scientifico-procologici in auge nella critica letteraria attuale.

Certo, qualche interrogativo sorge qua e là. L’oscurità della poesia moderna, gli enigmi che la pervadono sono postulati da chi li interpreta o sono comunicati dagli autori, dunque dei contenuti intenzionali, costruiti, sebbene negativi? Se lo sono come distinguerli dal silenzio di Dante alla fine della Comme-dia? Come valutare (o rivalutare) allora quel silenzio se lo si accosta dal lato della modernità? E comunque, poi, perché il Dante della Commedia e non quello stilnovista, ancora fautore della poesia lirica, visto che le sue controfigure novecentesche sono poeti lirici, e non poeti che come lui si sono cimentati anche con un genere “lungo”, di impianto epico o epicizzante (alle ultime terzione del Canto XXXIII del Paradiso si giunge, dopo un tortuoso racconto, una protratta preparazione)? E se Commedia doveva essere perché nel rovescio novecentesco della medaglia non includere esempi di poesia con ambizioni narrative, come i Cantos di Pound, o Paterson di William Carlos Williams, invece di soltanto poeti lirici, di poeti quindi con un loro partito preso chiaramente prevedibile all’interno della modernità? Narrare non è stato, nel Novecento, una opzione altrettanto voluta e ponderata che quella di “teatralizzare”, un ricorso in parallelo con i soliloqui, i monologhi drammatici o le dispersioni e le moltiplicazioni dell’“io” con cui un Pessoa o un Eliot sperava di poter aggirare i dettami del liricismo allo stato puro? Insomma la sensazione che si ha è che il libro pog-gi più del necessario sulle proprie premesse. I teorici che per la Caracchini si sono pronunciati sulla poesia con gli argomenti più accattivanti sono Theodor Adorno, Hugo Friedrich e Kate Hamburger, per i quali – in rispettivamente Äestetische Theorie, del 1970, Die Struktur der modern Lirik, del 1956, e Die Logik der Dichtung, del 1977 – la modernità nasce nel Romanticismo tedesco. Forse le guide non sarebbe stato male anche relativiz-zarle e storicizzarle: mentre la decisione della Caracchini di li-mitare il raggio della modernità all’Occidente non fa una grin-za (imbastire paragoni con la periodizzazione delle letterature asiatiche o africane avrebbe ampliato a dismisura l’orizzonte dell’indagine e richiesto competenze titaniche), l’ipotesi che la lirica occidentale moderna abbia un suo imprescindibile sottofondo germanico è più abbordabile comparatisticamente, e se ne sarebbero potuto testare le implicazioni senza troppi irriconciliabili patemi (tanto più quando, come qui, gli autori tirati in ballo hanno già una loro marcata derivazione cultura-le, sono o italiani o portoghesi o spagnoli o americani). Ma tutto questo non toglie nulla alla caratura del libro. Anzi attesta della ricchezza delle sollecitazioni che esso innesca. Per chi si interessa alle sorti della poesia e della critica nove-centesca – o di uno dei loro filoni – Cognizione e discorso poetico è un testo altamente e vivamente raccomandato.

Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /La poesia è una forma di conoscenza?E in che modo conosce?Loriggio Francesco

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39Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Verbale e figurativo nell’arte di Dario FoSusan Petrilli e Augusto Ponzio

Verbale e figurativonell’arte di Dario Fo

[…] è da imbecilli non preoccuparsi delle proprie radici storiche, etniche, antropologiche. “Io vivo adesso, sono moderno,

che mi importa di quello che è avvenuto prima? Un certo Gramsci, oggi un po’ fuori moda, diceva:

“Se non sai da dove vieni è difficile capire dove vuoi arrivare”

(Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, 2009, p. 109)

1. Dario Fo, poliedrico “attore”

Parlare di Dario Fo significa parlare al tempo stesso non solo di teatro, ma di pittura, di radio, di televisione, di scenografia, di regia, di scrittura letteraria, di musica, di impegno politico – che non è stata mai militanza politica chiusa all’interno dell’adesione a un partito, ma di critica senza mezzi termini –, di attivismo politico. Interdisciplinarietà? Si potrebbe certo usare questa parola per caratterizzare l’opera di Dario Fo, se non fosse perché essa è più appropriata, per uno studioso, un pensatore, un cultore di qualche materia, un docente universitario, per chi, come noi, per esempio, si occupa di semiotica, di filosofia del linguaggio (v. Petrilli e Ponzio 2016) proponendo quella particolare piega della scienza o “dottrina” (come meglio diceva John Locke, v. Petrilli: 2011) dei segni, necessariamente interdisciplinare, che abbiamo chiamato “semioetica” (v. Petrilli e Ponzio 2014). Dario Fo non è uno “studioso”, certo lo è anche – studioso di tradizioni, racconti e rappresentazioni popolari (v. tra l’altro a cui avremo occasione di riferirci, Fo, La bibbia dei villani, con 68 disegni dell’autore, 2010) e storico (la ricostruzione della vita di Sant’Ambrogio) – certamente, ma è un attore, nel senso am-pio e forte di questa parola; e quando lo si è connotato come attivista, in quanto soggetto di attività finalizzata a produrre un cambiamento sociale e politico, ciò va sempre collegato al suo essere attore. Egli dunque agisce come pittore e anche come giullare; come comico e anche come costumista; come sceno-grafo e anche come architetto; come scrittore (è pure autore di romanzi), e anche come regista… Anche il teatro dell’opera, il melodramma musicale (il Barbiere di Siviglia, …) a un certo punto lo coinvolge. Dario Fo è tutte queste attività. Parlare di Dario Fo vuol dire quindi parlare di una vita, di un modo di vivere la vita, di una vita “attiva” –, in una parola, parlare di un attore nel senso ampio. “Multidisciplinare” è dir poco se non anche riduttivo, multiforme va meglio, ben-ché non ci sia aggettivo che possa qualificare in pieno questo straordinario incontro di arti (anche nel senso in cui si parla di “arti e mestieri”) di quest’uomo straordinario. E parlare

di lui significa parlare pure di Franca, “figlia d’arte”, nella cui famiglia “erano tutti attori, la compagnia dei Rame, che avevano un repertorio, a cui provvedeva “il poeta della com-pagnia, lo zio Tommaso”, “talmente ricco di commedie, farse e drammi da poter cambiare spettacolo, nello stesso posto ogni sera” (Fo, Manuale minimo di attore, pp. 10-11).

Dario Fo e Franca Rame (photo: prato.linux.it)

Quanto segue, perciò, in questo paragrafo che abbiamo intito-lato appunto “Dario Fo, poliedrico ‘attore’”, non è una biografica, una specie di curriculum di uno studioso. Cerchiamo qui, invece, di dare almeno un’idea dell’agire di questo attore nel corso di una vita di artista multiforme, in cui arti verbali, arti figurative, spettacolo, musica, impegno sociale e politico, non hanno tra loro soluzione di continuità; e anche di tratteggiare un percorso fatto di non facili decisioni, di scelte e di svolte importanti, di ricomiciamenti innovativi, spesso sofferti, sem-pre partecipati con la responsabilità di un grande artista.

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40 Dario Fo ha novant’anni. È nato il 24 marzo del 1926 a San-giano in provincia di Varese (Lombardia). Drammaturgo, atto-re, regista, pittore, scrittore…, Premio Nobel per la letteratura nel 1997. Giovanissimo frequenta l’Accademia di belle arti di Brera poi, fino a sette esami dalla laurea, la facoltà di architet-tura. Inizia come pittore, e continuerà ad esserlo per tutto il resto della vita, come illustratore dei suoi testi e come dise-gnatore delle scene e dei cartelloni dei suoi spettacoli teatrali, ma comincia già a scrivere testi satirici e a recitare, avviando quel percorso in cui sarà mimo, comico e giullare.Agli inizi degli anni Cinquanta inizia a lavorare per la RAI. Dal 1952 recita per radio, per diciotto settimane, i monologhi grot-teschi intitolati Poer nano, nuovamente recitati lo stesso anno al Teatro Odeon di Milano. In Poer nano storie della Bibbia o vicende delle grandi tragedie sono raccontate da un popolano lombardo con il piacere di dissacrare, di carnevalizzare.Sposa nel 1954 Franca Rame. L’anno successivo nasce il figlio Jacopo. È del ’59 la “Compagnia Dario Fo e Franca Rame” che fino al ’68 presenta sette commedie di grande successo passando progressivamente dalla satira di costume alla satira politica, tra cui La signora è da buttare. Per questa commedia, dove la “signora” da buttare è l’imperialismo americano, viene convocato nella questura di Milano e minacciato di denunzia per offesa a capo di stato straniero (Johnson). Clamorosa è l’interruzione della sua collaborazione con la Rai, nel 1962, per protesta contro la censura democristiana, dopo alcune settimane da quando era stato chiamato a dirigere la trasmissione televisiva “Canzonissima”. A parte alcuni sketch, come quello del costruttore edile che si rifiutava di dotare di misure di sicurezza la propria azienda, già provocatoria era la sigla di apertura di questo assai seguito programma televisivo in cui sul video appariva la coppia Dario Fo e Franca Rame, e sulle note di un’allegra marcetta, scritta dal maestro Fioren-zo Carpi, mentre si fanno sfilare operai in sciopero, vedove che piangono, orfani, emigranti, minatori, un gruppo di ballerine intona: “Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar, mettiamoci a cantar...”. È del 1963 Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, andato in scena, per la prima volta, nello stesso anno al Teatro Odeon di Milano.Nel 1966 dalla Rai gli viene affidata la regia di uno spettacolo del “nuovo Canzoniere Italiano”: Ci ragiono e canto che li dà l’occasione di entrare in rapporto con alcuni ricercatori delle tradizioni popolari e della storia del movimento operaio. Nel 1968 abbandona il circuito dell’Ente Teatrale Italiano per entrare in rapporto diretto con un pubblico popolare rivolto, in quegli anni, all’affermazione di una cultura “alternativa”, e insieme ad alcuni partecipanti di Ci ragiono e canto costituisce con Franca Rame l’“Associazione Nuova Scena”. Tra gli spettacoli di questo periodo (1968-1970) che si avval-gono essenzialmente della rete di Case del Popolo gestite dal PCI (Partito Comunista Italiano), viene realizzato Mistero Buffo, la “giullarata” portata in scena la prima volta il 1° ottobre 1969 a La Spezia, con grande successo (Mistero buffo fu pubblicato nel 1973 dall’editore Bertani di Verona). Qui Dario Fo, unico attore in scena, recitava testi medievali in grammelot – linguaggio teatrale che si rifà agli spettacoli giullareschi e alla Commedia dell’arte e che è costituito da suoni che imitano in maniera parodica il ritmo e l’intonazione di idiomi realmente esistenti, a cui hanno dato particolare attenzione Jakobson e Derrida (v. Ponzio L. 2015 e Ponzio J. 2005 e 2014). Si tratta in particola-re di intrecci di lingue e dialetti diversi in cui sono mescolate anche parole inventate. La gestualità e la mimica che accompa-gnano il grammelot hanno un ruolo importante per la comunica-zione con l’uditorio, qualsiasi sia la lingua da esso parlata. Nel caso del linguaggio di Mistero buffo, si tratta di un mescolamen-to di vari dialetti della Pianura Padana. L’acuirsi della satira politica non risparmia la stessa linea politica e culturale del PCI, e ciò comporta la scissione del-l’“Associazione Nuova Scena”: Dario Fo, Franca Rame e alcuni

altri costituiscono il “Collettivo Teatrale La Comune” colle-gato con organizzazioni della “sinistra extraparlamentare”. Si sviluppa quindi un “teatro di cronaca” che si propone anche come “teatro didattico”: spettacoli sul “suicidato” Pinelli, sulla “strage di stato”, sulla resistenza palestinese, sul colpo di stato in Cile del 1973. La “Comune” di Fo diventa oggetto di censura e di repressione. Sono del marzo del 1973 l’aggressione a Mila-no di Franca Rame sequestrata e percossa da una squadraccia fascista, e l’arresto a Sassari nel novembre dello stesso anno, seguito dalla sua immediata liberazione dovuta a una forte mo-bilitazione di massa a livello nazionale. Nello stesso 1973 “La Comune” va soggetta a un’ulteriore scissione e si costituisce il “Collettivo Teatrale La Comune diretto da Dario Fo”, caratteriz-zata da spettacoli di intervento. Nel 1980 gli fu vietato l’ingres-so negli Stati Uniti, e ricevette dichiarazioni di solidarietà da diversi artisti, registi e scrittori americani tra cui Arthur Miller, che negli anni Cinquanta, aveva sofferto le conseguenze del maccartismo in quanto accusato di essere comunista. Nei co-siddetti “anni di piombo” (gli anni Settanta) come pure tra gli anni Ottanta e Novanta, difende insieme a Franca Rame alcune persone impegnate politicamente e ingiustamente accusate. Fo si cimenta anche con grande bravura e successo nel teatro dell’opera. Tra l’altro: Histoire du soldat di Igor Stravinskij (dire-zione Claudio Abbado, regia Dario Fo, 1978, Teatro Ponchielli di Cremona); L’italiana ad Algeri di Gioacchino Rossini, 1994, al Rossini opera festival di Pesaro); e, dello stesso Rossini, Il barbiere di Siviglia (regia, scenografia e costumi di Dario Fo, 1987, Mu-ziektheater di Amsterdam. Nel 1992, l’anno della celebrazione dei cinque secoli dalla sco-perta dell’America, Fo mette in scena Johan Padan a la descover-ta delle Americhe. Anche qui come in Mistero buffo, Fo utilizza il grammelot padano-veneto.Il 9 ottobre 1997 riceve il premio Nobel per la letteratura con questa motivazione (Corriere della sera del 10 ottobre ’97): “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”.Nel 1999, sul modello del Mistero buffo, Fo produce Lu santo jullàre Françesco. Nel 2005 è stato insignito della laurea honoris causa alla Sorbona di Parigi e nel 2006 la stessa onorificenza gli è stata assegnata dall’Università La Sapienza di Roma.Pubblica nel 2009 San’Ambrogio e l’invenzione di Milano, ricchis-simo di suoi disegni quasi tutti a colori. Fo è anche autore di due romanzi, La figlia del Papa (2014), ispirato alla figura di Lucrezia Borgia, e C’è un pazzo in Dani-marca (2015). 2. I nostri propositi

Nelle pagine che seguiranno ci proporremo particolarmente di considerare l’intreccio che caratterizza complessivamente l’opera di Dario Fo – meglio potremmo dire, il testo Dario Fo – tra parola, gesto e figura, tra arte verbale e arte figurativa. Dario Fo si è sempre portato dietro nel suo percorso artistico, che si andava arricchendo di nuove esperienze, quanto aveva appreso e sperimentato in tappe antecedenti, riadattandole e valorizzandole nelle nuove modalità espressive.

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41Così è per i suoi iniziali studi come pittore fatti nell’Accademia di belle arti di Brera, di cui non si avvale nelle opere succes-sive, ma di cui gli resta anche un ricordo che gli permette di contrapporre la Brera di “una volta”, fine anni Quaranta, a quella attuale. In una intervista pubblicata nel Corriere della sera del 19 dicembre 2007, dice:

Il palazzo di Brera era il cuore strategico della città. Io frequentavo l’Accademia, che era aperta a tutti. Si viveva tutti insieme, si respirava uno spirito artistico genuino. Si condivideva la crescita personale con i compagni di corso e con chi capitava lì insieme a noi nel cortile. Mi ricordo il mio compagno di corso Alik Cavaliere, che poi divenne un grande scultore, e il pittore Enrico Baj, che non era nel nostro corso ma si unì a noi. A quel tempo non c’era degrado, sia nel palazzo che nella Accademia. Proprio no. L’accademia attuale ha perso il fascino, il quartiere che era un gran fermento culturale si è imborghesito. Adesso quando passo davanti alla “mia” Accademia e getto uno sguar-do ai locali lì attorno mi accorgo che è più importante trovarsi all’ora dell’happy hour. L’aperitivo è uno dei motivi per cui ci si vede. Non l’arte. Non più.Avevo frequentato il corso di affresco per i regolamen-tari quattro anni accademici. Poi in seguito mi ero iscritto anche a pittura. Era difficile andarsene. Si vive-va con bramosia la Pinacoteca, la Biblioteca Braidense. La formazione era di prim’ordine. […] Io nel cortile centrale dove c’è la scultura del Canova ci ho lasciato il cuore.

3. Il teatro dell’occhio

In “Il teatro dell’occhio: Intervista con Dario Fo” (1984), a cura di Paolo Landi, in Il teatro dell’occhio / Theatre of the Eye a cura di Sergio Martin (1985, pp. 20-24), un libro eccezionale per i disegni, bozzetti, figure, fotografie, ritratti (contiene an-che un autoritratto di Dario Fo del 1949), Fo racconta del suo percorso attraverso le arti visive. Egli comincia a dichiarare di aver avuto la grande fortuna di essere giunto al teatro attra-verso l’educazione artistica e l’architettura. Dopo aver stu-diato a Brera al liceo artistico si iscrive al tempo stesso (cosa possibile all’epoca) all’Accademia e al Politecnico. Ebbe come maestri Funi, Carrà, Carpi. Il suo teatro, egli dice, ne è stato influenzato notevolmente. Immaginare un lavoro, scriverlo, significa, al tempo stesso, immaginare ciò che si sta descriven-do e che si sta progettando come visto sia frontalmente, sia dall’alto, di consideralo come visto in prospettiva.

Quando scrivo una commedia, prima ancora di pensare alle battute, penso al luogo fisico, allo spazio dove si rappresenta, dove si trovano gli attori, dove si trova il pubblico. Nello svolgimento di un lavoro mi capita dif-ficilmente di essere incerto o addirittura di non sapere. […] per me è importante l’idea delle sequenze delle posizioni plastiche, cromatiche e prospettiche degli attori in movimento e degli oggetti […] faccio bozzetti mentre scrivo (ivi, p. 20).

Brera gli ha permesso l’incontro con personaggi importanti delle arti figurative, della letteratura, del cinema e del teatro: “Tutti passavano per Brera” (ibid.): De Chirico, Carrà, Cas-sinari, Pontecorvo, Fellini, De Sica, Lizzani… “Il mio gusto si è sviluppato così, in un contesto culturale fatto di arrivi e partenze” (ibid.). Sempre di più l’attività di pittore e quella di regista-attore si sono andate nei suoi lavori incontrando e intrecciando. Dario Fo, nell’intervista “Il teatro dell’occhio” fa riferimento in par-ticolare all’Histoire du soldat andato in scena anche alla Scala:

Prima di affrontare l’opera sul palcoscenico, ho fatto circa duecento disegni: ho disegnato in plexiglass in modo che le immagini potessero muoversi sul fondo trasparente, per studiare infinite possibilità di compo-sizione (ivi, p. 21).

Particolarmente significativo circa l’incontro tra disegno e teatro in Dario Fo è il volume Johan Padan e la Descoverta de le Americhe (1992, 1997, cura e traduzione di Franca Rame), che non si limita ad essere un testo teatrale presentato come libro. Nella sua veste editoriale esso riproduce fedelmente l’originale elaborato da Dario Fo durante la stesura del manoscritto. In ogni pagina si trova, quindi, insieme al testo la sequenza vi-siva degli avvenimenti, così come è stata disegnata momento per momento dall’autore. Sicché il lettore viene fatto entrare nel laboratorio dell’autore in cui scrittura e immagine risul-tano inseparabili, in cui arte verbale e arte visiva collaborano reciprocamente. Ma in questo libro la presenza delle immagini non serve soltanto come documento del modo di procede-re della scrittura di Dario Fo: assume un valore fortemente estetico, in termini di piacere offerto dall’autore al lettore nel presentare la cronistoria di Johan Padan, un picaresco av-venturiero italiano, che fuggito da Venezia e dalla Spagna per scampare all’Inquisizione, si viene a trovare nel mezzo della feroce conquista spagnola del nuovo continente.Anche se fuori dal teatro trattandosi di una vera e propria ricostruzione storica della vita del patrono di Milano, merita sia pure una breve menzione per il rapporto molto stretto tra scrittura e pittura in Dario Fo, il libro a cura di Franca Rame e Giselda Palombi, Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano (2009).

Ma in effetti anche questa storia è per il teatro, in quanto ad esso funzionale, nel senso che, e Fo cita Sartre, un buon rac-conto o una buona sceneggiatura di un’opera teatrale richie-dono un’indagine approfondita delle vicende e dell’ambiente di cui si parla, e i personaggi devono essere trattati “come in-dagati dentro a una inchiesta giudiziaria, e, se preferite, come se si trattasse di inquisiti in una indagine di polizia”. Di più:

Questa storia è scritta con l’intento di essere rappre-sentata su un palcoscenico posto nel quadriportico della basilica di Sant’Ambrogio o davanti alla basilica di San Lorenzo, entrambe a Milano. Sui due lati del palcoscenico saranno sistemati due grandi schermi sui quali verranno proiettate immagini fisse o in movi-mento (audiovisivi e filmati) (ivi, p. 5).

Subito, nella stessa pagina dove si parla di questo progetto, segue la figura, a colori, ad opera di Dario Fo, che rappresenta esattamente quanto è stato annunciato.

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42 Ad essa, nel libro, ne seguono molte altre, anch’esse a colori, spesso tutta pagina e talvolta su due pagine, molto curate nei particolari e di indescrivibile bellezza. In copertina, sempre di Dario Fo, Sant’Ambrogio.

4. Il corpo grottesco

Ritroviamo nel teatro di Dario Fo, ed anche negli scritti di cui ne parla, come pure nei suoi disegni, le forme e le modalità di percezione del corpo della cultura popolare di cui tratta Bachtin nel Dostoevskij (1963) e nel Rabelais (1965) (v. anche Bachtin e il suo Circolo 2014 e Petrilli 2012b): le forme del “realismo grottesco”, secondo cui il corpo e la vita corporea non sono affatto il corpo e la fisiologia dei nostri tempi, non sono né interamente individualizzati né staccati dal resto del mondo. Invece del corpo come entità biologica isolata, a sua volta fatta di organi separati (v. Deleuze e Guattari 1996) e come sfera di appartenenza dell’individuo, il realismo grotte-sco presenta il corpo come non definito, non confinato in se stesso, ma in un rapporto di simbiosi con gli altri corpi e di trasformazione e rinnovamento che travalica i limiti della vita individuale. Con l’affermarsi della concezione individualistica, priva-ta, statica del corpo, i segni verbali e non verbali legati alle pratiche e alle concezioni del corpo grottesco sono quasi del tutto scomparsi e ne restano residui mummificati oggetto di analisi degli studiosi di folclore e tradizioni popolari, reperti archeologici conservati nei musei etnologici e nelle storie della letteratura nazionale. Fra i segni del corpo grottesco, le maschere rituali, le masche-re della festa popolare, del carnevale, di cui solo un’immagine sbiadita è sopravvissuta fino ai nostri giorni.I segni e il linguaggio del corpo grottesco privilegiano ed esaltano le parti del corpo, escrescenze ed orifizi del corpo, in cui maggiormente si instaura il rapporto di comunicazione con altri corpi e fra il corpo e il mondo, ricorrendo anche a mescolamenti e contaminazioni che non conoscono soluzione di continuità fra umano e non-umano.

Il corpo grottesco è un corpo in divenire. Non è mai dato né definito: si costruisce e crea un altro corpo [...]. Il grottesco ignora la superficie cieca che chiude e delimita il corpo come se fosse un fenomeno isolato e determinato. Il modo grottesco di rappresentare il corpo e la vita corporea ha dominato per millenni nel-l’arte e nella letteratura [...]. In questo oceano infinito di immagini grottesche del corpo, infinito sia dal punto di vista dello spazio sia del tempo, che riempie tutte le lingue e tutte le letterature e anche il sistema gestuale, il canone corporeo dell’arte, della letteratura e di qual-siasi linguaggio decoroso dei tempi moderni appare come un isoletta piccola e limitata. [...] Soltanto negli ultimi quattro secoli ha assunto un ruolo predomi-nante nella letteratura ufficiale dei popoli europei. [...] Il tratto caratteristico del nuovo canone corporeo [...] è un corpo perfettamente dato, formato, rigorosamente delimitato, chiuso, mostrato all’esterno, omogeneo ed espressivo nella sua individualità (Bachtin, Rabelais, pp. 348-350).

Il linguaggio del corpo grottesco, interdetto dalla cultura ufficiale una volta che si instaura la separazione fra ideologia ufficiale, funzionale al mantenimento dell’ordine costituito e del potere della classe dominante, e ideologia non ufficiale, è ricco di termini e di espressioni che si riferiscono alle parti del corpo con cui maggiormente si instaurano rapporti di inter-dipendenza e compromissione con il mondo e gli altri corpi. Il linguaggio del corpo grottesco, che si ritrova presso tutti i popoli e in tutte le epoche, si riferisce sempre non a un corpo

rigorosamente delimitato, stabile, pienamente realizzato, ma alla connessione del corpo con altri corpi, in un rapporto almeno bicorporale.

Il corpo del nuovo canone è un corpo unico che non ha più alcuna traccia di ambivalenza; basta solo a se stes-so e parla solo per se stesso; tutto ciò che gli succede riguarda soltanto lui, cioè questo corpo individuale è chiuso in se stesso. Così tutti gli avvenimenti che lo riguardano sono a senso unico: la morte non è nient’altro che morte e non coincide mai con la nascita, la vecchiaia è staccata dalla giovinezza (ivi, p. 352).

Le immagini ed espressioni del “linguaggio della piazza pubblica”, a cui Bachtin dedica un intero ampio capitolo del suo Rabelais, si inseriscono nella logica particolare del realismo grottesco. Nel “linguaggio da piazza” le distanze fra i soggetti della comunicazione sono abolite e vi ricorrono epiteti ingiu-riosi che assumono spesso un tono affettuoso e elogiativo. Il linguaggio della piazza è ambivalente, è “come un Giano dalla doppia faccia” (ivi, p. 180). Gli elogi e le ingiurie non sono in esso nettamente distinguibili: gli elogi sono ironici e ambigui, e al limite sono delle ingiurie; così pure queste ultime non sono del tutto separate dall’elogio. Questa ambivalenza, que-sta presenza del negativo e del positivo insieme, caratterizza l’intero linguaggio della cultura comica popolare, il suo tipo di parodia, di ironia, di comicità: e ciò per la visione dinamica, costruttiva, totalizzante che vi sta alla base, per cui le sue im-magini non sono mai definitive, isolate, inerti, ma sono dotate di un’“ambivalenza rigeneratrice”.Alla cultura comica popolare del Medioevo e alle sue ope-re parodiche (sacre rappresentazioni parodiche, preghiere parodiche, parodie della liturgia e dei misteri, ecc.) Dario Fo si richiama direttamente e attinge dalla sua particolare modali-tà di parodizzazione, di derisione, non solo quando raccoglie documenti di teatro popolare ricostruendoli nel Mistero Buffo, giullarata popolare in lingua padana de ‘400, ma anche quando, assumendo le capacità mimiche di attore come mezzo prin-cipale di espressione teatrale, elegge a corpo significante il corpo grottesco e utilizza, come tipo di critica dell’ideologia dominan-te e del potere, la capacità di sovversione e di provocazione di cui è capace la cultura popolare nelle sue espressioni eccedenti rispetto all’omologazione dell’ideologia ufficiale. La plastici-tà, duttilità, mobilità, comicità, ambiguità delle espressioni grottesche della comicità popolare riprese da Fo dimostrano la possibilità di una cultura popolare che non sia il risultato di un passivo consumo della cultura funzionalizzata alla riprodu-zione della forma sociale vigente. È questo un punto centrale della sfida che la raffigurazione stessa del corpo nell’opera intera di Fo – che è interamente politica in quanto artistica: “Tutta l’arte è politica” (Fo, “Pref.” a Il teatro politico, 1977) – lancia all’imposizione di una omologazione culturale ad opera di chi detiene il controllo della comunicazione.

5. Narrando della commedia dell’arte e di Arlecchino con tanti disegni e illustrazioni

Manuale minimo dell’attore di Dario Fo, a cura di Franca Rame (ed. orig. 1997, l’anno del Premio Nobel per la letteratura a lui conferito), riedito nel 2009 arricchito di nuovi materiali, inizia parlando della Commedia dell’arte e di Arlecchino. Dario Fo comincia citando a proposito della commedia del-l’arte Carmelo Bene (di Bene, v. 1995; su Bene, v. Ponzio et Alii 2012b) che, con il suo stile fatto di iperboli e paradossi, in una certa occasione affermava che la Commedia dell’arte non è mai esistita. E Fo precisa che non è mai esistita così come generalmente ce la raccontano. Per quanto riguarda Arlecchino, il paragrafo a lui dedicato (il secondo del libro) si intitola “Arlecchino gran pappone”. Pare

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43che quando per la prima volta compare il nome di Arlecchi-no in un testo a stampa (del 1885) sia stato ad opera di un poetastro geloso del successo di cui godeva, addirittura presso la corte e il re e la regina di Francia, per denunciarlo come emerito pappone, come lenone. Si tratta di un pamphlet in cui si racconta di Arlecchino, impersonato – anche in questo caso per la prima volta – da Tristano Martinelli, che scende nell’inferno per liberare una famosa “maitresse” di Parigi, Mère Cardine, di cui si dice che Martinelli fosse notoriamente un ruffiano. La risposta è un altro libello in cui Arlecchino scende di nuovo all’inferno accompagnato, come Dante, ma non da Virgilio, bensì dal denigratore poetastro, e percorre i vari gironi in cui si trovano personaggi famosi del bel mondo francese, i quali simpatizzano per Arlecchino e disprezzano e prendono a calci il poetastro calunniatore, che, dopo essere stato tormentato dai diavoli entro pentole di sterco di gatto, benché insieme ad Arlecchino riesca finalmente a riveder le stelle, estasiato da tale visione, scivola, batte la testa, muore, e la sua anima ritorna nell’inferno. Raccontando della “Commedia dell’Arte” – a proposito della quale etichetta Fo precisa che “arte” in questo caso non significa produzione della fantasia, della creatività, del genio artistico, ma, come nel caso di altre “arti” del Medioevo, come “arte dei muratori”, semplicemente “mestiere” – Fo ha oc-casione di parlare di Franca Rame, che figlia d’arte, “ha avuto la straordinaria fortuna di vivere, da bambina, il clima della commedia italiana”.

Nella sua famiglia erano tutti attori che andavano recitando nell’alta Lombardia. (L’esistenza dei Rame è almeno di tre secoli). Il repertorio di questo gruppo era talmente ricco di commedie, drammi, farse, da permettere alla compagnia di recitare per mesi sulla stessa piazza, cambiando spettacolo ogni sera. Franca racconta che non c’era manco bisogno di ripassare la parte. Il poeta di compagnia, che era lo zio Tomma-so, riuniva gli attori e distribuiva i ruoli, ricordava la trama descrivendola per quadri e atti, quindi affiggeva in quinta la scaletta dove erano scritte le varie entrate e l’argomento di ogni scena. Succedeva anche che si allestisse un lavoro completamente nuovo tratto da un fatto di cronaca o da un romanzo (Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, 2009 10-11).

Ma torniamo ad Arlecchino. Dario Fo dedica a questo per-sonaggio lo spettacolo scritto per la Biennale di Venezia in occasione dei quattrocento anni dalla nascita di Arlecchino e rappresentato in anteprima nazionale al Palazzo del Cinema del Lido nel 1985. Il libro Hellequin Harlekin, Arlekin Arlecchino, testo e traduzione di Franca Rame, con video, contiene i dise-gni originali a colori di Dario Fo.Lo spettacolo inizia (“Atto primo” di “Commedia dell’arte all’improvviso”) con la “scena all’antica italiana”. Nel libro viene riportata nella tavola 2: un disegno coloratissimo con case che si stagliano su un cielo fatto di azzurro celeste e verde con abbozzi di persone anche in posizione oscena in strada e una specie di saltimbanco con le gambe in aria e testa in giù sospeso per aria. La tavola 1, immediatamente dopo il fronte-spizio, è intitolata Venezia: in primo piano una nave con vele a strisce gialle e arancione con accanto due gondole e, sullo sfondo, la chiesa di San Marco sotto un cielo anch’esso fatto di celeste con macchie verdastre. Entra in scena Arlecchino che suona un trombone le cui spire gli avvolgono il petto, seguito da otto maschere, gli Zanni (all’inizio Arlecchino era anche lui uno Zanni in seconda, un comico di secondo piano, ma che aveva più che un ruolo un “antiruolo”, con comportamenti sguaiati e scurrili, come quelli in cui è rappresentato nelle tavole 7 e 8) che eseguono capriole, volteggi e si danno reciprocamente bastonate, schiaf-

fi e pedate. È quanto è raffigurato nel disegno della tavola 14, che prende due pagine e che si intitola “Arlecchino e gli otto Zanni”. Nel disegno è scritto in basso, in verde – sotto il riqua-dro che racchiude gli otto Zanni mentre Arlecchino piegato all’indietro sotto il peso del suo trombone ne è fuori come se fosse davanti a un quadro che rappresenta gli Zanni – Arlec-chino e le maschere della commedia. Questo disegno è anche quello scelto per la copertina del libro.

