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La cittadinanza nel pensiero politico americano

Date post: 28-Feb-2023
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Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Studi Europei (D.E.M.S.) La cittadinanza nel pensiero politico americano a cura di Dario Caroniti
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Università degli Studi di PalermoDipartimento di Studi Europei (D.E.M.S.)

La cittadinanza nel pensiero politico americano

a cura di Dario Caroniti

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Studi su Politica, storia e istituzioniSupplemento a Storia e Politica - Anno VI - 2014

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ISBN 978-88-940096-2-0

Prefazione Dario Caroniti4

Democrazia e cittadinanza. Origini e temi di un dibattito Franco Maria Di Sciullo 6Cittadinanza e repubblicanesimoGiuseppe Bottaro35

Ralph Waldo Emerson. Il popolo di uomini e l’American ideaDario Caroniti 58

Il progressismo tra realismo, riformismo e allargamento della cittadinanzaGiovanni Dessì 79

Cittadinanza democratica ed etica della curaMaria Pia Paternò 106

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Prefazione

Il tema della cittadinanza come questionepolitica per eccellenza è l’oggetto di unariflessione che attraversa la storia del pensieropolitico americano dai padri fondatori fino aiteorici dell’«etica della cura». Non è certo unatrattazione esaustiva di tutte le problematicheposte dalla relazione tra la cittadinanza e lademocrazia nella tradizione politica degli StatiUniti, quanto un tentativo di esporre alcune dellerisposte più significative che siano state date dauna società politica che si è caratterizzata per lasua inclusività. In cinque saggi sono analizzate leteorie dei padri costituenti, deitrascendentalisti, dei progressisti, spingendosifino ai più recenti dibattiti della filosofiapolitica contemporanea. Un filo sottile lega peròtra loro tutte le diverse correnti di pensiero quiesposte: lo sforzo di trovare una conciliazione trail pluralismo e la comune appartenenza a un ordinepolitico, oltre alla fiducia quasi incrollabilenelle possibilità che l’uomo e, in particolare,l’uomo americano, sia capace di realizzarla.

Ciò che sembra emergere dai cinque saggi è cheil pensiero politico americano, indipendentementedalle diverse correnti intellettuali e ledifferenti fasi storiche, abbia cercato dielaborare una risposta, per quanto originale, alleproblematiche poste da Aristotele, Cicerone eAgostino riguardo al significato della comunità

politica. Si può individuare così una ricercadell’ordine giusto intorno al quale una moltitudinedecide di associarsi, dando vita a un popolo. Nettoè invece il rifiuto della svolta, operata daFortescue, che nel suo De laudibus legum Angliae affermainvece che un ordine politico diventa tale soloquando dal popolo emerge un capo – ex populoerumpit regnum. L’attenzione della letteraturapolitica europea dopo Fortescue si spostadall’individuazione dell’ordine giusto allacapacità del capo di reggere il corpo politico,quindi al rapporto di forze e agli assettigiuridici che compongono l’ordine.

Fin dalla Dichiarazione di indipendenza, alcontrario, in America si può rintracciare iltentativo opposto di affermare la validità deiprincipi autonomamente dal soggetto che li esprimee li incarna, che sia esso il re, il parlamento olo stato. Ciò implica uno sforzo elaborativo cheimplica la definizione di popolo e un’idea dicittadinanza che sono premessa alla riflessionepolitica. Democrazia e cittadinanza si trovanoquindi strettamente connessi e non basati su unapiattaforma giuridica, quanto su una condivisioneideale.

I padri fondatori cercarono di radicare ilpopolo americano sui principi del giusnaturalismo,ma con espressi richiami alla trascendenza, chemarcano una distanza radicale da tutta laletteratura politica illuminista europea. Itrasendentalisti, con Emerson, cercarono poi difondare l’oggettività dei medesimi principi sulcarattere appunto trascendente della naturadell’uomo. Anche la critica moralistica dei

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progressisti alla corruzione politica è basatasulla comune affermazione di principi nei quali lacomunità politica americana si è storicamentericonosciuta, alla luce dei quali adottare degliinterventi legislativi che possano restaurarel’american way of life mediante un intervento dellostato. È cessata in loro quella fiducianell’autonomia dell’individuo dallo stato, ma restala fede nei principi che sono premessa e alimentodello stato stesso.

Anche nel femminismo di Gilligam, Benhabib eTronto, pure essendo scomparso ogni richiamo allatrascendenza, mutato decisamente e definitivamenteil fondamento ideologico, è però evidente iltentativo di affermare preliminarmente i principisui quali fondare l’etica della cura. L’oggettivitàdi essi non la si può certo ritrovarenell’affermazione del Summum bonum, ma attraversoun approccio filosofico post kantiano esse cercanodi stabilire l’intervento pubblico in opposizioneal diritto del più forte, per sostenere unapolitica solidale che abbia attenzione, cura, perle donne e gli uomini che compongono una comunità.

FRANCO MARIA DI SCIULLO

DEMOCRAZIA E CITTADINANZA. ORIGINI E TEMI DI UN DIBATTITO

1. Le origini della cittadinanza democratica tra reciprocitàed esclusione

Che la questione della cittadinanza sia laquestione “politica” per eccellenza appare poco piùche una banalità, dato che l’idea di cittadinanzaè, rispetto alla politica, co-originaria fin sulpiano terminologico. Per ragioni analoghe occorrerilevare la sostanziale convergenza di politica,cittadinanza e democrazia, se si pone attenzione alfatto che, come radice della parola «politica»,oltre a πόλις, c’è il termine (forse meno ovvio)πολύς («molto»), cosa che, nella forma plurale (οιπολλοί), richiama l’attenzione sul fatto che lapolitica è ciò che riguarda i molti, dei molti è dipertinenza e ai molti dovrebbe essere orientato.D’altra parte, ai molti è altresì sotteso ilconcetto di pluralità, che richiama quello divarietà, al punto che la ricerca dell’uniformitàrisulta distruttiva e in definitiva incompatibilecon la vita della città (Arist., Pol., II, 1261a).Già a questo punto le cose cominciano ad assumereun aspetto più complesso e molto meno lineare. Inche rapporto va posta la pluralità, col suoinevitabile carico di varietà, rispetto ai moltidei quali la politica dovrebbe essere dipertinenza?

Franco M. Di Sciullo

Sembra doversi stabilire come caratteristicadistintiva della democrazia la reciprocità. Inprimo luogo, la reciprocità è da intendersi comerotazione: il governato ha la possibilità didiventare governante e il governante sa che il suomandato, essendo a termine, lo riporterà prima opoi tra i governati. Inoltre, per il principiodemocratico di reciprocità non è lecito népossibile dare la legge agli altri senza darla,contemporaneamente, a se stessi, per cui ilgovernante, senza dover attendere la fine del suomandato, sa di essere in ogni momento, già comegovernante, governato, così come il legislatore sadi dover restare entro i confini della legge che haapprovato. Eppure, stabilita la reciprocità comeprincipio della democrazia, appare immediatamentechiaro che nella vita concreta della societàdemocratica la questione che viene a porsi è quelladi determinare i limiti di applicazione delprincipio: in altri termini, resta da vedere (o dadecidere) tra chi esso debba farsi valere. Si trattadi stabilire se varietà e reciprocità sianocompatibili e sovrapponibili o a quali varietà si debbaestendere — e dunque ridurre — la reciprocità.

Platone non mostra tentennamenti: è vero chela fioritura delle differenti varietà di idee,convinzioni politiche, dottrine morali e regole delgiusto che si trova in una costituzione democraticaesercita un potere d’attrazione «come variopintomantello variamente intessuto d’infiniti fiori»; machi ne resta affascinato? Come i fanciulli e ledonne — dunque coloro ai quali la mentalitàtradizionale non riconosce adeguata capacità diriflessione e giudizio — sono attratti dai colori

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sgargianti di certi abiti, così ad essereaffascinata dalla democrazia è «la moltitudine»,costituita da coloro che disprezzano tanto lacompetenza specifica dei più idonei quanto, infondo, la giusta severità della legge — «o non haimai veduto in un simile Stato uomini che, essendocontro loro pronunciata sentenza di morte o diesilio, ugualmente se ne restano, gironzolano inmezzo agli altri, partiti se ne tornano, come sefossero eroi, quasi nessuno si preoccupasse di loroo li vedesse?» (Plato, Resp., 557c-558c ). Quidunque varietà e pluralità appaiono come ragioni diintrinseca debolezza della costituzione “materiale”della democrazia. Né appare più favorevole ilgiudizio formulato da Aristotele, secondo il qualelo spirito autentico della democrazia consiste nelrealizzare un’uguaglianza rispetto al numero,anziché rispetto al merito (Arist., Pol., 1317b).Pur nella diversità del loro approccio, i duepensatori condividono la convinzione che lademocrazia non sia la realizzazionedell’autogoverno della πόλις, ma il governo deipoveri, più numerosi, sugli ottimati, menonumerosi. Del resto, lo stesso termine di δῆμοςrimanda etimologicamente alla partizione,riferendosi a una specifica delimitazione delterritorio, e la scelta della circoscrizioneterritoriale come punto di origine e centro diriferimento del potere pubblico ha una consapevolee palese funzione di rottura della continuità,inibendo l’autoriproduzione della classe politicadi origine gentilizia.

Varietà e pluralità non stanno peruniversalità. Già nel tempo della sua genesi, la

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democrazia non è propriamente autogoverno della pòlis,ma governo di essa e, se si volesse sostenere chedemocrazia va intesa come autogoverno del popolo,resterebbe da individuare il “popolo” stesso, ossiastabilire quale parte della popolazione costituisca“il popolo”. Insomma, fin dalla sua nascita lademocrazia appare strettamente connessa con laconflittualità sociale e legata all’esigenza,nell’impossibilità di annullare il conflitto, ditrasferirne la dinamica dall’ambito privato dellalotta tra famiglie allo spazio pubblico, infunzione di una auspicata mediazione politica diesso.

Dal tentativo di trasferire il conflitto nellospazio pubblico si perviene facilmente allaquestione di chi debba essere ammesso in talespazio — né appare risolutiva la sovrapposizione di“pubblico” e “comune”. Una volta definito, piùcorrettamente, lo spazio pubblico come spaziocomune resta da decidere di chi l’“in-comune” siadi pertinenza — decisione che ovviamente rischia dicontribuire ad acuire quella tensione che siintendeva scongiurare. Un modo per risolvere ilproblema è quello di dichiarare che si intenderispettare il lavoro fatto dalla natura, cioèaffermare che la natura ha già da sé stabilito chealcuni abitanti della città sono nati per essereesclusi dalla cittadinanza e dunque dallo spaziopubblico: donne, schiavi, servi, minori. A questecategorie, si dice, “naturalmente” escluse, se nepossono poi aggiungere delle altre. Anche in questocaso la ragione politica nega di voler effettuareuna discriminazione e afferma di limitarsi aprendere atto di ciò che è già di per sé evidente.

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I nuovi esclusi saranno, in conformità al principiodi autonomia razionale, coloro la cui condizionedimostra una mancanza di indipendenza: poveri,lavoratori dipendenti, uomini che, benchémaggiorenni, non sono capifamiglia ma continuano avivere nella famiglia di origine, etc. Come si puòipotizzare, infatti, che possano partecipare algoverno della città, cioè al governo degli altri,coloro che non sono neppure in grado di governarela propria vita senza l’intervento economicoaltrui? Assiomatica appare, infine, l’esclusionedallo spazio pubblico degli stranieri, figure senon sospette a volte inquietanti, comunquesingolari, sradicate dalle loro origini, incapacidi parlare la lingua del luogo in modo corretto econ accento appropriato: come, infatti, potrebberopartecipare all’in-comune coloro che già per ilsolo modo di presentarsi appaiono fuori del comune?In definitiva, si potrebbe sostenere, con Balibar,che, sebbene la reciprocità sia l’elementocaratterizzante della democrazia e l’idea dicittadinanza vada insieme a quella di democrazia,pure non vi è reciprocità tra democrazia ecittadinanza (Balibar 2012: 11). Sembra però piùcorretto notare che, come le altre forme disocietà, neppure quella democratica può fare a menodi pratiche e “dispositivi” di esclusione perdefinire se stessa.

Un approccio diverso al tema è possibile apartire dall’esperienza politica romana, cheidentifica nel popolo il proprietario dello Stato enell’assenza di dominio e di schiavitù la libertà(Cic., de re pub., III, 43). Questa specificadeclinazione della libertà come non assoggettamento

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e il legame istituito tra libertà e dirittoappaiono con nitore nella mitizzazione della figuradi Publio Valerio, che, per allontanare da sé ilsospetto di volersi insignorire della città,presentò leggi che gli valsero il plauso del popoloe il soprannome di “Publicola”. Particolare valoreacquisì la legge sulla provocatio adversus magistratus adpopulum, che, con quella relativa al bando perpetuodella forma monarchica e alla maledizione dellapersona e dei beni di coloro che avrebbero tentatodi restaurarla, appaiono di rilevanza fondativa,tanto che la tradizione le annovera tra quellecostitutive della repubblica (Liv, II, 7, 5-12 e 8,1-2; Cic, de re pub., II, 53). La cittadinanzarepubblicana è concettualizzata come elemento checonsente il reciproco rispecchiarsi e rafforzarsidella libertà del cittadino e di quella delloStato, là dove la monarchia, nelle parole diCicerone, pur essendo forma di governo sana, èincline alle peggiori degenerazioni («rei publicaegenus [...] inclinatum et quasi pronum adperniciosissimum statum»), in particolare allatirannide. Il tiranno, il più «ripugnante», «laido»e «odioso» degli esseri, che, «pur essendo infigura d’uomo, per l’inumanità dei suoi costumivince perfino le belve più mostruose» (Cic, de repub., II, 47) è colui che esercita il dominio sulpopolo («dominus populi»). La cittadinanza apparequi come partecipazione attiva alla vita pubblica ecome compartecipazione alla potestas, dalla quale,col concorso dell’auctoritas riconosciuta al senato,deriva la validità della legge. Anziché fondarel’esclusione dalla cittadinanza di quanti sitrovano sottoposti a un regime di dominio da parte

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di altri, naturalizzando la gerarchia sociale, siha un’esclusione del rapporto di dominio eassoggettamento dalla prassi e dai principi-basedella cittadinanza. Il governo libero è pertantoquello adatto a uomini liberi e liberi sono gliuomini capaci di cittadinanza attiva e pronti adifendere il governo libero da chiunque tenti ditrasformarlo in «dominio», impossessandosi dellares publica, che, a stretto rigore, è res populi.

2. Cittadinanza, sovranità e nazione

È nell’età moderna che il tema dellacittadinanza — e dell’esclusione da essa — assume itratti specifici che gli conosciamo, che nonpotevano avere pieno sviluppo nel terreno purfertile della città antica, poiché la meraappartenenza non è sufficiente come qualificazione,in assenza del concetto centrale della politicamoderna, ossia la sovranità. Nel luogo di originedella sovranità, le pagine del primo dei Six Livres dela Republique, si può infatti trovare una definizionedella cittadinanza apparentemente sorprendente: percittadino secondo Bodin bisogna intendere un «sudditolibero che dipende dalla sovranità altrui».

Quando […] il capo della famiglia esce dall’ambito dellacasa in cui comanda per trattare e negoziare coi capidelle altre famiglie di ciò che riguarda l’interessecomune, si spoglia del titolo di padrone, capo e signoreper divenire semplice compagno ed uguale degli altri, emembro della loro società, e invece che signore,all’atto di lasciare la famiglia per entrare nella cittàe gli affari domestici per trattare i pubblici, cominciaa chiamarsi cittadino, parola che in termini precisi

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significa suddito libero che dipende dalla sovranitàaltrui (Bodin 1997 [1576]: I, 265).

Così nel capitolo sesto. Nel secondo di quellostesso primo libro si era recuperata, peraltronell’intento dichiarato di superarla, la nozionearistotelica di famiglia, «vera origine dello Statoe principale suo elemento». La separazioneistituita da Aristotele tra economia e politica nonappare a Bodin ben congegnata. Infatti, «come lafamiglia ben governata è la vera immagine delloStato, e il potere domestico somiglia al poteresovrano, così il giusto governo della casa è ilvero modello del governo dello Stato» (Ivi: I, 172e s.). La famiglia patriarcale è la cellulaoriginaria dello Stato, mentre il governo pubblicosi presenta come una specie di amplificazione diquello privato. Così si torna a far valere ilsistema di comando e obbedienza dato dalla natura ecostitutivo dei rapporti familiari. Esclusi dalgoverno della casa, donne, figli, schiavi edipendenti lo sono anche dalla cittadinanza. Ilcapofamiglia, titolare del potere domestico, neltrattare con gli altri capifamiglia, assume il nomedi «cittadino», termine che viene a indicare lacondizione di chi è libero dal governo privato dialtri, ma suddito del potere pubblico «sovrano».«Perciò si può dire che ogni cittadino è anchesuddito, perché la sua libertà è in parte diminuitadalla sovranità di colui cui egli deve obbedienza,ma non ogni suddito è anche cittadino, come si ègià detto dello schiavo». Quest’ultimo, infatti,«non può essere cittadino e non conta niente dalpunto di vista legale» (Ivi: I, 268). Inoltre, si

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osservi, ciò che vale per lo schiavo «si può diredello straniero che, venendo a vivere sotto lasignoria altrui, non sia comunque accettato fra icittadini, ossia non sia ammesso a partecipare deidiritti e dei privilegi propri della cittadinanza»(Ibid.). Qui, con uno slittamento deciso dellalinea di ragionamento, Bodin abbandona il rapportofamiglia/Stato e assimila, direttamente e senzaneppure compiere un tentativo di giustificare lasua scelta, lo straniero non naturalizzato («nonaccettato fra i cittadini») allo schiavo quanto aisuoi rapporti con la sovranità. «Insomma, ciò chefa il cittadino è l’obbedienza e la riconoscenzadel suddito libero per il suo principe sovrano, ela protezione, la giustizia e la difesa delprincipe nei riguardi del suddito; ed è questa lavera ed essenziale differenza fra cittadino estraniero» (Ivi: I, 304), poiché «giustizia,consiglio, conforto, aiuto e protezione», sonotutte cose che «non si devono a uno straniero». Indefinitiva, per ottenere protezione, giustizia edifesa, lo straniero deve essere accettato tra icittadini. In caso contrario, restando egli in ognicaso soggetto al potere sovrano dello Stato in cuisi è trasferito, ma non godendo dei privilegi dellacittadinanza, la sua condizione è considerataprossima a quella dello schiavo.

Il passaggio epocale dalla sovranità assolutaa quella costituzionalizzata e l’evoluzione dallinguaggio del privilegio a quello del diritto, alculmine dell’età moderna, non comportano da questopunto di vista trasformazioni significative.L’attenzione è se mai portata a concentrarsi suglielementi di continuità. La Dichiarazione dei diritti

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dell’uomo e del cittadino, come è noto a tutti,all’articolo 1 sancisce il principio per il quale«gli uomini nascono e vivono liberi e uguali neidiritti». L’articolo 2 afferma che «il fine di ogniassociazione politica è la conservazione deidiritti naturali e imprescrittibili dell'uomo.Questi diritti sono: la libertà, la proprietà, lasicurezza e la resistenza all'oppressione».L’articolo 3 stabilisce che «il principio di ognisovranità risiede essenzialmente nella Nazione». Aquesto punto, l’occhio esperto di un lettoreodierno coglie i termini di un passaggio complesso.In primo luogo, ci si lascia alle spalle l’idea diuna sovranità che si immedesima in una personafisica, anche se per la verità era possibileriscontrare questo elemento, in filigrana, nellastessa teoria bodiniana, che attribuisce allasovranità, tra l’altro, il carattere di perpetuità,separandola dalla persona del suo detentore protempore: in ogni caso, come è stato notato daTodorov, «la nazione è uno spazio di legittimazionee si oppone, in quanto fonte di potere, al dirittoregale o divino» (Todorov 1991: 207). In secondoluogo, dall’universalismo, sul quale nei primi duearticoli sono fondati i diritti, riferitiall’Uomo, si viene a porre l’accento sulparticolarismo della Nazione. Si può certo ritenerepreferibile parlare di universalismo concreto, più chedi particolarismo. Resta il fatto che la Nazione è unaparticolare comunità di origine e di destino,rispetto alla quale l’appartenenza è ascrittiva,non elettiva. Infine, l’introduzione dell’elementonazionale permette di cominciare ad alternare iriferimenti all’Uomo e al Cittadino in modo certo

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non casuale né, per così dire, neutrale. Così,l’articolo 6, premesso che «la Legge èl’espressione della volontà generale», aggiunge chead avere diritto a concorrere, personalmente otramite rappresentanti, al potere legislativo sonotutti i cittadini; che ad essere uguali di fronte aessa sono, ancora, tutti i cittadini; infine, che a«dignità, posti ed impieghi pubblici» devono essereammessi (s’intende) tutti i cittadini. Per l’articolo 9ogni cittadino accusato è presunto innocente finoall’eventuale condanna in giudizio e per l’articolo14 i cittadini hanno diritto, direttamente o tramitei loro rappresentanti, a votare le leggi tributariee a controllarne lo scopo, l’utilità el’applicazione; ma è la formulazione dell’articolo11 a gettare luce sul rapporto tra uomo ecittadino: «la libera comunicazione dei pensieri edelle opinioni è uno dei diritti più preziosidell'uomo. Ogni cittadino può dunque parlare,scrivere e pubblicare liberamente, salvo arispondere dell’abuso di questa libertà nei casicontemplati dalla Legge». Non sembra possanosussistere dubbi: i diritti desumibilidall’universale appartenenza all’umanità sonoattivabili a condizione di appartenere a unaspecifica universalità concreta, ossia a unaparticolare nazione. Anche là dove non sonodistinti da quelli del cittadino, i diritti dell’uomoposso essere fatti valere dall’uomo solo nella suaqualità di cittadino — e solo grazie a essa;diversamente, essi sono destinati ad apparire comediritti non esigibili (Todorov 1991: 216 e s.; Kristeva1990: 136 e ss.).

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Si presuppone, con tutta evidenza: a) chetutti gli uomini siano anche cittadini, cioè cheogni essere umano sia membro di una determinatanazione e, in quanto tale, in grado di reclamarel’applicazione di quei diritti che gli spettano giàper il fatto di essere venuto al mondo; e, b) cheogni società politica debba tendere alla sovranitànazionale, tanto nel senso di affermare la propriaemancipazione dal controllo politico di altrenazioni quanto in quello di riconoscere i suoicittadini come membri di una comunità di liberi euguali, partecipi del potere di legiferare e dicontrollare l’operato del proprio governo. Se ilXIX secolo nell’Occidente si è caratterizzato perla tensione all’emancipazione nazionale, il XX havisto estendersi questa tensione a paesi nonoccidentali e attuarsi una dinamica traaffermazione e negazione dei diritti politici.Quest’ultima si è conclusa con un deciso aumentodel numero dei regimi politici democratici, in dueondate di democratizzazione del mondo — inparticolare di quello occidentale —, coincidenticon gli anni successivi alla fine della Secondaguerra mondiale e con l’ultimo quarto del secolo(soprattutto il periodo compreso tra il 1974 e il1990). Tuttavia, lo stesso Novecento ha evidenziatoun limite insuperato, che si è mostrato in tutta lasua drammaticità, relativo alla effettivasovrapponibilità di uomo e di cittadino. Nellepagine di Hannah Arendt sulle origini deltotalitarismo si sottolineano le conseguenze diun’impostazione del ragionamento politico che, innome dell’universalità concreta, rende virtualmenteimpossibile superare la condizione di inesigibilità

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o inattivabilità dei diritti dell’uomo per interemasse di esseri umani:

Qui è il nocciolo del problema. La privazione deidiritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza diun posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alleazioni un effetto. Qualcosa di molto più essenzialedella libertà e della giustizia, che sono diritti deicittadini, è in gioco quando l’appartenenza allacomunità in cui si è nati non è più una cosa naturale ela non appartenenza non è più oggetto di scelta, quandosi è posti in una situazione in cui, a meno che non sicommetta un delitto, il trattamento subìto non dipendeda quel che si fa o non si fa. Questa situazione estremaè la sorte delle persone private dei diritti umani. Essesono prive, non del diritto alla libertà, ma del dirittoall’azione; non del diritto a pensare qualunque cosaloro piaccia, ma del diritto all’opinione. Ci siamoaccorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (eciò significa vivere in una struttura in cui si ègiudicati per le proprie azioni e opinioni) solo quandosono comparsi milioni di individui che lo avevano persoe non potevano riacquistarlo a causa della nuovaorganizzazione globale del mondo. Questa sventura nonderivava dai noti mali della mancanza di civiltà,dell’arretratezza e della tirannide; e non le si potevaporre rimedio perché non c’erano più sulla terra luoghida «civilizzare», perché, volere o no, vivevamo ormairealmente in un «unico mondo». Solo perché l’umanità eracompletamente organizzata, la perdita della patria edello status politico poteva identificarsi conl’espulsione dall’umanità stessa (Arendt 2004: 410 es.).

La figura dello straniero si scopre, così,forzatamente ma quasi inavvertitamente situata tral’uomo e il cittadino. Lo straniero apolide, con la

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perdita o l’abbandono del suo status ha perso anchequello che, da Arendt in poi, è comunementedenominato «il diritto ad avere diritti». JuliaKristeva sostiene che la sua presenza, che “grida”la sofferenza derivante dal constatare fino a chepunto l’in-comune presupponga l’esclusione, èassimilabile a quella di una «cicatrice», il segnoincancellabile di una ferita (Kristeva 1990: 13 ess.). Kristeva scrive nel 1988. La sua esperienzadi straniera in un paese d’elezione — paese checonosce le difficoltà dell’integrazione di unafascia consistente di popolazione proveniente dalleex colonie — le dà modo di mettere a frutto la suasensibilità per il tema. Tuttavia, dopo lapubblicazione del suo libro sulla condizioneintersoggettiva della persona straniera e deimembri della società in cui essa si muove, larealtà subisce una rapida evoluzione. Il 1989, colsuperamento della chiusura delle frontiere inun’ampia parte del mondo, prima ripiegata su sestessa in modo autoreferenziale, favorisceimponenti ondate migratorie verso i paesioccidentali, che si trovano a dover fronteggiareuna trasformazione epocale: alla figuradell’emigrante, individuo in cerca di lavoro, diopportunità e di fortuna in terre più ricche, ineconomie più aperte, o in realtà ancora nonsviluppate, si sostituisce quella dei migranti,intere masse di persone in movimento versol’Occidente. La differenza è netta. Lo stranierocome emigrante è, certo, un individuo dalla lingua,dai lineamenti e dalla foggia degli abiti diversi,ma nel sentire comune la sua permanenza è semprecollegata al fattore accomunante del lavoro (Ibid.)

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e, anche quando si dimostra di lungo termine, èpercepita come temporanea, essendo la suaaspirazione quella del rientro in patria, delricongiungimento con i suoi cari e con le sueradici geografiche e culturali. Fin tanto che restanel luogo di elezione, come individuo è portato amostrare una tendenza all’integrazione eall’adeguamento, quanto meno comportamentale, conle norme di convivenza fondamentali della comunitàcivile in cui si è trasferito. La presenza deimigranti appare invece minacciosa, non paragonabilea quella dei singoli emigranti, e non solo per ilfatto, pure significativo, che i migranti arrivanoin massa in società che hanno ormai raggiunto ilpieno sviluppo e risentono di una significativadisoccupazione interna. Essi non sembrano avere unaspecifica destinazione d’elezione; la lorocondizione fa sì che vengano assimilati, dallamentalità comune, più che agli emigranti, ai senzafissa dimora, nei confronti dei quali i popolioccidentali nutrono un atavico e diffuso senso disospetto. I migranti, inoltre, si spostano difrequente non individualmente ma in gruppiparentali organizzati; lo spirito di aggregazioneche li caratterizza li porta a tentativi diradicamento logistico che assumono la forma dicomunità particolari, che sembrano disposteall’integrazione nella nuova realtà sociale soloper quanto è loro strettamente indispensabile sulpiano pratico, mantenendo per il resto al lorointerno il tipo di rapporti e la mentalità delleloro origini. Si ha così la costituzione di gruppisociali portatori di tradizioni, culture e credenzeparticolari e collettive, estranee a quelle occidentali,

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all’interno di sistemi di relazioni chestoricamente hanno trovato il punto di composizioneed equilibrio nei principi di astrattezza e generalitàdei diritti soggettivi.

Kristeva, in una prospettiva postmoderna,prefigura una condizione nella quale il riferimentoidentitario vada verso la dissoluzione per chiunque —una realtà in cui il sentirsi straniero noncoincida più con l’esperienza di essere in terrastraniera, ma derivi da un inevitabile sradicamentodiffuso, dipendente dal consumarsi della crisidella modernità. Di fronte alla ridefinizione degliequilibri mondiali, alla globalizzazione e alcontraddittorio atteggiamento delle societàoccidentali nei confronti dei migranti, siverifica, al contrario, un fenomeno diattaccamento, a tratti segnato da tradizionalismo eimmobilismo più che da dinamismo, alle culture e aiquadri valoriali d’origine. L’insicurezza e lamutevolezza, anziché favorire il diluirsi deipresupposti identitari, come in fortunate esuggestive ricostruzioni sociologiche, ne produconol’irrigidimento e la chiusura. All’annunciata crisidella soggettività individuale non sembra farseguito tanto (o solo) l’indistinto e l’ovunquedell’uomo fungibile, inevitabilmente a disposizionedel nuovo «Impero» globale, come nella plasticaraffigurazione della «moltitudine» proposta daHardt e Negri (Hardt-Negri 2002), quanto la spintaa raccogliersi in gruppi che affermano identitàcollettive, autoattribuendosi la funzione dicustodi di culture, valori e tradizioni. A questacondizione fa riscontro un atteggiamento spessoostile dei paesi di immigrazione. Secondo Balibar,

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ciò avviene anche perché i cittadini sonodisorientati «dalla contraddizione, sempre piùevidente, che si crea tra la potenza immaginariache si è soliti attribuire ad uno Stato-nazione elo spettacolo quotidiano che, invece, dice dellasua impotenza dinanzi ai fenomeni di de-industrializzazione» o delocalizzazione che siaccompagnano alla globalizzazione, mettendo arepentaglio le conquiste di decenni di lottesociali. Così, i cittadini nazionali finiscono perpensare che i loro diritti sono ancora validi edefficaci «se i diritti degli stranieri appaionocome inferiori, precari o subordinati aimeccanismi, quasi sempre escludenti,dell’integrazione». «Con questi presupposti lagrande equazione istituita dagli Stati moderni tracittadinanza e nazionalità,— che fornisce un contenutoall’idea di «sovranità del popolo» comincia a fun-zionare capovolgendo i termini della suasignificazione democratica: la nazionalità non hapiù un valore storico all’interno del quale èpossibile costruire la libertà individuale el’uguaglianza collettiva ma diventa l’essenzastessa della cittadinanza e cioè la costruzione diuna comunità assoluta a cui tutti gli “altri”devono aderire» (Balibar 2004: 74 e s.).

