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L'«Odissea» di Giovanna Bemporad, in: F. Condello, A. Rodighiero (eds.), \"«Un compito...

Date post: 17-Nov-2023
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Centro studi La permanenza del Classico Ricerche 34 ante retroque prospiciens Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Università di Bologna http://www.permanenza.unibo.it Pdf concesso da Bononia University Press all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali
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Centro studiLa permanenza del Classico

Ricerche 34

ante retroque prospiciens

Dipartimento di Filologia Classica e ItalianisticaUniversità di Bologna

http://www.permanenza.unibo.it

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Bononia University Press

«Un compito infinito»testi classici e traduzioni d’autore nel novecento italiano

a cura difederico condello e Andrea Rodighiero

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Volume pubblicato con il contributo di

Bononia University PressVia Ugo Foscolo 7, 40123 Bolognatel. (+39) 051 232 882fax (+39) 051 221 019

© 2015 Bononia University Press

ISBN 978-88-6923-083-7

[email protected]

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi.

Progetto di copertina: DoppioClickArt (San Lazzaro di Savena, Bologna)

Progetto grafico e impaginazione: Silvia Pastorino

Stampa: Editografica (Rastignano, Bologna)

Prima edizione: dicembre 2015

ALMA MATER STUDIORUMUNIVERSITÀ DI BOLOGNADIpARTIMENTO DI FILOLOGIA CLASSICA E ITALIANISTICA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONADIpARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

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SOMMARIO

Federico Condello, Andrea RodighieroRagioni per «un compito infinito»: considerazioni introduttive 7

Gianluigi Baldo«Orazio acuto e amaro». Odi ed epodi in sei poeti italiani 37

Giulia Bernardelli«Canto la lotta di un uomo…». Pasolini traduttore dell’ Eneide 61

Andrea Capra‘Poesia e non poesia’ nella Festa aristofanesca di Sanguineti 77

Federico Condello«Cinquant’anni dopo Quasimodo»: lirici greci e poeti italiani contemporanei (un dialogo fra sordi) 95

Marco FucecchiVenit odoratos Elegia nexa capillos: l’elegia latina in alcune traduzioni di poeti italiani contemporanei 121

Alessandro IannucciUn dramma borghese. Note alla traduzione dell’Antigone di Pasolini 133

Alfredo Mario MorelliCatullo, o il lepos ‘impossibile’ del secondo Novecento italiano (Quasimodo e gli altri) 153

Massimo NatalePolidoro e Anchise: Zanzotto traduttore dall’ Eneide 179

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Annalisa NeriL’ Iliade einaudiana: echi pavesiani nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti? 199

Maria Pia PattoniIl ‘marchio d’autore’: Giovanni Raboni traduttore di Antigone 215

Andrea RodighieroL’ Odissea di Giovanna Bemporad 229

Agnese SempriniVitrea fracta et somniorum interpretamenta: il Satyricon secondo Sanguineti 245

Martina TreuLa Medea ‘scancellata’ di Emilio Isgrò 263

Paolo ZoboliIl tiranno e il ribelle: Sbarbaro traduttore del Prometeo incatenato 277

AppendiceGiorgio IeranòIl Demiurgo e il Lampadario: avventure (e disavventure) di Kavafis in Italia 295

Indice dei passi 307Indice dei nomi (e dei traduttori) 311Indice dei concetti 317

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1. La forma del testo

L’esperienza traduttoria di Giovanna Bemporad (1926-2013) si configura fin dalla primissima adolescenza come un attraversamento non programmatico di epoche e letterature trascelte per affinità spirituale più che per ragioni dettate da committenze editoriali: i Veda, Saffo, Virgilio, il Cantico dei Cantici, i poeti dell’Ottocento francese (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine), la lirica romantica tedesca e di inizio Novecento, fino all’Elettra di Hofmannsthal. Ci troviamo, viceversa, di fronte a un esplicito program-ma che possiamo anche definire ‘esistenziale’ accostandoci al suo Omero. Nell’arco di quasi mezzo secolo – a partire dagli Esercizi del 1948, con tappa intermedia nell’edi-zione pubblicata dalla ERI nel 1968 e nel 1970, fino ai Canti e frammenti dell’Odissea (19922) – il lungo epos del ritorno di Odisseo costituisce un banco di prova sul quale il labor è continuo, «al punto di trascurare perfino la sua propria poesia»1, e che restitu-isce infine il poema quasi nella sua interezza. Giovanni Raboni – e con lui altri, come Gianfranco Agosti – seppe cogliere l’identità ‘ossessiva’ di questo percorso e la sua solo apparente duplicità (poesia propria vs traduzione); quello della Bemporad si configura infatti come

un lavoro di infinito perfezionamento ritmico e sonoro inteso a restituire all’endecasilla-bo tutta la sua intransitività e, come direbbe Zanzotto, il suo valore “mandalico”. È quasi impossibile, nel suo caso, fare distinzioni fra testi originali e testi derivati, cioè tradotti: negli uni e negli altri circolano la stessa ansia di assolutezza formale, la stessa vitrea in-candescenza, un’unica, rarefatta ossessione2.

1 Così Bemporad 2004, 176. Sulla sua poesia si vedano Russi 2011 e specialmente la ristampa con inediti degli Esercizi, in Bemporad 2010 (con antologia della critica) e 2011, e infine altri inediti in Paoli-Cirolla 2014.2 Si tratta di un testo del 1986 (Continuatori ed eccentrici, in Poeti del secondo Novecento. Storia della Lette-ratura Italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, n.e. a c. di N. Sapegno, Milano 1986, VII. Il Novecento,

Andrea Rodighiero

L’Odissea di Giovanna Bemporad

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Andrea Rodighiero

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Intendo qui concentrarmi più sulla meta che sul percorso; non si seguirà cioè la via dei raffronti stratigrafici: non ci si occuperà dell’evoluzione/trasformazione nel corso del tempo dei ‘modi del tradurre Omero’ da parte della Bemporad. L’operazione fornirebbe sicuramente materiale per una ricerca fruttuosa, ma a sé stante, e si potrebbe magari spingere analiticamente fino al punto di «rincorrere il destino umbratile di parole so-stituite o annegate nella fluttuante inquietudine delle bozze»3. Lo studio delle fasi di sedimentazione e assestamento, dunque, qui non troverà spazio. Di tale percorso dà in parte conto Maurizio Perugi nella prefazione al testo dei Canti e frammenti pubblicato dall’editore fiorentino Le Lettere4. Perugi insiste specialmente su una generale tendenza alla dismissione di un atteggiamento antiquario, sulla rinuncia a una patina linguistica antichizzante, e insieme sull’elezione a testo di un vocabolario mirante all’astratto, a discapito di più concrete e ‘somatiche’ descrizioni (specie relativamente alla natura dei sentimenti dei personaggi omerici) a favore di più sfumate caratterizzazioni psicolo-gizzanti. Per ricorrere a un solo esempio, non è più il «cuore» a restare «attonito […] / nel petto», ma – sacrificando la ‘anatomicità’ del sentimento – sarà piuttosto l’«ansia» a rendere Penelope «attonita, smarrita» davanti all’ormai disvelato e parzialmente rico-nosciuto Odisseo (il greco ha però già l’astratto, quale sede della vita psichica, per il concreto: θυμός μοι ἐνὶ στήθεσσι τέθηπεν a Od. XXIII 105: Bemporad 1992, 262).

