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53 Quando rigore e rigenerazione si incontrano Procedure di ordinazione e disciplina monastica nell’ambito del revival del Buddhismo cinese contemporaneo Ester Bianchi Abstract The contemporary Buddhist Revival (fojiao fuxing 佛教復興) often concerns a recov- ery  not spontaneous but considered to be necessary  of ancient traditions and practices, some of which had been disregarded or had disappeared for decades or even for centuries. This is par- ticularly true in regard to ordination procedures and monastic rules and regulations, which are restored looking back to the remote past. Far from being a novelty of twentieth century China, the phenomenon of the vinaya revival (jielü fuxing 戒律復興) is well rooted in the past, where we can trace at least two other cases (at the beginning of the Tang dynasty and at the end of the Ming dynasty). All these cases, past and present, share a single objective: the regeneration of the mo- nastic community. In this light, the recovery of ancient monastic rituals and regulations is deemed necessary as a guarantee of purity and orthodoxy. 1 Premessa La Cina contemporanea sta vivendo un periodo di rinnovato fervore reli- gioso che, per quanto sia stato chiaramente stimolato dal ripristino della libertà di credo, sarebbe riduttivo considerare unicamente come conse- guenza delle nuove politiche governative adottate a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, cui avrebbe fatto seguito una spontanea rinascita di credi, pratiche, culti e dottrine. Al contrario, almeno per quan- to riguarda l’ambito buddhista, è possibile affermare che il revival in atto concerne spesso il recupero, per nulla spontaneo ma valutato necessario, di tradizioni e rituali antichi, anche appartenenti a un passato assai remoto e caduti in oblio da secoli. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda il tema della disciplina monastica (vinaya). Il presente studio indaga l’attuale «revival del vinaya» ( jielü fuxing 戒律復 ), cercando di comprenderne significati e finalità nell’ambito del «revival del Buddhismo» (Fojiao fuxing 佛教復興) che sta investendo la Cina da oramai Questo studio si colloca nell’ambito di un progetto di ricerca da me condotto assieme a Daniela Campo su significati, contenuti e implicazioni del ripristino della disciplina monastica durante la prima e la seconda metà del XX secolo. I primi risultati della ricerca sono stati presentati al workshop The Two «Buddhist Revivals» in 20th century China: Continuities and discontinui- ties (Shanghai, Fudan University, ICSCC, International Center for Studies on Chinese Civili- zation, 17-18 December 2013). Per quanto concerne la prima fase del revival del Buddhismo cinese, si rimanda al saggio di Daniela Campo incluso nel presente volume.
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Quando rigore e rigenerazione si incontranoProcedure di ordinazione e disciplina monastica nell’ambito del revival del Buddhismo cinese contemporaneo

Ester Bianchi

Abstract The contemporary Buddhist Revival (fojiao fuxing 佛教復興) often concerns a recov-ery – not spontaneous but considered to be necessary – of ancient traditions and practices, some of which had been disregarded or had disappeared for decades or even for centuries. This is par-ticularly true in regard to ordination procedures and monastic rules and regulations, which are restored looking back to the remote past. Far from being a novelty of twentieth century China, the phenomenon of the vinaya revival (jielü fuxing 戒律復興) is well rooted in the past, where we can trace at least two other cases (at the beginning of the Tang dynasty and at the end of the Ming dynasty). All these cases, past and present, share a single objective: the regeneration of the mo-nastic community. In this light, the recovery of ancient monastic rituals and regulations is deemed necessary as a guarantee of purity and orthodoxy.

1 Premessa

La Cina contemporanea sta vivendo un periodo di rinnovato fervore reli-gioso che, per quanto sia stato chiaramente stimolato dal ripristino della libertà di credo, sarebbe riduttivo considerare unicamente come conse-guenza delle nuove politiche governative adottate a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, cui avrebbe fatto seguito una spontanea rinascita di credi, pratiche, culti e dottrine. Al contrario, almeno per quan-to riguarda l’ambito buddhista, è possibile affermare che il revival in atto concerne spesso il recupero, per nulla spontaneo ma valutato necessario, di tradizioni e rituali antichi, anche appartenenti a un passato assai remoto e caduti in oblio da secoli. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda il tema della disciplina monastica (vinaya).