Del resto, come ha sottolineato Habermas inpagine giustamente celebri per la loro forzasintetica, nell’orientare le scelte politiche elegislative intervengono, oltre a considerazionimorali, pragmatiche e negoziali, anche «ragioni ditipo etico». Queste ultime sono legate a forme divita proprie di un determinato orizzontesocioculturale. «Se si modifica l’insieme

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demografico della cittadinanza, si modifica anchequesto orizzonte, tanto che le stesse questionifiniscono per implicare altri discorsi e conseguirealtri risultati» (Habermas-Taylor 1998: 83 e ss.).In questa realtà, la pluralità e la differenzapossono facilmente apparire come agenti didisgregazione e di instabilità, se non come fattoridi slittamento verso la condizione di anomiapaventata da Platone. La cittadinanza democraticadovrebbe avere carattere pienamente elettivo,rinunciando programmaticamente a far valerecomponenti ascrittive, dato che anche la cultura ela tradizione sono soggette a trasformazioni edevoluzioni conseguenti a dinamiche interne ai varigruppi di riferimento, oltre che alla società nelsuo complesso (Guttman 1993: 185; Nussbaum 1999:140). D’altra parte, una cittadinanza di naturaesclusivamente elettiva è destinata a esserepercepita come fonte di insicurezza in un mondo nelquale i valori stessi, che dovrebbero orientare icittadini nelle scelte civili più difficili esofferte, si presentano allo stesso tempo comeoggetto di scelta consapevole. Soggettivismo edespressivismo sono stati colti da Charles Taylor —fin dagli anni coincidenti con la fine del secolobreve — come debolezze proprie di un’acriticaaccettazione di determinati portati della modernità(Taylor 2003: 43 e ss.). Essi però agiscono orasullo sfondo, divenuto labirintico, diun’interazione che vede partecipi i singoli, igruppi sociali, le società nazionali, i soggettisovranazionali, la comunità internazionale e gliagenti delocalizzati del nuovo poteremultinazionale spersonalizzato.

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3. Normativismo, sfiducia e soggettività politica del cittadino

Non è, né può essere, casuale il metterecriticamente a tema la democrazia che si è diffusonegli anni più recenti. Si riflette sulla crisidella democrazia, sul suo «disagio» (Galli 2011);si scrive di «postdemocrazia» (Crouch 2009) e«controdemocrazia» (Rosanvallon 2009); si esorta a«democratizzare la democrazia» (Santos 2003;Balibar 2012) e a lottare contro la «de-democratizzazione» (Balibar 2012). Tutto ciò ècerto, almeno in parte, inscritto nello statutoproprio della democrazia, che, come ha sottolineatoDerrida, è l’unico regime politico che puòsopravvivere solo mettendo sempre e incontinuazione in questione se stesso. Un regime,dunque, destinato a restare, per certi aspetti,sempre incompiuto e irrealizzato, perennemente «avenire» (Derrida 2003: 130 e ss.). Ci sono tuttaviaanche ragioni oggettive legate, più che alla naturapropria della democrazia, alla capacità di tenutadi tale natura di fronte a una condizione nuova einedita, in un certo senso “inaudita”, dellesocietà democratiche, in particolare di quelleoccidentali. Una società democratica può essereconsiderata ben ordinata, secondo la notaespressione di John Rawls, quando tutti i suoimembri condividono i suoi principi costituzionalifondamentali e sono orientati a un equo sistema dicooperazione tra cittadini che si pensano liberi euguali (Rawls 2012: 34 e ss.). Essi devonopertanto, nella precisazione di Habermas, essere ingrado di mettere in campo la loro autonomia sul

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piano pubblico, come partecipi della produzionegiuridica, ma anche su quello privato, nei lororapporti interpersonali (Habermas-Taylor 1998: 71 ess.). D’altra parte, la struttura giuridicizzatadelle relazioni sociali deve essere tale dagarantire l’esercizio di questa autonomia, ma primaancora la maturazione di essa nel tessuto dellasocietà. Questa maturazione richiede infattiassunzione di responsabilità nei confronti deiprincipi portanti che regolano la vita in comune edel quadro valoriale che ne costituisce ilriferimento essenziale. In mancanza di un’autonomiaeffettivamente ed efficacemente attivabile sulpiano giuridico, la stessa tensione versol’autonomia privata è messa a repentaglio. Oraappare complesso e obiettivamente difficilesituare adeguatamente la spinta all’autonomiaall’interno di una società nella quale allacondizione di pluralità di fatto fa ormairiscontro un sostanziale pluralismo valoriale.Contro quale sfondo dovranno infatti stagliarsi isoggetti tenuti a sostenere e difendere i principifondamentali dell’ordinamento? Fino a che puntol’autonomia privata è ancora pienamente in lineacon quella pubblica, quando i principi democraticidel riconoscimento e del rispetto reciproco(Larmore 1990: 82; Ferrara 1999: 320 e ss.), perloro natura universali, sono allo stesso tempoespressione di complessi valoriali sostenuti soloda alcuni dei gruppi sociali, se pure da quellimaggioritari ed egemoni? Detto in altro modo: sedalla constatazione della pluralità si passaall’accettazione del pluralismo e dall’accettazionesi fa derivare una valorizzazione di esso,

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vedendolo, per tornare a Rawls, non come uninconveniente ma come una conseguenza del progressodella ragione in condizioni di libertà (Rawls 2012:35), si istituisce un rapporto complesso tral’universalizzabile e il generalizzabile.L’universalizzabile dovrebbe poter trovareaccettazione per la sua intrinseca validità, mentreper generalizzabile dovrebbe intendersi quantorisulta empiricamente accettabile da unadeterminata generalità. Tuttavia, la prospettivapluralista sembra convalidabile solo a partire dauna preferenza accordata in via di principio algeneralizzabile. Rawls appare pienamenteconsapevole della difficoltà, che tenta dirisolvere facendo ricorso al concetto di«pluralismo ragionevole». Poiché nella terminologiarawlsiana ragionevole è quanto, al di là dellarazionale valutazione di un adeguato rapporto tramezzi e fini, prende in considerazione la validitàinterna dei fini in una prospettiva di reciprocitàdemocratica (Rawls 2012: 411 e s.), si comprendecome l’idea di pluralismo ragionevole rientri inuna prestazione intellettuale di considerevoleimpegno volta alla difesa della congruenza dellademocrazia e della stabilità democratica. Essatende a consentire una coesistenza nondestabilizzante della pluralità deigeneralizzabili nell’ambito dell’universalizzabile,o, per usare le parole di Rawls, della pluralitàdelle ragioni non pubbliche entro libereistituzioni sorrette dalla ragione pubblica.Sennonché, i generalizzabili non sono plurali soloin quanto riguardano contenuti diversi; né èsufficiente il riferimento (pure importante) al

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fatto che il pluralismo ragionevole non tenta dinegare né di esorcizzare il conflitto tra lediverse ragioni non pubbliche quando esse siconfrontano sui medesimi contenuti, ma nel rispettodi tale conflitto intende far coincidere l’ambitodell’universalizzabile col campo proprio especifico del “politico”. Infatti, a strettorigore, da certe premesse occorrerebbe passare asostenere che universalizzabile è la preferenza, invia di principio, del generalizzabile, ossia diquanto, di volta in volta, emerge come maggiormentecondiviso dalle diverse ragioni non pubbliche. Ciò,di per sé, non costituirebbe certo motivo discandalo o di crisi. Il fatto è però che Rawlsintende, contestualmente, elevare il livello dellademocrazia dal compromesso degli interessi, daltrade off e dalle public choices (nella parole di Rawls,«un mero modus vivendi») a una forma di governostabilmente garantita dall’interiore condivisionedei principi costituzionali fondamentali, cioè deiprincipi costitutivi della vita in comune, cherendono indisponibili e non negoziabili i valoripolitici di base, senza peraltro accettare unavisione comunitarista della cittadinanza. Nel casodi una cittadinanza comunitaria, infatti, lacondivisione avviene a un livello che trascendel’ambito proprio del politico e incorpora unaconcezione generale del mondo, del bene e dellavita. Tale concezione riveste un ruolo fondativodell’autorità pubblica e struttura l’identità deimembri della comunità. In tal modo, a parere deicomunitaristi, si conferisce concretezza e soliditàal legame di cittadinanza, che si configura comeprioritario rispetto alla conquista

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dell’autenticità e della specificità dell’individuoe si scongiura l’atomismo tipico di unindividualismo hobbesianamente inteso (Taylor 1993:43 e ss. e 246). Inoltre, così si evita laderesponsabilizzazione e il disinteresse delsingolo per le sorti della democrazia. Attraversoun processo che radica gli aspetti elettivi dellacittadinanza su un’appartenenza identitariaassimilabile a un sentimento ascrittivo, si offrealla democrazia una sicurezza di tenuta (MacIntyre1984). Il coinvolgimento profondo dei cittadini,così, viene a dipendere dall’opportunità diperseguire i propri interessi razionali e,congiuntamente, dalla possibilità diautorealizzazione identitaria offerta loro dalquadro valoriale che regola i rapporti tra lepersone e quelli tra le istituzioni e gli individui(Taylor 2000).

Tuttavia, per Rawls questo modo di concepireil rapporto tra politica e valori morali appareinsostenibile nella realtà delle societàdemocratiche occidentali. L’idea che tutti icittadini convergano nel sostenere una medesimaconcezione generale del mondo è ormai a suo avvisosuperata dai fatti e sostanzialmente irrealistica.La cittadinanza, dunque, dovrebbe non accontentarsidelle considerazioni di convenienza connesse conuna concezione meramente negoziale della politica,ma evitare al contempo confusioni tra appartenenzaascrittiva e identificazione elettiva: si nasce inuna comunità, si diventa cittadini. Non si può perònegare che per diventare cittadini, come si è detto,sono necessarie determinate condizioni esterne euna specifica disposizione interiore. Su questo

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punto Rawls è talmente deciso da formulare unadottrina politica della persona: è persona chi è ingrado di diventare cittadino consapevole — piùesattamente, «fonte autoautenticante dirivendicazioni valide» (Rawls 2012: 18; 31). Dunquel’autentica cittadinanza democratica si presentacome cittadinanza completamente ed esclusivamenteelettiva, che non è, si osservi, da intendersi comela prassi di chi è incline a scegliersi, di voltain volta, i valori in base ai quali regolare lapropria condotta o i propri comportamenti (Kymlicka1989: 48 e ss.); è, piuttosto, la disposizione aconvergere sui valori politici universalizzabili (idiritti inalienabili, l’ordinamento costituzionale,il rule of law), sostenendo nella sfera pubblica laconcezione politica della giustizia.

L’intrinseca difficoltà di questo approcciocomporta uno specifico tipo di razionalità, che,sulla scia di una lunga tradizione moderna, Rawlsdenomina «ragione pubblica». È la ragione pubblica— la ragione che già nelle parole di Rousseau puòoperare «prodigi» politici e morali, insegnando aciascun cittadino «ad agire secondo i principi cheil suo stesso giudizio gli detta» e «a non esserein contraddizione con se stesso» (Rousseau 1971[1755]: 285) — a far sì che la potenzialità dicittadinanza propria di ciascuno si attualizzi. Dalpunto di vista del discorso fin qui sviluppato, laragione pubblica permette la valorizzazione delpluralismo, mantiene entro l’orizzonte dellaragionevolezza i generalizzabili plurali inconflitto reciproco e produce la convergenza suivalori politici universalizzabili. La sua naturapubblica, però, per Rawls ne limita la validità

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all’ambito proprio del politico, cosa che, tral’altro, ha l’effetto transitivo di ammettere alsuo esame esclusivamente contenuti pubblici. Ciòdetto, appare subito chiaro che il puntopoliticamente qualificante, quanto alla dedizione auna democrazia dei principi, pluralista e stabile,diviene quello di stabilire cosa debba rientraretra i contenuti pubblici. Il gesto teorico di Rawlsè quello di procedere in direzione di una riduzioneprogressiva dei contenuti, mettendo in campo unadistinzione tra ambito di discussione nell’opinionepubblica allargata e competenze propriamentepolitiche. Questa riduzione, se non limita laragione pubblica alla sfera pubblica sovrana,intende quanto meno sospingere il cittadino, nellesue stesse riflessioni personali, a rapportarsialla discussione pubblica facendo propriainteriormente una metodologia che, nell’efficaceespressione di Habermas, porta a una coincidenza diaccettazione e accettabilità (Habermas 2008: 77).Che tale coincidenza non sia per Habermas daritenersi spontanea, né, in fin dei conti,desiderabile per una cittadinanza democraticaconsapevolmente vissuta nel confronto pubblico, èevidente dalla definizione del modo di procedere diRawls come di una «strategia dell’evitare» che egli,con non celato intento critico, condivide con ThomasMcCarthy (Habermas 2008: 87; McCarthy 1994: 51 es.). L’«uso pubblico della ragione» nelladiscussione aperta a tutte le parti e a tutti icontenuti, nel rispetto di una procedura discorsivanormativamente intesa, appare a Habermaspreferibile a una ragione pubblica che rischia direplicare l’errore kantiano del monologismo; così

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come un’osmosi tra l’opinione pubblica e la sferapolitica sovrana gli appare preferibile rispetto alprocesso di proiezione interiore del cittadino nelruolo tipico del membro delle istituzioni pubblichesollecitato da Rawls. Occorre rilevare che,confrontandosi con la pericolosa commistione dimodernismo tecnologico e arcaismo contenutisticodei fondamentalismi antidemocratici del nuovosecolo e col loro uso della comunicazione — un usoche, in nome di valori assoluti, contraddicespregiudicatamente qualunque principio etico enormativo —, egli in seguito rivaluta un criteriolimitativo dei termini accettabili della«giustificazione pubblica» e dei contenuti emodalità in essa praticabili. In ogni caso,l’insistenza sull’idea di un «patriottismocostituzionale», che dovrebbe prendere il posto dellegame ascrittivo con la propria comunità, indicafino a che punto anch’egli sia legato a un idealeelettivo di cittadinanza, pur nella difesa delladistinzione tra «morale» ed «etico», destinata aradicare concretamente i principi universalisticiin una forma sociale di vita (Habermas 1996: 132).

È evidente la prestazione etico-intellettualeche richiede al cittadino una democraziaconsolidata sulla base della ragione pubblicaanziché del compromesso e dell’accomodamentoraggiunto pro-tempore con una immancabile riservainteriore. Non c’è dunque da stupirsi deldisincanto, né del disagio, dimostrato da una quotacrescente di cittadini di fronte alla palesedissimmetria tra le richieste, chiaramenteesigenti, di immedesimazione elettiva nei principidell’ordinamento costituzionale, da un lato, e,

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dall’altro, l’incapacità, l’impotenza o la mancanzadi disponibilità della sfera politica sovrana araccogliere le istanze partecipative o anchemeramente rappresentative di strati sempre piùvasti della cittadinanza.

La definizione di cittadino come «membropienamente cooperativo» della società, che fa lapropria parte senza «trarre vantaggio dalle fatichecollettive di altri», ossia contribuendo in primapersona al lavoro complessivo della società,proposta da Rawls (Rawls 2002: 18, 106; Rawls 2012:18), è destinata oggi ad apparire, sul pianostorico, eccessivamente condizionata dallasituazione di decisa espansione (non solo intermini geopolitici ma anche sul piano dellosviluppo economico) in cui versava la democrazianell’ultimo quarto del XX secolo. Essa tuttaviarispecchia anche un sentire diffuso nel mondo delledemocrazie occidentali, che collega strettamente ilvalore della partecipazione civile all’esperienzadel lavoro, al punto che la mancanza di sicurezzadel lavoro sperimentata da percentuali dellapopolazione sempre più alte e da intere fascegenerazionali genera fenomeni di crescente rifiutodella politica. Secondo Colin Crouch,

la democrazia prospera quando aumentano per le masse leopportunità di partecipare attivamente, non soloattraverso il voto ma con la discussione e attraversoorganizzazioni autonome, alla definizione delle prioritàdella vita pubblica; quando le masse usufruisconoattivamente di queste opportunità; e quando le élite nonsono in grado di controllare e sminuire la maniera incui si discute di queste cose (Crouch 2009: 6).

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Benché più recenti di quelle di Rawls, questeconsiderazioni sono oggi meno al passo coi tempi.La disposizione interiore alla partecipazioneappare infatti sorretta dalla possibilità diproiettarsi al futuro, possibilità che non puòessere un artificio retorico né restare confinataal livello dell’immaginazione, ma ha bisogno dirisultare continuamente verificabile nelle vicendepersonali dei cittadini. Quanti sono usciti dalmondo del lavoro e, a seguito di una crisi ormaistrutturale e delle trasformazioni generalidell’economia e del mercato, disperano di potervirientrare e quanti non vi sono ancora stati ammessie ormai temono di non potervi mai accedere, sisentono esclusi dalla concreta esperienza di vitarealizzata (o non fallita) che dovrebbe costituirela cifra pratica della preferibilità dellademocrazia. La loro reazione non si orienta versol’attivismo di accezione negativa indicato daCrouch, che si manifesta come «protesta e accusa»,o nel mettere i politici «alla gogna», etc. (Crouch2009: 18), ma procede in direzione della crescentedisaffezione, che è ben più pericolosa. Essainfatti è priva sia dell’energia vitale che larabbia contiene sia del senso di identificazionedella propria dignità personale con quella delleistituzioni, che si esprime nel sentimentodell’indignazione. Per ragioni anch’esse dipendentidal deperimento delle condizioni di vita di unaparte sempre più notevole dei membri delledemocrazie economicamente e istituzionalmenteavanzate, appare prematuramente invecchiatol’approccio critico-propositivo di Santos,significativamente legato a una relazione tra

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modelli democratici sviluppatasi tra lademocratizzazione di alcune importanti aree del Suddel mondo e lo scoppio della crisi globale. Sirivendica in questo caso una demodiversità cheemancipi la cittadinanza dal modello egemonicoliberale, accusato di occultare, dietro il pretesouniversalismo, l’imposizione neocoloniale di unaparticolare prassi politica — imposizione attuataattraverso il condizionamento esercitato dalleagenzie finanziarie (Santos 2003: 47). L’asperitàdel confronto tra i paesi più industrializzati e loscontro sul peso effettivo delle sovranitànazionali rispetto a organismi economico-politicisovranazionali evidenzia fino a che punto questaprospettiva sia attualmente anacronistica. Non sivede infatti come nella realtà di questi anni sipossa recuperare spazio a una partecipazioneintegrativa della rappresentanza politicaattraverso procedure di partecipazione allapredisposizione di bilanci in ambito locale. Lerisorse disponibili a livello centrale sonoprogressivamente erose dal peso di un debitopubblico accumulato nei decenni e laredistribuzione del reddito, auspicata a fini diuna effettiva declinazione del principio di paridignità sociale sancito costituzionalmente, siscontra con l’impossibilità di fare uso della levatributaria su capitali sempre più ingenti,sottratti legalmente al prelievo dalladelocalizzazione e dalla concorrenza fiscale traStati.

Pierre Rosanvallon sembra cogliere meglio illegame tra il regresso della fiducianell’ordinamento economico, la delusione nei

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confronti delle alternative praticabili e un sensodi impotenza che tende a generalizzarsi. Egliinoltre richiama l’attenzione sulla tendenza alla«spoliticizzazione» della democrazia, ossia a undeclino dell’ambito proprio del politico connessocon un rivitalizzarsi complessivo del sociale,della comunicazione e della mentalità di tipoaziendale (Rosanvallon 2009: 237 e ss.). La viaindicata dal suo lavoro è quella di una possibile«organizzazione della sfiducia». La sfiducia,diffusa nella società, potrebbe contribuire asostenere «controdemocraticamente» la democrazia.Se «il soggetto politico — il popolo — scompare[...] come figura centrale e unificata» (Ivi: 245),è però ancora possibile la cittadinanza, nellaforma di una mobilitazione su base associativafinalizzata alla partecipazione nel civile e alcontrollo del potere. Questo tipo di cittadinanza èin grado di depotenziare il rischio di derivepopuliste costituenti la più temibile patologiapolitica del XXI secolo (Ivi: 247 e ss.). Tuttavia,l’esperibilità e la funzionalità della propostarisultano ostacolate, oltre che dai caratteripropri della «funzione controdemocratica» (Ivi: 276e ss.), dall’affievolirsi del legame dicittadinanza elettivamente inteso. Quest’ultimolascia spazio sempre più ampio a riemergentisollecitazioni a riconoscersi in appartenenzeprepolitiche che si presumono ascrittive (comunitàterritoriali, linguistiche, etc.), ma spesso nonriescono a dissimulare la natura ideologica delcriterio di autodefinizione e talvolta neppure sipreoccupano di celarla.

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Preoccupazioni non dissimili sono formulate daChantal Mouffe, che chiama direttamente in causa ilnormativismo. Ciò che rende non condivisibilel’approccio di Rawls e di Habermas non è tanto, asuo avviso, l’intrinseco intellettualismo, quantola pretesa di fondare la democrazia su un ideale dicittadinanza di tipo morale, nel tentativo discongiurare le più spiacevoli conseguenze delconflitto sociale. Procedendo in tal modo, notaMouffe, non si può ottenere lo spostamento delconflitto dal piano sociale a quello delladiscussione politica pubblica (la proceduradeliberativa). L’illusione di una sintesi dicarattere universalistico produce laspoliticizzazione della cittadinanza, il suoapprodo a un universo post-politico declinanteverso un moralismo (Mouffe 2007: 83 e ss.) che nonè in grado di offrire adeguate risposte allaprogressiva affermazione di tendenze e forzeantidemocratiche. La strada da seguire è, semmai,quella di restituire al politico le sue“competenze”, esprimere l’ineliminabilità delconflitto dalla politica tornare a distinguere dalliberalismo la democrazia, affermandone unaversione radicale. Solo una cittadinanzaintrinsecamente «agonistica» (secondo l’espressionedella studiosa belga) può scongiurare cedimentiall’autoritarismo, al populismo e all’antagonismo,che sono particolarmente agguerriti e pericolosi inEuropa e costituiscono l’inevitabile conseguenzadel tentativo di imporre unilateralmente allapolitica una sorta di riconciliazione moralmenteobbligatoria (Ivi: 146 e ss.; Mouffe, 2000).

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Per quanto acute, queste considerazioni nonriescono tuttavia a superare la difficoltàintrinseca a ogni dottrina che prescinda dalpresupposto di giustizia e limiti la politica alloscontro organizzato di forze, vale a direl’indicazione di un criterio che consenta didistinguere il potere lecito da quello arbitrario.Che la questione non sia di esclusiva pertinenzadella morale, ma anche decisiva sul piano politico— o meglio, come è stato autorevolmente notato, siaessenzialmente politica (Pettit 2000: 73) — risultadal fatto che ogni lotta contro un poterearbitrario comporta di norma una mobilitazione, chea sua volta implica alleanze. La conclusione dialleanze, del resto, richiede condivisione delleragioni e degli obiettivi della lotta. In primoluogo, bisogna poter stabilire in modo condiviso sesi è in presenza di un potere da combattere.Significativo a questo riguardo apparel’atteggiamento delle dottrine neorepubblicane oneo-romane, per le quali l’arbitrarietà del potereè costitutiva di quel dominio che una disposizioneinteriore a una cittadinanza autenticamenterepubblicana, in qualche modo, impone di combattere(Ivi: 68 e ss.). La problematicità di questaconcezione, pure intellettualmente credibile, sipalesa proprio sul piano definitorio. Così, ad es.,Pettit scrive che un potere non arbitrario puòlegittimamente interferire nella vita dei cittadini(ciò che equivale a dire che può peggiorare le lorocondizioni) quando persegue «non il benessere o lavisione del mondo di chi detiene il potere, bensìil benessere e la visione del mondo dellacollettività». Ora, nelle condizioni in cui versano

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attualmente le democrazie liberali, è l’idea di una«visione del mondo della collettività» a risultareincompatibile col pluralismo valoriale cui essesono votate. I repubblicani in genere respingonol’assimilazione della loro concezione politica alcomunitarismo, richiamandosi alla tradizione romanaper distinguersi da quella aristotelico-tomistica.Essi vogliono negare l’addebito, mosso loro daHabermas, di oberare i cittadini di un«sovraccarico etico» — quello di condividere unaconcezione totale della vita — e scongiurarel’assimilazione della loro teoria alle dottrine daRawls definite «comprensive», che prudentementeoccorrerebbe lasciare al di fuori della sfera delpolitico. A questo scopo devono però stabilire, conPettit, che il «patrimonio comune di una comunità»è ciò che risulta tale da una discussione pubblicaaperta, «in cui le persone possano parlare per sé eper i gruppi cui appartengono», trovando «unconsenso di livello superiore», «privo diriferimenti valoriali», poiché l’ideale del nondominio difende un bene «sociale e comune», nonlegato a una particolare idea del bene (Ivi: 73 e147). Con ciò, evidentemente, rischiano digenerarsi più problemi di quanti se ne risolvano.In primo luogo, un richiamo a una visione del mondocollettiva non è facilmente armonizzabile, né invia di principio né operativamente, coi sentimentidi appartenenza di gruppo evocati; inoltre, lasoluzione proposta segna più di un mero«avvicinamento» (Ivi: 147) al liberalismo rawlsianoe alla democrazia deliberativa habermasiana. Così,il non dominio finisce per risultare valido inquanto pubblicamente giustificabile a seguito di

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una procedura intersoggettiva valida, come nellaprospettiva di Habermas, e resta assimilato aiprincipi costituzionali essenziali che per Rawlsdevono essere sostenuti dalla ragione pubblicademocratica. In breve, volendo qualificarsi per lasua concretezza, anche il repubblicanesimo, nellasua formulazione più completa e articolata, va adannoverarsi tra le teorie normative.

Una via alternativa, che tenta un recupero eun superamento di quelle fin qui menzionate, èquella proposta da Balibar. Definita,alternativamente, come «egalibertà», o, allastregua di Santos, democratizzazione dellademocrazia, o, ancora, come «cittadinanzariflessiva», si articola in una serie di proposte o«proposizioni» internamente collegate. Senza volerindicare «un processo di perfezionamento del regimedemocratico esistente», si presenta come «undifferenziale che disloca le pratiche politiche»,per «affrontare apertamente la carenza didemocrazia», trasformando le istituzioni esistenti(Balibar 2012: 160 e s.). Prelevando dagli autori edalle correnti di pensiero sopra ricordati le ideedi cittadinanza come diritto ad avere diritti, comeriflessività, come disposizione all’aperturainclusiva, come lotta per l’emancipazione daldominio, come valore sociale e come riconoscimentodella conflittualità quale cifra interna delpolitico, Balibar conclude che la vera sfidaconsiste nel contrastare la de-democratizzazione,cosa che implica una riscoperta della naturainsorgente e insurrezionale della cittadinanzaattiva. Qui «insurrezione vuol dire conquista dellademocrazia e diritto ad avere diritti, ma ha sempre

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come contenuto la ricerca (e il rischio)dell’emancipazione collettiva» (Ivi: 170).

In fondo, è l’ambizione omni-inclusiva acostituire l’elemento meno convincente di questovolersi presentare come il punto di raccordo di undibattito che per avere significato si ritienedebba essere trasferito sul piano dell’azione“emergente”, “insorgente” o “insurrezionale”. Conciò si revoca in dubbio la rilevanza e lacentralità della mediazione politica, cioè deltrasferimento sul piano istituzionale del conflittosociale, e si torna a valorizzare l’espressioneaperta della forza in una prospettiva che, se non èanti-istituzionale, si qualifica però comevolutamente contro-istituzionale, nella convinzionedell’intrinseca debolezza di proposte normative nonsostenute da una prassi movimentista.

Migliore appare pertanto l’enfasi di SeylaBenhabib sulle «iterazioni democratiche». Facendouso di un termine introdotto nella discussione daJacques Derrida negli anni Ottanta, Benhabibsottolinea l’importanza dei «complessi processipubblici di argomentazione, deliberazione escambio» che, anziché collocare il cittadino in unadimensione marginale o, per converso, contro-istituzionale, si svolgono tanto «tra le diverseistituzioni giuridiche e politiche» quanto «nelleassociazioni della società civile», consentendo unoscambio e un’osmosi tra la sfera pubblica sovrana el’opinione pubblica allargata. Il tentativo, contutta evidenza, è quello di situare sul piano dellaconcreta interazione sociale l’impianto dellademocrazia deliberativa. Quest’ultima è messa incondizione di valicare i confini di una pura teoria

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normativa dando vita a una politica giusgenerativa,effetto di una disposizione della cittadinanza adassumere il ruolo di chi è «non soltanto oggetto, maanche autore delle leggi». Si tratta, secondo lasuggestiva espressione dell’autrice, diindividuare, «tra le norme trascendenti e lavolontà delle maggioranze democratiche», lo spazioper un’attività interpretativa e per un interventodi trasformazione. La normatività esce dalnormativismo per andare incontro all’azione, mentrel’agire sociale e politico, anche nei momenti enelle fasi conflittuali, accetta i riferimentinormativi: «da un lato, le rivendicazioni deidiritti che strutturano la politica democraticadevono essere considerate trascendenti rispettoalle particolari deliberazioni che le maggioranzedemocratiche producono in circostanze determinate;dall’altro, queste maggioranze reiterano queiprincipi e li integrano all’interno dei processi diformazione della volontà democratica attraversol’argomentazione, la contestazione, la revisione eil rifiuto» (Benhabib 2006: 142 e ss.).

Non tutti gli approcci basati su criterinormativi sono, dunque, necessariamente condannatialla debolezza derivante da una propensioneesclusiva o prevalente per l’astrazione. Inoltre,la debolezza non è poi solo un male. In fondo ènella debolezza che Cicerone colloca la fonte dellagiustizia politica e del rispetto reciproco traindividui e classi, cioè l’origine di quantofavorisce la libertà della cittadinanza e delloStato. Quando infatti si debba scegliere fracommettere un’ingiustizia, patirla, o nessuna delledue, solo secondariamente e per via del timore che

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si prova, consapevoli della propria debolezza, siperviene alla decisione di non recare né ricevereoffesa. È dunque dalla valutazione della propriadebolezza che si sviluppa la consapevolezza dellafunzione di mediazione della politica e l’esigenzadi lasciarsi alle spalle, nel XXI secolo, la doppiamorsa norma-eccezione e amico-nemico, che hacondizionato il Novecento, con i risultati chetutti conosciamo. Una debolezza, beninteso, che nonconsiste nell’impotenza e nell’incapacità, ma nellaconsapevolezza della mutevolezza e dell’instabilitàdi ogni conquista politica e nella coscienza chenulla è più incerto e precario dei rapporti diforza. Se, al contrario, alla forza si resta,trascurando come inefficaci le proposte normative,«cum de tribus unum est optandum, aut facereiniuriam nec accipere aut et facere et accipere autneutrum, optumum est facere, impune si possis»(Cic., de re pub., III, 23).

