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Politica di potenza nell’età del Leviatano

Date post: 28-Jan-2023
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IL MULINO

RICERCA

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rea Pio e Gemma, mio padre e mia madrealla mia generazione sopravvissuta in Bosnia,fratelli e sorelle

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rePOLITICA DI POTENZANELL’ETÀ DEL LEVIATANO

La teoria internazionale di Martin Wight

MICHELE CHIARUZZI

IL MULINO

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ISBN 978-88-15-12274-2

Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fo tocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attivi-tà della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

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INDICE

Introduzione p. 9

I. Prologo ad uno studio su Martin Wight 21

1. Premessa. - 2. «Why is there no English School?».

Wight e la scuola inglese. - 3. Appunti biografici. - 4. Il

legame con Toynbee. - 5. La croce del «magnum opus»

e il caso dell’umana provvidenza.

II. Nella guerra e nella pace. «Humana conditio» e

«telos» della storia 65

1. Premessa. - 2. Le ragioni della pace: il pacifismo.

- 3. Visione cristiana, «peripeteia» e crisi della politica.

- 4. Gli abusi della ragione e il prezzo del messianismo.

- 5. I limiti del pacifismo: il sistema di guerra.

III. Del senso della realtà internazionale 121

1. Premessa. - 2. Eterodosso o eretico? Wight come

realista politico.- 3. Realismo, idealismo, irrealismo. La

società anarchica e l’analogia domestica. - 4. «Machpo-

litik» e «power politics», poesia demoniaca e prosa

democratica. - 5. L’americanizzazione delle relazioni

internazionali e la rivolta inglese.

IV. Storia ecumenica e riflessione internazionalistica 169

1. Premessa. - 2. Il pregiudizio nazionale. - 3. Civiltà,

sistemi, società: il sistema ellenico. - 4. Civiltà, sistemi,

società: il sistema greco-persiano. - 5. Civiltà, sistemi,

società: il sistema moderno.

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V. Gli agoni intrecciati. Le tre tradizioni e la teoria internazionale p. 207

1. Premessa. - 2. Teoria come «diálexis». - 3. Che cos’è la società internazionale? Il dilemma delle tre tradizioni. - 4. Concezioni dell’umanità. - 5. La potenza e l’interesse nazionale. - 6. La guerra. - 7. L’equilibrio di potenza, la legge, l’etica internazionale. - 8. Una tradizione tra-scurata? Il pacifismo.

Epilogo. Le tre tradizioni nella storia. Un testo dialogico 277

Appendice. L’equilibrio di potenza, di Martin Wight 287

Riferimenti bibliografici 307

Indice dei nomi 345

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rePericolosissima è l’ingiustizia provvista di armi e l’uomo viene al mondo provvisto di armi per la prudenza e la virtù, ma queste armi si possono adoperare specialmente per un fine contrario.

Aristotele, Politica, I, 2, 1253a

Non c’è errore nel valutare il giusto (cioè il veramente utile) che rimanga impunito in quella vicenda di verità che è la politica.

L. Canfora, Tucidide, 52

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INTRODUZIONE

Questo libro tratta della riflessione di Martin Wight (1913-

1972) sulla politica internazionale. Se ne occupa cercando di dar

voce alle principali idee che concorsero a svilupparla ed esplici-

tarla, movendo da alcune domande che la riguardano: perché è

importante? Che cosa presenta di specifico e originale? Perché,

insomma, va conosciuta?

Nel volume si presenteranno, in particolare, tre insiemi prin-

cipali di questioni. Il primo è di tipo metodologico e concerne la

considerazione dei principi di metodo con cui condurre lo studio

delle relazioni internazionali. Il secondo è di tipo epistemologi-

co e riguarda come le relazioni internazionali dovrebbero essere

conosciute e comprese. Il terzo è di tipo ontologico e concerne

«ciò che sono» le relazioni internazionali. Questi tre insiemi di

questioni, ora individuati e separati artificialmente, sono destinati

in verità a confondersi nella complessità del pensiero che così

irrigidiscono. Tuttavia corrispondono a tre aspetti principali che

dovrebbero emergere da questo studio. Molti altri aspetti dell’o-

pera di Wight sono d’interesse, ma anche questi ne marcano l’o-

riginalità e l’importanza.

Viste con gli occhi di questo studioso educato alla specula-

zione sulla storia universale, le relazioni internazionali sembra-

no storicamente onnipresenti, perlomeno laddove si diano unità

politiche indipendenti in grado di distinguere tra sfera interna

e sfera esterna della politica, tra le relazioni che si svolgono al

proprio interno e quelle che ciascuna di esse intrattiene con le

altre. Da questa prospettiva, le relazioni internazionali nella storia

non sono incomparabili. Non lo è perciò neppure la riflessione

filosofica, diplomatica, giuridica e politica, che sempre accompa-

gna la vita internazionale nella sua vicenda storica. Proprio questa

contribuisce secondo Wight a formare la «teoria internazionale»,

un termine che impiega quale sinonimo improprio di teoria della

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politica internazionale o, come più s’intende ai tempi nostri, diteoria delle relazioni internazionali. Nel mondo accademico cor-risponde ad un campo del sapere relativamente giovane, forzata-mente parassitario d’altri ambiti di studio più antichi e riconosci-bili nella cultura occidentale e però sofferenti di una certa disat-tenzione per le relazioni internazionali intese come luogo politicodistinto o distinguibile.

Ogni periodo storico di convivenza internazionale ha avutoi propri interpreti e protagonisti. Taluni, come lo stratego Tuci-dide, il diplomatico Machiavelli, l’ambasciatore Grozio o il sov-versivo Mazzini, hanno incarnato entrambi i ruoli, conducendovita pratica e intellettuale in tempi di crisi politica. Quei tempiche sembrano offrire alla meditazione politica maggiori chancesdi durevolezza. Appena ventenne quando Hitler divenne Cancel-liere, anche Wight visse in tempi di crisi politica e non fu l’astra-zione formale la ragion d’essere del suo impegno intellettuale maun’esigenza di comprensione. Fu dunque, per molti aspetti, laricerca di un fertile rapporto proprio con gli interpreti e i prota-gonisti della storia del presente e del passato, suoi interlocutoriprivilegiati. Egli considera l’ordito teorico intrecciato da coloroche più hanno viva la coscienza della realtà, un segno indelebilesul tessuto della vita internazionale. Lo studio che Wight conducetende, però, ad abbracciare l’esistenza dell’uomo non solo nelladimensione della convivenza internazionale, bensì in un quadropiù ampio e complesso. Occorre quindi che si cerchi di conside-rare, per quanto utile e possibile, anche la molteplicità dei conte-nuti di quel quadro.

Sebbene i suoi scritti scavalchino i cancelli disciplinari e lebarriere delle specializzazioni accademiche che, come si vedrà,egli ha sovente stigmatizzato, e a dispetto di una statura moralee intellettuale forse meritevole di migliore attenzione, Wight èricordato nel campo degli studi quasi esclusivamente come inter-nazionalista. Addirittura come un «caposcuola», di una scuoladi relazioni internazionali cosiddetta «inglese». A questo fatto èdovuto anche il relativo interesse che ha suscitato la sua figura eil suo lavoro. Sarà perciò il tema d’apertura del volume.