Il presente studio indaga l’attuale «revival del vinaya» ( jielü fuxing 戒律復興), cercando di comprenderne significati e finalità nell’ambito del «revival del Buddhismo» (Fojiao fuxing 佛教復興) che sta investendo la Cina da oramai

Questo studio si colloca nell’ambito di un progetto di ricerca da me condotto assieme a Daniela Campo su significati, contenuti e implicazioni del ripristino della disciplina monastica durante la prima e la seconda metà del XX secolo. I primi risultati della ricerca sono stati presentati al workshop The Two «Buddhist Revivals» in 20th century China: Continuities and discontinui-ties (Shanghai, Fudan University, ICSCC, International Center for Studies on Chinese Civili-zation, 17-18 December 2013). Per quanto concerne la prima fase del revival del Buddhismo cinese, si rimanda al saggio di Daniela Campo incluso nel presente volume.

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più di un trentennio senza manifestare segni di stanchezza o anche solo di assestamento. Allo stesso tempo, il fenomeno qui analizzato sembra condivi-dere modalità e obiettivi sia con analoghi tentativi di rivitalizzare la disciplina monastica in epoca imperiale sia con i più recenti movimenti buddhisti della prima metà del XX secolo: la rigenerazione della comunità religiosa (saṃgha) e la sua conseguente legittimazione agli occhi della società circostante.

Prima di addentrarmi nel cuore del problema, ritengo utile soffermarmi sulla legislazione che tutela e delimita la libertà di credo nella Repubblica Popolare Cinese, nonché su caratteristiche e dimensioni del fenomeno del «revival delle religioni» (zongjiao fuxing 宗教復興), di cui il jielü fuxing non è che una delle tante manifestazioni.

2 Zongjiao fuxing e Fojiao fuxing: legislazione, caratteristiche e proporzioni

Attraverso il noto Documento 19, nel 1982 il Governo della Repubblica Popolare Cinese ripristinava ufficialmente la libertà di credo dopo la Ri-voluzione Culturale e dichiarava controproducenti le politiche repressive nei confronti della religione, propendendo per una linea di tolleranza, giustificata sul piano ideologico dalla convinzione che la religione sarebbe destinata a scomparire spontaneamente con la maturazione della società socialista (MacInnis 1989, pp. 19-26).

Se questo è il contesto, non sorprende scoprire che esistono dei limiti imposti alla libertà di pratica e culto, che è garantita solo a chi afferisce a una delle cinque religioni ufficiali (Buddhismo, Daoismo, Islam, Cat-tolicesimo e Protestantesimo) e passa attraverso il controllo dello Stato (presente sul territorio tramite una struttura gerarchica di associazioni e uffici governativi) e la lealtà al Partito e alla Patria. Inoltre, ai membri del Partito Comunista non è concesso di aderire ad alcuna forma di religione.1 Tra i vincoli, spicca il divieto per i religiosi di dedicarsi all’insegnamento e al proselitismo al di fuori dei luoghi di culto, benché nell’ultimo decennio si sia registrato un notevole allentamento di queste limitazioni (Potter 2003, p. 326). Anche le ordinazioni sono soggette al controllo statale: l’ingresso nell’ordine monastico buddhista, ad esempio, è subordinato al possesso di precisi requisiti, quali un’età adeguata, il consenso della famiglia d’origine, lo stato civile nubile o celibe, l’assenza di pendenze penali o inclinazioni ideologiche deviate e così via (Bianchi 2011, pp. 197-198).

1 Si noti tuttavia che, secondo Richard Madsen (2011), il 15% dei membri del Partito pratica forme di religione, anche se non apertamente. Questo sembrerebbe suggerire che di fatto i credenti siano ancora considerati in Cina ‘cittadini di serie B’ ai quali (ad eccezione dei membri delle minoranze nazionali) è di fatto preclusa la possibilità di ambire a cariche o ruoli politici di rilievo (Laliberté 2011b).

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Pur essendo artefici di queste misure restrittive, nel corso dell’ultimo trentennio le autorità politiche hanno dimostrato una crescente tolleranza nei confronti delle religioni istituzionali e un sempre più evidente sostegno alle loro attività, laddove continuano invece a opporsi ai movimenti religiosi indipendenti. Già a partire dai primi anni Ottanta, lo Stato ha elargito fondi destinati alla creazione di scuole per la formazione del clero e ha investito capitali per il restauro e il recupero del patrimonio religioso danneggiato nel decennio precedente (Leung 2005, p. 909). Più di recente, le religioni sono state rivalutate sulla base del loro potenziale contributo alla creazione di una «società armoniosa» e in quanto portatrici di elementi di stabilità sociale; nello specifico, Daoismo e Buddhismo, definiti «pilastri della tra-dizione cinese» al pari del Confucianesimo, sono oramai considerati parti importanti del patrimonio culturale nazionale (Laliberté 2011b).