Procedendo ancora per esclusione, nelle pagine che seguono non saranno moltis-simi i casi – ancorché non del tutto assenti – di raffronti con traduzioni omeriche di poco antecedenti o coeve5; alla sinossi delle versioni più diffuse si preferiranno le analisi di alcune procedure di ripescaggio traduttorio, con la conseguente evidenziazione di modelli intertestuali che appartengono a una tradizione letteraria alta e in fin dei conti, lo vedremo, primo-ottocentesca.

La scelta formale della Bemporad matura in assoluta distonia rispetto a tutto il Novecento. Tradurre l’esametro omerico in endecasillabi (ma anche i trimetri della tra-

tomo II, 209-248); ora in Raboni 2005, 224. Cf. anche Agosti 1992, 81: «non si avverte iato alcuno, né stilistico né “concettuale” (per così dire) fra poesia propria e poesia tradotta».3 M. Perugi in Bemporad 1992, XIV.4 In Bemporad 1992, VII-XX: si tratta del testo che già precede la prima edizione (Firenze 1990). Così scrive a p. XI: «rispetto alla versione del ’70, la Bemporad ha dunque lavorato su un’ampia zona dell’im-maginario omerico giudicata ormai improponibile nella resa, diciamo, tradizionale. Così il sapore repel-lentemente carducciano di una personificazione come “la sacra forza / di Telemaco” annega nella soluzione drastica “Con fierezza virile” (p. 228 [Od. XXI 101: ἱερὴ ἲς Τηλεμάχοιο]). […] E “la divina Aurora” che “ha rosee dita” […] diventa semplicemente “rosea nel cielo” (p. 73 [Od. IX 152: ῥοδοδάκτυλος Ἠώς])»: ma sull’epiteto si torna più sotto.5 Utili grafici e mappe su traduzioni e volgarizzamenti di poemi epici greci e latini fino ai nostri giorni in De Caprio 2012 (è proprio a partire dal Novecento che «gli istituti metrici tradizionali entrano in crisi […], il sogno del classicismo risulta ormai infranto […]. L’impegno a trovare corrispettivi moderni dei ritmi antichi aveva spinto, di fatto, verso la liquidazione della corrispondenza esametro-endecasillabo» già negli anni Venti a favore di metrica barbara e prosa: p. 68). Una lista parziale delle versioni pre-ottocentesche è in Federici 1828, 26-28 e Hoffmann 1839, 348-352, e – per l’Iliade – si vedano anche Morani 1989 e Ferrari 2015; interessanti riflessioni sulla difficoltà/impossibilità, per il traduttore, di una ‘negoziazione’ con certi aspetti del testo omerico, accompagnate da esempi, sono in Mureddu 2012.

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L’Odissea di Giovanna Bemporad

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gedia) è pratica consueta6, come noto santificata in via definitiva dalla coppia Monti-Pindemonte. Accanto alle loro, andranno menzionate almeno le prove parziali di Ugo Foscolo e di Giacomo Leopardi, ma anche gli esiti in metrica barbara di Giovanni Pascoli. Viceversa, la cercata dismissione dell’attrezzeria metrica tradizionale da parte di molta poesia novecentesca è una fra le ragioni che hanno condotto i traduttori di Omero alla rinuncia della forma versale chiusa, sostituita – quando non dalla prosa – dal ‘verso a verso’. La scelta maggioritaria a favore di traduzioni stichiche dei due poemi omerici e dell’Eneide è non poco influenzata dalla pietra miliare posta dalle resistentissime prove di Rosa Calzecchi Onesti7. È a lei, anzi, che si deve «il coraggio di rifiutare l’endecasillabo: un verso – secondo Vincenzo Di Benedetto – così condi-zionato da moduli e cadenze precedentemente sperimentati […] da inibire la ricerca di una dizione che intenda realizzare un recupero, per quel che è possibile, del testo omerico originario»8.

Nel caso della Bemporad, l’opposta elezione (anche nella produzione in proprio) del verso principe della nostra poesia si deve percepire come scelta di forma rivelantesi capace di trainare con sé anche tutta una zavorra linguistica, un lessico che è appunto, sotto molti aspetti, ‘tradizionale’ (cf. §§ 2 e 3)9. E su questa forma e con questo lessico la traduttrice applica torsioni sintattiche a volte condotte fino al limite di un manieri-

6 «Gli endecasillabi sciolti, in genere piani ma poi anche variati da saltuari sdruccioli e più di rado da tron-chi, furono usati I. come trascrizione italiana del trimetro giambico […] per la prima volta in ampie zone della Sofonisba del Trissino, composta nel 1514-15 […] II. come corrispettivo non metrico ma stilistico dell’esametro dattilico», ancora da Trissino nell’Italia liberata dai Goti (1524): cf. Menichetti 1993, 119.7 Complici le indicazioni di Cesare Pavese: si rinvia, in questo stesso volume, al saggio di Annalisa Neri, pp. 199-213. La Bemporad non amava la versione Einaudi: «le versioni più diffuse, tutte in una sorta di prosa ritmica, sono brutte: e brutte anche come italiano. Non riesco a capire come Pavese potesse lodare come “nuovo modo di tradurre” quello della Rosa Calzecchi Onesti che non ha nemmeno tentato di tradurre veramente Omero. L’Odissea di Aurelio Privitera, poi, è scritta in un italiano che non esiste. Solo la classica versione del Pindemonte è in parte riuscita, anche se soffre dell’eccessivo gusto neoclassico»: in Sandrini 1991, 4 (il giudizio positivo su Pindemonte, lo vedremo, è confermato dai dati linguistici).8 Di Benedetto 2010, 148.9 La Bemporad stessa parla di «dibattito» con l’amico P.P. Pasolini a proposito di questa sua forma di resisten-za (e di rottura anche rispetto alla teorizzazione ermetica e alla ‘poetica del frammento’: cf. Bemporad 1986b, 5); si vedano Bemporad 1998, 101s. e soprattutto le recensioni di Pasolini agli Esercizi su «Il Mattino del Popolo», 12 settembre 1948 (ora in Siti-De Laude 1999, 294-297) e all’Odissea del 1970 nel numero 22 di «Nuovi Argomenti» (aprile-giugno 1971: ora in Siti-De Laude 1999, 2589-2592). In Siti-De Laude 1999, 295 scrive che nel tradurre Omero la Bemporad si è «caricata di tutta la sua irrazionale poetica, sempre con un misto di letterarietà fin troppo ricca e abile, e di ingenuità quasi fanciullesca», e «con un endecasillabo Petrar-ca-Tasso-Leopardi»; più netto il giudizio espresso a inizio anni Settanta: «la tradizione classicistica ha assunto a elemento di stile la stereotipia, e, ancor più, la ridondanza. La Bemporad non si distingue da tale tradizione classicistica. La sua novità consiste nell’aggiornamento dell’area classicistica, fino a estenderla ai territori del simbolismo: e quindi a una tendenziale polisemia del lessico e a una tendenziale dilatazione semantica» (ora in Siti-De Laude 1999, 2591). Al rifiuto di uno strumento desueto come l’endecasillabo, «torbidamente esi-tante entre le sens et le son» (p. 2591), si associa l’invito a tradurre Omero in dialetto «o in un superlinguaggio macaronico e magmatico»: «non è questo suo anacronistico lavorio segreto dentro e contro il classicismo, che le rimprovererei. Le rimprovererei, se mai, di non aver voluto capire, nel corso della sua traduzione, che oggettivamente il testo dell’Odissea è un pastiche» (p. 2592). Nelle loro versioni di passi scelti dall’Odissea né Quasimodo 1945 né Ungaretti 1968 avevano fatto ricorso all’endecasillabo, se non desultoriamente.

