+ All Categories
Home > Documents > Psicologismo, riduzionismo, introiettivismo. La Nuova Fenomenologia e gli errori della storia dello...

Psicologismo, riduzionismo, introiettivismo. La Nuova Fenomenologia e gli errori della storia dello...

Date post: 23-Apr-2023
Category:
Upload: uniroma2
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
338
Director: Tonino Griffero – Coordinator: Michele Di Monte – Executive Secretary: Silvia Pedone e Marco Tedeschini Advisory Board: Alessandro Aleri, Brunella Antomarini, Emanuele Antonelli, Stefano Bevacqua, Richard Bösel, Luca Bortolotti, Alessandra Campo, Lazzaro Rino Caputo, Lucia Casellato, Dario Cecchi, Alessia Cervini, Gianluca Consoli, Barbara Continenza, Gianni Dessì, Maria Giuseppina Di Monte, Nicoletta Domma, Francesca Dragotto, Alessandro Ferrara, Alessandro Fiengo, Riccardo Finocchi, Saverio Forestiero, Elio Franzini, Elena Gagliasso, Gloria Galloni, Claudia Hassan, Giovanni Iorio Giannoli, Cristina Lardo, Micaela Latini, Giovanni Matteucci, Tiziana Migliore, Carmela Morabito, Giuseppe Novelli, Isabella Pezzini, Giovanna Pinna, Giuseppe Novelli, Christoph Riedweg, Massimo Rosati, Manrica Rotili, Franciscu Sedda, Antonio Somaini, Francesco Sorce, Marco Tedeschini, Claudia Terribile, Massimo Venturi Ferriolo, Pietro Vereni. Per informazioni: www.sensibilia.it – [email protected] Colloquium on Perception and Experience 7
Transcript

Director: Tonino Griffero – Coordinator: Michele Di Monte – Executive Secretary: Silvia Pedone e Marco Tedeschini

Advisory Board: Alessandro Alfi eri, Brunella Antomarini, Emanuele Antonelli, Stefano Bevacqua, Richard Bösel, Luca Bortolotti, Alessandra Campo, Lazzaro Rino Caputo, Lucia Casellato, Dario Cecchi, Alessia Cervini, Gianluca Consoli, Barbara Continenza, Gianni Dessì, Maria Giuseppina Di Monte, Nicoletta Domma, Francesca Dragotto, Alessandro Ferrara, Alessandro Fiengo, Riccardo Finocchi, Saverio Forestiero, Elio Franzini, Elena Gagliasso, Gloria Galloni, Claudia Hassan, Giovanni Iorio Giannoli, Cristina Lardo, Micaela Latini, Giovanni Matteucci, Tiziana Migliore, Carmela Morabito, Giuseppe Novelli, Isabella Pezzini, Giovanna Pinna, Giuseppe Novelli, Christoph Riedweg, Massimo Rosati, Manrica Rotili, Franciscu Sedda, Antonio Somaini, Francesco Sorce, Marco Tedeschini, Claudia Terribile, Massimo Venturi Ferriolo, Pietro Vereni.

Per informazioni: www.sensibilia.it – [email protected]

Colloquium on Perception and Experience

7

MIMESIS

ERRORE

A cura di Silvia Pedone e Marco Tedeschini

Traduzioni di:Silvia Pedone (J. Miller) e Marco Tedeschini (M. Seel).

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) [email protected]

Isbn:

© 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383Fax: +39 02 89403935

INDICE

INTRODUZIONE. L’ERRORE COME PROBLEMA 9

di Silvia Pedone e Marco Tedeschini

PER UN’ESTETICA DELL’ERRORE: LA GLITCH ART 11

di Alessandro Alfieri

L’ERRORE, O DEL CARATTERE FANTASTICO DEL MONDO 25

di Brunella Antomarini

ERRARE NEL LABIRINTO DELL’ERRORE 43

di Stefano Bevacqua

MACHIAVELLI: L’ERRORE E LA VIRTÙ 57

di Giovanni Dessì

L’OCCHIO AMMAESTRATO. SULLO STATUTO CONOSCITIVO DELLA STORIA DELL’ARTE (VISIVA) 71

di Michele Di Monte

DISTRUGGERE, DISSE. AUTORITRATTO DEL FILOSOFO DA ARCHITETTO 99

di Filippo Fimiani

IMMAGINI ERRATE O ERRORI IMMAGINATI? 113

di Riccardo Finocchi

L’ERRORE E L’EVOLUZIONE 133

di Saverio Forestiero

L’ERRORE DELL’IMMAGINAZIONE 149

di Elio Franzini

L’ERRORE INTERNO AL METODO: UNO SCENARIO FENOMENOLOGICO 159

di Sara Fumagalli

PSICOLOGISMO, RIDUZIONISMO, INTROIETTIVISMO. LA NUOVA FENOMENOLOGIA E GLI ERRORI DELLA STORIA DELLO SPIRITO 173

di Tonino Griffero

CRONOTOPI “SCONVENIENTI”. L’ERRORE E IL LOCUS AMOENUS NELL’ORLANDO FURIOSO DI LUDOVICO ARIOSTO 197

di Cristiana Lardo

ERRORI DI VALUTAZIONE 213

di Jerry Miller

LA STORIA DELLE SCIENZE DALL’ERRORE ALL’OSTACOLO EPISTEMOLOGICO 229

di Mattia Della Rocca - Gloria Galloni - Carmela Morabito

LA QUESTIONE DELL’«ERRORE» IN LUDWIG KLAGES 243

di Giampiero Moretti

MA COME TI VESTI? ERRORI E TRASFORMAZIONI NELLA TELEVISIONE CONTEMPORANEA 255

di Marta Perrotta

L’ARATRO E LA STELLA: TUTTO È IEROFANIA, BASTA SAPER GUARDARE.LA SECOLARIZZAZIONE COME ERRORE 271

di Massimo Rosati

IL FILM COME IMMAGINAZIONE 287

di Martin Seel

A NATURAL DISASTER. L’ERRORE DUALISTICO ALLA LUCE DEL POST-UMANO 307

di Davide Sisto

L’INDICE DELL’ERRORE. LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE

E IL PROBLEMA DELLA CREDENZA VERA GIUSTIFICATA 321

di Marco Tedeschini

GLI AUTORI 331

9

INTRODUZIONEL’ERRORE COME PROBLEMA

di Silvia Pedone e Marco Tedeschini

Che la diritta via era smarrita […]Dante, Inferno, v. 3

Cuiusvis hominis est errare;nullius, nisi insipientis, in errore perseverare

Cicerone, Phil., XII, 5

Difficile trovare un’esperienza più ordinaria dell’errore e, nonostante ciò, non è quasi mai possibile eliminare del tutto la bruciante o imbarazzan-te reazione che ne consegue. Addirittura si può scoprire, in colui che “met-te a nudo” l’errore, quella certa imperterrita soddisfazione di chi sa qual è la cosa effettivamente giusta da fare o da dire. Un dato certo è che all’erro-re, non ci si abitua e, soprattutto, non ci si arrende. Mai. L’errore alimenta speranze e paure. In fondo è uno spettro. Ci accompagna e capita che ci preceda e ci segua. La storia ci ha consegnato numerosissimi modelli a tal proposito, dall’idea giudaico-cristiana di peccato d’origine a quella pura-mente filosofica di oblio dell’essere. Problemi, potremmo dire, a non fini-re: esistenziali e, così, morali, epistemologici, politici, estetici. L’errore co-stituisce forse il problema, puntualmente rimosso, in qualunque contesto di vita: ordinaria, professionale, scientifica. Dunque l’errore ha un tempo ed è inanticipabile. In effetti, di esperienza dell’errore è improprio parlare – a meno di non considerare uno sbaglio intenzionale uno «sbaglio» –, essa viene sempre ricostruita, poiché è l’esito di un ripensamento, esige un pun-to di osservazione esterno o successivo al momento dell’errore. Anche nel caso dell’illusione ottica, benché persistente, essa è riconosciuta come tale ex post. Se si sbaglia è perché si è inizialmente convinti di fare la cosa giu-sta e, solo dopo il sopraggiungere di “qualcosa” o “qualcuno”, la verità può, in certo modo, essere recuperata. L’errore, pertanto, non si dà subito in maniera trasparente, ma si annida, piuttosto, in quella zona opaca che