Il Buddhismo di tradizione cinese gode del favore governativo più di qualsiasi altra religione, probabilmente anche per via dell’assenza di tendenze sovversive al suo interno e per la propensione a essere colla-borativo con le autorità (Laliberté 2011a). Inoltre, il Buddhismo cinese è considerato utile nella gestione dei rapporti con Taiwan, Hong Kong e in generale con gli altri Stati asiatici di fede buddhista, mentre sullo scenario globale può essere impiegato anche come strumento di soft power per trasmettere un’immagine rassicurante e positiva del Paese (Ji 2004; 2012, pp. 21-22).

I risultati del nuovo atteggiamento governativo nei confronti delle re-ligioni appaiono evidenti se si guarda alle statistiche dei credenti e pra-ticanti. Fino a pochi anni fa le stime ufficiali volevano che vi fossero in Cina 100 milioni di fedeli in una delle cinque religioni ufficiali, pari all’8% dei cinesi. Nel 2007, un’indagine condotta dalla East China Normal Univer-sity di Shanghai ha rivelato che il 31,4% dei cittadini con un’età maggiore ai 16 anni si definiva apertamente ‘religioso’, raggiungendo così la stima di 300 milioni di cinesi, un dato che è stato fatto proprio dalle autorità governative. Infine, il Libro blu sulle religioni del 2010 ha rivelato che solo il 15% dei cinesi si considera non religioso; questo equivale ad ammettere in via ufficiale che l’85% della popolazione pratica una qualche forma di religione. Secondo la stessa indagine, il 18% dei cinesi si dedica a forme di pratica buddhista, un dato che rende di fatto il Buddhismo la più diffusa tra le cinque religioni istituzionali (Ji 2012; Lai 2003; Wenzel-Teuber 2012).

Il Fojiao fuxing si pone così come un fenomeno dalle proporzioni non trascurabili, capace di coinvolgere tra i 100 e i 200 milioni di fedeli e cir-ca 200 mila monache e monaci ordinati. Per quanto si debba riconoscere che il numero dei religiosi buddhisti regolarmente ordinati non ha ancora raggiunto quello del periodo pre-1949,2 la loro crescita recente (una me-

2 Negli anni Trenta vi erano in Cina 730 mila monaci e monache; nel periodo tra il ’49 e il

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dia dell’8% ogni anno fra il 1994 e il 2006) è stata tale da costringere le autorità politiche a modificare la normativa di riferimento, aumentando considerevolmente la quantità delle cerimonie di ordinazione e dei religiosi coinvolgibili (Ji 2012, pp. 13-14).

3 Jielü fuxing: rigore disciplinare e rigenerazione del sam. gha

La fioritura e riaffermazione del vinaya3 in epoca contemporanea si evince da una serie di dati inequivocabili, che vanno al di là della mera insistenza formale sulla necessità che un membro del saṃgha adotti un contegno rigoroso e ineccepibile. A riprova della volontà di favorire una conoscen-za approfondita e il reale rispetto di norme e prescrizioni, basti dire che gli istituti di studi buddhisti (foxueyuan 佛學院), collocati all’interno dei principali monasteri del Paese e preposti alla formazione delle nuove generazioni dell’élite monastica, a prescindere da dimensioni, livello o afferenza prevedono tutti classi per lo studio della disciplina monastica fra i propri insegnamenti fondamentali.4 In molti monasteri si assiste inoltre a un recupero dei rituali prescritti nel vinaya, come la recitazione bimensile dei precetti del prātimokṣa (banyue songjie 半月誦戒), un antico rito di confessione e pentimento che sta prendendo piede in certe istitu-zioni particolarmente ligie alle regole.5 In modo analogo, anche il ritiro meditativo estivo (xia anju 夏安居) sta ritornando nei moderni monasteri cinesi, sia come periodo di pratica e studio intensi, sia, più raramente, nei termini di un completo isolamento dal mondo circostante (Bianchi 2001, pp. 86-89).6 Rientra in questo contesto anche il recupero di procedure e