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Andrea Rodighiero

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smo (sia detto senza implicazioni negative) decisamente lontano da un fluire piano del verso, da un’andatura, cioè, il cui ductus possa anche latamente avvicinarsi a uno stile prosaico (cf. § 4). Limitiamoci per ora a osservare che nella quasi totalità dei casi gli en-decasillabi hanno accento principale di 6a o di 8a, e solo molto di rado il lettore incrocia versi con accento principale di 7a o con accenti di 5a e 8a (del tipo «prese la lunga asta da guerra, salda»: Bemporad 1992, 5). Altrettanto rari sono gli sdruccioli, generalmente prodotti dal ricorso a verbi alla terza persona plurale posti in ultima sede, dove cioè l’accento di parola coincide con l’accento di 10a (e.g. «perirono», «decretarono», «por-tavano» etc.; più raramente sono sostantivi: «portico», «principe», e aggettivi: «inimi-tabile», «morbida», circoscrivendo la lettura al primo libro). L’andamento versale, che non sembra prediligere fenomeni di iato (mentre sfruttatissima è la sinalefe), è invece fortemente contrappuntato dall’impiego della dieresi, non segnalata graficamente (ma sarà da leggere «orïente», «Iperïone», «vïola», «Argeïfonte», «pïolo», «pazïente» etc.)10. È moderato l’uso delle rime («ginocchi / […] / […] occhi», con i due termini in posizione di rilievo a fine verso: Bemporad 1992, 13 e 19: Od. III 92-94 e IV 322-324), nonché delle consonanze e assonanze, contigue («mare», «cuore», finali di versi in successione: Bemporad 1992, 29, «onda», «roccia», «ossa», finali di versi contigui: ibid. 39) e anche a distanza (come e.g. «superbi […] / […] / […] servi»: Bemporad 1992, 5, e alla pagina seguente «per l’alta scala scese giù, non sola», insieme al ricorsivo «salda stanza» a Od. I 333 e passim: τέγεος πύκα ποιητοῖο).

L’impiego dell’inarcatura è inevitabilmente frequentissimo, così come la presenza di pausa sintattica dopo il quinario o il settenario di apertura dell’endecasillabo. Tornano utili, a esemplificare una pratica che percorre l’intero corpus, i primi versi del poema (Od. I 1-5: Bemporad 1992, 1), dove si osservino l’enjambement di «alta / sacra rocca» e le due pause sintattiche offerte da «di molte genti» e da «salvi i compagni», con conse-guente interpunzione: «l’uomo d’ingegno multiforme11, o Musa, / dimmi, che a lungo errò dopo che l’alta / sacra rocca di Troia ebbe distrutta; / che vide le città, conobbe l’indole / di molte genti; che soffrì, correndo / sul mare, in cuore suo molti dolori, / lottando per salvarsi e ricondurre / salvi i compagni». E si potrà aggiungere, in linea con quanto si scriveva poco sopra a proposito di una tendenziale astrazione terminologica, l’eliminazione di ψυχήν (qui ‘vita’ fisica) nella iunctura di v. 5: ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν κτλ, che diventa un più soggettivo «lottando per salvarsi».

10 Monosillabico e spesso in sinalefe è il pronome personale ‘io’: «mentre ad Itaca io vado, per spronare» (Bemporad 1992, 4).11 Per ammissione stessa della Bemporad il ‘multiforme’ che traduce πολύτροπον di Od. I 1 è un impre-stito che lei ricava da Pindemonte (si veda http://www.youtube.com/watch?v=XCSs8yidnHc#t=59, oltre che http://giovannabemporad.blogspot.it/, ricchissimo di materiale video [ultimo accesso: 28.08.2014]). Va in tutt’altro senso – e per questo è da segnalarsi – il primo verso della traduzione (anch’essa di lunga gestazione: dal 1942 alla definitiva del 1972) di E. Villa: «era un grand’uomo, straordinario giramondo» (ora in Villa 2005, 15).

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L’Odissea di Giovanna Bemporad

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2. nomi, epiteti e toni

A intenti almeno parzialmente conservativi sembra già ispirarsi la pratica traduttoria applicata ai nomi delle divinità: mai «Odisseo» ma sempre «Ulisse»12, mai «Zeus» ma sempre «Giove», in entrambi i casi dietro le scelte già di Monti e Pindemonte, e del resto anche di Foscolo e Leopardi (tuttavia in Bemporad non c’è mai «Minerva», ma sempre «Atena», mai «Diana» ma «Artemide»)13. Se nel caso dell’eroe la scelta – diffusa anche in versioni recenti, come in Di Benedetto 2010 – è probabilmente dettata dall’e-lezione del nome risultante sovrano nella nostra storia letteraria (a partire dall’Ulisse di Inf. 26), la decisione di latinizzare anche il nome del re dell’Olimpo allinea la Bempo-rad alle versioni neoclassiche più che a quelle del secolo appena trascorso.

Mantenimento e resa degli epiteti formulari rappresentano per il traduttore di Omero una sfida, e non basta forse sbarazzarsene come in alcune traduzioni recenti. La Bemporad sembra su questo crinale muoversi fra la consapevolezza di un traduttore ‘al passo coi tempi’ e un istinto non del tutto inconsapevolmente conservativo che fa arretrare la sua versione di parecchi decenni, rendendola (in fondo paradossalmente anche per questo) percepibile da alcuni come un potenziale ‘classico’ «che ambisce […] a rimanere a lungo l’Odissea della nostra epoca»14. È ciò che accade se partiamo dall’osservazione di quel γλαυκῶπις (per Atena) che la Bemporad rende a volte con «occhiazzurra»15. Si tratta di uno degli aggettivi tratti dall’Odissea di Ippolito Pinde-monte, che risale al 1822 (e.g. I 6816: egli ricorre anche a un ‘Occhiazzurrina’), e pure già in uso dai primi anni dell’Ottocento, nell’Iliade in prosa di Melchiorre Cesarotti e specialmente – e più volte anche al maschile – nelle sue Poesie di Ossian17. Si badi che nella versione della Bemporad non c’è sistematica omogeneità nella resa degli epiteti, ma Atena non è mai ‘glaucopide’: oggi il calco sarebbe incomprensibile, e giustamente la traduttrice vi rinuncia18. Per Poseidone ἐνοσίχθων e κυανοχαίτης viene prevista la necessità di sciogliere gli epiteti in perifrasi, con conseguente notevole espansione ter-minologica; da due soli aggettivi, ad esempio, in Od. III 6 (ἐνοσίχθονι κυανοχαίτῃ) la traduzione italiana ricava un verso e mezzo: «al dio che col tridente / scuote la terra ed ha la chioma azzurra» (Bemporad 1992, 11).