La prima parte del libro (capp. I, II, III) cerca di offrire unquadro generale di questo pensatore, refrattario alle tradizionalicategorie con le quali è d’uso, ancorché contestato, classificaregli studiosi e il loro contributo al sapere internazionalistico. Per

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far questo occorre non recidere i legami che intrattiene con lacultura del suo tempo e considerare i diversi apporti, anche im-pliciti, anche contraddittori, che ha assimilato. D’altronde, dal-la polemica spesso esplicita con il sentir comune dominante lostudio delle relazioni internazionali nell’epoca in cui visse, ovve-ro dall’insoddisfacente esistenza che attribuiva alla disciplina ac-cademica da poco nata a tale scopo, Wight trasse motivazionisostanziali e proficui incentivi ad elaborare alcuni dei tratti piùoriginali del proprio orientamento di ricerca. Ciò fino alla severamessa in discussione dell’intelaiatura teorica fondamentale del-lo studio della politica internazionale, quel «programma massi-mo» che è il realismo politico nella sua propaggine internaziona-listica.

Wight può essere annoverato tra coloro che credono al prin-cipio manzoniano che il diritto e il torto non si dividono con untaglio netto. Non riteneva che nel tentativo di comprendere la po-litica internazionale giovasse conformarsi ad una singola correntedi pensiero, neppure a quella che, come il realismo, consideravaun presupposto informativo fondamentale di tale comprensione.Ad essa certamente non rinuncia, facendone però, soprattutto,uno strumento critico delle patologie della società internazionale,la società degli stati, allo studio della quale dedicherà il fulcrodel suo impegno speculativo. Senza dubbio una consapevole di-sillusione e un realistico disincanto sono componente caratteri-stica nonché essenziale del suo pensiero. Ma sarebbe grave erro-re lasciarvisi suggestionare fin tanto da annullarlo nel realismopolitico tout court. Sarebbe deduzione assai severa poiché, comeWight scrive, il realismo non è necessariamente sinonimo d’ana-lisi realistica. Di certo, quest’ultima è forza di lucido disingannoverso ogni inattingibile stato di perfezione; ad esempio, la paceperpetua. È l’antidoto essenziale a quell’utopismo politico che,inverandosi tanto nella condotta politica quanto nella sua teoriz-zazione, se incosciente dei vincoli del reale può rovesciare gli al-ti ideali in folli aspettative e persino tragedie. Wight giudica lavisione realista della politica, al pari di tutte le visioni parziali,piuttosto dogmatica. Ciò che cerca è maggior equilibrio e pro-fondità di quel che questa sembra offrire. La politica internazio-nale gli pare non solo una realtà stratificata bensì costituita dastrati diversi da quelli che il realismo politico ritiene, o sembratalvolta ritenere, esso solo, di riconoscere. Peraltro, sovente, con

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la pretesa che si tratti d’evidenza oggettiva – di realtà effettuale,

appunto.

Questa persuasione nutrita di scetticismo agì fortemente su

di lui, finanche a condurlo ad avanzare una teoria dialogica in cui

si convoglia una parte fondamentale del percorso più autentico

della sua riflessione internazionalistica. La teoria internazionale

di Wight è importante perché non solo affronta questioni fonda-

mentali ma propone, a loro confronto, concezioni concorrenti.

Specialmente nella seconda parte (capp. IV, V) è discussa questa

teorizzazione che si può dir fondata su un agnosticismo antidot-

trinario nonché una certa audacia anticonformista, controcorren-

te per lo spirito del tempo. È basata su un’originale tripartizione

volta a superare l’insoddisfacente ma tipica diade realismo-idea-

lismo. Quella che si può dire rappresenti, dal primo dopoguerra

in poi, la natura stessa dello studio delle relazioni internazionali

nel loro aspetto teorico. Insoddisfacente anche perché legata a

saldissime tradizioni e schemi di pensiero fatalmente fondate sul-

l’analogia domestica, cioè sulle pur diverse categorie interpretati-

ve che derivano dall’idea che gli stati si relazionino l’un con l’altro

come gli individui nello stato di natura immaginato da Hobbes.

Si tratta, allora, di riscoprire il valore anche critico di un ap-

proccio che non si lascia semplicemente racchiudere in schiera-

menti contrapposti, ed è perciò forza motrice di una diversa con-

cezione della vita internazionale, meno frequentata e forse più

complessa e insoddisfacente. Wight la definì una «via media»,

cosiddetta razionalista o groziana. Essa in larga parte si distanzia,

nella sua interpretazione, da quella tipica della maggioranza dei

pensatori, essi appunto convinti che le relazioni internazionali

non facciano altro che riproporre, su scala più vasta, la logica

dello stato di natura d’immagine hobbesiana. Dove dunque, tra

l’altro, non valgono o non contano criteri di carattere morale ai

quali, invece, Wight con fermezza si volge per nutrire non solo

l’analisi della politica e l’inestricabile dimensione normativa che

le è propria, ma anche la maturazione del proprio e dell’altrui

pensiero.

L’insoddisfazione di questo studioso è rivolta non solo alla

riflessione internazionalistica dei suoi contemporanei ma anche,

e per certi versi ancor più marcatamente, verso quella lasciata

dai pur così stimati predecessori, antichi e moderni. È ritenuta

essenziale ma per certi aspetti inadeguata all’importanza rivestita

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dalla vita internazionale per l’esistenza umana. In questa rifles-

sione politica, si direbbe pressoché la sola che giudica davvero

degna di attenzione, egli cerca le idee, le intuizioni, i concetti utili

ad affrontare i dilemmi irresolubili che, da secoli, con tratti di

rimarchevole continuità, si parano innanzi alla teorizzazione della

politica internazionale e al suo concreto svolgersi. È un metodo

d’indagine classico che, nel secondo Novecento, affronta una dif-

ficile fase d’esistenza e un’incerta sopravvivenza nel campo della

politologia internazionalistica, in prevalenza ostile ai cosiddetti

tradizionalisti ai quali Wight è polemicamente ascritto.

Le profonde convinzioni ideali visibili in questo pensatore

hanno anch’esse una collocazione controversa. Prodotto di una

carica morale, una spinta etica, tenacemente all’opera e talvolta

preminente, seppur spesso occlusa, nel suo libero fluire, dalle

costanti e intense pressioni della realtà internazionale sulle aspi-

razioni delle quali Wight si fece, a proprio modo, portatore e

tramandatore. Credeva in quei valori le cui tracce ricercò e seguì

nella storia internazionale e nella plurisecolare riflessione sul suo

svolgersi. In lui rimandano anche ad un’originaria matrice pacifi-

sta cristiana e ad un irenismo ontologico. Si tratta di un atteggia-

mento ispirato da una repulsione per la soluzione non pacifica dei

conflitti, pur nella consapevolezza delle ragioni della forza nella

vita internazionale e della esigenza di pragmatismo.