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Bibliografia

(I riferimenti agli autori antichi sono datinel testo secondo le convenzioni consolidate e nonsono compresi nei riferimenti bibliografici)

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Franco M. Di Sciullo

Abstract

DEMOCRAZIA E CITTADINANZA. ORIGINI E TEMI DI UNDIBATTITO

(DEMOCRACY AND CITIZENS. SOURCES AND TOPICS OF ADEBATE )

Keywords: democracy, citizens, nationality,normativism, pluralism.

National sovereignty has changed the approach tocitizenship and the relationship between democracy andcitizens developed in the ancient city-states of Greeceand in the Roman republic. The tension betweenuniversalism and particularism, increased by geo-political and cultural changes following 1989, isclearly expressed in political theory as well as inpublic discussions. This chapter follows bothnormativism and realism in their attempts to cope withthe present contradictions of representative democracy,the growing disaffection and mistrust for institutionsin democratic countries and the quest for a way to re-democratize democracy.

FRANCO M. DI SCIULLOUniversità degli Studi di MessinaDipartimento di [email protected]

EISSN 2037-0520

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GIUSEPPE BOTTARO

CITTADINANZA E REPUBBLICANESIMO

1. Comunità, cittadinanza e libertà politica

Nel corso della storia, il concetto dicittadinanza, l’essere cittadino, è statoidentificato principalmente con la possibilità dipartecipare alla formazione delle decisionipolitiche. Questa dimensione politica hacontribuito a definire due diversi significati dicittadinanza: è possibile accostarla alla comunità,si è cittadino se si appartiene a un determinatogruppo sociale; altrimenti si consideraastrattamente il cittadino in quanto individuosingolo detentore di diritti individuali ma anchedi obblighi.

Nella comunità si realizza l’essenza stessadel vivere politico mentre molto spesso si fariferimento al termine cittadinanza percircoscrivere la posizione di alcuni soggetti inriferimento ad un dato ordinamento politicosovrano. Tuttavia i due termini si sono spessointrecciati dando alla cittadinanza non più solouna «valenza tecnicamente, positivamente, giuridica(e giuridico-internazionalistica), ma unadimensione più ampia dove il momento giuridico epolitico si intrecciano per proporsi come nervatureessenziali della convivenza. […] Interrogarsi sullacittadinanza significa chiedersi in che modo

l’individuo si costituisce come parte di un gruppopolitico che lo ricomprende e gli attribuisce onerie privilegi, doveri e diritti» (Costa 1999: 15).

Secondo Michael Sandel i cittadini che fannorealmente parte di una comunità finiscono con ilsentire in maniera forte che la loro identità èdefinita dalla stessa comunità di cui sono membri.«Per essi la comunità descrive non soltanto ciò cheessi hanno come concittadini ma anche ciò che sono,non una relazione che essi scelgono (come in unaassociazione volontaria) ma un legame che scoprono,non semplicemente un attributo ma un elementocostitutivo della loro identità» (Sandel 2000: 23-24).

Allo stesso modo Alasdair MacIntyre ritieneche l’individuo separato dalla propria comunitàfinisca col perdere ogni standard effettivo digiudizio. L’appartenenza del cittadino ad unadeterminata comunità, caratterizzata da undeterminato sistema gerarchico e da un insiemiparticolare di credenze riguardo al miglior modo divivere la vita umana, diviene un prerequisito dellamoralità e della virtù politica (MacIntyre 2000:65).

Nella Politica Aristotele definisce l’uomo un“animale politico”, il quale trova la propriarealizzazione soltanto all’interno della città-stato, la polis. Naturalmente l’uomo sente lanecessità di vivere in comunità, non può esistereda solo. Per Aristotele lo stato è un tuttocostituito da molte parti, in definitiva è unapluralità di cittadini, dove il cittadino e lostato hanno gli stessi interessi. Nel miglioreordinamento politico il cittadino non dovrebbe

esercitare né commercio né agricoltura perdedicarsi completamente all’attività politica(Aristotele 1992, 304-305). Così Hannah Arendt nelsuo libro Vita Activa delinea il ruolo del cittadinouomo libero dell’antichità, il quale può dedicarela propria vita all’agire politico poiché èliberato dalla necessità del lavoro. Attraversol’ethos e l’educazione egli apprende la virtùpolitica diventando cittadino a tutti gli effetti.La libertà politica è, pertanto, l’abitudine e lapossibilità che gli uomini hanno, come cittadini,di agire liberamente (Arendt 1988).

Nell’ambito della visione greca della polis, ilcittadino rappresenta «una persona completa per laquale la politica è un’attività sociale naturaleche non è rigidamente separata dagli altri aspettidella vita, e il governo e lo Stato – o meglio, lapolis – non sono entità aliene e lontane. Alcontrario, la politica è solo un’estensionearmonica di noi stessi» (Dahl 1990: 27).

Nel vivere politico i Greci non vedevano unaparte o un aspetto della vita: ne vedevano lapienezza e l’essenza. L’uomo non-politico era per iGreci un essere incompleto e carente. L’individuomaschio adulto coincideva con il cittadino, e lacittà precedeva il cittadino. La democrazia greca,così come veniva praticata ad Atene nel corso del Vsecolo a.C., rappresenta la massima approssimazionepossibile del significato letterale del termine.Nell’agorà, nella piazza, i cittadini ascoltavano,discutevano e infine decidevano. La sostanzarisiedeva, secondo Aristotele, nel fatto che «tutticomandavano a ciascuno, e ciascuno comandava a suavolta a tutti», vale a dire in un esercizio del

potere effettivamente e largamente distribuitomediante una rapida rotazione nelle carichepubbliche.

Nel periodo della Roma repubblicana è stataelaborata una definizione particolarmenteapprofondita di cittadinanza. Durante la repubblicaromana il termine civis designa il maschio adulto e,in realtà, è cittadino di pieno diritto soltanto ilpater familias, l’unico titolare di capacità giuridicae politica. Per motivi politici l’assegnazionedella cittadinanza romana ha conosciuto un costantemovimento espansivo di inclusione di nuovi gruppisociali, i plebei, e di nuove etnie all’interno delpopulus romanus. Nel De re publica Cicerone definiva ilpopolo come una moltitudine associata dal consensosul diritto e dalla comunione di interessi. Iltermine populus, ad ogni modo stava a determinareper i romani l’insieme dei cittadini in armi.Mentre il demos dei greci finiva con la fine dellacittà-stato, il populus si poteva estendere perquanto si estendeva lo spazio della res publica.

La repubblica, riteneva d’altra parteMachiavelli, è l’unico tipo di regime sotto ilquale una comunità possa sperare di raggiungere lagrandezza, garantendo allo stesso tempo ai suoicittadini la libertà individuale. Per Machiavelli,inoltre, la virtù militare deve necessariamentecongiungersi alla virtù politica perché larepubblica è il bene comune e il cittadino, inquanto orienta tutti i suoi atti a tale bene, nonfa che dedicare la sua vita alla repubblica. Chicombatte per la patria dedica parimenti a questa lasua vita e, pertanto, cittadino e soldato diventanola stessa cosa.

Secondo la concezione propria degli autori chesi rifanno al repubblicanesimo, «il patriottismo èl’amore, devozione, e lealtà che le personedovrebbero sentire per il proprio paese: ilpatriottismo dovrebbe fornire una base morale perla volontà di prendere le parti del proprio paese,una volontà di difenderlo, e in ultima analisi, unadisponibilità persino a mettere in gioco la propriavita per amor suo» (Waldron 2000: 304).

A giudizio di Maurizio Viroli, «l’amore dellapatria è per Machiavelli la passione che spinge icittadini a perseguire il bene comune, a resisterela tirannide, a combattere la corruzione, aconservare il vivere libero» (Viroli 1999: 17). Perquesto motivo è molto difficile comprenderneinteramente il pensiero politico senza tenere inconsiderazione l’idea forte che il compitofondamentale di ogni cittadino della repubblica èdi mirare sempre e in qualunque modo alla libertà ealla difesa della Patria. Nel libro terzo deiDiscorsi Machiavelli sostiene che

la patria è bene difesa in qualunque modo la sidifende, o con ignominia o con gloria. […] La quale cosamerita di essere notata e osservata da qualunquecittadino si truova a consigliare la patria sua; perchédove si dilibera al tutto della salute della patria, nonvi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto néd’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabilené d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto,seguire al tutto quel partito che le salvi la vita emantenghile la libertà (Machiavelli 1996: 563).

Machiavelli ha, pertanto, posto a fondamentodella repubblica il cittadino-soldato, colui il

quale, sottolinea Pocock, «la religione patria e ladisciplina militare hanno educato a dedicarsi allapatria e a far valere tale dedizione anche negliaffari civili». […] La repubblica «è il bene comunee il cittadino, in quanto orienta tutti i suoi attia tale bene, non fa che dedicare la sua vita allarepubblica» (Pocock 1980: 386 e 389). Solo icittadini indipendenti possono partecipare, con leproprie azioni, con il proprio voto e se necessariocon le armi, alla vita e alla difesa dellarepubblica. Secondo Pocock, inoltre, Machiavelliutilizza la concezione della virtù che si esplicaanche attraverso l’uso delle armi nella difesadella repubblica anche per riuscire a difendere il“governo largo”, vale a dire l’effettivapartecipazione dei “molti” cittadini alla cosapubblica. Per Machiavelli, dunque, lapartecipazione diviene anche un effetto dellapratica, da parte del popolo, di utilizzare lavirtù militare insieme a quella politica.

Machiavelli nei Discorsi si sforza di elaborareuna concezione della repubblica dove lapartecipazione alla vita activa è condizionata dallapresenza della virtù civica, presupposto che egliindividua nella Roma repubblicana. Così Skinner puòaffermare che, a giudizio di Machiavelli, unarepubblica può essere mantenuta solo se i suoicittadini coltivano quelle qualità indispensabiliche Cicerone ha descritto come virtus: il coraggioper contribuire a difendere la comunità e laprudenza necessaria per partecipare al suo governo(Skinner 2001: 93).

Nella tradizione del repubblicanesimo moderno,ad esempio Harrington nell’Oceana, il concetto di

cittadinanza è intimamente collegato con ilcoinvolgimento economico e sociale: il cittadinodeve essere un soggetto che ha un interesseconcreto nella repubblica. Per questo il modellopredominante è costituito dal cittadino-proprietario. Il proprietario terriero è il solo adavere un interesse reale riguardo al benesseredell’intera comunità dato che i beni immobili sonointimamente connessi con il territoriorepubblicano. Così i proprietari agricoli sonoconsiderati gli unici veri cittadini. Infatti, sonoi soli soggetti facenti parte la comunità realmenteliberi di agire politicamente in quanto autonomi eautosufficienti dal potere e dalle istituzionistatuali.

Nella concezione democratico-repubblicana diRousseau il cittadino diviene soggetto attivo efonte del potere sovrano. Per Rousseau attraversoil contratto sociale ogni associato cedecompletamente e senza riserve la sua persona e ipropri diritti allo stato. I membri dello statoprendono collettivamente il nome di popolo, mentresingolarmente si dicono cittadini in quantopartecipi dell’autorità sovrana e sudditi in quantosottoposti alle leggi dello stato. Come cittadinoogni uomo partecipa della volontà generale delcorpo politico ma in quanto individuo continua adavere una volontà particolare che può esserecontraria alla volontà generale. Eppure il pattosociale contiene l’impegno per cui chi si rifiuteràdi obbedire alla volontà generale vi sarà obbligatoda tutto il corpo, in definitiva lo si costringeràad essere libero. La trasformazione compiuta daRousseau dell’uomo in cittadino rappresenta di

certo una delle caratteristiche fondamentaliriguardo alla cittadinanza, collegando quest’ultimaalla teoria consensuale del potere. Tuttavia, ilmodello democratico che Rousseau sviluppa è quellodell’antica polis, un modello di democrazia direttaimpossibile da applicare ai sistemi moderni didemocrazia rappresentativa come lo stato nazionale.

Il concetto di cittadino in senso liberaleviene concepito nei termini di un soggetto libero erazionale, formalmente uguale di fronte alla legge,economicamente autonomo e politicamente attivo. Nelpensiero politico di Kant, la proprietà privatadiventa il parametro per la determinazione dellaqualità del cittadino quale elemento portatore disovranità e, in definitiva, quale soggetto di unreale affrancamento politico. Kant definisce ilcittadino proprietario come colui che ha diritto asvolgere attività politica in base alla legge. PerCostant, Tocqueville e Stuart Mill la sola forma didemocrazia compatibile con il liberalismo è lademocrazia parlamentare o rappresentativa. Lapartecipazione del cittadino alle forme del poterepolitico viene quindi contenuta in una dellelibertà individuali che il cittadino ha conquistatonei confronti dello stato. A giudizio diTocqueville la democrazia rappresenta quella formadi governo nella quale tutti i cittadinipartecipano attivamente alla cosa pubblica.Inoltre, l’ideale dell’eguaglianza delleopportunità si svilupperà sempre più finendo coltravolgere le società tradizionali europee fondatesu un ordine gerarchico statico e immutabile.«Voler arrestare la democrazia sembrerà alloravoler lottare contro Dio e non resterà alle nazioni

che adattarsi allo stato sociale che loro impone laProvvidenza» (Tocqueville 1992: 22). Stuart Mill,infine, sostiene che la democrazia rappresentativaè la migliore forma di governo perché costituiscela configurazione naturale per uno stato che vogliaassicurare ai suoi cittadini il massimo di libertà.La partecipazione dei cittadini alla cosa pubblicae i benefici che la libertà procura in tuttirappresenta il concetto ideale di concretizzazionedi un governo effettivamente liberale.

Ancora oggi il dibattito sviluppato attorno alconcetto di cittadinanza si dimostra attualesoprattutto nella dialettica fra la concezioneliberale, da Rawls a Dworkin, e quella comunitaria,MacIntyre, Taylor, Walzer, discussione che puòessere concepita come tentativo di ridefinizione insenso etico della cittadinanza. Habermas ritiene,invece, di dover rendere di nuovo vitale ilsignificato politico della cittadinanza, fondandolasulla nozione di “patriottismo costituzionale”.L’identità del cittadino dovrebbe prescindere dalsenso di appartenenza alla comunità nazionale. Lacittadinanza politica si dovrebbe basare, inrealtà, sui valori di riferimento e sui principicondivisi delle democrazie costituzionalicontemporanee, dai diritti umani al pluralismo. Ilmomento unificante del popolo dovrebbe essere,pertanto, la nozione di “cittadinanza democratica”.

Sarebbe possibile, comunque, realizzarel’unica valida alternativa al liberalismocontemporaneo, per la Arendt come per MacIntyre,soltanto se i cittadini riuscissero ad esercitare apieno la propria libertà politica all’interno dellaloro comunità. In una sana repubblica democratica

la libertà personale, la responsabilità sociale ela partecipazione politica non devono e non possonomai essere disgiunte tra loro. Ma ancora di più,tutto ciò deve potersi esplicare all’interno di unostato capace di proteggere la libertà dei propricittadini da qualunque forma di dominio arbitrario.

Secondo i pensatori repubblicani l’idealedella libertà politica come non dominio si puòconcretizzare solo in quelle comunità che siano ingrado di sviluppare forme di vita sociale e comuniinteressi pienamente riconoscibili da tutti icittadini (Pettit 2005: 157-158). Soltanto in unarepubblica che sappia promuovere una storiacondivisa e un’identità comune risulterebbepossibile dare pieno impulso alla causa dellalibertà difendendola da tutti i pericoli interni edesterni.

A giudizio di Charles Taylor, pertanto, lavirtù civica può essere identificata essenzialmentecon il patriottismo e, quindi, conl’immedesimazione di ciascun cittadino con glialtri cittadini per il raggiungimento di un’impresacomune. (Taylor 2000: 137-167) In questi terminiil patriottismo non vuole significare dedicarsialla difesa della libertà di qualunque singoloindividuo, ma la necessità di avvertire in manieramolto forte un vincolo di solidarietà con i propricompatrioti, con coloro che sono parte integrantedella comunità. Si è dei veri cittadini e patriotise si intende la nazione «come progetto, unprogetto in un modo o nell’altro posto in esserenel passato, e continuato in modo tale da dar vitaad una comunità moralmente distinta, la qualeincarna un rivendicazione di autonomia politica

nelle sue espressione variamente organizzate eistituzionalizzate». MacIntyre (2000: 69).

La domanda chiave a questo punto risultaessere la seguente: per instaurare un autenticocontesto sociale libero, uno Stato realmenterepubblicano è necessario avere buoni e virtuosicittadini o è indispensabile costruire saldeistituzioni? La risposta che ci fornisce Dahl è che«una repubblica democratica di cittadini virtuosinon potrebbe esistere senza una forte omogeneitàinterna: gli individui devono avere interessiconvergenti, simili concezioni del bene pubblico ela maggioranza deve essere ampia e coesa su ogniquestione pubblica» (Dahl 2001: 94).

Nella concezione ideale di repubblicanesimo,pertanto, i cittadini propensi al conseguimento delbene pubblico hanno l’obbligo di esserepreventivamente d’accordo rispetto alla suadefinizione e anche rispetto a ciò che indefinitiva costituisce la stessa essenza del benepubblico.

Gli americani dell’età della rivoluzione, apartire da Jefferson, definirono in maniera chiaraciò che bisognava rappresentare come bene pubblicoo ricerca della felicità pubblica. Hannah Arendtsottolinea, nel suo libro On Revolution, come mentrenel diciottesimo secolo gli americani disquisivanointorno alla “felicità pubblica” i francesi sisoffermavano sul concetto di “libertà pubblica”.Gli americani, infatti, confluivano nelle assembleecittadine o in un qualsiasi raduno dove sidiscuteva sulla possibilità di compiere determinatiatti politici, non solo per assolvere a un doverema soprattutto per sviluppare un’attitudine che

comportava piacere. Discutere, scontrarsi e infinedeliberare sulle più disparate tematichecomportanti scelte politiche per gli americani noncostituiva per niente un peso ma costituivaqualcosa che accresceva l’interesse pubblico per lalibertà.

I cittadini americani della seconda metà delSettecento «si rendevano conto che dovevano trovaree costruire un nuovo spazio politico entro il qualela passione per la libertà pubblica o la ricerca della felicitàpubblica potessero avere libero gioco per legenerazioni a venire, in modo che il loro propriospirito rivoluzionario potesse sopravvivere alla finemateriale della rivoluzione» (Arendt 1983: 136-37)

La libertà che si identificava nella felicitàpubblica doveva consistere, in definitiva, neidiritti fondamentali che sviluppavano i cittadinidi una repubblica potendo accedere alla sfera delledecisioni pubbliche ed essendo partecipidell’esercizio del potere pubblico. In questitermini, Jefferson, con ricerca della felicità,intendeva riferirsi sia al diritto di partecipareall’agone politico e di deliberare con gli altricittadini sulle forme del benessere della comunitàsia, come pure è stato più volte interpretato, allaricerca del puro benessere privato di ogni singolocittadino. «La Dichiarazione d’Indipendenza, anchese rende piuttosto confusa la distinzione frafelicità pubblica e felicità privata, almeno cipresenta il termine ricerca della felicità nel suo duplicesignificato: benessere privato e insieme dirittoalla felicità pubblica, ricerca del benessere einsieme diritto ad essere partecipe dei pubblici affari»(Arendt 1983: 144-45).

I repubblicani operano, pertanto, una sceltachiara fra quelle che Skinner identifica come lepossibili modalità, nell’evoluzione della teoriapolitica moderna, per conseguire l’armonia fra gliinteressi «della città e quelli dei singolicittadini». Un modo «sottolinea che un governo èefficace ogni qualvolta le istituzioni sono forti ecorrotto quando l’apparato statale non riesce afunzionare adeguatamente. (Il principale esponentedi questa concezione è Hume.) L’altro approccioteorico suggerisce, in antitesi con il primo, chese gli uomini preposti alle istituzioni di governosono corrotti, non ci si deve aspettare che lemigliori istituzioni possibili siano in grado diformarli o frenarli, mentre se gli uomini sonovirtuosi, la salute delle istituzioni sarà un fattodi secondaria importanza. È questa la tradizione(di cui Machiavelli e Montesquieu sono i maggiorirappresentanti), che pone l’accento sul fatto chenon è tanto l’apparato di governo che soprattuttonecessita di essere sostenuto, bensì il giustospirito dei governanti, del popolo e delle leggi»( Skinner 1989: 109).

Per questo motivo Jefferson, ad esempio, sipreoccupava che fossero sempre salvaguardati i goodmoral principles dei cittadini e dei governanti (equindi la probità, la prudenza, l’onestà, ilcoraggio) e temeva, invece, che in una forma digoverno come quella realizzata da Hamilton e daifederalisti si potessero sviluppare meglio i viziche le virtù degli uomini. Era l’apparato digoverno costruito dai federalisti che non lasciava,quindi, spazio alla ricerca e all’esaltazione dellavirtus di tutti i cittadini americani.

È questo tipo di scontro fra Hamilton eJefferson che caratterizza la fase cruciale dellastoria statunitense compresa fra la fine delSettecento e l’inizio dell’Ottocento. Vi era semprestata nelle società umane una classe aristocraticache aveva governato, tutelando degli interessiparticolari, in base alla superstizione o allaforza militare: questa, dall’inizio dellarivoluzione industriale, cercava di appropriarsidel potere per mezzo della ricchezza finanziaria,che per i repubblicani americani era di naturaartificiale. Solo la repubblica rappresentativa deicittadini proprietari terrieri costituiva la formadi governo ottima, perché l’unica capace disalvaguardare le qualità morali degli uomini, laloro virtù civica e la loro piena partecipazioneall’attività politica. Le repubblicherappresentative che formavano l’Unione americanaerano le uniche forme di governo nate espressamenteper volere della sovranità popolare e solo ad essarispondevano.

2. Repubblicanesimo e cittadinanza in America

Il tempo delle Repubbliche americane segna unostacco, una frattura, un momento altro rispettoalle fasi precedenti della storia. Nel periodosuccessivo alla Dichiarazione d’Indipendenza sisono formate delle repubbliche capaci di garantirela libertà dei cittadini e di promuoverne la virtuscivica. È stato quello il tempo della Repubblica, omeglio delle tredici Repubbliche. Jefferson

percepisce chiaramente che con l’entrata in vigoredella Costituzione federale del 1787 e conl’avvento al potere dei federalisti l’intermezzo èterminato. Da buon repubblicano, sa che ladifficoltà maggiore per il giusto mantenimento diuna Repubblica deriva dal decorso del tempo.

Il virginiano credeva che la coesione socialenecessaria a mantenere uno stato armonico nonpotesse scaturire che dal carattere morale deicittadini che vivevano in una comunità agraria eche, quindi, fosse essenziale preservare in Americail repubblicanesimo rurale in quanto unica forma digoverno in grado di garantire i valori di unasocietà realmente democratica.

Queste tematiche furono sviluppate daJefferson nel testo Notes on the States of Virginia, poiriprese, e meglio precisate, dal teorico dellademocrazia jeffersoniana, John Taylor, soprattuttonel libro Arator scritto nel 1813. Il libro, nelleintenzioni di Taylor, avrebbe dovuto rappresentareun modello politico ed economico per una societàche guardasse al futuro, restando ben ancorata allatradizione e fondata sulla virtù personale deicittadini americani.

Taylor apprese fino in fondo la lezione degliautori classici romani. Marco Porcio Catone, adesempio, nel De agri cultura (160 a.C.) insegnava aconsiderare l’agricoltura come lo strumento cheindirizzava gli uomini verso una modesta agiatezza,li allontanava dalla corruzione, li instradavaverso la libertà, contro la tirannia delle propriepassioni, e, soprattutto, li convinceva ad esseregiusti, cioè a mostrare rispetto per i beni e, senecessario, a morire per il proprio paese. La

fortuna di Roma repubblicana si basava, a suogiudizio, proprio su un sistema agricolo fondatosui piccoli e industriosi proprietari terrieri,ricolmi di coraggio e patriottismo (Foshee 1985:527-28). L’agricoltura era, dunque, l’unicaattività produttiva giudicata onorevole e capace diformare un individuo moralmente sano, buoncittadino e buon soldato romano. Virgilio, inoltre,nelle Georgiche (37-30 a.C.) vuole descrivere labellezza e la pace, ed esaltare la virtù, solamenteesistenti nel paesaggio rurale; in definitiva «checosa renda lieti i campi, sotto che stellarivoltare il suolo e legare gli olmi e le viti, lacura dei buoi, l’allevamento delle greggi, lagrande esperienza necessaria per le api frugali».Soltanto coloro che vivono la vita serena epacifica dei campi diventano individui capaci diacquisire stabilità interiore, forza morale esoprattutto autosufficienza economica.

Nella redazione di Arator, dunque, Taylor fariferimento ai presupposti e ai valori presenti nelrepubblicanesimo classico, ma anche alla tradizionecountry inglese. Nell’Inghilterra della prima metàdel Settecento, infatti, autori quali Bolingbroke,piuttosto che Trenchard e Gordon, denunciavano ipericoli del vizio e della corruzione e incontrasto esaltavano i valori della virtù, dellospirito pubblico e della libertà. Era una ideologiadi chiara impronta neomachiavelliana eneoharringtoniana, nella quale veniva enfatizzatala virtù dei cittadini che mantenevano uno spiritopubblico e una libertà associata alla pubblicafelicità.

È sempre esistita una lotta fra potere

politico e virtuosa indipendenza dei cittadini el’unica fonte d’autonomia in ogni luogo e in ognitempo, secondo i repubblicani, è la terra. Quellaterra che è indispensabile possedere, coltivare e icui frutti servono innanzi tutto al sostentamentodella propria famiglia. Ma, ancora di più, ilcommercio, legato indissolubilmente ai prodottidella terra, è fondamentale per il raggiungimentodi quel benessere domestico che consente alcittadino capofamiglia di partecipare con serenitàe con spirito libero alla vita sociale e politicadella propria comunità e del proprio paese.

Il momento machiavelliano del ritorno in augedella corruzione generata dalla nuova aristocraziamonetaria e finanziaria, quando al potere è giuntala classe dirigente federalista, sta per prendereil sopravvento; e, come sostiene Machiavelli neiDiscorsi, vi è sempre stata un’equazione fracorruzione ed aristocrazia:

Quelle repubbliche dove si è mantenuto il viverepolitico ed incorrotto, non sopportano che alcuno lorocittadino né sia né viva a uso di gentiluomo: anzimantengono intra loro una pari equalità, ed a quellisignori e gentiluomini che sono in quella provincia sonoinimicissimi; […] E per chiarire questo nome digentiluomini quale e’ sia, dico che gentiluomini sonochiaramente quelli che oziosi vivono delle rendite delleloro possessioni abbondantemente, senza avere cura o dicoltivazione o di altra necessaria fatica a vivere.Questi tali sono perniziosi in ogni repubblica(Machiavelli 1982: 190).

All’inizio del Cinquecento il pensatorefiorentino manifestava la propria ostilità verso

l’aristocrazia feudale e, seppure in modo diverso,nei primi anni dell’Ottocento, i repubblicanijeffersoniani denunciano i guasti provocati dallapaper and patronage aristocracy. Quando vi è il trionfodegli ottimati antichi o moderni vincono leineguaglianze, la repubblica si corrompe e sifinisce col passare al principato, per Machiavelli,o ancora peggio alla tirannide, così come inmaniera decisa evidenzia ancora John Taylor nellasua opera Tiranny Unmasked. I gentiluomini si ancoranoalla ricchezza artificiale e non hanno niente daspartire, nulla in comune, con la ricchezza reale.In questa maniera essi finiscono con l’essere inemici di quell’eguaglianza politica cheMachiavelli, Jefferson e tutta la tradizionerepubblicana pone a base dell’esistenza ordinatadella Repubblica dei cittadini proprietariterrieri.

A giudizio di Dahl, «come i democratici grecii repubblicani ritenevano che il miglior sistema digoverno fosse quello in cui i cittadini sono pariper molti aspetti fondamentali: nell’eguaglianza difronte alla legge, ad esempio, e nella mancanza dirapporti di dipendenza tra un cittadino e l’altro,come tra padrone e servitore. La dottrinarepubblicana si spingeva oltre, ribadendo chenessun sistema politico poteva essere legittimo,auspicabile o positivo se escludeva il popolo dallapartecipazione al governo» (Dahl 1990: 37).

Tutto quello che, secondo i repubblicani, siproponeva di fare l’aristocrazia del capitale negliStati Uniti era di escludere la stragrandemaggioranza dei cittadini proprietari terrieridalla vita politica della federazione americana, e

instaurare nuovi rapporti di dipendenza fondati sulpossesso della moneta cartacea e dei titoli deldebito pubblico. Per Machiavelli, invece,esistevano, erano esistiti e inevitabilmentesarebbero continuati ad esistere, come lui stessoriportava in questo celeberrimo brano, fattori ecircostanze non eludibili.

Io dico che coloro che dannano i tumulti intra iNobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose chefurono prima causa del tenere libera Roma, e checonsiderino più a’ romori ed alle grida che di talitumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quellipartorivano; e che e’ non considerino, come e’ sono inogni repubblica due umori diversi, quello del popolo equello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno infavore della libertà, nascano dalla disunione loro […]Non si può chiamare in alcun modo con ragione unarepublica in ordinata, dove sieno tantii esempli divirtù, perché li buoni esempli nascano dalla buonaeducazione, la buona educazione dalle buone leggi, e lebuone leggi da quelli tumulti che moltiinconsideratamente dannano (Machiavelli 1983, 30-31).

Le buone leggi della Roma repubblicana eranoquindi scaturite dalla disarmonia e dal contrastotra i nobili e il popolo, e non dall’armoniasociale. Gli antagonismi tra patrizi e plebeiavevano costituito la grandezza della repubblicaromana e, di conseguenza, la causa della suaespansione territoriale. Machiavelli era ancora piùesplicito quando sosteneva: «credo ch’è sianecessario seguire l’ordinamento romano, e nonquello dell’altre repubbliche, perché trovare unmodo mezzo infra l’uno e l’altro non credo si

possa; e quelle inimicizie che intra il popolo edil senato nascessimo, tollerarle, piglandole peruno inconveniente necessario a pervenire allaromana grandezza» (Machiavelli 1983, 45).

In una moderna repubblica, la disarmonia, lapluralità d’interessi ed il conflitto fra le particontrapposte sono, in altre parole, gli elementiindispensabili per il mantenimento della veralibertà individuale dei cittadini. Proprio lediverse tensioni e i differenti interessi presentinella società civile americana costituiscono ifondamenti, secondo la definizione di Dahl, dellamoderna poliarchia americana.

Le mutate dimensioni e le conseguenze che nederivavano - il governo rappresentativo, una maggioreeterogeneità, un aumento delle fratture e dei conflitti- contribuirono a far sviluppare un insieme diistituzioni politiche che, prese nel loro complesso,costituiscono i segni distintivi della modernademocrazia rappresentativa rispetto a tutti gli altrisistemi politici, siano essi regimi non democratici osistemi democratici arcaici. Questo tipo di ordinamentopolitico è stato chiamato poliarchia (Dahl 1990, 330).