12 La BIZ non offre occorrenze di «Odisseo» che precedano d’Annunzio e Pascoli. Così la Bemporad: «non capisco la civetteria, poi, dei traduttori che scrivono Odisseo invece di Ulisse per mantenere la forma greca a tutti i costi», in Sandrini 1991, 4. Villa 2005 (ma cf. la n. precedente) mantiene ‘Odisseo’, ‘Zeus’ etc.: ne discute alle pp. 443ss.13 Spesso anche nella sequenza invertita – a fini metrici – rispetto all’uso consueto del nome della dea segui-to da epiteto: «Atena Pallade» (e.g. Bemporad 1992, 6: «da Troia Atena Pallade agli Achei»).14 M. Perugi in Bemporad 1992, XX.15 Come ad esempio in Bemporad 1992, 3 (Od. I 44). La nave è «prorazzurra» (solo) in Bemporad 1992, 136: Od. XII 354 νεὸς κυανοπρώροιο.16 Per le versioni di Pindemonte e di Monti si fa riferimento alla numerazione dei versi italiani.17 A sua volta traduzione-calco dall’originale di James Macpherson: blue-eyed.18 E. Villa (ora in Villa 2005: cf. e.g. p. 111s.) rende l’epiteto con ‘dea civetta’ (da γλαῦξ: cf. DELG s.v.; il senso rituale originario dell’epiteto omerico «doit être “à la face” ou “aux yeux de chouette”»); Villa dà conto di queste scelte – e di altre per gli epiteti – alle pp. 414ss.

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Andrea Rodighiero

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Il ricorso alla traduzione-calco è invece quasi costante per l’Aurora ῥοδοδάκτυλος, per il tramite di un «ditirosea» che allinea di nuovo la scelta novecentesca a Pinde-monte, il quale pure conosce la variante «ditirosata» (assente in Bemporad). È meglio avvedersi del fatto che già da questi radi indizi sembra vacillare un’ipotesi critica affasci-nante ma errata nella sostanza, quella cioè che avremmo a che fare con una traduzione ‘nuovissima’, in corsa lungo sentieri affatto estranei alla tradizione. Non è così. Più che costituire sonori relitti di memoria scolastica, però, i termini attinti dalla versione pin-demontiana servono al contrario essi stessi a imprimere al testo una coloritura epica e a suo modo straniante (dove l’epos si intenda avvertibile dal lettore da un lato sul piano del registro linguistico e dall’altro dell’ordo verborum).

In controtendenza rispetto a questa regola generale sembrano alcune soluzioni adot-tate per certi altri epiteti ricorsivi (e per alcune formule)19. Ἐϋπλόκαμος (letteralmente ‘dai bei riccioli’) è reso con un aggettivo solo in apparenza più generico e meno lettera-rio; dietro ‘ricciuta’, infatti (e.g. Bemporad 1992, 25: «la ricciuta / ninfa»), sia pure per via di reductio ad unum, riconosciamo l’ipotesto pindemontiano, che in V 75 rende il corrispondente Od. V 57s. (νύμφη /… ἐϋπλόκαμος) con «ninfa il crin ricciuta»20. E non dovrà perciò, viceversa, sorprendere la presenza di un appellativo ‘olimpico’ come «altitonante» per la resa del greco εὐρύοπα. L’epiteto, che designa Zeus ‘dalla voce vastamente risonante’21, è frequente sia in Monti che in Pindemonte, e ricompare tal quale nella versione di fine Novecento (Bemporad 1992, 17: Od. IV 173). Ma l’alter-nativo «Giove che tutto vede» in Bemporad 1992, 115 (Od. XI 436: di nuovo εὐρύοπα Ζεύς) mostra che il medesimo aggettivo può per la traduttrice assumere un significato che gli sarà proprio solo in epoca postclassica: quello, appunto, di ‘onniveggente’. Se la pericope «che tutto vede» è da Pindemonte adoperata in due distinti libri, e in en-trambi i casi per designare il Sole e rendere il greco ὃς πάντ᾽ ἐφορᾷ (in XI 144 e XII 415: Od. XI 109 e XII 323)22, non sarà forse da escludere anche la memoria diffusa di una pur minima tessera già dantesca e petrarchesca (Par. 21,50: «nel veder di colui che tutto vede» e RVF 347,6: «or nel volto di lui che tutto vede»). Sulla stessa linea, e perciò ben lungi – ripeto – da un atteggiamento di presa di distanza o (peggio) rifiuto rispetto alla tradizione ottocentesca, si dovrà porre l’epiteto che definisce Poseidone, quello

19 La Bemporad rinuncia ad esempio alle omeriche ‘parole alate’: cf. quanto scrive M. Perugi in Bemporad 1992, XII.20 E cf. anche XII 504: «la ricciuta il bel crin ninfa Calipso», dove però Od. XII 389 ha Καλυψοῦς ἠϋκόμοιο: nel medesimo passo di nuovo, con sovrapposizione fra ἐϋπλόκαμος e ἠΰκομος, Pindemonte è seguito da Bemporad 1992, 137: «Calipso, dea ricciuta»; l’aggettivo compare spesso anche al maschile, ma sempre come qualificazione di «crin[e]». Una sola occorrenza per «ricciuta», invece, nell’Iliade di Monti: XI 837. Andrà in ogni caso corretta la considerazione di M. Perugi in Bemporad 1992, X: «dell’attrezzatura genericamente montiana non restava, nel ’70 [ed. ERI], che l’epiteto “ben chiomata”, ora mutato in “ricciu-ta”» (si noti che il «ben chiomata» di Monti scompare del tutto nella versione pindemontiana).21 Così rende il GI3, che aggiunge come secondo traducente proprio ‘altitonante’, facendo quindi propria una lezione acquisita per il tramite dei traduttori neoclassici.22 La Bemporad (p. 103) rende Od. XI 109 (Ἠελίου, ὃς πάντ᾽ ἐφορᾷ καὶ πάντ᾽ ἐπακούει) con un’in-versione chiastica: «del Sole che ode tutto e tutto vede» (così anche a Od. XII 323: Bemporad 1992, 135: «di un terribile / dio che ode tutto e tutto vede, il Sole»).

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L’Odissea di Giovanna Bemporad

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«scuotiterra» (e.g. Bemporad 1992, 34) che è assente in Monti ma che vanta un paio di occorrenze in Pindemonte (XI 402 e XIII 195, e «Scotiterra» al v. 127 del leopardiano Inno a Nettuno), e che soprattutto da lì in avanti rimane lo standard italiano per il greco ἐνοσίχθων anche in versioni filologiche novecentesche23. Poco più sotto nella Bempo-rad trova addirittura spazio anche un «Enosigeo», molto diffuso in Monti e del Foscolo delle Grazie (I 29), di nuovo per ἐνοσίχθων (a Od. V 375: Bemporad 1992, 37).