Dario Fo, Arlecchino, Einaudi 2011, copertina

Nel “Prologo – Presentazione dello spettacolo”, Dario Fo in-forma che il vestito che indossa è quello del primo Arlecchino – quello del comico Tristano Martinelli –, il quale, così come risulta raffigurato per intero nella tavola 4 (la tavola 3 contie-ne i disegni di varie maschere maschili e femminili) e solo per quanto riguarda il volto nelle tavole 5 e 6 soltanto, non porta-va la maschera ma aveva un machillage che è esattamente lo stesso di quello che nello spettacolo ha lui. Inoltre, il costume di questo Arlecchino non ha le classiche lasanghe, con cui si presenterà a partire da Goldoni. Ci sarà anche, sessant’anni dopo l’Arlecchino di Domenico e Dominique Biancolelli, il cui costume ricorda le squame di un serpente alludendo al demo-nio e a tutta una tradizione popolare legata ai demoni. Il primo Arlecchino, come abbiamo anticipato citando da Ma-nuale minimo dell’attore, fu Tristano Martinelli, comico italiano di Mantova, che lavorò in Francia con la “Compagnia dei Gelosi”. Questo Arlecchino che continuo ad essere caratteriz-zato da atteggiamenti osceni e grevi ebbe grande successo in Francia non solo presso il pubblico ma anche presso la corte (la tavola 11 è un tra i più bei disegni di Dario Fo intitolato “Regina di Francia e Arlecchino col figlio”, che si riferisce al fatto che il re e la regina tennero a battesimo il figlio e la figlia di questo Martinelli). E Fo osserva che evidentemente questo comico aveva capito un determinato gusto esistente ancora in Francia legato a Rabelais e ai fabliaux medievali. Inoltre l’Arlecchino di Martinelli, a differenza di come sarà concepito in seguito, non ha una collocazione di classe, non è un servo. Ciò che lo caratterizza e quello di essere “uno sganciato dalle situazioni, una specie di picaro, un personaggio che entra ed esce dai personaggi stessi” (ivi, p. 9): c’è un Arlecchino giudi-ce, che fa cose folli per far vedere quanto sia grande il potere del giudice, alla stessa maniera è l’arcivescovo, è l’inquisitore, come pure è Tartufo, don Giovanni, ecc. A proposito del rapporto tra la compagnia dei Gelosi e la corte, Fo racconta (nel Manuale minimo dell’attore, 2009, p. 17), che una banda di Ugonotti cerca di ricattare il re Enrico III: catturano l’intera compagnia dei Golosi e chiedono, in cambio della liberazione dei comici, la liberazione di tutti gli Ugonot-ti tenuti prigionieri nelle carceri della Francia, e una grossa somma in fiorini d’oro e d’argento. Il re accetta di trattare e gli attori vengono liberati. E Fo cita un cronista del tempo che

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44 dice: “Se si fosse trattato di liberare il primo ministro, quattro suoi consoli e tre marescialli di Francia, Enrico III avrebbe lasciato tranquillamente che li ammazzassero, preoccupan-dosi soltanto di far celebrare una bella messa” (ibid.). Questo racconto nel libro il Manuale dell’attore è seguito da un disegno in bianco e nero di Fo che occupa due pagine e che è intitolato “Gli ugonotti rapiscono i Gelosi”, in cui, in primo piano, sono raffigurati due uomini e una donna, attori della compagnia, minacciati da un cavaliere a cavallo da una lunghissima lancia messa per traverso sulla scena. Particolarmente interessante è il rapporto che Fo stabilisce, nel suo prologo a Arlecchino, tra la figura del clown, il “tea-tro minore” e i giullari per quanto concerne il “gioco dei lazzi”: “… ecco, i Clown si può dire che hanno raccolto la gran parte di tutto il gioco”, e fa riferimento alla tavola 13, il coloratissimo a movimentato disegno “Il presunto carro dei comici”:

Quando noi pensiamo al clown, pensiamo soprattut-to al circo: In verità il clown è ancora più antico del personaggio della maschera della commedia dell’arte. Il clown nasce addirittura paro paro con i fabliaux, con i fabulatori, meglio ancora con i giullari; tanto è vero che quando io mi trovavo in Inghilterra e il tradutto-re doveva tradurre ‘Giullare’, usava preferibilmente il termine clown. Dunque i clown sono entrati nella commedia dell’arte, hanno fatto parte della commedia dell’arte e poi sono usciti portandosi via ancora un sacco di materiale (Fo, Arlecchino, p. 11).

Ma Fo tiene anche a mostrare lo stretto rapporto tra la comi-cità nel cinema muto, con diretto riferimento a Max Linder e soprattutto a Charlot, e la commedia dell’arte.

Benché la commedia dell’arte sia nata in Italia, il personaggio Arlecchino, che ha avuto successo altrove – in Spagna, Ger-mania, Inghilterra, Russia, Danimarca Svezia –, vi è giunto e vi ha avuto successo molto tardi, agli inizi del Settecento. Commenta Dario Fo. “Succede sempre così che chi nasce in un luogo poi ritorna con molto ritardo” (ibid.).

A questo punto inizia il racconto, la messa in scena, di Ar-lecchino fallotropo, l’Arlecchino portatore di fallo. E nel testo come indicazione della scenografia troviamo scritto tra paren-tesi e in corsivo: Nei panni di Arlecchino fallotropo danza e canta in grammelot. Lasciamo Arlecchino e torniamo al Manuale minimo dell’attore, ma non prima di aver almeno accennato ad uno dei forse più bei disegni di Arlecchino, quello della tavola 20, che si intitola “Lu pisce, lu pisce, lu pescespada”, il grido dei pescatori sici-liani ripreso anche in una nota canzone di Domenico Modu-gno che ha più o meno lo stesso titolo, e in cui è raffigurato in cima a un palo, che nel testo è stato issato dai clown, Arlec-chino, che vi è salito sopra e lancia quel grido dei pescatori, ripreso da tutte le maschere che mimano di remare a gran rit-mo: “Pisci, pisci tutto l’anno, la mattanza è ‘nu gran danno… Remàti, remàti…”. “Basta, dice Arlecchino (Al pubblico)” e prosegue:

Scusatemi, è stato un momento di slancio emotivo… di colpo mi sono visto in Sicilia su una barca alla caccia del pescespada, pisci dappertutto… Ho visto merluzzi, tonni tremendi… che c’era intrammezzo anche un pesce tremendo, piccolo ma rapace, con una bocca… (mima un pesce che arriva velocemente) li mangiava tutti: Silviospada, si chiama! AHM AHM! E canta: “È l’amor che mi consuma”. Basta che mi uscirebbero allusioni tremende (ivi, p. 76).

Nel disegno, sul fondo viola, c’è una strana barca sul cui albe-ro, in cima, c’è, come incollato per la spalla, Arlecchino, men-tre delle figure multicolore simili a sirene-serpenti volteggiano intorno e, in basso, un pesce verde, simile a un coccodrillo, con macchie di diversi colori, salta fuori dall’acqua.

6. Intermezzo. Quel diavolo di Arlecchino!

Ma quel diavolo di Arlecchino ricompare anche nel Manuale minimo dell’attore. Qui (pp. 66-68) Fo torna a caratterizzare questa maschera, da lui messa in scena nell’ottobre del 1985, come frutto dell’innesto dello Zanni bergamasco con perso-naggi diabolici farseschi della tradizione popolare francese. Il nome Arlecchino deriva da quello di un personaggio medie-vale, Hellequin o Helleken divenuto poi Harlek-Arlekin, un demonio menzionato anche da Dante Alighieri: Ellechino, un diavolo descritto nel Trecento come scurrile e ridanciano, autore di beffe e truffe. Questo personaggio si “incrocia” con l’“homo selvaticus”, ricoperto di peli o di foglie, rozzo e furbo come una scimmia, agile come un gatto, violento come un orso. Tutti questi diversi caratteri si ritrovano nell’Arlecchi-no, senza maschera e con la faccia tinta di nero con ghirigori rossastri, di Tristano Martinelli, “una specie di fauno che sproloquia nella lingua lombardesca degli Zanni inzeppata di espressioni dell’argot francese” (ivi, p. 66), con un costume che non ha ancora le lasanghe di colore diverso, ma che è bianco e cosparso di sagome verdi, gialle e marrone, a forma di foglie (derivazione dell’“homo selvaticus”). L’Arlecchino di Martinella, approfittando della grande simpatia di cui gode-va presso il re (Enrico III) e la regina di Francia, si poteva permettere di attaccare politici, aristocratici, prelati, giudici e inquisitori.

7. Parlare inventando le parole

Torniamo dunque al Manuale minimo dell’attore. Qui, precisa-mente nella seconda giornata si parla appunto del grammelot che abbiamo nominato sopra. Il paragrafo in cui se ne parla si intitola “Parlare senza parole” (p. 81). Al significato di “gram-melot” abbiamo accennato sopra. Qui Fo precisa che si tratta di un termine di origine francese, maccheronizzato dai veneti in “gramlotto”, costituito da un mescolamento di suoni che non sono precisamente di nessuna parlata ma che riescono egualmente a evocare il senso del discorso grazie alla cadenza, al ritmo, all’intonazione, a suoni onomatopeici, alla mimica e all’apporto di gesti.È interessante che Fo faccia anche notare che una certa forma di grammelot è eseguito dai bambini che, con la loro straor-dinaria fantasia, farfugliano facendosi perfettamente capire dagli adulti. Fo racconta di aver assistito a un dialogo tra un bambino napoletano e un bambino inglese che si capivano usando ciascuno una lingua inventata, il napoletano fingendo di parlare inglese e l’inglese fingendo di parlare un italiano meridionalizzato. Il nostro cervello è già allenato fin dall’in-fanzia a intuire ciò che non è chiaramente espresso, traendo una quantità di nozioni del linguaggio e della comunicazione con varianti infinite, al punto da comprendere una storia nuo-va raccontata anche senza parole intelligibili.

Charlot è l’esempio più chiaro di come un artista riesca a sollecitare tutte le memorie più recondite incasellate, magari in disordine, nel nostro cervello. Un grande uomo di spettacolo. Uno straordinario fabulatore come Charlie Chaplin sa usare tutti gli stereotipi e le con-venzioni nel modo e nel ritmo più efficace. Lo stesso discorso vale, in parte, anche per Totò (ivi, p. 85).

Come esempio del parlare in grammelot, Dario Fo, in Manuale minimo dell’attore, fa vedere come si possa raccontare in questo

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45linguaggio la favola di Esopo del corvo e dell’aquila, dove un corvo cerca di imitare l’aquila che ha visto mentre afferrava con gli artigli un piccolo agnello. Nel fare questo, improvvi-sando, Fo impiega una sorta di koiné pseudo-siciliano-cala-brese, con la sua sonorità, i suoi stereotipi tonali più evidenti, accompagnata da gesti semplici e suoni onomatopeici che possano richiamare negli spettatori l’immagine dell’aquila e del corvo.

Ogni tanto, nello sproloquio, mi sono preoccupato di inserire termini facilmente percepibili per la compren-sione logica dell’ascolto. Quali parole ho pronunciato chiaramente, se pur storpiate? Aquila, pastore, corvo, corbazzo, e ho addirittura spiccicato i termini “picura” e “Picuriddu” per agnello. […] Se eseguo il grammelot in francese, per esempio, sono costretto a riproporre immagini stabilite, passaggi chiari, ma equivoci […] (ivi, p. 83).

Il grammelot favorisce il carattere comico-parodico del discor-so, perché fa il verso alla lingua stessa, agli stessi linguaggi di cui è fatta e ai dialetti oltre che al discorso stereotipato di de-terminati generi di discorso, ai relativi ruoli e comportamenti. I generi discorsali della comunicazione di massa sono così intrisi di stereotipi e di riferimenti impliciti, sigle, sottintesi relativi a valori consaputi e passivamente accettati che Dario Fo può dire:

Devo confessare che uno dei miei sogni è quello di riuscire, un giorno, a entrare in televisione, sedermi al posto dello speaker che dà le notizie del telegiornale e parlare, per tut-to lo spazio della trasmissione in grammelot… Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe [Segue un brano-esempio in grammelot]. Per una buona mezzora, si potrebbe continuare imperterri-ti (ivi, pp. 108-109).

8. Lu santo jullàre

Lu santo jullàre Françesco (1999) è, come Sant’Ambrogio e l’in-venzione di Milano, un’opera ben fondata su documenti e studi specifici, benché la prima abbia maggiormente il carattere, diciamo, della sacra rappresentazione nella sua forma di “doppio comico-parodico” (v. Bachtin 1929, 1963, 1965, 1979; Bachtin e il suo Circolo 2014; Ponzio L. 2008, Ponzio A. 2015,), di “mistero buffo”, mentre la seconda, per quanto destinata anch’essa al palcoscenico, si presenti maggiormente come una “ricostruzione storica” della vita del santo. La differenza riguarda anche la quantità di disegni a colore – vi abbiamo fatto riferimento – che corredano Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, rispetto alle sei tavole a colore poste alla fine del libro su San Francesco: Lu santo jullàre Francesco (come bozza per la copertina); La concione di Bologna; Donne e uomini che fuggono spaventati per terremoto (senza titolo); Restauro di San Damiano, Il lupo a Carpiano; Il papa e San Francesco (senza titolo); San Francesco che predica agli uccelli (senza titolo); Alla Porziuncola.Riferendosi sul piano bibliografico, tra l’altro, alle ricerche di Chiara Frugoni (v. Petrilli 2015), Fo nota che ormai sappiamo che “giullare”, associato al nome di Francesco, non è un’ag-giunta tarda del Quattro- o Cinquecento: Francesco stesso si definiva giullare, giullare di Dio. E non si tratta solo di un epiteto, il santo d’Assisi, dice Dario Fo, era veramente un giul-lare. Si avvaleva della mimica, dei gesti, del canto, anche della danza, oltre che delle parole e il suo linguaggio era composito e duttile, faceva ricorso a onomatopee, a traslati rafforzati ed esaltati da una straordinaria vocalità.In quale lingua parlava Francesco? In “La concione di Fran-cesco a Bologna”, Dario Fo, originale trovata, lo fa parlare in

napoletano. Francesco si era preparato un discorso per i napo-letani: “Napulitàni! Ècchime accà” (Napoletani! Eccomi qua), ma si accorge che il suo pubblico è fatto di bolognesi:

Nu’ site Napulitàni? E de dove site vùie? De Bologna?! Tutti? Anco le Fèmmine? E che ce facìte accà? […] Chista è Bulògna?! Site segùri?!.

Trad.; Non siete napoletani? E da dove siete venuti? Da Bologna?! Tutti? Pure le femmine? E che ci fate qua? […] Questa è Bologna?

Francesco non parla bolognese: “Me despiàce Bolugnési, accuntentàteve de lu nappuletàno” (Mi dispiace, bolognesi, accontentatevi del napoletano).

Del testo che vi vado a recitare – dice Dario Fo (ivi, p. 6) – non esiste nessun documento scritto; mi sono per-messo con grande incoscienza di ricostruirlo attraverso testimonianze e cronache del tempo. Non vi starò a darvene conto, dovete fidarvi! E quando, ne sono sicu-ro, fra poco, il testo originale riaffiorerà integro, come si è ripetuto per altri scritti del tempo di Francesco, voi potrete esclamare: “Io lo conoscevo già”.

Pare che San Francesco abbia tenuto effettivamente a Bologna una predica nel 1222, il 15 agosto, in Piazza Maggiore. Bolo-gna era in guerra contro Imola e Francesco esordisce con una esaltazione, con un elogio, della guerra, elogio che la rende in-sopportabile, ripugnante, stomachevole, facendo capire quale disastro essa sia per tutti. È bello, tornati dalla guerra – per i pochi che tornano – potersi vantare di esservi stato, mostran-do i segni: “La mano, vedi, non ci sta. L’altra mano non ce l’ho”. “Bravo, sei un eroe. Qua la mano!”. E chi, tra le donne, ha perso un figlio, un fratello, un amante, il padre, il marito, è orgogliosa di aver dato il proprio contributo al proprio Paese. Non la pensate tutte così? Avreste preferito di no?

Oh Dio! Uno desàstro è! […] Vùje commenzàte a vulé penzàre e raggionà co’ lo çervèllo vuòstro, co’ la capa vuòstra! Isso è de multo grave pericolo! (ivi: 19).

Trad.: Oh Dio! È un disastro! Voi cominciate a voler pensare e ragionare col cervello vostro, con la testa vostra! Questo è un pericolo molto grave!

A quanto pare la predica di Bologna fece il suo effetto; in seguito alle proteste della popolazione davanti al comune e agli altolocati fu firmato il trattato di pace, “concilium pacis”, con Imola.Il racconto “Della cacciata de li Maggiori e del tremammòto delle quaranta torri scarrecàte abbàscio” la cacciata dei Maggiori e il terremoto delle quaranta torri rovesciate giù” fu scritto, invece, da Dario Fo, stando a quanto lui stesso dice, originariamente in “puro volgare umbro”, perfettamente ri-costruito e approvato da valenti studiosi umbri, ma “del tutto incomprensibile”, pure a loro. Quindi decise di scriverlo nella “parlata giullaresca del Due-Trecento lombardo, con l’aggiun-ta del veneto primitivo”, con l’inserimento, “per facilitare la comprensione di sproloqui onomatopeici d’ogni genere…”, “la pacchia della chiarezza” (ivi: 24-25). Vi è anche una buona presenza di “espressioni in puro bergamasco” (ivi: 27).Come è noto a chi già conosce Mistero buffo, Dario Fo usa prevalentemente un suo idioma che utilizza il padano, meglio: che imita vari dialetti parlati nella Val Padana.Nella “giullarata” “Lo luvo de Gubbio”, poiché, si sa, San Francesco conosceva anche il francese, gli fa cantare per il lupo, che dichiara che il francese è la sua lingua materna, una ballata “in grammelot francese con falsetti e melodie appas-

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Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Verbale e figurativo nell’arte di Dario FoSusan Petrilli e Augusto Ponzio

sionate” (ivi: 53), in cui si parla di un lupo innamorato di una vitella.In “La cacciata de li maggiori”, siamo nel 1198: Francesco ra-gazzo, tradendo la propria classe di appartenenza – scelta che, come sappiamo, avrà ripercussioni sul resto della sua vita –, partecipa alla rivolta del popolo di Assisi (prodotta dalla noti-zia della morte improvvisa del figlio del Barbarossa) contro i soldati tedeschi e contro i nobili che nell’imperatore trovavano sostegno, rivolta che portò anche all’abbattimento delle torri della città, simbolo del potere. Il racconto narra della parteci-pazione di Francesco all’abbattimento di una di queste torri. Francesco appeso a una corda va a finire contro la torre cam-panaria, poi dentro al campanone dove resta appeso abbrac-ciato al batacchio, e scampana prendendo terribili colpi alla testa, mentre anche le altre campane si sciolgono e si mettono a suonare intronandolo. Commento “sputtanante” degli amici suoi più cari quando ormai Francesco era diventato santo: Francesco ha ricevuto la grazia il giorno che ha preso

ste sbordate de batòcio deréntro el campanòn. Daprèso ‘sta sonda sbartuscénta no’ a l’è stàito pi’ lu […], a la luna diséva: ‘Ciao sorèla!’, Po’ anche a le stèle ‘Sore-lìn…”, ol sole ? ‘Fradelo’, a la tèra ‘Madre tèra’’… Tuta una famégia! Po’ ghe parlava co’ i animali, co’ i usèli… e ghe faséva anca la benedisùn.

Trad.: quelle mazzate dal batocchio dentro al campano-ne. Dopo ’sta suonata da sballo non è stato più lui […], alla luna diceva “Ciao sorella!”. Poi anche alle stelle “Sorelline…”, al sole “Fratello…”, alla terra “ Madre Terra”… Tutta una famiglia! Poi parlava con gli animali con gli uccelli… e gli dava anche la benedizio-ne!

In “Françesco va da lu Papa a Roma”, per bocca del Papa si dice di Francesco che “fa capire tutto”, che ha una “dialetti-ca eccezionale”. Ma il Papa dice anche di averlo scoperto: è peggio di Pietro Valdo, l’eretico cataro, che con i suoi discorsi ha provocato una guerra sanguinaria. E lo manda a fare i suoi discorsi ai porci. Il dialettico Francesco però è anche un semplice, un umile – un ingenuo? E prende alla lettera l’invito o ordine del Papa: va effettivamente a predicare ai porci per ri-presentarsi poi dal papa tutto pieno di letame. Al Papa che sta per dare ordine alle guardie di afferrare e bastonare quel paz-zo, il Cardinale Colonna suggerisce prudenza, dato che Fran-cesco è molto amato dalla gente e in fin dei conti non ha fatto altro che ciò che il Papa gli ha detto di fare. Sicché il Papa va incontro a Francesco, lo abbraccia e gli chiede perdono. Ma quando, tutto felice, Francesco, andatosene via con i suoi fratelli, sale su un banco in un mercato e vuole raccontare alla gente del suo incontro col Papa, viene preso a sassate. Usci-to dal mercato e ritrovatosi nei campi Francesco va sotto un grande albero sui cui rami saltellano e cinguettano uccellini. Francesco comincia a parlare agli uccelli e tanti altri vengono

da tutte le parti ad ascoltarlo. Ma anche la gente, tanta gente si ferma ad ascoltare. E la narrazione si conclude con France-sco che dice

Varda ti come l’è strambo o mondo: per farse ascoltà dai omeni con atensión, bisogna parlàrghe ai usèli!

Trad: Guarda come è strano il mondo, per farsi ascol-tare dagli uomini con attenzione, bisogna parlare con gli uccelli!

Il San Francesco di Dario Fo è bravo a persuadere, “dialetti-co”, esperto di linguaggi, di idiomi, di lingue, anche se talvolta è preso a sassate, non compreso, scacciato, deriso, anche un po’ intronato (l’episodio di Francesco e le campane). Per Dario Fo il Francesco vero è quello delle giullarate, il Francesco sovversivo, concionante, fabulatore, che riesce a impastare idiomi da tutta la penisola, dotato di eccezionale vocalità, che sa tenere discorsi davanti a una folla immensa, che padro-neggia il proprio corpo usando gesti, mimica, movimenti, in funzione degli obiettivi che si prefigge nelle proprie fabula-zioni giullaresche. È questo il vero Francesco, non quell’altro Francesco, costruito alla morte del Santo: “una figura mite, quasi angelica che volava in alto, sempre a qualche metro dal suolo” (Fo 1999: 128).

Quando noi ammiriamo un affresco o una tavola che illustra episodi della vita di San Francesco, dipinti da Giotto, Simone Martini o Pietro Lorenzetti, non dobbiamo mai dimenticare che quelle storie si ispira-no in ogni particolare alla sola leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio (ivi: 128-129).

Si sa, fa notare Fo, che contro i giullari non mancavano pre-giudizi e forme varie di intolleranza, e neppure leggi, come quella di Federico II di Svevia intorno al 1220, “Contra Joegu-latores obloquentes”. D’altra parte, a quarant’anni dalla morte di Francesco, Bonaventura di Bagnoregio ordinò di distrugge-re ogni scritto, a cominciare dalla Leggenda di Tommaso da Ce-lano, che raccontasse della vita del Santo in forma irrispettosa e non seria e che quindi facesse riferimento anche alle sue esibizioni giullaresche. Inoltre Bonaventura stesso si premurò di scrivere la storia ufficiale, e censurata, di Francesco, quella che si intitola La Leggenda Maggiore.Abbiamo cercato, impresa non facile, di soffermarci su alcune tappe e su alcune opere del percorso artistico di Dario Fo con l’intento di dare sia pure un’idea della complessa “materia” di cui è fatta la sua opera, per quanto “popolare”, e mostrando al tempo stesso, malgrado le difficili svolte e la varietà delle sperimentazioni, il carattere unitario di questo percorso, se si considera che in esso permangono le scelte iniziali: il suo orientamento originario per la pittura, l’architettura, la recita-zione, la documentazione storica.

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47Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /L’articolazione come dimensione musicaledel testo. La relazione fra parola e musica nell’operadi Salvatore SciarrinoJulia Ponzio

L’articolazione come dimensione musicale del testo. La relazione fra parola e musica nell’opera di Salvatore SciarrinoL’incontro fra parola e musica, o più precisamente il luogo di questo incontro, è l’argomento principale di questo testo, che si focalizza su una lettura di alcuni aspetti dell’opera di Salvatore Sciarrino.Una delle composizioni per coro ed ensemble vocale di Salvatore Sciarrino (Palermo, 4 aprile 1947), presentata nell’estate del 2008 al festival di Salisburgo, si intitola 12 ma-drigali per voci a cappella su haiku giapponesi. L’uso della forma del madrigale di quella dell’haiku non è nuova nell’opera di questo compositore, ma queste due forme si incontrano, per la prima volta insieme in questo brano.

Il riferimento al madrigale, come Sciarrino spiega in una intervista all’Osservatore Romano (27 settembre 2008), non ha a che fare con un ritorno alla struttura formale del madrigale, storicamente codificata. Questo riferimen-to riguarda invece un particolare rapporto fra parola e musica che il madrigale inaugura nella storia della musica occidentale. Questo rapporto ha a che fare con l’abbando-no della struttura strofica della musica, con l’abbandono di una pratica compositiva di una musica che si adattava

indifferentemente ad ogni stanza di uno stesso testo poe-tico, o, addirittura, indifferentemente, a qualsiasi compo-nimento poetico con una certa struttura metrica, come nel caso delle “arie per cantar sonetti” o “per cantar stanze di canzone”. Il madrigale rappresenta dunque la fine di un rapporto di indifferenza tra il testo e la musica. Il rapporto fra testo e musica non è dunque, nel caso del madrigale, il rapporto di un qualsiasi con un qualsiasi: esso non accetta sostituzioni. Ogni singola parte del testo ha una propria frase musicale. Il luogo del rapporto fra testo e musica si situa precisamente nel senso di questo “proprio”, e vi si situa in maniera da alterare profonda-mente il senso del proprio, della proprietà.Alla domanda perché chiamare “ madrigali” dei brani che non hanno nulla del madrigale come forma storica-mente codificata Salvatore Sciarrino, nell’intervista citata, risponde:

Perché sono per insieme di voci, perché hanno qualche legame, se pur labile, con quel mondo. E hanno persino qualche madrigalismo propriamente detto, cioè esprimono la volontà di rappresentare un concetto preciso con una figurazione melodica o d’altro tipo. Qualche procedimento del genere appare anche in questo lavoro. Per esempio in uno dei madrigali qualcosa di ritmicamente molto rico-noscibile accade proprio mentre viene intonata la parola “ritmo”. Il madrigalismo è una tecnica insita nella vocalità, in quanto legata al significato delle parole.

È interessante in questa risposta il riferimento al madriga-lismo, che, come è noto, è un procedimento compositivo in cui la musica segue la parola oltre che dal punto di vista dell’espressività anche dal punto di vista grafico, quasi mimando graficamente il significato della parola. Due note nere sulla stessa altezza, per esempio, nel madrigale di Marenzio E gli occhi del cielo nel nono libro di Madrigali

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48 a cinque voci, mimano la parola occhi, e subito dopo la parola cielo è mimata da due note improvvisamente in alto. Una fila di note in successione, per fare un altro esempio, mimano nel madrigale Si ch’io mi cred’homai, nello stesso libro di Marenzio, la parola “fiume”. Il ma-drigalismo mima la parola in maniera tale, però, che è dif-ficile pensare il rapporto fra la musica e la parola come un rapporto classico fra significante e significato: è difficile perché il madrigalismo non funziona in assenza della parola, non sta per la parola se la parola non c’è. Se ad un testo musicale che contiene dei madrigalismi cancelliamo la linea della voce, il madrigalismo scompare, non rimangono significanti che fanno riferimento ad un significato assente. Il madrigalismo funziona in presenza, nel momento dell’incontro fra parola e musica: è un innesto, un montaggio.Ancor più interessante, per il discorso su tentiamo qui di incamminarci, è che, nel testo sopra citato, Sciarrino scelga come esempio, proprio il madrigalismo sulla parola ritmo: “qualcosa di ritmicamente molto riconoscibile accade men-tre viene intonata la parola ‘ritmo’”. È interessante nella misura in cui facciamo incontrare, reagire, questo madriga-lismo sulla parola ritmo con la definizione che Benveniste dà di ritmo in un’appendice dei Problemi di linguistica generale (Benveniste 1971, trad. it. pp. 390-400). Nel suo senso più antico, dice Benveniste in questo saggio, la parola rytmos non significava affatto una sequenza ordinata nella dura-ta di movimenti o di eventi, la scansione della marcia che controlla il tempo sezionandolo in parti uguali e numerabili. Benveniste sottolinea la provenienza etimologica di rytmos da rein, che significa scorrere, e sottolinea come il significa-to moderno della parola “ritmo” sia in netto contrasto con questa origine etimologica. Rytmos ha piuttosto a che fare, dice Benveniste, nella sua antica accezione, con il concetto di schema, di forma. Ma mentre schema è una forma fissa, realizzata, oggettivata, Rytmos è la forma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è una forma fluida, in movimen-to, la forma nel momento della sua formazione.Questo concetto di ritmo configura un’idea del tempo del tutto diversa da quella della successione. Rytmos è la forma nell’attimo in cui è essa assunta, è un rapporto nell’attimo dell’incontro, definisce un’appartenenza non originaria, un’appartenenza che non viene da alcun passato, che non è ratificata da una convenzione, un’appartenenza istanta-nea, che non è un ritrovarsi. Rytmos definisce un rapporto, un incontro fra degli elementi che vengono ad appartenersi senza potere giustificare questa appartenenza. Questa impossi-bilità di giustificazione definisce un rapporto di appartenen-za in cui il senso della proprietà è profondamente alterato, in cui proprio e appropriato non coincidono più, come coincido-no, ad esempio nel concetto heideggeriano di Eigentlichkeit: questa alterazione rende il rapporto instabile, sempre sul punto di mutare, o di non essere più: gli elementi che co-stituiscono la forma, una volta divisi, non si ritrovano più, proprio come nel caso del madrigalismo, non rimandano gli uni agli altri in assenza. Rytmos indica dunque insieme un rapporto e una fessurazione, un rapporto che non chiu-de un cerchio, ma apre uno spazio: ritmo in questo senso è articolazione.All’intervistatore che chiede come mai il pezzo faccia riferi-mento ad una struttura così storicamente codificata come il madrigale, Sciarrino risponde: “In realtà io non cerco un rap-porto con la tradizione, ma con una nuova forma da creare”.Il riferimento alla forma del madrigale nel pezzo di Sciarri-no è un riferimento non alla forma come schema, alla forma immobilizzata dalla tradizione e dalla storia, ma il riferimento alla forma come ritmo, alla forma come figura: Le figure della musica (1998) è il titolo di uno dei libri di Sciarrino.Nella composizione musicale strofica, dove ciò che conta è il metro del componimento poetico, il ritmo è inteso nel sen-

so dello schema: si tratta del ritmo che costituisce il tempo nel senso tradizionale, il tempo come distensio animi, che è il tempo della narrazione. Agostino, ad esempio, nelle Confessio-ni usa la struttura metrica, lo schema di alternanza di brevi e lunghe in un verso (Deus creator omnium), per costituire il suo concetto di tempo.Il ritmo nel senso di forma nell’istante della sua formazione ha, al contrario del concetto tradizionale del tempo, una dire-zione verticale, anziché una direzione orizzontale, ha a che fare con l’istante dell’incontro piuttosto che con una narra-zione, che giustifica l’incontro. La forma del madrigale a cui Sciarrino fa riferimento è dunque la forma di un rapporto fra parola e musica non giustificato da una corrispondenza schematica: un rapporto in cui si determina un’apparte-nenza senza possibilità di sostituzione fra parola e musica, ma che è nello stesso tempo un’appartenenza che vale per l’incontro, che non stabilisce un legame al di là della pre-senza, che non funziona in assenza e per questo apre alla possibilità di altri rapporti, come nel caso in cui uno stesso testo venga rimusicato o la parte musicale trascritta.Il madrigalismo sulla parola ritmo si avvita allora in un dop-pio madrigalismo. La musica mima graficamente la parola ma facendo questo mima graficamente anche la struttura stessa del madrigale, ossia la struttura del rapporto ritmico che esso istaura tra parola e voce. Il rapporto ritmico è un rapporto fessurato, articolato, spaziato. È come se, quando questo rapporto si instaura con l’abbandono delle forme strofiche, lo spazio che in una partitura separa la riga delle parole da quella della musica acquistasse un senso diverso, il senso di una corrispondenza che non prevede sostituzioni, e che tuttavia rimane aperta alla possibilità della interpretazio-ne, del rimusicare lo stesso testo, o di pratiche come l’abbelli-mento e la fioritura.Il lavoro compositivo e teorico di Sciarrino sul madrigale ha come proprio centro la domanda che riguarda lo spazio fra il testo musicale e il testo verbale che il madrigale costituisce, ed in particolare, la domanda circa lo strano rapporto di pro-prietà e la strana temporalità che in questo spazio si annida.Il madrigalismo, che esplicita la struttura ritmica che il madrigale costituisce fra testo e musica, lascia emergere anche il luogo in cui questa struttura ritmica si genera. Il madri-galismo è un mimetismo grafico, la scrittura musicale mima il significato della parola a cui corrisponde, ed è del tutto accidentale o secondario che esso sia percepibile all’orec-chio, dall’ascoltatore che segue la musica senza partitura. Il madrigalismo scopre, così, un rapporto fra testo e parola al livello della scrittura. La temporalità verticale e istantanea, il rapporto ritmico, attiene alla scrittura musicale.Che vuol dire scrivere la musica? Scrive Sciarrino in Le figure della musica (1998: 123-124):

Vuole dire usare sistemi simbolico-grafici, cioè svilup-pati e ordinati spazialmente. Ciò presuppone l’inter-vento di strutture logiche spaziali. Scrivere musica offre la possibilità di fissare, controllare, progettare in lettura simultanea quello che nel tempo ascolteremo invece in successione.