Le prime avvisaglie di questo pluralismosociale, che si sviluppò appieno nel corsodell’Ottocento negli Stati Uniti, si cominciavanogià ad avvertire all’epoca dello scontro frafederalisti e repubblicani. La sempre piùconsistente presenza, e la capacità d’incidere neimomenti delle scelte politiche, di numerosi gruppisociali, economici, religiosi, etnici, el’estensione della cittadinanza mutarono in manierasostanziale l’ideale di omogeneità e di armonia fra

tutti i cittadini intorno ad un unico interesse,sostenuto con forza da Jefferson e daijeffersoniani. Come, invece, affermava Madison nelFederalist, con l’espansione del paese, i contrastisociali ed i conflitti d’interesse non sfociaronoin accanite lotte civili ma diventarono la forzadella democrazia americana.

Idee repubblicane insieme a idee liberalisarebbero, comunque, presenti in tutti i principaliesponenti del periodo rivoluzionario ecostituzionale in America, compresi ijeffersoniani. Il liberalismo è maggiormenteriferibile all’uomo economico, all’individuo, cioè,che risulta intento a massimizzare le propriesoddisfazioni private; il repubblicanesimo, invece,riguarda in maniera più pregnante l’uomo nella suatotalità, mettendo in stretta relazione ilcittadino con la preservazione della comunità. Perquesto motivo è impossibile affermare, secondoalcuni, una presenza di liberalismo in un contestonel quale, seguendo i dettami del repubblicanesimoclassico, la ricerca del puro interesse privato èincompatibile con la preservazione del bene comune(Banning 1986, 12).

Tesi contestata, invece, da Sinopoli, secondoil quale è fortemente sbagliata un’affermazioneche, a priori, stabilisca che, dove esiste la virtùcivica, il liberalismo è sempre assente. Allostesso modo è ugualmente non corretto sostenere chedove i diritti e gli interessi degli individui sonopresenti, il liberalismo è dominante. Al contrario,in America, la presenza della virtù civica si èdimostrata essere compatibile, se non addiritturacondizione indispensabile, per lo sviluppo dei

principi essenziali della democrazia liberale(Sinopoli 1992).

In America pensatori e politici qualiJefferson, Hamilton, Adams, Madison, Taylor eranotutti fermamente convinti che la virtù civica fosseuna necessità pratica per un popolo determinato adautogovernarsi e la stessa fu, di conseguenza,considerata come una forma di difesa contro lacorruzione, e al tempo stesso, come uno stimolo acompiere azioni moralmente positive. SecondoBernard Bailyn, nella sua Ideological Origins of theAmerican Revolution, per questi americani che avevanoattinto le loro idee politiche dai pensatoriclassici quali Aristotele, Polibio, Cicerone, e,dai repubblicani inglesi del Seicento qualiHarrington, Milton, Sidney, ed ancora da Locke,Montesquieu e Rousseau, la politica del governoinglese prima della rivoluzione americana erapervasa dalla corruzione, e mirava esclusivamente adistruggere le libertà che per tradizione e perconvenzione erano state riconosciute ai coloni. Gliamericani, quindi, erano fortemente convinti che senon si fossero ribellati alla corona inglese e alparlamento, questi avrebbero fatto di loro deglischiavi (Elkins e McKitrick 1993, 6-7).

In America, il mondo della politica erapervaso dalle polarità repubblicane di virtù ecorruzione, disinteresse e interessi di parte,spirito pubblico e ambizione privata,partecipazione e passività. Per Gordon Wood icoloni, grazie alla rivoluzione, credevano di avercreato un nuovo mondo, un mondo repubblicano. Larepubblica dei cittadini significava per loro moltopiù che la semplice eliminazione di un re e

l’istituzione di un sistema elettivo. Ilrepubblicanesimo aggiungeva una dimensione morale,un’utopia profonda alla separazione politicadall’Inghilterra, una profondità che impregnava ilvero carattere della loro società. Per Pocock ilrepubblicanesimo americano rappresenta solol’ultimo atto di una lunga storia che prendel’avvio dal rinascimento italiano, da Machiavelli edagli ideali dell’umanesimo civico, per passareall’Inghilterra di Harrington, Milton, Sidney edegli scrittori country del primo Settecento, perapprodare, infine, nelle colonie americane al tempodella rivoluzione.

Il concetto moderno di repubblicanesimo nasce,secondo Pocock, nelle città-stato italiane,soprattutto nella Firenze repubblicana, in polemicaquasi con il pessimismo e l’ansietà vissuti daicittadini e contro le forze degeneratrici dellastoria e la corruzione del tempo. La costruzione diPocock si basava sul senso civico. Nell’ambitodell’azione civica, infatti, il tempo, la fortuna ela corruzione potevano essere contrastate. Lavirtù, quindi, diviene una auto-attività pubblica,nella quale la personalità, sostenuta da unaproprietà sufficiente per darle l’indipendenzaeconomica, realizza se stessa (per la suaperfezione e per la sopravvivenza della repubblica)nella cittadinanza, nel patriottismo e nella vitacivica. Solo i cittadini indipendenti possonopartecipare, con le proprie azioni, con il propriovoto e se necessario con le armi, alla vita e alladifesa della repubblica.

Wood ritiene, comunque, che la rivoluzioneamericana segni la fine della teoria del cittadino,

quale individuo politico e attivo (che ha unapartecipazione diretta nella res publica inproporzione alle sue capacità), e il passaggio aduna teoria secondo la quale l’individuo appare comeessere consapevole soprattutto del propriointeresse; egli prende parte al governo, ossia allagestione della cosa pubblica, proprio pergarantirsi la realizzazione dei propri obiettivi.Per Pocock, invece, la rivoluzione americana deveintendersi come l’ultimo grande atto delrinascimento, piuttosto che come il primo attopolitico dell’illuminismo rivoluzionario: non nascepertanto il nuovo cittadino, individuo isolatodello stato liberale, ma giunge finalmente aperfezionarsi il percorso di costruzione delconsapevole e virtuoso cittadino repubblicano(Pocock 1972, 120).

Nel saggio N. 39 del Federalista, Madisonspiega in maniera mirabile come la Costituzione del1787 riesca a stabilire una forma di governorepubblicana. È necessario, a suo giudizio,mantenere la Repubblica poiché nessun altra formadi governo potrebbe essere compatibile con ilpopolo americano dopo la Dichiarazioned’Indipendenza e la rivoluzione control’Inghilterra. Si può, tuttavia, definireRepubblica soltanto quel paese nel quale il governoderivi «tutti i suoi poteri direttamente oindirettamente dalla gran massa del popolo, ed èamministrato da persone che conservano il loroincarico in modo precario e per un periodo di tempolimitato, finché dura la loro buona condotta.Secondo la Costituzione di ogni Stato dell’Unione»,osserva Madison «l’uno o l’altro dei funzionari del

Governo sono indirettamente incaricati solo dalpopolo; per la maggior parte di esse, anche il piùalto Magistrato è designato così» (Madison 1980,298).

Secondo Hannah Arendt, delle tre grandirivoluzioni - quella americana, quella francese equella sovietica - l’unica pienamente riuscita fuappunto la prima, in quanto il risultato di questafu la nascita di una moderna repubblica capace digarantire la libertà e la partecipazione politicadei cittadini. La Arendt distingue tra liberazionee libertà:

Se la rivoluzione si fosse posta come scopo soloquello di garantire i diritti civili avrebbe mirato nonalla libertà, ma alla liberazione dai governi cheabusassero dei loro poteri violando antichi e benfondati diritti. La difficoltà è che la rivoluzione,come la conosciamo nell’età moderna, ha sempre miratotanto alla liberazione quanto alla libertà...e spesso èassai difficile dire dove termini il semplice desideriodi liberazione, di essere liberi dall’oppressione, ecominci il desiderio di libertà in quanto modo di viverepolitico. La questione è che mentre il primo desideriosi poteva anche appagare sotto un governo monarchico, ilsecondo richiedeva l’istituzione di una forma di governonuova, o piuttosto riscoperta: richiedeva l’istituzionedella repubblica (Arendt 1983, 29).

Molti dei padri fondatori degli Stati Unitimotivarono la loro azione rivoluzionaria e politicasullo scontro tra desiderio di libertàcostituzionale e repubblicana da una partedell’Oceano Atlantico e volontà di imporre unpotere arbitrario dall’altra parte.

Gli anni della Rivoluzione americana furono ancheanni di trasformazione e di conflitti sociali; ma leconvinzioni e le aspirazioni dei fondatori dell’America,a differenza di quelle dei capi delle successiverivoluzioni francese e russa, non contemplavano ladistruzione e la rifondazione dell’ordine sociale. LaRivoluzione americana non generò forze politiche esociali nuove: non fece altro che liberare forze, eintensificare mutamenti, che premevano ed erano già incorso di sviluppo fin dal primo giorno in cui sudditiinglesi avevano messo stabilmente piede in AmericaBailyn e Wood 1987, 17).

La sintesi repubblicana, secondo le parole diShalhope, quella teoria, cioè, in base alla quale iconcetti cari al repubblicanesimo antico e modernoavrebbero avuto un ruolo determinante nellaformazione e nella prima fase di storia degli StatiUniti, può essere compresa solo all’interno di unasuccessione di paradigmi: i coloni decisero diribellarsi alla madrepatria perché non potevano piùpermettere che una nazione lontana continuasse adavere il monopolio del commercio e quindisostanzialmente continuasse a regolare e a dirigereil futuro economico del territorio americano, maanche perché da cittadini di una comunitàsostanzialmente libera e virtuosa, in sensorepubblicano, avevano la consapevolezza certa cheoccorresse essere pienamente indipendenti dal puntodi vista politico (Rodgers 1992, 12).

Gli americani del 1776 credevano che quelloche faceva grandi le repubbliche o le distruggevanon fosse la forza delle armi, ma il carattere e lospirito dei cittadini. La pubblica virtù diventava,

quindi, preminente. Un popolo poteva costruire unabuona repubblica solo attraverso la propriafrugalità, laboriosità, onestà, semplicità. Il benepubblico doveva, poi, essere il fine di un buongoverno e ciò richiedeva costante sacrificio degliinteressi individuali e di parte, in favore diquelli della collettività.

Essere membro di una comunità politica, nellaconcezione repubblicana, implica, pertanto, unacostante applicazione e immedesimazione da partedegli stessi cittadini e una conseguentedistinzione rispetto all’appartenenza ad una delletante possibili comunità prepolitiche basate sullarazza, la religione o la cultura (Honohan 2002, 8).In definitiva, il presupposto per far vivere ecrescere la repubblica si sostanzia nella concretadisposizione del singolo cittadino di anteporre ilbene pubblico al proprio; solo in questo contesto,secondo Machiavelli, la virtù politica si congiungealla virtù militare poiché la repubblicarappresenta il bene comune e il cittadino cheagisce perseguendo tale bene finisce col dedicarela sua vita alla stessa repubblica.

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Abstract

CITTADINANZA E REPUBBLICANESIMO

(CITIZENSHIP AND REPUBLICANISM)

Keywords: citizenship, republicanism, civic virtue,common good, political freedom.

The primary condition to let a republic live andgrow is embodied in the capacity of the citizen tosubmit its own good to the public one; only in thiscontext, according to Machiavelli, political virtuejoins military virtue because republic is the commongood and the virtuous citizen, dedicating his life tothe same republic, concurs to pursue the commonobjective. People can build a good republic only throughtheir own laboriousness, honesty, simplicity. The publicgood must be the aim of a good government, and for thispurpose is necessary to sacrifice the individualinterests in favour of the community.

GIUSEPPE BOTTAROUniversità degli Studi di MessinaDipartimento di Scienze giuridiche e storia delle

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DARIO CARONITI

RALPH WALDO EMERSON.IL POPOLO DI UOMINI E L’AMERICAN IDEA.

1. L’Uomo che pensa

Negli anni della Rivoluzione, la composizioneetnica del popolo americano che abitava le colonieera ancora quasi del tutto omogenea. Ad eccezionedegli afroamericani, la gran parte dellapopolazione era di origine inglese o scozzese. Ildistacco dalla madrepatria non era avvenuto invirtù di una rivendicazione di diversità di stirpe,di lingua o di cultura, ma per una differenteconcezione politica. La Dichiarazione diindipendenza – scaturita dalla rivendicazione deldiritto storico costituzionale alla rappresentanza(no taxation without representation) – l’atto costitutivodella nuova nazione americana, il fondamentocomunitario del nuovo popolo, proclama i dirittinaturali, tra i quali il diritto alla vita, allalibertà e alla ricerca della felicità, uguali pertutti, base di un ordine giusto sul quale lacomunità americana si sarebbe costituita. (Caroniti2008: 15-34).

Nel corso del XIX secolo, la conflittualitàtra le diverse sezioni del paese pose dei problemiche il contrattualismo lockiano, a quei tempicultura politica di riferimento della gran partedel pensiero politico americano, stentava a

Il prog

risolvere. Nel momento in una intera sezione delpaese metteva radicalmente in discussione ilpactum, il medesimo volontarismo che ne erafondamento diventava elemento cardine delladisunione: se i popoli degli stati decidevano alarghissima maggioranza di rompere il contrattosociale, non ci si poteva certo appellare a unadiversa volontà espressa vari decenni prima. Cosìcome dei popoli avevano liberamente deciso diunirsi, gli stessi decidevano adesso disciogliersi, rimettendo in discussione lo statofederale. A questo si aggiungeva la massicciaemigrazione proveniente prima dall’Europa e poidall’Asia, che sconvolse progressivamente lacomposizione etnica degli Stati Uniti (Martin 2014:47-76).

A opporsi a queste spinte centrifugheintervenne quello che Matthiessen definì ilmovimento romantico americano, il trascendentalismo(Matthiessen 1954: 3-14). Al suo interno furonoelaborate le risposte alla crisi di crescita dellacomunità americana. Grazie all’emergere di unaletteratura tipicamente americana, sensibilmentedistinta da quella inglese, si iniziano aintravedere i tratti culturali di una nazione a séstante, espressamente descritta nei suoi trattisalienti da Ralph Waldo Emerson. La così detta«nazione di uomini» da lui definita nel celebrediscorso del 1837 per l’inaugurazione dell’annoaccademico ad Harvard, diversa dalle altre per leopportunità che all’interno degli Stati Uniti gliamericani godono. Questa comunità nazionale sidistinguerebbe per il recupero della dimensioneautenticamente umana, altrimenti avvilita

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Dario Caroniti

dall’identificazione tra l’uomo e la mansione dalui svolta nel mercato del lavoro:

La vecchia favola cela un insegnamento sempre nuovoe sublime; che cioè c’è un Uomo, presente in tutti isingoli uomini soltanto parzialmente, o attraverso unafacoltà; e la favola dice anche che bisogna prenderel’intera società per trovare l’intero uomo. L’uomo non èné un contadino, né un professore, né un ingegnere, matutte queste cose insieme. L’uomo è prete, studioso,statista, economista e soldato. In uno stato diviso osociale queste funzioni sono distribuite tra i singoliindividui ciascuno dei quali ha per scopo l’adempimentodi ciò che gli è stato assegnato del comune lavoro,mentre un altro lo porta a termine. La favolasottintende che l’individuo, per possedere se stesso,deve di tanto in tanto allontanarsi dal suo proprio especifico lavoro per abbracciare tutti gli altri suoisimili.

Nella realtà sociale, ci dice però Emerson,questa dimensione originaria dell’uomo si èsvuotata, ha subito una vera e propria amputazione,che «ha trasformato l’uomo in una cosa»:

Il coltivatore, cioè l’Uomo inviato nei campi perraccogliere cibo, raramente è consolato dal pensierodell’autentica dignità del suo lavoro. Egli bada allemisure, al carro, ma non vede al di là di queste cose, eaffoga nelle condizioni del contadino, invece diserbarsi Uomo nella fattoria. L’uomo d’affari raramenteattribuisce un valore ideale al suo lavoro, è invecetrascinato dalla routine della sua professione, el’anima è schiava dei dollari. Il prete diventa unavuota forma; il legale un libro di leggi; il meccanicouna macchina; il marinaio, la gomena di una nave(Emerson 1962: 128-129).

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Il prog

Recuperare l’unità originaria è il compito

dello studioso, «l’intelletto delegato alladistribuzione di queste funzioni», «l’Uomo chePensa», che va però distinto sia dal «pensatorepuro», che dal «pappagallo del pensiero altrui»(Emerson 1962: 129). Non si tratta quindidell’intellettuale che si astrae dal resto dellasocietà, ma al contrario dell’uomo che riacquistala capacità di contemplazione dell’universo aprescindere dalla condizione lavorativa o economicanella quale si trova. Che riesce ad essere«affascinato» dallo spettacolo della natura, dalsole dal tramonto, dalla notte e dalle stelle,perché coglie le intime connessioni tra essa e lapropria natura:

Corre fra la gente l’opinione che lo studioso debbaessere un recluso, un malaticcio inadatto a qualsiasilavoro manuale o impegni pubblici, come un temperino perun’ascia. Il così detto «uomo pratico» schernisce l’uomospeculativo, quasi che questa categoria, per il solofatto di speculare o di vedere, sia inadatta a farealcunché. Ho sentito dire che il clero – che è sempre,in maniera più universale di qualsiasi altra classe, ilgruppo di studiosi del proprio tempo – viene abbordatocome fossero donne; che non sente la rude, spontaneaconversazione degli uomini, ma solo un linguaggiolargamente indebolito e affettato. Spesso vienevirtualmente privato dei suoi diritti civili, eovviamente fa l’avvocato difensore del proprio celibato.Per quanto tutto ciò possa essere vero della classedegli studiosi, tuttavia non è né giusto né saggio.L’azione è certo un fatto secondario per lo studioso, maessenziale» (Emerson 1962: 135).

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2. L’homònoia americana

Mentre le similitudini tra l’Uomo di Emerson,l’uomo totale di Marx o anche il superuomonietzschiano sono state più volte oggetto diapprofondimento (Levine, Malachuk 2011: 12, 91,223), molto meno lo sono state quelle con il biostheoretikòs aristotelico. Tanto più che l’attivitàcontemplativa descritta da Emerson si svolge neltempo libero da impegni di lavoro, non impiegato adassolvere ai bisogni materiali. Nell’EticaNicomachea, Aristotele pone in stretta relazione la«libertà dagli impegni» (la skolè) con la felicità,l’eudaimonìa (Aristotele: X, 1177b4). La possibilitàdi impiegare parte della giornata in attivitàcontemplative, che non assolvono ad esigenze legateal bisogno, ma che vengono svolte per il propriobenessere intellettuale,1 è un carattere distintivodell’uomo maturo (lo spoudàios), che è l’unico adessere veramente libero perché vive secondo virtù:

Se la felicità è attiva secondo virtù, èragionevole che lo sia secondo la più eccellente, equesta verrà a essere la virtù di ciò che è migliore.Quindi, o che l’intelletto sia ciò che è ritenutocomandare e dominare per natura e avere nozione dellecose belle e divine, o che sia qualcosa d’altro; o chel’intelletto stesso sia divino, o che sia la cosa più

1 «Si ritiene che l’attività dell’intelletto, che èteoretica, spicchi per eccellenza, non persegua alcun fine aldi là di se stessa, possieda un suo proprio piacere completo,il quale intensifica l’attività, e abbia anche lacaratteristica dell’autosufficienza, della mancanza di fastidie anche della capacità di non stancare» (Aristotele X,1177b18).

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divina che è in noi, la sua attività secondo la virtùpropria verrà a essere la felicità perfetta. Che èun’attività teoretica (Aristotele: X, 1177a12).

Come scrive Christopher Lasch (Lasch 1992:245-248), Emerson recupera aspetti importanti delrepubblicanesimo e, tra essi, proprio il biostheoretikòs, che del repubblicanesimo è premessa, elo fa quando afferma che «l’unico autenticopadrone» è l’uomo pensante, colui che di tanto intanto si allontana «dal suo proprio e specificolavoro per abbracciare tutti i suoi simili»(Emerson 1962: 128). L’uomo di Emerson non siriduce quindi all’homo faber dell’illuminismovoltairiano che, grazie al progresso, miglioraindeterminatamente le proprie condizioni fino araggiungere la pienezza esistenziale nellarealizzazione economica e sociale, facendo cosìcoincidere benessere e ricchezza (Voegelin 2004: 35e sg.). A fianco del successo materiale e quasi aconclusione e coronamento di esso, il liberoimpiego del tempo libero per attività intellettualie spirituali è, invece, per Emerson il trattoessenziale che caratterizza «il vero studioso»,colui che «la natura rallegra con tutte le sueserene, ammonitrici visioni» (Emerson 1962: 129).

Il ragionamento di Emerson non è peròfinalizzato a spiegare in modo generale l’uomo chevive secondo virtù ma, in particolare, lo studiosoamericano. Figura che assume in sé sia unadimensione individuale che collettiva, fino acomprendere il carattere stesso del popoloamericano:

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Non è la peggiore disgrazia non essere, nel mondo,una unità, non essere stimato un carattere, non farefruttare quel peculiare frutto per portare il qualel’uomo fu creato, ma essere valutati, nella massa, nellecentinaia, nelle migliaia, di persone appartenenti a unpartito, una fetta di cui facciamo parte, e la nostraopinione pronosticata geograficamente come il nord o ilsud. No, non così cari amici e fratelli – ti prego,Signore, fa che non sia così di noi. Cammineremo suinostri piedi, lavoreremo colle nostre sole mani,parleremo con le nostre menti. Lo studio delle letterenon dovrà più essere un nome per la pietà, per ildubbio, per una sensuale clemenza. La paura dell’uomo el’amore per l’uomo sarà un muro di difesa e un festonedi gioia intorno a tutto. Una nazione d’uomini, per laprima volta, infine, esisterà, perché ciascuno crede insé, ispirato da quell’Anima Divina che ispira anchetutti gli uomini (Emerson 1962: 149).

L’individualismo americano, del quale Emersontraccia qui i caratteri, come notano Levine eMalachuk, non ha nulla di apolitico (Levine eMalachuk 2011: 15 e ss. ) e non porta alladisgregazione sociale, perché è basato sulrecupero, da parte di tutti e di ciascuno, dellacompleta dimensione umana, tramite l’ispirazioneall’anima divina che gli uomini accomuna:

Noi vediamo il mondo pezzo per pezzo, come il sole,la luna, l’animale, l’albero; ma il tutto di cui questecose sono parti splendenti è l’anima. Solamenteattraverso la visione di quella Sapienza l’oroscopodelle età può essere letto, e facendo ricorso ai nostripensieri migliori, sottomettendoci a quello spirito diprofezia che è innato in ogni uomo, possiamo arrivare aconoscere che cosa essa dica (Emerson 1991: 159).

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Quanto alla filosofia di riferimento, Emersonsi richiama espressamente a Platone, tuttavia, comenota Flanagan, per lui «le similitudini tra Platonee Aristotele sono più rilevanti delle lorodifferenze» (Flanagan 2011: 456), ed è proprioAristotele, nell’Etica Nicomachea, ad affermare chel’intelletto (il nous) sia cosa divina rispettoall’essere umano e che la vita secondo l’intellettosia «divina rispetto alla vita umana» (Aristotele:X 1177b30). L’amore per il proprio io noeticocostituisce infatti il vincolo che salda gli uominiin unità, rendendo possibile la concordiaspirituale tra gli uomini, l’homonoia, che sta allabase della philìa politike, quell’amore della comunitàpolitica che mette insieme gli uomini rendendolitra loro amici e che è reso possibile da una storiacomune, quindi da origini comuni, ma soprattutto dauna condivisione di principi e aspettative:

Le città sono in stato di concordia quando hanno lestesse idee sui loro interessi, fanno le stesse scelte emettono in pratica quello che hanno deciso insieme(Aristotele: IX 1167a26).

Anche secondo Aristotele, per altro, questaconcordia non si raggiunge rifugiandosi in unaconcezione tribale dell’esistenza, che confinerebbeil suo io noetico nella massa o nel partito, aprezzo di dovere rinunciare in tutto o in parte albios theoretikòs. La comunità è per lui basatasull’amicizia, e Aristotele chiarisce che irapporti di amicizia che si hanno con gli amiciderivano da quelli che si hanno verso se stessi(Aristotele: IX 1166a2). È amico chi si addolora e

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gioisce insieme a chi ama, perché desidera per gliamici lo stesso bene che però, allo stesso modo,desidera per se stesso. La comune amicizia si fondaper questo sulla comune affermazione del bene,riconoscibile tramite la comune partecipazione alnous divino (Soressi 2004: 32). Egli così distinguetra uomini «dabbene» e uomini «dappoco», i qualinon riescono ad essere amici, semmai «cercano conchi passare la giornata e fuggono se stessi»(Aristotele: IX 1166b14).

Questa concezione dell’amicizia è condivisa daEmerson (Lysaker 2013: 166), secondo il qualel’America rappresenta l’opportunità di costituireuna comunità di uomini «dabbene» nel sensoaristotelico (Flanagan 2011: 456-459). Il suo«popolo di uomini» non è il risultato di unafusione degli individui in una unità nazionale cheestenda i caratteri genetici dell’appartenenza,fino ad assorbire ogni identità e, con essa,l’intelligenza o anima divina che è in ognisingolo. Semmai la fusione, lo smelting pot, come lodefinisce Emerson, non si colloca in un passatocostituente la nazione americana quanto nel suodestino:

L’uomo è la più composita di tutte le creature. …Come nel tempio di Corinto, grazie alla fusione e allacommistione di oro e argento e altri metalli, si creòuna nuova lega, più preziosa che mai, detta “ottone diCorinto”, allo stesso modo nel continente - asilo ditutte le nazioni – l’energia di irlandesi, tedeschi,svedesi, polacchi e cosacchi e di tutte le tribù siaeuropee, che africane, che anche della Polinesiacostruirà una nuova razza, una nuova religione, un nuovostato, una nuova letteratura, che sarà tanto vigorosa

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come quella della nuova Europa che era venuta fuoridallo smelting pot degli anni bui del Medio Evo oquell’altra che era emersa dal barbarismo pelagico edegizio. La natura ama gli incroci (Emerson 1912: 115-116).

L’essere «asilo di tutte le nazioni»rappresenta l’occasione storica per fare degliStati Uniti d’America il luogo di incontro dellediverse razze attualmente esistenti. Ciò noncomporta alcun problema per la comunità. Alcontrario, ne è una sorta di elemento costitutivo.Quanti sono arrivati sulle sponde dell’Atlantico incerca di fortuna e di autorealizzazione sonodestinati a incontrarsi con altri uominiprovenienti da tutta Europa e dalle più varie partidel mondo per realizzare con essi un nuovo ethnos. Èper questo che Emerson non usa il termine meltingpot, che indica un crogiuolo di razze, ma smeltingpot, proprio per indicare la fusione che sta peravvenire e che darà luogo a un evento paragonabilealla nascita della grande civiltà europea (Carter2007: 59). Dopo la caduta dell’impero romano e lediverse invasioni barbariche, il popolo europeo eraradicalmente mutato, fino a raggiungere una nuovaforma di unità, dalla quale era emersa una nuovacultura, una religione comune e una organizzazionepolitica.

Seguendo questo ragionamento, si deve dedurreche, secondo Emerson, l’evidenza della crisieuropea sia stata esemplificata dalla riformaprotestante e dalla disgregazione dell’Europa indiversi stati nazionali. La irreversibilecorruzione del vecchio continente è manifesta nella

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sedimentazione del particolarismo, religioso,culturale e nazionale evidenziatosi dal XVI al XIXsecolo. Sembra invece che l’America abbia mostratodi riuscire a superarla mediante una nuova visioneuniversale, che non casualmente Emerson definiscein modo ricorrente «cattolica»2. Questa vienesupportata essenzialmente da una unione razziale,che non può quindi tollerare alcuna divisione trabianchi e neri, e da una cultura che non si pongacome mera ripetizione o anche continuazione di unadelle vecchie culture europee, ma sia in grado diproiettarsi in una dimensione nuova.

Anche sul piano della religione egli èconvinto che tale fusione possa generare una nuovaappartenenza di fede. Essa deve però superare ledivisioni precedenti senza dare adito a nuoviparticolarismi: non una nuova chiesa, ma ilrecupero della cattolicità, senza pontefici,cardinali e vescovi, grazie allaresponsabilizzazione individuale e all’altissimavalorizzazione dell’Uomo (Birdsall 1959: 274).

L’elemento cardine sul quale ruotano leaspettative emersoniane sta nelle particolari

2 Oltre al ricorrente e quasi ostentato uso del terminecattolico come sinonimo di universale, Emerson manifesta unaconsiderazione tutto sommato positiva della fede cattolica: «Lareligione cattolica tiene in considerazione le masse di uominie le epoche. Se essa sceglie, lo fa nell’ordine dei milioni,come quando divide tra pagani e cristiani. Quella protestante,al contrario, col suo odioso «giudizio privato», causa dottrinee scismi parrocchiali, familiari e alla fine individuali … Lachiesa cattolica è etnica e superiore da ogni punto di vista. Èin armonia con la Natura che essa ama la razza e rovinal’individuo. Quella protestante ha il suo banchetto, checertamente è il primo passo verso una chiesa per ogni singoloindividuo: una chiesa all’uno» (Emerson 2011: 43).

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opportunità che si presentano al popolo americano eche finiscono per accomunarlo, nonostante lediverse provenienze e le intrinseche individualitàche lo compongono. Tra essi una peculiare occasionestorica è data dalla diffusa alfabetizzazione,dovuta alla comune abitudine alla lettura dellaBibbia, alla quale accede la gran parte dellapopolazione. Essa compensa, nella visione diEmerson, la mancanza dei grandi picchiintellettuali che caratterizzavano invece lacultura europea, e costituisce anche il carattereidentitario, democratico nella sua essenza, nonnecessariamente colto ma informato e quindiconsapevole del popolo americano, che ha resopossibile la fiducia in se stessi, che fa credere«nel proprio pensiero, credere che ciò che è veroper noi, nella nostra vita interiore, è vero pertutti» (Emerson 1962: 37).

La comune appartenenza a un vastissimo cetomedio - Emerson definisce espressamente gli StatiUniti «questo paese di ceti medi» (Emerson 1962:202) - non prevede contrapposizioni di interessi edi culture. L’America non è un posto in cui laborghesia abbia prevalso sulle altre classi, madove si è realizzata una sostanziale convergenzatra quanti hanno voluto sviluppare la propriapersonalità in modo indipendente, trovando che talematurazione li ha spinti poi a legarsi intimamenteraggiunta con le particolari opportunità fornitedal territorio, dalle istituzioni, dalle credenzereligiose e dalla società. Gli Stati Uniti sonoquindi un luogo fisico, culturale e politico checonsente all’uomo che, in quanto uomo, è sempre«dabbene», di cogliere le opportunità della propria

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maturazione. Non sono meramente la nazione dei selfmade men. Nel suo elogio funebre del presidenteAbramo Lincoln, egli dice:

Il Presidente fu ai nostri occhi come un uomo delpopolo. Egli fu interamente americano, non attraversòmai il mare, non fu mai corrotto dall’insularismoinglese o dalla dissipazione francese; fu un autenticoindigeno, un uomo della sua terra, come la ghianda lo èdi una quercia; non scimmiottò gli stranieri, non compìfrivolezze: uomo del Kentucky, lavorò in una fattoria,fu battelliere, capitano nella guerra contro Black Hawk,avvocato di campagna, deputato nella legislatura per lalegge rurale nell’Illinois (Emerson 1962: 199).