Possiamo aggiungere ancora una tessera – e probabilmente a una più serrata analisi anche altre24 – a questo mosaico neoclassico che ad apertura di libro pare sparire sotto la levigatezza polita del verso, ma che risalta per cromatismi come depositatisi su una base più neutra; è il caso dell’attacco del libro VI, dove Odisseo, πολύτλας δῖος, dor-me ora che ha raggiunto Scheria (Bemporad 1992, 43: Od. VI 1s.): il greco ὣς ὁ μὲν ἔνθα καθεῦδε Ὀδυσσεὺς / ὕπνῳ καὶ καμάτῳ ἀρημένος viene reso da un quasi let-terale «laggiù, vinto da sonno e da stanchezza / dormiva il grande, travagliato Ulisse». Ma «travagliato» è di nuovo, insistentemente, impiegato nell’Odissea di Pindemonte, il quale in VI 2 si svela come la fonte certa della versione seriore: «mentre sepolto in un profondo sonno / colà posava il travagliato Ulisse»25. È applicata la medesima procedura di ripristino (si intenda: identica traduzione a identico punto del testo) anche a Od. IX 528, dove il greco κυανοχαῖτα, designante Poseidone dalle chiome turchine, viene reso con «Chiomazzurro»: «Poseidone, che cingi il mondo, ascolta, / Chiomazzurro!» (Bemporad 1992, 87, e di nuovo alla p. seguente: Od. IX 536)26. Ciò che fa pensare a un ripescaggio è il fatto che l’aggettivo ha in Pindemonte la sua sola e unica occorrenza proprio al corrispondente IX 676: «o chiomazzurro, / che la terra circondi, odi un mio voto»27.

I tecnicismi sono rari, ma anch’essi funzionano come innesco di una procedura di arretramento cronologico del dettato, e di impreziosimento; saranno da segnalare almeno l’anacronistico (e massicciamente usato da Carlo Goldoni, e anche da Eugenio

23 Ad esempio nella versione di G. Aurelio Privitera approntata per la Fondazione L. Valla, dal 1981: cf. e.g. Od. III 6 ἐνοσίχθονι κυανοχαίτῃ, «Scuotiterra dai capelli turchini».24 Come la resa di θεοειδής con «deiforme» in Bemporad 1992, 162, 222, 232 (Od. XVII 151; XX 350 e 363; XXI 186), diffuso sia in Monti che in Pindemonte.25 E cf. anche il suo II 431: «che del ramingo travagliato Ulisse», ma il greco ha qui καὶ ἄλγεα πολλὰ μογήσας (Od. II 343). A riprova dell’intarsio di inizio libro VI – e dunque a riprova del puntuale rinvio a quel passo della versione pindemontiana – rimane il fatto che si tratta del solo caso in cui alla dittologia formulare viene attribuita questa resa. In Bemporad 1992, rispettivamente alle pp. 29, 41, 53, 268 (Od. V 171; V 486; VI 249; XXIV 232) la coppia πολύτλας δῖος non viene nemmeno tradotta, mentre a Od. V 354, Od. XVIII 90 e Od. XXIV 348 rimane solo «Ulisse, eroe divino» (Bemporad 1992, 36, 183, 269: e «grande» a p. 145 [Od. XIII 353] e a p. 240 [Od. XXI 414]); a Od. XVI 186, ancora, si riscontra un «pazien-te, saggio Ulisse» (Bemporad 1992, 155), a Od. XVII 280 «il divino, scaltro Ulisse» (Bemporad 1992, 167 e in maniera simile a Od. XIX 102: p. 189), a Od. XVII 560 «l’infelice / divino Ulisse» (Bemporad 1992, 177), a Od. XXII 191 «paziente / divino Ulisse» (Bemporad 1992, 248), a Od. XXII 261 «tenace, scaltro Ulisse» (Bemporad 1992, 251).26 Ma «ed ha la chioma azzurra» in Bemporad 1992, 11: Od. III 6.27 Le parole che Antinoo rivolge a Eumeo e Filezio in Od. XXI 85 νήπιοι ἀγροιῶται, ἐφημέρια φρονέοντες, sono da Bemporad 1992, 228 rese con «sciocchi villani, dalla mente ottusa», da confrontarsi con lo «sciocchi villani, la cui mente inferma / oltre il presente dì mai non si stende» di Pindemonte in XXI 104.

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Andrea Rodighiero

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Montale)28 «tartana» (p. 32 e p. 79: «quant’è grande la base di una larga / tartana») per l’«ampia nave da carico» che si ricava dal greco di Od. V 249s. e IX 322s. νηὸς … / φορτίδος εὐρείης, e gli «stragli», i cavi di sostegno dell’albero che si spezzano a Od. XII 409: «una forte / raffica ruppe tutte [sic] e due gli stragli / dell’albero» (ἱστοῦ δὲ προτόνους: Bemporad 1992, 138)29. Sul medesimo asse linguistico – di nuovo un de-bito nei confronti di Pindemonte che impiega lo stesso termine al medesimo passaggio nel suo XXII 223 – collochiamo la «celata» (in luogo di un meno letterario ‘elmo’) in Bemporad 1992, 248, che traduce l’hapax odisseico τρυφάλειαν di Od. XXII 183.

Sull’asse opposto stanno invece soluzioni appena più basse, come la resa dell’affet-tuoso e vezzeggiativo πάππα φίλ᾽ (Od. VI 57) che Nausicaa rivolge al padre per farsi preparare un carro; esso è già tradotto con «babbo» da Pindemonte (VI 83), e alla stessa maniera suona in Bemporad 1992, 45: «vorresti, babbo mio, farmi allestire / quel carro alto»30. Ed è di nuovo Nausicaa a fornire l’occasione per un tono più familiare quando apostrofa con uno «state un po’ ferme, voi!» le ancelle spaventate alla vista di Odisseo (Od. VI 199 στῆτέ μοι, ἀμφίπολοι: Bemporad 1992, 51). Non mancano altri infor-mali colloquialismi, specie da parte di alcune personae loquentes. «Comunque sia, se uc-ciderlo non posso, / voglio nei guai cacciarlo fino al collo!» (Bemporad 1992, 34: ma si noti l’inversione complemento/verbo, su cui sotto) è l’espressione posta sulle labbra di un Poseidone adirato contro Odisseo e che rimugina tra sé piani di vendetta in Od. V 290 ἀλλ᾽ ἔτι μέν μίν φημι ἅδην ἐλάαν κακότητος. La Bemporad espande e integra («se ucciderlo non posso» è assente in greco), amplificando ἅδην (lett.: ‘al colmo di’) in un decisamente prosastico «nei guai […] fino al collo» che rimbalza in un «ora che ti ho cacciato in tanti guai» (p. 37: Od. V 377, anch’esso privo di un corrispondente letterale in greco)31. Risaltano, in ordine, altri colloquialismi che, assenti nell’originale, dirigono verso una lingua in alcuni casi «del tutto quotidiana, lontanissima dagli algidi fulgori neoclassici»32, come «di tasca mia / non posso mantenere chiunque arriva» (p. 157: Od. XVII 12s.), nonché un frasario proverbiale – già in greco – come quello posto in bocca a Melanzio: «allora è proprio vero che un cialtrone / si accompagna a un cial-