’66 si ebbe un rapido e drastico calo, passando da circa 500 mila a poche migliaia di religiosi buddhisti (Ji 2012, pp. 12-15). 3 Con vinaya ( jielü 戒律) si intende qui la disciplina monastica esposta nei testi canonici indiani e che si ritiene sia stata stabilita dallo stesso Buddha. Si noti tuttavia che il discorso della rivitalizzazione della disciplina monastica concerne anche un revival delle norme disci-plinari tipiche del Buddhismo cinese, come le «regole pure» del Chan, che non a caso sono state definite «vinaya sinizzato» (Yifa 2002). 4 A margine di ciò, si segnalano gli istituti di studi specifici sulla disciplina monastica, tra cui spiccano il Lüxueyuan 律學院 del Baohuashan 寶華山, storica roccaforte della tradizione del vinaya, e l’Istituto femminile di Studi del vinaya del Wutaishan (Wutaishan nizhong lüxueyuan 五台山尼眾律學院). 5 Il rito poṣadha (busa 布薩) concerne la recitazione del prātimokṣa, che nel Dharmaguptaka-vinaya, ossia la tradizione del vinaya seguita dai buddhisti cinesi, annovera 250 prescrizioni per il monaco ordinato e 348 per la monaca. 6 Con varṣā ci si riferisce al ritiro monastico che si teneva in India durante il periodo delle piogge monsoniche (quarto-settimo mese); in Cina era tradizionalmente visto come un periodo di studi più intensi (da cui il detto «inverno in meditazione, studio d’estate»), senza tuttavia che questo comportasse un rigoroso ritiro all’interno dei monasteri.

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rituali di ordinazione ritenuti ortodossi, su cui torneremo nel prossimo paragrafo.

Alla base del jielü fuxing vi è l’idea che il vinaya sia il fondamento stesso su cui poggia il dharma (la Legge, ossia il Buddhismo): il rigore discipli-nare diventa pertanto garanzia di ortodossia. Nella letteratura buddhista ricorrono a tale riguardo frasi inequivocabili, che sono spesso e significati-vamente citate nei discorsi attuali: «Se il vinaya dimorerà nel mondo allora il dharma vi dimorerà», «grazie alla permanenza del vinaya nel mondo il dharma vi dimorerà a lungo» ecc.7 Il revival della disciplina monastica si presenta così non tanto come uno dei molteplici aspetti del revival del Buddhismo in genere, bensì come suo imprescindibile presupposto.

Il modello più vicino a cui guardare è Hongyi 弘一 (1880-1942), noto mae-stro esperto del vinaya della prima metà del XX secolo (Birnbaum 2003); ma Hongyi stesso si rifaceva esplicitamente a Daoxuan 道宣 (596-667), ossia colui che la tradizione considera come il fondatore del lignaggio di Nanshan 南山 della scuola del vinaya (Chen 2007). Come nota Chen Huaiyu, entrambi questi maestri vissero in periodi in cui si riteneva che il Buddhismo fosse in declino e furono visti dalle generazioni successive come promotori di un rinvigorimento del Buddhismo attraverso lo studio e la pratica della disciplina monastica (Chen 2007, p. 1). Inoltre, di jielü fuxing si parla anche in riferimento a Guxin Ruxin 古心如馨 (1541-1615) e il suo discepolo Hanyue Fazang 漢月法藏 (1573-1635), due restauratori della disciplina monastica di epoca tardo imperiale (Wu 2008, pp. 28-31; Sheng-Yen 1991). In tutti questi casi, il ripristino del rigore disciplinare è reputato necessario per rigenerare il saṃgha e, con esso, il Buddhismo.

In questi termini, la rigenerazione della comunità monastica da un punto di vista disciplinare, da compiersi nel solco della tradizione e su basi orto-dosse, serve oggi come in passato a dotare il Buddhismo di soggetti prov-visti dell’adeguata credibilità agli occhi di un laicato sempre più esigente e dell’autorevolezza necessaria a porsi come interlocutori delle istituzioni. Ruoli e funzioni che possono essere svolti solo da religiosi moralmente ir-reprensibili e correttamente ordinati.8 Ecco quindi l’esigenza di affermare uno standard disciplinare adeguato, un compito che, già nei primi anni Ottanta, l’Associazione Buddhista Cinese affidò a un gruppo di giovani monaci dell’Istituto di Studi Buddhisti del Fujian: istruiti da Yuanzhuo 圓拙 (1909-1997), che era stato allievo diretto di Hongyi, i «cinque bhikṣu» (wu biqiu 五比丘) – appellativo con cui sono noti e che rimanda anche ai cinque primi discepoli di Śākyamuni – si assunsero la responsabilità di dedicarsi