10 Errore

però, spesso, costituisce il presupposto non detto del nostro agire, pensare e sentire. Ma proprio per questo rappresenta il primo passo verso una cono-scenza realmente fondata. L’errore inteso rettamente – senza errori – con-sente di osservare i limiti o i condizionamenti che hanno determinato una certa conoscenza, un certo agire, una data impressione. O, quando essi non siano accessibili né evidenti, di sospettare almeno delle motivazioni che hanno condotto allo sbaglio. Si rende così quanto mai opportuna e attuale un’analisi multifocale di questo concetto, che è esteso ed estendibile agli aspetti dell’umano e persino a quelli della natura. Una dimensione, dunque, tanto più stimolante in un contesto di ricerca come quello di Sensibilia – Colloquium on Perception and Experience. Il 2013, che costituisce il setti-mo anno dell’edizione dei colloqui internazionali del gruppo di Sensibilia, è stato interamente dedicato al tema dell’Errore. Aspetti anche apparente-mente distanti, restituiscono al concetto stesso la sua ricchezza applicativa e la sua urgenza tematica. Nel presente volume raccogliamo gli atti di que-sta riflessione interdisciplinare, certi di consegnare al lettore uno strumen-to utile per accostarsi o continuare a meditare una questione tanto spinosa e sempre all’ordine del giorno.

***Il 30 gennaio 2014 è venuto a mancare improvvisamente il Prof.

Massimo Rosati. Oltre a essere membro del board di Sensibilia – e, dunque, sostenitore in prima persona di questa iniziativa scientifica – aveva contribuito alla riflessione sull’errore con un proprio lavoro, presente in questi atti. Alla sua memoria è dedicato questo volume.

11

PER UN’ESTETICA DELL’ERRORE: LA GLITCH ART

di Alessandro Alfi eri

1. Interrogativi teorici e definizione

In linea generale, parlare di “errore” in ambito artistico è già di per sé un problema teorico di grande finezza: rispetto all’orizzonte epistemologico o gnoseologico, la categoria dell’errore è ben più problematica in estetica; difatti un qualsiasi errore di ordine tecnico (il rapporto tra le proporzioni dei volumi che compongono un corpo rappresentato ad esempio), stilistico o contenutistico (delle inesattezze di ordine storiografico o delle incon-gruenze in uno sviluppo narrativo), nella resa finale dell’opera si rende completamente autonomo dalle intenzioni dell’autore, e trasfigurato nell’e-spressione artistica quell’errore viene riscattato assumendo comunque un significato, magari allegorico o simbolico. Questo è altrettanto vero quan-do si pretende di parlare di “errori volontari” (pensando alla sperimentazio-ne di diverse avanguardie novecentesche nelle varie arti), un ossimoro che evidenzia da subito la problematicità di parlare di errore in arte; ma d’al-tronde questo è altrettanto vero anche lì dove l’errore sembra mantenere il proprio autentico statuto ontologico, legato all’imprevedibilità, alla contin-genza, ai limiti del calcolo: nel momento in cui l’errore si fa espressione ar-tistica, esso muta di segno assumendo una precisa e alternativa densità se-mantica.

In questa occasione vogliamo fare riferimento a un genere artistico con-temporaneo, diffusosi negli anni ’90 e tutt’ora particolarmente vivo, che ha segnato soprattutto la musica elettronica contemporanea e che, in seconda battuta, ha lasciato un’interessante testimonianza e produzione anche nelle arti visive. Ci stiamo riferendo alla Glitch Art, genere artistico strettamen-te connesso da un lato alla video arte e dall’altro alla fotografia, ma che ha non trascurabili rapporti anche col videogame, col web e coi linguaggi di programmazione in genere. L’interrogativo che proverò a proporre all’in-terno del presente saggio è se in questo nuovo genere o tecnica di produzio-

12 Errore

ne artistica, completamente numerica, risultato di processi informatici di-gitali, il valore dell’errore mantenga quell’“inconsistenza ontologica” che, come dicevamo, aveva nell’arte classica e moderna, oppure se qui, alla luce delle mutate competenze e ruoli affidati all’artista, da un lato, e alla macchina, dall’altro, e soprattutto dato il valore fondante che nella Glitch Art assume proprio l’errore, questo non debba esser ricompreso secondo nuovi criteri e categorie.

Per iniziare, proviamo a dare una definizione tanto di glitch quanto di Glitch Art; il termine glitch è immediatamente traducibile con “errore”, più sottilmente con “incongruenza”, “problema tecnico”, “anomalia”, ”incon-veniente”. Spesso, vengono ad esso accomunati sinonimi quali bug o noi-se, quest’ultimo letteralmente “rumore” ma spesso adottato per intendere un “disturbo di frequenza” o un “segnale disturbato”. Il concetto di glitch è utilizzato quasi esclusivamente in elettronica e in informatica, e corrispon-de a un punto di fallimento del sistema, dovuto o a un problema analogico dell’hardware (malfunzionamento tecnico di un determinato strumento, come nella gran parte della produzione di Benjamin Gaulon) o di un pro-blema algoritmico del software (l’introduzione di determinati valori nella processione del software, come accade spesso nei programmi di compres-sione e decompressione dei file); in questo ultimo caso il software, non ri-conoscendo i dati inseriti nel protocollo, risponde o interrompendo in toto il processo e facendo “crashare” il sistema, oppure (ed è questa la dimen-sione artisticamente più produttiva) processa ugualmente il codice produ-cendo immagini, video, suoni imprevedibili, lontani da quello che ci sa-remmo aspettati, anomali e anche per queste ragioni incredibilmente stimolanti.

La migliore definizione di glitch è stata offerta da Iman Moradi, mag-giore studioso del genere: «The visual glitch is an artifact resulting from an error. It is neither the cause, nor the error itself, it is simply the product of an error and more specifically its visual manifestation. It is a significant slip that marks a departure from our expected result» (Moradi 2009: 8). In questo senso, perciò, glitch si distinguerebbe da error e da bug per il fatto che esso indicherebbe il prodotto finale: l’oggetto dell’attenzione non è più perciò il processo che determina l’immagine (o il suono, o l’evento) che stiamo prendendo in considerazione, ma ciò che abbiamo sotto gli occhi, che si presenta, ancor prima della consapevolezza dei processi anomali che l’hanno resa possibile, come qualcosa di inquietante perché fuori dalle tra-dizionali categorie della comprensione e dalle aspettative legate all’abitu-dine. Per questo, Peter Krapp insiste sulla differenza tra informazione e si-gnificato: se la prima, come ovvio, si affida a categorie quali quelle della

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 13

comprensibilità, della chiarezza, dell’unidirezionalità, il significato in sen-so ampio riguarda invece l’espressione, e perciò l’arte; il glitch, come pra-tica metadiscorsiva, apparterrebbe proprio a questo secondo versante (Krapp 2011: 68-69). Tale distinzione tra significazione e informazione è particolarmente pregnante quando parliamo di cultura digitale e media: l’informazione riguarda la quantità, la frequenza e l’intensità del segnale, e perciò una corretta comunicazione implica la pulizia del segnale stesso. Qui il rumore, l’elemento di disturbo e l’errore sono considerati giustamen-te dei gravi inconvenienti. La significazione estetica, invece, è in grado di rendere espressivamente validi anche quegli elementi, seppur essi esauri-scano il loro valore informativo – riprenderemo questo argomento quando affronteremo l’opera di Rosa Menkman e i suoi riferimenti alla Legge di Shannon e alla teoria entropica della comunicazione.