Qui si può anche cogliere il contrasto tra leumili origini e il successo, tipico dell’uomo chesi fa da sé, ma l’aspetto di maggiore interesse èla poliedricità di Lincoln, che non cessa di esserelavoratore in una fattoria, capitano dell’esercitoe avvocato di campagna, anche quando viene elettodeputato e poi Presidente della repubblica. È inquesto senso che egli appartiene al ceto medio,perché la sua elezione non è il frutto di unascalata sociale, ed è esattamente per questo cheEmerson lo considera il vero presidente dellanazione americana.

L’armonia del popolo americano non dipendedall’unione di stirpe, credo e cultura. Ilmassiccio arrivo di immigranti irlandesi non devequindi in alcun modo spaventare l’ordine dellacomunità, così come l’emancipazione dei neri è daleggere come una opportunità di crescita e ilProclama dell’emancipazione come «un atto poetico ememorabile» (Emerson 1962: 191), avendo esteso,

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anche a chi prima l’aveva negata, la libertà dipotere conformare la propria anima a quella divina,ribadendo i principi sui quali la nazione americanasi fonda. L’american idea, basata sulla più estesaforma di dignità che possa consentire a chi ècittadino americano di vivere pienamente la propriaesistenza, portando al massimo le propriepotenzialità, diventa così l’homònoia americana.

3. L’unità indissolubile della comunità politica americana

Il trascendentalismo si basa su una ideaaltissima di uomo, che estende le sue potenzialitàfino a raggiungere la volta celeste (Emerson 1904:10). La filosofia che lo ispira si richiama aVictor, la cui influenza sul trascendentalismo,come nota Robert Sattelmeyer, non è mai statasufficientemente analizzata e valutata(Sattelmeyer, 2014, p. 22; Joyaux 1955: 117-130).Questi aveva teorizzato che le capacità cognitivedell’uomo si fondassero sulla sua capacità di farein vita l’esperienza del divino: l’uomo conosce ilmondo perché vede il suo creatore (Cousin 1861: 33e ss.). La beatitudine, la capacità di contemplareDio, non è quindi riservata alla vita ultraterrena,ma è la base della stessa conoscenza:

(Gesù Cristo) ha visto con gli occhi aperti ilmistero dell’anima. Attirato dalla sua severa armonia,rapito dalla sua bellezza, visse in essa, in essa fu.Egli solo in tutta la storia ha stimato la nobiltàdell’uomo. Un solo uomo fu fedele a ciò che è in voi ein me. Vide che Dio incarna se stesso nell’uomo, esempre di nuovo procede a prendere possesso del suoMondo. Egli disse nel giubilo della sublime emozione:

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«Io sono divino, Attraverso me, Dio agisce; attraversome parla. Se vuoi vedere Dio, guardami; o guardati,quando anche tu pensi come io penso adesso» (Emerson1991: 101).

Partendo da queste premesse iltrascendentalismo ipotizza la realizzazione di unordine politico che doni all’uomo non solo lapossibilità di concepire queste altezze ma direalizzarle concretamente nella sua vita terrena.Non lo fa però immaginando una rivoluzione chealteri il corso della storia, ma allineandosi a unpercorso storico già tracciato dalla Provvidenza,che ha riservato agli americani questa immensa maanche concreta opportunità. Il progressistaamericano dell’Ottocento non è quindi politicamenteun rivoluzionario, perché ritiene che leistituzioni del paese e la sua costituzionerappresentino la struttura di questa eccezionalecondizione, tanto da consentire l’affermazione piùche di un «io posso», di un «noi possiamo» (Ledeen2000: 58-59). L’opportunità non è però riservatasolo a chi è nato in America. Essere americano èuna condizione di arrivo, non necessariamente dipartenza.

La nazione di uomini di Emerson è composta dachi vuole essere uomo, quindi non solo da chi è diorigine inglese e neppure europea. L’America è illuogo ideale nel quale tutti gli uomini provenientida ogni parte del mondo possono realmenteraggiungere la pienezza della loro esistenza. È perquesto che egli respinge in toto l’attacco deglistati del Sud a quello che egli considera unfantastico idillio: l’Unione, per lui, non è

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soltanto un patto volontario ma è provvidenziale, èla stessa essenza dell’unico popolo americano(Myerson 2000: 71). La diatriba se a sottoscriverela costituzione - We the people of the United States –fosse stato i popoli o il popolo degli Stati Unitiviene quindi da Emerson e dagli altritrascendentalisti risolta senza appello nel sensodi una unità indissolubile. Emerson condanna loschiavismo come del tutto estraneo a una culturache si basa sulle uguali opportunità di partenza(Emerson 2006: 74-76) e, soprattutto, nega più cheil diritto la stessa possibilità che una parte delpopolo americano possa abbandonare l’Unione, perchéatto che al tempo stesso rifiuto dell’appartenenzanazionale e delle magnifiche sorti ad essodestinate dalla storia. I sudisti debbono cosìessere indotti, loro malgrado, con la forza, con laguerra, a rimanere, nel loro stesso interesse,parte dell’unica nazione che possa dare agli uominil’opportunità di essere compiutamente tali:

Il fine di ogni battaglia politica è stabilire lamoralità come fondamento di tutta la legislazione. Ilsuo vero fine non sono le libere istituzioni, né larepubblica e neppure la democrazia, che ne sono invece imezzi. La morale è l’oggetto del governo. Noi vogliamouno stato di cose in cui il crimine non paghi. Questa èla nostra consolazione per l’oscurità del futuro e leafflizioni odierne, che il governo del mondo sia moralee distrugga per sempre ciò che non lo è (Emerson 2007:545).

L’individualismo emersoniano si differenziaprofondamente non solo da quello degli agrari delSud, ma più in generale da Jefferson e da molti dei

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padri fondatori. Lo spazio di indipendenzadell’individuo stesso è per lui circoscritto dallagrande anima della natura (Bloom 1994: 44).L’affermazione dell’intelligenza individuale comeparte dell’intelligenza divina restringe di fattola gamma di scelte morali, nonostante Emersonescluda categoricamente ogni forma di conformismo odi scolastica (Emerson 1904: 15). Quando nel suosaggio del 1844 sulla Politica egli scrive che«bisogna confidare con decisione nella beneficanecessità che brilla attraverso tutte le leggi»afferma espressamente l’esistenza di unaintelligenza comune. Egli è perciò convinto che lanatura umana si esprima nelle leggi «come nellestatue, nelle canzoni o nelle ferrovie», tanto che«un estratto dei codici delle nazioni sarebbe unatrascrizione della coscienza comune». L’ordinepolitico ha quindi la propria origine«nell’identità morale degli uomini», questo perchéciò che è razionale per un individuo lo ènecessariamente per ogni altro:

La ragione per uno è da considerare come la ragioneper un altro e per ogni altro. Esiste una misura dimezzo che soddisfa tutte le parti, per quanto esse sianovarie e determinate a loro stesse. Ogni uomo trova uncanone per i suoi più semplici diritti e atti nelledecisioni del suo proprio intelletto, che egli chiamaVerità e Santità. In queste decisioni tutti i cittadinitrovano un perfetto consenso e soltanto in esse. Non inciò che è buono da mangiare, bello da mettere o dausare, né nell’ammontare di terra o di aiuto pubblicoche ognuno pretende di affermare come diritto. Taliverità e giustizie gli uomini si sforzano di applicarlealla misurazione della terra, al porzionamento dei

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servizi, alla protezione della vita e della proprietà. Iloro primi sforzi sono senz’altro molto maldestri.Tuttavia il diritto assoluto è il primo governatore,altrimenti ogni governo diventerebbe una sorta diteocrazia impura. L’idea da cui ogni comunità è mossaper fare e migliorare le proprie leggi è la volontàdell’uomo saggio. Quest’uomo tuttavia non si può trovarecosì nella natura, tanto che si fanno sforzi maldestri,per quanto seri, di assicurare il suo governo perconvenzione, come si fa attribuendo all’intero popolo lafacoltà di essere ascoltato per ogni singola misura, oquando da una duplice opzione si giunge allarappresentanza dell’intero, oppure quando si attua laselezione dei cittadini migliori, o anche quando sivogliono assicurare i vantaggi o le efficienze e la paceinterna affidandosi al governo di qualcuno, che possapoi scegliere da solo i propri collaboratori. Tutte leforme di governo simbolizzano un governo immortale,comune a ogni dinastia e indipendente dai numeri,perfetto sia dove vi sono due uomini che dove ve ne siauno solo (Emerson 1910: 103).

Come per Platone, la saggezza si trova nelfilosofo, che è saggio proprio perché ama la veritàe conforma la sua anima (la psiuké) all’ordine dellavirtù. Allo stesso modo, Emerson indica l’uomosaggio quale riferimento politico di una comunità.La saggezza, per altro, tende alla riduzioneall’unità, ed egli ritiene che la dote di uomosaggio o vero Uomo, in grado di secondare leproprie scelte secondo libertà e verità, sia unacondizione molto rara (Emerson 1904: 17)3. Una

3 «In un secolo, in un millennio, vi sono uno o dueuomini, il che vuol dire una o due approssimazioni alla giustacondizione d’ogni uomo. Tutti gli altri contemplano in un eroeo in un poeta il proprio ingenuo grezzo essere, ma maturato;

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società per essere giusta non può quindi contaresul coinvolgimento diretto dell’Uomo saggio, quantotuttavia, come nelle Leggi di Platone, sullasaggezza dell’uomo. La direzione politica non vaquindi necessariamente collocata nel migliore tragli uomini, ma in chi riesca a ispirarsi allasaggezza espressa dagli uomini migliori. Laconseguenza del ragionamento di Emerson è che nonsia necessaria la monarchia né l’aristocrazia pergarantire un ordine giusto, ma si possonorealizzare delle condizioni, come quella degliStati Uniti, in cui la libera partecipazionedemocratica del popolo sia possibile e auspicabile,giusto perché la saggezza dell’uomo è iscritta nelcodice genetico del popolo, e il governo migliore èquello che governa meno e che trova come «antidotoal suo abuso» la pubblica influenza del «carattereprivato», lo «sviluppo dell’elemento individuale»(Emerson 1910: 104).

In ogni caso, la storia dell’America è perEmerson il fondamento dell’aspettativa dellanascita di un popolo di uomini la cui esistenza èproiettata verso un futuro di progresso e di

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ottimismo4. Del resto, non si potrebbe comprenderecome possa essere possibile raggiungere unaconcordia in proiezione universale se non sipresupponesse una convergenza tra le diverseintelligenze verso l’attrazione dei migliori:

La ricerca dei grandi uomini è il sogno dellagioventù e la più seria occupazione della virilità. Noiviaggiamo in paesi stranieri per trovare le loro opere –e, se è possibile, per intravederli. Ma noi siamo inveceabbandonati dalla fortuna. Voi dite: - gli Inglesi sonopratici; i tedeschi sono ospitali; a Valenza il clima èdelizioso; e nelle colline; e nelle colline diSacramento vi è l’oro a portata di mano. – Sì, ma io nonviaggio per trovare popoli confortables, ricchi e ospitali,o un cielo limpido, o delle verghe d’oro che costanotroppo. Ma se vi fosse una calamita che si dirigesseverso i paesi e le case dove abitano le persone che sonointrinsecamente ricche e potenti, venderei tutto percomperarla, e mi metterei oggi stesso in cammino(Emerson 1904: 2).

È proprio la possibilità di ottenere unaconcordia convergente verso il raggiungimento di unvertice etico e morale, incarnato dalle grandifigure di Uomo, che rende inconcepibile iltentativo di dividere l’Unione: l’armonia dellacomunità americana è fondata su principi condivisi;la secessione rappresenta una opposizione a taliprincipi, alla loro universalità:

La guerra era tremenda, ma non poteva essereevitata. La guerra era ed è un immenso errore, ma portòcon sé l’immenso beneficio di tirare una linea eschierare i liberi stati su di essa fissandone la suainsormontabilità (Emerson 1962: 196).

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Ammettere la divisione degli Stati Uniti inpopoli diversi avrebbe comportato di per sé ilcrollo di tutti i presupposti cardine dellacomunità insieme allo stesso individualismo, che sifonda sì sulla eccezionale «importanza data alsingolo», ma pure sul rispetto sacrale dell’altroda sé, esemplificato da Emerson nel rapporto cheintercorre tra stati sovrani. L’importanza data alsingolo è per lui protetta e alimentata circondandol’individuo «con le barriere del rispetto naturale»(Emerson 1962: 147).

4. La fiducia e il progresso

L’esercizio della sovranità popolare ha quindiper Emerson dei limiti precisi dettati dalla«verità e dalla giustizia» e intellegibilidall’individuo. Le particolari condizionigeografiche, storiche, religiose e antropologichehanno reso possibile agli individui americaniconvergere collettivamente su tali principi,tuttavia l’eventuale inosservanza di essicomporterebbe di per sé la rivoluzione dell’ordinestesso e sarebbe un atto di ribellione, anche sefosse condiviso dalla maggioranza del popolo o diuna porzione geografica di esso.

L’estensione del suffragio elettorale alledonne, ai neri e a tutti gli immigrati assimilabilial popolo degli Stati Uniti è possibile per Emersonin quanto ogni individuo è capace di abbracciare efare propri i principi universali sui quali siregge la democrazia americana. Essa non presupponeperò in alcun modo l’affermazione del diritto di

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voto quale diritto inalienabile. Non si troveràquindi in Emerson nessuna indignazione per ilritardo col quale venne restituita agli uomini delSud la facoltà di scegliere la propriarappresentanza. Essi l’avevano sprecata approvandola secessione, a differenza delle persone diorigine straniera che, nel raggiungerevolontariamente gli Stati Uniti, ne avevanocondiviso l’ordine politico, strutturalmenteuniversale. Allo stesso modo ai neri non potevacerto essere negato il diritto di concorrere allarappresentanza, visto che essi sono a pieno dirittoparte del popolo americano e lo stesso può dirsidelle donne che, per lui, spesso posseggono«superiori capacità amministrative», come affermònel 1855 alla Convenzione per i diritti della donna(Emerson 2010: vol. II 28).

Tutti gli uomini, indipendentemente dal sesso edalla razza hanno «il diritto di avere fiducia» edi «essere amati». La fiducia si può perdere per uncerto periodo, come nel caso degli uomini che hannovotato la secessione, ma una società repressiva èdecisamente lontana dalla visione di Emerson, ilquale pone a «fondamento dello stato» il «poteredell’amore». Egli ci dice che esso «non è maistato sperimentato»:

Non c’è dubbio che le strade potranno esserecostruite, le lettere consegnate e il frutto del lavororetribuito anche quando si porrà fine al governo basatosulla forza. Sono forse i nostri attuali metodi cosìeccellenti che non ci può essere con essi concorrenza?Non potrebbe una nazione di amici raggiungere risultatimigliori? L’alternativa sarebbe cadere nel più biecoconservatorismo e nelle paura, con una prematura resa

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alla baionetta e al sistema della forza. Perché, secondol’ordine della natura, che è decisamente superiore allanostra volontà, le cose stanno così: ci sarà sempre ungoverno della forza quando gli uomini saranno egoisti,ma quando essi saranno abbastanza puri da mettere daparte il codice della forza, essi diventerannosufficientemente saggi dal notare come si possanotrovare soluzioni ai problemi degli uffici postali, deitrasporti, dei commerci, dei trasferimenti di proprietà,dei musei, delle biblioteche e delle istituzioni dellearti e delle scienze.(Emerson 1910: 105-106).

La società deve quindi fondarsi sulla philìapolitikè o, meglio, sui principi della filosofiaclassica, che Emerson considera la base dellarepubblica americana e della sua democrazia. Essiquindi costituiscono il fondamento comune dariconoscere per essere parte del popolo degli StatiUniti. Per farli propri basta, se fosse cosa difacile accessibilità, essere uomini secondo glielevati canoni dettati da Emerson. Ciò aprescindere dalla razza di provenienza. L’aspettoinnovativo, quasi rivoluzionario, stanell’utilizzare gli strumenti del pensiero diPlatone e Aristotele per scardinare ogni forma diconservatorismo politico e di autoritarismo.L’affermazione di principi etici oggettivi epermanenti è tuttavia tutt’altro che negata, anchese non trova conferma nelle sedimentazioni storichedi una tradizione, quanto nella ragione e nellasaggezza dell’Uomo: è questa saggezza che, diceEmerson, scardina le strutture di oppressione e disfruttamento insieme alla paura e all’ignoranza chele ha generate.

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sì, e sono contenti d’essergli inferiori, in modo da potereraggiungere la sua piena statura» (Emerson 1962: 143).

4 «Noi crediamo che la civiltà sia prossima alsuo meridiano. Siamo però al canto del gallo, alleprime luci dell’alba. Nella nostra barbara societàl’influenza del carattere è alla sua infanzia»(Emerson 1910: 105).

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Ralph Waldo Emerson

Abstract

RALPH WALDO EMERSON. IL «POPOLO DI UOMINI» EL’AMERICAN IDEA

(RALPH WALDO EMERSON. A «NATION OF MEN» AND THEAMERICAN IDEA)

Keywords: democracy, nationality, principles,friendship, soul.

The absence of an ethnic homologation in the United States has encouraged the search for an original research of national identity. In this way was the decisive impact of American transcendentalism. Thanks toRalph Waldo Emerson it was found in the principles enunciated by the declaration of independence, and in a new conception of the individual.

DARIO CARONITIUniversità degli Studi di MessinaDipartimento di scienze giuridiche e storia delle

istituzioni [email protected]

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GIOVANNI DESSÌ

IL PROGRESSISMO TRA REALISMO, RIFORMISMO EALLARGAMENTO DELLA CITTADINANZA

Nel 1955 Richard Hofstadter pubblicò un libro,The Age of Reform, che segnò un punto di riferimentoper gran parte degli studi sulle trasformazionidella società americana tra il 1890 e il 1914(Hofstadter 1962). Hofstadter sosteneva che ilmovimento progressista si sviluppò “nel corso diun rapido e talvolta turbolento processo ditransizione dalle condizioni di vita di una societàagricola a quelle di una moderna vita urbana”:questa considerazione divenne un dato di fattoaccettato dalla storiografia successiva e offrì ilcontesto nel quale i diversi movimenti di riformache segnarono la società americana di quegli annisono stati inseriti.

Hofstadter mirava a inserire il progressismoin un tentativo di ridefinire la tradizionepolitica americana, in modo particolare latradizione politica liberale che, in quegli anni,quelli della guerra di Corea, del maccartismo, nongli appariva in grado di contrastare l’ondata diconservatorismo e di chiusura che caratterizzava lavita politica del paese.

Quello che della tradizione liberale ritenevail difetto «più evidente e più comune è una certainclinazione ad abbandonarsi a violente crociatemorali, che riuscirebbero fatali se non fosseropresto o tardi moderate da una misura di apatia edi senso comune» (Hofstadter 1962: 15). Tale

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posizione, proprio per il suo rinviare ad unamoralità perfetta e lontana, suscitava in molticasi il disinteresse dei cittadini. In taleorizzonte egli denunciava una possibile alleanzatra «riformismo e reazione» (Hofstadter 1962: 21),sostenendo che tra l’enfatizzazione dell’impetomorale e la tendenza a scivolare verso posizioniconservatrici ci fosse un legame da sempre presentenella tradizione politica americana. Inparticolare, per quello che riguarda l’età delleriforme, egli riteneva che i progressisti avesseroaffermato dei canoni morali impossibili daosservare e avessero così favorito il definirsi diuno spazio di mera conservazione all’interno dellostesso movimento.

Il contributo di Hofstadter alla comprensionedell’età progressista è stato fondamentale perdiverse ragioni. In primo luogo egli ha contribuitoa cogliere come precisare i caratteri delprogressismo significhi confrontarsi con le diversestrade con la quali la modernizzazione si è diffusanella società americana; inoltre egli ha di fattoimpostato, a partire dallo studio di un precisoperiodo storico, un confronto con la tradizionepolitica liberale, con gli aspetti positivi e con ipossibili limiti di tale tradizione; infine haindicato nel rapporto tra ideali e fatti uno deitemi decisivi per meglio comprendere sia ilmovimento progressista sia la stessa tradizionepolitica americana. I progressisti, con tutti iloro appelli alla rigenerazione morale non semprefavorirono l’affermazione del liberalismo e nonsempre riuscirono in quello che era uno dei loroobiettivi, l’allargamento della cittadinanza.

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In questo scritto analizzerò il rapportocomplesso che si delineò in quegli anni traidealismo, realismo e riforma: l’ottica generale èquella di ricostruire come il tentativo di alcunefigure chiave del movimento progressista sia statoquello di riproporre la centralità del cittadino ecome tale tentativo sia stato caratterizzato da unapproccio che univa l’aspirazione a valori idealialla realistica constatazione dei fatti, anchequelli meno edificanti e legati alla difesa diinteressi, mondi vitali presenti nella societàamericana.

1. Le interpretazioni del progressismo

La tesi secondo la quale il progressismo vacompreso come momento di quella profondatrasformazione che caratterizza la società el’economia americana tra la fine dell’Ottocento ela Prima guerra mondiale è generalmente accettatadagli storici. Mac Cormick, in un lavoro nel qualeviene offerta una esauriente ricostruzione delleinterpretazioni del progressismo, considera comeacquisita dagli storici delle più diverse tendenzetale idea (Link, McCormick 1983). Quindi ilcontesto nel quale va compreso il progressismo èquello di una grande e complessa trasformazionedella società, dell’economia e della culturaamericana.

Ancora nel 1890 gran parte dei cittadiniamericani vivevano in zone rurali, in piccolivillaggi: nel volgere di venti anni si affermaronole grandi città, caratterizzate dallo sviluppo

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delle industrie e dalla concentrazione dellapopolazione su uno spazio territoriale limitato. Aquesta trasformazione si univa un elemento checaratterizzò gli Stati Uniti sin dal loro inizio,il fenomeno dell’immigrazione, che proprio inquesti anni assunse una dimensione senza paragonepiù consistente rispetto agli anni precedenti. Nel1910 più di 13 milioni di persone nate fuori dalterritorio nazionale vivevano in America,prevalentemente nelle grandi città: il loro impattocondizionò in modo considerevole le granditrasformazioni di quegli anni.

Preliminarmente, per cogliere i temi cheaccomunavano i diversi fermenti di riforma checonfluirono nel progressismo, può essere utilericordare come un progressista, Benjamin De Witt inun suo importante libro aveva sintetizzato leprincipali istanze del movimento. Egli riteneva diaver individuato tre principali tendenze comuni aidiversi filoni di riformatori che si identificavanocon il movimento:

La prima di queste tendenze consistenell’insistenza con cui gli uomini migliori di tutti ipartiti sostengono che debba essere rimosso dal governo– federale, statale e locale – ogni tipo di influenzacorrotta o legata a interessi particolari o diminoranze; la seconda tendenza si trova nella richiestache la struttura, il meccanismo di governo[…] vengatrasformato in modo tale che sia sempre più difficileper i pochi e più facile per i molti, tenerlo sottocontrollo; infine la terza tendenza va individuata nellaconvinzione, in rapido progresso, che il governo abbiafunzioni troppo limitate e che debba accrescerle ed

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estenderle al fine di alleviare i disagi economici esociali (De Witt 1915: 7-9).

Queste tre tendenze erano in effetti quelleche maggiormente erano presenti in diversi ambitidella società americana. La richiesta di colpire lacorruzione dei politici e la difesa degliinteressi particolari che appariva sempre piùdiffusa nei diversi centri decisionali rimandava aduna serie di aspettative che il cittadino americanoaveva tradizionalmente avuto nei confronti dellapolitica.

La affermazione di alcuni grandi soggettieconomici quali i trust, gruppi di aziendecontrollati da pochi amministratori fiduciari(trustee), era un fatto che aveva modificatoprofondamente la società americana già dagli ultimianni dell’Ottocento. Quasi tutti i settoriimportanti per l’economia erano stati monopolizzatida questi nuovi soggetti economici chepresentavano, appunto il potenziale vantaggio di unmonopolio del mercato. Dal petrolio all’ acciaio,dallo zucchero al tabacco, investendo seppure intempi più lunghi il settore dell’agricoltura, legrandi unioni spodestavano le attività dei piccoliproduttori e favorivano un analogo processo diaccentramento anche tra gli istituti di credito.

L’influenza che questi grandi soggettieconomici esercitavano sulla politica era palese eil legame tra questi forti interessi, che eranoperò particolari, e la classe politica, in tuttele sue articolazioni, era considerato,inizialmente dagli agricoltori, ma successivamenteda molti elementi delle classi medie urbane, come

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la causa della progressiva perdita di peso socialee politico del singolo cittadino. Veniva così messoin dubbio uno dei cardini della concezione politicadegli americani, quello della libertà individualesia come possibilità di realizzazione autonomadal punto di vista economico, sia come possibilitàdi incidere, anche se indirettamente, sulle sceltepolitiche che riguardano la collettività. Benchéqueste due immagini di libertà si riferissero afonti diverse (Locke da una parte e ilrepubblicanesimo dall’altra) esse erano state unitedall’idea del cittadino americano virtuoso cheattraverso il proprio lavoro poteva autonomamenterealizzare se stesso, non dipendere da forzeesterne ed offrire un contributo, quandonecessario, al paese. L’immagine stessa dellalibertà americana, così come si era definitaattraverso una tradizione che risaliva alle originidella nazione, almeno a Jefferson e alla sua difesadei piccoli proprietari terrieri come individuiliberi, veniva messa in discussione.

Il ridimensionamento dell’autonomiaindividuale, causato anche dalla fine dellafrontiera e dalla gravissima crisi agricola del1890, comportava una modificazione profonda di unadelle idee forza degli americani, quelladell’eguaglianza delle opportunità. Gli interessiparticolari agivano sulla politica e riducevanodrasticamente l’autonomia del singolo. Di frontealle trasformazioni del primo Novecentol’individuo autonomo, piccolo proprietarioagricolo, che virtuosamente si interessava dellacosa pubblica, sembrava cedere il passo atutt’altra realtà.

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La perdita di questa libertà era ritenuta damolti la causa della degradazione della vita ruralee urbana. Lincoln Steffens, nel suo libro del 1904The Shame of the Cities, riteneva che la causa dellapovertà, della prostituzione, dello sfruttamentominorile, della sporcizia, fosse da imputare inultima analisi alla perdita della libertà e dellavirtù.

Al di là delle semplificazioni care aimuckrakers, come ha scritto Eric Foner, in quegli«anni una definizione consumistica della libertà-accesso alla cornucopia dei beni messi adisposizione dal capitalismo moderno - cominciò asoppiantare una visione più antica, centrata sullasovranità economica e politica» (Foner 2000: 202).Nei primi anni del Novecento le granditrasformazioni economiche offrivano però agliamericani un campo nuovo ed inedito nel qualeesercitare la libertà individuale, quello deinuovi beni da consumare. Il sorgere e l’affermarsidella pubblicità era un fenomeno unito appuntoalla diffusione di tale ideale di libertà. Difronte alla “cornucopia dei beni” a disposizione,perdeva terreno l’immagine di una libertà austera,legata alla virtù ed alla autonomia politica.

La seconda tendenza, ricordata nel libro di DeWitt, che esprimeva la richiesta di una maggioredemocrazia, di un maggior controllo sulla attivitàdel governo si manifestò nel diffondersi diassociazioni, gruppi di pressione, volti aricuperare quella incidenza nella gestione dellacosa pubblica che sembrava si stesse perdendo.Anche in questo caso dietro ai dibattiti dell’etàprogressista sulla partecipazione democratica si

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scontravano due diverse concezioni di democrazia.Per chi non intendeva la democrazia come unsemplice ritorno all’antico, si presentava lascelta tra una “concezione distributiva” ed una“partecipativa” della democrazia. La primacomportava la “democratizzazione del tempo libero edel consumo”, la seconda il riferimento ad un nuovosistema di valori che sarebbe potuto emergere da unserio confronto con il mondo del lavoro (Lasch1992: 325). L’esigenza che i molti, in modoparticolare i lavoratori, fossero messi in grado dicontrollare le attività dei politici rimandavaalla richiesta che la democrazia permettesse lapartecipazione e il controllo dei molti sullescelte della politica.

Infine la terza tendenza, quella che sirichiamava ad un esecutivo forte, in grado diintervenire per contrastare la disuguaglianzasociale, rimandava all’elemento puritano fortementepresente in tutto il movimento progressista.Proprio a causa delle origini puritane moltiprogressisti tendevano a tradurre «questionipolitiche ed economiche in termini morali» (Jones1994: 333).

Dietro alle tendenze riformatrici individuateda De Witt si può insomma cogliere l’aspirazioneprogressista a riformulare tre questioni decisivedella cultura politica statunitense, Quella dellalibertà, quella della democrazia e, infine, quelladella efficacia del potere.

Per meglio cogliere il significato delmovimento progressista in quegli anni va posta unaquestione ulteriore: essa riguarda la suaestensione e composizione sociale. Insomma chi

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erano i progressisti, quali strati socialicoinvolgevano?

La prima e importante risposta a tale domandafu appunto quella che De Witt formulò dando voceall’immagine che gli stessi aderenti al movimentoavevano di se stessi. Si trattava per De Witt digente comune, agricoltori, lavoratori e piccoliimprenditori che avevano organizzato il movimentoprogressista per riconquistare il potere lorosottratto dalle ferrovie, dalle corporazioni, e daicapi di partito. I bersagli preferiti dellecritiche, l’antitesi all’immagine che ilprogressista aveva di se stesso erano i businnesmene i bosses. Sia il mondo della finanza, sia quellodella politica sembravano riunire ed esprimerequegli elementi(la riduzione della libertàindividuale, la perdita di controllo sull’attivitàdel governo, della virtù civica, la corruzione) checome abbiamo visto erano ritenuti fattoriprincipali del decadimento degli antichi costumi.Questa tesi, seppure di carattere generale, furipresa, in modo diverso, da numerosi storici ,almeno sino agli anni quaranta. Si consideravainsomma il progressismo come la battaglia dellagente ordinaria, degli americani, contro laricchezza, il privilegio, la corruzione.

Tra la fine degli anni quaranta e i primianni cinquanta, sia sotto lo stimolo di autori comeRichard Hofstadter che richiamava ad una unicatradizione politica americana (Hofstadter 1960),sia per il contributo di lavori più analitici(Mowry 1951), si ebbe una ripresa degli studisull’età progressiva. Mowry, in modo particolare,dimostrò che i progressisti californiani erano in

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gran parte individui provenienti dalla città e diestrazione sociale medio alta.