7 «毗尼住世佛法則住» (ZZ 40, 720: 875) e «毗尼住世則正法久住» (ZZ 41, 732: 489). Questi e altri simili passaggi sono citati ad esempio in Jiqun (s.d.), Chongrou (s.d.), Shenghui (2013). 8 Si intravede qui un tentativo di contrapporsi a pregiudizi anticlericali che vantano una lun-ga tradizione in Cina (Goossaert 2002); sullo stesso argomento, ma in riferimento alla prima metà del XX secolo, si rimanda ancora al contributo di Daniela Campo nel presente volume.

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allo studio esclusivo del vinaya e di rivitalizzare la tradizione di Nanshan in epoca contemporanea.9

Ma un’azione di fuxing non implica un mero ritorno al passato, tutt’altro. Il caso di Daoxuan è significativo in tal senso: artefice della definitiva af-fermazione in Cina del Dharmaguptakavinaya, nei suoi commentari attinse anche al *Brahmājalasūtra e ad altra letteratura del Mahāyāna e delineò regole specifiche per i monaci cinesi. Analogamente, il maestro del vinaya Guxin Ruxin, pur dichiarandosi depositario del «lignaggio ortodosso di Nanshan» (Nanshan zhengzong 南山正宗), divenne un riformatore e in-novatore della cerimonia dell’ordinazione monastica che, nella forma del «triplice altare», assunse un carattere spiccatamente mahāyānico adatto al contesto buddhista cinese (Chu 2006; Wu 2008, p. 30). Come vedremo proprio in riferimento al caso dell’ordinazione monastica, anche i moderni promotori di un revival del vinaya nel riaffermare la tradizione ‘ortodossa’ la adattano alla situazione contingente, determinando così un suo ‘svec-chiamento’.

4 Ortodossia e flessibilità: il ripristino di corrette regole rituali nelle ordinazioni monastiche

Dopo un’interruzione protrattasi per quasi un trentennio (Welch 1972, pp. 121-123), la prima ordinazione monastica maschile dopo la Rivolu-zione Culturale ebbe luogo presso il Guangjisi 廣濟寺 di Pechino nel 1981 (Jan 1984, pp. 41-42), mentre l’anno successivo si tenne a Chengdu, nel Tiexiangsi 鐵像寺, la prima ordinazione femminile (Bianchi 2001, pp. 24-25). In breve si è assistito a un rapido incremento del numero delle cerimonie e dei nuovi ordinati, che nel corso degli anni Novanta e Duemila ha co-stantemente superato i limiti imposti dall’Associazione Buddhista Cinese.10 Nel periodo fra il 1994 e il 2010 si sono tenute in Cina 149 cerimonie di ordinazione, in cui hanno preso i voti 66.538 monache e monaci buddhisti (Ji 2012, p. 15).

9 Si ringrazia Ji Zhe per questa informazione (comunicazione personale, dicembre 2013). I «cinque bhikṣu» sono: Jiequan 界詮 (uno dei più autorevoli maestri del vinaya viventi), Xing-guang 性光, Yiran 毅然, Yanlian 演蓮 e Jiqun 濟群. 10 Nel 1993, l’Associazione Buddhista Cinese ha stabilito un vero e proprio monopolio sul-le ordinazioni, imponendo precisi limiti al numero delle cerimonie e degli ordinandi: negli anni Novanta ogni anno potevano essere organizzate solo cinque cerimonie d’ordinazione nell’intero Paese e a ciascuna potevano partecipare 200 candidati. Nel 2000 fu promulgato un nuovo regolamento che incrementava sia il numero delle ordinazioni (8 all’anno) sia degli ordinandi (300), ma dal momento che il numero dei nuovi ordinati superava costantemente quello concesso, nel 2011 l’Associazione ha modificato nuovamente la normativa, permettendo che si tenessero «circa dieci» cerimonie annuali e che ciascuna potesse coinvolgere fino a 350 ordinandi (Ji 2012, pp. 13-14).