Come sostengono Goriumova e Shulgin: «In electrical systems, a glitch is a short-lived error in a system or machine. A glitch appears as a defect (a voltage-change or signal of the wrong duration – a change of input) in an electrical circuit. Thus, a glitch is a short-term deviation from a correct val-ue. Glitch can also describe hardware malfunctions» (Goriunova - Shulgin 2008: 45). Sempre i due teorici, sostenendo l’idea di glitch come ciò che emerge quando “qualcosa va storto”, allo stesso tempo tornano sulla neces-sità di distinguere termini quali bug, error e glitch. Un errore, o meglio un errore di sistema quale è il bug, può dare origine a un glitch, concepito come l’artefatto risultante dall’errore (esattamente quanto sostenuto da Moradi). Goriunova e Shulgin evidenziano come spesso sia impossibile, partendo dal glitch concepito come risultante finale del malfunzionamento e dell’errore, comprendere se si tratti di autentici errori (malfunctions) o di glitch pianificati (encoded glitch, ovvero integrati da subito nel determina-to linguaggio seppur finalizzati a evidenziarne i limiti e le incongruenze). I due pongono perciò chiaramente il problema dell’autenticità del glitch, ed è necessario mettere ordine nel problema della definizione, affidandoci an-che alle parole e agli accenni di tassonomia offerti da alcuni glitch artists e teorici del genere, anche perché ancora non abbiamo toccato quello che sarà il problema cruciale del nostro studio, ovvero la funzione che assume la spontaneità nella determinazione del glitch.

2. Glitch come différance: il manifesto di Rosa Menkman.

Uno dei contributi teorici più significativi è quello di Rosa Menkman, giovane glitch artist che oltre ad aver realizzato diversi video, è autrice di

14 Errore

una sorta di manifesto della Glitch Art. Menkman interpreta, anche con una buona finezza filosofica, il fenomeno del glitch come l’avversario delle norme della tecnocultura; la specificità di un fenomeno del genere è la sua connaturata essenza dialettica, per la quale sovvertire l’ordine imposto dal sistema tecno-informatico è possibile solo all’interno del medesimo oriz-zonte, e perciò servendosi dei medesimi strumenti e linguaggi.

Nello specifico, la Menkman distingue tre modalità di segnale disturba-to o noise: l’errore determinato dai processi di compressione/decodifica, l’errore di ordine analogico dato dal feedback, quando cioè il segnale di uscita torna in entrata, e il glitch inteso come interruzione inaspettata del flusso di calcolo (Menkman 2011: 8). Il flusso, secondo la riflessione di Deleuze e Guattari, alla quale non a caso la Mankman si rifà in alcuni pas-saggi, stabilisce convenzioni e norme, e tutto ciò che esula dal flusso viene ritenuto un incidente più o meno comprensibile, per questo il glitch come errore è sempre stato ritenuto (legittimamente) un ostacolo, prima che ve-nisse riscattato in ambito artistico-espressivo.

Rosa Menkman, Vernacular of File Formats, 2010

Menkman segnala come la ricerca insistita nella cultura contemporanea di un canale di trasmissione e creazione completamente privo di disturbi sia un dogma falso e destinato a fallire; ogni medium ha infatti un margine di imperfezione, e non esiste mai la completa trasparenza e chiarezza di se-gnale o frequenza. Interrompere volontariamente il flusso della linearità di trasmissione, o della processione del software, significa acquisire una co-

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 15

scienza superiore del mezzo stesso, mettere luce ai limiti strutturali dei si-stemi che, ingenuamente, vengono riconosciuti e ritenuti infallibili. La Menkman poi definisce il glitch come modalità della différance, disinte-grazione e destrutturazione funzionale alla creazione del nuovo, che come detto agisce ipertroficamente facendo collassare il medesimo sistema che lo sostiene; Menkman non a caso si rifà alle teorie matematiche di entropia dell’informazione di Shannon (Menkman 2011: 10). Senza addentrarsi in quest’ultima, basterà segnalare come Shannon, applicando i principi della termodinamica alla scienza della comunicazione, sottolineasse come anche le frequenze dei flussi comunicativi posseggano un punto di entropia, che viene raggiunto quando la volontà di pulire il suono, per renderlo quanto più trasparente e chiaro, arriva a compromettere la stessa comprensibilità dell’informazione, facendo collassare la comunicazione. Ogni software di compressione implica una perdita di informazioni, e l’obiettivo dell’asso-luta trasparenza, che significa ridurre all’estremo lo spectrum di disturbi e dissonanze del segnale, è destinato al fallimento. Per questo, il glitch, per assumere significato e distinguersi dal failure, deve paradossalmente veni-re incorporato dal processo, determinando nuovi significati e codici.

Infatti, per una tendenza quasi connaturata alla tecnologia moderna e all’elettronica, sostiene Menkman che i media cercano sempre più di spa-rire; tale sparizione viene riscattata attraverso il glitch, che rimette in evi-denzia i media rendendoli osservabili e interrogabili. L’ottavo punto del suo Manifesto è quanto mai indicativo: il glitch rappresenta il momento di indagine al di fuori della consuetudine della conoscenza informatica e tec-nologica, perché il flusso non può mai venire compreso senza interruzioni o malfunzionamenti. Menkman fa l’esempio della televisione: gli spettato-ri comuni prendono una specifica coscienza del mezzo, oltre che del conte-nuto, quando esso inizia ad avere problemi tecnici, determinando vuoti di significato e interruzioni del flusso.

Questo riflette la tendenza tipicamente moderna, ma soprattutto postmo-derna, di saturare il flusso, di neutralizzare ogni vuoto di senso (l’horror vacui), e in maniera paradossale, allo stesso tempo, si evidenzia anche l’impossibilità di controllo e calcolo assoluto da parte della tecnologia, il fatto che la macchina possa iniziare a lavorare in maniera indipendente e imprevedibile commettendo errori; si genera un sentimento simile al subli-me secondo Menkman, ovvero l’istante, il momento – o come lo definisce l’autrice, moment(um) –, in cui si opera una sospensione non solo del flus-so di calcolo, ma anche della consuetudinaria esperienza estetica e capaci-tà di controllo cognitivo: «Through the distorted images and behaviors of machinic outputs, the viewer is thrown into a more risky realm of image

16 Errore

and non-image, meaning and non-meaning, truth and interpretation» (Menkman 2011: 8). Confermano questa posizione Olga Goriunova e Alexei Shulgin: «A glitch is a singular dysfunctional event that allows in-sight beyond the customary, omnipresent and alien computer aesthetics. A glitch is a mess that is a moment […]. Whereas a glitch does not reveal the true functionality of the computer, it shows the ghostly conventionality of the forms by which digital spaces are organized” (Goriunova - Shulgin 2008: 45).