Studiando Wight si presenta una necessità. Occorre cercare

di distinguere la parte del suo lavoro più improntata alla neu-

tralità assiologica, orientata ad intenti descrittivi o esplicativi, da

quella di maggior valenza normativa o prescrittiva, condizionata

dalle inclinazioni personali. Valutando la prima va sempre tenu-

ta presente la seconda che, perciò, occorrerà in primis chiarire,

come si cerca di fare nella prima parte del volume. Ordine, giu-

stizia, l’agostiniano ideale del concordi vicinitate laetantia, ossia

la condizione più felice tra gli uomini, quella che nasce goden-

do della pace con i vicini. Sono questi alcuni dei valori che vi-

de talvolta assumere imperfetta forma e malsicura esistenza nel

precario, insoddisfacente, processo di istituzionalizzazione della

politica internazionale, centrale nel suo studio. Un processo spe-

cialmente legato a quella «tradizione costituzionale o Whig» della

diplomazia, come Wight la chiama, che traduce nella realtà del-

l’organizzazione della comunità umana i (per lui) migliori valori

occidentali nelle relazioni internazionali. È questa la tradizione

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di pensiero che Wight, pur tra dubbi e critiche, pone al centrodel suo studio internazionalistico. Come si cercherà di chiarire,la posizione intellettuale e i valori che rappresenta – o pretendedi rappresentare – sono per Wight un cardine per il confrontocon altre posizioni e valori.

Si tratta di valori persistenti quanto distorti, ricorrenti eppureoffuscati, coerenti ma discutibili. Certo sempre distinti arbitraria-mente ma da Wight meditati da occidentale autentico, colui che,secondo Aron [1955; trad. it. 1998, 69], accetta totalmente dellanostra civiltà soltanto la libertà che gli viene data di criticarla ela possibilità che gli viene offerta di migliorarla. Valori che nonsono una piccola vertigine per ingenui, o peggio. Wight non è unospirito neutrale e indifferente e spesso li avanza anche implicita-mente ma sempre evitando di percorrere il cammino di un acri-tico fideismo, così come quello di uno scettico indifferentismo.Oggi valgono anche per chi, nel caso, volesse distillare dallo stu-dio di questo autore anche un’eventuale quanto difficoltosa pras-siologia. La quale, comunque, andrebbe aldilà dell’unica finalitàveramente utile propugnata da Wight per lo studio, vale a direla trasmissione della cultura.

Durante il suo cammino intellettuale non gli venne a mancarel’umiltà verso l’opera degli autori che studiava, unita alla presadi coscienza della difficoltà di stillare dal loro pensiero ciò che ri-teneva utile alla propria intrapresa. Eccone testimonianza: «Ten-tando ancora una volta di scegliere con cura un sentiero attraver-so i boschi folti d’alberi dell’opera di Grozio, dove profondi epotenti principi si celano all’ombra di argomenti dimenticati, edesempi obsoleti giacciono come violette sotto rododendri gigan-teschi cresciuti a dismisura, ho capito che egli non intende ciò cheio ritenevo intendesse» [Wight 1977, 127]. Hedley Bull (1932-1985), allievo e per molti aspetti erede intellettuale di Wight, inuna replica tarda a queste parole dubitava di possedere il vigoreper percorrere il sentiero indicato dal maestro. Un dubbio espres-so in occasione delle conferenze che organizzò ad Oxford, percelebrare il quattrocentesimo anniversario della nascita di Gro-zio. Oggi sembrano scandalosamente profetiche. Morirà due annidopo, all’età di cinquantatré anni, prematuramente come Wight,scomparso a cinquantotto.

Avverte Bobbio nella Premessa a Thomas Hobbes che il meto-do analitico, volto principalmente alla ricostruzione concettuale

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di un testo e al confronto fra testo e testo dello stesso autore, non

si contrappone al metodo storico, che tende a collocare un testo

nei dibattiti del tempo, bensì s’integrano a vicenda. Per studiare

la teoria internazionale di Wight è necessario accostarsi non solo

alle idee di questo autore ma anche ai tratti preminenti della sua

biografia. Ripercorrendo così quelle esperienze di delusione, di-

singanno e disincantamento che ne forgiano la chiave per una de-

cifrazione che tenga conto anche delle valenze incompiutamente

espresse, delle motivazioni profonde, delle suggestioni ambien-

tali. È altresì necessario valutare le fonti ispiratrici, i riferimenti

intellettuali, gli orizzonti culturali che lo hanno influenzato. Oc-

corre considerare in termini sincronici il rapporto tra gli elemen-

ti costitutivi del suo pensiero ma, al tempo stesso, considerarne

l’aspetto diacronico. Detto altrimenti, valutarne il mutamento e il

problema dello svolgimento. Tener conto degli strati compositivi

della frammentata e incompiuta opera di quest’autore sulle rela-

zioni internazionali, nonché dei diversi momenti di composizione

temporale. Infine, per quanto possibile, riannodare la catena dei

tempi – per riprendere il parlar figurato del ministro Chaptal,

citato da Tocqueville nel discours d’ouverture all’Accademia delle

scienze morali e politiche.

Tenendo a mente il corso degli scritti pubblicati di Wight,

quello di un torrente mai impetuoso ma profondo, irregolare, e

costellato di tanti e importanti rivoli, si può mantenere una certa

fedeltà alle sue idee. Si può tentare di mantenere fede, perlomeno

un poco, a quel movimento delle opinioni di cui lui stesso parla-

va. Ciò non significa, in questo studio, affidarsi ad un percorso

cronologico bensì aver cognizione del dato cronologico. Si sa che

non saremmo in grado di narrare davvero esaurientemente nem-

meno un istante della nostra esistenza. Occorre quindi misurarsi

con un tentativo ermeneutico rivolto, prima di tutto, a trattare

quel che è qui arbitrariamente considerato un nucleo rilevante

dell’opera di Wight. Così il libro è ripartito cercando di scansare

ripetizioni e sovrapposizioni. Le quali, tuttavia, anche quando tali

non sono possono però così apparire nel momento in cui elementi

particolarmente significativi si rivelano in luoghi diversi o ripresi

da diversi punti di vista. Anche per questo si è cercata la precau-

zione necessaria al massimo rigore filologico possibile; che non è

pedanteria, bensì disposizione d’animo ad ascoltare i testi e non

far dire loro ciò che risulta più comodo.