La scrittura musicale, dice Sciarrino, conferisce alla musica un senso architettonico: il tempo con cui la scrittura musi-cale ha a che fare è un tempo fortemente spazializzato.Cosa succede al testo poetico quando entra in questa strut-tura temporale fortemente spazializzata?Se il testo musicale è uno spazio fessurato in cui, nella di-stanza fra i singoli suoni, si aprono gli spazi per la fioritura o per la diminuzione, l’inserimento del testo, l’intervento delle parole moltiplica questo spazio come proiettandolo in una struttura a tre dimensioni. Il rapporto ritmico che la musi-ca instaura fra i suoni si proietta nel rapporto fra la musica

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49e la parola, come è evidente nel caso limite del madrigalismo, ma si proietta anche all’interno del testo verbale che viene messo in musica, come se la messa in musica del testo non possa lasciarlo indifferente.

In questa proiezione il sintattico sopravanza il semantico, la temporalità verticale, istantanea prende il sopravvento sul tempo della narrazione. Ciò si avverte subito nel teatro musicale di Sciarrino. La scrittura dell’opera, del melodram-ma, è tradizionalmente legata alla narrazione di una storia. Nel teatro musicale di Sciarrino il tempo sembra invece non scorrere, come se tutto avvenisse in un solo istante. È paradigmatico a questo proposito, ad esempio Lohengrin, del 1983, significativamente sottotitolato Azione invisibile in un prologo, quattro scene e un epilogo. Il testo, rielaborato da Laforgue dallo stesso Sciarrino, presenta nel prologo e nelle quattro scene un’azione apparente – la storia d’amore fra Elsa e Lohengrin – che si rivela, nell’epilogo, come mai avvenuta, o come avvenuta nel tempo di un sogno o di un delirio della protagonista, Elsa, rinchiusa in realtà in un ospedale psichiatrico. Il tempo dell’azione si contrae alla fine nello uno spazio chiuso e angusto di una stanza di ospedale.Abbiamo preso l’avvio dal titolo dell’ultimo lavoro di Sciarri-no: 12 madrigali su haiku giapponesi. Ora, questa contrazione dell’aspetto narrativo del testo, questo passaggio da una tem-poralità orizzontale-narrativa ad una temporalità verticale-istantanea, caratterizza il rapporto di Sciarrino con il genere poetico dell’haiku.Riferendosi al suo lavoro Quaderno di strada (Sciarrino 2005), egli descrive con precisione il processo che nella sua pratica compositiva il testo subisce per essere messo in musi-ca. Il testo deve essere adattato, preparato prima di essere musicato. Questo adattamento è descritto come un’operazio-ne che ha a che fare con dei tagli, con delle eliminazioni di porzioni di testo.Quaderno di strada è la messa in musica di una serie di fram-menti di varia origine – graffiti letti sui muri, stralci di lettere o di articoli, linee di poesie – raccolti in contesti e in tempi differenti su un taccuino dal compositore. Tutti i testi con-servano l’attribuzione al loro autore, dove esso sia noto, o la collocazione originaria, come nel caso di testi graffiti su muri, ma, nella maniera in cui sono proposti nel testo musicato, ri-sultano profondamente modificati. Parti di testo sono tagliate senza che questo taglio venga segnalato o riferito: nessun puntino tra parentesi segnala le parti mancanti. Sciarrino descrive questa modificazione del testo come un progressi-vo asciugamento, prosciugamento o “haikuizzazione”, ossia come un processo di riduzione di un testo a qualcosa che somiglia molto alla struttura dell’haiku.Scrive Sciarrino:

La folgorazione verbale degli haiku, immessa in brani musicali di meno esili proporzioni, lascia che i

versi ruotino su se stessi e il senso si capovolga. Ogni parola entra infatti in contatto con l’altra, anche lon-tana, trovando nuove immagini, cortocircuiti. (Sciarri-no 2008: 26)

Anche in questo caso è interessante fare reagire, fare incon-trare come attraverso un montaggio, il tema dell’haiku in Sciarrino con quanto dell’haiku dice Barthes in La préparation du roman (Barthes 2003).In La préparation du roman Barthes descrive l’haiku come “un tipo esemplare di annotazione del presente” (Barthes 2003, trad. mia) come scrittura eventuale, scrittura dell’evento, come ciò che non ripete l’evento ma lo genera. L’haiku viene preso in consi- derazione da Barthes come “[…] atto mini-male di enunciazione, forma ultrabreve, atomo di frase che annota (marca, circoscrive, glorifica: dota di una fama) un elemento tenuto della vita reale, presente, concomitante” (ibid: 53, trad. mia)L’annotazione, di cui l’haiku è una forma esemplare, con-siste quindi nell’estrapolare, nel ritagliare dalla continuità del flusso dei vissuti, un vissuto che viene annotato, reso notevole, a cui viene data, attraverso la scrittura, una certa forma, dove forma, ancora una volta, deve essere intesa non nel senso dello schema ma nel senso del ritmo: que-sta forma è la forma dell’avvenimento. Si tratta dunque di un’annotazione che ha in comune con la notazione musicale il fatto di determinare un rapporto verticale fra le linee del testo, più che una struttura narrativa. Lo spazio fra le righe di un haiku è vuoto, privo di congiunzioni esplicite e tuttavia le frasi non sono indifferenti l’una rispetto all’altra: lo spazio che le separa, crea un rapporto, che Barthes, come Sciarri-no descrive nei termini del cortocircuito, del tilt (v. Barthes 2003:123 e sgg.).Ciò che Barthes descrive nei termini di questo cortocircuito, o tilt, è un doppio rapporto ritmico: il primo fra chi scrive e ciò su cui scrive; il secondo fra le frasi del componimento.L’haiku è il risultato di un incontro, il risultato di un avveni-re, che non avviene ad un soggetto astratto, ad un soggetto trascendentale. Ciò che avviene in questo incontro, ciò che l’haiku fa avvenire per Barthes, è un evento di individuazione. L’individuazione è l’evento di un incontro, è una finestra che si apre fra due mondi determinando quella che Barthes con un termine molto musicale chiama nuance (v. Barthes 2003, p. 178 e sgs.), una sfumatura che mi rende unico e insostituibile in quel rapporto: una sostituzione, una traduzione, sarebbe possibile, ma cambierebbe la sfumatura. L’individuazione, la nuance, che in questo incontro avviene è tutto il con-trario del ritrovare, del ritrovarsi, in cui non si ripete che il già detto. La nuance è un corto circuito fra due istanti il cui legame è circostanziale. Essa si realizza in un montaggio di mondi che si danno senso l’un l’altro, senza essere fatti per appartenersi: il loro legame non ha motivo che lo giustifichi, schematizzandolo, ma è una forma non schematica, una for-ma fluida, un ritmo. Per questo motivo, questo legame, come nel caso del madrigalismo, non funziona in assenza. Si perde una volta finito l’incontro. E questa perdita è una perdita irrimediabile.L’avvenimento, di cui l’haiku è la forma esemplare, è de-scritto da Barthes come ciò che divide la vita in due parti, che la articola, articolandola in un prima ed un dopo che non hanno la possibilità di ricongiungersi. L’avvenimento che, per antonomasia, separa irrimediabilmente, dice Barthes, è il lutto (v. Barthes 2003: 27). Il lutto ha a che fare con il rap-porto con ciò che non è sostituibile, con ciò la cui presenza non può essere surrogata, non può essere sostituita in sua assenza, con ciò per cui lo “stare per” lo “stare al posto di” perde di senso.Lo spazio fra le righe dei versi dell’haiku è vuoto, è un silen-zio come lo spazio fra le note sulle righe di una composizione

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50 musicale, o lo spazio fra le due linee di un contrappunto, o lo spazio fra la linea del canto e quella delle parole. Gli elementi legati da questo vuoto, da questo silenzio che li individua aprendoli l’uno sull’altro, li rende l’uno per l’altro insostituibili.Ridurre un testo ad un haiku vuole dire scavare per farne emergere l’articolazione. L’articolazione appare in Sciarrino come ciò che rende musicabile, musicale, un testo ed anche, d’altra parte, ciò che può fare parlare la musica. L’articola-zione si configura, in Sciarrino come il luogo di incontro fra parola e musica. Sciarrino scrive:

L’unione misteriosa e potente fra il suono e la paro-la. Parola e suono, suono e parola: questo è cantare. Per inventare un canto non basta soltanto comporre per voce. Necessario prima pulire la mente, rendere trasparenti gli stessi intervalli attraverso cui è passata tutta la musica del mondo, montagne di canzoni, insomma ciò che costituisce la gigantesca discari-ca entro cui viviamo. L’ecologia è il nascere di una coscienza, per agire nel rinnovarsi. E dunque ecolo-gia del suono vuol dire certo tornare al silenzio, ma specialmente ritrovare un’espressione senza aridità e senza retorica. Quando la voce si è affidata al silenzio, non resta che bocca, cavità, saliva. Le labbra dischiuse, confine di un vuoto oscuro, della sete e della fame. (Sciarrino, 2008: 27)

Per comporre per voce, dice Sciarrino, non basta soltanto comporre per voce. Per comporre per voce è necessario instaurare il silenzio, o meglio, un certo silenzio. In questo testo complesso Sciarrino richiama il silenzio come possibilità dell’unione misteriosa e potente fra parole e suono. Non si tratta del silenzio assoluto, ma piuttosto del silenzio che si fa spazio fra i suoni, del silenzio che articola e divide mettendo in rapporto, che rende trasparenti gli intervalli. Quando la voce si è affidata al silenzio, dice Sciarrino, essa non resta che bocca, e tuttavia, stranamente, non bocca serrata ma bocca dalle labbra dischiuse, confine di un vuoto oscuro, come la bocca di chi sta per prendere la parola, o di chi si affanna alla ricerca di una parola che sfugge.Il silenzio, in questo senso, diviene ciò che apre la traspa-renza di un intervallo, separando e nello stesso tempo met-tendo in relazione, ossia articolando. Sciarrino descrive que-sto rapporto in Le figure della musica attraverso quella che egli chiama forma a finestre (Sciarrino 1998: 97 e sgg.) dove forma, ancora una volta, deve essere intesa nel senso di ritmo e non di schema. Nella forma a finestre uno squarcio, un’apertu-ra, apre un mondo su di un altro mondo, interrompendone la continuità, creando uno stacco. Come succede in Lohen-grin: nell’angusto mondo di una stanza di ospedale si apre la finestra su un sogno, su un delirio. Il prologo di questa opera si intitola “Prologo attraverso una finestra aperta”. In un mondo si apre una finestra, e questo avviene senza costituire una narrazione, una successione orizzontale. Esattamente come succede, spiega Sciarrino, quando apria-mo una o più finestre sulla scrivania del nostro computer, tenendole tutte al contempo aperte. La forma a finestre, dice Sciarrino in questo testo, è un mon-taggio: un montaggio, una cucitura, in cui la cicatrice resta evidente, di due mondi che né sono fatti per stare insieme, né sono indifferenti l’uno rispetto all’altro. Si tratta di un montaggio “istantaneo”, come quello di una fotografia. Le finestre, dice Sciarrino, sono forme spaziali ritagliate nel tem-po. La forma a finestre è un rapporto tra due mondi che si aprono, che si affacciano l’uno sull’altro dandosi vicendevol-mente senso. È un rapporto che, ancora una volta, funziona solo in presenza, nel faccia a faccia, smette di esistere una volta che l’incontro è finito. Questa operazione di cucitu-

ra, di montaggio, Sciarrino la sperimenta, ad esempio, in Cadenzario: si tratta di una raccolta di cadenze, estrapolate da movimenti di concerti, e montate assieme: ascoltan-do questo pezzo, dice Sciarrino, si ha l’impressione che un disco salti da un punto all’altro della musica:

Gli stacchi […] danno un effetto senza dubbio traumatico. Qualsiasi brusca interruzione è trauma-tica: la stessa forma a finestre è basata su picco-li traumi. Tuttavia l’uomo di abitua a tutto. Qui il trauma è anzitutto fonico. A interrompere sono suoni tutti impulso e niente vibrazione; tanto violenti che sembrano perforare i muri, spezzare ogni continuità e fare sobbalzare il tem- po. Un tempo a singhiozzi, discontinuo (Sciarrino 1998: 112).

La struttura a finestre realizza quindi un’articolazione. In questo senso la musica che funziona attraverso una struttura a finestre è, attraverso la sua scrittura, già in rapporto con la parola, prima di mettersi a musicare un testo.Non è casuale che in Le figure della musica, nel momento in cui cerca di rintracciare nel quarto movimento della nona sinfo-nia di Beethoven la realizzazione di una struttura a finestre, il discorso di Sciarrino si sposti sul rapporto fra musica e parola. Scrive Sciarrino riferendosi all’ultimo movimento della nona sinfonia:

Nel recitativo pare davvero che gli strumenti vogliano parlare. L’eloquenza è dovuta proprio alla loro impos-sibilità di farlo: essi non superano il livello subuma-no. Restano al di sotto della soglia della parola, cioè non riescono a farsi comprendere (Sciarrino 1998: 110).

In una stesura della sinfonia, dice Sciarrino, comparireb-bero effettivamente delle parole, sillaba a sillaba sotto la musica del recitativo e anche un quaderno di conversazione di Beethoven confermerebbe il fatto che egli abbia scritto a posteriori delle parole sotto la musica non perché la musica fosse collegata ad un testo, ma piuttosto perché l’esecutore comprendesse come il brano dovesse essere eseguito ossia, scrive Beethoven, rigorosamente in tempo, rigorosamente a ritmo, come se ci fossero sotto delle parole. È singolare, ancora una volta, il rapporto che qui Sciarrino rintraccia fra parole, musica e ritmo, come se le parole dovessero dare il tempo alla musica, pur rimanendo non dette, non entran-do nella composizione in quanto tale. Come se vi fosse un rapporto fra parole e musica che vada al di là del musicare dei testi. Sciarrino sperimenta questa idea in parecchi pezzi, per esempio in Alfabeto Oscuro, del 1993, che fa parte delle Musiche per Dante. Il pezzo per piccola orchestra, quindi senza voci, porta a capo della partitura, come indicazione per la sua esecuzione: come parlando.Scrive Sciarrino in Carte da suono a proposito di questo pezzo:

L’orchestra sembra voler parlare. La natura degli strumenti non lo consentirebbe, eppure essi recitano ossessivi, e noi sentiamo quasi senza comprendere. Quasi. Nella loro mancanza di umanità, le macchine, gli strumenti, gli animali parlanti talvolta diventa-no tremendamente espressivi. Si può parlare con la musica? (Sciarrino 1991: 161).

L’effetto del quasi parlando è ottenuto, in questo pezzo, affidan-do agli strumenti la pronuncia delle consonanti del primo verso della Divina Commedia. Le consonanti hanno un effetto di taglio, di articolazione, di interruzione traumatica. Il quasi parlando mima, della parola, non tanto il rapporto fra signifi-cante e significato quanto piuttosto, scavando al di sotto del

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51rapporto semantico, esso mima l’articolazione, il rapporto sintattico, il rapporto ritmico, come lo abbiamo chiamato. In questo rapporto ritmico la musica ritrova un’eloquenza prima della parola: l’eloquenza degli strumenti in Alfabeto oscuro, dice Sciarrino, è data proprio dalla impossibilità di parlare.In Carte da suono scrive, a proposito di un suo pezzo che si chiama Il motivo degli oggetti di vetro:

Di fatto la mia musica vuole sempre di più farsi voce. Sarebbe penoso per me dire il già detto, assai più penoso che il rischio di risultare sgradevole. Melodie e recitazioni nuove, dunque, ed egualmente toccanti, cioè antiche. Non quelle dei nostri nonni: inten-do profondamente antiche, vicino al punto dove l’espressione diventa spavento. Eppure totalmente nuove. Linee sospese nel vuoto, oltre c’è poco altro. […] È tempo di silenzi e di lacerazioni. Anche di risonanze nascoste. Ora possiamo “cantare con silen-zio”, secondo l’espressione di Maddalena de’ Pazzi (Sciarrino 1991: 183).

Il canto, l’introduzione della voce sono collegati nel bra-no sopra riportato alla possibilità del nuovo; e la possibilità del nuovo, a sua volta, è legata ai silenzi e alle lacerazioni. L’espressione Cantare con silenzio, che è anche il titolo di un altro lavoro di Sciarrino, tiene bene insieme al suo interno tutti questi elementi. Il problema del rapporto fra testo e musica, connesso all’utilizzo della voce, è dunque in Sciarrino legato alla ricerca di quello che nell’ultimo brano citato egli chiama il profondamente antico, che è articolazione, che è l’eloquenza prima che la parola si metta in rapporto col suo significato, che è la possibilità di una sintassi, una sintassi però totalmente lontana da ogni rapporto meccanico o indifferente.

Introducendo i Dodici Madrigali Sciarrino scrive:

Immaginate un compositore che, quasi a metà del suo cammino, senta l’esigenza di un nuovo stile di canto. In quel tempo la voce compariva occasionalmente,

così gli sembrava, quasi marginale nel panorama musicale contemporaneo, e ciò valeva pure per lui, per i propri lavori. Ma già nel risveglio della coscienza si celava il seme di un progetto estetico non privo di coraggio. Mancanza di canto equivale a sentire un vuoto di presenza umana protagonista (Sciarrino 2008: 27).

L’introduzione del canto nelle proprie composizioni è spesso legata da Sciarrino a questa esigenza di umanizzazione della musica. A cosa corrisponda questa umanizzazione Sciarrino lo dice poco più avanti nello stesso testo:

Vi sono versi caratteristici della specie umana che si prestano ad essere assunti nel canto perché già di natura sonora ed elaborati, come il lamento generi-camente inteso; oppure il pianto, che un’ambigua di-stanza separa dal riso (un caso esemplare offre la mia opera Perseo e Andromeda, dove sull’articolazione del singhiozzare si configura l’intero finale). (ibid.)

Qui Sciarrino parla di versi umani già elaborati, come il lamen-to, il pianto, o il riso, il singhiozzare; già elaborati, ossia già eloquenti senza essere parola e che si prestano ad essere assunti nel canto senza essere preparati. Questa eloquenza ha a che fare con quella che Sciarrino chiama l’articolazione del singhiozzare, la presenza di spazi che articolano il pianto o il riso, di silenzi, di un’articolazione che invece di scavare un fosso fra due elementi li mette in rapporto, individuandoli.Questo rapporto in cui l’articolazione fa silenzio, un silen-zio dalle labbra socchiuse, e non serrate, è scrittura, posizione di significanti, il cui elemento fondante non è il riferimento semantico al significato ma piuttosto il loro ritmo, il loro po-sizionamento sintattico, la discreta articolazione tra i signifi-canti, che è la dimensione musicale del testo e che è, nella musica di Sciarrino il luogo dell’incontro tra parola e musica. Questo spazio, che è uno spazio raro, direbbe Barthes, è uno spazio ospitale, è lo spazio in cui la forma genera altre forme: è lo spazio della fioritura.

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Cultura & Comunicazione /Lingue, linguaggi e comunicazione /L’articolazione come dimensione musicaledel testo. La relazione fra parola e musica nell’operadi Salvatore SciarrinoJulia Ponzio

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52 Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Insegnare e imparare a scrivere un testo scientificoSilvia De Ascaniis e Andrea Rocci

Insegnare e impararea scrivere un testo scientifico

I docenti sanno bene che, a qualsiasi livello di formazione siano essi chiamati a farlo, insegnare agli studenti a scrivere è compito assai arduo e oneroso, sia in termini di progetta-zione dell’intervento didattico – come fare? – sia in termini di impegno personale – come e quanto seguire gli studenti? Imparare a scrivere, infatti, inteso non nel senso di ripro-durre correttamente una calligrafia, ma di elaborare testi significativi e riconoscibili come istanze di un certo genere testuale, dunque con obiettivi, caratteristiche e un pubblico ideale propri, è il frutto dell’intrecciarsi di diverse variabili. Tra queste variabili ci sono la conoscenza delle convenzioni del certo genere testuale, la confidenza con tale genere data dalla lettura assidua, l’esercizio, la personale attitudine alla produzione scritta della lingua. I saggi che seguono rappresentano ‘storie di successo’ – o per essere scolastici, i lavori migliori – di studenti che hanno frequentato il corso “Atelier di scrittura scientifica” nell’anno accademico 2014-2015, obbligatorio al II anno del Bachelor in Scienze della Comunicazione proposto dall’Università della Svizzera italiana di Lugano (Svizzera). Il corso è tenuto in co-docenza da chi scrive, ovvero il professor Andrea Rocci e la dottoressa Silvia De Ascaniis, rispettivamente direttore e collaboratrice dell’Istituto di Argomentazione, Linguistica e Semiotica. Il prof. Rocci ne è responsabile scientifico, e a lui sideve la felice intuizione della necessità di preparare gli stu-denti a progettare e redigire un saggio scientifico, per poter più consapevolmente lavorare nel campo interdisciplinare delle scienze della comunicazione. Il corso rappresenta ogni anno una sfida, tanto a livello di progettazione quanto di realizzazione, proprio per la necessità di agire sulle diverse variabili in gioco cui si accennava poco sopra. Il nome che si è voluto dare al corso ne mette in evidenza la natura: si tratta di un ‘atelier’, ovvero di un laboratorio di scrittura scientifica, dove gli studenti sono chiamati ad indossare il camice dello scienziato, a prendere carta e pen-na – il più delle volte computer e tastiera – e a cominciare l’esperimento di scrittura, in un percorso di apprendimento per prove ed errori. Lungo il percorso, i docenti hanno il ruolo di accompagnatori partecipi piuttosto che di osservato-ri passivi, che significa dare a ciascuno studente un supporto personale e costante. Nel nostro corso, questo si concre-tizza con un commento individuale che viene dato o alla consegna della prima bozza del saggio, oppure a consegne intermedie di diverse parti dello stesso. Nell’edizione del corso 2014-2015, agli studenti è stato dato il compito di stilare un saggio su un argomento connesso con il tema della metafora, che avesse una lunghezza di

circa 2’600 parole (esclusa la bibliografia), e che fosse strut-turato come segue: 1) titolo rappresentativo del tema trattato; 2) presentazione dell’oggetto d’interesse; 3) formulazione della domanda di ricerca; 4) esempio dell’oggetto di analisi (ad es. un frammento di

testo o un’immagine, racconto di un caso aziendale/isti-tuzionale, presentazione di una tabella con dati quan-titativi che illustrano un problema, link a un video con commento);

5) analisi della letteratura sul tema, ovvero reperire alcune fonti scientifiche utili a rispondere alla domanda di ricerca, mettendo in luce in che modo potessero essere significativi;

6) formulazione di ragionevoli ipotesi di risposta coerenti con quanto emerso dalla letteratura;

7) presentazione breve di un piano di ricerca, dove si indi-casse quale metodo usare per verificare le ipotesi, dove trovare ulteriori dati, come procedere con la ricerca;

8) redazione di una bibliografia, adottando uno stile di citazione univoco.

La metafora rappresenta un tema trasversale a molteplici discipline, e fornisce un punto di vista per osservare, nonché uno strumentario per analizzare la varietà dei fenomeni comunicativi. Le numerose ricerche sulla metafora condotte negli ultimi decenni, infatti, hanno dimostrato la rilevanza di queste manifestazioni linguistiche nei processi cognitivi umani: non si tratta di un puro ornamento del linguaggio, bensì di uno strumento del pensiero che guida le persone nella comprensione della realtà e il loro agire in essa. Questo approccio alla metafora si deve principalmente agli studi del linguista cognitivo George Lakoff e del filosofo Mark Johnson, autori di quello che è oggi considerato un classico negli studi sulla metafora e sulla comunicazione in genera-le, “Metaphors we live by” (pubblicato per la prima volta nel 1980 dalla University of Chicago Press, traduzione italiana “Metafora e vita quotidiana”, pubblicato da Bompiani a cura di P. Violi). Secondo i due autori, la metafora è una strategia concettuale che permette di comprendere un dato ambito di esperienza nei termini di un altro, di accedere a concetti astratti e complessi grazie ad altri di cui si ha una compren-sione direttamente derivata dall’esperienza fisica. Le forme linguistiche sono da considerarsi un’espressione di concetti legati alla cultura e alla società, dunque ci sono metafore proprie e diverse per ogni cultura e ogni società. I saggi raccolti in questo numero di “Cultura e comunicazione”

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53considerano le metafore tipiche di diverse aree dell’attività comunicativa umana: dalle aziende alla politica, dall’ambito della salute al cinema, dalla pubblicità alle scienze sperimen-tali. Fenomeni comunicativi relativi a ciascun ambito vengono analizzati sistematicamente dagli studenti, in un percorso che li porta dalla scoperta di un interesse genuino alla formula-zione di una domanda di ricerca e poi di ragionevoli ipotesi di risposta, in un dialogo critico con la comunità scientifica. Nel primo saggio proposto l’autrice, Martina Wirth, si chiede se i bambini siano capaci di comprendere e usare il linguaggio metaforico, a che età si sviluppa la competenza metaforica, e se essa sia associata al livello di istruzione e all’ambiente so-ciale. Martina è consapevole che si tratta di domande ampie, poste ad un oggetto di interesse complesso, e propone dunque un’analisi di una parte rilevante della letteratura sul tema. Arriva così a formulare l’ipotesi secondo cui i bambini in età pre-scolare non abbiamo ancora una competenza metaforica sviluppata, perché hanno una conoscenza limitata e parziale dei domini esperienziali. Nel saggio “Coca-Cola: metafore come mezzo di persuasione nei manifesti pubblicitari di ieri e di oggi”, Emily Berti considera le metafore visive nella pubblicità, interrogandosi sul loro potere persuasivo e sul loro ruolo nel processo di formazione del significato culturale di un brand. Emily prende come caso le pubblicità dell’azienda internazionale Coca-Cola, che ha co-struito il suo brand richiamando con le immagini pubblicitarie valori desiderabili da chiunque o ampiamente condivisi nella società. In quanto strumento che facilita la comprensione reciproca, la metafora aiuta ad interrogarsi e ad accordarsi circa la natura di certi oggetti o fenomeni. Nel suo saggio Annapaola Tucci considera l’ambito cinematografico, e presenta il dibattito che ha visto il cinema, fin dai suoi albori, come ‘finestra’ dalla quale guardare la realtà, oppure come una ‘cornice’ per delimitare uno spazio semiotico per inquadrare un soggetto. Annapaola si chiede se nell’era del digitale, dove le tecnologie hanno profondamente cambiato il modo di fare cinema, le metafore della finestra e della cornice siano ancora adeguate per parlarne. Il cinema e le sue metafore costituiscono l’oggetto di interesse anche del saggio di Ottavia Gaggini, che si concentra sulla cinematografia d’animazione. Ottavia considera la produzione di Hayao Miyazaki, un regista giapponese della levatura del-l’occidentale Walt Disney, che tratta ripetutamente il rapporto tra l’uomo e la natura. La studentessa si interroga su quali sia-no le metafore adottate dal regista per parlare di questo tema, alla luce del fatto che i concetti metaforici sono strettamente legati all’aspetto culturale, ed è quindi un ulteriore ostacolo per lui tentare di usare delle immagini che possano essere interpretate da un pubblico non solo giapponese.

Con i saggi di Corinne Gobert e Stefania Riva si passa dalla comunicazione mediale a quella aziendale. Numerose meta-fore, tratte da una varietà di domini, vengono impiegate per descrivere le aziende: come funzionano, che struttura hanno, come si relazionano le une alle altre e con il mercato di riferi-mento. Corinne si concentra sulle metafore tratte da dominio della musica, in particolare quella che accosta l’azienda a una jazz band, che ha suggerito addirittura un format di consu-lenza aziendale, e si chiede quali caratteristiche delle aziende moderne siano felicemente concettualizzate da tale metafora. Stefania, invece, considera le metafore tratte del dominio del matrimonio, chiedendosi come queste aiutino a comprendere le relazioni tra aziende, che “si sposano” ma a volte “divorzia-no”. Ampio uso della metafora viene fatto anche nella comuni-cazione politica, come strumento per rappresentare valori e raccogliere consenso. Il saggio di Miguel Ángel Marchesi osserva le strategie comunicative utilizzate nella propaganda politica contro gli stranieri dallo Schweizerische Volkspartei, un partito svizzero con accese connotazioni nazionaliste, e si chiede quali siano i valori ‘nazionali’ che si vogliono fa passare con le metafore visive utilizzate, in particolare come vengano rappresentati gli stranieri. Si passa poi alle metafore nella comunicazione sanitaria, in particolare in psicoterapia, con il saggio di Giulia Grisendi. Poiché la metafora è un veicolo privilegiato per manifesta-re le emozioni, è possibile osservare come nell’ambito della psicoterapia essa diventi uno strumento per interpretare i racconti dei pazienti ed entrare in relazione con loro. La do-manda di ricerca è, dunque, in che modo l’utilizzo di metafore può facilitare la comunicazione tra paziente e terapeuta nella psicoterapia. Mattia Gianinazzi indaga, invece, il ruolo della metafora come strumento del pensiero che permette l’accesso a domini molto astratti come quello delle scienze sperimentali, tra le quali la fisica quantistica, una delle più lontane dall’esperienza fisica quotidiana, difficile da comprendere e da immaginare. Forse, ipotizza Mattia, non è ancora stata individuata la metafo-ra giusta, ma forse, la metafora giusta non esiste, perché il linguaggio umano, in fondo, ha dei limiti. Tuttavia, spiegare agli studenti di fisica come funziona la metafora concettuale, potrebbe sollevarli dalla frustrazione di dover imparare a me-moria delle formule senza appieno comprenderle. Attraverso la lettura delle storie di successo presentate in questa raccolta, il lettore potrà auspicabilmente trovare dei suggerimenti su come aiutare e guidare gli studenti nello sviluppo della competenza scrittoria in generale, e nella pro-duzione di testi scientifici in particolare. Siamo d’altro canto persuasi che approfondire il tema della metafora non manche-rà di suggerire riflessioni sull’esperienza quotidiana di cultura e comunicazione.