Hofstadter sostenne che il nucleo delmovimento progressista fu offerto da esponentidella classe media – medici, religiosi, avvocati einsegnanti - che precedentementeall’industrializzazione, svolgevano un ruolocentrale nella comunità. I cambiamenti connessiall’industrializzazione provocarono dei mutamentidi status sociali: il ruolo e l’importanza diqueste persone fu ridimensionato. Punti diriferimento per la comunità divennero i bossespolitici e gli esponenti della grande industria.

Per Hofstadter il nucleo dei progressisti fuuna classe media ridimensionata dallo sviluppodella società e mossa dall’esigenza di ricuperareuno status sociale perduto. Questo approccio glipermetteva di cogliere quelli che erano i latioscuri del movimento. I progressisti erano perlopiùbianchi e anglosassoni: essi avevano una concezionedella politica opposta a quella degli emigrati cheprovenivano dall’Europa. Il loro sistema eticopolitico era «fondato sulle tradizioni politicheindigene yankee – protestanti , e sulla vita dellaclasse media, presupponeva ed esigeva l’attivitàcostante e disinteressata del cittadino nella cosapubblica, riteneva cha la vita politica dovesseessere governata più di quanto non accadesse daprincipi generali e leggi astratte lontane esuperiori ad ogni bisogno personale». Al contrarioil quadro etico politico degli immigrati era«fondato sulla loro accettazione della gerarchia edell’autorità e su bisogni pressanti, dava perscontato che la vita politica dell’individuo

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nascesse dalle necessità della famiglia»(Hofstadter 1960: 141-45). Così venivano spiegati,per Hofstadter, alcuni caratteri del movimento,come un certo moralismo, l’autoreferenzialità e lascarsa tolleranza nei confronti delle diverseopinioni.

Il libro di Hofstadter suscitò numerosecritiche, ma fu un punto di partenza per ulterioriricerche che approfondirono e in parte mutaronol’approccio di Hofstadter. In questo senso, uno deicontributi più rilevanti è quello di Robert H.Wiebe, The Search of Order, pubblicato nel 1967.

Wiebe sostenne che i progressisti non eranoesponenti di una vecchia classe media che sisentiva spodestata dall’antico status, bensìespressione di una nuova classe media – fisici,uomini di affari, scienziati, ingegneri, lavoratorisociali - che intendeva imporre l’ordine ad unasocietà caotica. La tecnica e l’organizzazioneerano gli strumenti principali di questo tentativo(Wiebe 1967).

Sia i testi ricordati, sia altre operemettevano in crisi l’originaria autointerpretazioneche il progressismo aveva offerto di se stesso,basata sull’idea della lotta del popolo contro itrust.

Gabriel Kolko, uno storico della “new left”,giunse a capovolgere interamente taleinterpretazione, sostenendo che i leaders dellecorporazioni e i finanzieri furono tra i maggiorisostenitori delle misure di regolamentazioneeconomica realizzate in questi anni (Kolko 1963).John D. Buenker richiamò l’attenzione sulcontributo degli immigrati (che secondo Hofstadter

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erano state le vittime del progressismo) alleriforme sostenendo che molti amministratoricittadini sostennero le riforme perché essefavorivano il gruppo di immigrati dal quale essiprovenivano (Buenker 1973).

Il rischio comune a queste analisi, quelle chemaggiormente hanno contribuito alla comprensionedel fenomeno del progressismo, è di offrireun’immagine del periodo fondata su uno studiodelle èlites e sul ruolo svolto da una particolareèlite. In realtà le diverse battaglie progressistevidero la partecipazione di un gran numero dipersone, tanto che una cronologia del movimentopotrebbe essere costruita proprio sullapartecipazione a battaglie collettive, sulcoinvolgimento di semplici cittadini inmanifestazioni collettive.

Ridurre il progressismo soltanto ad unfenomeno di elites, come Buenker ha suggerito,conduce a constatare che in quegli anni diversigruppi sociali e politici si trovarono alleati suuna particolare questione per poi divenireavversari su di un’altra. Inoltre le ragioni per lequali diverse elites si battevano a favore di unastessa riforma, potevano essere diverse.

Certamente le élites svolsero un ruolo neglianni del progressismo, resta però un dato di fattoche non può essere sottovalutato. In quegli anni sidiffuse un movimento di riforma che coinvolsemigliaia di persone di diversa estrazione sociale:nel periodo delle riforme gli americaniriformularono sia la pratica che le idee forza chefino ad allora avevano guidato la nazione eriproposero in modo forte la questione dell’eguale

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diritto dei cittadini a determinare e contribuirealla politica del paese.

1. Il giornalismo di denuncia e il progressismo

La genesi del movimento progressista siintreccia con quella del giornalismo di denuncia:l’idea che se soltanto la popolazione fosse statainformata avrebbe agito per contrastare lacorruzione, trovava nel giornalismo dei muckrakersuna declinazione esemplare.

Il giornalismo di denuncia aveva degliimportanti precedenti nella storia americana: neiprimi anni del Novecento, maturarono alcunecondizioni storico - politiche che fecero diveniretale fenomeno importante per molti cittadini. Inprimo luogo i muckrakers incontrarono l’esigenzadiffusa tra la popolazione di una ricostruzione diuna qualche forma di legame collettivo. Ilpassaggio dalla società rurale con i suoi legamialla vita dell’individuo nella grande città,lasciava aperta una sorta di nostalgia per lacomunità. L’interesse e il consenso che si creavaattorno ad alcuni racconti di interesse umano, alledenuncie di ingiustizie sembrava poter ricreare unasorta di unità morale. Inoltre il giornalismo didenuncia aveva una diffusione nazionale e giunsead essere un’impresa vantaggiosa anche dal punto divista economico. Dal 1870 al 1909 la vendita digiornali passò da 2.800.000 copie a 24.0000.0000di copie. Questa straordinaria diffusione permiseai giornali di affrancarsi dai partiti: nacque inquegli anni il grande giornale che si definiva

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indipendente con una elevata tiratura di copie. Inquesto insieme di trasformazioni assunse un pesosempre più rilevante l’inviato speciale: sitrattava di persone che conoscevano i valori cheerano a fondamento della Repubblica e percepivanoun senso di responsabilità di fronte alletrasformazioni, ma che avevano inoltreun’esperienza diretta di quegli aspetti dellarealtà sociale meno elevati e più contraddittori.Erano «consapevoli dell’immensa distanza tra gliideali altisonanti e le manifestazioni pubblichedegli editoriali e le sporche realtà dell’ufficiocommerciale e della sala notizie» (Hofstadter 1962:152).

In molti casi i reporter che denunciavano gliaspetti meno nobili e più brutali della grandecittà erano animati dalla convinzione che fossesufficiente chiarire, rendere trasparenti leingiustizie perché esse fossero sanate. Laconoscenza produceva soluzioni: tale era lapercezione che univa reporter, scienziati,riformatori sociali. Inoltre, anche a causa delprezzo molto più basso dei giornali, essi potevanorivolgersi ad un pubblico molto più ampio: mentreuna rivista tradizionale era venduta a 35centesimi, un nuovo giornale poteva costaresoltanto 10 centesimi e poteva quindi essereacquistato da un numero molto più elevato dicittadini.

Attraverso il giornalismo dei muckrakers, ilconfronto con i fatti divenne sempre piùimportante. Come ha scritto Hofstadter «la notadominante della parte più valida del pensieroprogressista può essere sintetizzata nel termine

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realismo. Fu il realismo a trovare favore nellaletteratura e nel giornalismo corrente e fu ilrealismo il nuovo che fu introdotto nellafilosofia, nel diritto, nell’economia dai piùfecondi pensatori del tempo» (Hofstadter 1962:157). Il realismo si esprimeva in primo luogo comeapproccio conoscitivo alla realtà sociale: sitrattava di un approccio che miravaintenzionalmente ad andare, come si diceva inquegli anni, dietro la facciata. I giornalisti alracconto moraleggiante che la società americanaoffriva di se stessa contrapponevano un altroracconto, fatto di realtà sgradevoli, poco note edi dubbia moralità.

2. Steffens e The Shame of the Cities

Lincoln Steffens fu il giornalista chedivenne per alcuni anni il simbolo del reportersocialmente impegnato a denunciare la corruzione eil degrado delle città americane: nel 1904 pubblicòThe Shame of the Cities, nel quale raccoglieva alcunidegli articoli che dal 1902 aveva pubblicato sullarivista McClure descrivendo l’intreccio dicorruzione, affari e politica che aveva scoperto inalcune delle più importanti città americane, daPhiladelphia a Sant Louis.

Steffens, che proveniva da una famigliaeconomicamente abbiente, aveva trascorso lagiovinezza a Sacramento, a contatto con la natura ela vita che si svolgeva nei grandi spazi.Successivamente si era trasferito prima in Germaniae in poi in Francia, per completare la propria

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educazione in diverse università europee e si eraparticolarmente interessato alla storia e allafilosofia. Una volta tornato negli Stati Unitiiniziò a lavorare come reporter per “Evening Post”:il giornale dopo un breve periodo di apprendistatolo incaricò di seguire gli ambienti legati a WallStreet. In tale attività Steffens si conquistòl’appellativo di reporter gentiluomo, per la suacapacità di porsi in rapporto e in ascolto anchedelle persone che appartenevano alle eliteseconomicamente più influenti del paese. Nel 1902venne contattato da McClure, che lo invitò a unirsialla propria rivista: il servizio che lo impose algrande pubblico come il più importante tra imuckrakers fu un servizio che pubblicò in questostesso anno documentando l’intreccio tra affari epolitica nella città di Sant Louis e ilcoinvolgimento di molti tra i più rispettabilicittadini in attività illecite (Winter, Shapiro1962).

Steffens nella Introduzione a The Shame of theCities giustificava la scelta di ripubblicare gliarticoli senza alcuna modifica ribadendo come ilsignificato che egli aveva attribuito ai suoiscritti fosse lo stesso che egli dava al volume.Gli articoli «erano stati scritti con uno scopo,erano stati pubblicati con uno scopo e erano statiristampati insieme per quello stesso scopo, che eraed è quello di risvegliare l’orgoglio civico di unacittadinanza apparentemente senza vergogna»(Steffens 1904: 3). La sua denuncia, in questosenso, mirava a suscitare la consapevolezza che lacorruzione e il malgoverno non erano esclusivaresponsabilità dei politici e dei boss urbani, ma

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degli stessi cittadini. Infatti egli affermava che«il malgoverno del popolo americano è un malgovernoche viene dal popolo americano» (Steffens 1904: 4).Contro l’opinione comune che riteneva che tutti ilimiti della politica dipendessero dalla corruzionedi coloro che appartenevano alla classe politica,Steffens sembrava avere come suo principalebersaglio la presunzione di innocenza delcittadino e la dinamica che conduceva a ritenereche le responsabilità del malgoverno e dellacorruzione fossero da imputare a fattori esterni,indipendenti dalla vita della gente comune. Eglicontestava quindi l’idea che i soli responsabilidel degrado della moralità pubblica fossero ipolitici o gli immigrati: indicava come del tuttofuorviante la tendenza a ritenere gli uominid’affari come la parte sana del paese, derubata eoppressa dai politici. Al contrario, alla lucedelle proprie esperienze, riteneva che taliconcezioni fossero sostanzialmente ipocrite. L’uomod’affari era per Steffens altrettanto responsabiledei politici, in quanto preoccupato soltanto deipropri interessi economici. Infatti «l’uomod’affari è la principale fonte di corruzione esarebbe stato un vantaggio se egli avessetrascurato la politica» (Steffens 1904: 6). Illegame tra affari e politica veniva denunciato adogni livello della società e in questa denunciaveniva meno la possibilità di credere che sipotesse riformare la politica affidandosi abanchieri, avvocati e commercianti.

In sostanza Steffens lamentava la diffusionetra la popolazione di uno spirito volto al profittoindividuale e non alla prosperità della nazione .

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L’unica strada che egli indicava per contrastareil diffondersi della corruzione era quella dicreare una domanda di riforma morale eindirettamente politica così imponente tral’opinione pubblica da rendere impossibile che ipolitici potessero ignorarla. Qualsiasi forzaavesse agito in tale direzione sarebbe stata perSteffens positiva: egli in tale ottica giudicò deltutto positivamente l’operato di TheodoreRoosevelt. Il Presidente aveva, in occasione dellacampagna per la Presidenza del 1912, percorso ilpaese predicando «una buona condotta nelcomportamento individuale, la semplice onestà, ilcoraggio e l’efficienza». Steffens scriveva che sele esortazioni di Roosevelt fossero state presealla lettera si sarebbe avuto «come risultato unarivoluzione più radicale e terribile per leistituzioni esistenti […] che quelle del socialismoe dell’anarchia» (Steffens 1904: 10).

Nel libro di Steffens molti dei temi delgiornalismo di denuncia trovavano espressione evennero diffusi a livello di massa. Il primo, chepercorre tutti i saggi che compongono il volume èla denuncia del malgoverno, della corruzionediffusa in molte delle grandi città degli StatiUniti. La questione che, alla luce della propriaesperienza, Steffens ritiene decisiva per coglierela cause di questa realtà è la responsabilità deicomuni cittadini. In diversi brani della lungaIntroduzione al volume egli ribadiva che «ilpopolo non è innocente. Questa è la sola notiziagiornalistica di questi articoli» (Steffens 1904:10). La sua denuncia non era rivolta soltanto ai

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politici, ma anche e soprattutto agli uominid’affari e all’intreccio tra affari e politica.

Di fronte alla diffusione della corruzione,anche tra la gente comune, e all’impossibilità diindicare in una qualche categoria, classe, gruppodi persone una strada percorribile per opporsi aessa, Steffens, si appellava alla evidenza dellaverità, alla forza che la diffusione della veritàpoteva ridestare tra gli americani.

L’appello alla verità, all’orgoglio di coloroche avrebbero saputo riconoscere le proprieresponsabilità era la strada che Steffens indicavacome la sola possibile per gli americani cheprovavano sdegno di fronte al decadimento deicostumi e alla corruzione (Steffens 1904: 25).

3. Herbert Croly e la promessa della vita americana.

Herbert Croly, fondatore insieme a Walter Weyle al giovanissimo Lippmann (24 anni) del giornale“The New Republic”, pubblicò nel 1909 The Promise ofAmerican Life, un libro che ebbe una grande influenzasia sul Presidente Theodore Roosevelt, sia, ingenere sul movimento progressista. Lo slogan cheRoosevelt lanciò nella campagna presidenziale del1912, “Il nuovo nazionalismo” era esplicitamenteripreso dal libro di Croly, sul quale il Presidenteaveva scritto una recensione assai positiva. Ilrapporto di Croly con Roosevelt toccò il suo puntodi maggiore vicinanza nel novembre 1914, quandovenne fondata “The New Republic”. La rivistaesprimeva posizioni fortemente vicine a Roosevelt

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sulla necessità per l’America di partecipare allaguerra mondiale: dopo pochi mesi il rapporto siincrinò a causa dell’autonomia di giudizio dellarivista, che aveva preso le distanze da alcunigiudizi di Roosevelt su Wilson. I tre intellettualiche erano i redattori, Croly, Walter Weyl eLippmann scelsero di giocare un ruolo a livellonazionale, separandosi dall’ ingombrante patrociniodi Roosevelt (Forcey 1961).

Croly nel 1909 aveva quaranta anni ed era giàaffermato come editor di una importante rivistadi architettura. Di origini irlandesi da parte delnonno, la famiglia di Croly era l’esempio di comeanche per gli immigrati fosse possibile in Americaentrare tra le classi dominanti.

Il padre fu editore di diversi giornali esostenitore tra i più determinati del positivismodi Comte; la madre fu una delle prime femministeamericane. Nel 1886 il giovane Croly si iscrisse adHarvard frequentando i corsi di filosofia diRoyce, Santayana e James. L’influenza di Roycerestò nell’approccio di tipo hegeliano allasocietà: un approccio che tendeva e superarel’individualismo; il riferimento a Santayana restònella convinzione che i migliori avessero ilcompito di dirigere la società. L’influenza dimaggior rilievo fu però quella di William James:come ha scritto Forcey, «il pragmatismo fu lafilosofia di riferimento di Croly» (Forcey 1961).L’idea che la promessa della vita americana avessea che fare con la libertà di esprimere se stessiattraverso la costruzione del futuro, in altritermini che la libertà si realizzasse nellacostruzione del futuro, legava Croly ad una delle

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accentuazioni più rilevanti della concezionepragmatista.

Croly, nel libro del 1909, muove dallaconstatazione del fallimento storico dell’idea chela competizione tra diversi individui per laricchezza debba produrre benessere per tutti. Nellasocietà americana dei i primi del Novecento taleconcezione gli appare confutata dalla realtà. Ilpresupposto del libro infatti è la denuncia di unasocietà nella quale la distribuzione dellaricchezza è fortemente polarizzata e nella qualemolti cittadini non hanno alcuna possibilità direalizzare se stessi attraverso il proprio lavoro.Il venir meno di tale opportunità, presente sindalle origine nell’immagine che gli americani hannoavuto di se stessi e del proprio paese, comportauna lontananza e un’estraneità dei cittadini versola propria nazione e verso la politica.

Di fronte alle contraddizioni della società eal venir meno della idea che la realizzazionedella propria libertà e del proprio interesseindividuale avrebbe coinciso con un maggiorebenessere collettivo, Croly si chiede quale siastato il centro della promessa americana e cometale promessa possa essere riproposta in modo taleda essere adeguata alla società americana dei primidel Novecento.

L’idea che egli enuncia sin dalle prime paginedel libro e sulla quale tornerà ripetutamente èquella di una particolare modalità di intendere lanazione propria degli americani: il loropatriottismo deriva infatti da questa specificità.Egli sostiene che essi abbiano fatto prevalere,almeno nel momento della loro origine come nazione,

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la promessa di un ideale futuro rispetto allafedeltà alla loro tradizione storica. In questaottica l’antitesi che viene richiamata è quella tralibertà, creazione di benessere e di valori idealida una parte e necessità, polarizzazione dellaricchezza e fedeltà alle acquisizioni storichedall’altra: il cuore della promessa americana èinsomma nella libertà e nella costruzione delfuturo, nell’idea che in America si possasconfiggere il cieco dominio della necessità allaquale la scarsità di risorse e strutture socialiinamovibili avevano condannato il vecchio mondo.

D’altra parte nei primi anni del Novecento icittadini americani sembrano a Croly essere fermiin una posizione di passività e di disinteresse difronte alla politica, o di semplice denuncia dellacorruzione: essi hanno infatti fatto prevalere unaconcezione della loro identità nazionale legataalla mera fedeltà ad elementi storici. Di fronte atale situazione, che ha la propria cifranell’accettazione delle ingiustizie sociali equindi nella negazione delle eguali possibilità pertutti, egli ritiene urgente una riscoperta deicaratteri essenziali della promessa americana. Comescrive «sono le nuove condizioni che stannoforzando gli americani a scegliere tra laconcezione della loro promessa nazionale come unprocesso o come un ideale» (Croly 1909: 5).

Nel processo della costruzione dell’identitànazionale gli americani hanno fatto prevalerealcuni tratti su altri: Croly ricorda inparticolare il perseguimento della libertàindividuale e dell’interesse personale in campoeconomico; la concezione della naturale bontà

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dell’essere umano a livello antropologico; ladifesa delle istituzioni come patrimonio comune.Nel periodo eroico della lotta per l’indipendenza edegli inizi della repubblica questo insieme diaspirazioni, pratiche sociali e valori costituivaun patrimonio ideale nel quale i cittadini,malgrado le grandi disparità sociali, potevanoriconoscersi. Agli inizi del Novecento, in unasituazione economica e sociale radicalmente diversada quella degli inizi della nazione, la grandedisparità delle ricchezze e l’impossibilità perl’uomo comune di godere delle stesse opportunitàdei più ricchi appaiono come i risultati piùtangibili che emergono da un’osservazionespassionata della società americana.

Questa situazione rende necessarioriformulare la promessa riprendendone gli aspettimaggiormente legati alla realizzazione di unideale, che per Croly ha ancora una sua validità.Si tratta di passare da una concezione di nazionecome mero portato storico ad una idea di nazionecome promessa:

Le conseguenze della conversione del nostro destinoamericano in uno scopo nazionale saranno rivoluzionarie.Quando la promessa della vita americana è concepitacome un ideale nazionale il cui compimento è unaquestione di lavoro creativo e laborioso, l’effetto è diidentificare lo scopo nazionale con il problema sociale(Croly 1909: 24).

La promessa concepita come ideale darealizzare coincide per Croly con lariproposizione di un’idea di nazione nella qualegli americani si possano riconoscere: si tratterà

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quindi di analizzare quegli elementi presentinella concezione di nazione degli americani ingrado di essere ripresi e confrontati con ilpresente.

Croly richiama come dato che caratterizza leorigini della nazione americana il contrasto trarepubblicani e federalisti, tra la figura diJefferson e quella di Hamilton. In realtà sia irepubblicani che i federalisti esprimevano oltre adifferenti concezioni ideali anche differentiinteressi economici. I federalisti quando parlavanodi difesa della libertà intendevano in primo luogola facoltà di godere delle proprietà che giàpossedevano: per questa ragione erano sostenitoridi un forte governo centrale, che avrebbe garantitoquesta libertà. I repubblicani si opponevanoall’idea di un forte governo centrale per ragionialtrettanto concrete. L’esperienza dellarivoluzione aveva aumentato la consapevolezza dipoter lottare per realizzare il proprio benesseredella gran parte dei cittadini americani che nonpossedevano grandi beni: essi temevano che un fortepotere centrale potesse interferire nellaesperienza di cambiamento e di affermazione di sestessi che avevano vissuto negli anni tumultuosidella rivoluzione.

Croly precisa come però esistesse un plesso diconvinzioni comuni a entrambi i gruppi dicittadini, che proprio per questo sentivano unaviva appartenenza ad un unico destino: quello chesia i repubblicani sia i federalisti avevano incomune era un forte individualismo, la convinzioneche fosse possibile attraverso il lavoro migliorarela propria posizione nel mondo, la richiesta di un

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governo che potesse garantire a tutti la libertàdi azione per raggiungere tali fini. Le diversecondizioni sociali spingevano però a concepire e adutilizzare strumenti diversi per il compimento ditali comuni finalità. Un governo centralizzato eforte avrebbe maggiormente protetto la proprietà;un governo decentrato e meno ingombrante avrebbepermesso la competizione anche alla gente comune(Croly 1909: 29).

Croly dichiara esplicitamente la propriapreferenza per Hamilton, l’uomo di stato che riuscìa offrire il maggior contributo alla costruzionedello stato federale americano e quindi dellanazione americana: d’altra parte non si nascondeche nel corso della radicalizzazione del contrastoHamilton rischiò di pervertire l’idea di nazione,così come Jefferson l’idea di democrazia.

Quella che potrebbe apparire come un’antitesitra le posizioni repubblicane e quelle federalisteesprime il cuore della promessa americana: appuntol’unione di democrazia e nazione. Infatti «lagrande lezione dell’esperienza politica americanaè piuttosto quella di una interdisciplinarietà piùche un’incompatibilità tra un’efficiente governonazionale e un’insieme di ideali e istituzioniradicali e democratici» (Croly 1909: 23). Perriprendere tale promessa, evitando irrigidimentiinutili e astratti, Croly si confronta nellaseconda parte del libro con la situazionedell’America del primo Novecento.

Mentre il dato evidente nell’America degliinizi era una forte omogeneità sociale eculturale, il dato che a partire dal 1870 si imponeè quello della disgregazione di tale unità e

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l’affermazione senza limiti da parte di individuiche hanno fondato il loro progetto di vitasull’idea della competizione economica. Le duefigure che vengono ripetutamente richiamate perillustrare tale trasformazione sono quella delcapitano di industria, per quanto riguarda il mondodegli affari e del boss politico per quantoriguarda la gestione della politica nei suoiaspetti locali.

Croly sottolinea inoltre che le grandicorporations e le macchine politiche, gli ambientisociali che hanno visto l’affermazione di questefigure, non sono da considerare soltantoun’escrescenza maligna cresciuta nella societàamericana: tali realtà si sono imposte in quantorispondevano a bisogni reali. D’altra parte esse,in modi diversi, rappresentano una sfida per lademocrazia per due ragioni: in primo luogo al lorointerno si determinano gruppi di persone che hannouna competenza specialistica ed agiscono nellasocietà perseguendo i loro interessi individuali odi gruppo. Inoltre si crea un ceto di persone nelmondo dell’industria e degli affari e nel mondodella politica non ufficiale, che, in alcuni casi,ha maggior influenza sulla vita dei cittadini deileaders politici ufficiali. Un boss di TammanyHall, l’organizzazione elettorale del partitodemocratico, può influire sulla vita dei cittadinidel suo quartiere più di un senatore democratico.I cittadini comuni iniziano a riconoscereesplicitamente che finanzieri, capitanid’industria, avvocati assumono un peso sempremaggiore nel dirigere la vita pubblica: ildisinteresse nei confronti della politica ufficiale

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ha questa origine. Le trasformazioni dellecondizioni di vita individuali, nell’economia,nella società e nella politica hanno spezzatol’originaria coesione della società americana,hanno segnato una profonda divisione tra gliamericani, hanno creato profonde ineguaglianze eprofonde differenze di fortune.

Tale situazione si è affermata anche per unerrore di valutazione dei presupposti della culturapolitica americana. Si credeva che dopo averpredicato l’individualismo e la competizione comevalori necessari per l’affermazione di se stessi,si sarebbe facilmente potuto persuadere gliamericani a rispettare l’interesse pubblico; sicredeva che i funzionari pubblici avrebberoaccettato di essere privati di autorità per il benecomune; si credeva che la gente comune avrebberichiesto nulla di più che il rispetto dei diritti.Croly scrive «Questi presupposti erano tuttierronei» (Croly 1909: 125). L’incapacità dicogliere il senso di alcune trasformazionistoriche; il riferirsi acriticamente alla culturaeconomico politica precedente, sono le cause dellosmarrimento nel quale si trovano i cittadiniamericani: il dato materiale che maggiormenteevidenzia l’urgenza di una riforma è quellosociale:

Nel suo aspetto più profondo, conseguentemente, ilproblema sociale è il problema di prevenire che talidivisioni dissolvano la società nella quale sono stateintrodotte e che venga mantenuta una società altamentedifferenziata fondamentalmente come un tutto. In questopaese la soluzione del problema sociale richiede la

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sostituzione di un consapevole ideale sociale alla primae istintiva omogeneità della nazione americana (Croly1909: 139).

La descrizione di Croly individua alcunirischi reali presenti nella società americana diquegli anni: d’altra parte egli enfatizza alcuniaspetti, per dare maggiore forza alla sua propostadi un nuovo nazionalismo. L’omogeneità dellasocietà americana , certamente maggiore negli anniprecedenti lo sviluppo industriale, non era peròcosì grande come Croly sembra affermare, bastiricordare il decimo saggio del Federalista e leosservazioni di Madison sulle fazioni.

L’analisi del movimento progressista vienecondotta per verificare se esso sia stato in gradodi individuare elementi di una prospettiva idealein grado di ricreare una cittadinanza democratica,di coinvolgere nuovamente i cittadini nella vitadella nazione.

In primo luogo Croly precisa che l’appelloalle riforme, tratto comune a diversi esponentidel progressismo, indichi l’aspirazione alsoddisfacimento di esigenze diverse, avanzate indifferenti contesti. Fatto che appare all’originedi una certa incapacità di cooperazione reciprocatra gli stessi leader dei movimenti di riforma.D’altra parte egli sottolinea un tema comune atutti i progressisti. Ciò che accomuna i diversiriformatori è il fatto che tutti «acconsentono aconcepire la riforma al fondo come un risveglio euna protesta morale, che cerca di ridare forza alleleggi violate e di riportare il sistema economico

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e politico americano alla sua originaria purezza evigore» (Croly 1909: 144).

Poiché qualsiasi riformatore crede che sidebba ridare al popolo le opportunità e il poteredel quale è stato privato, chi è dalla parte delleriforme si aspetta il sostegno di tutti i buonicittadini americani. Quindi da una parte i buonicittadini dovrebbero schierarsi con i riformatori,anche perché si tratterebbe di prendere parte aduna lotta che è la lotta del bene contro il male.Il problema , sottolinea Croly è che «questesperanze non sono mai state realizzate» (Croly1909: 145). Di qui l’idea che «la riforma intesaesclusivamente come una protesta e un risvegliomorale sia condannata alla sterilità. I riformatoriin quanto accusatori e purificatori morali sonocondannati a tentativi male orientati, a unpuritanesimo illiberale ad una personale autovanificazione» (Croly 1909: 150).

La possibilità di una ripresa dell’idealenazionale, di riforme efficaci e di un allargamentodella cittadinanza è legata per Croly ad unrisveglio intellettuale e politico. Egli richiamain primo luogo la necessità di un imperiosorisveglio intellettuale. I riformatori dovrebberoimpegnarsi in un’analisi intellettuale in grado dioffrire una più penetrante comprensione dellastoria precedente. Solo in tal modo essi potrebberoproporre le riforme in una continuità ideale conalcuni tratti della storia della nazione.

Questa più approfondita comprensione implicain primo luogo l’abbandono del principio che egliimputa a Jefferson della non interferenza dellostato nell’economia, negli affari degli individui.

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In questo senso scrive che «l’armonia automaticadell’individuo e dell’interesse pubblico, che èl’essenza del credo democratico di Jefferson, hadimostrato di essere un’illusione. Al contrario sitratta di usare l’organizzazione democratica per ilbeneficio congiunto di un’affermazione individualee un miglioramento sociale» (Croly 1909: 154).

La lontananza dei cittadini dalla politica,la perdita della promessa americana ha quindi a chefare con una ipostatizzazione del passato, con unadifesa aprioristica di alcune idee di Jefferson.

Croly è consapevole dei limiti di unaposizione che faccia semplicemente appello allaripresa di valori morali e in questa consapevolezzamanifesta una critica realista ad uno deglielementi caratteristici del progressismo.

La sua strategia per ricreare quella unionetra nazione e democrazia che gli appare lapossibilità per la ripresa di una cittadinanzaattiva e consapevole dei valori comuni è duplice.Da una parte egli si impegna nella analisi storicae suggerisce la necessità di un risvegliointellettuale che dovrebbe condurre a leggere leprospettive che dalla storia nazionale emergono.Riprendere la promessa della vita americana, inquesto senso, significa riprendere la capacità diprogettare il futuro, confrontandosi anche con lecontraddizioni sociali.

Dall’altra egli ritiene necessaria larinnovata efficacia di una direzione politica chesia condivisa, l’enfasi sull’idea di nazioneimplica infatti l’esistenza di un esecutivo forte,in grado di far prevalere gli interessi dellasocietà sulla mera rivendicazione di quelli

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individuali. In questo senso un esecutivo forte,espressione della unità nazionale rinnovata eanimata da una promessa, potrebbe rispondere allanecessità di recepire le istanze di una maggioreeguaglianza, favorendo l’intervento dello statoanche nelle questioni sociali ed economiche.Qualora queste condizioni si realizzassero sarebbepossibile una rinnovata unione tra nazione edemocrazia, per Croly tipica della esperienzaamericana.