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Le precauzioni non eviteranno incomprensioni o inesattezze,

anche perché, va detto e sarà ripetuto, si tratta soprattutto di

scritti postumi e talvolta incompiuti. Per di più spesso redatti

senza fine di pubblicazione da un uomo che, scomparso prema-

turamente, era restio a divulgare fuori di circoli ristretti la sua

produzione letteraria. Il loro recupero e trasmissione è stato per-

ciò vincolato a specifiche condizioni storiche. Soprattutto all’im-

pegno e alla perizia di varie persone, da cui potrebbero dipendere

anche eventuali errori, espunzioni indebite o arbitrarie omissioni

che possono favorire o sfavorire un particolare orientamento nar-

rativo. Ciò complica quell’autentica dialettica interpretativa scrit-

ta da Gadamer [1960; trad. it. 1983, 523-524]. La quale sembra

interessare ogni interprete e riguarda il carattere occasionale del

discorso umano non come casuale imperfezione della sua capacità

di espressione, ma espressione logica della vivente virtualità del

discorso, che fa entrare in gioco una totalità di senso senza po-

terla dire interamente. Sono passi celebri che è utile richiamare:

«Ogni discorrere umano è finito nel senso che in esso c’è sempre

una infinità di senso da sviluppare e da interpretare. Per questo

anche il fenomeno ermeneutico si può capire solo in base a questa

finitezza fondamentale dell’essere, che è strutturalmente legata al

linguaggio». Ciò ricordato, in questo libro, che è su un autore

certo non inequivocabile, non ci si appellerà al cliché dell’autore

enigmatico. Tanto meno alla nebulosa della complessità che al-

la fine non spiega nulla. Si cercherà piuttosto un’interpretazione

sforzandosi di raggiungere una «verità provvisoria», che è poi il

massimo degli esiti possibili per qualsiasi studioso, anche per co-

lui che è turbato da quest’ossimoro.

Gli scritti di Wight possono riservare gratificanti e inaspettati

compensi per chi vi si dedica. È il caso di un testo dialogico, qui in

appendice in traduzione italiana, esemplare della passione del suo

autore per questo mezzo stilistico ed essenziale per comprendere

il fulcro della sua teoria internazionale. Proporlo al lettore con

un’analisi critica vuole essere non solo scelta di metodo bensì di

contenuto. Insieme ad un saggio che reca titolo omonimo, pub-

blicato nel 1974 a cura di Luigi Bonanate, è finora il solo scritto

di Wight proposto al pubblico italiano, perlomeno a notizia di

chi scrive.

In Italia si è interessato di questo studioso Brunello Vigezzi

[1993, 2005], nell’ambito delle sue pionieristiche e insuperate ri-

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cerche sul British Committee on the Theory of International Po-

litics al quale Wight appartenne per quasi un ventennio. Senza

comprendere la vicenda di questo gruppo di studio, che fu un

eccezionale laboratorio di idee, talvolta accreditato come fosse

sinonimo della cosiddetta «scuola inglese», e spesso ad essa im-

propriamente assimilato, non è possibile comprendere compiuta-

mente Wight. Angelo Panebianco [1992] ne ha discusso alcune

idee e questioni, peraltro centrali, nel primo saggio italiano che

si è concentrato anche su questo autore. Altrove, tra note e bre-

vi cenni, si rintracciano i segni, magari preziosi, di uno scarno

interesse nei suoi confronti. L’esiguità dei contributi italiani non

sorprenda. Piuttosto si consideri che, a più di trent’anni dalla sua

scomparsa, si è lamentata l’assenza di una monografia su Martin

Wight1. Il che testimonia lo stato dell’arte a chi deve tenere in

considerazione previe interpretazioni sapendole, però, naturalitercircoscritte o disorganiche.

Diceva uno studioso del mondo antico che la storia degli studi

non è un divertimento che ci si concede la domenica, quando si

è stanchi della ricerca vera e propria, ma un asse portante del

lavoro intellettuale. Per quanto valgano le classificazioni di volta

in volta correnti nel mondo accademico, chi legge giudicherà ciò

che segue. È però bene premurarsi di chiarire un fatto che persino

Tocqueville tenne a precisare al principio di L’Ancien régime etla Révolution: non si tratta di una storia ma di uno studio. Ciò a

dire che non vi è l’intenzione di proporre una storia del pensiero

di Martin Wight, che resta problematicamente aperta, perlomeno

in questa sede. Si tratta bensì di comprenderne gli aspetti più

importanti legati ad un nucleo tematico che, concordando con

Bull, si può considerare, tra quelli a noi pervenuti, il suo contri-

buto più profondo allo studio delle relazioni internazionali nel

suo aspetto teorico.

Va ricordato, infine, che non vi sono garanzie che impedisca-

no di piegare in sede interpretativa le idee del nostro autore –

anche involontariamente. Ciò non è escluso, anzi. Alludiamo ad

un fatto verificato, ossia che selezione e interpretazione implicano

un giudizio di merito, un’assiologia dei fatti, la quale, tra acce-

x1 Solo dopo la chiusura di questo volume ho potuto prendere visione del libro

di Hall [2006]. Ci sono affinità e divergenze fra i due scritti, a partire dal titolo

stesso. Al lettore la possibilità di coglierle.

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lerazioni e decelerazioni, approfondimenti e ridimensionamenti,comporta una ristrutturazione soggettiva del tempo, del peso de-gli eventi e delle idee. Tra i tanti problemi del presente studionon è però questo il principale. Lo è semmai un intrinseco difettooriginario di capacità. Per scrivere con vera ragion critica bisognaconoscere tanto l’autore che si studia quanto tutto ciò che questoautore ha studiato. Ammessa e non concessa la prima condizione,occorre negare la seconda. Così, per aiutare la critica del lettoree la possibilità d’autonoma comprensione, questo scritto offre ci-tazioni dirette ma rilevanti, cercando di rendere immediatamen-te disponibili sorgenti testuali importanti che non si vorrebberoprolisse.

Wight di certo meritava molto più di queste linee ermeneuti-che di lettura sprovviste di tante, necessarie, mediazioni. Chi leg-ge deve quindi farlo senza eccessive speranze. Resta perlomenoquella racchiusa nelle parole finali di un placido commento diMomigliano [1987, 21]. Riguarda Le regole del gioco nello studiodella storia antica ma pare valido per qualunque studioso che «èlibero di scegliere il suo problema, è libero di scegliere le sueipotesi di lavoro, è libero di scegliere le forme di esposizione incui racconterà i suoi risultati. È libero perfino di illudersi cheegli racconta non per capire ma per il piacere di raccontare: perraccontare dovrà pur aver capito qualcosa».

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Ringraziamenti

Questo libro proviene dagli studi dottorali che ho svolto sotto la

direzione e la supervisione di Luciano Canfora e Angelo Panebianco,

conclusi nel giugno 2005. È difficile esagerare il mio debito con loro

e quanto grande sia non è possibile dire qui per esteso. Perlomeno

devo ricordare il sostegno ricevuto anche durante la stesura finale

dal professor Panebianco, senza il quale non vi sarebbero queste

pagine – per quel che valgono. Pur restando ovviamente l’unico

responsabile di quanto scritto vorrei ringraziare anche altre persone.

Filippo Andreatta per i costanti e preziosi consigli e i perspicaci

commenti, nutriti da rara generosità. Luigi Bonanate e Giuseppe

Galasso per la discussione della dissertazione originale e le critiche

che ne sono scaturite. Brunello Vigezzi per il discernimento, quel

poco, che ho potuto apprendere discutendo i temi legati a Wight

e al British Committee. Fulvio Cammarano e Paolo Pombeni per

l’aiuto ricevuto agli albori del mio impegno. Laura Barletta e

Paulo Butti per le accorte osservazioni e la mai negata attenzione.

Christopher Hill e Roger Epp per avermi chiarito alcune questioni

e nell’avermi aiutato a farlo da me. Marco Cesa, Marco Clementi e

Alessandro Colombo per le occasioni di confronto. Dario Ippolito

e Luigi Alberto Sanchi, compagni di studi così lontani, così vicini.