Qui potremmo toccare un tema di ordine filosofico di indubbia sofistica-tezza, che d’altronde la stessa Menkman non disdegna di affrontare: abbia-mo già detto che il glitch si pone come différance, e ontologicamente l’er-rore è una forma negativa di essere che può sussistere solo nella relazione con qualcosa d’altro da sé; questo altro è sì il contesto nel quale l’errore si esprime, ma nel caso del glitch può essere considerato anche il modello ideale perduto e sconosciuto del quale ci è rimasta solo la versione distur-bata e distorta. Il segnale precario e incomprensibile, per questo persino in-quietante, porta con sé una comunicazione perduta per sempre, della quale ci è rimasto solo un frammento o un errore incapace di ricondurci all’ordi-ne di partenza; per questo, il glitch si presenta a noi come un fatto per il quale la causa non è immediatamente conosciuta: quando assistiamo ad esso, di colpo, intuiamo solo che c’è un errore, non perché siamo a cono-scenza della comunicazione o del codice corretto, ma perché vediamo qualcosa di disturbato senza avere la minima idea di cosa sia quel qualco-sa. La Menkman, nel suo video Collapse of Pal, sostiene che la storia di Pal viene trovata ed evocata solo nel segnale perduto per sempre, e perciò nel-la comunicazione inaccessibile; si tratta di rovine di un significato svanito nel nulla, per questo il protagonista principale del video diventa l’angelo della storia di Benjamin, incapace di ricomporre l’infranto a partire dalla catastrofe del presente.

3. Dialettica del glitch: sovversione dell’ordine tecnoinformatico e ripe-tizione.

Il glitch stordisce il pubblico con un evento temporaneo e destabilizzan-te che rompe il flusso portando il caos nell’ordine, facendoci chiedere con ansia “se il computer tornerà a funzionare”, e così si esprime un altro arti-sta, designer e grafico, Justin Blyth: «I see a glitch as a break in the ‘nor-mal’, or a deviation from what is expected. Whether it’s in music or art, if something jumps out of place when you least expect it to, that’s a glitch. In

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 17

that sense, the glitch keeps thing interesting because it retains our atten-tion» (Blyth 2011: 34).

A tal proposito, Moradi si spinge oltre, arrivando persino a parlare di di-mensione metafisica del glitch, relativamente al rapporto tra umano e mac-china e al processo di umanizzazione di quest’ultima: «The glitch therefo-re has metaphysical presence, and many philosophical allusions have been made over its nature and origin during our correspondences with contribu-tors. Does the glitch serve as a costant remainder for the human capacity to err? Does it comfort us by humanizing the machine?» (Moradi 2009: 9).

A questo punto della nostra indagine, dovremmo porci la seguente do-manda: il glitch è destabilizzante perché irruzione del caos nell’ordine del-la téchne automatizzata, e perciò incarna l’innaturale in quanto alterità ed evento nel processo che si sviluppa nelle gabbie dell’eterna ripetizione, op-pure, come in queste parole di Moradi, riesce a riscattarci dall’oppressione tecno-informatica riuscendo piuttosto a umanizzare la macchina, reintro-ducendo un carattere tipicamente e irriducibilmente umano quale è l’erro-re? Si tratta di un circolo di interrogazioni non risolvibile, che riflette una posizione tipica, tra le altre, dell’estetica negativa di Theodor W. Adorno: se la storia dell’arte per secoli ha avuto come finalità quella di dare ordine al caos del mondo, ovvero imporre un senso al non-senso dell’esperienza, non è forse vero che nell’arte moderna si tratta di compiere il movimento “negativo” e inverso, ovvero portare il caos nell’ordine costituito, rappre-sentato dal dominio vigente della ratio burocratica e dal potere ammini-strato? La Glitch Art, a mio avviso, impone di ripensare tale dialettica ne-gativa in maniera persino più stringente: il codice informatico è espressione della ragione strumentale, ma la sovversione di quel codice è possibile solo standone all’interno, conoscendone la sintassi e la grammatica. Questa di-mensione dialettica si riflette anche su un altro piano: infatti come afferma sempre Moradi, «fragmentation, linearity, complexity and repetition are the more common metaqualities of visual glitches» (Moradi 2009: 8); que-sto vuol dire che l’espressione visiva del glitch, che per Moradi coincide con la sua stessa definizione, nella maggior parte dei casi esprime nella sua stessa forma tale opposizione dialettica tra ripetizione, ordine, linearità, formalismo da un lato, e frammentazione, interruzione, irruzione e caos dall’altro.

In questa semplice frase di Johnny Rogers si condensa la dialettica in que-stione: «In a universe of broken symmetries, a small rebellion of this type earns my respect» (Moradi 2009: 15): qui, in maniera probabilmente incon-sapevole, Rogers esprime al meglio il paradosso della Glitch Art. Se infatti, da un lato, all’ordine soffocante del mondo tecnicizzato e computerizzato si

18 Errore

oppone il glitch come ferita interna che ne scardina il rigore, dall’altro lato quello stesso mondo è un universo di simmetrie interrotte, fratture, perciò l’opposto di quanto avevamo sostenuto prima. Sulla scia dell’Aufklärung adorniana, possiamo verificare come per un eccesso di calcolo e di imposi-zione tecno-informatica il sistema vigente si sia capovolto in imposizione ir-razionale, caratterizzata dall’automatizzazione dei comportamenti e dallo svilimento dell’umano; in questo scenario di simmetrie sconvolte, la ribel-lione è rappresentata sempre dalla negatività del glitch, in questa prospettiva non come caos imposto all’ordine, o come momento di impaccio del mecca-nismo, ma paradossalmente per l’opposta ragione, ovvero si manifesta come qualcosa che palesa quell’irrazionalità tecnocratica imponendone un’imma-gine ancor più parossistica e assoluta offerta dalla griglia risultante dal bug di sistema. L’ordine digitale e ipnotico di queste opere è l’elemento di ribel-lione al mondo frammentario fatto di asimmetrie, divenuto tale per eccesso di calcolo tecnico-informatico. Per questo che una categoria essenziale del glitch è quella della “ripetizione”, e anche questo è un paradosso; Ant Scott, ideatore e padre del progetto Beflix, parla anche di ordine logico e struttura ritmica di queste immagini: «Whereas, although glitch images might be qui-te dense and complicated, there will probably be some overall structure or rhythm on a larger scale which is the shadow of the computer following or-ders in a logical, orderly way» (Scott 2009: 20).

Ant Scott, Glitch Series, 2007

Per questo, la posizione dicotomica glitch/sistema sostenuta anche da Peter Krapp, per quanto corretta, dovrebbe quanto meno venire problema-

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 19

tizzata: «signal-noise dichotomy has come to displace codes pivoting on distinctions such as old-new, original-conventional, interesting-boring, simple-complex, ugly-beautiful, order-disorder, redundant-informative, serious-trivial, or progressive-conservative» (Krapp 2011: xiv).

Ant Scott, Glitch Series, 2007

L’incidente, come insegna Paul Virilio, diviene possibilità di esperienza negativa del sistema, un sistema che si fonda proprio sulla volontà di livel-lare e neutralizzare ogni possibile imprevedibilità e accidentalità, e da qui il trionfo del controllo tecno-centrico; come ha insegnato Jean Baudrillard, quel trionfo in realtà ha allevato le stesse condizioni interne della sua fine entropica, in altri termini il dominio tecnocentrico è destinato alla catastro-fe, perché come sostiene la Menkman «non puoi proibire la catastrofe, ma devi navigarla» (Menkman 2011: 40) e come sostiene Krapp «the error re-mains the future» (Krapp 2011: 92). La Glitch Art, perciò, sfrutta il poten-ziale del momentum del noise per andare oltre la distruzione, facendo del collasso del sistema un’opportunità per un nuovo linguaggio.