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Cultura & Comunicazione /Letteratura e cultura /Insegnare e imparare a scrivere un testo scientificoSilvia De Ascaniis e Andrea Rocci

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54 Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Coca-Cola: metafora come mezzo di persuasione nei manifesti pubblicitari di ieri e di oggiEmily Berti

Coca-Cola: metafore comemezzo di persuasione neimanifesti pubblicitari di ierie di oggiOggetto di interesse

L’oggetto di interesse di questa ricerca sono le metafore visive nella pubblicità e il loro potere persuasivo.Ho notato che spesso nelle pubblicità sono presenti elementi metaforici, vorrei quindi scoprire i motivi di questa scelta per quanto riguarda le strategie di marketing di un prodotto.Per fare questo prenderò in analisi un caso, ovvero gli spot pubblicitari lanciati dalla Coca-Cola per promuovere il suo prodotto e andrò ad osservare le metafore usate.La Coca-Cola è una delle bibite più popolari al mondo e appartiene alle 10 bevande analcoliche più vendute sul nostro pianeta; questo dato di fatto ha catturato la mia at-tenzione e per questo motivo ho deciso di concentrarmi sulle bibite prodotte dal Brand Coca-Cola.Un altro aspetto che ha suscitato il mio interesse, è il fatto che nel 2014 la Coca-Cola, con la campagna “Let’s go crazy!”, si è aggiudicata il premio di “cross cultural” agli David Ogilvy Awards 2014, evento che, in collaborazione con “The Advertising Research Foundation”, premia l’uso crea-tivo della ricerca nel processo di sviluppo delle pubblicità da parte delle aziende (Funguitt 2014).Ho quindi deciso di svolgere una ricerca sulle metafore visi-ve usate dalle pubblicità di Coca-Cola e di indagare sul loro effetto persuasivo che hanno sulle persone e che gli ha per-messo di diventare una delle bevande più amate al mondo.

Domanda di ricerca

Numerosi studi confermano che le metafore vengono usate in pubblicità per dare un effetto di maggiore persuasione. Questo accade perché come Lakoff e Johnson (2012) hanno dimostrato, le metafore permettono di comprendere un dato ambito di esperienza in termini di un altro; per quan-to riguarda il mio oggetto di interesse, ovvero le pubblicità di bibite; mi sono chiesta quali domini fonte attingessero le pubblicità di bevande, come quelle della Coca-Cola per concettualizzare delle caratteristiche astratte del prodotto e quali metafore usassero maggiormente nelle loro pubblicità al fine di persuadere le persone all’acquisto.

Riallacciandomi alla recente vittoria del premio “Cross Cultural” agli David Ogilvy Awards 2014, vorrei indagare su quali aspetti sociali ha puntato e punta ancora, ogni volta che crea delle nuove pubblicità, la Coca-Cola per entrare a far parte della vita delle persone, e a quali valori ha attinto per essere riconosciuta da loro come un brand capace di dare loro emozioni in quanto presente in molte esperienze della loro vita.Queste domande che mi sono posta per la stesura di questo position paper, si traducono in una domanda di ricerca più mirata, ovvero:Quali sono le metafore maggiormente utilizzate nelle pub-blicità di bibite Coca-Cola per illustrare le proprie caratteri-stiche e persuadere le persone all’acquisto?

Esempio dell’oggetto di analisi: pubblicità Coca-Cola

Immagine: “Yes Girl!” 1946; fonte:http://www.coca-‐ colacompany.com/history/2008/07/coca-‐co-las-‐awar.html

L’immagine soprastante fa parte di uno dei primi tabelloni creati dal brand Coca-Cola; è uscito nel 1946 e illustra una di quelle che all’epoca chiamavano “Coca-Cola Girl”.Nell’immagine vediamo una ragazza molto affascinante che sta prendendo il sole, e la mano di un ragazzo che le porge una bottiglia di Coca-Cola che lei accetta sorridente con un sì.

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55Vediamo come dietro alla semplice immagine di una ragazza che accetta una Coca-Cola da un ragazzo possiamo trovare un forte senso metaforico.Infatti, vediamo come il ragazzo sta proponendo la bottiglia di Coca-Cola ad una ragazza molto attraente, solare e magra; una ragazza che sembra curarsi della propria salute e nel fatto che accetti volentieri la bottiglietta di Coca-Cola è impli-cito che si tratti di una bibita sana, che faccia bene e che non abbia contro indicazioni. Alla ragazza possono essere associati aggettivi come freschezza, felicità, giovinezza, dolcezza e salu-te; tutte caratteristiche che possono essere usate per descrive-re il gusto e, all’epoca, l’ancora florido brand Coca-Cola.Il giovane che offre la Coca-Cola alla ragazza è sicuro di non sbagliare e con questo gesto si apre una possibilità di collo-quio, di una nuova amicizia o di un nuovo amore, tutti aspetti che portano felicità alle persone. Vediamo quindi come grazie alla Coca-Cola, strumento di sicuro approccio, si è aperto un nuovo scenario, una nuova amicizia, una nuova storia condi-visa da i due; vi è quindi una personificazione della Coca-Cola in quanto è lei a dare questa nuova possibilità ai due giovani.Una possibile interpretazione del “Yes” deciso nell’immagine potrebbe ricollegarsi al Sì che si pronuncia a una richiesta di matrimonio e la bottiglia potrebbe sostituirsi all’anello di fi-danzamento e quindi ancora una volta all’oggetto che permet-te l’inizio di una nuova serie di esperienze.Lo slogan della Coca-Cola fino all’anno scorso era “Open Happiness”, vediamo come già questo tabellone del 1946 rispecchia la visione attuale della Coca-Cola.

Quest’altra immagine rappresenta il disegno di una bottiglia di Coca-Cola dalla quale, al posto della bevanda, escono una serie di simboli e figure colorate. Sotto alla bottiglia vediamo lo slogan “open happiness”.Una possibile interpretazione del senso metaforico dell’im-

magine potrebbe essere che la Coca-Cola apre la possibilità di accedere a nuovi mondi, o, per restare coerenti a quanto detto per l’immagine precedente, essa apre a nuove conoscenze, nuove condivisioni, nuove fonti di felicità.La Coca-Cola nelle sue varie pubblicità sottolinea spesso l’aspetto di condivisione tra le persone, infatti, possiamo ve-dere questo fenomeno nella campagna “share a Coke with…” nella quale le bottiglie di Coca-Cola furono personalizzate condei nomi. Una trovata di marketing che spingeva le persone a comprare le bottiglie con su scritti i nomi dei propri amici e famigliari e a condividere l’esperienza del bere una Coca-Cola insieme a loro. Ancora una volta vediamo come sia la Coca-Cola a fare da tramite nelle amicizie e ad aprire nuove possibili-tà di svago.

Analisi della letteratura sul tema

Svolgendo un lavoro di ricerca e di revisione della letteratura, ho individuato tre testi che potrebbero rilevarsi particolarmen-te utili a rispondere alla mia domanda di ricerca.A questo scopo, ho innanzitutto cercato un testo che spiegasse e mettesse in pratica i meccanismi che stanno alla base del potere persuasivo delle metafore visive presenti nei manifesti pubblicitari. Se-‐hoon Jeong (2008), basandosi sulla letteratura esistente, studia le metafore visive nelle pubblicità, chieden-dosi se il loro effetto persuasivo sia dovuto ad una argomenta-zione scritta oppure al loro significato metaforico.Come sostiene McQuarrie (citato in Jeong 2008, 60), le me-tafore sono un metodo retorico per confrontare due oggetti differenti, per cui le caratteristiche di un oggetto vengono trasferite sull’altro. Le metafore visive, che permettono inter-pretazioni diverse, possono essere viste come argomentazioni implicite e aumentano l’elaborazione cognitiva del pubblico mentre cerca di capire il messaggio e ciò può portare a un aumento del potere persuasivo. Secondo Jeong (2008) gli argomenti metaforici possono essere più persuasivi rispetto a quelli letterali per tre diversi motivi:Il primo motivo è che la metafora contenuto in un manife-sto porta a un processo di ragionamento e a un’elaborazione maggiore del messaggio. Come sostengono Childrens and Houston (citato in Jeong 2008, 61) l’incongruità che si perce-pisce alla vista di un messaggio metaforico in una pubblicità, può stimolare il pubblico a cercare di capire che cosa vuole comunicare il brand con quel messaggio e ciò può portare a una maggiore elaborazione del messaggio.Il secondo motivo riguarda il fatto che i messaggi metaforici spesso creano incongruità e percezione di errore da parte di chi vede il messaggio. L’ambiguità creata dalle metafore visive stimola interesse e motivazione nelle persone che si traduce in un senso di gratificazione una volta capito il messaggio. Secondo Bowers e Osborn (citato in Jeong 2008, 61) le meta-fore presenti in un messaggio stimolano dei sentimenti posi-tivi verso la pubblicità e fanno aumentare la credibilità della fonte. Brown e Stayman (citato in Jeong 2008, 62) conclu-dono il secondo motivo sostenendo che una buona attitudine verso la singola pubblicità porta ad una buona attitudine verso il brand stesso e ciò inferisce positivamente sulle intenzioni di acquisto delle persone.Secondo Bowers e Osborn (citato in Jeong 2008, 62), il terzo motivo per cui i messaggi pubblicitari contenenti metafore sono più persuasivi è dovuto dal fatto che i brand che utilizza-no metafore nelle loro pubblicità vengono percepiti come più creativi, e dal momento che la creatività è valutata positiva-mente, essi vengono giudicati come più credibili. Le ricerche di Hovland (citato in Jeong 2008, 62) suggeriscono che la percezione di credibilità di chi comunica porta a una maggiore accettazione degli argomenti del messaggio proposto.Secondo gli studi di Messaris (citato in Jeong 2008, 62), le immagini visive sono spesso più persuasive rispetto ad argo-

Immagine: “Open Happiness” 2009; fonte: http://imgkid.com/coca-‐cola-‐ads-‐ open-‐happiness.shtml

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56 mentazioni verbali; questo perché come confermano McQuer-rie e Mick (citato in Jeong 2008, 62) gli argomenti persuasivi possono essere inseriti in modo più implicito nelle proposte visive che in quelle verbali. Questo aspetto implicito porta le persone a spendere più tempo nell’elaborazione del messaggio e ciò può portare a una costruzione personale del significato che il messaggio vuole trasmettere. Il messaggio è quindi reso più persuasivo dal fatto che le persone adottano più facilmen-te una proposta che loro stessi hanno creato.Gli studi di Mitchell e Olson (citato in Jeong 2008, 62-‐63) hanno dimostrato che il pubblico riesce a capire le argomen-tazioni visive implicite presenti in una pubblicità e che esse sono spesso più efficaci rispetto a delle argomentazioni verbali esplicite. Infatti, i risultati di uno studio sulle pubblicità di fazzoletti, dimostrano che più una pubblicità visiva viene spiegata da argomentazioni verbali, più diminuisce il piacere delle persone ad interpretarla e di conseguenza diminuisce anche l’effetto persuasivo del messaggio.

Un secondo testo che ho ritenuto utile per rispondere alla mia domanda di ricerca, in quanto spiega delle strategie di vendi-ta, è il libro di Marcel Danesi: “Why it sells” (2008).Danesi (2008), nel suo libro, sostiene che avere successo nella vendita di un prodotto implica una serie di tecniche che vanno dal dare un nome ai prodotti al presentarli in film come oggetti di scena. Un aspetto importante per il successo nella vendita è collegare, tramite rappresentazioni, il significato di un prodotto a tradizioni culturali, valori e rituali, poiché le rappresentazioni che i pubblicitari fanno devono il loro potere alla loro rilevanza sociale e culturale (Danesi 2008). Quando un messaggio pubblicitario viene interpretato, esso deve fare emergere un desiderio, un bisogno che può essere di rilevanza culturale o psicologica; le bibite analcoliche, ad esempio, usa-no una strategia che si basa sulla “minaccia sociale”, ovvero, non bere le loro bevande porta alla paura di venire emarginati. Dare un nome al prodotto è un aspetto importante in quanto permette di riferirsi ad esso; la Coca-Cola fu uno dei primi brands a crearsi una propria immagine, infatti tuttora il nome Coca-Cola non si riferisce unicamente alla bibita ma anche all’intera compagnia e, soprattutto, ai significati sociali che il bere Coca-Cola comporta (Danesi 2008). I significati sociali tuttavia, non possono essere esplicitati, ma unicamente dedotti, in quanto sono dei costrutti mentali, ovvero forme culturalmente strutturate che tornano alla mente in relazione ad uno specifico brand. Per concludere, grazie a un nome e all’associazione culturale, un brand si crea la propria identità, identità che sta alla base del significato metaforico delle sue campagne pubblicitarie (Danesi 2008).

L’ultimo testo sul quale mi sono basata per rispondere alla mia domanda di ricerca è un inserto del Journal of advertising research (2014) sui recenti David Ogilvy Awards. La campa-gna “Let’s go crazy!”, vincitrice del premio “cross cultural” agli David Ogilvy Awards 2014 illustra come la ricerca aiuta i brand ad andare oltre le associazioni e a diventare agenti di cambiamento nella vita dei consumatori e come aiuta a co-struire delle campagne in grado di superare i limiti culturali.La campagna “Let’s go crazy!” è una delle prime interazioni con la Coca-Cola company per l’iniziativa “Cultural relevance” che cerca di attingere a valori universali e di approfondire la connessione tra il messaggio “Happines” che il brand vuole diffondere e il brand stesso.L’iniziativa di “Cultural relevance” cerca di rendere la Coca-Cola il produttore di emozioni di felicità e non solo il brand che viene associato al suo slogan “happines”.Con la campagna “Let’s go crazy!” la Coca-Cola vuo-le connettersi alla vita reale delle persone e per fare ciò il brand incitò i consumatori a condividere, attraverso diverse piattaforme online, esempi di loro che creano felicità in certe

comunità. Quest’ultima interazione, che mostra come il brand provoca emozioni positive attraverso esperienze di vita reale, diede ai consumatori una ragione per cui credere che Coca-Colaè felicità. La campagna ebbe buoni risultati per quanto riguarda la capacità di un’azienda di fare passare il proprio messaggio, infatti il 65% di persone intervistate dopo la campagna asso-ciava il brand al messaggio:“la Coca-Cola è un brand che provoca felicità”. I risultati mo-strano un aumento delle vendite e dell’attrattività del brand percepita dai consumatori e più importante, la campagna ha portato a un aumento dell’amore per il brand Coca-Cola (Funguitt 2014).

Ipotesi di risposta alla domanda di ricerca

Dalla ricerca nella letteratura ho appurato che le pubblicità che usano le metafore sono più persuasive poiché un messag-gio metaforico prevedere una maggiore elaborazione mentale al fine di comprendere il significato che vuole trasmettere. Le persone sono motivate a capire il senso di messaggi metaforici in quanto alla loro vista percepiscono delle ambiguità e delle incongruità che provocano in loro una sensazione di stress che si traduce in gratificazione una volta ricostruito il senso del messaggio. Il fatto che si costruisce personalmente un si-gnificato rende più facile sia l’accettazione dello stesso che un cambiamento positivo verso il brand che l’ha prodotto e grazie a ciò l’effetto di persuasione diventa più forte.Dopo aver capito come funziona il meccanismo di persuasio-ne permesso dalle metafore e il processo di formazione del significato culturale di un brand posso formulare un’ipotesi di risposta alla mia domanda di ricerca.Per formulare la mia ipotesi di risposta mi riallaccio all’analisi dei manifesti pubblicitari. Come abbiamo visto, per descrivere la bevanda, Coca-Cola attinge a diversi domini fonte: nella prima immagine si descrive la Coca-Colacon gli stessi aggettivi con i quali si può descrivere la bella ragazza rappresentata nel manifesto, ovvero con aggettivi come dolce, fresca, giovane, salutare, eccetera. Dall’analisi del libro di Danesi (2008) ho appurato che l’aspetto sociale è una caratteristica spesso messa a fuoco dalle pubblicità di bevande, il brand Coca- Cola, mette infatti una forte enfasi sul significato sociale della bibita, ovvero essere un mezzo che permette nuove esperienze di vita condivise; vediamo infatti come nella seconda immagi-ne, la bottiglia di Coca-Cola ci apre metaforicamente ad altri mondi, ad altre esperienze che ci rendono felici.Per quanto riguarda la campagna “Let’s go crazy!”vista nella parte di letteratura, vediamo come la Coca-Cola si pone come fonte di felicità invitando i consumatori a creare felicità nelle loro comunità e a condividere le loro esperienze attraverso i social media. Grazie a questa iniziativa e quindi grazie al brand Coca-Cola, le persone hanno creato situazioni di felicità nel mondo e ciò ha aumentato l’attrattività del brand che si è tradotto, per quanto riguarda l’aspetto finanziario, in un aumento del consumo della bevanda e quindi delle entrate per l’azienda.

Piano di ricerca

Ho notato che nella letteratura non sono presenti studi che di-mostrano a quali domini fonte attingono i brand di bibite per concettualizzare delle caratteristiche astratte dei loro prodotti.Per chiudere questo gap presente nella letteratura e rispondere alla mia domanda di ricerca, ovvero capire quali sono le me-tafore maggiormente utilizzate da Coca-Cola per illustrare le proprie caratteristiche e persuadere le persone all’acquisto, un metodo potrebbe essere quello di fare l’analisi del contenu-to di una serie di manifesti pubblicitari di Coca-Cola.Si prenderebbero quindi cinquanta manifesti pubblicitari prodotti da Coca-Cola dagli anni ’50 ad oggi. L’analisi del con-

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57tenuto consisterebbe nell’individuare tutte le metafore pre-senti nei manifesti pubblicitari e per ciascuna di esse sarebbe opportuno analizzare il dominio fonte e il dominio target. In questo modo si potrebbe esaminare a quali domini fonte, ovvero a quali immagini attingono e a quali valori culturali si riferiscono le pubblicità di Coca-Cola per concettualizzare delle caratteristiche astratte della bibita, ovvero il dominio tar-get del prodotto. La codifica dei cinquanta manifesti verrebbe svolta da una decina di esperti in materia di comunicazione visiva, marketing o metafore in modo che i risultati ottenuti

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Coca-Cola: metafora come mezzo di persuasione nei manifesti pubblicitari di ieri e di oggiEmily Berti

possano essere considerati affidabili. Ogni codificatore avrebbe il compito di creare una lista nella quale annotare tutte le metafore trovate per ciascun manifesto. Al termine delle codifiche di ogni codificatore sarà possibile confrontare i vari risultati ottenuti e arrivare a un consenso condiviso su quali metafore vengono maggiormente utilizzate da Coca-Cola nei suoi manifesti pubblicitari.Sarebbe interessante poter rispondere alla mia domanda di ricerca al fine di poter dare un contributo significativo alla letteratura riguardante le metafore e le pubblicità di bibite.

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58 Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Hayao Miyazaki: rapporto uomo-natura tra favolae metaforaOttavia Gaggini

Hayao Miyazaki: rapporto uomo-natura tra favola e metafora

Hayao Miyazaki è un regista, sceneggiatore, animatore e produttore cinematografico giapponese. Nella sua lunga carriera, costellata di premi (l’Oscar al miglior film d’ani-mazione 2003 e l’Oscar alla carriera 2015 sono solo i più importanti) Miyazaki produce dei capolavori che lo rendono il regista d’animazione giapponese più conosciuto all’estero, spesso paragonato a Walt Disney.In ogni sua opera traspare un forte idealismo, ed è chiaro l’obiettivo del regista di trasmettere un messaggio ai suoi spettatori, per la maggior parte bambini. Tuttavia la ricchez-za dei temi e la complessità delle interpretazioni, rendono i suoi film adatti anche ad un pubblico più maturo.Una delle tematiche più care a Miyazaki è quella del rappor-to tra uomo e natura e dell’ambientalismo. In tutte le sue produzioni più famose, anche nel mondo occidentale, questo tema permea ogni minuto. La volontà del regista di inserire così spesso questo argomento rappresenta per lui una sfida: ogni volta lo dovrà rappresentare in un modo diverso, per evitare di cadere nel banale o nel ripetitivo. Principessa Mono-noke, Il mio vicino Totoro, La città incantata, Nausicaä della valle del vento, sono solo gli esempi più famosi della presenza del tema del rapporto uomo-natura e dell’ambientalismo nella lunghissima carriera di Hayao Miyazaki.

Domanda di ricerca

La presenza ricorrente della tematica ambientalista nelle opere di Miyazaki richiede al regista di reinventarsi in ogni produzione, altrimenti rischierebbe di offrire al pubblico una serie di film l’uno uguale all’altro. Invece la ricchezza e la varietà di interpretazioni che l’artista è stato capace di pro-porre rende le sue produzioni dei capolavori unici e originali.Le metafore, in quanto strategie concettuali che si usano per esprimere un concetto usandone un altro, vengono molto spesso utilizzate nel cinema per conferire alla produzione un senso di spessore e profondità. Indicano allo spettatore che il suo guardare il film non è fine a se stesso, ma implica una riflessione su ciò che il film trasmette, ciò che dice senza farlo vedere.

I concetti metaforici sono tuttavia strettamente legati all’aspetto culturale; è quindi un ulteriore ostacolo per il regista tentare di usare delle immagini che possano essere interpretate non solo dal pubblico giapponese, ma anche dal pubblico occidentale.La ricerca delle metafore che nei film richiamano il tema del rapporto uomo-natura richiede quindi un approccio scevro da ogni pregiudizio dettato dall’appartenenza culturale, altrimenti sarà difficile riconoscerlo come tale.È dunque interessante cercare di identificare quali siano le metafore che compaiono nei film, con l’obiettivo di porta-re lo spettatore ad impegnarsi in una riflessione profonda sull’argomento.Questo elaborato vuole interrogarsi su quali siano i domini fonte utilizzati da Miyazaki per esprimere il dominio target del rapporto uomo-natura. Verranno presi in considerazione i seguenti film: Principessa Mononoke, Il mio vicino Totoro, La città incantata, Nausicaä della valle del vento. Il focus si concen-tra sui film più conosciuti al pubblico occidentale perché sono quelli che rappresentano una minore difficoltà di interpretazione, caratteristica indicata anche dalla maggiore diffusione rispetto ad altre opere del regista, e perché sono quelli che presentano una maggiore ricchezza di metafore. La domanda di ricerca si può quindi sintetizzare in: “Qua-li metafore usa Miyazaki per trattare il tema del rapporto uomo-natura nei suoi più famosi capolavori?”.

“I’ve come to the point where I just can’t make a movie without addressing the problem of humanity as a part of an ecosystem.” Hayao Miyazaki

1998 (Wright e Clode, 2005, 48)

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59Esempio: Ne La città incantata, vincitore del premio Oscar al miglior film d’animazione 2003, si raccontano le vicende della piccola Chihiro, una bambina di 10 anni, e dei suoi genitori che, durante il trasloco dalla città ad una zona di campa-gna, capitano per sbaglio in un mondo popolato dagli spiriti della tradizione giapponese. I genitori della piccola, guidati da ignoranza e ingordigia, mangiano le offerte per gli spiriti e per punizione vengono trasformati in maiali (in questo si potrebbe vedere un parallelismo con la trasformazione in maiali dell’equipaggio di Ulisse da parte della maga Circe nell’Odissea). Chihiro, per salvarli dal loro triste destino, dovrà lavorare per la strega che li ha trasformati, Yubaba, che gestisce le terme presso le quali gli spiriti si recano in cerca di ristoro. Un giorno, alle porte delle terme si presenta uno spi-rito dall’aspetto rivoltante: è una massa informe di fango, con un’enorme bocca, due occhi profondi e vuoti, dei corti tenta-coli ed emana un terribile odore putrescente. Lo spirito viene definito come Spirito del Cattivo Odore da Yubaba, che affida a San (il cui vero nome è stato rubato dalla strega per sigillare il loro contratto di lavoro) l’ingrato compito di occuparsi dei bagni del nuovo maleodorante ospite. La bambina, mentre sta lavando lo Spirito, si accorge di qualcosa che sporge dal corpo fangoso. Con l’aiuto di alcune colleghe, San riesce ad estrarre l’oggetto, che si rivela essere il manubrio di una bicicletta. Assieme alla bicicletta, molti altri oggetti e sporcizia varia fuo-riescono dal corpo dello Spirito, rivelandone la vera identità: si tratta dello spirito di un fiume, che a causa dell’inquinamento causato dall’uomo, si è trasformato in uno Spirito del Cattivo Odore. Lo spirito, finalmente liberato, ringrazia la bambina con un dono e torna a vivere presso il suo fiume.In questo frammento possiamo identificare la metafora della metamorfosi dello Spirito del Cattivo Odore. Secondo il mo-dello di Lakoff e Johnson (Lakoff e Johnson, 2003 [1980]), il dominio fonte è la metamorfosi del personaggio, il cambia-mento, mentre il dominio target è il rapporto uomo-natura, nello specifico gli effetti dell’inquinamento. Inoltre la trovia-mo in un duplice aspetto: la prima metamorfosi avviene dallo Spirito del Fiume allo Spirito del Cattivo Odore, mentre la seconda avviene in maniera inversa. Questa doppia metafora rappresenta il rapporto uomo-natura perché ne evidenzia sia gli aspetti negativi che quelli positivi. La prima trasformazione dello Spirito del Fiume avviene a causa della sconsideratezza degli uomini, che gettando in esso montagne di oggetti e di spazzatura, lo inquinano a tal punto da trasformarlo in uno Spirito del Cattivo Odore. La reversione della metamorfosi avviene invece grazie al gesto ingenuo e ricco di buone inten-zioni di una bambina, che nell’aiutare lo Spirito, nonostante il terribile odore, lo riporta alla sua forma originale.Miyazaki, per questo personaggio, si è ispirato allo stato di molti fiumi del paesaggio giapponese, spesso inquinati dalla massiccia espansione edilizia, come nel caso di un fiume vi-cino al quale Miyazaki stesso è cresciuto. Ne La città incantata, Miyazaki crea una storia in cui le politiche ambientaliste, l’ec-cessivo consumismo (a fuoriuscire dal corpo dello Spirito sono per la maggior parte oggetti di consumo: lavatrici, biciclette, frammenti metallici, bidoni,…), il senso della condivisione dello spazio e la bonifica si intrecciano con eleganza (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54), senza però mai diventare il manifesto esplicito del film. Queste tematiche accompagnano lo svolgersi delle vicende, restando tuttavia ai margini della narrazione, senza mai risultare troppo prepotenti o invasive.

Analisi della letteratura

Il primo articolo, intitolato The ecological and consumption themes of the films of Hayao Miyazaki, è stato pubblicato dalla rivista Ecological Economics, una pubblicazione transdisciplinare che tratta delle relazioni che si instaurano tra economia ed ecologia. Essa è nata dall’esigenza di evitare l’isolamento delle

fonte: http://blog.orbeon.com/2011/03/switching-to-coffeescript.htmlfonte: http://blog.orbeon.com/2011/03/switching-to-coffeescript.html

due discipline, che ha portato in passato a politiche reciproca-mente distruttive piuttosto che a un mutuo rinforzo.L’articolo tratta di come vengano trattati ed inseriti i temi dell’ecologia e dell’eccessivo consumismo nelle opere di Hayao Miyazaki. Innanzitutto spiega di come la televisione e i film possano essere un utile mezzo all’interno del processo educa-tivo. In seguito pone il focus su come le opere del regista giap-ponese si adattino a questo scopo: “there is a great potential for important lessons to be learned from several of Miyazaki’s films with ecological and consumption themes” (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54, 2).Viene fornito un background di Hayao Miyazaki in cui si racconta il suo avvicinamento alla carriera nel mondo dell’ani-mazione, e anche l’avvicinamento alle tematiche ambienta-liste, guidate sia dalla tradizione giapponese dell’armonia con la natura, sia per la preoccupazione dell’artista per i bambini e all’eredità lasciata alla generazione futura.Vengono in seguito portati gli esempi di cinque pellicole del regista, in cui vengono evidenziati i contenuti legati all’eco-logismo e al rapporto tra uomo e natura. In conclusione, vengono proposti dei possibili utilizzi che si potrebbe trovare per questi film, per esempio come mezzo di esplorazione delle problematiche di economia ecologica contemporanee, o come spunto di riflessione per argomenti come l’inquinamento, la deforestazione, i costi ambientali.La ricchezza di esempi all’interno dell’articolo ha fornito molti spunti per la stesura di questo elaborato. Soprattutto l’analisi dei vari film ha messo in luce i punti in cui il mes-saggio ambientalista era più presente, e in che modo esso si manifestasse. Inoltre, il background su Miyazaki ha aiutato a formulare un’ipotesi sul perché egli abbia così spesso inserito la tematica del rapporto uomo-natura nelle sue opere e perché l’argomento gli sia così caro.Il secondo articolo, intitolato Animating child activism: Environ-mentalism and classpolitics in Ghibli’s Princess Mononoke (1997) and Fox’s Fern Gully (1992), è stato pubblicato nel 2012 dalla rivista Continuum: Journal of Media & Cultural Studies. La rivista ha lo scopo di scoprire nuove aree di indagine e pro-grammi di ricerca per i campi dei Cultural Studies e dei Media (Taylor & Francis, 2015).Nell’articolo viene fatto un confronto su come due argomenti come l’ambientalismo e le classi politiche vengano rappre-sentate in modi diversi, prendendo come esempi un film di Miyazaki (Principessa Mononoke, 1997) e un film hollywoodia-no, prodotto dalla Twentieth Century Fox (Fern Gully, 1992). Inizia parlando dell’uso del cinema come mezzo di sensibiliz-zazione dell’infanzia nei confronti delle tematiche ambientali, chiamato “children’s enviro-tainment” (Smith e Parsons, 2012, 25). Il paragone tra questi due film porta alla luce delle grandi differenze di utilizzo delle tecniche di animazione, di uso del melodramma, di rappresentazione dei personaggi. Tu-ttavia i film si assomigliano nel attribuire la distruzione della foresta non direttamente all’uomo, ma a forze soprannaturali che operano la devastazione come conseguenza del comporta-mento dell’uomo.Una grossa differenza che viene marcata è che la natura rappresentata da Miyazaki viene definita “sublime” (Smith e Parsons, 2012, 28) perché rappresenta la realtà, in tutta la sua bellezza e crudeltà, al contrario di quella di Fern Gully che viene definita “carina” (Smith e Parsons, 2012, 28).La realizzazione di Principessa Mononoke dovrebbe portare i bambini a pensare sia alla compassione per i meno fortunati che alla cura della natura, entrambi egualmente importanti. Queste due questioni vengono rappresentate da Lady Eboshi, che per offrire una vita dignitosa alle prostitute e ai lebbrosi che dimorano e lavorano nella Città del Ferro, sviluppa l’in-dustria abbattendo la foresta, mentre Mononoke e gli spiriti della foresta proteggono la natura e le piante, ma lo fanno attaccando e uccidendo gli abitanti della città. La complessità

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60 delle rappresentazioni di Miyazaki rende le sue opere molto ricche e cariche di potenziale interpretativo.Nell’articolo, vengono estratti gli elementi di Principessa Mo-nonoke in cui è presente il tema dell’ambientalismo, fornendo altro materiale sul quale basare le ipotesi di questo scritto.Il terzo articolo, intitolato Princess Mononoke and beyond: New nature narrative for children, è stato pubblicato nel 2013 sulla rivista accademica Interactions: Studies in Communication & Culture. La rivista “mira a incoraggiare lo sviluppo della più vasta comunità scolastica possibile sia in termini geografici che di scopi intellettuali nel campo dei media, della comuni-cazione e dei Cultural Studies” (Intellect, publisher of original thinking, 2015).L’articolo analizza gli elementi del film Principessa Monono-ke, facendo anche riferimento ad alcuni altri film di Miyazaki che rendono lo stile del regista adatto all’introduzione di problematiche ambientali e del rapporto uomo-natura ad un pubblico giovane. Come nell’articolo precedente, vengono evidenziati gli elementi che contengono le tematiche ambien-tali, ed in seguito viene analizzata la loro forza espressiva in rapporto allo stile di animazione e di narrazione che viene usato. L’autore dell’articolo si interroga sulla possibilità che le diverse rappresentazioni (tra quelle prodotte in occidente e quelle prodotte da Miyazaki ed poi importate in seguito) abbiano risultati diversi nel tentativo di rendere sensibili sulle tematiche trattate. Da un lato si domanda se la netta divisione tra Bene e Male, l’animazione molto appariscente e la conclu-sione chiara e definitiva dei film prodotti in stile disneyano non portino il pubblico ad una visione passiva e superficiale; mentre le tinte tenuti, i disegni a mano, i personaggi realistici (ci sono persone buone che commettono azioni sbagliate e ci sono cattivi che sbagliano ma con buone intenzioni) danno la possibilità agli spettatori di addentrarsi più in profondità nelle tematiche del film. Tuttavia, il ricercatore si interroga anche sul se la rappresentazione più vicina alla realtà di Miyazaki induca i genitori a pensare che non si tratti di prodotti adatti alla visione da parte dei figli, ritenendoli non pronti ad alcune sporadiche scene di violenza o alla non chiara distinzione tra Bene e Male. Questo rifiuto rappresenta un ostacolo a priori per i bambini.Anche in questo caso, la messa in luce degli esempi di rap-presentazioni dell’ambientalismo e del rapporto uomo-natura all’interno dell’articolo, hanno provveduto a fornire spunti di riflessione sull’analisi delle metafore contenute nei film.