Fabio Petito e Lorenzo Zambernardi per gli scambi d’idee e le utili

indicazioni bibliografiche. Gabriella Lorenzi e la Scuola Superiore di

Studi Storici di San Marino per avermi agevolato in molte maniere.

Infine, devo molto al sodalizio con Elisabetta Brighi che ormai si

potrebbe misurare nella durata oltre che nell’intensità. Ubi amici, ibidemopes.

169

CAPITOLO QUARTO

STORIA ECUMENICA

E RIFLESSIONE INTERNAZIONALISTICA

1. Premessa

Nel 1926 Toynbee tenne una prolusione nella quale enfatizzò

ciò che volle definire «un punto di vista internazionale», capace di

sollevarsi al di sopra di quel che chiamò «pregiudizio nazionale»

[Tagliaferri 2002, 40]. Stava discutendo un’impostazione meto-

dologica che aveva un contrappunto ideologico. La sua origine

sta nelle due scelte di fondo che si stagliano di fronte ai liberali

inglesi nel corso della pluridecennale controversia tra una linea

«imperialista» del British Commonwealth, per farne una grande

potenza, e una linea «internazionalista», che aspira alla creazione

di un ordine internazionale, erede della tradizione costituzionale

britannica, fondato sulla sicurezza collettiva. Nel periodo che va

dalla conclusione della prima guerra mondiale, e fino al termine

degli anni Trenta, Toynbee è schierato vigorosamente tra i fautori

della seconda opzione. Tanto che la sua fiducia nella Lega delle

Nazioni è parsa addirittura «stravagante» [Thompson 1985, 34].

Questo orientamento di metodo imprime un vigoroso impulso al-

la pratica storiografica, conducendola alla valorizzazione dei fat-

tori di unità e d’interdipendenza della vita internazionale. Tra i

suoi intenti principali è quello di porre in risalto una concezione

diversa dall’interesse nazionale, con l’intenzione di consentire a

limitazioni della sovranità statale.

2. Il pregiudizio nazionale

Scrivendo nel 1958, proprio riferendosi all’interesse naziona-

le, Wight non mostra d’avere in stima questa «dottrina» nelle

relazioni internazionali, così «affascinante», contrapposta al «le-

galismo e al moralismo». L’idea che quando conducono una po-

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litica sensata gli stati siano guidati, e dovrebbero essere guidati,

da considerazioni d’interesse nazionale, gli pare una concezione

assai «indefinita» e facilmente destinata alla «tautologia» [Wight

1978a, 128, 129]1.

Il «punto di vista internazionale» proposto da Toynbee è in

netta contrapposizione ad un approccio ritenuto responsabile di

sacrificare l’unità sociale della civiltà occidentale, prodotta da

componenti culturali di lunga durata, a favore delle individualità

delle comunità nazionali. La sua origine si chiarisce in uno scritto

memoriale: «Il terzo, e forse il più grande merito della storia gre-

co-romana è che la sua visione è ecumenica, cioè universale, piut-

tosto che particolaristica, regionale. […] Nella storia greco-roma-

na, esaminata dal principio alla fine, l’unità è la nota dominante:

e su me, una volta entrato in quella sfera di grandezza, una volta

che ebbi ascoltato quella complessa sinfonia, la storia particolare

del mio paese, melodia solitaria e grezza, non bastò più a far presa

[…]». Cosicchè «uno dei miei punti cardinali era che il campo

anche più limitato di uno studio storico dovesse circoscrivere in-

tere società e non frammenti di esse arbitrariamente isolati, quali

le nazioni-stato [sic] del moderno Occidente, o le città-stato del

mondo greco-romano» [Toynbee 1948; trad. it. 1949, 8, 14].

È quella che Aron chiama la «position de combat du profes-seur Toynbee», vale a dire «le reproche de provincialisme qu’iladresse à tous les historiens nationaux, français, anglais, allemands,italiens, etc.» [Aron 1961, 19]. In una lettera citata da McNeill

[1989, 221], Toynbee stesso spiega al pensatore francese la ra-

gione fondamentale di questa posizione: «Quel che sto cercan-

do di fare è d’incoraggiare le persone all’interesse verso la sto-

ria come un tutto, come parte d’uno studio unificato degli affari

umani». L’argomento di Toynbee, quello che ora qui interessa, è

che al condizionamento esercitato sulle menti degli storici dal tri-

onfo dello stato sovrano dev’essere ascritta l’impostazione che li

x1 La critica di Aron [1992, 390] è simile: «Prendiamo per esempio, la formula

a volte presentata come teorica, secondo cui gli stati agiscono in funzione del

loro “interesse nazionale”. Formula altrettanto vuota di significato quanto quella

di La Rochefoucauld, che vedeva l’egoismo dietro i comportamenti apparente-

mente più disinteressati. Per dare ragione a La Rochefoucauld, è sufficiente

postulare che Beauchamp de Meredith annegato per salvare un bambino, trova

più soddisfazione a sacrificare la propria vita che a salvarla accettando la morte

di un altro».

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conduce negli angusti limiti della storia nazionale. Un’istituzioneche nulla riconosce di superiore a sé, neppure nei suoi rapportiesterni, prevalente solo in un particolare periodo storico di unaspecifica società, com’è quella occidentale, ha influenzato la pros-pettiva del pensiero moderno limitandone la portata e compro-mettendola. La tirannia dello stato sovrano superiorem non reco-gnoscens ha esercitato un dominio intellettuale sulla società occi-dentale [Toynbee 1934-60, I, 9].

Entrambe queste opzioni toynbiane, politica e metodologica,influenzeranno Wight. Della prima si è detto e ancora si dirà,mentre è la seconda che ora più rileva discutere. È proprio que-st’impostazione che rende palmare anche in lui la propensione adintendere lo stato moderno come una realtà storicamente limita-ta, transeunte. Soltanto una delle manifestazioni della politicità,e niente affatto la massima. «Noi consideriamo questo stato del-le cose come dato. Abbiamo unità indipendenti, che chiamiamostati, nazioni, paesi o potenze, e abbiamo tra loro un sistema com-plicato di relazioni, ora di guerra, ora di pace. Tuttavia gioveràalla nostra comprensione ricordare che è tutt’altro che la regolanella storia. L’attuale sistema in Europa è esistito approssimativa-mente dalla Riforma, e noi abbiamo l’illusione che sia normale»[Wight 1946, 7].

Wight non richiama esplicitamente Toynbee eppure l’argo-mento è il medesimo. Anzi, lo è anche l’esempio. Riprende, difat-ti, quello esposto dal suo mentore a proposito di quella illusionesulla normalità del sistema di stati che ebbero gli statisti di fron-te alla mappa politica europea del 1914: «Questa incarnazionedelle grandi potenze della società occidentale moderna in statiterritoriali locali era un fatto così familiare nell’ambiente politicoda essere comunemente assunto come un fenomeno inevitabilee permanente» [Toynbee 1925, 4]. Chiedeva perciò al lettore divedere gli stati come fenomeni politici subordinati ed effimerinella vita delle civiltà, «nel cui seno essi appaiono e poi scompa-iono», perché «sono soggetti a vita breve e a morti improvvise: laciviltà occidentale di cui voi ed io facciamo parte può rimanerein vita per secoli dopo che il Regno Unito e gli Stati Uniti saran-no scomparsi dalla carta politica del mondo, come i loro ultimicontemporanei, la Repubblica di Venezia e la monarchia Austro-Ungarica» [Toynbee 1948; trad. it. 1949, 315].