4. Glitch addomesticati: i codardi digitali e l’errore al servizio e del mercato.

Un altro elemento condiviso da diversi teorici e artisti è la consapevolez-za che il valore del glitch, la sua funzione dialettica, è rappresentata anche da

20 Errore

un suo paradossale limite interno: infatti, oltre a evidenziare i limiti della tec-nica e dei media elettronico-informatici, il glitch mette in mostra (per poter sussistere) allo stesso tempo anche il suo stesso limite, ovvero la necessità di un livello di errore che non sia troppo eccessivo e radicale. L’errore assoluto infatti comprometterebbe il sistema, mandando la macchina o il processore in crash (o tilt), oppure il software rifiuterebbe di processare i dati non facen-do ottenere nulla come risultato. Per questo Menkman distingue failure da glitch: «In short, failure is a phenomenon to overcome, while a glitch is in-corporated further into technological or interpretive processes» (Menkman 2011: 27). L’artista è anche consapevole di come il glitch non rappresenti esclusivamente un malfunzionamento di ordine tecnologico, ma come sia sempre espressione di un determinato contesto socio-culturale; il noise infat-ti non esisterebbe senza ciò che viene da esso scardinato, ciò che ad esso si impone e ciò di cui esso è errore. Per questa ragione, non tutta la Glitch Art è progressista e rivoluzionaria, perché molto di ciò che viene ritenuto glitch oggi potrà diventare di moda; non a caso, negli ultimi anni sono emersi mol-tissimi casi di designer e fotografi che hanno assorbito l’estetica del glitch per investirla sul mercato pubblicitario, emblematico è il caso di Chris Sed-don e del collettivo TOKYO22, che sostengono la volontà di far emergere una nuova bellezza ri-creando i difetti, attraverso una creazione ponderata del glitch che miri al risultato espressivo.

Chris Seddon, 0MH96, 2011

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 21

Pensiamo anche al mondo della grafica promozionale nel settore disco-grafico (Rob Sheridan e il lavoro dedicato alla band rock-industrial Nine Inch Nails); seppur ci siamo concentrati nell’ambito delle arti visive, è in-dubbio registrare qui una corrispondenza nell’ambito della musica elettro-nica, che ovviamente meriterebbe uno specifico spazio di analisi. Il glitch addomesticato, normalizzato e sfruttato come sample o pattern di una co-struzione ritmica ordinata è una pratica particolarmente diffusa; anche nel-la musica perciò andrebbe sottolineata la distinzione tra un’idea di glitch inteso come autentica interruzione del flusso, e perciò dissonanze e suoni prodotti dall’errata decodifica dei dati senza che vi venga imposta una co-struzione ordinata (e in questo ambito possono venire ascritti gli Autechre ad esempio), dalla musica glitch dove l’errore viene assorbito finalizzan-dosi alla costruzione ritmica e perciò al flusso stesso (pratica tipica dello stile dei vari progetti techno minimal di Carsten Nicolai alias Alva Noto, e di Ryoji Ikeda tra gli altri).

Di altro avviso è il video artista Kim Asendorf, per il quale il glitch, at-tualmente, non può essere compatibile con le masse, incarnando esso l’as-solutamente altro dal calcolo del mercato e dal godimento popolare. Tra-durre il glitch nel linguaggio del design significa mortificarne il valore: «maybe glitch could become a new trend in design. But I hope not, the overdose might destroy the magic» (Asendorf 2011: 39), per questo, come sostiene Moradi, il rischio è quello di far diventare il glitch un feticcio dell’alterità, qualcosa che viene gestito con la finalità di mitigare e neutra-lizzare la nostra paura per ciò che è sconosciuto.

Kim Asendorf, Glitch Portraits, 2010

22 Errore

Come per Virilio creare un incidente significa disinnescarlo e neutraliz-zarlo da un punto di vista ontologico, così per Menkman creare un glitch volontariamente significa addomesticarlo, e a quel punto la forza sovversi-va del moment(um) viene meno lasciando lo spazio all’adozione dell’indu-stria che sfrutta del glitch e del noise l’attrazione perversa per il caos:

to design a glitch means to domesticate it. When the glitch becomes dome-sticated into a desired process, controlled by a tool, or technology – essentially cultivated – it has lost the radical basis of its enchantment and becomes predic-table. It is no longer a break from a flow within a technology, but instead a form of craft. For many critical artists, it is considered no longer a glitch, but a filter that consists of a preset and/or a default: what was once a glitch is now a new commodity (Menkman 2011: 55).

Pensiamo, per essere anche più chiari, alle recenti tendenze vintage, le-gate proprio al culto dello stile lo-fi e dell’imperfezione, l’estetica della no-stalgia ma anche della trascuratezza e dell’imperfezione, revival come ten-denza palesemente feticistica che tenta di compensare l’angoscia per il leviatano tecno-informatico.

Ant Scott parla a tal proposito di distinzione tra Low Risk e High Risk, accusando coloro che si affidano ai glitch programmati e “addomesticati” di essere dei digital cowards, “codardi digitali”; questo non significa per Beflix rinunciare al momento essenziale di controllo sul processo e di ana-lisi della processione di dati. Si tratta di provocare degli errori di calcolo at-traverso degli algoritmi sballati, per questo si parla di Glitchbrowsers, “cercatori di glitch” (Scott 2008: 35); a questa posizione ambigua, ma di quella ambiguità che è connaturata al fenomeno del glitch e della sua ado-zione in arte, è ben cosciente il collettivo JODI, net-artisti che hanno appli-cato i principi della Glitch Art al linguaggio html del web, che sostiene:

The error is a predefined thing. An error is not per definition an error. Some-one in society decides: this is an error, and this is not an error. And it’s very sus-picious to be an error. An error is to not follow the rules. If you make an error in the programming, there could be errors in the goal you achieve. But it’s only the goal you have in mind to achieve, and not the side effects – because the side effects which are the error… (JODI 2008: 39).

E si conclude sostenendo che «i processi sono ben più interessanti dei ri-sultati finali». Nelle prime righe di questa citazione si concentra il parados-so costitutivo di quest’arte: l’errore non è già più errore nel momento in cui diventa mezzo di espressione, per questo l’estetica del glitch è alla base di

A. Alfi eri - Per un’estetica dell’errore: la glitch art 23

un’arte per definizione fallimentare, falsa, e perciò stesso estremamente suggestiva e intrigante.

JODI, http: // text.jodi.org., 1995

Bibliografia

ASENDORF K.2011 in «IDN», XVIII, 30, pp. 38-39.

BLYTH J.2011 in «IDN», XVIII, 30, pp. 34-35.

GORIUNOVA O. - SHULGIN A.2008 Glitch in «Neural», 28, pp. 45-47.

JODI2008 Jodi interviewed by Florian Cramer, Dordrecht/NL, Oct. 11, 2007 in

«Neural», 28, pp. 36-39.

KRAPP P.2011 Noise channels. Glitch and error in digital culture, London.

24 Errore

MENKMAN R.2011 The Glitch Moment(um), Amsterdam.

MORADI I. - SCOTT A. - GILMORE J. - MURPHY C.2009 Glitch: Design Imperfection, New York.

SCOTT A. (BEFLIX)2008 Intervista in «Neural», 28, p. 35.