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Maestri come Daoxuan, Guxin Ruxin, Hongyi e altri monaci autorevoli della prima metà del XX secolo avevano dimostrato che, per ripristina-re il rigore disciplinare, era necessario definire procedure ortodosse per l’ordinazione monastica. Così la codifica di regole condivise per l’entrata nel saṃgha non si è fatta attendere nemmeno in epoca contemporanea: individuate e fissate già durante gli anni Ottanta, sono divenute pressoché normative con il decennio successivo.11 Al giorno d’oggi la cosiddetta «ordi-nazione del triplice altare» (santan dajie 三壇大戒), ideata nel XVII secolo da Guxin Ruxin, promulgata da Hanyue Fazang (Wu 2008, pp. 28-31) e divenu-ta prassi diffusa durante l’epoca repubblicana – quando tuttavia continuava a convivere accanto ad altre modalità (Welch 1967, pp. 285-296) – sembra essersi oramai imposta come l’unica tipologia di cerimonia possibile.12

Più emblematico è il caso dell’ordinazione monastica femminile, i cui criteri sono stati fissati da Longlian 隆蓮 (1909-2006), la «più eminente monaca cinese dell’epoca moderna» (Bianchi 2014-2015), per la già citata cerimonia del 1982, durante la quale fu eseguito l’antico rituale della «du-plice ordinazione» (erbuseng jie 二部僧戒). Stando a quanto prescritto nel vinaya, per divenire una monaca ordinata (bhikṣuṇī), una donna che abbia già ricevuto i dieci precetti del noviziato è tenuta a trascorrere due anni co-me śikṣamāṇā, una sorta di ‘postulante’ che non ha controparte maschile; solo alla fine di questo periodo di ‘apprendistato’ ella potrà ricevere l’or-dinazione completa che, diversamente da quella maschile, viene impartita in due momenti distinti coinvolgendo dapprima dieci monache ordinate e successivamente dieci monaci ordinati (Heirmann 2002; Huimin 2007).13 Si noti che, storicamente, la figura della śikṣamāṇā non si è mai davve-ro affermata nel Buddhismo cinese (Heirmann 2008). Quanto ai criteri dell’ordinazione femminile, furono introdotti dallo Śrī Laṅka nel 433-434 (Heirmann 2001; Zheng 2010),14 ma non si imposero mai come unica pro-

11 Ad esempio, l’Associazione Buddhista Cinese ha rilasciato al Lingyinsi 靈隐寺 di Hangzhou l’autorizzazione a tenere un’ordinazione del «triplice altare» per la fine del 2013, specificando che, nel caso delle monache, si sarebbero dovute seguire le regole della «duplice ordinazione» (http://www.lingyinsi.com/topics/2013/09). La cerimonia si è tenuta tra il 25 settembre e il 23 ottobre presso il Lingyinsi e il monastero femminile Fajingjiang 法鏡講. 12 Essa prevede nell’arco di un unico periodo continuativo il conferimento dei dieci precet-ti del noviziato, dei precetti dell’ordinazione completa e infine dei precetti mahāyānici del Bodhisattva. L’ordinazione completa è conferita da un «maestro» principale (heshang 和尚), un «esperto del rituale» o karmācārya ( jiemo 羯磨), un «istruttore» ( jiaoshou 教授) e «sette testimoni» (qi zheng shi 七證師), secondo norme rituali prescritte nel vinaya e ribadite da Daoxuan (Chen 2007, pp. 112 e passim). 13 La quarta delle «otto regole fondamentali» o gurudharma (bajingfa 八敬法) recita: «after a woman has been trained as a probationer (śikṣamāṇā) for two years, the ordination cer-emony must be carried out in both (nuns’ and monks’) orders» (T 1428: 923a26-b21, trad. in Heirman 2011, pp. 606-607). 14 Secondo la biografia di Sengguo 僧果, nel Biqiuni zhuan 比丘尼傳 (T 2063: 939c-940a), una

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cedura possibile in Cina, dove i precetti erano tendenzialmente conferiti alle monache dai soli monaci, contravvenendo in questo modo alle norme prescritte nel vinaya ma dando prova di elasticità in materia disciplinare.15