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Wight osserva, come Toynbee, quanto il pregiudizio dello

stato sovrano sia assai recente ma l’illusione sulla normalità del-

l’esistenza di un sistema di stati così dannosa alla comprensione

della vita internazionale. Lo fa stigmatizzando una conseguenza

del nazionalismo del diciannovesimo secolo, per la quale «noi

personifichiamo una potenza, chiamandola “essa”, e dicendo che

la Gran Bretagna fa questo, l’America domanda quello, e che la

politica dell’Unione Sovietica è qualcosa d’altro». È questo nien-

t’altro che un linguaggio politico «mitologico» che porta a per-

sonificare le potenze chiamandole Gran Bretagna, Stati Uniti, o

Unione Sovietica, «come se ciò fosse più significativo di John Bull,

lo zio Sam o l’orso russo» [Wight 1946, 10; 1978, 28].

A questo punto è ormai quasi pletorico segnalare un prece-

dente commento di Toynbee che, disperso nella sua opera ma-

gna, trasmette la profondità del debito del suo allievo. «Se stiamo

documentando la storia della nostra società occidentale», scrive

Toynbee [1934-60, I, 442-443], «non possiamo evitare l’uso dei

nomi mitologici degli stati in cui questa società è oggi articolata

– Gran Bretagna, Francia, Cecoslovacchia, e i loro sessanta o set-

tanta compagni – trattando queste persone fittizie come se fossero

esseri umani in relazioni personali l’un con l’altro. [Nondimeno]

“Francia” non è più vicino alla realtà di “Marianne”; neppure

“Gran Bretagna” di “Britannia” o “John Bull”». Senza indugiare

oltre nei richiami, basti dire che l’argomento di Toynbee è il me-

desimo poi sviluppato dal suo allievo.

Risalta, da un lato, il netto contrasto tra «la pluralità di sta-

ti locali in cui la società ellenica è stata divisa prima dell’asce-

sa dell’Impero romano» e, dall’altro, l’eguale contrasto con «la

pluralità di stati locali in cui la nostra stessa società occidenta-

le è stata finora divisa» [Toynbee 1946, 12]. Prima del sedicesi-

mo secolo in Occidente non esisteva un sistema di stati fonda-

to sull’idea della sovranità, ma una singola unità, la cristianità,

divisa fra l’autorità papale e imperiale. Retrocedendo nel tempo

fino all’Impero romano persino questa divisione viene a dissol-

versi. Tuttavia, risalendo ancora il passato, s’individua un siste-

ma di stati, quello greco-ellenistico. Ed è proprio questo che per

Wight «appare moderno ai nostri occhi, mentre l’immensa mae-

stosità della pace romana, e la cultura religiosa della cristianità

medioevale, sembrano remote e aliene» [Wight 1946, 7-8; 1978,

24].

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È dunque riflettendo sul perché non vi sia nella letteratura

una tradizione di riflessione internazionalistica, perlomeno ana-

loga a quella prodotta sullo stato e il buon governo domestico,

che Wight riprende con forza l’argomentazione toynbiana del

pregiudizio nazionale. Egli nota una differenza fondamentale tra

la «tradizione di speculazione sullo stato», la teoria politica, e

la corrispondente «tradizione di speculazione sulla società degli

stati», la teoria internazionale. Quest’ultima, «o ciò che d’essa

esiste, è dispersiva, incoerente, e in massima parte inaccessibile

al profano. È in gran parte scostante e in forma intrattabile. […]

Caratterizzata non soltanto da pochezza ma anche da povertà

intellettuale e morale» [Wight 1960, 18, 20]. Non vi è nulla di

analogo alla successione di opere del rango di quelle che vanno

da Bodin a John Stuart Mill, succedutesi nei secoli di riflessione

politica concentrata sullo stato e la vita politica al suo interno.

Il che non significa l’assenza di letteratura internazionalistica ma

la sua estrema dispersione e frammentazione. Mutatis mutandissembra evocare, con toni appassionati, ciò che Grozio [1625; trad.

it. 2002] scrive nei Prolegomeni del De jure belli ac pacis [§ I]:

Hanno molti autori intrapreso di rischiarare con commentari, o ridurre

a brieve mole il diritto civile, cioè le leggi romane, ovvero quelle della

propria patria: ma per quanto spetta al diritto che ha luogo fra molti popoli,o fra i rettori degli stati […] pochi hanno pensato di toccarne qualche

parte: non vi è almeno fin a questo tempo chi l’abbia spiegato in tutta la

sua estensione ed in forma di sistema.

Una delle cause di queste qualità della teoria internazionale

è – appunto – «il pregiudizio intellettuale imposto dallo stato so-

vrano» [Wight 1960, 18-20; 1991, 1-5]. Dal sedicesimo secolo la

società internazionale è organizzata in maniera tale che nessun

individuo, ad eccezione dei principi sovrani nelle loro capacità

di rappresentanza, ne può essere membro. È una società di stati

sovrani, e tutti gli individui devono essere cittadini a loro soggetti.

«Erasmo poteva ancora girare per l’Europa senza preoccuparsi

a chi avesse dovuto la sua lealtà temporale», commenta Wight.

Casaubon e Scaliger, qualche generazione dopo, «già appresero

che l’unica strada sicura per essere cittadini del mondo intellet-

tuale era di scambiare una lealtà sgradevole per una meno sgra-

devole» [ibidem, 21]. L’esempio è ancora analogo a quello a cui

ricorreva Toynbee, venticinque anni prima, per marcare l’evolu-

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zione della connotazione del termine «nazionale». Dalle «nazioniaccademiche», le nationes, ossia i raggruppamenti degli studentimedioevali occidentali, al significato novecentesco: «[…] Se adun occidentale medioevale istruito fosse stato chiesto quale fossela prima associazione di idee che la parola “nazione” richiamassealla sua mente, egli avrebbe risposto senza dubbio […] la costi-tuzione di una università» [Toynbee 1925, 5].

Da allora, osserva Wight, senza la sovranità su uno stato terri-toriale anche il Papa considera anomala e insicura la sua posizio-ne nella società internazionale. La protezione e la rappresentanzache ciascun individuo necessita al di fuori dei confini nazionalirappresenta l’espressione giuridica della credenza nello stato so-vrano come compimento finale dell’esperienza politica degli uo-mini. Il che, si è visto, per Wight così non è, essendo per lui glistati i membri immediati della società internazionale ma gli uomi-ni quelli finali, per i quali gli stati esistono (si veda il cap. III.3).Questa credenza, che ha segnato il pensiero politico occidentalealmeno fin dal Rinascimento, ha assorbito pressoché tutta l’ener-gia intellettuale consacrata allo studio politico, quasi cristallizzatasullo stato e la sua vita interna. Il focus della discussione teorica,l’attenzione preminente della riflessione, riguarda la natura dellasovranità, i limiti del potere sovrano, la sovranità popolare, la teo-ria del contratto. Lo sviluppo dello stato sovrano implica quellodelle relazioni internazionali propriamente intese, le relazioni in-terstatali, ma, a suo confronto, il loro studio è trattato come uncorollario ed è insoddisfacente.