25

L’ERRORE, O DEL CARATTERE FANTASTICO DEL MONDO

di Brunella Antomarini1

Ma se tu, o Teeteto, dovessi scorgere fra i mirtilli una bacca bianca come una perla e quadra come un dado, la scarteresti con lo sdegno e il disgusto che

si prova per un capriccio abominevole della natura, o la raccoglieresti con gioia e gratitudine come un dono divino di Thauma?

Leo Lionni, La botanica parallela

Cosa succede quando pensiamo che qualcosa sia vero? Come sappiamo che il suo contrario è falso? È un processo che sembra estrapolabile dai dati di fatto e dalla loro conoscenza. Conoscere è possibile grazie al pensare, ma la base del pensare non dà garanzia di verità, se ha una certa indipen-denza dal sapere. Sembra che si tratti piuttosto di una decisione, cioè di in-dovinare il momento in cui le catene inferenziali che ci portano alla conclu-sione vera vanno interrotte – indipendentemente dalla possibilità che si presenti un errore alla successiva inferenza – o perché sono sufficienti (in-cludendo quindi comunque un margine minimo di errore possibile), o per-ché sono insufficienti (cioè sappiamo che non arriveranno mai a un valore universale) (Antomarini 2007: 16).

Pensiamo come esploratori (o sperimentatori) che si formano un’idea (o una teoria) di quello che osservano man mano che scoprono tratti diversi (ma non potranno mai completare la totalità dei tratti dell’oggetto osserva-to). L’esploratore deve prima o poi decidere che cosa ha scoperto. Decide-re significa un po’ anche indovinare.

1 Vorrei ringraziare Tonino Griffero, Maria Giuseppina di Monte, Marco Tedeschini, Piero Vereni per i commenti al mio seminario sull’errore, che mi sono stati molto utili a sviluppare l’argomento epistemologico del mio libro Pensare con l’errore, in direzione ontologica.

26 Errore

Considererò come elementi sempre presenti nella complessità della co-noscenza l’inferenza probabile, l’abduzione, l’incertezza, le ipotesi neuro-logiche sull’elasticità delle credenze, proposte di ontologie trasversali.

Farò poi esempi tratti da diversi campi dell’informazione, che mostrino come tra verità ed errore ci sia una relazione sistemica, di proporzione e di sospensione del giudizio, che ci permette di ‘cambiare idea’ e di adattarci alle circostanze.

Secondo Charles Sanders Peirce, quando crediamo che qualcosa sia vero, lo facciamo in base a un bisogno e quindi agli effetti (attuali, cioè sperimentati o possibili, cioè immaginati) di quella verità. E per questo quella verità su un fatto è relativa al bisogno e deve fare i conti con quella parte del fatto che sfugge a quella verità, cioè la sua parte di ‘errore’.

1. Esempi di relazione sistemica tra verità ed errore.

I nostri successi e i nostri fallimenti sono tra loro inscindibili, proprio come la materia e l’energia, se vengono separate, l’uomo muore.

Nikola Tesla

Portiamo degli esempi: nelle discussioni correnti sulle nuove tecnologie (dalla cultura digitale alle biotecnologie, eccetera), possiamo sostenere che ci rendono più dipendenti dalle macchine e che la prova è osservabile negli effetti negativi sui comportamenti (attaccamento quotidiano a internet o al cellulare, diminuzione di memoria, delegata ai motori di ricerca, invaden-za, se non sostituzione, della realtà virtuale nella vita reale, controllo da parte dei media, medicalizzazione tecnologica e pubblica della salute, as-suefazione al potere politico, ecc...). Quando diamo giudizi di questo gene-re, sappiamo che non sono verificabili, e sappiamo anche che i dati di fatto su cui basiamo la nostra opinione sono contro-bilanciati sia da dati di fatto opposti (ad esempio il fatto che ci rendono la vita e le relazioni sociali più veloci e più semplici, eliminano molte fatiche fisiche, procurano campi di comunicazione liberi da gerarchie e controllo politico, rendono più veloce l’informazione e il suo aggiornamento, ci rendono più flessibili nelle con-vinzioni) sia dall’eventualità che domani il nostro giudizio possa essere modificato o anche inficiato da qualche nuovo effetto imprevisto.

Portiamo altri esempi: l’ecologia rappresenta una difesa della natura e una battaglia contro l’estinzione di molte specie animali o contro il suo sfruttamento utile alla costruzione e all’uso di macchine e strumenti tecni-ci. Ma non abbiamo prove per contraddire l’opinione contraria, secondo

27B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

cui le specie si estinguono e nascono e non solo a causa degli uomini, che l’ecosistema si riequilibra continuamente, che la tecnica si è sviluppata proprio per contrastare la minacciosità della natura, ecc.

Crediamo anche in presenza di dubbi che lasciamo in ombra, per non in-debolire gli effetti delle nostre convinzioni. Abbiamo bisogno di dare un tono di certezza a quello che è soltanto probabilità. Per questo costruiamo serie di distinzioni tra opposti di cui uno è buono e l’altro è cattivo, uno è vero e l’altro è falso.

Ad esempio ripercorrendo le tappe che hanno portato all’emancipazio-ne femminile, mettiamo in ombra il fatto che sia stata sostenuta anche dal-lo sfruttamento delle donne come risorse commerciali (elettrodomestici, prodotti di consumo, eccetera) e politiche (convenienza di allargare la base elettorale). Allo stesso modo definiamo l’umano come elemento di elevazione dal brutale, mettendo in ombra i crimini perpetrati in nome dell’umano.

Crediamo che l’Occidente debba intervenire per evitare l’impoverimen-to dei paesi poveri (causato dall’Occidente stesso, come nel corrente feno-meno del land grabbing o del regime shopping). Grazie alla rete c’è un modo di intervenire velocemente e direttamente sulle istitutzioni, chiama-to: technophylanthropy. Ma poi facciamo della povertà una risorsa che por-ta profitto all’Occidente (denunciato ad esempio nel film di Renzo Mar-tens, Enjoy Poverty del 2009). Con il land grabbing l’Occidente si appropria delle terre coltivabili africane, ma sappiamo che coltivandole a mais utilizzato come carburante, può cooperare alla soluzione del proble-ma del petrolio.

Ci lamentiamo di essere presi dalla rete del consumismo, ma nessuno sa come limitare produzioni di beni non necessari, perché se si limitano gli in-vestimenti, si limitano sì i consumi, ma diminuiscono anche i redditi (cioè il lavoro).

Sostenere l’esistenza del progresso è molto plausibile, se si pensa alla diminuzione della mortalità infantile, e all’allungamento della vita, ai costi diminuiti dei cibi, alla diminuzione della povertà che in 50 anni ha abbas-sato il tasso di una quantità pari a quello ottenuto in 500 anni passati. E in-fatti oggi chi è al di sotto della soglia della povertà ha acqua corrente, ac-qua calda, cellulare, servizi sanitari. La condizione femminile è migliorata e migliora in tutto il mondo (grazie anche al ruolo trainante dell’Occiden-te). L’informazione e la cultura hanno mezzi di trasmissione mai così po-tenti e diffusi (e a basso costo). Ci sono persino comunità scientifiche che fanno ricerche online (il cosiddetto DYI).