28 Si veda il finale di Vecchi versi (da Le occasioni), al v. 55: «ai muri antichi, ai lidi, alla tartana / che imbar-cava / tronchi di pino a riva ad ogni mese»; ma è anche nella Tosca di G. Puccini (libretto di G. Giacosa e L. Illica): «poscia a Civitavecchia… una tartana… / e via pel mar!», a. III, sc. 3, di Tosca che vuole fuggire con Cavaradossi (possibile ‘fonte’ per la Bemporad?).29 È forse troppo fragile il nesso con il v. 244 de L’ultimo viaggio di G. Pascoli: «la brezza nelle sartie e negli stragli». Un ulteriore anacronismo è costituito da un «là sul divano» (Bemporad 1992, 184) a Od. XVIII 190 αὐτοῦ ἐνὶ κλιντῆρι, ma si tratta in fondo del traducente offerto dai dizionari: GI3 s.v., mentre LSJ9 ha ‘couch’ e il Rocci ha ‘seggiolone; canapè’.30 Ma la Bemporad (pp. 157, 179, 238) rinuncia a tradurre l’altrettanto affettuoso ἄττ᾽ detto da Telemaco a Eumeo in Od. XVII 6 e 599 e XXI 369, preferendo un semplice «Eumeo». «Babbo» è già anche, al mede-simo passo, nella versione di Anton Maria Salvini (1723).31 Scrive giustamente Agosti 1992, 86: «il procedimento di aggiunta e sottrazione consente alla Bempo-rad di farsi a volte, in modo discreto, esegeta, secondo una linea che in fondo è già nel poema stesso: così vediamo che “Duramente Telemaco intervenne”, o “qualcuno disse, ironico, al vicino”, dove l’avverbio e l’aggettivo, assenti nel greco, anticipano e commentano al lettore il tono dei discorsi».32 Agosti 1992, 85.

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L’Odissea di Giovanna Bemporad

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trone: come sempre / iddio fa le persone e poi le accoppia» (p. 165: Od. XVII 217s.)33; «non hai preso un abbaglio» (p. 167: Od. XVII 273 ῥεῖ᾽ ἔγνως); «a crepapancia» (p. 181: Od. XVIII 3 ἀζηχές), e nell’ambito del medesimo episodio (è Iro a parlare) «che parlantina sfodera il ghiottone» (p. 182: Od. XVIII 26)34; «a crepapelle / ridevano» (p. 183: Od. XVIII 100 γέλῳ ἔκθανον). L’espressione di comportamenti eccessivi – con conseguente vocabolario descrittivo – non si concentra a caso, ma specialmente in precise zone testuali che prevedano la presenza o l’intervento diretto dei proci e del loro entourage.

Con una discreta frequenza il testo omerico è restituito non tanto in rese brachi-logiche (la soluzione che ci aspetteremmo in una versione metrica, ad esempio, che provasse a costringere l’intero esametro nello stretto spazio di un solo endecasillabo) quanto piuttosto in espansioni inattese, e a volte geniali. Mi limiterò a Od. XI 271-274, il passo della Νέκυια nel quale Odisseo descrive il suo incontro con la ‘bella Epicasta’. Così il greco:

μητέρα τ᾽ Οἰδιπόδαο ἴδον, καλὴν Ἐπικάστην,ἣ μέγα ἔργον ἔρεξεν ἀϊδρείῃσι νόοιογημαμένη ᾧ υἷϊ· ὁ δ᾽ ὃν πατέρ᾽ ἐξεναρίξαςγῆμεν.

E così Bemporad 1992, 109:

dopo, la madre splendida di Edipovenne, Epicasta, che commise ignaragrave peccato, unendosi a suo figlio;lui ciecamente, ucciso il proprio padre,la sposò.

Anzitutto si noti che l’aggettivo a grado zero καλήν (v. 271) viene reso da un amplificante «splendida», come ad anticipare la risonanza (verrebbe da pensare più cristiano-cattolica che greca) di quel «grave peccato» commesso da Epicasta, il traducente di μέγα ἔργον. Ma ciò che maggiormente stupisce è l’inserzione – non c’è corrispondenza in greco – di quel «lui ciecamente» che pare quasi anticipare un mito che l’epica non racconta, ovvero la vicenda teatrale e tragica di Edipo, destinato appunto a una cecità autoinferta dopo la morte della madre/sposa: una cecità non solo ‘di mente’ ma anche fisica35.

33 Νῦν μὲν δὴ μάλα πάγχυ κακὸς κακὸν ἡγηλάζει, / ὡς αἰεὶ τὸν ὁμοῖον ἄγει θεὸς ὡς τὸν ὁμοῖον.34 Ὢ πόποι, ὡς ὁ μολοβρὸς ἐπιτροχάδην ἀγορεύει.35 Mi domando se non dobbiamo anche supporre un trasferimento suggerito – di nuovo – dalla versione di Pindemonte (XI 347-352) e dal suo «per cecità di mente», che traduce l’omerico ἀϊδρείῃσι νόοιο di v. 272: «d’Edipo ancor la genitrice io vidi, / la leggiadra Epicasta, che nefanda / per cecità di mente opra commise, / l’uom disposando da lei nato. Edipo / la man, con che avea prima il padre ucciso, / porse alla madre».

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3. cellule certe

A confermare la almeno parziale intelaiatura classico-ottocentesca dell’enorme reperto-rio esposto dalla Bemporad aiutano alcuni groppi linguistici di origine non equivoca-bile. Si prenda, in Bemporad 1992, 29, la resa del greco di Od. V 174s. μέγα λαῖτμα θαλάσσης, / δεινόν τ᾽ ἀργαλέον τε: «il vasto abisso / del mare, orrido, immenso»; alla letteralità di una resa puntuale della coppia aggettivale δεινόν τ᾽ ἀργαλέον τε (‘terribile e penoso’) viene preferito l’inserto colto, citazionistico, con intrusione di una proprietà (l’idea dell’immensità del mare) assente nell’originale. Ma qui la tentazione per la ‘leopardiana’ Bemporad doveva essere troppo forte; perciò trova facile dimora, sia pure in tmesi, la iunctura dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «abisso or-rido, immenso / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (vv. 35s.: vertiginosa metafora della morte, e in fondo, dunque, immagine appropriata per il mare odisseico)36.

A una più puntuale ripresa, resa più efficace dall’identità del personaggio, si assiste nella traduzione di Od. IX 281 ὣς φάτο πειράζων, ἐμὲ δ᾽ οὐ λάθεν εἰδότα πολλά, che fa risaltare nel distico il debito nei confronti del modello dantesco (è Odisseo a par-lare): «disse, per raggirarmi; ma il suo gioco / non mi sfuggì (sono del mondo esperto)», che mette sulle labbra del personaggio omerico le parole dell’Ulisse infernale (Inf. 26, 98s.: «ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, / e de li vizi umani e del valore»). Un altro, ulteriore riflesso fornito dalla letteratura italiana su temi odisseici rimbalza anche sulla dittologia ἄκλαυτον ἄθαπτον, «[noi lasciammo/non lasciarmi] insepolto e illacrima-to» (Bemporad 1992, 101s.; Elpenore, morto, chiede a Odisseo una tomba: Od. XI 54 e 72), che ritrova per certo il suo ipotesto con variazione nel foscoliano «illacrimata sepoltura», al v. 14 di A Zacinto37.

Altri ulteriori indizi, sia pur minuti, di una deriva cercatamente neoclassica o per-lomeno di una patina d’antico sono offerti (ma sono solo excerpta di un più vasto repertorio) dal diffuso «ahimé», dal pronome di registro alto «ella», dall’impiego di un aggettivo di uso schiettamente letterario nell’espressione «in luogo aprico» (Bemporad 1992, 41: Od. V 476 ἐν περιφαινομένῳ), di «lattonzo» per ἔμβρυον (e.g. Bemporad 1992, 76: Od. IX 245), dalla resa di ὄβριμος con ‘grave’ (e.g. ibidem: «un fascio / grave di legna secca» e «un grave / macigno»: Od. IX 233s. e 240s.), da «mandre», dal diffu-sissimo, dantesco e poi leopardiano – e di frequente in Monti e Pindemonte, ma anche nelle poesie stesse della Bemporad – «più non» (si veda ad esempio «perché la ninfa più non lo attraeva»: p. 29, «ospiti degni / più non vi sono in casa nostra»: p. 197, «ma non c’è dubbio ormai che più non torna»: p. 221).