Longlian venne a conoscenza della questione nel 1949, durante le lezioni tenute dal maestro del vinaya Guanyi 貫一 (1875-1954), abate del Bao-guangsi 寶光寺. Quando, oramai monaca affermata, l’assemblea dell’Asso-ciazione Buddhista Cinese riunitasi dopo la Rivoluzione Culturale le conferì l’incarico di rivitalizzare l’ordine monastico femminile, inizialmente cercò di ripristinare tutti i criteri stabiliti nel vinaya, ma accettò presto di rinun-ciare a una parte del suo progetto. In effetti, se già dagli anni Novanta la grande maggioranza delle ordinazioni monastiche femminili in Cina segue le modalità dell’erbuseng jie, si è anche consolidata la prassi di impartirle evitando lo stadio intermedio della śikṣamāṇā. Pur continuando a richiede-re alle proprie discepole di sottoporsi ai due anni da ‘postulanti’ previsti dal vinaya, Longlian era consapevole che imporre questa figura come criterio generale avrebbe significato mettere in dubbio la stessa validità dell’ordi-nazione del «triplice altare».16

In sintesi, ritengo che il caso particolare dell’ordinazione femminile sia emblematico dei termini con cui si sta attuando il recupero della disciplina monastica. Nello specifico, appare evidente la volontà di restaurare riti e regole del passato che, anche se precedentemente scomparsi, sono oggi ritenuti necessari come garanzia di purezza e ortodossia; allo stesso tempo, riconosciamo un certo grado di flessibilità, che permette un ammoderna-mento delle stesse tradizioni antiche per andare incontro alle esigenze della realtà contingente; infine, vi troviamo una chiara connessione con i movimenti buddhisti pre-1949, rappresentati da Guanyi e dalla stessa Longlian, che ha portato con sé le proprie idee per un rinascimento del saṃgha su basi ortodosse attraverso il periodo maoista, traghettandole sino al secondo revival del Buddhismo negli anni Ottanta.

nave mercantile giunse in Cina nel 433 con a bordo delle bhikṣuṇī singalesi che furono poi incaricate di officiare una cerimonia di ordinazione. 15 Uno studio delle fonti storiche rivela che ordinazioni femminili secondo i criteri dell’er-buseng jie erano impartite durante il XII secolo e che furono successivamente vietate per essere riammesse nel XIII secolo; sappiamo inoltre che alla fine dei Ming e all’inizio dei Qing vi furono casi di erbuseng jie, anche se la maggior parte delle cerimonie continuava a essere conferita dai soli bhikṣu (Huimin 2007). A differenza del Buddhismo tibetano e Theravāda, nella tradizione cinese le ordinazioni femminili impartite unicamente dai monaci erano con-siderate legittime (Heirman 2011). 16 Significativamente, negli ultimi anni si sta assistendo a un ritorno, per quanto ancora sporadico, della figura della śikṣamāṇā; ad esempio, tra i requisiti necessari per ricevere l’ordinazione completa pubblicati nel sito del Lingyinsi (http://www.lingyinsi.org) si legge che saranno accettate novizie e śikṣamāṇā. Per casi di śikṣamāṇā nel Buddhismo taiwanese contemporaneo, vedi Heirmann, Chiu 2012; le stesse autrici stanno attualmente scrivendo un saggio sul medesimo tema riferito alla Repubblica Popolare Cinese (Ann Heirmann, comuni-cazione personale, gennaio 2014).

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5 Conclusioni

Il revival del Buddhismo di epoca contemporanea è un tema complesso, che si presta a essere letto e interpretato da varie angolature; è attual-mente oggetto di indagine da parte di studiosi e gruppi di ricerca in tutto il mondo e non può certo essere esaurito in questa sede.17 Pur tuttavia, è mia convinzione che l’analisi dei possibili significati e obiettivi del revival del vinaya possa fornire un’inedita chiave di lettura per comprendere alcuni aspetti particolari del fenomeno più vasto di cui partecipa.

Lo stesso termine fuxing 復興 ha un’ampia connotazione che spazia dal semplice senso di rinascita a concetti più articolati come rigenerazione, ringiovanimento, rinnovamento o rinascimento (Scarpari 2013, pp. 49-50). Sulla base di quanto visto sopra, è possibile affermare che, nell’ambito del revival delle religioni, esso si riferisce sì a una rivivificazione di istanze tradizionali, ma anche a una loro reinterpretazione e riformulazione: un rinascimento che è anche riforma e rinnovamento e che non può essere liquidato come un semplice ritorno del/al passato. Al contrario, il caso del jielü fuxing chiarisce che siamo piuttosto di fronte a un processo di rin-giovanimento del Buddhismo, che si sta rigenerando basandosi sui propri modelli tradizionali, favorendo al contempo modifiche e aggiustamenti reputati necessari per far fronte alle nuove circostanze storiche e sociali in cui si muove.