28 Errore

Questi segni innegabili di cambiamento in positivo hanno però un prezzo: la salute è migliorata a patto che mettiamo i nostri corpi in mano a compagnie farmaceutiche, tecnologiche e istituzioni politiche, che pos-sono decidere per un accanimento terapeutico volto all’auto-riproduzio-ne economica del sistema sanitario. Questo crea nuovi problemi di defi-nizione della ‘vecchiaia’ e della dignità dell’esistere. I cibi sono alla portata economica di tutti, a patto che ne accettiamo la sofisticazione (di cui, cioè, non controlliamo gli effetti negativi sulla salute). Inoltre cibi a basso costo provocano l’aumento degli sprechi e della spazzatura. Il bas-so costo è permesso dalla produzione in quantità enormi, permesse dallo sfruttamento di territori immensi espropriati ai piccoli coltivatori locali, e di materie prime, che servono alla costruzione di tecnologie elettroni-che e che fanno nuovi schiavi (come il coltan, estratto in Congo dagli abi-tanti locali in povertà, per salari irrisori). Le nuove tecnologie d’altra par-te rendono più efficaci i mezzi di distruzione, se si pensa alle mine-giocattolo, ai droni, alle armi chimiche, eccetera). L’emancipazio-ne femminile trova paradossalmente ostacoli nelle tradizioni non occi-dentali, in cui le donne si trovano a dover rinunciare o alla propria sotto-missione o alla propria storia. E nello stesso Occidente i meccanismi di dominio continuano a operare inconsciamente (la prova è la scarsità di donne nei ruoli di rilevanza politica e sociale). La velocità di informazio-ne può arrivare a un punto di insopportabilità per i ritmi degli organismi umani. Assistiamo ora a un aumento di relazioni umane non sostenute da punti di riferimento etici (che siano tradizioni, culture, progetti politici), o comportamenti dettati totalmente dalla creazione di falsi bisogni (sem-brerebbe che, se si pagano 5 euro per una rosa reale, se ne pagano 10 per una virtuale).

Dunque ogni presa di posizione ha un suo rovescio che non è però il contrario (l’errore) da eliminare, ma l’interfaccia ineliminabile: si elimi-na insomma il bambino insieme all’acqua. Ma non si tratta di psicologia.

Pensiamo per tenacia individuale, come la chiamava Peirce, ci attac-chiamo a una convinzione perché ci guida verso la soluzione di un proble-ma contingente, ma abbiamo bisogno di generalizzarlo, renderlo ideologi-co e fondato su ‘valori’ universali.

L’errore è il superfluo che si esclude dalle nostre dichiarazioni – perché l’oggetto dell’indagine si presenti senza il disturbo di quello che rendereb-be la dichiarazione poco chiara o convincente. Ma l’errore resta, come sul-lo sfondo, dietro le quinte dello scenario che proponiamo, pronto a entrare in una nuova argomentazione, rispetto a un nuovo bisogno.

29B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

2. Scenari abduttivi

Nella Clinica, come nella vita, bisogna avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile: il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può

essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticar tutto e tutti, prima di credere: bisogna domandarsi sempre come primo dovere: “Perché devo

credere questo?”Augusto Murri, Lezioni di Clinica medica.

Questa struttura del pensiero Peirce la chiamava abduzione: nelle nostre inferenze quotidiane non abbiamo tempo né di verificare né di fare statisti-che numeriche, semplicemente attribuiamo a un particolare (un evento, un oggetto o qualunque cosa in cui ci imbattiamo, che non passa inosservata) i caratteri di un altro particolare noto, escludendo dalla somiglianza l’in-compiutezza della somiglianza: «non abbiamo mai immagini compiute, nemmeno quando sono in atto» (Peirce 1955a: 244) e sappiamo che la par-te disanalogica resta ma, poiché abbiamo una quantità limitata di energia, interrompiamo le catene di inferenze e prendiamo una ‘decisione’ ontolo-gica e quindi pragmatica. Nella visione fenomenologico-pragmatista di Peirce, la scelta dipende dall’uscita dallo stato di disagio che ci crea il dub-bio; ci dev’essere una sufficiente evidenza che la nostra scelta provocherà effetti giusti. Quello che manca in questa attività quotidiana è l’accesso alla generalizzazione, che prenderebbe troppo tempo o troppa energia.

L’abduzione resta cioè fino in fondo ipotetica e probabile e funziona analiticamente così: ci capita C, che è un fatto sorprendente e incompren-sibile. Immaginiamo uno scenario A (in base a qualche indizio). Pensiamo che se A fosse vero, B sarebbe a «matter of fact» (Peirce 1955b: 151 e ss.), cioè ci ridarebbe quello stato di tranquillità rispetto a un ambiente control-labile, o di soddisfazione successivo a una scoperta. Quindi sospettiamo che A sia vero. La scena (inventata, fittizia, plausibile ma non necessaria) trasforma l’irregolare in regolare, dà una proporzione sufficiente di verità. Che cosa dia la sensazione di poter prendere una decisione, questo è quel-lo che fa un carattere, una personalità, uno stile individuale, una forma mentale. Non c’è una risposta filosofica né logica. Infatti, spesso indovi-niamo, ma a volte ci sbagliamo. Questo è quello che Peirce chiama gues-sing power. L’abduzione garantisce le azioni e la varietà di azioni.

La ‘verità’ di cui abbiamo bisogno non è dunque la verità dei fatti, ma quella suggerita da uno scenario immaginato e che può restare immagi-nato. C’è una possibilità che venga in seguito (dopo la decisione pragma-tica) confermato, ma si dà anche, dice Peirce, oltre a questa abduzione

30 Errore

“ordinaria”, un caso estremo di abduzione “creativa” in cui non si danno né la conferma né la probabilità. Spesso pensiamo e agiamo in assenza di indizi e di regole, in totale assenza di universalità. In ogni caso, e in un caso estremo in particolare, l’errore resta come possibilità, come elemen-to che potrà in futuro rovesciare le nostre catene di inferenze e le nostre decisioni.

Lo scenario immaginato non ha però un’immagine fissa che si sovrap-pone alla percezione. Si parla ora di teoria sensorimotoria della percezione che esclude definitivamente che sul fondo della retina ci siano immagini (già dato per scontato da Peirce (1955a: 244) e che dunque il riconoscimen-to di uno scenario percettivo-mentale sia piuttosto la simulazione di un’a-zione che completi la parzialità percettiva (Noë 2004: 59). Il mondo visivo – o la sua affidabilità – sembra quindi compromesso, o inesistente (una specie di prestito tratto dalle arti visive) o nel migliore dei casi dipendente dalla simulazione di un movimento che ci darebbe nell’azione effettiva i ri-sultati che abbiamo prima prodotto nella mente “imitativa”. Le cose sono virtualmente presenti al nostro pensiero percettivo (secondo Peirce la per-cezione è un giudizio, è cioè il risultato di inferenze inconsce), e non come immagini, ma come scenari possibili e limitati alla circostanza del momen-to. La regola della buona continuazione appunto riguarda un’azione virtua-le di riempire i vuoti percettivi, come sostengono Alva Noë e Charles San-ders Peirce molto prima di lui (Noë 2004: 63; Peirce 1955a: 244). L’errore dunque è inevitabile, se è la riduzione dell’oggetto percepito ai suoi tratti ‘utilizzabili’ al momento. Nel caso estremo della abduzione creativa, sco-priamo che possiamo unire i punti interrotti di un’immagine (o associare parti distanti di un’inferenza) sempre e comunque.

D’altra parte, anche gli studi sulle attività neuronali confermano che il cervello funziona con la flessibilità necessaria ad adattarsi ai cambiamenti ambientali, proprio grazie al dispositivo neuronale detto di graduali mini-me ‘modificazioni di pesi’ che avvengono a ogni nuova esperienza. Che la propagazione di informazioni avvenga parallelamente in diverse zone del cervello (Rumelhart – McClelland 1986: 121), cioè elaborata simultanea-mente in modi diversi, confermerebbe l’idea che crediamo in base a deci-sioni che non richiedono niente di più che una soluzione contingente (An-tomarini 2007: 38 e ss.). L’errore è la decisione che avremmo potuto prendere, in base ad altre sensazioni o circostanze. Lievi spostamenti di pesi neuronali corrispondono a lievi spostamenti di convinzioni che vengo-no gradualmente rafforzate o inibite a seconda di quello che accadrà in se-guito (e senza soluzione di continuità). Abbiamo convinzioni ‘parallele’, cioè sovrapposte e distinte solo per decisione o guessing power.