È questo un fatto d’antico retaggio che si presta ad una spie-gazione. Per quanto la civiltà greco-romana avesse «relazioni in-ternazionali» il fulcro della riflessione pervenuta alle generazionisuccessive, sia ciò dovuto al fato della sopravvivenza di certi testio ad un fatto originario, è la polis, il luogo della politica propria-mente intesa, ovvero della virtù politica che implica il governo,le leggi, la pace [Wight 1960, 21]. I greci non svilupparono ilconcetto di una società di stati mutuamente vincolati da obblighie diritti. «Non ci fu un Grozio greco» [Wight 1966b, 126-127].Il senso di questo argomento e, a suo modo, un chiarimento, sievince anche da un commento di Momigliano [1987, 56]: «Laguerra era il centro della vita greca. Eppure l’attenzione che ipensatori politici greci dedicavano alle cause di guerra era trascu-rabile in confronto a quella che dedicavano ai mutamenti costi-

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tuzionali. Il giudizio è drastico: «Su Platone e Aristotele si puòsempre contare per ascoltare qualche cosa d’interessante, se nondi sensato, su qualsiasi soggetto, ma i loro contributi sulla guerrae la pace non reggono il confronto con ciò che essi scrissero suimutamenti costituzionali».

Wight non obbietta all’idea che la distinzione di Platone frapolemos e stasis nella Repubblica [470] possa essere consideratauna delle prime istanze per il governo della legge nelle relazioniinternazionali. Ma giudica queste famose bensì rare pagine unindice corretto e significativo della proporzione degli scritti grecisulla teoria politica dedicati specificatamente alla dimensione in-ternazionale [Wight 1977, 51; 1966, 126]. È pertanto un dato dicontinuità, nei secoli seguenti, considerare la politica internazio-nale come una trascurata periferia della politica interna e pensarealla teoria internazionale nel modo in cui lo è nei volumi di teoriapolitica, come un capitolo aggiuntivo che può ben essere trascu-rato2. Le parole rinunciatarie di Rousseau [1762; trad. it. 1970,843] nel capitolo in cui delinea quella che avrebbe dovuto costi-tuire la seconda parte delle Institutions politiques, in cui sarebbe-ro state sistematicamente studiate le relazioni internazionali, sonoun esempio d’esplicita conferma:

Dopo aver fissato i veri principi del diritto politico e aver cercato di dareallo stato il suo fondamento, resterebbe da rafforzarlo mediante le suerelazioni estere; e ciò comprende il diritto delle genti, il commercio, ildiritto di guerra e le conquiste, il diritto pubblico, le alleanze, i negoziati,i trattati, ecc. Ma tutto ciò costituisce una nuova materia troppo ampiaper la mia debole vita.

È questa nuova materia che per Wight rappresenta un ambi-to preminente, sul quale si concentra. «Gli storici del pensieropolitico […] hanno tracciato lo sviluppo della sovranità interna,di un’autorità suprema in ciascuna comunità. Noi siamo più inte-ressati allo sviluppo della sovranità esterna, l’affermazione d’es-sere politicamente e giuridicamente indipendente da qualsiasi su-

x2 Sartori [1987], difatti, lo trascura. In tutta la sua opera sembra dedicare

alla politica internazionale solo le otto pagine di Scienza politica e politica estera[Pasquino 2005, 267-284]. È un fatto tutt’altro che unico nella teoria politicacontemporanea, a partire da Max Weber che riserva alla politica internazionaleun unico contributo nel volume secondo di Economia e società.

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periore» [Wight 1977, 129-130]. In questa posizione echeggia ladistinzione esposta nel 1852 da Tocqueville. Egli richiamava duegrandi gruppi:

Gli uni, con l’aiuto sia dei racconti dettagliati della storia, sia dello studioastratto dell’uomo, ricercano quali siano i diritti naturali che appartengonoal corpo sociale e i diritti che l’individuo esercita, quali leggi convenganodi più alle società, secondo le forme che queste hanno ricevute nascendoo hanno adottate, quali sistemi di governo siano applicabili a seconda deicasi, dei luoghi, dei tempi. […] Altri tentano lo stesso lavoro a propositodi quella società di nazioni dove ogni popolo è un cittadino, società sempreun po’ barbara, anche nei secoli più civili, quale che sia lo sforzo fatto peraddolcire e regolare i rapporti di coloro che la compongono [Tocqueville1994, 443-444, corsivo aggiunto].

Incombe tuttavia irrisolto il quesito che Wight presenta svol-gendo un ragionamento antinomico:

È più interessante il fatto che così tante grandi menti siano state condotte,ai margini delle loro attività, a considerare i problemi basilari della politicainternazionale, o che così poche grandi menti siano state portate a fare diquesti problemi il loro interesse preminente? [Wight 1960, 19-20].

Ciò che gli preme evidenziare è che lo studio della politica, econ esso del «buon governo», non può essere confinato alle rela-zioni intrastatali ma riguarda parimenti, forse soprattutto, quelleinterstatali perché, in definitiva, «pochi pensatori politici hannoconsiderato lo studio del sistema di stati, la comunità diplomaticain sé e per sé, come il loro interesse» [Wight 1960, 22]3. Persi-

x3 Bull diede seguito a questa preoccupazione fin dal suo primo volume [1961,

28-29]. Ne tratta come un’indagine «sulla sicurezza internazionale piuttosto chesulla sicurezza nazionale, poiché non si occupa tanto della politica britannica odoccidentale […] quanto di quell’ambito comune fra tutte le grandi potenze cheforma la base della cooperazione o del mutuo compromesso […]. È importantedistinguere fra sicurezza internazionale, ossia la sicurezza dell’intera societàinternazionale, e sicurezza nazionale, ossia la sicurezza dei singoli stati e dellesingole nazioni». Chiarisce però un aspetto: «Gli agenti effettivi della politicainternazionale – potenze sovrane ed alleanze – non s’impegnano nella sinceraricerca della sicurezza internazionale, né se ne interessano necessariamente né nesono consapevoli. Interessati alla sicurezza dalla guerra e dalla disfatta, i governisi occupano della sicurezza della nazione di cui rappresentano gli interessi e lenecessità». In effetti, «la sicurezza nazionale può essere chiaramente perseguita inuno spirito di indifferenza per la sicurezza delle altre nazioni, come suggeriscono

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no tre grandi movimenti storici che hanno segnato lo sviluppodella società internazionale – la Riforma, la rivoluzione francesee quella bolscevica – non hanno scalfito il pregiudizio nazionalené mutato la condizione di subordinazione della teoria interna-zionale dalla teoria politica propriamente intesa. Se, come credeWight [1987, 221] le relazioni internazionali sono «lo stato deifatti che producono la teoria internazionale», ebbene nessuno diquesti tre fondamentali momenti rivoluzionari ha prodotto alcuncorpus teorico sulle relazioni internazionali che sia lontanamenteparagonabile alla riflessione da essi generata sulle questioni dipolitica interna, ossia sulla Chiesa, lo stato, la società, e sui lororispettivi rapporti [Wight 1960, 24 e ss.]. In particolare, conside-rando le relazioni fra gli stati e le istituzioni della società interna-zionale come la diplomazia, l’equilibrio di potenza, il diritto inter-nazionale, quali espressioni irrilevanti, inaccettabili, o destinatea scomparire dalla condizione umana, calvinismo, giacobinismoe marxismo non hanno concepito nessun contributo sistematicoalla teoria delle relazioni internazionali analogo a quello destinatoalla teoria politica.