Ipotesi di risposta

Nei suoi maggiori capolavori, Miyazaki fa uso di molte metafore legate al tema del rapporto tra uomo e natura. Le metafore legate ai personaggi le troviamo in tutte e quattro le produzioni, identificabili con Mononoke e Lady Eboshi in Principessa Mononoke (Thevenin, 2013, 4 [2]), lo Spirito della Foresta Totoro e le sorelle Satsuki e Mei in Il mio vicino Totoro (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54), lo Spirito del Cattivo Odore e Maestro Haku ne La città incantata (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54), Nausicaa e l’Hukai (il Mare della Putrefa-zione che, pur essendo un dispositivo, viene personificato in quanto tenta di purificare il terreno dalle tossine) in Nausicaä della valla del vento (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54). Molte altre metafore possono essere trovate nei film, come la Città del Ferro di Lady Eboshi, che rappresenta l’espansione edilizia e industriale che minaccia gli ecosistemi (Smith e Parsons, 2012, 26 [1]). Un altro esempio può essere identifi-cato con la maledizione che affligge il giovane eroe Ashitaka,

che può essere interpretata come la rappresentazione delle conseguenze della mancanza di rispetto alla natura: Eboshi spara ad uno Spirito Cinghiale che perde il senno in seguito alla ferita e, quando questo attacca il villaggio di Ashitaka, il ragazzo lo abbatte, ma viene infettato da una maledizione trasmessagli dallo Spirito nata dall’odio e dal rancore che esso nutriva per gli uomini, e che è destinata a consumare Ashi-taka, portandolo alla morte (Smith e Parsons, 2012, 26 [1]).La massiccia presenza di spiriti della natura si può ricondurre alla tradizione giapponese, ma anche alla volontà di Miya-zaki di operare un riavvicinamento tra l’uomo e la natura: parlando de Il mio vicino Totoro, sostiene di sperare che il suo film portino i bambini a comportarsi come le sorelline del film, correndo e giocando nella foresta (Mayumi, Solomon e Chang, 2005, 54).

Piano di ricerca

Per identificare le metafore utilizzate da Miyazaki nei suoi film, si potrebbe sviluppare un’analisi delle immagini basata sul modello di Lakoff e Johnson (Lakoff e Johnson, 2003 [1980]), grazie al quale si potrebbero identificare i domini fonte all’interno dei film, per poi ricondurli ai loro domini target. Il campione utilizzato per questa analisi sarebbe for-mato da quattro film creati dal regista: Principessa Mononoke, Nausicaä della valle del vento, La città incantata, Il mio vicino Totoro. La scelta di questo campione è dettata da due motivazioni: in-nanzitutto dall’evidente presenza di tematiche ambientaliste e legate al rapporto uomo-natura all’interno di tutte e quattro le produzioni, e in secondo luogo perché si tratta dei film che hanno avuto più successo e riconoscimento anche nel mondo occidentale (rispetto alle altre animazioni di Miyazaki).La ricerca comporterebbe la visione delle opere, ed in seguito l’indagine su quali elementi del film rappresentino un modo per esprimere un’argomentazione sulla tematica del rapporto tra uomo e natura. L’analisi potrebbe dividere gli elementi identificati in varie categorie: personaggi, paesaggi, narra-zione, dialoghi, contesto storico(periodo di svolgimento della storia), contesto spaziale (luogo in cui si svolge la storia), contesto culturale,…Il fatto che l’argomento del rapporto tra uomo e natura sia molto caro ad Hayao Miyazaki, lo porta ad inserire questo tema in moltissime delle sue produzioni. Questo rende possi-bile, nel caso si necessitasse di ulteriori dati per la ricerca, di attingere all’enorme produzione dell’artista per trovare altri elementi che rimandano a quell’argomento. Oltre ad aver diretto personalmente una dozzina di film d’animazione, Miyazaki ha sceneggiato, animato, curato la scenografia, illus-trato, prodotto molte decine di produzioni tra lungometraggi e cortometraggi. La fonte dalla quale attingere a nuovi elementi per il campione è dunque molto ricca, e può fornire una quan-tità di dati supplementari alla ricerca.

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Hayao Miyazaki: rapporto uomo-natura tra favolae metaforaOttavia Gaggini

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61Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Il ruolo della metafora nella meccanica quantisticaMattia Gianinazzi

Il ruolo della metaforanella meccanica quantistica

Introduzione

Le numerose ricerche sulla metafora condotte negli ultimi decenni, in particolar modo la teoria cognitiva della metafo-ra di Lakoff e Johnson (1980), hanno portato all’attenzione della comunità scientifica internazionale la rilevanza di que-ste manifestazioni linguistiche anche nei processi cognitivi umani: secondo i due autori infatti, la metafora non si limita ad essere una proprietà del linguaggio, un mero abbellimen-to retorico, ma è anche parte del pensiero umano. La meta-fora è quindi un fenomeno concettuale, ovvero in grado di modellare determinati domini concettuali sulla base di altri: uno “strumento” del pensiero a tutti gli effetti che permette all’essere umano di accedere a concetti astratti e complessi grazie ad altri di cui ha una comprensione direttamente derivata dall’esperienza fisica (Lakoff e Johnson, 1980).Partendo da questa teoria che vede la metafora come chiave di volta dell’accesso ad una conoscenza che vada oltre l’esperienza fisica umana, può essere interessante valutare il suo contributo nella comprensione di domini molto astratti come quelli delle scienze sperimentali. In particolare, par-tendo da alcune esperienze personali fatte nella mia carriera di studente, penso che la metafora possa giocare un ruolo determinante nella comprensione della fisica quantistica, che, a parer mio, è attualmente una delle branche della fisi-ca più lontane dall’esperienza quotidiana umana.

La domanda di ricerca

La fisica quantistica è considerata comunemente come qualcosa che difficilmente si può comprendere e immagina-re. Famosa è la frase del fisico statunitense Feynman (1965, 129) “I think I can safely say that nobody understands quantum mechanics”. La teoria si caratterizza infatti di un formalismo molto elevato e complesso, fatto di simboli sconosciuti e le operazioni matematiche analitiche più sem-plici, risolvibili senza un computer, vengono spesso imparate meccanicamente “a memoria”, con la frustrante consapevo-lezza di una mancata comprensione globale del perché un determinato calcolo risulti in un dato particolare, soprattut-to tra gli studenti.Questa percezione condivisa di non comprensione dell’ap-proccio che la fisica quantistica utilizza nell’interpretare il mondo e i suoi fenomeni può essere un sintomo piuttosto evidente di un’incapacità mentale, linguistica e metaforica,

di concettualizzarla attraverso dei riferimenti di percezione fisica quotidiana. Dove sta dunque il problema? In che modo la teoria sulla metafora concettuale di Lakoff e Johnson può dare un contributo in questo campo? Personalmente non credo che il limite principale sia che ad oggi non sia stato ancora trovato un dominio concettuale di origine effica-ce, adatto a interpretare la teoria (una “buona” metafora) perché probabilmente non esiste: frequentemente nella fisica è necessario utilizzarne più di uno per arrivare ad una comprensione dei fenomeni (Brookes e Etkina 2007).Inoltre si può ipotizzare che a questi livelli di complessità sia neces-sario considerare anche i limiti del linguaggio nell’essere in grado di descrivere e rappresentare la realtà.La mia domanda di ricerca consiste dunque nel valutare se una maggiore conoscenza generale del ruolo del linguaggio e della metafora nella fisica quantistica, in particolare di come opera la metafora concettuale, possa portare le persone, in particolare gli studenti, a una maggiore comprensione di questa teoria fisica.

Esempi dell’oggetto di analisi

Le teorie fisiche sono dei modelli complessi e molto articola-ti del sapere scientifico, difficilmente condensabili in pochi paragrafi di testo, per cui si è scelto un approccio di analisi che indaghi come questa teoria viene introdotta: se e in che misura, nel processo di trasmissione di questo sapere, viene posta l’attenzione sul ruolo del linguaggio e delle metafore. Bisogna specificare che, date le evidenti limitazioni di questa ricerca, non è possibile fornire delle considerazioni oggettive e generalizzabili in senso scientifico. L’intento principale è di presentare degli esempi di attuali processi o schemi divul-gativi.Si è scelto come soggetto d’analisi delle dispense ufficiali di una lezione di meccanica quantistica del Prof. K. Konishi presso l’Università degli Studi di Pisa.Dispense lezione universitariaQuesto materiale didattico (Konishi 2002) di 270 pagine si pone l’obiettivo di introdurre e fornire gli strumenti concet-tuali necessari agli studenti per essere in grado di capire e poi applicare la teoria a esercizi e problemi analitici di base. È strutturato in 19 capitoli principali, tutavia, ai fini della seguente analisi, è stato preso in considerazione solo il ca-pitolo introduttivo in cui l’autore pone le basi interpretative della nuova teoria confrontandola con quella classica.

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62 Il tema viene introdotto facendo subito una premessa (pag.6):

(1a) “Il comportamento delle particelle quantistiche è in molti aspetti straordinario, dal punto di vista delle nostre esperienze quotidiane, siano esse un elettrone, un protone, un atomo o una molecola.”

Viene innanzitutto definita sommariamente la classe delle “particelle quantistiche” come un insieme che raggruppa elettroni, protoni, atomi e molecole senza che venga data una spiegazione del significato di “quantistico”: si tratta di un aggettivo che descrive la qualità di queste particelle? Il loro comportamento? Oppure si riferisce alle loro dimensioni? Esistono particelle non-quantistiche? Sorgono spontanei degli interrogativi piuttosto essenziali alla comprensione dell’oggetto di studio della teoria. È pensabile che man mano che si procede nella lettura questi dubbi possano risolversi.L’aspetto principale però da sottolineare è una sorta di avver-timento che il mittente fa al destinatario con questo enun-ciato: il comportamento di queste particelle è “straordinario” rispetto alle “nostre esperienze quotidiane”. Qui ritroviamo degli elementi che si possono chiaramente ricondurre alla teoria della metafora concettuale di Lakoff e Johnson (1980): c’è un’allusione implicita alla necessità umana di costruire i concetti astratti attraverso dei domini concettuali d’ori-gine fondati sulle esperienze quotidiane (fisiche) e questo avvertimento tenta, implicitamente, di avvisare il lettore che difficilmente questa teoria può essere interpretata attraverso la nostra concezione comune di come funziona il mondo. Tuttavia questo pensiero non viene sviluppato in termini espliciti facendo riferimento al linguaggio e alla mediazione delle metafore nella costruzione della teoria quantistica.Un’ultima considerazione sulla prima metafora che apre queste dispense: particelle come entità che si “comporta-no” in un determinato modo. Qui queste entità microsco-piche vengono interpretate come capaci, in modo analogo agli esseri viventi, di un comportamento, un modo di agire in funzione di determinate situazioni o contesti. Il domi-nio concettuale d’origine del comportamento di un essere vivente viene applicato al dominio concettuale di destina-zione delle particelle elementari (non-viventi) per descrivere i processi fisici e le logiche che le coinvolgono (tra di loro e con l’ambiente esterno).Il capitolo prosegue portando degli esempi dei limiti di alcune teorie della fisica “classica” nello spiegare determi-nati comportamenti osservabili in natura. Tuttavia queste esemplificazioni non fanno riferimento alla premessa iniziale del “comportamento straordinario” delle particelle quanti-stiche, si limitano a dimostrare che le teorie “classiche” non sono in grado di spiegare determinati fenomeni (cosa che invece la meccanica quantistica riesce a fare). Ecco che il filo del discorso diventa subito difficile da seguire e il lettore, a parer mio, non è sufficientemente guidato nel percorso di comprensione della teoria. Non si capisce il riferimento del comportamento “straordinario” delle particelle: rispetto alle esperienze quotidiane dell’essere umano o rispetto alle teorie della fisica classica? Viene presupposto forse che le teorie della fisica classica si possano considerare interpretazioni na-turali e facilmente rappresentabili dall’essere umano tramite le sue esperienze quotidiane?Attraverso questi esempi, in più parti vengono forniti altri elementi che permettono di definire che cosa si intenda con meccanica quantistica:

(1b) “[…], in meccanica quantistica tutti i moti (clas-sicamente) periodici sono “quantizzati”: solo alcuni “stati” sono permessi.”

(1c) “In Meccanica Quantistica esiste una costante

fondamentale[…], [che] caratterizzerà l’intera costru-zione della Meccanica Quantistica.”

(1d) “Arriviamo quindi ad una conclusione apparente-mente paradossale, che l’elettrone è una particella ma si comporta allo stesso tempo come un’onda (“dualità onda-corpuscolo”).”

In (1b) è interessante notare l’uso del virgolettato da par-te dell’autore (“quantizzati” e “stati”), sembra esserci una consapevolezza dell’uso di metafore per la descrizione della teoria senza però esplicitare il motivo e l’implicazione che questi virgolettati, queste metafore, comportano. Ritroviamo il termine “quantizzato” riferito al moto degli elettroni intorno al nucleo dell’atomo, qui riportato come se fosse una metafora ma la maggior parte delle volte nel testo questa enfasi non viene riproposta. È presente in questo caso una prima defini-zione di che cosa si intenda per “quantizzato”, ci si riferisce a degli “stati che sono permessi”. Vi è quindi un primo indizio di una caratteristica della meccanica quantistica: la presenza di stati del sistema fisico, il suo essere in un certo modo, e questi modi sono ben definiti, quantizzati appunto, numera-bili e “permessi”. Vi è anche in questo caso l’utilizzo di una metafora: l’essere del sistema in un certo modo è permesso o non permesso.In (1c) vi è presente una metafora che ricorre molto spesso nella definizione delle teorie: la metafora della teoria come un edificio che viene costruito.Con (1d) risulta molto evidente la necessità della fisica in generale di ricorrere a delle metafore per rappresentare le teorie e il comportamento della materia che queste vogliono interpretare. Il dualismo onda-particella è molto conosciuto: ci sono determinati fenomeni di queste particelle che pos-sono essere interpretati considerandole a volte onde, a volte particelle. Dal punto di vista delle nostre esperienze quotidia-ne le due proprietà sono mutualmente esclusive: visivamente un’onda è completamente diversa da una particella, eppure le teorie della fisica sembrano suggerirci che a livello microsco-pico un’entità può essere entrambe le cose contemporanea-mente.Il capitolo introduttivo si conclude affermando che la fisica classica non è in grado di spiegare molti comportamenti dei sistemi microscopici, come dimostrato dagli esempi fisici pre-senti nel capitolo, a queste difficoltà la meccanica quantistica è in grado di dare una risposta molto “coerente” ed “elegante” (pag.11).

Da questa analisi risulta piuttosto evidente come:• viene posta in generale poca attenzione al linguaggio;• il lettore viene avvertito solo sommariamente delle dif-

ficoltà in termini di comprensione tramite l’esperienza quotidiana che questa teoria comporta;

• il senso del discorso non è lineare e il lettore non è accom-pagnato in questo percorso;

• vi sono presenti diverse metafore per descrivere le due teorie (classica e quantistica) tuttavia non c’è una piena consapevolezza del loro uso da parte del mittente;

• non siano presenti metafore visive (grafici, illustrazio-ni,…) a complemento della descrizione della meccanica quantistica.

Analisi della letteratura

Gli studi sulla metafora applicata al campo scientifico non sono pochi, un fatto che dimostra come le prime riflessioni sulla metafora concettuale proposte da Lakoff e Johnson siano state feconde per una serie di applicazioni della loro metafora concettuali a numerosi capi e settori del sapere umano. Qui di

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63seguito sono presentati alcuni studi utili a dare un tentativo di riposta alla mia domanda di ricerca.

Lo studio più mirato ai fini di questo paper e il principale al quale intendo riferirmi è stato condotto da David T. Broo-kes e Eugenia Etkina (2007) e si intitola “Using conceptual metaphor and functional grammar to explore how language used in phyisics affects student learning”.Il loro obiettivo è stato quello di esplorare il ruolo del lin-guaggio nel campo della fisica, in particolare in riferimento alla teoria della meccanica quantistica, e di sviluppare una teoria in grado di descrivere in che modo questa scienza spe-rimentale utilizza la lingua e nello specifico le metafore per rappresentare le idee.Lo studio viene introdotto con una serie di constatazioni di base sul ruolo del linguaggio nella rappresentazione dei con-cetti: una delle prime abilità che gli studenti devono essere in grado di sviluppare è la rappresentazione di idee e processi fisici in modi diversi e sapersi districare in queste rappresen-tazioni (Brookes e Etkina 2007). La domanda di ricerca che si pongono è dunque quale sia l’influsso delle rappresenta-zioni linguistiche che utilizzano i fisici (qui anche inclusi i professori)nelle difficoltà degli studenti. L’ipotesi principale è che parte delle difficoltà degli studenti è riconducibile ad una loro difficoltà nella comprensione del linguaggio. Al fine di verificarla i ricercatori hanno condotto delle analisi ap-profondite dell’utilizzo delle metafore in diversi contesti: dei libri di testo, interviste con vari professori e video di studenti che lavorano a problemi di fisica quantistica. In particolare sono stati tracciati due sistemi metaforici della quantomec-canica ossia la metafora della buca-di-potenziale e la meta-fora di Bohm, dalla loro origine come analogie, fino all’uso nel linguaggio quotidiano da parte dei fisici. Per ognuna di queste metafore hanno quindi evidenziato le difficoltà emerse dagli studenti. In diversi casi gli esperimenti condotti hanno evidenziato la comune tendenza degli studenti ad applicare un’interpretazione troppo letterale e inappropriata delle metafore che si traduce in una mancata comprensione dei fenomeni. Proprio per la caratteristica delle metafore concettuali di collegare due domini distinti, descritta da Lakoff e Johnson (1980), gli studenti tendono ad estendere in maniera eccessiva il dominio di origine a quello di desti-nazione (la meccanica quantistica) con l’effetto di arrivare a conclusioni errate (Brookes e Etkina 2007). Un secondo studio che riprende l’analisi del ruolo delle metafore nel contesto dell’insegnamento della scienza in generale è stato condotto da Lynne Cameron (2002) e si intitola “Metaphors in the learning of Science: a discourse focus”.L’obiettivo di questo studio era quello di identificare i fattori che determinano un utilizzo efficace delle metafore nell’insegnamento della scienza. Come soggetto d’analisi è stata scelta una classe di giovani studenti dell’età di circa 10 anni alle prese con la comprensione del tema dello stra-to d’ozono che circonda l’atmosfera terrestre. Sono state quindi registrate in diversi momenti su una scala temporale di due mesi le discussioni tra gli studenti e tra studenti e il professore ed è stato valutato il ruolo delle metafore usate nella comprensione del fenomeno da parte degli studenti.Dall’analisi di queste registrazioni sono emerse alcune con-siderazioni su come rendere più efficace l’uso delle metafo-re, e quindi la comprensione dei fenomeni, in tali contesti. Il risultato emerso, più rilevante ai fini di questo paper, è l’importanza che il dominio concettuale d’origine sia intro-dotto agli studenti come esplicitamente metaforico e che le connessioni tra i due domini abbracciati dalla metafora siano rese anch’esse esplicite. Inoltre si è visto come dei suppor-ti visivi possano essere un valido supporto nell’esplicitare queste connessioni.

Il tema dei supporti visivi per superare le barriere concet-tuali della fisica quantistica ricorre frequentemente in diverse pubblicazioni (Cameron 2002; Goff 2006; Singh et al. 2006; Thaller 2000). Più volte il suo potenziale effetto viene valutato positivamente perché permette agli stu-denti di visualizzare e quindi dare una rappresentazione visiva ai fenomeni: attività che abbiamo già visto essere una delle prime a cui lo studente di fisica si dedica nell’ap-proccio alla comprensione delle teorie (Brookes e Etkina 2007). Tuttavia sarebbe semplicistico definirla la soluzione al problema della difficile comprensione della meccanica quantistica: grafici, tabelle e animazioni sono anch’essi metafore concettuali, solo che si esprimono attraverso il canale visivo e non con il linguaggio. Frieda A. Stahl (1987) sostiene infatti che queste metafore non-verbali o visive hanno una struttura di rappresentazione comparabile a quella della lingua: le equazioni matematiche, per esempio, sono anch’esse una metafora. Si può dunque pensare che anche queste metafore visive possiedano gli stessi limiti di quelle verbali, e che quindi vi sia anche per questo tipo il rischio ben evidenziato da Brookes e Etkina (2007) di una possibile generalizzazione del dominio di origine (in questo caso il grafico o l’animazione) a quello di destinazione con i possibili errori che ne comporterebbe.

Ipotesi di risposta alla domanda di ricerca

Dall’analisi della letteratura emergono dei risultati utili ad ipotizzare una possibile riposta alla domanda di ricerca formulata.Molti degli errori concettuali comuni agli studenti sono da ricondurre, secondo Brookes e Etkina (2007),a una loro interpretazione delle metafore utilizzate nel linguaggio fisico troppo letterale, applicando quindi in modo inappropriato logiche proprie del dominio concettuale d’origine a quello di destinazione. In linea con questi risultati, lo studio condotto da Lynne Cameron (2002) sottolinea come sia importante, al fine di rendere efficace l’uso delle metafore in ambito scien-tifico, che agli studenti venga segnalato in modo esplicito il dominio concettuale d’origine insieme alle connessioni rile-vanti tra i due domini, rendendo quindi la metafora esplicita nel discorso.Sintetizzando quindi i risultati emersi da quest’analisi viene reso evidente come le metafore usate per descrivere deter-minati fenomeni fisici, in particolare riferimento alla fisica quantistica, possono causare importanti difficoltà nel pro-cesso di apprendimento, soprattutto se gli studenti non sono consapevoli di perché e con quali limiti determinati termini metaforici sono stati utilizzati. Dall’analisi eseguita sulle di-spense della lezione del Prof. K. Konishi è emerso inoltre come in questo esempio non sia presente una particolare attenzione all’uso delle metafore utilizzate, né più in generale alla cura del linguaggio e del senso del discorso.Sulla base di queste considerazioni penso si possa afferma-re che fornire agli studenti una maggiore consapevolezza di come operi la metafora concettuale all’interno del linguaggio e nella descrizione della meccanica quantistica, esplicitando i meccanismi con cui opera, i suoi limiti e caratteristiche, possa contribuire ad aumentare la loro comprensione di questa teoria fisica. Nello specifico si potrebbe proporre di affiancare ai corsi di fisica un corso “laboratorio” sul linguaggio scientifico in cui si affronti la teoria della meta-fora concettuale di Lakoff e Johnson (1980) ma non solo, in generale penso sia utile poter discutere in maniera esplicita dei limiti del linguaggio come strumento di rappresentazione del mondo.

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Per verificare in maniera scientifica l’ipotesi proposta di solu-zione parziale al problema della difficile comprensione della teoria della meccanica quantistica da parte degli studenti, si potrebbe organizzare uno studio che, su una scala temporale di più anni, indaghi l’effetto dell’introduzione di questo corso-laboratorio del linguaggio parallelamente ai corsi di fisica. È importante in questa circostanza isolare il più possibile la variabile “corso-laboratorio del linguaggio” mantenendo le altre identiche: età ed estrazione sociale degli studenti, le loro conoscenze di fisica pregresse, programmi di insegnamento di fisica standardizzati (inclusi test di valutazione), ecc. Attraverso quindi un’analisi comparativa dei risultati ottenuti dal gruppo a cui è stato sottoposto in parallelo il corso-la-boratorio del linguaggio con quelli dell’altro gruppo sarebbe possibile arrivare ad una verifica della proposta fatta.

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Il ruolo della metafora nella meccanica quantisticaMattia Gianinazzi

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65Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Caratteristiche dell’azienda moderna attraversol’utilizzo della metafora della jazz-bandCorinne Gobert

Caratteristiche dell’aziendamoderna attraverso l’utilizzodella metafora della jazz-bandIntroduzione

La metafora è un processo cognitivo che gli esseri uma-ni mettono in atto per concettualizzare – quindi capire e parlare di – aspetti della realtà astratti e/o difficili da spiegare letteralmente. La metaforizzazione viene anche usata per descrivere entità reali e tra di queste è certamente presente l’azienda, un’entità complessa, la cui struttura può variare dalla semplice impresa a conduzione familiare fino ad un franchising presente in tutto il mondo. Essa è inoltre colle-gata a mercati, stakeholders e svariati altri attori. Osservare e descrivere l’azienda nella sua complessità dunque, è compito arduo.Per comprendere appieno i processi, il funzionamento e le altre caratteristiche che la contraddistinguono, nel corso degli anni sono usate diversi tipi di metafore. Per esempio, la metafora che descrive l’azienda come una macchina e quella che la vede come un organismo vivente.Esistono poi molte metafore sempre per descrivere le aziende legate al mondo della musica. Sono state prese in considerazione per esempio la dissonanza (Burgelman and Grove 1996), la polifonia (Hazen 1993), i tempi (Albert e Bell 2002) ed altre caratteristiche.Nel caso specifico, l’oggetto di interesse di questa ricerca è la metafora dell’azienda come una jazz band. Questo tipo di metafora è stata trattata da diverse ricerche scientifiche ed esiste perfino un format di consulenza aziendale fondato su di essa. La scelta parte da un interesse personale.

Domanda di ricerca

La metafora della jazz-band è stata di recente e sempre più spesso usata per descrivere alcune caratteristiche salienti necessarie alle aziende moderne per avere successo. Tanto è vero che ricercando la letteratura legata a questo tema, si evince che gli studi che la riguardano partono generalmente dagli anni 90, anche se esistono dei riferimenti antecedenti a questa data. Essa è stata trattata da svariati studiosi in modo diverso. In particolare, Karl E. Weick e Mary Jo Hatch l’hanno analizzata in più articoli scientifici.

Come ogni altro oggetto di interesse, la metafora della jazz band può essere investigata secondo visioni e interrogativi diversi; proprio grazie al fatto che si tratta di un oggetto di

studio relativamente recente, questo tema ha un grande potenziale di sviluppo di ricerca in quanto molte caratteristi-che non sono ancora state trattate o se invece lo sono state, possono essere ulteriormente sviluppate. Infatti fattori come la sua nascita, lo sviluppo successivo, la struttura che la caratterizza, gli effetti che questa metafora può avere sulla letteratura aziendale e molti altri ancora possono essere studiati.In particolare ciò che suscita interesse in questo caso è ca-pire come questa metafora venga utilizzata nella letteratura scientifica. L’obbiettivo principale di questo position paper infatti è quello di capire quali aspetti delle aziende vengono concettualizzati attraverso l’utilizzo della metafora della band jazz e quali di essi si reputino perciò importanti per un’azienda moderna di successo.La domanda di ricerca in forma sintetizzata è quindi: Quali caratteristiche delle aziende moderne sono rappresentate/concettualizzate dalla metafora della jazz-band?

Esempio dell’oggetto di analisi

Come esempio appare utile prendere degli articoli che parlino delle aziende del giorno d’oggi. Il primo di essi è un articolo pubblicato su varesenews.it il 25 marzo 2010. In esso si dice che: «Il jazz può insegnare alle imprese il senso del gruppo, l’importanza del lavoro di squadra e la capa-cità, quando si rende necessario, di improvvisare, facendo emergere le doti di leadership. Le tecniche usate dalle band possono essere viste come metafora di un’organizzazione aziendale efficiente, improntata alla competitività» (Leonar-di 2010).

È inoltre presente uno scorcio di intervista a Erika Leonardi, consulente, formatrice e autrice di testi legati al marketing e alla gestione aziendale. È inoltre creatrice di un format di consulenza aziendale basato sulla metafora della band jazz. Qui di seguito la sua affermazione:«La musica jazz – ha spiegato Erika Leonardi – è il risultato di un mix di regole che si basano sulla flessibilità, l’im-provvisazione vista in senso positivo e creativo, e capacità di lavorare in squadra». Bisogna saper suonare in gruppo, ma anche sapere fare l’assolo quando serve. Dal comples-so si stacca l’esibizione del singolo musicista. Il clarinetto

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66 improvvisa con competenza, dando sfogo alla creatività. È l’indispensabile capacità di leadership che deve emergere in azienda al momento opportuno. «La bravura del singolo, però, – ha sottolineato Erika Leonardi– è esaltata solo perché c’è un gruppo che è alle spalle. La stecca, se arriva, è coperta dalla band pronta a intervenire per coprire il difetto, l’errore”. Il jazz funziona così. Il pubblico non si rende conto di nulla. La lezione per le imprese è che “il senso di squadra permette di massimizzare il risultato e l’utilizzo delle risorse» (Leonardi 2010).Un altro esempio adatto a mostrare il tipo di metafora che si vuole analizzare in questo position paper proviene da un blog. Più precisamente di tratta di un’intervista a Gabriele Valli, amministratore di startupinjazz.it, un blog in cui ha deciso di offrire tutta la sua esperienza sotto forma di consigli e pillole di saggezza. Nell’intervista egli diche che: «Il jazz si fonda su tre principi: improvvisazione, band e divertimento. Improvvi-sazione non significa fare le cose senza organizzarsi, ma essere flessibili e capaci di affrontare gli imprevisti. La band è il team: nel jazz tutti possono essere leader e protagonisti. Così anche nelle startup non ci sono gregari, ma bisogna coinvolgere tutti nelle scelte decisive, avere feedback continui dal team e dal pubblico. Per ultimo il divertimento: bisogna imparare mettersi in discussione, vivere le cose con maggiore leggerezza. Anche quando si fallisce, c’è sempre un insegnamento utile per la vita» (Millionaire Digitale 2013).Questi due esempi introducono alcune delle caratteristiche delle aziende moderne analizzate attraverso la metafora della jazz band. Si possono inoltre capire quali sono i tre pilastri di questa metafora: flessibilità, improvvisazione ed il gruppo di lavoro.