A prescindere da ciò, il presupposto di un’azione di fuxing è che ci si trovi in un momento di decadenza, agonia o morte di una tradizione; per-tanto esso implica necessariamente il recupero di qualcosa che è andato perduto e si intende ripristinare (un ideale di purezza, modelli esemplari, e così via). Ma qual è lo stato di declino cui si allude oggi e, quindi, quale l’ideale da recuperare?

In prima istanza, quando si parla di revival delle religioni nella Cina contemporanea si intende il ripristino della situazione precedente i «dieci anni di catastrofe» della Rivoluzione Culturale, in modo analogo a quanto avvenuto dopo la rivolta dei Taiping, altra grande ondata iconoclasta dell’e-poca moderna, quando si è assistito al recupero di templi e monasteri e al tentativo di ricostituire la situazione preesistente. Così, in riferimento alle ordinazioni monastiche, viene spesso sottolineato che sono state ristabi-lite le condizioni della prima fase dell’era maoista. D’altro lato, a essere ripristinata è la ‘purezza della tradizione’ rispetto a un presunto declino generalizzato cui il Buddhismo sarebbe andato incontro durante l’ultima fase del periodo imperiale. In questo caso, il parallelismo con il revival del Buddhismo della prima metà del XX secolo è evidente, tanto che in molti

17 Si menziona a titolo esemplificativo la ricerca diretta da Ji Zhe, Buddhism after Mao (GSRL, CNRS).

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frangenti – come quello della disciplina monastica – il fenomeno attua-le sembra essere direttamente ispirato dai protagonisti del movimento buddhista pre-1949.

Allo stesso tempo, il revival del Buddhismo contemporaneo, al pari di quello delle religioni in genere, va considerato parte integrante di quel processo di recupero delle proprie tradizioni e di forme culturali dal forte carattere identitario che è attualmente in atto nella Repubblica Popolare Cinese.18 Si tratta di un contesto inedito, in cui il Buddhismo partecipa al rinvigorimento del Paese su basi tradizionali, in un’ottica che vede con-trapposti non tanto presente e passato, o modernità e tradizione, quanto piuttosto il modello etico occidentale – ritenuto inadeguato nell’ambito della modernizzazione in corso – rispetto a valori e principi propri della civiltà cinese. Una tradizione che il saṃgha buddhista, rigenerato anche grazie a un rinnovato rigore disciplinare, sente di poter rappresentare a pieno titolo.

In conclusione, ritengo utile riportare una parte del discorso pronunciato da Shenghui 聖輝 in occasione del VI Congresso dell’Associazione Buddhi-sta dello Hunan (novembre 2013) in cui, in qualità di presidente dell’Asso-ciazione, ribadisce la necessità di rinvigorire la disciplina monastica per il benessere del Buddhismo, tracciando al contempo un collegamento con il discorso politico attuale (Shenghui 2013):

La disciplina monastica serve per controllare corpo e mente, è il fon-damento del Buddhismo e la sua linfa vitale. […] È necessario che la comunità monastica sia perseverante nell’osservare il vinaya, nel met-terlo in pratica e nell’assumere un comportamento dignitoso. I mem-bri del saṃgha devono parlare in termini di dignità umana, di dignità monastica e di dignità nazionale, e diventare persone esemplari degne di essere chiamate tali, anziché porsi come i ‘falsi monaci’ o gli ‘imbro-glioni buddhisti’ tanto detestati dal popolo. […] Solo in questo modo il Buddhismo sarà in grado di completare la sua missione di diffondere il dharma e di recare beneficio a tutti gli esseri viventi, solo allora il Buddhismo potrà davvero realizzare il sogno cinese.19

18 «Un rifiorire di elementi portanti della civiltà, della cultura, del sapere scientifico, di concezioni filosofiche ed etiche più antropocentriche» (Scarpari 2013, p. 50). 19 Il discorso sul «sogno cinese» (Zhongguo meng 中國夢) è stato pronunciato da Xi Jinping 習近平 nel novembre del 2012.

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