4. Lippmann: dall’incertezza al dominio razionale

Walter Lippmann lavorò sia con Steffens, chelo coinvolse appena uscito dai Harvard, in unaserie di indagini sul rapporto tra politica edeconomia, sia con Croly che lo coinvolse nel 1914nell’impresa di creare “The New Republic”, ilgiornale che divenne in poco tempo il riferimentodel movimento progressista. Lippmann, provenienteda una facoltosa famiglia di lontane originetedesche, si trovò durante gli anni di università acapo di un gruppo di personalità eccezionali, daJohn Reed a Thomas S. Eliot, Van Wyck Brooks. Fondòil primo gruppo socialista di Harvard e frequentòl’anziano James che rimase colpito da un suoarticolo pubblicato quando era studente. Santayanagli offrì di un posto come assistente retribuito adHarvard: dopo neanche un anno Lippmann scelse lastrada del giornalismo, certamente più redditizia.Pubblicò un primo libro, A Preface to politics nel 1913 enel 1914 pubblicò Drift and Mastery. Come recita ilsottotitolo “un tentativo di analizzare

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l’incertezza presente”. Il libro ebbe un grandesuccesso: Lippmann era già noto come un esponentedi spicco del progressismo e il suo librorappresentò per molti un’autocritica del movimentoche ne anticipava l’eclissi che, con la primaguerra mondiale avrebbe subito.

Il punto di partenza di Lippmann è laconstatazione di una precisa situazione storica.«Coloro che ci hanno preceduto avevano ereditato unconservatorismo e lo hanno superato: noi abbiamoereditato la libertà e dobbiamo usarla» (Lippmann1961: 16). Anticipando dinamiche sociali eculturali che si definiranno in modo esplicitonegli anni successivi, Lippmann sostiene che lasacralità della famiglia, il dogma del peccato,l’ubbidienza all’autorità sono valori che per gliamericani sopravvivono come abitudine, come datiacquisiti, ma non sono percepiti con vivezza.Infatti gli slogan in grado di coinvolgereemotivamente e intellettualmente rinviano ancheesplicitamente al termine nuovo o novità. La nuovalibertà di Wilson o il nuovo nazionalismo diRoosevelt esprimono appunto questa esigenza dinovità. Sintetizzando tali considerazioni Lippmannscrive: «la battaglia per noi non è contro i vecchipregiudizi, ma contro il caos della nuova libertà»(Lippmann 1961: 16). La questione assume inoltreuna valenza esplicitamente politica perché lastessa democrazia americana gli apparecaratterizzata non tanto da forme di autoritarismo,quanto da una incertezza riguardo ai valori e aibeni comuni, dovuta anche alla crescentecomplessità della società.

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La società americana di quegli anni appare aLippmann segnata da grandi cambiamenti di caratteresociale e culturale: venuti meno i riferimentitradizionali la domanda che egli poneesplicitamente riguarda a quali concezioni e aquali forze rivolgersi per fronteggiarel’instabilità e l’incertezza. Il tentativo dellibro è quello di uscire dall’incertezza e digiungere ad un dominio razionale, appunto quello dipassare da Drift a Mastery.

Egli ritiene che per impegnarsi in talecompito sia necessaria una visione, un orientamentoverso il futuro che determini l’azione. Precisaperò che «questo non significa la costruzione diutopie. Il genere di visione che sarà utile per lavita democratica sarà solo quella che uscirà dallepossibilità latenti del mondo attuale» (Lippmann1961: 18).

Le nuove realtà sociali che si impongono aqualsiasi osservatore delle società americana, itrust e i sindacati, il nuovo status delle donnesono quelle alle quali Lippmann rivolge la propriaattenzione: da esse potranno emergere quegliorientamenti che potranno costituire una nuovavisione e il nuovo tessuto morale della democrazia.In realtà Lippmann pensa ad una democrazia chesappia accettare, includere e valorizzare talirealtà.

Egli ritiene insomma che gli sviluppi delpresente possano essere in una certa misuraprevisti e orientati dall’azione consapevole degliuomini. Lippmann ci parla di possibilità del futuropotenzialmente in essere nel presente: la visionenasce dalla capacità di leggere nel presente quegli

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elementi che potranno svilupparsi nel futuro. Sitratta di un’ipotesi totalmente umana chepermetterà di evitare sia la mera routine, ilripetere senza alcuna convinzione, motivazioni ecomportamenti del passato, sia l’utopia, il rifugioin un’idea di futuro lontana dalla realtà eirrealizzabile:

Una visione costruita sulle esperienze latenti saràintessuta di fili vigorosi, sarà concentrata sui punticruciali della vita contemporanea, su quegli spazi doveil presente si sta svolgendo verso il futuro […] unaregione dove il pensiero e l’azione possono contare.Troppo in avanti non c’è null’altro che i nostri sogni;dietro c’è soltanto la nostra memoria.

La creatività nella storia, la capacità diintervenire nel presente viene radicata da Lippmannnel sapere elaborare una visione che sappiasviluppare le promesse dello stato di cose attuale.

La domanda che emerge, che però non èesplicitamente tematizzata da Lippmann, è quellarelativa ai criteri che dovrebbero permettere discegliere alcuni possibili sviluppi del presente enon altri. Negli anni della lotta perl’indipendenza gli americani potevano scegliere dilottare contro l’Inghilterra o di accettare lecondizioni che l’impero inglese imponeva ad unadelle sue colonie. In base a quali criteriassecondare alcune e non altre prospettive disviluppo della storia?

Seguendo il proprio progetto Lippmann nelresto del volume si confronta con i punti che egliritiene più gravidi di prospettive per il futuro:egli analizza il movimento dei muckrakers, quello

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per l’emancipazione delle donne, quello sindacale ela dinamica dei trust, l’affermarsi delleprofessioni scientifiche. L’ottica della suaanalisi, certamente non apologetica, è appuntoquella di individuare dietro le affermazioniteoriche quali siano i punti che potrebbero esseresviluppati per permettere una gestione razionaledel cambiamento. L’idea di gestione razionalerimanda alla scienza, all’approccio scientificoalla realtà: prospettiva che, se rettamente intesa,appare a Lippmann la sola da perseguire.

In Lippmann l’esigenza di allargare lacittadinanza si declina nell’esigenza diindividuare una visione in grado di coinvolgerecittadini e movimenti nella nazione. La questioneche egli individua è relativa agli elementi chedovranno costituire tale visione: le nuove istanzedella società dovranno essere parte integrante diquesta nuova immagine di democrazia. L’aspetto cheresta problematico è però quello del leader e dellaclasse politica in grado di elaborare e proporre aicittadini questa nuova immagine. La sua idea è chesi debba trattare di una leadership fortementeorientata verso il sapere scientifico: in questaprospettiva, con una diversa enfatizzazione, piùstorico-politica si potrebbe riconoscere ancheCroly. D’altra parte Steffens ci ha permesso dicogliere un’altra cifra che il progressismo hausato per riproporre una nuova cittadinanza: lacomune denuncia morale, la riscossa morale.

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AbstractThis paper describes progressivism as a reform

movement. It provides an analysis of the works of several

progressive intellectuals and focuses on theirunderstanding of the main sociopolitical issues of theirtime. This group of intellectuals requested a newdemocracy, that could be able to deal with the newissues that the American society was facing at thebeginning of the twentieth-century. The distinctivefeature of their works is the use of a realisticapproach and an idealistic vision.

Key words: Progressivism, Democracy, Reform,Realism, Idealism.

GIOVANNI DESSÌUniversità di Roma Tor [email protected]

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CITTADINANZA DEMOCRATICA ED ETICA DELLA CURA

To have a voice is to be human. To have something to say is to be a person.

But speaking depends on listening and being heard; it is an intensely relational act (Gilligan 1993).

1. Premessa: una rivoluzione copernicana dell’antropologia

In alcuni suoi versanti il pensiero politico-filosofico contemporaneo ha molto insistito sulfatto che la tradizione dell’età moderna, nella suaversione contrattualista così come in quellautilitaristica, ha costruito la sua teoria politicasu di una precisa concezione antropologica: quelladi un individuo, razionale e acquisitivo, capace diauto-determinarsi e di orientare le proprie sceltealla massimizzazione della loro utilità. Da Hobbesa Rawls esso avrebbe rappresentato un individuoautonomo, irrelato, indipendente,decontestualizzato (Benhabib 1992: 155 ss). Lecritiche rivolte da Sandel alla concezionerawlsiana di un “io sgombro” – che viene prima dei finiche persegue (Sandel 1994 [1982]: 30 ss.) e non èlegato da antecedenti legami morali (Rawls 2002[1972]: 455) – si saldano – pur non essendosovrapponibili – a quelle di Benhabib sullascomparsa dell’alterità dietro il velo d’ignoranza:«under conditions of the veil of ignorance, the

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other disappears», si legge in Situating the Self(Benhabib 1992: 162).

Esempi di critica alla concezione liberaledell’individuo potrebbero moltiplicarsiall’infinito, tanto restando nell’ambito delcomunitarismo e del femminismo che chiamando incausa la tradizione post-moderna. Solo per restarenell’ambito dell’area anglosassone, i nomi diCharles Taylor, Alasdair McIntyre, Martha Nussbaume Judith Butler, rinviano tutti immediatamente, aldi là delle rilevantissime differenze – e dellepolemiche1 – che li contraddistinguono, a una fermaposizione critica nei confronti di un’antropologiafalsamente universale, in cui l’autonomia èconcepita come isolamento, indipendenza e dominiorazionale di sé.

Tanto le filosofie femministe dunque, quanto ilcomunitarismo, il post-strutturalismo e il pensieropost-moderno si sono indirizzati su questa stradadi contestazione della costruzione moderna dellasoggettività. Dopo la formulazione della criticaalla visione prometeica dell’Io dell’età moderna,oggi si invoca la necessità di una «rivoluzionecopernicana dell’antropologia» (Höffe 1997: 476) esi avverte l’esigenza di un ripiegamento su un

1 Particolarmente accesa quella tra Butler eNussbaum che giocando con l’intestazione dell’ultimocapitolo di Gender Trouble, intitolato Dalla parodia allapolitica, (Cfr. Butler 2013 [1990]) l’ha, al fondo,rappresentata come “una parodia di professore”,piuttosto che come “A professor of Parody”, The NewRepublic, 22.02, 1999, rinvenibile on line al linkhttp://www.tnr.com/index.mhtml oppurehttp://www.akad.sa/nussbaum.pdf

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atteggiamento di “modestia antropologica”, capacedi pensare la relazione e l’inter-dipendenzapiuttosto che l’autodeterminazione e l’autonomia2.

Si tratta di un’impostazione che presentadistinti ordini di problemi.

Il primo, che esula dal campo visuale diquesto scritto, ha a che fare con il giudizio

2 Si vedano in proposito le considerazioni diVirginia Held, per la quale «Care ethics emerged asthe gender bias of such dominant moral theories asKantian ethics and utilitarianism came underattack… In contrast with the dominant views thatgive primacy to such values as autonomy,independence, noninterference, fairness, andrights, the ethics of care values theinterdependence and caring relations that connectpersons to one another. The ways many of theconcerns of those interested in civil society areparallel to those of the ethics of care areapparent. Rather than rejecting the emotions asthreats to the rationality and impartiality seen asthe foundations of morality, the ethics of careattends to and values such moral emotions asempathy and shared concern. Rather than seeingmorality as a struggle between individual self-interest and impartial universal principles, careethics focuses on the region between the individualself and the universal ‘‘all rational beings.’’ Itseeks to evaluate the relations that connect actualpersons and to deal with the moral issues involved,such as when trust is appropriate and when it ismisplaced, and what is called for by mutualconsideration» (Held 2006).

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attorno all’accuratezza di una tale ricostruzionedei contenuti della concezione antropologica dellatradizione occidentale. Il soggetto moderno èveramente ostaggio della logica maschile dell’Unoed è davvero esaustivamente riassumibile come un Ioprometeico, centrato su se stesso e progettuale ecompetitivo, fortemente acquisitivo ma capace diaautocontrollo e di autolimitazione in vista di unoscopo razionale? Studi recenti si sono orientativerso una più complessa e sfaccettata ricostruzionedell’individualità moderna e dei concetti dieguaglianza, autonomia e libertà3.

Un secondo ordine di problemi sollevati daquesta impostazione ha a che fare con leconseguenze che una tale posizione critica haesercitato sulla riflessione filosofico-politicadella contemporaneità. A prescindere infattidall’accuratezza del racconto attorno ai contenutiantropologici e filosofici della modernità ciò checostituisce motivo di interesse, per l’analisifilosofico-politica contemporanea, sono i contenutidella nuova narrazione che essa produce. Il congedodall’individuo cartesiano ha infatti significatola possibilità di aprire il discorso a differenticoncezioni dell’individualità e della sua capacitàrelazionale – oltre che, in alcuni casi, aposizioni che si spingono fino alla soglia deldissolvimento dell’idea stessa di soggettività4 –,

3 Si veda, sul tema Pulcini 2001. Rilevante inproposito anche l’analisi sviluppata da Joan Trontorelativamente alla tradizione dell’Illuminismoscozzese: cfr. Tronto 2013 [1993]: 35 ss.

4 Seyla Benhabib, ad esempio, pur condividendola denuncia delle illusioni del logocentrismo e

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ma ha anche spalancato le porte a concetti disoggettività e di umanità che insistono suglielementi di fragilità, dipendenza e bisognodell’essere umano. Che cosa significa dunque intermini di teoria politica, l’abbandono delsoggetto cartesiano?

Che la filosofia lavori oggi, sostenuta dalleacquisizioni della psicanalisi, su un’ipotesiinterpretativa fortemente critica della tradizioneantropologica occidentale è una circostanza cheapre nuove problematiche non solo nel campo della

l’attenzione all’alterità delle filosofie post-moderne, ne evidenzia limiti e contraddizioni,sostenendo che essa sposa al fondo valori didiversità, eterogeneità, eccentricità e alteritàche hanno connotazioni universalistiche e liberalie poggiano sulle quelle stesse norme di autonomiadel soggetto e della razionalità delle proceduredemocratiche di cui essi sono poi troppofrettolosamente disposti a disfarsi: «Postmodernismis an ally with whom feminism cannot claim identitybut only partial and strategic solidarity… Thecritique of identity politics attempts to replacethe vision of an autonomous and engendered subjectwith that of a fractured, opaque self… What isbaffling thug is the lightheartedness with whichpostmodernists simply assume or even posit thosehyper-universalist and superliberal values ofdiversity, heterogeneity, eccentricity andotherness. In doing so they rely on the very normsof the autonomy of subjects and the rationality ofdemocratic procedures which otherwise they seem toso blithely dismiss» (Benhabib 1992: 15-16).

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filosofia e dell’etica, ma anche in quello dellapolitica. La concezione della natura dell’uomo èinfatti connessa con solidi legami concettuali allateorizzazione della democrazia e dellacittadinanza. L’idea di un’eguale partecipazionealla definizione delle scelte – politiche elegislative –, è stata storicamente elaborata sulterreno di una antropologia fondata sui concetti diuniversalità, eguaglianza, razionalità e autonomia.

Se dunque la modernità è il complessosubstrato –politico, filosofico, antropologico,culturale – che ha reso possibile la democrazia, inche modo questa “rivoluzione copernicana” in unodei suoi gangli più vitali – nel punto stesso diavvio di ogni riflessione sulla società umana –,espone ad un serio ripensamento la teoria e laprassi dei governi democratici dellacontemporaneità? Sul piano della teoria politica,quali sono le possibili ripercussioni di unprogressivo svuotamento dei contenuti dellaconcezione antropologica della modernità?

Quella che viene qui esplorata è soltanto unadelle strade che ha imboccato la filosofia politicacontemporanea. È la strada che, dalla psicologiaalla politica, si sofferma sulla vulnerabilitàdell’essere umano e si concentra sul concetto dicura, estendendolo dall’individuo allacollettività. Si interroga così tanto sui problemiposti dalla asimmetricità della relazione nelcaring, sia sulla cura di cui abbisognanecessariamente una pratica esigente come quelladella democrazia: si sofferma dunque tanto sugliaspetti che pertengono all’idea di una caringdemocracy quanto su quelli che sono relativi aldemocratic caring – ad una pratica democratica

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inclusiva che allochi il lavoro di cura secondoprincipi di equità e giustizia5.

2. Etica, politica, democrazia: la prospettiva di Carol Gilligan

Nel 1982 Carol Gilligan ha dato alle stampe unvolume che – a ormai più di trent’anni di distanza– si può affermare essere stato seminale nel campodegli studi di genere e, in particolare, dell’eticadella cura. Si tratta di un testo fortementecontestato per la deriva essenzialistica che essoha alimentato in assenza di una posizionesufficientemente netta da parte dell’autricerelativamente al rapporto esistente tra cura efemminilità. Solo con grande ritardo essa hachiarito che, nella sua interpretazione, l’eticadella cura non è un’etica femminile – cioè radicatain una naturale propensione delle donne alsacrificio di sé6 – ma un’etica (che Gilligan ha poichiamato femminista) 7 che esprime un punto di vistacritico sia verso una particolare concezionedell’autonomia (maschile) sia verso l’idea di unanaturale disposizione femminile alla relazione ealla cura.

5 È questo il tema di Tronto 2013. Ma vedianche, in lingua italiana, “Cura e politicademocratica. Alcune premesse fondamentali”, Lasocietà degli individui, 38, 2012/12, pp. 34-42.

6 Come invece in Noddings 2003 [1984] eRuddick 1993 [1989].

7 La chiarificazione è stata fornita undecennio più tardi in Gilligan, Hearing the Difference:Theorizing Connection, “Hypatia”, 10, 2, 1995, pp. 120-127.

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Il testo cui sto facendo riferimento, In aDifferent Voice, è stato tradotto nel 1987 con unascelta fuorviante e fortemente contestata: Con vocedi donna. Nella sua lingua originaria il testo haconosciuto svariate edizioni e un numero elevato diristampe; due nella versione italiana. Neppure laseconda, che è del 1991, contiene pertanto la letteraai lettori che Gilligan ha utilizzato come premessaall’ultima edizione in lingua inglese attualmentein commercio, che è invece del 1993.

Proprio da questa lettera intendo partire, conil duplice intento di fare con ciò cosa utile allettore italiano e di prendere l’avvio dal punto incui, dopo un decennio di acceso dibattito,l’autrice si sofferma con convinzione: quellorappresentato dall’intimo nesso di politica epsicologia nelle società della contemporaneità. Nonsi tratta forse qui di un’assoluta novità: già nel1955 Marcuse aveva affermato, in Eros e civiltà, diutilizzare categorie psicologiche perché, nella“condizione dell’uomo nella nostra epoca”, essesono diventate categorie politiche8. Ma l’uso cheGilligan fa di categorie psicologiche e politiche

8 Il progetto di lavoro di Eros e civiltà è quellodi procedere a uno studio politico della societàoccidentale utilizzando come chiave interpretativacategorie di tipo psicologico. «In questo saggio –scrive Marcuse - si usano categorie psicologiche,poiché sono diventate categorie politiche. Letradizionali linee di demarcazione tra psicologiada un lato e filosofia politica e socialedall’altro, sono state rese antiquate dallacondizione dell’uomo della nostra epoca» (Marcuse,1964 [1955]: p. 47).

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ha, con la sua focalizzazione sulla relazione, unaparticolare specificità, che ne ha fatto il puntodi innesto della successiva, ricca speculazioneattorno all’etica della cura. Per dirla con leparole con cui lei sottolinea questo punto nel 1993

The political has become psychological in the sense thatmen’s disconnection and women’s dissociation perpetuatethe prevailing social order. Psychological processes andalso the capacity to resist these separations anddissociations become political acts (Gilligan 1993:XXVII)9.

Nessun ripensamento si registra, su questopunto, nella riflessione successiva di Gilligan: inun’intervista rilasciata nel 2011 viene chiaramentedelineata una linea di connessione tra democrazia eetica della cura10. Se dunque quest’etica

9 Gilligan fa qui riferimento alla percezionemaschile degli esseri umani come sé separati,indipendenti e autonomi e all’esperienza femminiledella dissociazione, cioè della separazione trarealtà ed emozione. Le due esperienze –separazionee dissociazione- fanno riferimento a quelli chesono due diversi errori relazionali: «for man tothink that if they know themselves, followingSocrates’s dictum, they will also know women, andfor women to think that if only they know others,they will come to know themselves» (Cfr., ivi, p,XX). Si veda anche Gilligan, 2014 [2009].

10 Gilligan ha ribadito che, in una culturapatriarcale, la cura è espressione di un’eticafemminile mentre, in una società democratica,basata sull’eguaglianza, la cura è un’eticafemminista e conduce verso una democrazia liberata

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relazionale e contestuale, basata su una premessadi interdipendenza e elaborata come una sorta dicontrappunto all’etica universalistica dellagiustizia, ha esercitato un’enorme attrazione incampi disciplinari così diversi come la filosofiamorale, la psicologia dello sviluppo, la sociologiae la bioetica, il punto di vista che qui prememettere principalmente in luce è il percorso dellariflessione più strettamente politico e sociale diquesto approccio relazionale e contestualeall’etica e alla convivenza umana. Ma sembraimpossibile coglierlo senza fare un passo indietroverso i fondamenti concettuali della rivendicazionedi Gilligan alla pluralità delle voci nel discorsomorale – e politico.

L’idea di fondo è che bisogna guardare conocchi diversi alla storia politico-filosofica

dal patriarcato dal razzismo, il sessismo,l’omofobia e tutte le altre forme di intolleranza edi assenza di cura. Cfr. Gilligan, Carol. 2011."Looking Back to Look Forward: Revisiting In aDifferent Voice." Classics@, Issue 9, "DefenseMechanisms," http://nrs.harvard.edu/urn-3:hul.ebook:CHS_Classicsat, dove si legge:«Listening to women thus led me to make adistinction I have come to see as pivotal tounderstanding care ethics. Within a patriarchalframework, care is a feminine ethic. Within ademocratic framework, care is a human ethic. Afeminist ethic of care is a different voice withina patriarchal culture because it joins reason withemotion, mind with body, self with relationships,men with women, resisting the divisions thatmaintain a patriarchal order».

occidentale, prendendo consapevolezza del falsouniversalismo dei suoi assunti e della scansionegerarchica dei valori che è in essa racchiusa11.Gilligan affronta la questione con specificoriferimento all’etica mostrando che, nella nostratradizione di pensiero, l’approccio relazionale econtestuale – tradizionalmente associato alfemminile- sarebbe stato concepito alla stregua diun momento dello sviluppo umano alla moralitàcontrassegnato da un deficit rispetto a quello diun’etica universalistica dei principi. Nella

11 Si veda Young 1996 [1990]: 125-6, dove silegge: «il paradosso della logica dell’identità stanel fatto che, mentre cerca di ridurre all’identicociò che è differenzialmente simile, in realtàtrasforma ciò che è semplicemente differentenell’assolutamente altro. Anziché unità, generainevitabilmente dicotomia, perché il gesto diriportare il particolare sotto una categoriauniversale crea una distinzione tra dentro e fuori.Poiché ogni entità o situazione particolaripresentano sia similarità sia differenze rispettoad altre particolari entità o situazioni, e poichéesse non sono né completamente identiche néassolutamente altre, il bisogno di riportarle adunità sotto una categoria o un principio comportanecessariamente l’espulsione di alcune delleproprietà di tali entità o situazioni. Poiché ilgesto totalizzante lascia sempre un residuo, ilprogetto di ridurre a unità i particolari ècondannato a fallire. Ecco allora che, restia ariconoscersi sconfitta davanti alla differenza, lalogica dell’identità scarica la differenza in unaserie di dicotomiche opposizioni gerarchiche».

scaletta di Kohlberg, che gradua da uno a sei ipassaggi verso una moralità adulta, essi sonogerarchicamente collocati in punti diversi e siprestano a una interpretazione della differenza digenere nel giudizio morale che privilegial’approccio maschile. Nell’esplorare l’ipotesi chesi possa partecipare con voci diverse al discorsomorale, Gilligan capovolge il rapporto di causa edeffetto: non sono forse le donne ad essereinadeguate al più elevato livello di moralità cheimplica giudizi universali e astratti sullagiustizia e il diritto quanto piuttosto il modellodi Kohlberg (e la psicologia di Freud e Piagetsulle quali esso poggia) ad essere costruito in unmodo non sufficientemente raffinato da poterconsiderare adeguatamente l’orientamento etico allacura e alla relazione che è tradizionalmenteassociato al femminile:

La disparità tra l’esperienza femminile e larappresentazione dello sviluppo umano, messa in evidenzain tutta la letteratura psicologica, è statageneralmente interpretata come il segno di una carenzanello sviluppo della donna. Ma non potrebbe darsi,invece, che l’incapacità della donna a rientrare neimodelli esistenti della crescita umana sia indice di unacarenza della rappresentazione, di una visione moncadella condizione umana, dell’omissione di certe veritàsulla vita? (Gilligan 1987 [1982]: 9)

Ciò che Gilligan nel suo libro strenuamentedifende, è l’idea della possibilità di unapproccio alla morale di tipo contestuale enarrativo, la cui specificità non el’insufficiente elaborazione, ma la connessionetra sé e l’altro: esso sarebbe la manifestazione

di una maturità morale che ammette l’universalitàdel bisogno di compassione e di cura12 e concepisceil Sé come immerso in un network di relazioni einterdipendenze. Il riferimento alle differentirisposte di Jack e di Amy al dilemma di Heinz èdiventato ormai un classico della letteratura digenere. Già usato da Kohlberg nei suoi esperimenti,il dilemma di Heinz ha a che fare con un uomo chenon ha i soldi per comprare una medicina persalvare la moglie e non riesce a farsi fare creditodal farmacista. Messi di fronte alla domanda su ciòche sarebbe giusto che Heinz facesse nellecircostanza in cui egli si trova, i due adolescentidi sesso diverso privilegiano alternativamente icriteri di un’etica dei diritti o di un’etica dellacura, che –nell’interpretazione di Gilligan – nondenota – come nella lettura di Kohlberg – ladifficoltà femminile ad elevarsi allaconcettualizzazione dell’universale, ma mette nelconto le particolarità di ciascuno e si fa caricodi una strategia che mira a preservare i rapportitra le persone coinvolte13.

12 Gilligan 1987: 102, dove si legge:«accogliere la prospettiva femminile all’internodella concezione dello sviluppo morale significariconoscere l’importanza che riveste per entrambi isessi lungo tutta la vita la connessione tra sé el’altro, significa ammettere l’universalità delbisogno di compassione e di cura».

13 Gilligan 1987: 33 ss., dove si spiega che,posto di fronte alla domanda: «farebbe bene Heinz arubare quella medicina?», Jake interpreta ilproblema come un conflitto tra i due valori delrispetto della proprietà privata e del rispetto

Due aspetti relativi ai contenuti diquest’etica della cura tuttavia non vengonosufficientemente chiariti in In a different voice: ilprimo ha a che fare, come si è visto, con ladomanda se – come nell’interpretazione delmaternalismo – questo approccio sia strettamentecorrelato al genere: solo adombrato in alcunepagine del libro, il punto è poi stato oggetto diuna specifica presa di posizione da partedell’autrice, che ha chiarito la matrice nonessenzialistica del suo pensiero. Il secondo ha ache fare con il problema del rapporto che essointrattiene con la morale universalistica deidiritti: se cioè etica della cura e etica dellagiustizia siano destinati a integrarsi o a restarefondamentalmente alternativi. Quella che qui vieneutilizzata è la prima prospettiva, per la quale sisono chiaramente espresse, con differentiteorizzazioni, Seyla Benhabib e Joan Tronto, i cui

della vita umana e non ha difficoltà nellaindividuazione delle priorità, mentre Amy rispondeinvece in modo evasivo e incerto. La spiegazione diquesta disparità non sta tuttavia per Gilligan,come per Kohlberg, nell’incapacità di Amy dipensare autonomamente e di orientarsi in base aprincipi universali, ma al fatto che lei inserisceil dilemma di Heinz in un’immagine del mondo che èfatta di rapporti e legami più che da un sistema diregole e tenta perciò di risolvere i conflittiprendendosi cura dei bisogni di tutti e gestendoliin modo interpersonale, attento alle conseguenzedolorose che nascono dalle lacerazioni deirapporti.

percorsi argomentativi verranno seguiti con maggiordettaglio nei paragrafi seguenti.

3. Il punto di vista dell’Altro concreto nel pensiero di SeylaBenhabib

L’idea di una critica alla moralità astratta euniversalistica – espressa tanto nell’eticakantiana quanto in quella utilitaristica – haesercitato una presa forte e duratura nei decennisuccessivi alla pubblicazione di Con voce di donna:essa è stata declinata in forme molto diverse econflittuali, aprendo, tra le diverse anime delfemminismo occidentale, un diffuso dibattito, dicui Judith Butler e Seyla Benhabib sono state duedelle più interessanti protagoniste14.

Il punto di vista difeso da Benhabib è che sipossa far lavorare insieme prospettivaparticolaristica e universalismo, etica della curaed etica dei diritti: ha pertanto sottolineato ilpotenziale normativo presente nell’approcciocontestualista dell’etica della cura, nella suacapacità di prendere in considerazione il punto divista dell’altro concreto. La proposta di Benhabibpresume dunque la necessità di una reciprocaintegrazione tra etica della giustizia ed eticadella cura e comporta una significativariformulazione dell’etica habermasiana alla cuiprospettiva, sostanzialmente, aderisce. Benhabibcerca di integrare quest’ottica, nella sua propriaformulazione dell’etica discorsiva, attraversol’accoglimento di alcune delle critiche mosse

14 Cfr. il saggio Feminism and the Question ofPostmodernism in Benhabib 1992: 148-177.

nell’ambito del postmodernismo e del femminismo.L’universalità della teoria morale di Habermas deveinfatti includere, dal punto di vista di Benhabib,il rispetto per i concreti e particolari Altri, che sonosituati in specifici contesti narrativi. Devedunque evitare il rischio delle concezioni liberalidella soggettività, in cui il sé è unitario el’altro scompare. Il concetto di imparzialità sucui ha lavorato il pensiero liberale non fa infattiche riconoscere, secondo Benhabib, «lerivendicazioni di un altro che è esattamente egualeal Sé», con il risultato, in definitiva, chel’Altro scompare nella sua alterità

The problem can be stated as follows: according toKohlberg and Rawls, moral reciprocity involves thecapacity to take the standpoint of the other, to putoneself imaginatively in the place of the other, butunder conditions of the “veil of ignorance” the other asdifferent from the self disappears15.