Analisi della letteratura sul tema

Mary Jo Hatch è una professoressa che collabora con molte università e che ha pubblicato più di 75 articoli scientifici. Si occupa principalmente di corporate branding, teorie orga-nizzative e identità aziendale. (IEDC-Bled School of Mana-gement 2015). Un altro suo interesse è appunto la metafora dell’azienda come una band jazz, che ha trattato in svariati testi. In questo position paper verrà preso in esame “Exploring the Empty Spaces of Organizing: How Improvisational Jazz Helps Redescribe Organizational Structure” (Hatch 1999).In questo articolo si afferma che i tradizionali concetti di struttura organizzativa sono sempre meno adeguati per descrivere le aziende del giorno d’oggi, che diventano sempre più adattabili e flessibili a causa del mercato globale. Per questo motivo Hatch cerca di ridescrivere il concetto di struttura organizzativa con una metafora, più precisamente con la per-formance jazz improvvisata. Prima di analizzare la metafora è necessario dare una spiegazione di base del jazz.Il jazz è distinto dagli altri generi musicali per l’improvvisa-zione. Solitamente infatti nelle performance live si suonano dei brani formati da degli arrangiamenti musicali chiamati “teste”. Queste “teste” definiscono una sequenza di accordi, una certa melodia, un certo tempo e possono essere suona-te in ogni chiave, con differenti ritmi e armonie alterate. La “testa” viene suonata all’inizio del brano e ripetuta alla fine, mentre il corpo del pezzo è costituito dall’improvvisazione sulla base dell’idea iniziale la cui struttura è mantenuta per tutta la durata del pezzo. L’improvvisazione è data dagli assoli dei musicisti. Il ruolo di solista è assunto dai vari musicisti a turno e dà l’opportunità di prendere per qualche momento il comando del pezzo e introdurre nuove idee in grado di portarlo avanti. Mentre il solista si esibisce, il resto della band ac-compagna il tutto fornendo supporto ritmico. Il solista lascia degli spazi vuoti mentre suona, permettendo così alla band di dare dei suggerimenti. Nel jazz infatti l’ascolto gioca un ruolo fondamentale in quanto prevedere l’improvvisazione è molto

difficoltoso. É importante dire che nel jazz la struttura del brano serve per essere modificata. Essa è dinamica, implicita, ambigua; infatti la direzione che prenderà il brano viene deci-sa al momento (Hatch 1999).La struttura aziendale viene vista allo stesso modo: ambigua, emozionale e temporanea. L’ambiguità consiste negli spazi vuoti lasciati dalle incongruenze sugli obiettivi, disaccordo sui metodi o sulle spiegazioni e sul cambio organizzativo. Questa ambiguità della struttura aziendale aiuta sia l’unicità in quan-to supporta diversi contributi e fornisce abbastanza unità per supportare le interpretazioni dei vari membri. Un uso effica-ce dell’ambiguità comporta il sapere ascoltare e rispondere, come nella jazz-band. Le emozioni vengono usate per creare relazioni di lavoro in un teamwork e per comunicare. Infine il tempo è importate perché, come i brani vengono suonati in un determinato ritmo, i gruppi di lavoro funzionano allo stesso modo. Cambiare il ritmo quindi può essere dannoso. Un altro aspetto del tempo è il lavoro simultaneo: quando i teamwork lavorano all’unisono, le idee e le capacità si uniscono accre-scendo il potenziale del lavoro (Hatch 1999).Karl Weick è un studioso famoso per molti concetti, tra cui il “sensemaking”, trattato anche nel corso “Comunicazione e Management”. Nel suo articolo “Improvisation as a Mindset for Organizational Analysis” (1998) Weick usa l’improvvisazione del jazz per parlare di altri ambienti come la conversazione, la terapia e le relazioni di comando. Egli dice che migliorando l’improvvisazione si migliora la memoria, che a sua volta aiuta a ad avere un maggiore accesso retrospettivo a risorse. Una buona improvvisazione richiede il saper ascoltare gli altri e basarsi su ciò che è stato detto per costruire qualcosa.Weick (1998) tratta anche del manager. Le attività manage-riali infatti sono dominate dalla conversazione, quindi sono improvvisate. Il manager condivide con il musicista jazz la riflessione e l’azione simultanea, la creazione e la conformità contemporanea delle regole, l’attesa di risposte, la continua combinazione di ciò che ci si aspetta e novità e grande fiducia nell’intuitività e nell’immaginazione; quindi le loro attività sono controllate ma non premeditate.È altrettanto utile trattare brevemente le due metafore principali usate negli studi aziendali per capire in che cosa si differenzia la metafora protagonista di questo paper.La metafora meccanicistica vede l’azienda come una macchina che lavora secondo una regolarità dettata dalla sua struttura (Gharajedaghi & Ackoff 1984).La sua caratteristica principale è la prevedibilità. La macchina inoltre ha un preciso obbiettivo e le sue performance posso-no essere calcolate. Il suo creatore è a conoscenza di tutte le operazioni al suo interno e ne conosce tutte le potenzialità. Gli impiegati al suo interno sono considerati come parti intercam-biabili nella macchina e ognuno di loro ha la propria funzione ed il proprio ruolo. È importante notare che gli individui in questo tipo di concezione non hanno importanza presi da soli ma solamente come parte dell’intero. (Kendall & Kendall 1993).La metafora dell’organismo invece verte su punti in contrasto con la metafora precedente. A differenza della macchina infat-ti, un organismo è vivo e quindi può nascere, crescere, am-malarsi e addirittura morire. La struttura al suo interno non è dominata dal caos ma nemmeno totalmente ordinata: la sua crescita difatti dipende da forze esterne che non possono esse-re sempre controllabili. Di conseguenza l’organismo deve esse-re in grado di adattarsi all’ambiente per poter sopravvivere. In questo tipo di azienda è necessario che ci sia un leader in grado di innovare l’impresa, capacità alla base dell’adattamento, ed al tempo stesso di occuparsi di essa. Infine, è molto difficile prevedere in che modo questo tipo di azienda si svilupperà nel tempo (Kendall & Kendall 1993).Grazie a quest’ultimo punto preso in analisi, si può affermare che queste due metafore, colonne portanti della teoria azien-

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67dale, hanno poco a che fare con la metafora presa in analisi in questo position paper: la prima infatti parla di un’azienda molto strutturata che non lascia nulla al caso, mentre la se-conda descrive un tipo di impresa estremamente flessibile che continua a modificarsi per poter sopravvivere nel suo ambien-te. Nella metafora qui trattata invece si parla di un’azienda che possiede una base possente su cui è possibile effettuare dei cambiamenti “improvvisandoci” sopra.

Ipotesi di risposta

Sono numerose le caratteristiche di un’azienda concettualiz-zate dalla metafora della jazz-band che appaiono dall’analisi della letteratura precedente. Già dall’esempio dell’oggetto di analisi si parla di flessibilità, improvvisazione e del gruppo di lavoro. Si parla poi di struttura aziendale, che viene descritta come ambigua, emozionale e legata al tempo.Un ruolo importante è ricoperto dal lavoro di gruppo, usato per la nascita di nuove idee. Un buon teamwork è caratteriz-zato da contributi provenienti da tutti i membri, relazioni al fine di comunicare, da un ritmo di lavoro e lavorando all’uni-sono, le idee e le capacità si uniscono accrescendo il potenziale del team.Parlando poi di improvvisazione si evince che è una qualità molto importante per un manager, che deve sapere ascoltare gli altri e costruire qualcosa di nuovo anche in base a ciò che stato detto. Inoltre, egli deve essere in grado di riflettere e agire allo stesso momento, creare regole, combinare le novità con le aspettative ed avere fiducia nell’intuitività e nell’immagina-zione.Infine, alla descrizione delle due classiche metafore aziendali maggiormente usate nella letteratura accademica, è emerso che esse non hanno elementi in comune con la metafora della jazz band, se non per il fatto che anche l’organismo è un esse-re flessibile e pronto al cambiamento.

È comunque giusto dire che con un’analisi della letteratu-ra da sola non si possono elencare tutte le caratteristiche di un’azienda di successo che emergono dalla metafora jazz, ancor meno con un’analisi di pochi testi. La metafora jazz è in grado di rappresentare molte altri aspetti di un’azienda, come per esempio gli errori visti come spunto di miglioramento.

Piano di ricerca

Per rispondere in modo analitico e preciso alla domanda di ricerca di questo paper, si potrebbe prendere un campione di testi da una testata giornalistica, come il Sole24Ore oppure il Corriere della Sera, dove vengono presentate alcune aziende di successo o interviste a CEO di aziende di successo, e analizza-re i passaggi dove viene usata la metafora della jazz-band.Si potrebbe procedere con un campione elevato di articoli o interviste dove si parla della metafora della band jazz. Tramite una content analysis poi si dovrebbero trovare quali caratteri-stiche vengono menzionate, quindi contarle. Lo stesso proce-dimento potrebbe essere usato anche su articoli scientifici, in quanto questa metafora è stata già trattata da molti studiosi.Un altro metodo invece potrebbe consistere nel somministrare delle interviste a CEO di grandi aziende, presentargli degli aspetti di base della musica jazz e poi tramite in questionario, individuare quali caratteristiche secondo il loro parere hanno in comune la propria azienda ed il genere musicale.Un sistema più efficace potrebbe essere formato da i due me-todi esposti in precedenza. Così facendo, i dati potrebbero ve-nire confrontati e quindi dare dei risultati più ampi e accurati.Trovare un metodo preciso per analizzare tutte le caratteristi-che di un’azienda rappresentate dalla metafora della jazz-band è in ogni modo complesso in quanto sia la metafora che l’azienda hanno un potenziale molto alto e possiedono svariati aspetti che possono essere analizzati.

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68 Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Le metafore nella psicoterapiaGiulia Grisendi

Le metafore nella psicoterapia

1) Introduzione

Chi non si è mai trovato in una situazione in cui sentiva di avere un grosso peso sulle spalle? Molte volte non ce ne rendia-mo conto, ma la metafora è diffusa ovunque nel nostro lin-guaggio quotidiano, nel pensiero e nell’azione; utilizziamo le metafore per esprimere i nostri sentimenti e stati d’animo più profondi. Come dichiarano George Lakoff e Mark Johnson (2012), a differenza di quanto sostengano altri studiosi a loro prece-denti, la metafora non è un puro ornamento del linguaggio, ma è “soprattutto uno strumento cognitivo che ci permette di categorizzare le nostre esperienze e dare così un senso alla nostra vita quotidiana” (Lakoff and Johnson 2012, 13). Lakoff, studioso di linguistica cognitiva, considera le forme linguistiche un’espressione di concetti legati alla cultura e alla società. Quali sarebbero questi concetti che quotidianamente esprimiamo utilizzando la metafora? Sono principalmente quelli astratti, che vengono esplicitati attraverso esempi, confronti dati dalla metafora. Queste espressioni figurative non danno un nome a particolari tipi di emozioni, ma ne denotano i loro diversi aspetti, quali ad esempio l’intensità, la causa e il controllo. (Kövecses 2004, 4).Un esempio di questi tipi di concetti sono le emozioni, delle quali ne esistono sei di base espresse e riconosciute nelle diverse culture: rabbia, disgusto, felicità, tristezza, paura e sopresa. Vi sono, inoltre, emozioni scaturite da un deter-minato contesto culturale, come ad esempio la vergogna e l’imbarazzo, che hanno diverse forme di manifestazioni. Poiché l’uso delle metafore ha una grande valenza nella sfera affettiva, è possibile osservare come nell’ambito della psicoterapia la metafora diventi strumento importante di interpretazione dei diversi soggetti.

2) Domanda di ricerca

La domanda alla quale intendiamo rispondere in questo paper è “in che modo l’utilizzo di metafore può facilitare la comu-nicazione tra paziente e terapeuta nella psicoterapia?”. Nelle sessioni di psicoterapia spesso emergono traumi origi-nati da eventi passati, che riportati allo stato conscio creano dolore, e attraverso l’uso delle metafore possono venire espressi con un linguaggio simbolico. Ad esempio, se voglio raccontare ad un amico quanto mi sono arrabbiata in una determinata situazione, potrei sem-plicemente raccontargli l’accaduto e dire che ero molto ar-

rabbiata in quel momento. Oppure, potrei invocare immagini figurate per rendere l’idea più chiara, dicendo ad esempio: “ero fuori di me”, “avevo i nervi a fior di pelle”, “mi sono fatta il sangue cattivo”, oppure “ho perso la testa”. La me-tafora permette di conferire alle emozioni diverse intensità, offrendo una maggiore gamma di sfumature che aiutano a classificare le nostre esperienze in modo più preciso. Riflettendo sulla scelta della metafora per descrivere il nostro stato emotivo possiamo capire meglio noi stessi e la nostra reazione all’emozione provata, domandandoci ad esempio “mi sento un’anima in pena che vaga nel purgato-rio, o piuttosto una bambina privata della sua caramella?” (Costa 2012).

3) Esempio dell’oggetto di analisi

Un esempio dell’utilizzo della metafora nella psicoterapia è stato preso dall’introduzione del libro Le metafore nel colloquio clinico. L’uso delle immagini mentali del cliente, di Richard R. Kopp. Nell’introduzione del suo libro, Kopp racconta una parte di un colloquio clinico fittizio. Durante il colloquio, il terapeuta domanda alla sua paziente:

““Carol, poco fa ha detto che Suo marito entra in casa come un treno. Se lui è un treno, Lei cos’è?”. Carol rispose: “Non sono sicura di capire.” Il te-rapeuta chiarì la sua domanda dicendo: “Beh, se lo descrive come un treno che entra in casa, come descriverebbe se stessa?”. Carol pensò un momento poi disse: “Credo di essere una galleria”. Dopo aver discusso brevemente di questa immagine di “galleria”, il terapeuta domandò: “E se Lei potesse cambiare questa immagine, quale nuova immagine sceglierebbe?”. Carol tacque. Guardò in alto, quasi cercasse una risposta nei pannelli del soffitto. Poi, improvvisamente, come se una luce si fosse accesa nella sua testa, guardò il terapeuta ed esclamò: “Sa-rei un grosso sasso sui binari!”.[…] Alla seduta seguente Carol sembrava diversa quando entrò nello studio. Annunciò: “Bene, sono riuscita a farlo deragliare!”. […]” (Kopp 1998, 9).

Carol è stata invitata dal terapeuta a trasformare l’immagi-ne che si era creata di sé, e questa dinamica l’ha portata a vedere veramente se stessa in un modo diverso. Il fatto di

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69paragonarsi non più ad una “galleria” ma ad un “grosso sasso sui binari!” l’ha aiutata a comportarsi conforme la sua nuova immagine mentale. Invece di continuare a permettere a suo marito (si stavano separando) di entrare a casa sua quando volesse, senza avere il coraggio di bloccarlo, Carol aveva preso l’iniziativa di chiamare un fabbro per cambiare le serrature della casa e aveva contattato il suo avvocato (Kopp 1998, 9). Il terapeuta non ha imposto a Carol di assumere un dato comportamento, ma l’ha condotta a trovare lei stessa una soluzione ottimale al suo conflitto. Così facendo, l’azione d’in-terpretazione metaforica del terapeuta non viene considerata particolarmente invasiva e generica, soggetta a conclusioni precipitate e poco attendibili, ma viene più facilmente analiz-zata, condivisa e accettata dal paziente. (Filardi 2008).

4) Analisi della letteratura sul tema

I tre articoli scientifici scelti per rispondere la domanda di ricerca sono “At the heart of cognition, communication, and langua-ge. The value of psychotherapy to metaphor study” di Dennis Tay, “Patterns of metaphor use in reconciliation talk” di Lynne J. Came-ron e “A metaphor analysis in treatments of depression: metaphor as a marker of change” di Heidi Levitt, Yifaht Kormann e Lynne Angus. Il primo articolo, “At the heart of cognition, communication, and language. The value of psychotherapy to metaphor study” è stato scritto da Dennis Tay, professore assistente nel dipartimento di inglese alla Hong Kong Polytechnic University. Dalla descri-zione presente nel documento, Dennis è interessato alle teorie sulla metafora e alle loro applicazioni nell’analisi dello scritto e del parlato del mondo reale, in particolare nel discorso psico-terapeutico e nella comunicazione sanitaria. Nel suo testo l’autore caratterizza l’attività discorsiva nella psicoterapia secondo tre dimensioni: cognitiva, comunicativa e linguistica. Il compito prioritario della dimensione cognitiva consiste nello spiegare la costruzione delle metafore e il modo in cui queste vengono processate. La dimensione linguistica, invece, si occupa di come le metafore concettuali vengono espresse linguisticamente nello scritto e nel parlato. Infine, la dimensione comunicativa fa riferimento all’intento comu-nicativo, in particolare all’uso deliberativo e non delle meta-fore per illustrare alcune tematiche. L’autore dimostra come l’utilizzo strategico delle metafore in psicoterapia è deter-minato dall’interazione di queste tre dimensioni (cognitiva, comunicativa e linguistica). Questo articolo può essere particolarmente significativo per rispondere alla nostra domanda di ricerca poiché presenta la metafora come strumento di aiuto nella comunicazione psicoterapica, usando come base l’assunzione di Beck (1995): i problemi psicologici nascono dai modelli fallaci di pensiero e di concettualizzazione. Infine, Tay conclude sottolineando il valore della psicoterapia per gli studi sulla metafora e il valore degli studi sulla metafora per la pratica psicoterapeutica. Il secondo articolo, “Patterns of metaphor use in reconciliation talk”, è stato scritto da Lynne Cameron, professoressa di Lin-guistica Applicata all’Open University. I suoi ambiti di ricerca includono l’uso della metafora nel parlato, applicazioni della teoria di sistemi dinamici complessi nel discorso e nella lin-guistica applicata, e lo sviluppo delle capacità linguistiche di studenti appartenenti a comunità etniche minoritarie. L’articolo investiga modelli di metafore (patterns of metaphor) che emergono in conversazioni di riconciliazione tra un militare dell’esercito iracheno repubblicano e una vittima, entrambi iracheni. Le metafore modellano il processo di ricon-ciliazione come UNA GIORNATA, UNA CONNESSIONE, UNA MODIFICAZIONE DI UN’IMMAGINE DISTORTA, e come L’ASCOLTARE LA STORIA DELL’ALTRO (Came-ron 2007, 197). Le conversazioni sono state registrate durante due anni e mezzo. Cameron narra il processo di riconciliazione

dei due individui, l’importanza del dialogo per la comprensio-ne e la superazione del trauma del conflitto.L’articolo ci aiuta a rispondere alla nostra domanda di ricerca in quanto ipotizza l’importante ruolo che le metafore giocano nelle conversazioni di riconciliazione, trattandosi di argomenti emotivamente delicati dove la giustificazione di ruoli opposti necessita analogie indirette e multiple. (Cameron 2007, 200). I partecipanti alla conversazione quindi usano metafore per strutturare le loro testimonianze e comunicare le loro idee, valori, emozioni ed attitudini. Il terzo articolo, “A metaphor analysis in treatments of depression: metaphor as a marker of change”, è stato scritto da Heidi Levitt, Yifaht Korman e Lynne Angus, rispettivamente professoressa associata di psicologia all’Università di Memphis negli Stati Uniti, psicologa clinica a Toronto e professoressa di psicologia alla York University a Toronto. La loro ricerca scientifica è sta-ta pubblicata nel 2000 nel Counseling Psychology Quarterly. Questo studio esamina l’evoluzione dell’utilizzo di “burden metaphors” nelle sessioni di psicoterapia della depressione, specificatamente nei casi di successo e insuccesso del tratta-mento. I risultati dello studio indicano che nel trattamento riuscito la metafora “being burdened”, ovvero, del sentirsi oppressi da un grosso peso, veniva sostituita dalla metafora “unloading the burden”, che significa un graduale alleggeri-mento dello stesso nel corso della terapia. Nel caso invece in cui il trattamento non era riuscito permane lo stato iniziale di profonda angoscia e inquietudine. Inoltre, è stato osser-vato che, riguardo i pazienti che hanno avuto successo nella cura della depressione, il loro cambiamento personale era riflettuto anche nelle frasi figurative che usavano durante la terapia, come ad esempio “Sento che mi si è sollevato il peso di dosso”: le frasi erano più ottimistiche o almeno orientate al cambiamento. Questo articolo scientifico può essere significativo nel rispon-dere alla nostra domanda perché, a differenza di altri studi che presentano un quadro generale delle metafore utilizzate dai pazienti durante la psicoterapia, questo esamina l’evolu-zione della metafora nel corso dell’intera terapia. Lo studio infatti vuole analizzare come secondo il decorso della cura la scelta delle metafore cambia. Le autrici affermano che i clienti fanno un uso esteso di metafore durante le sessioni di terapia, e che queste espressioni possono facilitare l’intuizione (“insi-ght”), fornire nuove soluzioni e migliorare la comunicazione e il lavoro collaborativo tra terapeuta e cliente (Angus, Levitt and Korman 2000, 23). Nel creare un’immagine visiva di ciò cui ci stiamo riferendo, portiamo la comprensione a un livello più “vivido”. Angus, Levitt & Korman (2000, 24) sostengono inoltre che le metafore riescono a catturare meglio la qualità di un’emozione, rispetto a quanto lo facciano gli aggettivi o le “etichette” delle emozioni (“emotional label”).

5) Ipotesi

Dalla letteratura consultata e presentata in precedenza, e dall’esempio analizzato sono emerse tre ipotesi:

Ipotesi 1: L’utilizzo della metafora nei racconti durante la psicoterapia facilita l’espressione di emozioni “intense” da parte del paziente. Questo effetto è dovuto principalmente a tre fattori:Il primo fattore è che all’interno di un gruppo sociale le per-sone sviluppano particolari modi di pensare metaforici che diventano “tipici” del gruppo (Cameron 2007, 200). In altre parole, in un gruppo, una metafora diventa convenzionale e viene utilizzata da diverse persone per far riferimento a de-terminate situazioni, sensazioni ed emozioni. Perciò, nell’uti-lizzare queste metafore socio-culturalmente diffuse abbiamo l’impressione di non essere gli unici a vivere quella situazione e a provare quell’emozione.

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70 Il secondo fattore riguarda il percorso di cura, nel quale il processo di trasformazione dal negativo al positivo sembra più rapido quando si utilizzando espressioni figurate piuttosto che aggettivi per descrivere stati d’animo. Per spiegare quanto appena detto prendiamo il caso in cui un paziente arriva nella sua sessione di psicoterapia e il terapeuta gli chiede come lui si senta. Il paziente a questa domanda potrebbe rispondere “sono triste” oppure dire “mi sento giù”. Confrontiamo que-ste due espressioni, la prima che utilizza un aggettivo e la seconda una metafora di orientamento, dove CONTENTO È SU, TRISTE È GIÙ. (Lakoff and Johnson 2012, 33). Quan-do una persona dice “sono triste” il suo stato d’animo sembra più permanente e stabile, e il passaggio all’”essere felice” sembra più difficile e lungo. Se la stessa persona dice invece “mi sento giù”, percepiamo un sentimento più momentaneo e temporaneo, che percorre un percorso più breve per arrivare al sentimento opposto di “sentirsi su”. Il terzo fattore è che nel privilegiare le metafore a discapito di aggettivi o di etichette (Angus, Levitt and Korman 2000, 23) per descrivere emozioni, il racconto diventa meno “carico” dal punto di vista emotivo. Se ad esempio diciamo che in una determinata situazione ci siamo sentiti “terrorizzati”, utiliz-zando questo termine riportiamo al presente la sensazione di “terrore” di quel momento, il che può portare il paziente all’interrompere il racconto. Se invece dicessimo “mi sentivo un topolino indifeso davanti a un gatto affamato” creiamo un’immagine che in un certo senso ci allontana dall’immagine reale dell’accaduto.

Ipotesi 2: Le metafore aiutano il terapeuta a interpretare l’esperienza e il pensiero del cliente. Le metafore aiutano nell’interpretazione che il terapeuta fa del racconto del cliente poiché ci si aspetta che questo scelga e usi metafore che sono consonanti con le sue attitudini ed emozioni, e perciò le metafore possono rivelare la visione più o meno drammatica che il paziente ha del suo vissuto, e della sua identità sociale. (Cameron 2007, 201).

Ipotesi 3: Cambiando le metafore possiamo cambiare noi stessi.Meltzoff & Kornreich (1970, 4) in Tay (2014, 50) definiscono il ruolo dello psicoterapeuta come quello di aiutare gli individui

a modificare certe caratteristiche personali come le emozioni, i valori, le attitudini e i comportamenti negativi. Una delle ipotesi formulate nel loro studio è che questi cambiamen-ti sono anche conseguenze della sostituzione di metafore connotate negativamente con metafore che esprimano una situazione di minor conflitto. In modo più generico, conside-rando le metafore come “specchi che riflettono le immagini che abbiamo di noi stessi, della vita e degli altri” (Kopp 1998), se modifichiamo queste immagini possiamo migliorare i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti.

6) Piano di ricerca

Per confermare le ipotesi presentate in precedenza si potrebbe usare il metodo della psicologia sperimentale. La psicologia sperimentale si basa su ciò che è osservabile, e in questo caso in cui trattiamo della psicoterapia, l’osservazione viene fatta a livello clinico. Per analizzare come le metafore vengono inserite nella psi-coterapia e qual è l’effetto del loro utilizzo, potremmo creare un set sperimentale in un contesto reale di sessione psico-terapeutica. Si potrebbe scegliere un campione di individui che hanno avuto esperienze traumatiche nel passato e che abbiano bisogno di assistenza psicologica. Durante le sessioni di terapia, videoregistrate e trascritte di seguito, il terapeuta può individuare le metafore che il paziente associa alle sue emozioni e vedere come queste si modificano nel corso delle sessioni. Inoltre, è interessante che il terapeuta verifichi se c’è una relazione tra la trasformazione delle metafore utilizzate e l’esito della cura del paziente (verifica ipotesi 3). Nel caso in cui il paziente non utilizzi una metafora nell’esprimersi, il terapeuta allora ne suggerisce alcune per poi osservare se e come queste vengono accettate e integrate dal paziente nei suoi relati. A questo punto, il terapeuta può fare un confronto tra la capacità del paziente di raccontare un episodio trauma-tico prima e dopo dell’introduzione della metafora (verifica ipotesi 1). Infine, facendo un’analisi delle metafore utilizzate dal paziente, il terapeuta riflette sul fatto che queste espressio-ni metaforiche lo aiutino a fare inferenze sulla personalità del paziente, e più nello specifico, dello stato del suo “problema” (verifica ipotesi 2).

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Le metafore nella psicoterapiaGiulia Grisendi

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71Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /L’uso delle metafore nelle campagne politichecontro gli stranieri della SVPMiguel ángel Marchesi

L’uso delle metafore nelle campagne politiche controgli stranieri della SVPIntroduzione

Il seguente lavoro si focalizza sulla comunicazione politica populista in Svizzera, osservando le strategie comunicative utilizzate nelle propagande aggressive contro gli stranieri della SVP – ovvero la Schweizerische Volkspartei (Unione Democratica di Centro in Ticino, dove tali idee politiche sono promosse attivamente e con maggior successo dal partito della Lega dei Ticinesi). La SVP si fa promotrice dei valori nazionali elvetici e costruisce la sua politica sulla salvaguardia della Confederazione Elvetica dall’invasione degli stranieri, rappresentati come la principale minaccia. Per comunicare i propri ideali alla popolazione (e guada-gnare consensi e voti) il partito fa ampio uso di cartelloni nelle sue campagne, usando una comunicazione semplice quanto efficace per coinvolgere le persone. Questi cartel-loni stigmatizzano gli stranieri come elementi pericolosi per la nazione, nemici della Svizzera e approfittatori senza scrupoli, mirando a creare un’immagine negativa degli stranieri. Le immagini riportate sono spesso ritratte sotto forma di metafore, che hanno un forte impatto visivo e sono pertanto in grado di veicolare il messaggio in manie-ra efficace poiché comprensibili a chiunque. La metafora è vista nei termini di Lakoff e Johnson (2003 [1980]), ovvero come uno strumento del pensiero che guida gli individui nella comprensione della realtà e il loro agire in essa: la realtà è dunque più facilmente riconoscibile se il pensiero è orientato tramite immagini conosciute e comprensibili. La SVP con i sui manifesti cerca di fare passare un determinato messaggio politico, rendendolo comprensibile riducendone la complessità utilizzano figure metaforiche che guidano i destinatari all’interpretazione auspicata del messaggio.

Domanda di ricerca

Considerando gli aspetti descritti sopra, l’obbiettivo di questo lavoro è quello di osservare se esiste un nesso tra l’uso delle metafore visive nei cartelloni della SVP e l’efficacia comunicativa delle campagne politiche avverse agli stranieri del partito. La domanda di ricerca può essere formulata nel modo seguente: Quale ruolo hanno le metafore visive nella comunicazione politica contro gli stranieri esercitata tramite i manifesti della SVP?

Per rispondere in maniera soddisfacente bisogna conside-rare alcuni aspetti che permettono di capire la domanda nel suo complesso. In particolare è da considerare il ruolo delle immagini nella comunicazione politica, quanto esse siano funzionali alla trasmissione dell’ideologia politica dei partiti e cosa esse rappresentano. Infatti, le immagi-ni sono spesso usate nei manifesti per cui è interessate osservare come queste siano un elemento essenziale per la propaganda politica. In seconda istanza, è da osserva-re quale forma assumano queste immagini: entra qui in gioco la metafora visiva. Essa va analizzata nello specifi-co nella sua funzione di tradurre un concetto politico in un’immagine familiare per il destinatario. S’intende dunque osservare come avviene questo processo e quali sono le immagine metaforiche che permettono di effettuare una concettualizzazione sensata al fine di risul-tare comprensibili per il destinatario. In seguito sarebbe utile osservare la metafora visiva rapportata al manifesto, chiedendosi quale sia l’importanza che questa ricopre nella propaganda diffusa tramite i cartelloni a sostegno delle iniziative politiche contro gli stranieri della destra populista in Svizzera.Le seguenti sotto-domande permettono di osservare tali aspetti ed elaborare delle ipotesi per poter rispondere in maniera esaustiva alla domanda di ricerca:

1) Quali strategie comunicative utilizza la SVP nella pro-paganda a sostegno delle proprie iniziative contro gli stranieri tramite i manifesti?

2) Quali sono gli elementi dei manifesti della SVP che sup-portano la comunicazione dei loro messaggi politici?

3) Come vengono rappresentati visivamente questi elemen-

ti essenziali?

4) I manifesti della SVP esercitano una comunicazione persuasiva efficace?

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72 Esemplificazione dell’oggetto di interesse

Manifesto 1 – Iniziativa per l’espulsione dei criminali stranieri

Lo straniero criminale, visto come un elemento nocivo per la società svizzera, è rappresentato come la pecora nera del gregge. Ci sono due “target” differenti racchiusi nella “fonte” metaforica del gregge, ovvero la popolazione elvetica, rappre-sentata come le innocue pecorelle bianche, mentre lo straniero come quella nera. Questa viene scacciata dal terreno elvetico (riconoscibile dai colori rossocrociati della bandiera svizze-ra) e la scritta “Sicherheit schaffen” esprime sia l’azione sia la richiesta di espellere l’elemento pericoloso dal gregge per creare la sicurezza in casa. Questa metafora ha un forte impat-to nella mente delle persone in quanto raffigura un’immagine condivisa culturalmente (quella della pecora nera) e pertanto facilmente assimilabile.

Manifesto 2 – Iniziativa contro l’immigrazione di massa

Il cartellone ha lo scopo di rendere i cittadini attenti all’immi-grazione insostenibile per il territorio elvetico. In questo caso si fa uso della metafora dell’albergo che si nutre della terra tramite le sue radici. La Svizzera rappresenta il lembo di terra da cui l’albero (dominio fonte del target stranieri) assorbe le sostanze vitali e continua a crescere. Con questo manifesto la SVP intende far passare il messaggio secondo cui troppi stranieri vengono in Svizzera, invadono il territorio elvetico e rubano le risorse ai cittadini svizzeri e sono dunque una mi-naccia da fermare. In particolare c’è un richiamo al territorio

della Patria (raffigurata nella sua forma geografica stilizzata, di colore rosso e con la croce bianca al centro) in cui l’albero nero – colore scuro e negativo – affonda le radici prosciugan-dolo. La metafora evidenzia il fatto che ci sono troppi stranieri che si “piantano” in Svizzera. Infatti, lo slogan che accompa-gna l’immagine, esorta i destinatari a fermare l’immigrazione di massa.

Manifesto 3 – iniziativa a sostegno per il divieto di costruzione

di minareti

LA SVP presenta la costruzione dei minareti come un’islamiz-zazione della Confederazione elvetica, e quindi una minaccia ai valori tradizionali svizzeri e cerca di diffondere una perce-zione di pericolo imminente legato anche alle attività terro-ristiche per mezzo di un forte associazione fra terrorismo e religione musulmana. Il “target” minareti viene rappresentato con la “fonte” missili, che si ergono sopra la Svizzera raffigu-rata dalla sua bandiera. I missili sono in nero per sottolineare la loro pericolosità in quanto il nero è un colore associato a cose oscure, tristi e pericolose. Per ricordare a chi apparten-gono i minareti, nel manifesto è anche raffigurata una donna musulmana, ricoperta da un burqa nero, che rappresenta i musulmani e le loro idee incompatibili con i valori svizzeri di libertà. Si ricorre alla figura della donna musulmana sotto-messa alle convenzioni religiose che non gode delle libertà personali. Inoltre viene rappresentata la minaccia della dissimulazione dell’identità che è fortemente associata al terrorismo. La scritta “Stopp” è in nero come le figure che rap-presentano quello che è pericoloso e da rifiutare nella società civile elvetica.Emergono degli elementi comuni nei tre manifesti. Lo stranie-ro viene sempre rappresentato con forme facilmente riconosci-bili che provocano emozioni negative come l’ansia o la paura. Queste sono in nero, un colore che è culturalmente associato a qualcosa di negativo.