In un caso (Bemporad 1992, 45) l’uso dell’apparentato «né mai» sembra essere

36 La medesima, notissima cellula sembra ispirare anche il «combattimento orrido, immane» al v. 14 dell’A-jace di V. Cardarelli (1933: cf. Rodighiero 2010).37 Per Od. XI 54 e 72 Villa 2005, 196 ha «illacrimato il suo cadavere, e senza sepoltura» e «illacrimato e senza sepoltura». Similmente, mi pare, opera la memoria dantesca di Inf. 6,14: «con tre gole caninamente latra» (di Cerbero), che parzialmente si scompone in enjambement a descrivere Scilla (Od. XII 85: Bemporad 1992, 126): «là dentro abita Scilla, e orrendamente / latra» per il greco δεινὸν λελακυῖα.

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anticipazione di un più marcato imprestito. Si tratta della descrizione della dimora d’Olimpo (Od. VI 43-45)38. Così la Bemporad:

non la scuotono i venti, né mai pioggiala bagna, e non vi cade mai la neve,ma un purissimo azzurro, senza nubisi stende, e vi trascorre un luminosochiarore.

Già a leggere la versione che Pindemonte offre del medesimo passo avvertiremo una non dissimile intonazione, diciamo così, lirica: in VI 66-69 egli ha «che né i venti com-muovono, né bagna / la pioggia mai, né mai la neve ingombra; / ma un seren puro vi si spande sopra / da nube alcuna non offeso, e un vivo / candido lume la circonda». Ma non è tutto: la verticalizzazione lirica viene dalla Bemporad suggerita anche dall’inserto di quel «purissimo azzurro» sfrangiato via di peso dalla leopardiana Ginestra, dove si oppone a una viceversa umanissima «mesta landa» (vv. 161-163: «e su la mesta landa / in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle»)39.

Voglio di conseguenza pensare che non ci si sbaglia di fronte all’ipotesi di una dipendenza almeno fonica in Bemporad 1992, 47. La ‘donzelletta’ Nausicaa gioca a palla sulla riva con le compagne: forse a far germinare un verso come il traducente di Od. VI 115 (σφαῖραν ἔπειτ᾽ ἔρριψε μετ᾽ ἀμφίπολον βασίλεια), vale a dire «la reginetta, allora, a una compagna / lanciò la palla», è almeno l’impianto sonoro di «La donzelletta vien dalla campagna», l’endecasillabo che apre Il Sabato del villaggio. Si potrebbe anche trattare di un’intenzionalmente nascosta allusione, non dissimile da quella che pare operativa a p. 67, dove – a descrizione del banchetto nel quale i com-mensali si fanno versare vino e ascoltano il cantore – Odisseo commenta: «non c’è, mi sembra, stato più soave» (Od. IX 11), dove la scelta è un’eco che io direi certa del v. 48 del Sabato, data anche la collocazione del sostantivo: «godi, fanciullo mio; stato soave, / stagion lieta è cotesta»40.

38 Così il greco: οὔτ᾽ ἀνέμοισι τινάσσεται οὔτε ποτ᾽ ὄμβρῳ / δεύεται οὔτε χιὼν ἐπιπίλναται, ἀλλὰ μάλ᾽ αἴθρη / πέπταται ἀννέφελος, λευκὴ δ᾽ ἐπιδέδρομεν αἴγλη.39 Scopro che la Bemporad aveva ammesso il ‘furto’: «il mio autore rimane Leopardi. Quando nel canto sesto parlo del “purissimo azzurro senza nubi” […] la citazione leopardiana (dalla Ginestra) mi viene spon-tanea, dal di dentro»: in Sandrini 1991, 4 (e di «leopardismo integrale, si direbbe “di natura”, per opporlo a quel prolisso leopardismo ideologico, di fattura eminentemente cardarelliana, che per molto tempo è stato la vera malattia infantile del Novecento poetico italiano» (a proposito degli Esercizi) parla Trevi 1993, 114. A una liricità più dimessa paiono invece ispirarsi alcune chiuse di libro, non sempre letteralmente riprodotte: «andò calma e sicura / nella sua scia la nave, per l’intera / notte: quando arrivarono, era l’alba» (Bemporad 1992, 10: Od. II 434); «il sole / sparve, tutte le strade invase l’ombra» (Bemporad 1992, 14: Od. II 497); «cedeva il giorno alle ombre della sera» (Bemporad 1992, 179: Od. XVII 606).40 E di Stimmung leopardiana (con Agosti 1992, 84: di «basilare leopardismo di fondo») potremmo forse parlare anche nella resa del ‘motivo dell’usignolo’ in Od. XIX 518-521 (Bemporad 1992, 204): «come quan-do la figlia di Pandareo / fatta usignolo, amante delle selve, / se torna primavera il suo bel canto / sparge, posata tra le folte frasche / degli alberi; e gorgheggia in mille suoni / dolcissimi», anche senza immaginare una – pur possibile – reminiscenza dei vv. 162-165 delle Ricordanze: «se torna maggio, e ramoscelli e suoni

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4. La sintassi

Ma il vero scarto – lo si anticipava sopra – è fornito da una struttura sintattica che rimane ‘antichizzante’. Per questo non si può a mio avviso parlare (o non del tutto) di «deflagrazione del codice neoclassico»41. Esso rimane invece per così dire imploso, e perciò in qualche misura presupposto: a) dalla auto-iscrizione da parte della Bemporad nella cerchia linguistico-lessicale di una tradizione a volte ben riconoscibile, a volte più pallidamente distinguibile, ma in ogni caso di certo non tardo-novecentesca; b) proprio dalle tournures sintattiche.

Si accennava a una tendenza a solennizzare il dettato narrativo per il tramite di torsioni fino al limite del manierismo. Possiamo partire da alcune strutture semplici, li-mitando per questo aspetto l’analisi – valevole nondimeno anche per il resto del poema – al terzo libro e a parte del quarto. Vi osserviamo un frequente ricorso (è forse il feno-meno più presente) all’inversione complemento/verbo: «carni arrostivano i compagni» (p. 12), «al tuo fianco combattendo» (p. 13), «il giovane alla corsa / li sferzò» (p. 14); così accade a inizio del libro seguente: «nella valle scoscesa dov’è Sparta / giunsero, e si avviarono» (p. 15), «Telemaco raggiunse» (p. 18: dove Telemaco è complemento og-getto, il soggetto è Menelao), «se puoi notizie darmi di mio padre» (p. 19). È frequente anche l’allocazione del soggetto in ultima sede: «tutte le strade invase l’ombra» (p. 14); un analogo impiego ‘aulicizzante’ è riscontrabile anche in casi di doppio complemento: «la notte in casa sua / trascorsero» (p. 14), «sulla via del ritorno è già tuo figlio» (p. 21). La resa suona ancora più ‘inarcata’ nel caso di complementi accompagnati da aggettivi; in un couplet come «dei Ciclopi prepotenti, / senza leggi, alla terra noi giungemmo» (p. 71) la specificazione anticipata dall’iperbato («dei Ciclopi […] alla terra») contribuisce ulteriormente ad anticare il ductus sintattico, che pure prova a rispettare l’ordo verbo-rum del greco42. Ciò che stupisce nell’osservare l’applicazione costante del modulo di anticipazione del complemento sull’elemento verbale è il fatto che esso viene impiegato