15 Benhabib 1992: 161. Il concetto è poisviluppato nei seguenti termini alla paginasuccessiva: «if selves who are epistemologicallyand metaphisically prior to their individuatingcharacteristics, as Rawls takes them to be, cannotbe human selves at all; if, therefore, there is nohuman plurality behind the veil of ignorance but onlydefinitional identity, then this has consequences forcriteria of reversibility and universalizabilitysaid to be constituents of the moral point of view.Definitional identity leads to incomplete reversibilityfor the primary requisite of reversibility, namely,a coherent distinction between me and you, the selfand the other, cannot be sustained under thesecircumstances. Under conditions of the veil of

La critica di Benhabib alla tradizionecontrattualistica e alla sua concezionedell’eguaglianza come medesimezza16 indicaun’incapacità di accogliere le differenze cheimpedisce di costruire una concezione di alteritàche non sia la finzione cui conduce la pretesa diconoscere l’altro attraverso un processo diastrazione dalle particolarità. L’enfatizzazionedell’identità e la priorità dell’io rispetto aisuoi fini teorizzata da Rawls non consentel’emergere di un vero pluralismo dietro il velod’ignoranza perchè impedisce, sostiene Benhabib,una chiara distinzione tra sé e l’altro.

Nel pensiero liberale, la separazione traquestioni di giustizia e vita buona crea unadicotomia in cui la giustizia si articola comegeneralità e eguaglianza e la vita buona è sospintanel regno del privato e del particolare. ComeGilligan ha contestato la distinzione tra questionidi giustizia e questioni legate alla vita buona,mostrando come essa ha nascosto una separazione trala sfera pubblica maschile delle transazioni traadulti indipendenti e la sfera femminile dellacura, dell’amicizia e del sentimento, così Benhabibha lavorato a una teoria etico-politica che fossecapace di operare un superamento di questadicotomizzazione. Essa crea una frattura, asserisceBenhabib, che costituisce ancora oggi il nucleodelle teorie morali universalistiche della

ignorance, the other disappears».16 Interessante, sul punto, anche la critica di

Nussbaum 2007 [2006]. Ma si veda anche Kittay 2010[1999].

contemporaneità, che ha ereditato dall’età modernala dicotomia tra autonomia e cura, pubblico edomestico, giustizia e vita buona17.

Benhabib declina questa dicotomia comedicotomia tra la posizione dell’altro generalizzatoe dell’altro concreto, sostenendo la necessità diun’etica capace di integrare i due punti di vista,costantemente concepiti come alternativi nel corsodella tradizione di pensiero occidentale. Il primopunto di vista, argomenta Benhabib, è statostoricamente applicato alle questioni di giustizia,il secondo a quelle relative all’affettività. Ilprimo insiste su ciò che rende eguali gli uominicome agenti razionali capaci di parola e di azione:ci chiede di vedere ogni individuo come un essererazionale, dotato dei nostri stessi diritti edoveri, e di fare astrazione della sua concretaindividualità e dall’identità. La relazione io-tu èregolata dalle norme dell’eguaglianza formale e dellareciprocità, in virtù delle quali ciascun componentedella relazione nutre le medesime aspettative: A hail diritto di aspettarsi da B ciò che B si attendeda A. Le categorie morali che accompagnano una taleinterazione sono quelle della legge, del diritto edell’obbligazione e i corrispondenti sentimentimorali sono quelli del rispetto, del dovere, delladignità (Benhabib, 1992: 159).

Il secondo ci impone di vedere ogni essereumano come un individuo con una sua storia concretae una peculiare costituzione affettiva. Larelazione io-tu è regolata dalle norme dell’equità edella reciprocità complementare. Ciascun componente dellarelazione si aspetta dall’altro comportamenti

17 Diversamente Moller Okin 1999 [1989].

attraverso i quali possa sentirsi riconosciuto inquanto essere umano concreto, dotato di specificibisogni e particolari capacità. Le categorie moraliche accompagnano una tale interazione sono quelledella responsabilità, del legame e dellacondivisione e i corrispondenti sentimenti moralisono quelli dell’amore, della cura, della simpatiae della solidarietà.

Ciò che Benhabib propone è una prassiincentrata sulla mediazione tra i due punti divista: non – cioè – una teoria morale o politicaconsonante con il punto di vista dell’altroconcreto, ma una teoria morale universalistica chedefinisce il punto di vista morale alla luce dellareversibilità delle prospettive e di una “mentalitàallargata”, capace di prendere sul serio laprospettiva del pluralismo: una teoria moraleinsomma che ci consenta di riconoscere la dignitàdell’altro generalizzato per mezzo delriconoscimento dell’identità morale dell’altroconcreto (Benhabib 1992: 164).

4. Cura e democrazia nella riflessione di Joan Tronto

Il luogo in cui, nella cultura anglosassone,viene oggi alla luce con particolare evidenza ilnesso tra cura e politica è un recente libro diJoan Tronto18, Caring democracy, pubblicato nel 2013.

18 Per una buona sintesi della storiadell’etica della cura cfr. B. Casalini, Etica dellacura, dipendenza, disabilità, rinvenibile online:http://www.iaphitalia.org/index.php?option=com_content&view=article&id=320&Itemid=170

Il testo rappresenta una sorta di rielaborazione earricchimento di alcune tesi già esposte, nel 1993,in Confini morali, in cui Tronto aveva iniziato unpercorso di politicizzazione dell’etica della curache è stato portato a compimento con Caring democracyun ventennio più tardi. In entrambi i testi ilconcetto di cura viene analizzato alla luce dellaconnotazione di genere che ha storicamente avuto,ma sganciato da essa relativamente alle possibilitàche esso esprime: sebbene il lavoro di cura abbiastoricamente avuto una connotazione sessuale –oltre che sociale e razziale – esso può esserepensato in una chiave non essenzialistica néparticolaristica e rappresentare lo strumento dicui abbiamo bisogno per rifondare le nostredemocrazie.

Non essenzialistica né particolaristica:Tronto considera l’idea che l’etica della curacostituisca la forma caratteristica della moralitàfemminile come la strada maestra per legittimare lacollocazione delle donne in un ruolo subalterno eper escluderle dalla sfera pubblica e punta invecea svincolare la cura dal privato, in cui è statatradizionalmente collocata in duemila anni distoria occidentale per proiettarla al centro diun’etica pubblica liberale, pluralistica edemocratica.

Il punto di partenza di un tale percorso nonpuò che stare nella definizione stessa di “cura”.Con esso non si intende, nell’ottica di Tronto, néla Sorge di Heidegger, né l’amor mundi di Arendt, néciò che hanno inteso alcuni teorici americanicontemporanei come William Connolly e HarryFrankfurt (Connolly 1999 e Frankfurt 1988): sitratta di narrazioni astratte e

intellettualistiche, sostiene l’autrice, incentratesulla figura del soggetto prestatore di cura esulle sue motivazioni personali (Tronto 2013 a: 48). Ma neppure si intende, come spesso avviene nelleassociazioni tra la cura e il femminile, unapredisposizione naturale ancorata al generesessuale e profondamente radicata in una moralitàsui generis, aperta all’alterità e al sacrificio disé. Una tale accezione, argomenta Tronto, «condannal’etica della cura a essere respinta come ideaetica seria» (Tronto 2013 b: 145) e rendeimpossibile una sua collocazione in un contestomorale e politico complessivo: se la propensionealla cura fosse qualcosa di naturale – se fosse uncomportamento istintivo o profondamente determinatosocialmente o culturalmente – avrebbe poco sensoparlare di scelte morali o politiche.

Per illustrare la posizione di Joan Trontoconverrà partire dalla definizione di “cura” da leipiù volte proposta e recepita in ogni sua parteanche in Caring Democracy. Nell’accezione utilizzatada Tronto la cura viene definita come

una specie di attività che include tutto ciò chefacciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro“mondo” in modo da poterci vivere nel modo migliorepossibile. Questo mondo include i nostri corpi, noistessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo diintrecciare in una rete complessa a sostegno della vita(Tronto 2013 a: 118 e 3013 b: 19).

La definizione è volutamente generica, perchélascia intenzionalmente aperta la porta allapossibilità di integrare in questo più ampio egenerale concetto una ulteriore definizione dei

contenuti e delle priorità della cura in contestiparticolari. Al riconoscimento di fondo che ilbisogno di cura è un elemento costitutivo euniversale dell’esperienza umana e che alla curaoccorre restituire dignità e autorevolezza (Pulcini2009: 259) si accompagnano tuttavia, nelladefinizione di Tronto, alcune chiare indicazioniiniziali, che sottolineano il carattere di praticarivestito dalla cura, il suo orientamentoall’azione e al raggiungimento di obiettiviconcreti, la sua individuazione ad ampio spettrodegli oggetti di cura, di modo che essi non abbianosolo a che fare con persone cui siamo legati darapporti di prossimità ma coinvolge tanto la sferadelle relazioni affettive quanto quelladell’ambiente fisico in cui viviamo.

Questi aspetti vengono chiariti nel corsodella trattazione di Tronto. Alla definizione dellacura si accompagna infatti un’analisi delle suediverse dimensioni concettuali che contribuisce arenderla più definita e comprensibile, oltre che acalarla nell’esperienza quotidiana in modo tale dacaratterizzarla come una pratica universale econcreta a uno stesso tempo. Le dimensioniindividuate in Confini morali sono quattro: la prima,l’interessarsi a (caring about), che implica ilriconoscimento di un bisogno e richiede unaspecifica capacità di attenzione; la seconda, il prendersicura di (taking care of), che comporta l’assunzione diqualche responsabilità relativamente alsoddisfacimento del bisogno identificato nellaprima fase; la terza, il prestare cura (care-giving), checomporta il soddisfacimento diretto di bisogni dicura e richiede una specifica competenza; la quarta,il ricevere cura (care-receiving), che è la fase in cui colui

che beneficia della cura risponde al trattamentoche riceve e eventualmente corregge – se nonaccurate o veritiere – le percezioni dei bisogniindividuati nella prima fase (Tronto 2013 a: 121ss).

Queste quattro fasi delineate in Confini moralisi arricchiscono, in Caring democracy, di unadimensione ulteriore. Si tratta di quella del caringwith, di una condivisione degli obiettivi di curache fa appello alle qualità del pluralismo, dellacomunicazione, della fiducia, del rispetto e dellasolidarietà. Entra qui in gioco il nesso tra cura edemocrazia: se – come argomenta Tronto sfidando latradizione politico-filosofica occidentale – lapolitica ha in ultima analisi a che fare con ilmodo in cui vengono allocate le responsabilità dicura, un discorso attorno a queste attività devenecessariamente trovare uno spazio all’internodella teoria politica democratica. La mossa diTronto è articolata in due passaggi: con il primoessa teorizza il nesso tra cura e politica, con ilsecondo collega la prima a quella particolare formadi governo che è la democrazia.

La mossa di Tronto presuppone una ri-definizione della politica capace di far riemergereil contenuto rimosso dalla tradizione di pensierooccidentale19. Tutt’al contrario di quanto è in

19 Un interessante racconto di questa rimozioneè quello di Pateman, 1997 [1988]. Secondo Patemanil contratto sociale della tradizionegiusnaturalistica moderna presuppone un contrattosessuale, che escludeva le donne dal pattooriginario e ne fondava una condizione disoggezione, ancorandola alle presunte peculiarità

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essa avvenuto nel momento in cui ha radicato lacura nella sfera del privato e affermato poi chel’allocazione del lavoro di cura esulavadall’ambito proprio della politica, Trontointreccia fittamente questioni di politica, cura epotere. Propone in questo senso di ripensare ladefinizione di politica: da decisione attorno a“chi prende cosa, quando e come”-secondo la celebreproposizione formulata nel 1936 da Harold Lasswell-a un enunciato che concepisca la politica intermini di azioni (chi fa cosa) piuttosto che didistribuzione (chi ha cosa): «indeed we might wantto substitute for Harold Lasswell’s succintdefinition of politics, as who gets what, when andhow, one that sees it a way to divide upresponsibilities: who is responsible for caring forwhat, when, where, and how»20.

Nel secondo passaggio il nesso tra cura epolitica è analizzato dal punto di vista di quello

naturali del suo sesso. Si vedano in particolare lepp. 4-5, dove si afferma che: «Il contratto socialeè un racconto di libertà; il contratto sessuale èun racconto di soggezione. Il contratto originarioistituisce sia la libertà che il dominio. Lalibertà degli uomini e la soggezione delle donnevengono create attraverso il contratto originario;senza la metà mancante del racconto, che rivelacome il diritto patriarcale degli uomini sulledonne si istauri per contratto, non può esserecompreso il carattere della libertà civile. Lalibertà civile non è universale, bensì un attributomaschile, e dipende dal diritto patriarcale».

20 Tronto, 2013 b: 46. Il riferimento è aLaswell 1936.

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specifico modo di concepire e di fare politica cheè rappresentato dalla democrazia. A questoproposito la posizione di Tronto è chiara elineare: il contenuto di una politica democraticadovrebbe essere focalizzato sulla questione delladistribuzione delle responsabilità di cura edovrebbe venire determinato attraverso unprocedimento che assicuri ai cittadini la più ampiaopportunità possibile di partecipare alladefinizione della loro assegnazione21.

Ci troviamo di fronte a una concezione dellapolitica che è sostantiva, nel senso che neindividua nella responsabilità per la cura ilprincipale ubi consistam e, insieme, procedurale: nonsolo nessuno deve essere escluso dal processo dideliberazione democratica che definiscel’allocazione del lavoro di cura, ma sononecessarie pratiche specifiche e ampie diinclusione, in grado di consentire a ciascunol’accesso a un processo di apprendimento deibisogni degli altri che richiede tempo, apertura edequità22. Nel suo appello in favore di una politicaautenticamente democratica, Tronto dunque concludeaffermando

21 Cfr. Tronto 2013 b: 30, dove si legge«democratic politics should center upon assigning responsibilitiesfor care, and for ensuring that democratic citizens are as capable aspossible for participating in this assignement of responsibilities» (ilcorsivo è nel testo)

22 Tronto 2013 b: 147 ss. Tronto si soffermasolo brevemente su questo punto, che è invece alcentro dell’attenzione di Martha Nussbaum. Si veda,in particolare, Nussbaum 2006 [1997].

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While in the past the assignement of caringresponsibilities may have seemed to be beyond the properreach and scope of politics, I argue here that, giventhe changing nature of caring, nothing short of thisreconceptualization of politics can address thepolitical problems for democratic life that arise fromour present accounts of care (Tronto 2013 b: 7).

5. Un concetto di cura per il XXI secolo

Solo una ri-concettualizzazione della politicacapace di recuperare una nuova narrazione deibisogni di cura delle nostre società può offrire,nell’ottica di Tronto, una risposta ai problemi delnostro tempo.

Le nostre società, argomenta Tronto, mostranoun preoccupante deficit tanto in termini di “cura”– cioè della capacità di provvedere ai bisognidelle persone – che in termini di democrazia: leistituzioni governative si dimostrano sempre piùincapaci di riflettere i valori e le idee in cui icittadini si riconoscono e che vorrebbero vederetutelati. Questi deficit, argomenta Tronto, nonsono che le due facce di una stessa medaglia. Essihanno entrambi origine nella peculiare separazionetra pubblico e privato che caratterizza il pensieropolitico occidentale. La sfida è dunque quella diridisegnare i contorni delle due sfere. Soltantouna teoria politica che enfatizzi la dimensione delcaring with può far fronte ai due ordini di problemicontemporaneamente perché comporta unaridefinizione dei confini tra l’ambito dellapolitica e quello della morale senza la quale nonsaremmo in grado di valorizzare la cura e

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rimodellare le istituzioni per far fronte ai nuovibisogni della società globale.

Se nella storia ogni società ha promosso unsuo peculiare racconto del lavoro di cura –relegandolo nel privato come nella tradizionearistotelica o assegnandone le funzioni nell’otticadi una generale riorganizzazione della società,come nella molteplici soluzioni offerte dallaletteratura utopistica-, la storia delle suepersistenze e della sua trasformazione ci aiuta acomprendere la nostra contemporaneità el’inadeguatezza di una narrazione che non collimaoggi più con la realtà23. L’argomento di Tronto èche, nel ventesimo secolo, nelle societàoccidentali si è realizzata una rivoluzione nellagestione della cura che l’ha trasportata fuoridell’ambito della domesticità. Fino all’attualebattuta d’arresto causata dall’affermarsidell’ideologia del mercato, cui Tronto dedicagiustamente attenta considerazione24, il lavoro dicura ha storicamente conosciuto una progressivaistituzionalizzazione e professionalizzazione, chehanno subito una radicale accelerazione nel corsodel secolo scorso spostando la gestione dellamalattia, dell’educazione e della disabilità dallafamiglia agli ospedali e alle scuole. Pubbliche o

23 Un peculiare punto di vista, rispetto aquesto aspetto, è quello di Michel Foucault. Suisuoi concetti di bio-politica, governamentalità ecura Tronto si sofferma brevemente in 2013 b: 25 e150

24 Si veda in particolare il capitolointitolato Can Markets be Caring? Markets, Care and Justice,in Tronto 2013 b: 114-136

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private che siano, queste istituzioni svolgono unlavoro che era un tempo di quasi esclusivapertinenza della sfera intima e domestica.

Questa rivoluzione della cura richiede unserio ripensamento attorno al confine tra pubblicoe privato. Concepita fin dai tempi di Aristotelecome pertinente alla sfera del privato, la cura hacontinuato a essere pensata in quest’ambito dallatradizione dell’età moderna che ha tenuto fuoridalla sfera pubblica e politica tutti coloro chevenivano concepiti come dipendenti e non potevanoperciò acquisire, come difensori della patria ocome produttori di reddito, un “salvacondotto”25

che, certificandone l’impegno sul versante dellavoro e della difesa, li esentasse perciò dalleresponsabilità di cura.

Nel corso dei secoli la tradizione occidentaleha progressivamente aperto le porte della sferapubblica a sempre più numerose categorie dipersone: borghesi e proprietari terrieri,lavoratori e – in ultimo – donne. Il processo diinclusione si è tuttavia realizzato nel segno diuna sostanziale continuità26 e si è caratterizzato

25 Tronto 2013 b: 91, dove si legge: «let ussummarize the traditional bargain that man havestruck to get them out of caring. Men provide twoforms of broader social care: they protect thesociety and they engage in productive economicactivity. Thus, the argument goes, they are due apass from engaging in the daily activities ofcare».

26 Tronto 2013 b: 80-81, dove si legge: «In thehistorical tradition of western societies, what itmeant to be a citizen was to present oneself to the

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per una fondamentale costante: le categorie dipersone che venivano man mano ammesse raggiungevanotale obiettivo nel momento in cui venivanoomologate a quelle di coloro che già erano inclusie riuscivano pertanto ad emanciparsi dal peso delladipendenza. Il problema di questo modo diprocedere, argomenta Tronto, è che esso costruiscei cittadini come se fossero indipendenti mentre lacondizione che li caratterizza è quelladell’interdipendenza e dell’esposizione al bisogno:«to pronounce those previously marked by dependencewith a new independence distorts reality; itglosses over the need for care in a society andeveryone’s condition of interdependency» (Tronto2013 b: 26).

La democrazia del Ventunesimo secolo, sostieneTronto, ha bisogno di essere costruita attorno auna differente idea dell’eguaglianza, che sidimostri capace di accogliere la realtà del bisognoe dell’inter-dipendenza. Aggirando il modo in cuila questione è stata posta nel dibattito femministanella sua critica alla tradizione di pensierooccidentale (Paternò 2006 e 2012), Tronto si fasostenitrice di un approccio che tiene insiemetanto l’idea di eguaglianza che quella delledifferenze: assume dunque che tutti gli esseri

political order (the polis, the king, the state) asready to serve, and that ability to serve qualifiedone as a citizen. Thus, for some ancient Greekcity-states, a citizen was one who could equiphimself with the requisite tools for militarycombat; in post-World War II Western societies, acitizen is one who can present himself as ready towork, unencumbered by household responsibilities».

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umani siano, senza eccezioni, bisognosi di cura – edunque eguali dal punto di vista della comuneesperienza della vulnerabilità – sebbenedifferiscano poi tutti, in qualche modo, inrelazione al tipo specifico di cura di cui hannonecessità. Pur non essendo particolarmenteinteressata all’elaborazione di una teoria delsoggetto, Tronto presuppone una interpretazionedella natura umana che insiste sulla relazionepiuttosto che sull’autonomia e concepisce gliindividui come fragili, vulnerabili einterdipendenti, cioè inseriti in un rete di scambiin cui non c’è binarietà tra ricettori e prestatoridi cura ma un alternarsi di funzioni che costringeciascuno, nell’arco della propria vita, a fareesperienza tanto della autonomia quanto delladipendenza.

A differenza di quanto avvenuto con la letturadell’etica fornita dal comunitarismo o dalfemminismo, nella prospettiva di Tronto ènecessario un superamento della contrapposizionetra etica della cura e etica della giustizia. Lapossibilità di interpretare l’etica della cura comeuna “moralità femminile”, distinta e alternativaalla “moralità maschile” è assolutamente estraneaalla sua prospettiva, volta piuttosto asottolineare la necessità di un’integrazione tra ledue etiche. Tronto non condivide infattil’impostazione di quelle esponenti del femminismoe, per lo più, del maternalismo che, come NeilNoddings, ritengono che la cura e la giustiziasiano incompatibili perché emergono da differentipunti di partenza metaetici: la cura sarebbeinfatti particolare e la giustizia universale, laprima si basa sulla compassione, la seconda sulla

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razionalità. Sostenendo che quella fra cura egiustizia è una falsa dicotomia, Tronto sostieneche

La separazione tra cura e giustizia emerge dall’uso deivecchi confini morali come punto di partenza perdescrivere la vita morale. Ma con un senso diverso dellarelazione di interdipendenza tra gli esseri umani, delmodo in cui le loro pratiche ne modellano la razionalitàe, dunque, del modo in cui l’attività umana può cambiareciò che accettiamo come razionale, la relazione tragiustizia e cura può essere di compatibilità piuttostoche di ostilità (Tronto 2013 a: 186).

5. Guardando indietro a Looking Backward

Il discorso potrebbe essere, a questo punto,concluso: molto di più potrebbe essere dettoattorno alla Caring Democracy di Joan Tronto, ma essaè ormai stata analizzata, nei suoi trattiessenziali, tanto in riferimento ai suoi contenutiche relativamente ai rapporti che essa intrattienecon l’etica della giustizia e con altreformulazioni dell’etica della cura. Potrebbeciononostante valere la pena, prima di metteretermine al discorso, di valorizzare uno spunto diriflessione che non trova approfondimento nellatrattazione di Caring Democracy, sebbene vi compaiain modo alquanto ripetuto. Il riferimento è qui alnome di Edward Bellamy e alle diverse occasioni incui Tronto ricorda la sua critica alla societàcapitalistico-borghese di fine Ottocento.

Nella sua narrazione utopistica Bellamyutilizza, in Looking Backward, un’immagine che è piùvolte ripresa da Joan Tronto. Si tratta dellametafora della società politica del diciannovesimo

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secolo, una carrozza sovraffollata, spinta su unpercorso accidentato dai numerosi viaggiatori chenon avevano trovato posto a sedere o che ne eranostati sbalzati fuori durante un accidentatotragitto, in cui nessuno aveva certezza di poterconservare le posizioni acquisite. Nonostantel’assurdità delle disposizioni che regolavano ilcammino, argomenta Bellamy, la credenza che non sipotesse procedere in modo diverso – menodispendioso ed iniquo – impediva un adeguatoripensamento delle condizioni di viaggio o, fuor dimetafora, del contesto economico e sociale.Bellamy individuava dunque in una inadeguatezzapolitico-filosofica una delle ragioni delpersistere dell’ingiustizia, sottolineando glieffetti inibenti di un’allucinazione collettiva cheinduceva chi riusciva a ottenere un posto incarrozza a pensare immediatamente a se stesso comead un essere umano dotato di particolari – emigliori – qualità (Bellamy 1963 [1888]: 13)27.

27 «The other fact is yet more curious,consisting in a singular allucination which thoseon the top generally shared, that they were notexactly like their brothers and sisters who pulledat the rope, but of finer clay, in some waybelonging to a higher order of beings who mightjustly expect to be drawn… The strangest thingabout the allucination was that those who had justclimbed up from the ground, before they hadoutgrown the marks of the rope upon their hands,began to fall under its influence. As for thosewhose parents and grand-parents before them hadbeen so fortunate as to keep their seats at thetop, the conviction they cherished of the essential

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Il riferimento di Tronto al testo di Bellamyrecupera la metafora della carrozza ma non siestende alla rappresentazione delle soluzionipolitico-istituzionali individuate da Bellamy permettere fine ad una competizione insana eautodistruttiva. I punti forti della parteprogettuale di Looking Backward sono contenuti in treproposte: l’istituzione di un esercito del lavoro,in cui prestare obbligatoriamente un periodo diservizio per la collettività, la garanzia di unreddito sociale garantito, l’introduzione di unasorta di carta di credito per favorireadeguatamente il consumo ed evitare unadeterminazione centralistica dei bisogni.

Mentre il riferimento alla carta di creditogarantisce la libertà dei cittadini in quantoconsumatori, quelli al reddito di cittadinanza eall’esercito del lavoro ripercorrono, pur con unadiversa modalità, le tradizionali ragioni dellegame tra Stato e cittadino. Se, come scriveTronto, è la capacità di prestare un servizio –generalmente qualificato come militare – ciò che,nella tradizione occidentale, ha qualificato unindividuo come cittadino, la caratteristica dellaproposta di Bellamy è che qui il servizio richiesto

difference between their sort of humanity and thecommon article was absolute. The effect of such adelusion in moderating fellow feeling for the massof men into a distant and philosophical compassionis obvious. To it I refer as the only extenuation Ican offer for the indifference which, at the periodI write of, marked my own attitude toward themisery of my brothers». Il riferimento è in Tronto2013 b: 44

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non ha a che fare con la difesa dei confini, ormaiinesistenti nella società globale delineata inLooking Backward. L’esercito del lavoro è impegnato,piuttosto, nella produzione di beni e servizi. È lacapacità produttiva e non quella militare che,nell’Ottocento inoltrato, l’economia capitalisticapone al centro dell’attenzione, inducendo Bellamy ariformulare i compiti della milizia.

Le necessità delle società post-industriali incui viviamo hanno differenti priorità. Automazionee tecnologia hanno oggi lasciato spazio a pocheattività ad alta intensità di lavoro: tra essefigura in primo luogo la cura dell’infanzia e delladisabilità, oltre che di una vecchiaia ormaiprotratta ben oltre le soglie delle aspettative divita dei secoli passati. Così come l’abolizionedella leva negli stati dell’Occidente, la cuidifesa è affidata a pochi soggetti altamentespecializzati, ha sanzionato l’obsolescenza diun’idea di servizio di tipo militare, l’automazionee l’informatizzazione ci dispensano dalletradizionali preoccupazioni relative alla capacitàproduttiva. Il cittadino della contemporaneità nonè più colui che può porsi di fronte allo Stato perdichiararsi in grado di fornire un adeguato volumedi lavoro produttivo, avendo provveduto ad allocarealle donne, nella sfera della domesticità e delprivato, il lavoro riproduttivo e la cura dellafamiglia. Sembra venuto ormai il tempo in cui, alcentro dell’attenzione delle società delVentunesimo secolo, debba essere situata la cura,nella sua duplice funzione di cura all’essere umanoe di cura all’ambiente che lo circonda. È su diessa dunque che bisogna ancorare un’idea dicittadinanza per il Ventunesimo secolo, in linea

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con quanto avvenuto nella nostra tradizione dipensiero in cui il riconoscimento dei dirittipolitici e sociali ha prima attraversato il confinedell’abilità alla difesa della patria e poi quellodella capacità produttiva.

Se prescindiamo dal collegamento tra esercitodel lavoro e reddito minimo garantito – uncollegamento che induce Bellamy a quantificare in24 anni il periodo di ferma necessario- quello chepossiamo oggi tesaurizzare è l’idea di un serviziocivile di breve durata, che garantisca la coperturasociale di alcuni bisogni di cura e tuteli tanto idiritti dei potenziali beneficiari che quelli deiprestatori di cura. Anche quello di prestare cura èun diritto28, sottolinea Joan Tronto, consapevolenon solo della generalità del bisogno di cura maanche della trasversalità del bisogno di essereattivamente inseriti nel tessuto sociale con ruolie funzioni che preservino il diritto alla dignitàdi ciascun individuo.

Nell’ottica di teorici dell’etica della curacome Joan Tronto (o, in Italia, Elena Pulcini),

28 Si veda Tronto 2013 b: 153, dove si legge«Are there rights to care? Clearly there are atleast three… First, we need to presume thateveryone is entitled to receive adequate carethroughout their lives; we can even call this “theright to receive care”. Second, there is a „rightto care“: everyone is entitled to participate inrelationships of care that give meaning to theirlives. Third, everyone is entitled to participatein the public process by which judgments are madeabout how society should ensure these first twopremises».

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l’approccio proposto non ha nulla di oblativo e dialtruistico. Non si tratta affatto di postulare, inalcuni esseri umani – storicamente femminili –, unapredisposizione innata alla relazione eall’empatia. Prendersi cura esige attenzione, empa-tia, ascolto, rispetto, non  altruismo e sacrificiodel Sé. Qualunque cosa si pensi della compassione,ciò di cui Tronto parla è qualcosa che si apprendecon l’educazione e con la pratica, anche in assenzadi specifica e presuntamente naturale inclinazione.Se, in area anglosassone, Martha Nussbaum29 hamolto insistito sulle possibilità offerte da unacultura capace di coltivare adeguate emozionipubbliche e di trasmettere l’importanza deisentimenti per la giustizia, l’ottica di Tronto èleggermente spostata: una democrazia sensibile allacomplessità, alle scelte e alle differenzequalitative può ben trovare – come in Nussbaum –utili risorse nell’esercizio della fantasia edell’immaginazione, ma ciò da cui non può in alcunmodo prescindere è la pratica e l’esercizio dellarelazione di cura. Importa dunque in primo luogosottolineare che

one can care – that is, engage in practices of care –without any special attitude for it, though perhaps notvery well. And to set this idea of caring – having theproper attitude as originary – misses the ways in whichcaring attitudes themselves arise out of caringpractices. It ignores the fact, to employ the languageused here, that attentiveness to needs can and mustitself be trained. Care-giving is not (only?) natural

29 Oltre che Nussbaum 2004 [2001], si vedanoNussbaum 2012 [1995] e 2014 [2013].

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and innate, one can become attuned to it (Tronto 2013 b:48).

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Abstract

CITTADINANZA DEMOCRATICA ED ETICA DELLA CURA

(DEMOCRATIC CITIZENSHIP AND CARE ETHICS)

Keywords: democracy, care, subject, politics,society

Contemporary philosophical thought hasinsisted on the inaccuracy of modern anthropologyand has centred on a new representation of thesubject. From the point of view of a Self whoperceives his neediness and is dependent on therelationship with the Other, political societyappears not to be exactly the same as was the casefor the autonomous and self-reliant subject ofmodern political thought.

The perspective which is here underexamination is that of caring. Starting withGilligan’s work In a Different Voice, care hasconstituted one of the main focuses of contemporary

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philosophy. Shifting the attention from the fieldof ethics and philosophy to the domain of politicsBenhabib and Tronto have utilized the concept ofcare in a new and promising way. Through ananalysis of their contributions care is assumedhere to be one of the possible responses to thepolitical problems of the XXI century.

MARIA PIA PATERNÒUniversità di Camerino Messina

[email protected]

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