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73Analisi letteratura

Paul Frosh, ricercatore presso la facoltà di comunicazione e giornalismo all’Università ebraica di Gerusalemme, nel suo articolo “Framing pictures, picturing frames: political com-munications research” pubblicato sul Journal of Communication Inquiry nel 2011, spiega come le metafore siano utili in politica per comunicare idee e opinioni in quanto le metafore permet-tono di ridurre la complessità dei concetti politici e superare la mancanza di competenza e conoscenze in politica delle persone. In particolare sono usate per “evidenziare determi-nate caratteristiche del target” (Frosh, 2011, p. 93) e rendere pertanto l’oggetto dell’argomento riconoscibile. La politica è una materia complessa: le metafore hanno importanza nella concettualizzazione della comunicazione politica, riducendo la complessità del messaggio (Frosh, 2011). Un altro elemento importante nella comunicazione politica sono le immagini (Frosh, 2011) poiché sono immediatamente riconoscibili e hanno perciò un forte impatto visivo: per tale motivo l’im-magine è largamente utilizzata nella propaganda politica. Siccome essa deve esprimere un messaggio complesso, l’immagine stessa raffigura il messaggio tramite un metafora disegnata, la “visual metaphor” (Frosh, 2011, p. 94) che faci-lità nel modo migliore la comunicazione politica. La metafora viene dunque visualizzata e, tenendo conto di quanto descrit-to prima, mostra le caratteristiche del target. Rappresentare metaforicamente il target è uno dei modi migliori per rendere comprensibile la comunicazione politica. Frosh (2011) so-stiene che la metafora visuale in campo politico si componga spesso di stereotipi. Secondo Lippmann gli stereotipi sono utili a costruire un immagine del mondo che non si conosce e ren-dere meno incerta la realtà (Frosh, 2011) e per questo motivo sono utili a creare una metafora che sia chiaramente ricono-scibile. Questo profila un legame tra l’immagine metaforica e la mente delle persone, in quanto gli stereotipi sono prodotti dei preconcetti culturali che le persone possiedono (Frosh, 2011). Questo rende l’uso delle metafore efficace nei manifesti politici, in quanto le persone possono facilmente ricollegare quello che vedono con quello che sanno in virtù degli schemi mentali che posseggono: vedono disegnato qualcosa che è coerente con la propria immagine mentale. In questo senso, Frosh (2011) sostiene che la metafora assume la funzione di portatrice d’informazione, partendo dall’idea di Lippmann secondo la quale gli stereotipi sono fonte d’informazioni per la propria conoscenza e la costruzione della propria opinione. Inoltre l’autore concorda con Edelman, che sostiene che il po-tere dell’immagine risiede anche nella sua peculiarità di non permettere un idea contraria o una critica all’interno della sua rappresentazione e pertanto si presenta come una verità unica e assoluta (Frosh, 2011). Nella comunicazione politica la metafora gioca un ruolo importante poiché fornice un’im-magine precisa di una data tematica, evidenziandone alcune caratteristiche. Tenendo conto di quanto detto, Frosh (2011) ritiene che i partiti politici facciano uso di questa strategia per enfatizzare alcune qualità di un determinato target e in segui-to esprimere una loro opinione e fornire infine indicazioni ai destinatari su come comportarsi riguardo al tema rappresen-tato.Nell’articolo “Werbung auf niedrigem Niveau? Die Wirkung negativ-emotionalisierender politischer Werbung auf Einstel-lungen gegenüber Ausländern” di Jörg Matthes, professore presso l’istituto di giornalismo e scienze della comunicazione dell’Università di Vienna, e Franziska Marquart, assistente e ricercatrice presso lo stesso istituto, pubblicato su Publizistik nel 2013 ci si focalizza su come in Svizzera il partito della destra populista faccia uso di manifesti e cartelloni politici: lo scopo è quello di suscitare emozioni negative contro gli stranieri. Gli autori evidenziano come in questi messaggi politici il partito della SVP faccia solitamente uso di stereotipi

e pregiudizi sugli stranieri diffusi all’interno della popolazione elvetica, rappresentandoli sotto forma di immagine su cartel-loni (Matthes e Marquat, 2013). Inoltre, Matthes e Marquart (2013) sostengono che i cartelloni politici siano il canale più efficace e immediato nel trasmettere un messaggio, in quanto l’immagine ha un impatto visivo molto forte e rispetto, ad esempio un articolo di giornale, non presenta argomentazioni contrarie al suo interno. Pertanto essi ritengono che la com-binazione dell’immagine e dello stereotipo in un’unica figura abbia un forte potere di persuasione. In virtù di tale dinamica Matthes e Marquart (2013) sono del parere che i partiti di de-stra come la SVP fanno ampio uso di immagini per diffondere i propri messaggi politici, adottando la tattica di pubblicare immagini forti e facilmente comprensibili in grado di suscitare sentimenti negativi nei confronti degli stranieri. Questo è il motivo per cui la SVP fa ampio uso di metafore che permetto-no di rappresentare gli stranieri come una minaccia tangibile. Gli autori ribadiscono il potere di persuasione che le immagini hanno sulla mente delle persone e che questo è rafforzato se accompagnato da uno slogan breve ma preciso, che mette in allerta del pericolo rappresentato graficamente (Matthes e Marquart, 2013). L’uso di immagini stereotipate che sprigio-nano sentimenti negativi nei confronti di un target sono uno strumento del successo delle campagne politiche contro gli stranieri perpetrate dalla Schweizerische Volkspartei.L’articolo di Robert E. Denton Jr, direttore della facoltà di comunicazione presso il Virginia Tech, “The rhetorical func-tions of slogans: classification and characteristics” pubblicato sul Communication Quarterly nel 1980, pone l’attenzione sugli slogan politici e il loro potere di persuasione. Lo slogan è uno degli strumenti usati nelle campagne politiche (Denton, 1980) e grazie alla loro funzione persuasiva cercano una risposta o una reazione da parte dei destinatari. Si tratta di brevi frasi, spesso esortative che devono però tenere conto dei valori e delle caratteristiche del pubblico a cui sono indirizzati (Den-ton, 1980, p. 12). Siccome i messaggi politici sono spesso com-plessi, il compito degli slogan è quello di rendere i messaggi semplici e familiari: ecco perché spesso sono accompagnati da rappresentazioni grafiche del tema politico (Denton, 1980). Questo permette di capire la richiesta dell’azione dello slogan riguardo un determinato argomento politico. Se si osservano i manifesti politici della Schweizerische Volkspartei troviamo questi due elementi, ovvero un immagine che rappresenta la tematica politica e la richiesta del partito. Secondo il parere di Denton (1980) lo slogan è rappresentativo dell’ideologia del partito e della sua posizione riguardo la tematica in questione. Pertanto si crea una coerenza tra i valori del partito e il suo messaggio politico, che viene recepito dai destinatari. Questo è importante per il destinatario sia per riconoscersi nei valori del suo partito sia per recepire il messaggio trasmesso (Den-ton, 1980).

Ipotesi di risposta

Ipotesi 1: Cartelloni e manifesti sono uno strumento utile per la comunicazione politica in quanto sono accessibili a tutti e presentano un’idea politica basandosi principalmente su im-magini, accompagnate poi da slogan: questo dona un impatto visivo molto forte al messaggio che si vuole trasmettere. L’uso di immagini dovrebbe permettere di aver un pubblico più ampio e coinvolgibile.Ipotesi 2: L’immagine ha un ruolo fondamentale nella comu-nicazione politica attraverso cartelloni e manifesti, in quanto è in grado di rappresentare sia la tematica sia la posizione del partito. Visto il carattere propagandistico di questi manifesti, l’immagine deve suscitare una reazione. I cartelloni presi in considerazione hanno carattere populistico e avverso alla pre-senza di stranieri in Svizzera, per cui è necessario che l’imma-gine metta in cattiva luce gli stranieri in modo tale da poter

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74 creare emozioni negative nei destinatari nei confronti degli stranieri e quindi suscitare la reazione auspicata. Un altro elemento utile a tale scopo è lo slogan che accompagna l’im-magine. La sua funzione dovrebbe essere quella di esplicitare l’azione che la Schweizerische Volkspartei raccomanda ai suoi destinarti da compiere per essere dei bravi cittadini.Ipotesi 3: La metafora è essenziale per ridurre la complessità del messaggio politico. Questo processo è necessario poiché i temi politici non sono sempre evidenti e richiedono una certo livello di conoscenza della materia. Usare delle metafore visive permette di rendere il messaggio comprensibili, poiché vengono usate immagine familiari all’esperienza personale e collettiva.Ipotesi 4: Il manifesto dunque sollecita i destinatari a com-piere un’azione ben precisa: questo tipo di messaggio politico grazie alla sua forza persuasiva risulta dunque essere assai importante per le campagne di propaganda a sostegno delle iniziative lanciate dal partito. Tuttavia, non esiste ancora un vero studio al riguardo.

Piano di ricerca

Per testare le ipotesi sopradescritte, si dovrebbe innanzitutto verificare se i manifesti politici siano effettivamente il canale migliore per promuovere le campagne di iniziative politiche. Secondariamente, osservare se e come le immagini riducono la complessità del temi politici. In particolare, si dovrebbe analizzare l’uso delle metafore visive quali mezzo per semplifi-

care il messaggio diffuso dal partito. Di queste va considerato quale parte del messaggio viene rappresentata e come. Tenen-do conto dello scopo della campagna, che mira a instaurare un atteggiamento negativo verso gli stranieri, è utile osservare quale caratteristiche vengono principalmente raffigurate e come queste siano funzionali a suscitare un’emozione ne-gativa nelle persone. Infine, sarebbe interessante misurare l’efficacia persuasiva dei manifesti. Considerando che campagne a sostegno di iniziative politiche mirano a ottenere una risposta concreta da parte dei cittadini convincendoli ad andare a votare, per testare le ipotesi penso sia buona cosa focalizzarsi sulle caratteristiche del manifesto e sull’impatto dello stesso sui destinatari.Si dovrebbe osservare come viene rappresentata la Svizzera sui diversi cartelloni scoprire elementi ricorrenti nella sua raffigurazione. Lo stesso va fatto con le figure che indicano gli stranieri. A questo bisognerebbe selezionare un campione della campione della popolazione svizzera e verificare se gli in-dividui capiscono le metafore usate nei manifesti. In secondo luogo sarebbe da domandare agli intervistati quali emozioni provano osservando i manifesti: secondo quanto detto in precedenza, dovrebbero emergere delle percezioni negative. Un ulteriore domanda da sottoporre agli intervistati sarebbe riguardo lo slogan, chiedendo se questo legato all’immagine del manifesto tramette un senso di urgenza nel fare qualcosa per il bene della patria.

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /L’uso delle metafore nelle campagne politichecontro gli stranieri della SVPMiguel ángel Marchesi

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75Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Il mondo del business visto in chiave sentimentale:le aziende si sposano e divorzianoStefania Riva

Il mondo del business visto in chiave sentimentale:le aziende si sposano e divorzianoIntroduzione

La ricerca da me svolta si colloca nell’ambito delle organizza-zioni e in particolare si occupa di studiare come le relazioni di business tra queste possano essere metaforizzate. Numerose sono, infatti, le metafore che vengono utilizzate per descrivere i diversi aspetti che caratterizzano le organizzazioni, come la loro costituzione, il loro funzionamento e le loro relazioni. Le organizzazioni possono essere viste come macchine, con un funzionamento meccanico e definito, oppure come sistemi nei quali la comunicazione permette l’interazione tra l’organiz-zazione e l’ambiente, sia interno, sia esterno, o ancora come organismi viventi, in cui ogni parte può essere paragonata a una cellula con una funzione specifica e una sua organiz-zazione del lavoro. Oltre a queste metafore mi sono chiesta, però, quali altre avrebbero potuto spiegare in modo più ampio il mondo delle organizzazioni, non limitandosi al loro funzionamento e alla loro struttura, ma considerando anche i rapporti che intercorrono tra le differenti imprese presenti sul mercato. Queste, infatti, sono inserite in un complesso network di relazioni, che potrebbero essere meglio spiegate tramite l’utilizzo di metafore ecologiche, che considerano il mercato come un ecosistema in cui più organismi interagi-scono tra loro e hanno rapporti di dipendenza (Hausman and Stock 2003), oppure considerando le relazioni di business come relazioni matrimoniali. Quest’ultima classe di metafore sarà l’oggetto di interesse del seguente studio.

Domanda di ricerca

È interessante indagare se due istituzioni che caratterizzano le relazioni interpersonali degli individui, ovvero matri-monio e divorzio, possano essere utilizzate come efficaci metafore per comprendere le relazioni che intercorrono tra le organizzazioni. Cercando informazioni nella letteratura scientifica, emerge come numerosi studi in proposito siano già stati effettuati e abbiano confermato come queste due istituzioni possano essere metafore dei rapporti di busi-ness; per dirlo con le parole di Lakoff (1994), matrimonio e divorzio possono costituire il dominio fonte, tramite cui

metaforizzare il dominio target, ossia le relazioni di business tra le organizzazioni.La ricerca esaminerà, dunque, in che modo alcuni degli stu-di esistenti sul tema presentino l’utilizzo di queste metafore. Poiché numerosi ricercatori tendono a concentrarsi sull’una o sull’altra metafora, lo scopo di questa indagine è quello di presentare in un unico lavoro entrambe le metafore, riper-correndo tutte la fasi di una relazione.Lo studio intende considerare la relazione tra due organizza-zioni non solo come diadica e indipendente da altri elementi contestuali, ma vuole valutare, nella metaforizzazione, an-che il ruolo di coloro che sono coinvolti più o meno indiret-tamente in un matrimonio, quali parenti e amici.La ricerca vuole pertanto rispondere alla domanda: “in che modo le metafore del matrimonio e del divorzio possono aiutare a spiegare le relazioni di business?”, partendo dal-l’ipotesi che proprio le diverse fasi che portano dalla nascita alla fine di un rapporto possano spiegare in maniera chiara le relazioni tra le organizzazioni, quali joint venture, fusioni, acquisizioni, e i loro stadi evolutivi.

Esempio dell’oggetto di analisi

http://www.economist.com/node/3623677

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Le immagine proposte mettono in luce il comune utilizzo delle metafore del matrimonio e del divorzio per presentare un fatto, quale l’unione o la divisione di due aziende, in maniera chiara ed efficace.Partendo dalla prima immagine, tratta dal settimanale britan-nico The Economist, si nota come la notizia, ovvero l’acquisto di Gillette da parte di Procter&Gamble, venga presentata tramite il tema dell’amore (Love is in the air) per continuare in seguito a parlare di “ondata di matrimoni aziendali” e di “nozze recen-temente annunciate”. Anche Il Sole 24 Ore, quotidiano econo-mico italiano, parla di “matrimonio” tra case farmaceutiche, per presentare la notizia dell’accordo per un’aggregazione industriale tra Alfa Wassermann e Sigma-Tau, e di “matrimo-nio” tra aziende del Nord e del Sud relativamente all’acquisto di un’impresa di Bari da parte di un’azienda bergamasca.Il Corriere della Sera scrive, invece, di un “divorzio” tra Fiat e Confindustria, in riferimento all’uscita dell’azienda automo-bilistica dall’organizzazione rappresentante delle imprese italiane. Il Sole 24 Ore e il Blog di Salvo Guglielmino, scrittore di temi politici, sociali ed economici, riportano entrambi la vicenda che ha visto l’azienda italiana Fiat e quella americana General Motors siglare la fine della loro alleanza, in termini di “divorzio”. Inoltre, Guglielmino aggiunge che la causa del divorzio è l’ingresso dell’azienda automobilistica Daewoo nel gruppo americano, presentando il fatto allo stesso modo in cui potrebbe essere presentato un divorzio tra due coniugi per via della presenza di un terzo partner: l’amante.Un ulteriore aspetto che evidenzia come le metafore in questione siano adatte per parlare delle relazioni di business, si può notare nell’articolo pubblicato sulla rivista Uomini e Trasporti, che parla di un “figlio” che è stato ”partorito” dalla joint venture tra Iveco, SAIC e Chongqing Machinery. Come è comune nella maggioranza delle coppie sposate avere un bam-bino, anche le organizzazioni che si alleano, e quindi, come abbiamo visto, si “sposano”, fanno “figli”, ovvero i prodotti risultanti dall’unione; in questo caso, il figlio è un nuovo vei-colo realizzato in collaborazione dalle tre diverse aziende, ma, in generale, potrebbe essere la creazione di una terza impresa (figlia), dall’unione di due già esistenti (genitori).

Analisi della letteratura sul tema

Parlare di unioni, acquisti e fine di rapporti aziendali nel mondo delle imprese in termini di matrimoni e divorzi tra queste sembra essere un’abitudine comune ai media, e, vero-similmente, ciò è dovuto al fatto che, come sostengono Lakoff e Johnson nella loro opera Metafora e vita quotidiana (2012), il sistema concettuale è alla base della conoscenza che abbia-mo del mondo e la metafora ci permette di comprendere e di vivere un aspetto della realtà in termini di un altro. Alcuni concetti, infatti, possono essere estranei agli individui, magari perché complessi, o astratti, e metaforizzarli in termini di un concetto più famigliare, in questo caso matrimonio e divorzio, permette di comprenderli più facilmente.Dopo un’accurata revisione della letteratura, il presente studio ha dunque cercato di elaborare una propria ricostruzione del-l’utilizzo di queste due metafore nel mondo del business.A partire dagli anni ’80 del XX secolo, la metafora del matri-monio è stata sempre più accettata nel campo del marketing e

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-03-05/farmaceutica-matrimonio-alfa-wassermann-e-sigma-tau-173232.shtml?uuid=ABd1Fi4C

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2014-11-20/matrimonio-aziende-nord-e-sud- bergamasca-te-smec-acquisisca-barese-amc2-salvandola-crisi-145629.shtml?uuid=ABBkPAGC

http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/05/Divorzio_tra_Fiat_Confindustria_Lega_co_8_1110050 36.shtml

http://www.salvoguglielmino.it/commentiArticolo.asp?idArticolo=33

http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&codid=20.0.1008755742&DocRulesView=Libero&chId=30

http://www.uominietrasporti.it/notizie_dettaglio.asp?id=401

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77secondo Dwyer (1987), questa metafora rappresenta un’im-portante piattaforma da cui esplorare le relazioni di business.I motivi alla base dell’instaurazione di relazioni tra organiz-zazioni, a scapito della perdita di parte della propria indipen-denza, sono principalmente: la necessità di ridurre l’incer-tezza attraverso la cooperazione, la condivisione di risorse, il contenimento dei costi e la collaborazione nella risoluzione dei problemi (cf.,Dweyer et al., 1987; Morgan and Hunt, 1994; Wilson, 1995).Tipici di un matrimonio e necessari al successo di una rela-zione di business sono la divisione del potere, l’influenza, gli aspetti burocratici (Boyle and Dwyer, 1985; Brown et al 1995; Wilkinson 1981), la fiducia, la cooperazione e la coordinazione (Morgan and Hunt, 1994; Humphries and Wilding, 2004). Le organizzazioni che stipulano accordi, stabiliscono burocra-ticamente le regole e la divisione del potere, determinando così il grado di influenza di ciascuna. Inoltre, per decidere di instaurare un rapporto, l’azienda deve potersi fidare del futuro partner, che deve dimostrare lealtà e volontà di collaborazio-ne. Un ulteriore aspetto è la comunicazione, essenziale per la risoluzione dei problemi, sia tra coniugi, sia tra aziende.L’importanza di una relazione non è determinata solo dagli elementi economici e tecnici, come costi, volumi, know how, ma anche, come in un matrimonio, da elementi sociali e relazionali (Wilson, 1995). Infatti, Rotting (2013) spiega che, come nei matrimoni, anche le organizzazioni necessitano di lavorare quotidianamente sulla loro relazione, rassicurandosi l’un l’altra circa rispetto, fiducia e lealtà. Inoltre, come gli an-niversari matrimoniali, anche le aziende ”sposate” dovrebbero celebrare periodicamente l’anniversario della loro unione per rinnovare l’impegno da parte di tutti i membri coinvolti nel rapporto. Per dimostrare l’efficacia delle metafore di matrimo-nio e divorzio applicate alle relazioni di business, prendiamo in considerazione le diverse fasi che coinvolgono due individui nel corso della loro vita: due soggetti possono incontrarsi, conoscersi e iniziare ad uscire, piacersi, sposarsi, andare in luna di miele e vivere la vita di coppia per numerosi anni, stando insieme fino alla morte, oppure divorziando se il rap-porto non funziona più. Allo stesso modo, due organizzazioni operanti nel mercato e indipendenti (single) possono decidere di instaurare rapporti con differenti organizzazioni (Dewyer et al., 1987). L’azienda corteggia organizzazioni verso cui prova un interesse e in questa fase, che precede eventuali fusioni, acquisizioni o joint venture, sono coinvolti solo i top manage-ment e un limitato numero di consulenti e avvocati. In questo periodo vengono mostrati tipicamente solo i comportamenti migliori, al fine di attrarre il partner. Come tra due persone ai primi appuntamenti, le parti coinvolte, per l’eccitazione e l’en-tusiasmo potrebbero non notare difetti del partner, vedendo tutto “rose e fiori” (Rottig 2013).Quando due aziende decidono di unirsi per proseguire il loro cammino insieme, similmente a due persone che si uniscono in matrimonio, determinano la nuova struttura e stabiliscono la direzione strategica e il controllo delle risorse. È importante concludere questa fase con una cerimonia, per permettere alla forza lavoro e ai vari stakeholder, di interagire e socializzare, celebrando reciprocamente la risoluzione della transazione e firmando l’accordo finale, creando fiducia e disponibilità a cooperare, come avviene in un matrimonio, in cui la cerimo-nia è occasione di incontro tra i parenti e gli amici degli sposi.Subito dopo l’unione, i due partner vivono la fase della luna di miele, in cui fanno del proprio meglio per andare avanti e sono disponibili a fare concessioni che potrebbero anche dimostrarsi costose nel tempo. Questo è il momento di mas-sima vicinanza e dispendio di energia in favore della relazio-ne (Johnston and Hausman 2006). Le imprese cominciano dunque il loro futuro insieme e, come per le coppie sposate, col passare degli anni forze sia positive, sia negative possono influenzare la relazione, creando tensioni quando non c’è

equilibrio tra le due. I partner devono perciò sforzarsi per mantenere la vitalità del rapporto, accettare le differenti abi-tudini e trovare compromessi di fronte a opinioni contrastanti.Anche nel mondo delle organizzazioni, i partner potrebbero essere coinvolti più nel loro lavoro che nella relazione o diventa-re così impegnati con questioni interne, che tutte le risorse sono dirette verso il proprio business piuttosto che verso gli obiettivi della coppia (Marotz- Baden and Mattheis, 1994; Rosenthal, 1985) e comportamenti opportunistici da parte di un partner (atti di infedeltà) possono minacciare la stabilità e produttività della relazione (Johnston and Hausman 2006).Una differenza rispetto all’istituzione del matrimonio nel mon-do occidentale, è il fatto che, le organizzazioni possono essere poligame e instaurare più relazioni di business contempora-neamente, creando un network di organizzazioni. Per superare questo limite della metafora del matrimonio, si può applicare la metafora della famiglia, dal momento che i matrimoni non coinvolgono solo la coppia, ma anche le famiglie dei coniugi e i loro amici. Possiamo pensare ai membri che partecipano alla relazione, come figli (ad esempio l’azienda C, creata dall’unione di A e B), genitori, zii e amici con cui gli individui normalmente interagiscono. I legami che si instaurano hanno forza differente e alcuni nascono per continuare a godere dei benefici ottenuti dal legame con un’organizzazione. Basta pensare a una situa-zione famigliare in cui la relazione tra suocera e nuora è tesa: la nuora cercherà di sopportare la suocera per non danneggiare la relazione col marito; da una prospettiva aziendale, una buona relazione con un partner può compensare la cattiva relazione con un altro (Johnston and Hausman 2006).Questa metafora della famiglia evidenzia, inoltre, un aspetto importante: come i matrimoni sono fortemente facilitati se approvati e supportati dalle famiglie e dagli amici, così anche i rapporti aziendali devono guadagnare l’approvazione e il supporto della forza lavoro coinvolta, degli stakeholder e dei costituenti chiave nell’ambiente circostante, ovvero ottenere la legittimità, fondamentale per il successo della relazione (Rottig, 2013).Quando l’alleanza tra due organizzazioni non è di successo come ci si aspettava, non è più adatta agli obiettivi e alle stra-tegie iniziali, o quando le due parti si rendono conto di essere troppo differenti, oppure, semplicemente, se gli obiettivi che avevano portato alla nascita del rapporto vengono raggiunti, due aziende possono decidere di mettere fine alla loro relazio-ne, ovvero “divorziano”. Se un matrimonio si suppone duri per tutta la vita, le relazioni di business non hanno una durata determinata e, come in alcuni matrimoni la fine produce risultati positivi per i coniugi, così anche per le imprese la fine di relazioni può avere conseguenze positive e non deve essere sempre vista come un fallimento. Inoltre, sebbene il divorzio di una coppia causi trauma, tristezza, rabbia e senso di colpa, la maggior parte dei divorziati trova poi un nuovo partner e ciò avviene anche per le organizzazioni, le cui relazioni comportano un minor carico emozionale, essendo guidate da interessi economici. Infine, analogamente al divorzio tra due coniugi, anche il divorzio tra due organizzazioni comporta una costante rinegoziazione a cui entrambe le parti partecipano, sperando di ottenere il migliore risultato, che dipende dai costi di uscita (Peng and Shenkar 2002).

Ragionevoli ipotesi di risposta coerenti con quanto emerge dalla letteratura

Revisionando studi già effettuati da altri ricercatori e ripor-tati nella letteratura e analizzando materiale mediatico, una ragionevole ipotesi di risposta potrebbe essere la seguente: le diverse fasi che costituiscono l’evoluzione di una relazione interpersonale, applicate alle relazioni di business, rendono chiari i meccanismi tramite i quali le organizzazioni entrano in rapporto.

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78 Come per l’istituzione del matrimonio, prima della cui ce-lebrazione gli individui, per lo meno per quanto riguarda il mondo occidentale, devono conoscersi e costruire le basi per un legame solido e duraturo, così anche le organizzazioni, prima di fusioni, acquisizioni e joint venture, vivono una fase di avvicinamento e conoscenza reciproca per capire se vi sia la possibilità di instaurare una relazione di business efficace e conveniente, con un partner affidabile. In seguito, abbiamo visto come sia necessario per le organizzazioni, proprio come in un matrimonio, mantenere la relazione nel tempo, coope-rando, comunicando e affrontando i periodi di crisi, che, se non risolti, portano in un matrimonio a una possibile separa-zione con successivo divorzio, e, tra le organizzazioni, alla fine del rapporto di business.Oggigiorno, però, le organizzazioni sono inserite in un network più ampio, che va oltre il semplice rapporto diadico tra due imprese, e ciò implica che un’azienda possa avere più relazioni contemporaneamente.Di conseguenza, seppure le metafore del matrimonio e del divorzio chiarifichino lo svilupparsi di relazioni di business, un’ulteriore ipotesi che potrebbe emergere analizzando i dati potrebbe essere che la metafora della famiglia spieghi in maniera esaustiva le relazioni nel mondo del business. Estendere la relazione matrimoniale al di là dei soli coniugi, tenendo in considerazione anche la presenza di famigliari e amici, infatti, contribuirebbe a rendere più chiari i diversi tipi di legame che un’azienda può avere con più organizzazio-ni simultaneamente.

Piano di ricerca

Per verificare le ipotesi che potrebbero rispondere alla doman-da di ricerca di questo studio sarebbe interessante svolgere un’analisi quantitativa dei contenuti. I media spesso trattano

tematiche di business, presentando come le aziende entrano in contatto tra loro e stabiliscono relazioni di breve o lunga durata. Spesso queste relazioni, come visto tra gli esempi riportati per l’oggetto di analisi, vengono presentate tramite metafore. Sarebbe dunque interessante prendere un campio-ne composto da quotidiani economici, quale il Sole 24 Ore, e quotidiani di ordine generale, come Il Corriere della Sera, che coprano un periodo di tempo di almeno un anno (ad esempio, lungo tutto il 2014). A questo punto, effettuando un’analisi dei contenuti quantitativa, è possibile categorizzare in un co-debook tutte le metafore utilizzate nel presentare le relazioni di business. Codificando le differenti metafore, sarà possibile notare se effettivamente quelle del matrimonio e del divorzio siano ricorrenti e come queste vengano utilizzate per eviden-ziare differenti stadi dei rapporti aziendali. Inoltre, emergereb-be da tale metodo se i quotidiani economici e quelli di ordine generale presentano le vicende in maniera simile, oppure sottolineandone aspetti diversi e come la presentazione di una stessa vicenda cambi nel corso dell’anno analizzato. Ad esem-pio, analizzando quotidiani pubblicati durante un intero anno, potrebbe emergere come la fusione di due aziende venga presentata prima in termini di matrimonio e, col passare dei mesi, se questa non dura, se si passi effettivamente all’utilizzo di metafore del divorzio.Inoltre, potrebbe essere utile esaminare anche i differenti comunicati stampa con i quali le aziende annunciano deter-minate fusioni, acquisizioni e divisioni per notare come esse stesse presentino questi avvenimenti, se utilizzando metafore per trasmettere meglio un messaggio, oppure limitandosi a presentare i fatti senza trasposizioni metaforiche.

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Il mondo del business visto in chiave sentimentale:le aziende si sposano e divorzianoStefania Riva

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79Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /La metafora della finestra e la cornice nel cinemacontemporaneoAnnapaola Tucci

La metafora della finestrae la cornice nel cinemacontemporaneoLe metafore cornice e finestra

Sin dal suo avvento, il cinema è stato oggetto di un dibat-tito ontologico circa le sua natura che ne ha distinto due principali approcci metaforici: il formalismo della cornice ed il realismo della finestra.Nonostante la similitudine dei concetti, le due metafore si riferiscono a peculiarità diverse: così come Platone incornicia-va le ombre sulla parete della caverna e Leon Battista Alberti parlava della pittura come “una aperta finestra dalla quale si abbia a veder l’istoria” (De Pictura 1436), il cinema è stato interpretato come artefatto da inquadrare o come lente per “vedere-attraverso” (Terrone 2014).Nella sua concezione di spazio semiotico delimitante, la corni-ce (individuabile nella sala cinematografica, nei fotogrammi della pellicola, nell’inquadratura di una scena, …) mette in risalto sia la sua valenza estetica di supporto sia un contenuto di tipo “immaginario” (Casetti 1993). “La cornice porta alla vista soprattutto l’organizzazione del materiale (montaggio, mise en scène). [...] descrive una costruzione filmica che esiste solo per lo sguardo dello spettatore, e perciò si esaurisce ai confini dell’inquadratura” (Elsaesser, Hagener 2007).Al contrario, la metafora della finestra (le lenti della cinepre-sa e del proiettore, la finestra della sala di proiezione, …) rimanda al legame tra cinema e realtà. Il film è una testimo-nianza che rifiuta l’immagine “bella in sé” e registra ogget-tivamente “lo splendore del mondo, la verità delle cose, in una parola la realtà” (Casetti 1993).

Domanda di ricerca

Finora sono stati questi i concetti fondamentali che hanno concepito e fatto il cinema, guidato le ideologie di registi e sceneggiatori ed accompagnato lo sguardo dello spettatore.Tuttavia, con l’avvento delle nuove tecnologie ed il loro uso sempre più frequente, si può ancora parlare di metafora del-la cornice e della finestra riguardo il prodotto cinematografico?Il modo di fare cinema è cambiato e si è evoluto nel corso degli anni, sviluppando diverse ideologie e fasi sperimentali, pur rimanendo sempre uno strumento per inquadrare ed intrappolare la realtà in maniera oggettiva o soggettiva. Ma l’evoluzione delle ICT e della tecnologia digitale pone il cine-ma ad un punto di svolta, come non era mai successo prima.Questo studio si interroga su come i progressi nella tecno-

logia stiano influenzando la concezione e la realizzazione dell’immagine in movimento, se essa sia ancora paragonabi-le ad una cornice e ad una finestra affacciate sul mondo ed in quale modo; inoltre cercherà di capire se questi cambiamen-ti di scala, spazio e dimensione nella ricezione delle imma-gini in movimento stiano contribuendo alla creazione di un nuovo approccio metaforico sulle esperienze sensoriali e le estensioni percettive del cinema. Infatti, i moderni multisala propongono immagini e suoni in Alta Definizione; i film vengono girati con effetti speciali innovativi che introduco-no realtà virtuali (come ad esempio nel 3D); i nuovi media rendono possibile una fruizione dei prodotti cinematografici in maniera sempre più “disseminata e dispersa in una plu-ralità di spazi e di supporti”, cancellando l’esistenza di “un luogo privilegiato nel quale situare l’esperienza mediale” (Fadda 2009). In questa prospettiva bisogna dunque inter-rogarsi su quale mutamento e/o spostamento sia avvenuto nella percezione fisica dello spettatore nei confronti del cinema, se inteso ancora come metafora-contenitore della cornice/finestra oppure no.