Accanto al pregiudizio nazionale vi è un’altra causa che hainterdetto lo sviluppo della teoria internazionale. La politica tragli stati possiede una peculiare resistenza alla riflessione teoricaed è recalcitrante ad essere teorizzata. Lo è perché la teorizzazio-ne è un esercizio intellettuale da compiersi nel linguaggio dellateoria politica, cioè nel linguaggio appropriato alla sfera socialepienamente in controllo dell’uomo. Dove si svolgono, in modoregolare, relazioni sociali normali, essendo la guerra (civile) il casoestremo e inammissibile. Ma non è così la condizione della politi-ca internazionale. In essa si svolgono relazioni sociali contraddi-stinte dal ricorso alla guerra come pratica normale e ammissibile.

xespressioni quali splendido isolamento, Fortress America, o Festung Europa, chehanno rivelato lo spirito delle politiche delle grandi potenze. Per di più, lepolitiche nazionali sono spesso dirette verso la distruzione della sicurezza dialtre nazioni: all’eliminazione della loro indipendenza politica, se non della loroesistenza fisica, sia con la guerra sia con altri mezzi». La conclusione è eloquente:«Se le nazioni non possono cooperare per aumentare la loro sicurezza controla sconfitta, potrebbero almeno fare in modo di aumentare la loro sicurezzacontro la guerra; se non contro la guerra, almeno contro certi tipi di guerra;se non per assicurare la loro indipendenza politica, almeno per assicurare laloro esistenza fisica».

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È questo un momento delle idee di Wight spesso deprecatoe richiamato per dimostrarne, di volta in volta, o una posizionepregiudizialmente antiteorica (da un punto di vista epistemologi-co), o un profondo pessimismo, o un preconcetto verso lo studiodelle relazioni internazionali sotto forma di disciplina accademi-ca; oppure una qualche combinazione dei precedenti argomen-ti. In fondo, a ben vedere, queste considerazioni non sono peròeccentriche né distanti da convinzioni che hanno origini salde.Ai tempi degli antichi sembra prevalere un atteggiamento che lerichiama direttamente: «Le costituzioni erano opera umana e po-tevano essere modificate dagli uomini; lo studio dei mutamenticostituzionali era considerato utile ed era coltivato per questo.Le guerre restavano al centro della storiografia perché le guerrenon si possono evitare; ma le costituzioni passarono al centrodella filosofia politica perché in un certo senso si può evitare unacostituzione cattiva cambiandola con una migliore e più stabile»[Momigliano 1987, 56].

Come si è visto, Wight non sostiene una visione eulogica dellostato, tutt’altro. Resta il fatto che la teoria politica propriamenteintesa, quella concentrata sulla vita politica interna, riguarda inultimo il modo migliore di vivere. È una «teoria della vita felice»,scrive certo alludendo alla descrizione aristotelica nella Politicapur senza riferirvisi esplicitamente4. La teoria internazionale è,al contrario, una «teoria della sopravvivenza» [Wight 1960, 33].Non riguarda in ultimo il bonum vivere, il vivere bene, cioè il finedella comunità politica nazionale e dei suoi membri. Concernepiuttosto l’esperienza finale della vita o della morte, dell’esistenzao dell’estinzione nazionale. Riguarda in ultimo soltanto il vivere,anzi il sopravvivere, cioè il fine della società internazionale e deisuoi membri. Concerne i fondamenti dell’esistenza umana incar-nata nei valori, gli interessi, le credenze, persino i simboli per cuigli individui ritengono appropriato uccidere e morire, in nome eper conto di unità politiche che li rappresentano.

In questo sta la sua estrema rilevanza ma anche repellenzaallo studio teorico e la difficoltà persino a definirne le questionicardinali come il diritto d’intervento, il rapporto tra sicurezza e

x4 «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge

ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì perrendere possibile una vita felice» [1252b, 30].

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disarmo, i nessi fra cause e condotta della guerra. La complessitàdella politica internazionale, in primis la complessità delle sceltemorali che implica, si manifesta nelle domande che forzatamentesi pongono. La distinzione fra combattenti e non combattenti, ladisponibilità o il rifiuto di impiegare ordigni nucleari, l’ammettereo non ammettere obiettivi civili, distinguere fra risposta legittimaad un attacco e rappresaglia ingiustificata. «È questo il labirinto incui siamo persi», commenta Wight [2005, 33]. Il che non significache sulla politica internazionale non ci sia da teorizzare, o che lavita internazionale non possa, o non debba, essere fatta oggettodella teoria politica. Significa solo la consapevolezza dell’estremadifficoltà di simile impresa, confermata dall’evidenza storica, e delrischio teleologico che essa presenta, lo «scivolare in una teodiceache dopo un certo punto sembra sopraggiungere in tutta la teoriainternazionale» [Wight 1960, 33]5. Forse anche per questo lasicurezza più grande sarà per Wight la storia, come rivelano i suoiscritti ultimi dedicati alla comparazione tra sistemi di stati. Diquesti si tratterà nella parte restante del capitolo.

3. Civiltà, sistemi, società: il sistema ellenico

In A Study of History Toynbee chiarisce qual è la modalità distudio da privilegiare. I termini in cui occorre pensare sono quelli«dell’intero e non delle parti». Per porre ordine e comprendere larealtà storica di quelle che, in luogo di «civiltà», chiama «socie-tà», è necessario seguire le vicende dei suoi membri non separa-tamente ma simultaneamente. Ciò perché le forze in azione nonsono solo locali, nazionali, e non sono decifrabili nel loro operarefin quando non se ne è tratta una prospettiva comprensiva. Il si-gnificato del comportamento specifico di un membro è difficile acapirsi senza interrogarsi su quello degli altri e sulla serie di eventiche riguardano l’intera società [Toynbee 1934-60, I, 22-23]. Ilcampo intelligibile dello studio sono «società che hanno una mag-giore estensione, nel tempo e nello spazio, degli stati nazionali odelle città-stato, o di qualsiasi altra comunità politica». Le socie-

x5 Per Der Derian, difatti, il lamento più rilevante di Wight nei confronti

della teoria internazionale non è di natura epistemologica bensì teleologica [DerDerian e Shapiro 1989, 5, nota 1].


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