/ van gli amanti recando alle fanciulle, / dico: Nerina mia, per te non torna / primavera giammai, non torna amore» (e si vedano anche, da un’inedita poesia dell’8-12 marzo 1944, questi versi: «perché ritorna primave-ra ogni anno / a chi l’aspetta. Ma da me non torna / la giovinezza mia […] / Ma c’è chi aspetta avidamente maggio / anche se a me più non ritorna amore»; la poesia seguente, del 21 marzo 1944 – attraversata da venature saffiche e ancora leopardiane – ha un incipit analogo: «ritorna il tanto sospirato aprile»; entrambi i testi sono ora in Paoli-Cirolla 2014, 58). «Qua e là – scrive Albini 1970, XI – affiora anche Pascoli, García Lorca: il sottofondo di “è più lodato il canto” [Bemporad 1992, 7] sono i Poemi conviviali [cf. Solon, 23: «più vecchio il vino e più novello il canto»], e gli “aggruppati venti” [Bemporad 1992, 35] hanno tutta l’aria di partire dai montes agrupados del Lamento per Ignazio [in Alma ausente]. Sotto, sotto, riappaiono in Omero anche poeti greci più tardi: se “il fiore di gioventù” (p. 178) [ma «fiore dei nostri anni» in Bemporad 1992, 264] rievoca Mimnermo [fr. 1,4 W.2], altrove si ha l’impressione di un non so che di Saffo: e l’impressione non si concreta in un richiamo preciso, nel rapido mutamento del tono e della situazione».41 Così M. Perugi in Bemporad 1992, XIII. A una simile ‘deflagrazione’ e a una presa di distanza dal codice neoclassico diciamo di un Monti crede anche Trevi 1993, 116; ma in fondo è anche e proprio attraverso l’impiego di una sintassi domata e la ripresa puntualissima di sintagmi, appunto, neoclassici, che si edifica nella Bemporad una sensazione di ‘sublime’ e «l’impressione di grandezza maestosa che la lingua di Omero produce nel lettore moderno» (ibid.).42 Od. IX 106s. Κυκλώπων δ᾽ ἐς γαῖαν ὑπερφιάλων ἀθεμίστων / ἱκόμεθ᾽.

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anche là dove la metrica consentirebbe comodamente il mantenimento della sequenza più consueta verbo/complemento. Oltre al citato «se puoi notizie darmi di mio padre», accade a un endecasillabo come «ma perché questa storia ti racconto?» (Od. XII 450: Bemporad 1992, 140), dove al fine di un innalzamento sul piano stilistico la dislo-cazione a sinistra del complemento prova a rispettare l’ordine del greco τί τοι τάδε μυθολογεύω;, benché fosse altrettanto possibile un più atteso «ma perché ti racconto questa storia?»43.

5. nota di chiusura

«Esiste – scrive la Bemporad – la possibilità di una traduzione univoca, di una resa felice, perfetta, che va scoperta tra diverse varianti concepite come approssimazioni […]. La meta che mi sono prefissata è quella di arrivare a una “trascrizione” più esatta possibile del poema omerico»44: a questo principio si ispira la sua versione, ma con la consapevolezza di avere alle spalle (sarebbe forse meglio dire: davanti a sé) una tradi-zione ben precisa, prima di tutto metrica, dentro la quale ‘trascrivere’ in resa emotiva «i toni diversi e contrastanti del dramma, della favola, della nostalgia, del sarcasmo, della crudeltà»45. Questa lingua ‘trascritta’, come abbiamo visto, è solo di rado una lingua letterariamente incolore, e si tinge invece di tutta una serie di tonalità rese appunto possibili proprio a partire dall’impiego del mezzo versale, al punto da essere definita da un suo prefatore – giustamente, credo – una «restaurazione»46. È come se l’antece-dente dentro questi endecasillabi diventasse più d’uno, e la lingua-fonte non fosse più soltanto l’originale greco, ma piuttosto un ventaglio di ‘originali’ che impongono un condiviso «sospetto di classicismo (quasi di tradizionalismo)»47. L’intento di fare della

43 Lo stesso si potrà dire di un verso con forte iperbato come «voglio le ancelle mettere alla prova / e tua madre», preferito a un atteso – e possibile, ma con accento di 7a – «voglio mettere alla prova le ancelle / e tua madre» (Bemporad 1992, 186s.: Od. XIX 45). Si legga, per contrasto, quanto scriveva Monti nelle sue Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade (1807) a proposito della trasposizione: «si adoperi, ma sia spontanea e naturale. Il troppo studiarla ne fa sentire la ricercatezza, e uno stile ricercato è sempre cattivo. Dante ne fa rarissimo uso. Nominativo, verbo, accusativo; ecco il suo solito. E nondimeno qual forza, qual precisione!» (ora in Valgimigli-Muscetta 1953, 1031).44 Bemporad 2004, 177.45 Bemporad 2004, 178; «la scelta della prosa […] toglierebbe al discorso omerico (o virgiliano) la loro es-senzialissima coerenza e corposità di respiro. E poi si converrà che tradurre in prosa un grande poema epico sarebbe come riprodurre in bianco e nero un grande affresco a colori» (p. 179: già in Bemporad 1989, 87).46 «La restaurazione (che è conquista, sperimentazione, non fissità in vitro) attuata per l’Odissea da Gio-vanna Bemporad è immediatamente visibile dal ritmo»: Albini 1970, VIII, il quale acutamente si avvede sia del «clima classicheggiante» sia del fatto che «in un verso del genere l’ordine logico è spesso violato: ma si ha una tale impressione di pulizia d’insieme […] che le inversioni, forse, si notano appena: le leggi di un suono piacevole garantiscono legittimità allo schema insolito» (p. ix).47 Così Raffaeli 2013. Si tratta del resto di un’ammissione di poetica ribadita più volte: «non è detto che chi oggi sente il bisogno di riallacciarsi alla grande tradizione del passato – nell’arte non c’è né passato né futuro, è arte solo quella che vive nel presente – debba essere necessariamente un retrivo o peggio un reazionario delle lettere»: Bemporad 1986a, 41.

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Andrea Rodighiero

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traduzione dei classici un «fatto poetico» in grado di fornire un preciso «contributo culturale»48 in questa indissolubilità di contenuto e forma non cela del tutto – per for-tuna – una sua propria dipendenza diciamo pure di scuola. Ne consegue che non siamo di fronte a un’‘opera nuova’ (sia detto senza alcuna intenzione riduttiva) né tantomeno tardonovecentesca, quanto piuttosto a una versione allineata un poco più indietro, e perciò, anche grazie a questa retrocessione, allocata essa stessa nel ristretto novero delle ‘traduzioni-testo’49.

Andrea RodighieroUniversità degli Studi di Verona

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguisticaviale dell’Università 4, I-37129 Verona

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L’Odissea di Giovanna Bemporad

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