Esempio dell’oggetto di analisi

Per comprendere meglio questi due concetti e procedere dunque ad un’analisi della ricerca, illustriamo di seguito alcuni esempi delle metafore proposte.

Il cinema come cornice

Sherlock Jr. (1924)

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80 Ben-Hur (1959)

Uno dei primi film a riflettere sull’essenza del cinema in termini di cornice è Sherlock Jr. di Buster Keaton. L’intero film adempie allo scopo di rappresentare la metafora, ma se ne può percepire l’esplicito messaggio nella scena in cui Buster -durante un sogno- travalica lo schermo ed entra nella cornice della proiezione, indossando così i panni immaginari del detective Sherlock. Questo ad indicare come il cinema abbia la capacità di creare mondi immaginari ed artefatti distinti dal reale, per dilettare lo spettatore mediante l’estetica di effetti speciali e “magie”.Un esemplare filmico dell’applicazione pratica di tale meta-fora è uno dei primi colossal della storia: Ben-Hur di William Wyler.Esso è uno degli esempi più concreti della concezione del CINEMA COME CORNICE poiché ambientato in un mondo immaginato e non attuale (a Roma e Gerusalemme ai tempi dei romani) attraverso l’ausilio di avanzate tecniche di produ-zione ed effetti speciali.

Il cinema come finestra

La finestra sul cortile (1954)

Tempi moderni (1936)

Come Keaton ha basato un intero film sulla metafora della cor-nice, così Alfred Hitchcock ha rappresentato in un lungometrag-gio la metafora del CINEMA COME FINESTRA. Tutto il film, infatti, ha una sola grande scenografia ed è visto dagli occhi dello stesso personaggio attraverso una finestra. Il protagonista Jeff spia dalla finestra le vite dei vicini di casa, adempiendo al ruolo di vero e proprio spettatore cinematografico che osserva la realtà oggettiva in maniera impotente.La successione delle scene di questo film “rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinema-tografica” in quanto “siamo tutti dei voyeur” (Truffaut 1993).Un esempio pratico di mondo reale visto attraverso le lenti del cinema si ritrova in molti dei film chapliniani. Primo fra tutti Tempi Moderni che mostra la realtà sociale ed economica del periodo dell’industrializzazione e il confronto moderno dell’uomo con la macchina, che seppur in maniera ironica ha lo scopo di far riflettere sul mondo in cui viviamo.

Il cinema contemporaneo

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug (2013)

Life of Pi (2012)

Sono numerosi i film che potrebbero essere analizzati per comprendere se il CINEMA CONTEMPORANEO sia prevalen-temente un prodotto di cornice o di finestra, tuttavia prendiamo due recenti esempi ritenuti eclatanti per lo spettacolare utiliz-zo delle tecnologie moderne.Lo Hobbit: La desolazione di Smaug è un film fantasy del 2013, secondo di una trilogia filmata da Peter Jackson, che ha utilizzato diverse tecnologie innovative del settore. Ha ricreato dal nulla, infatti, paesaggi e creature (come il drago Smaug in foto) attra-verso la computer grafica e il motion capture; ha inoltre introdot-to l’utilizzo di immagini riprese e proiettate a 48 fotogrammi al secondo, 24 in più rispetto allo standard usato nell’ultimo secolo. Ciò ha reso la visione del film più realistica e nitida e più adatta ad una riproduzione in 3D.Allo stesso modo Life of Pi di Ang Lee ha proposto per quasi tutta la durata del film immagini e scenografie non reali ma ricostruite in digitale, per creare immagini esteticamente appaganti per l’occhio.

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81Analisi della letteratura sul tema

Ma quali sono le caratteristiche del cinema contemporaneo e quali le differenze principali rispetto al cinema prima del digitale?Diversi studiosi si sono interrogati sul tema, tra i quali gli insegnanti di storia del cinema all’Università di Torino Gianni Rondolino e Dario Tomasi nel “Manuale del film” del 2011, edito da UTET Università.Gli autori analizzano il linguaggio cinematografico in tutte le sue componenti tenendo conto dei grandi cambiamenti che stanno avvenendo a livello pratico e teorico e concentrando-si sugli elementi che il cinema contemporaneo e digitale ha introdotto nella comunicazione filmica.Oggi i film si caratterizzano per la dimensione virtuosistica e tecnicista -specificano gli autori- che propone un cinema delle attrazioni mediante la successione di “immagini-fuochi d’arti-ficio”: si predilige una narrazione quasi ornamentale delineata da “dinamiche euforiche e sensazionalistiche”, rispetto alla narrazione classica razionale e lineare di fatti diegetici (Ron-dolino, Tomasi 2011). Parlano, infatti, di una “logica pirotecnica del cinema po-stmoderno” che subordina l’aspetto narrativo del film alla pura estetica dello spettacolo offerta dal digitale e dalle nuove tecnologie, dove la macchina da presa non è più utilizzata per riprendere una visione oggettiva ma solamente per coinvol-gere lo spettatore su un piano sensoriale con un surplus di spettacolarità (Rondolino, Tomasi 2011).Un esempio pratico è l’uso molto più diffuso di immagini riprese da punti di vista eccezionali. Le inquadrature con angolazioni anomale e molto accentuate - chiamate “oggettive irreali” - sono state adoperate in tutta la storia del cinema al fine comunicativo e narrativo di fornire allo spettatore delle informazioni, a differenza di quello contemporaneo che ne fa un abuso per coinvolgere fisicamente lo spettatore attraverso i dettagli di immagini ravvicinatissime.L’avvento del digitale ha inoltre permesso di allungare la du-rata delle singole riprese oltre gli 11-12 minuti delle cineprese analogiche, consentendo la realizzazione di lunghi piani se-quenza e long take. Ciò, insieme alla possibilità di creare piani sequenza simulati mediante la cancellazione digitale degli stacchi, dà la possibilità al cinema contemporaneo di azzarda-re virtuosismi prima impensabili.Un ulteriore apporto agli studi è stato sostenuto da Michele Fadda, professore al Dams di Bologna, ne “Il cinema contem-poraneo – Caratteri e fenomenologia” del 2009 (Archetipo-libri editore). Attraverso un profilo critico e una raccolta di documenti di autori diversi, egli ricerca gli elementi dell’este-tica contemporanea per ripensare al ruolo ed al contributo del cinema nell’orizzonte culturale e sociale odierno.Anche Fadda sostiene che oggi si sembra voler privilegiare l’apparato sensoriale piuttosto che quello cognitivo, prestando una minore attenzione allo sviluppo narrativo del raccon-to filmico e ai discorsi dei personaggi. Di contro si verifica sempre più la riproposizione di strutture narrative consolidate in remake o saghe, e l’utilizzo di componenti extradiegetiche impongono istanze “immersive” ed accelerano i ritmi stilisti-co-narrativi (nel numero di stacchi in montaggio, nelle veloci mobilità di ripresa delle nuove cineprese leggere e versatili, ...). Ciò comporta una moltiplicazione di tutti i punti di vista possibili all’interno della stessa dimensione spaziale che risulta in un crepuscolo della soggettività e nell’instaurarsi di un regime sinottico; inoltre si svela una dimensione fantastica e immaginaria del reale e viceversa, nella quale -nonostante il carattere artificiale- lo spettatore continua a riconoscersi e a concedergli credibilità.Un altro aspetto dell’immagine che si sta sviluppando è la profondità di campo, sempre più esaltata mediante le mo-derne tecniche tridimensionali. La totale immersione dello

spettatore si verifica, infatti, nella realizzazione del 3D che definisce l’immagine in una dimensione scultorea piuttosto che pittorica, tipica del cinema pre-digitalizzato.Attraverso la spiegazione di queste caratteristiche, Fadda giunge alla conclusione che il cinema contemporaneo dimo-stra ancora una tendenza alla rappresentazione di un reale, seppur di diversa concezione rispetto al passato per la sua na-tura “iperrealistica” (data ad esempio dalla luministica e dalla coloristica artificiale) che vuole apparire “più vera del vero” da risultare fredda e falsa. Tuttavia, l’autore afferma che “I fra-mes concettuali e narrativi con cui il cinema aveva strutturato la propria sostanza reale e immaginaria vanno certo incontro a un progressivo sfaldamento, ma questo non implica la loro sparizione e che non possa sussistere una nuova possibilità combinatoria dei media e degli stili” (Fadda 2009).Un’altra posizione coerente con quella espressa nei testi precedentemente presentati è quella di Alessandro Amaducci, videoartista ed insegnante al Dams di Torino, che si concentra proprio sulla definizione di una nuova forma di cinema fon-data dalle nuove tecnologie in “Anno Zero – Il cinema nell’era digitale” del 2007, edito da Lindau.Amaducci, analizzando i lavori recenti di noti registi, si soffer-ma molto sul passaggio epocale dalla pellicola tradizionale al video digitale e ne specifica le conseguenze tecniche e stili-stiche. Egli afferma che l’avvento del digitale in Alta Defini-zione riapre la sfida tra il cinema e le nuove tecnologie sia in ambito produttivo che linguistico, “dando vita a una storia del «cinema» nuova, che grazie al digitale sta ripartendo da zero” (Amaducci 2007). Un primo esempio di cambiamento è dato dalle immagini ricreabili in computer grafica, diverse per natura da tutti gli altri tipi di immagine: malgrado le “forme fortemente fotorealistiche”, non sono nient’altro che riprodu-zioni del pensiero mediante la concretizzazione matematica, modelli e simulacri che non hanno bisogno di alcun referente. Gli oggetti scoprono la dimensione sferica, si concretizzano appunto in immagini visibili e gestibili da tutti i lati dall’oc-chio onnipotente dell’utente. L’autore parla di una nuova «linea Méliès» (un tipo di cinema che unifica l’animazione alle riprese dal vero come nei film del regista francese) introdotta con il digitale, nella quale gran parte della sceneggiatura non è più raccontata attraverso i dialoghi dei personaggi, ma con l’ausilio di immagini e suono (Amaducci 2007).Anche Amaducci si esprime poi sulla volontà del cinema odierno di voler simulare a tutti i costi la realtà in un effetto che, tuttavia, rimane distorto e artificiale perché al contempo ne esagera le forme.Infine, è particolarmente interessante citare il suo riferimento all’invisibilità e all’immaterialità dell’immagine elettronica: queste caratteristiche vengono paragonate dall’autore alle immagini mentali della memoria e dei sogni, non solo in maniera metaforica quanto per una somiglianza di nature. L’elettricità infatti è alla base del funzionamento dei neuroni e dei singoli pixel del video; la capacità di registrazione dell’im-magine e l’accumulazione dei suoi dati avviene sia nel mondo della memoria che del digitale; così come la rielaborazione dei dati del reale, le colometrie artificiali e la volatilità delle forme sono tipiche dei sogni e delle produzioni filmiche odierne.

Ipotesi di risposta

In seguito alle analisi condotte sullo stile e sul linguaggio del cinema contemporaneo, possiamo dunque associarlo ancora alle metafore di cornice e finestra come era possibile fare prima dell’avvento del digitale? Oppure la paventata crisi della set-tima arte deriva da un cambiamento di prospettiva? Per poter formulare una chiara ipotesi di risposta, bisogna partire dalla spiegazione della cosiddetta metafora del contenitore esposta nel 1980 in “Metafora e vita quotidiana” da George Lakoff

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82 e Mark Johnson. In sintesi, mediante la nostra esperienza fisico-corporea riusciamo come esseri umani a delineare dei confini tra ciò che è dentro di noi e ciò che è esterno, consi-derandoci come dei contenitori. Questo concetto ontologico lo estendiamo a tutti gli altri oggetti fisici che, delimitati da superfici, sono dei contenitori che separano tra interno ed esterno; allo stesso modo concepiamo il campo visivo, super-ficie fisicamente delimitata dal senso della vista, che conce-piamo quindi come contenitore. Si basano su questi assunti le due metafore sul cinema, in quanto entrambe mettono a fuoco un preciso spazio visivo ed enfatizzano la distanza dallo spettatore. Purtroppo, dalle constatazioni tecnico-stilistiche sui lavori cinematografici attuali emerse nell’analisi della letteratura, questa associazione di metafore non sembra più valere. Tutti e tre i testi proposti hanno evidenziato in comune come il cinema contemporaneo si dedichi ad una pura estetica dello spettacolo, a dinamiche sensazionalistiche e a virtuosi-smi, che in apparenza sembrerebbero caratteristiche tipiche della cornice piuttosto che della finestra. Tuttavia, considerando quegli aspetti “immersivi” citati dagli studi secondo i quali lo spettatore viene coinvolto fisicamente nel film, non si può più osservare la cornice esternamente ma ci si ritrova catapultati all’interno di essa. Una volta entrati all’interno della cornice, essa stessa non ha più senso di esistere né tanto meno la metafora del contenitore: al di là dello specchio esiste infatti un mondo infinito di possibilità di creazione, offerto dalle nuove tecnologie digitali di animazione e computer grafica. Insomma questo studio ipotizza che il cinema stia lentamente mutando la propria essenza (e dunque il proprio approccio metaforico) verso un qualcosa dai limiti indefinibili come quelli dei sogni, ma che per il momento si trovi in bilico tra la cornice e il suo interno.

Piano di ricerca

Per poter verificare l’ipotesi avanzata, secondo la quale la metafora della cornice si sta spostando verso una più simile a quella del sogno, si va incontro alla necessità di stilare un piano di ricerca su di un preciso campione di film. Trattando-si di cinema contemporaneo e del suo sviluppo tecnologico, si potrebbe utilizzare un campionamento non probabilistico seguendo criteri precisi: la popolazione dovrebbe essere sud-divisa infatti secondo l’anno di uscita, la tipologia di film e le tecniche cinematografiche utilizzate.Per studiare il cinema contemporaneo la sezione dell’anno di uscita deve comprendere film degli ultimi cinque anni, dunque dal 2010 in poi. Devono essere selezionati film che contengono tecniche di animazione o che siano totalmente ricreati in computer grafica, e tutti quelli che utilizzano la tecnologia 3D.Ad esempio, dovrebbero essere inclusi tutti i recenti lavori di case di produzione come Disney, Pixar e Dreamworks, così come tutti i film che dal 2010 ad oggi hanno trattato i generi fantasy, fantascientifico e supereroistico.I film che andrebbero a creare il campione finale, dunque, dovrebbero essere estratti rispettando queste caratteristiche al fine di comprendere le nuove modalità di far cinema.

Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /La metafora della finestra e la cornice nel cinemacontemporaneoAnnapaola Tucci

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83Cultura & Comunicazione /La metafora nel discorso, nella mente, nella società /Bambini: come capiscono e usano il linguaggiometaforicoMartina Wirth

Bambini: come capisconoe usano il linguaggio metaforico?Le metafore sono una componente fondamentale dei nostri discorsi. Vengono usate e comprese senza che noi ce ne ac-corgiamo. I concetti metaforici sono diversi da lingua a lingua e sono ancorati nel nostro linguaggio e nella nostra cultura. La domanda principale che ci si pone in questo scritto è se i bambini siano capaci di capire e di usare il linguaggio meta-forico. Si tratta di un processo che evolve con la crescita del bambino e che quindi essi saranno sempre più capaci di usare concetti metaforici nei loro discorsi? Questo lavoro scritto mira a dare una visione su quanto i bambini siano in grado di usare e capire discorsi metaforici. Inoltre, si vuole scoprire a partire da quale età i bambini cominciano ad usare linguag-gio metaforico e come sono in grado di capirlo. Con questo lavoro e la rispettiva lettura scientifica, si cerca di individuare i diversi livelli di difficoltà del linguaggio metaforico; ovvero se esistono concetti metaforici più comprensibili per i bam-bini di età pre-scolare. Inoltre sarebbe interessante osservare se l’acquisizione del linguaggio metaforico dei bambini può essere associato al livello d’istruzione del bambino stesso e soprattutto con l’ambiente sociale in cui cresce.

Una volta individuato l’ambito di bambini e metafore, de-v’essere trovata una domanda di ricerca adeguata, che possa essere utile per questo lavoro.La domanda non deve essere troppo ristretta, in quanto diventerebbe difficile trovare articoli scientifici adeguati per rispondere in maniera ottimale, d’altra parte non deve nem-meno essere formulata in maniera troppo ampia.Il tema da approfondire è il linguaggio metaforico usato dai bambini. Da un lato vuole essere studiata la comprensione del linguaggio metaforico da parte dei bambini, dall’altro lato quanto siano in grado di formulare ed usare il linguag-gio metaforico nei loro discorsi quotidiani. Quindi entrambi gli aspetti devono essere presenti nella domanda di ricerca.Un altro punto da prendere in considerazione è l’età del campione. Ci si chiede infatti se sia meglio concentrarsi solo su un certo segmento di età. Inizialmente l’idea era di con-centrarsi unicamente sui bambini di età pre-scolare (da 3-5 anni). In seguito, studiando la letteratura pertinente, è risul-tato più interessante formulare la domanda apertamente, prendendo quindi in considerazione le diverse età dei bam-bini (da 4-12 anni). In questo modo si può studiare meglio anche il processo di acquisizione di conoscenza metaforica che man mano si sviluppa durante la crescita del bambino.

La versione finale della domanda di ricerca che vuole essere studiata è la seguente:“I bambini sono già capaci di capire e usare il linguag-gio metaforico nei loro discorsi? A partire da che età si riscontrano maggiormente usi corretti di elementi metaforici da parte dei bambini?”Tenendo conto del fatto che si tratta di una domanda abba-stanza corposa, vengono poi presentati nei prossimi para-grafi alcuni testi scientifici che si sono resi utili a dare delle risposte alla domanda di ricerca.

1. Un esempio dell’oggetto di analisi

Qui di seguito è riportata una parte di un’intervista che il ri-cercatore Peter Gansen (Gansen 2010, 322-328) ha condotto con due bambini di 10 anni di sesso maschile: Lukas e Sven. Con questa ricerca si voleva testare la capacità di pensare e parlare metaforicamente dei bambini in età scolare. Co-lui che intervistava, ha fornito degli esempi di espressioni metaforiche usate nella vita quotidiana che, molto proba-bilmente, i bambini avevano già sentito. Poi si è osservato come i soggetti reagivano a tali espressioni, se ne conosceva-no il significato, se li potevano spiegare e in quali situazioni quotidiane sono già venuti in contatto con esse.L’intervista è stata messa qui di seguito come esempio e ver-rà successivamente spiegata e analizzata. Siccome si tratta di un documento in tedesco, alcune delle metafore vengono tradotte e spiegate , prima di essere poi discusse, per poter essere comprensibili ai soggetti.Il primo concetto metaforico menzionato, “Ich sehe gleich rot” (=vedo rosso), che vuol dire arrabbiarsi, viene - come gli altri - introdotto dal ricercatore. Mentre Sven ammette di non aver mai sentito quell’espressione, Lukas ne indivi-dua il significato fornendo anche un esempio della sua vita quotidiana in cui aveva già sentito che sua madre usava quel concetto metaforico.Possiamo osservare comportamenti simili nel prossimo esempio: Lukas riesce ad individuare senza troppi problemi il significato del concetto metaforico “schwarz malen” (=dipingere nero), mentre Sven ne forni-sce un significato scorretto.Lo stesso risultato si ripete quasi per tutti i concetti metafo-rici menzionati dal ricercatore durante l’intervista.L’espressione metaforica che entrambi i soggetti non riesco-no a capire è: “bunter Hund”.

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Riassumendo possiamo dire che i due ragazzi mostrano abilità molto diverse nel capire e nello spiegare il significato delle espressioni metaforiche. Sven, fino alla fine dell’intervista, non capisce di che cosa si tratta veramente. Invece di cerca-re di fornire delle spiegazioni sulle espressioni metaforiche, racconta di situazioni quotidiane in cui gli sembra di aver già sentito quella metafora. Invece di ragionare più profondamen-te su una certa espressione cerca di fornire una spiegazione diretta dal primo aspetto che può individuare. Così per lui un “Schwarzmaler” è uno che dipinge in nero; mentre “ein bunter Hund” è un cane e “Kopfzerbrechen” ha a che fare con il mal di testa.L’altro soggetto, Lukas, dimostra una comprensione del-le metafore più sviluppata. Di quasi tutte le espressioni ne conosce il significato e in più è anche in grado di fornire un esempio della sua vita quotidiana. Cerca anche di aiutare il suo compagno spiegandogli la definizione di metafora e come viene usata.

L’esempio riportato con i due bambini di scuola elementare mi sembra adatto per dimostrare come alcuni di essi siano già in grado di capire e spiegare delle espressioni metaforiche, mentre altri non ancora. Questo ci fa capire che la compren-sione di concetti metaforici non dipende soltanto dall’età dei bambini, ma anche da molti altri fattori. Questi possono essere sicuramente il livello di istruzione, l’intelligenza del bambino stesso, ma anche il livello sociale in cui cresce. Se ad esempio i genitori utilizzano spesso delle espressioni metafo-riche nei loro discorsi è molto probabile che anche il bambino man mano capisca il suo significato e modo di essere usato.

2. Analisi della letteratura sul tema

Come dimostra un’analisi profonda di alcuni testi scientifici sul tema di metafore e bambini, è molto importante poter individuare cosa intendono i ricercatori con concetti metafori-ci. Infatti, nell’articolo Children and Metaphors (Vosniadou 1987, 870) l’autrice spiega che fin da piccoli i bambini utilizzano le metafore e che fanno parte del loro modo di parlare in quanto sono già capaci di produrre enunciazioni simili alle metafore. In più sono capaci di capire discorsi metaforici già all’età di quattro anni. Una visione simile viene anche fornita da Danesi. Lui dice che i bambini sono in grado di creare dei legami originali tra ambiti diversi della realtà (Danesi 2003, 68), cioè hanno già una capacità di usare schemi immaginari per formare discorsi metaforici. Gli schemi immaginari sono, secondo i due studiosi Lakoff e Johnson, “il prodotto di forme gestaltiche”, detti “schemi immaginari” che a loro volta sono “schemi di pensiero derivati da esperienze vissute” (Lakoff e Johnson 1980).Quindi la creazione di legami tra ambiti diversi dipende dal-l’esperienza sensoriale dei bambini, ovvero da come percepi-scono il mondo. Come riassunto dallo studioso, la metafora infantile può essere vista come prodotto della percezione sensoriale, inteso come lo “specchio della realtà” (Danesi 2003, 68).Come viene specificato da Vosniadou (1987) è importante distinguere le metafore pronunciate dagli adulti e da quelle usate dai bambini di età pre-scolare, i cosiddetti child me-taphors. Gli enunciati metaforici prodotti dai bambini possono essere ad esempio “I’m a waterfall”, pronunciato da un bam-bino che “sta scivolando giù da suo papà”. Questo significa che non necessariamente gli enunciati metaforici dei bambini, che assomigliano a quelli degli adulti, sono effettivamente delle vere metafore.L’articolo Children and Metaphors è interessante soprattutto perché prende in considerazione studi passati sul tema e ne fornisce nuove risposte, criticando anche studi precedenti. Il testo propone di concepire l’abilità dei bambini nel capire e produrre discorsi metaforici come uno sviluppo continuo e non come un processo a diversi stadi (Vosniadou 1987, 870). In più mette in evidenza che la comprensione e la produzione di enunciati metaforici dipende soprattutto dalla capacità di trasformare il sapere da un dominio concettuale ad un altro. Quindi un bambino è in grado di produrre un linguaggio metaforico a dipendenza della sua conoscenza concettuale e dalle sue abilità linguistiche di cui è già in possesso, ma anche dall’abilità del cosiddetto “information-processing” (Vosnia-dou 1987, 880). Secondo Vosniadou (1987), è questa la ragio-ne per cui è possibile la comprensione di enunciati metaforici nei bambini di età pre-scolare. Questo è possibile unicamente con metafore semplici, usate in contesto conosciuto. Possiamo aggiungere che quell’abilità di capire il linguaggio metafo-rico più complesso cresce proporzionalmente allo sviluppo del bambino stesso. Questo aspetto può essere sottolineato con il fatto che i bambini pre-scolari pensano solo in termini di similarità se si tratta di interpretare enunciati metaforici, mentre quelli più grandi riescono man mano a fare anche

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85inferenze deduttive trasformando informazioni da diversi domini concettuali.Un altro testo che si è mostrato utile nel rispondere alla domanda di ricerca è il libro The point of words scritto da Ellen Winner (1988). L’autore mostra le diverse fasi di età dei bam-bini e quanto siano già capaci di capire il linguaggio metafo-rico, fornendo degli esempi specifici che sono stati formulati dagli studiosi Asch e Nerlove (1960).Nel loro esperimento chiedevano a bambini di diverse età di individuare le caratteristiche fisiche di alcuni oggetti come “acqua ghiacciata” (= freddo) o un “cubo di zucchero”(= dolce) (Winner 1988, 38-39). Poi le domande venivano estese per vedere se i bambini erano in grado di capire anche il senso metaforico, detto anche il significato psicologico degli elementi. Gli si chiedeva ad esempio se conoscevano delle persone fredde. I bambini di età pre-scolare erano in grado di capire bene il significato fisico ma non capivano quello meta-forico, negando proprio il fatto che delle persone potessero es-sere fredde. I bambini tra i cinque fino ai sette anni sapevano applicare questi termini anche alle persone, ma solo nel senso fisico, ovvero che una persona fredda non aveva abbastanza vestiti caldi su di lui. Solo i bambini tra gli otto fino ai dieci anni ne potevano individuare anche il significato metaforico e poi quelli ancora più grandi potevano spiegare bene la connes-sione tra il significato fisico e quello psicologico-metaforico.I due ricercatori concludono che la comprensione totale del linguaggio metaforico non è interamente sviluppata fino all’età pre-adolescenziale. Questo risulta dal fatto che le me-tafore basate sull’estensione di termini fisici che vengono as-sociate a caratteristiche delle persone, sono quelle più difficili da capire tra tutte le metafore insensate. (Winner 1988, 85) Questo può essere spiegato dal fatto che i bambini non hanno ancora conoscenze abbastanza sviluppate sulle caratteristiche psicologiche degli uomini.Nel testo di Winner (1988) viene sottolineato un punto che abbiamo visto nel esperimento di Gansen (2010, 323) spiega-to nel paragrafo sopra. Consiste nel fatto che bambini in età pre-scolare capiscono le similarità letterali tra diversi ogget-ti, ma non quelle metaforiche (Winner 1988, 109). Quindi possiamo riassumere dicendo che l’abilità, che è già presente nei bambini piccoli, è quella di percepire similarità – sensata e insensata, mentre l’abilità nel capire le similarità metaforiche tra i diversi oggetti si sviluppa solo in un secondo stadio.Un terzo testo che può essere preso in considerazione per rispondere alla domanda di ricerca è quello scritto da Cerchia (2009). L’autore propone un nuovo modello cognitivo della comprensione metaforica che prende in considerazione criti-che e conclusioni che sono state fatte precedentemente da al-cuni autori. L’autore mostra che secondo tanti studi i bambini capiscono gran parte delle metafore all’età di sette anni, grazie alle loro abilità cognitive e metalinguistiche (Cerchia 2009, 201). Comunque soltanto dopo aver compiuto i dieci anni saranno in grado di capire anche metafore più complesse, quando il loro vocabolario sarà abbastanza ampio per capire le metafore e il significato di esse.Un’altra ipotesi interessante che viene fornita nel testo di Cer-chia è quella che un bambino di età pre- scolare non è in gra-do di tenere in mente due rappresentazioni diverse del mondo (Cerchia 2009, 201-202). Cioè se un adulto usa l’espressione metaforica “Oh it’s a rocket” per descrivere un cavallo che sta galoppando velocemente, il bambino allora ha due rappresen-tazioni contrastanti – del cavallo e della scheggia. Siccome per il bambino queste due rappresentazioni sono antagoniste, si trova in una situazione di conflitto mentale, ovvero il bambi-no, a questa età, non è ancora in grado di tenere nello stesso tempo le due rappresentazioni in mente paragonandole per trovare l’elemento in comune.

3. Ipotesi di risposta

In base alla letteratura studiata, è possibile formulare due ipotesi riguardo all’età in cui i bambini sono capaci di capire e usare concetti metaforici.Un’ipotesi dice che i bambini in età pre-scolare non sono ancora in grado di capire metafore complesse perché la loro capacità percettuale e concettuale non è ancora abbastanza sviluppata. Le abilità di percepire similarità non sono ancora abbastanza sviluppate e questo li limita nel percepire e capire i tipi di similarità che predicono delle metafore che poi per i bambini risultano essere incomprensibili. Per sottolineare questa ipotesi, possiamo spiegare un esempio che è stato fatto: se si chiede a un bambino di quattro anni se capisce la descrizione di nuvole viste come cuscini, la risposta risulta sì, perché si tratta di una similarità sensata. Se invece si parla di una nuvola come una spugna o addirittura come un ricordo triste, i bambini non lo capiscono perché si tratta di similarità non-sensata. (Winner 1988, 61)Una seconda ipotesi può essere formulata nel modo seguente: I bambini in età pre-scolare non sono capaci di capire e usare pienamente il linguaggio metaforico a causa di una cosiddetta “deficienza informale”. Con deficienza informale si intende che la conoscenza dei domini nel cervello non è ancora abba-stanza sviluppata. Con dominio viene intesa la parte con cui organizziamo il mondo e a cui ci riferiamo per dividere tutto in diverse categorie come macchine, persone ecc. Per capire le metafore interamente bisogna quindi conoscere i domini coinvolti. L’ipotesi è che, anche se i bambini vedono tutte le similarità come gli adulti, non riescono a mettere insieme il legame tra diversi domini perché forse un certo dominio non è ancora abbastanza sviluppato. Quindi prendendo l�esempio citato sopra, se il bambino sa poco sul dominio delle spugne, risulta anche difficile per esso capirne il legame con le nuvole. (Winner 1988, 62)

4. Piano di ricerca

Il piano di ricerca che viene proposto comprende diversi stadi:Un primo stadio è quello di cercare articoli scientifici e libri utili per rispondere alla domanda e alle ipotesi. Possono essere presi in considerazione i testi proposti sopra, ma se ne posso-no trovare anche altri. Un punto fondamentale è sicuramente lo studio attento della letteratura scientifica, per trovare testi utili al lavoro di ricerca e poter fare in un secondo momento un’analisi del contenuto.Un secondo passo consiste nel cercare un metodo adegua-to per trovare risposte alle ipotesi attraverso esperimenti. Un’idea sarebbe fare delle repliche di esperimenti già fatti da altri ricercatori per vedere se si trovano gli stessi risultati e quindi le stesse ipotesi per rispondere alla domanda di ricerca. Fare un esperimento con i bambini implica innanzitutto di cercarne un campione e chiedersi che età devono avere; se si vuole testare unicamente un gruppo di bambini di età pre-sco-lare oppure paragonarli con altri classi di età (ad esempio: 4-6, 7-9, 10-12 anni). I compiti proposti ai bambini devono essere adatti alla loro età ed è importante inoltre creare un ambiente piacevole in cui i bambini possano sentirsi sicuri.Esempi di esperimenti adatti da fare con i bambini sono per esempio chiedergli il significato di alcune metafore usate nella vita quotidiana (Gansen 2010, 322) o lasciar loro spiegare il legame tra diversi oggetti; come ad esempio il legame tra una faccia umana vista come un pomodoro.Risulta necessario fare una codificazione delle possibili rispo-ste, in modo tale che i dati possano essere analizzati quantita-tivamente. Così facendo, i dati trovati possono essere para-gonati con la letteratura e si possono formulare delle ipotesi adeguate per rispondere alla domanda di ricerca, basate sui risultati ottenuti dagli esperimenti.

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