31B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

3. La doppia contingenza tra funzione e forma

La modificabità del cervello corrisponde alla modificabilità dell’am-biente. L’abduzione, in quanto legata a un’essenziale incertezza, rispetta di più l’andamento delle cose. Immaginiamo che tra il livello epistemologico e quello ontologico ci sia uno scorrere reciprocamente autonomo ma coin-cidente dove serve comprensione contingente, una coincidenza tempora-nea (il rilevare un effetto in quel momento).

Questo scorrere (nell’etimologia di errore c’è la radice del sanscritoars-, scorrere, sdrucciolare, (http://www.etimo.it/?term=errare. Accesso 22.III.2014) che implica un’idea continuista e processuale della realtà, si auto-segmenta e ri-segmenta senza soluzione di continuità diventando le “cose”, i “fenomeni”, gli “oggetti” delle nostre esistenze alla ricerca di punti fermi. In una vita intera i punti fermi sono sia necessari che modifi-cabili.

E questo vale anche per le scienze. Il pensiero scientifico utilizza fasi esplorative con modalità identiche a quelle abduttive. Solo per fare un esempio: quando James Maxwell scopre alla fine dell’Ottocento che un campo elettrico genera un campo magnetico e quindi unifica le leggi dell’e-lettricità e del magnetismo, dichiara di aver cominciato a produrre quell’i-potesi, partendo da uno scenario del tutto immaginario:

Pensando all’idea puramente geometrica del moto di un fluido immaginario, spero di arrivare a una maggiore precisione e di evitare il pericolo di spiegare la causa del fenomeno con una teoria affrettata. (Maxwell 1890: online)

Maxwell immagina un’azione effettuata da un fluido che provoca gli ef-fetti sperati (cioè l’interazione tra i due tipi di onde). Che poi quel fluido ri-sultasse inesistente, non compromise la scoperta, ma anzi servì ad alimen-tarne lo sviluppo. Prima di indurre una generalizzazione e dedurre una legge universale, Maxwell fa ‘abduzioni’ su quello che potrebbe rendere plausibili le osservazioni inspiegabili.

Potremmo aggiungere i vari “errori” commessi da Galileo, dalla teoria delle maree come effetti del moto terrestre, all’errore che costituisce il te-sto – fondamentale per il metodo scientifico – de Il Saggiatore, dove si so-stiene che le comete siano rifrazioni di luce di vapori terrestri. Ogni scoper-ta contiene una parte sbagliata. Diversamente dal falsificazionismo di Popper, potremmo dire che la forza della scienza non stia tanto nella sua te-stabilità quanto nell’uso che ogni test fa della parte erronea di un’idea in fieri. Il sogno di Leibniz di costruire un linguaggio universale incontrover-

32 Errore

tibile fallì, ma la costruzione del computer ricorda la sua logica binaria. Athanasius Kircher studia i geroglifici e ne sbaglia l’interpretazione, ma quando Champollion li decritta è il metodo di Kircher a illuminarlo. Ogni scoperta contiene la teoria degli errori che la orienta in una o l’altra direzio-ne. Non è mai la scoperta di un fatto, né è il risultato logico di una teoria (secondo l’idea del theory-laden fact), ma avviene grazie a una decisione di fronte a un non sapere e un’incertezza.

Questa doppia elica del pensare le cose, lo scorrere autonomo e in con-tinuo adattamento reciproco di pensiero e materia, è stata analizzata dalla teoria generale dei sistemi di Niklas Luhmann, in sintonia con le prospetti-ve neuro-fenomenologiche di Varela e Maturana. L’ambiente , pervasivo e caotico, richiede la formazione di sistemi che si difendano da quella ten-denza entropica. Tra sistema e ambiente si stabilisce un’interazione (o structural coupling) dettata non dalla conoscenza di fatti esterni al sistema psichico cognitivo, ma da un reciproco aggiustarsi di un sistema sulle ri-chieste dell’altro. In questo modo non riconosciamo relazioni di causa-ef-fetto ma di feedback loop: ad esempio costruiamo computer per renderci più autonomi dall’ambiente, generando informazione senza bisogno di averne contatto reale. Ma poi i computer modificano i nostri comportamen-ti cognitivi (trasformazione del concetto di informazione e di pensiero, di-pendenza dal computer, eccetera), che a loro volta fa nuove richieste al si-stema (doppia contingenza). Dunque ogni sistema cognitivo è preso tra auto- ed etero-referenzialità, in una circolarità che osserva il mondo e si au-to-osserva in base a bisogni contingenti, costruendo barriere di difesa e fil-tri di inglobamento che chiamiamo conoscenza, ma che hanno a che fare esclusivamente con la soluzione di problemi. Sparisce la distinzione sog-getto-oggetto (non c’è mai un ‘soggetto’ che giudica il mondo dall’ester-no), quindi ogni garanzia di ‘verità’ testabile una volta per tutte. Siamo sempre nel rischio di confonderci, di perdere le coordinate comportamen-tali in combinatorie arbitrarie. Ma è così.

Quello che conosciamo sono i meccanismi che ci conducono verso il mondo in forma reattiva e costruttiva (in senso fenomenologico. Non a caso Varela chiamava la sua teoria dell’auto-poiesis una neuro-fenomenologia).

In questa prospettiva l’errore viene riconosciuto come relativo alla sfera contingente (per quanto vasta o espansa). Proprio perché abbiamo a che fare con problemi da risolvere, non eliminiamo l’errore ma lo trattiamo come l’escluso dall’ambito della forma che il sistema prende (di volta in volta).

Esempi di feedback loop: i movimenti operai causano aumento del costo del lavoro, causando l’aumento dei prezzi e crisi economica, che causa la

33B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

necessità di intervenire con misure di sviluppo tecnologico, che era però orientato a esibire potere (con la guerra fredda) e quindi a investire in armi, energia nucleare, ricerche nello spazio, tecnologie dell’informazione; quin-di l’intervento economico passa (senza volerlo) per le tecnologie dell’in-formazione. Risultato è che la povertà convive con la cultura digitale, o ne trae vantaggi imprevisti. Queste relazioni di cause-effetti circolari (gli ef-fetti diventano cause e modificano quello che li ha modificati) provocano crisi o soluzioni per coincidenze temporanee, per emergenze di sotto-siste-mi (vantaggi della rete per la povertà, eccetera).

La plastica ha reso le merci più economiche, alla portata di tutti, e ha creato sistemi di alimentazione veloci. Ma questo provoca l’aumento di spazzatura, inquinamento, bio-accumulo di sostanze tossiche negli organi-smi. Gli organismi introiettano sostanze come la plastica che si aggiungo-no ai loro componenti minerali e ci si aspetta una nuova emergenza: forse una mutazione o un adattamento dei corpi organici a queste nuove condi-zioni di sopravvivenza.

La circolarità della formazione e trasformazione dell’ambiente e dei comportamenti e delle decisioni mostra errori inevitabili, che non possia-mo mai dire se siano negativi o no, se servono a spostare continuamente equilibri, e anche se non appaiono immediatamente funzionali. Sono il lato “creativo” del farsi e disfarsi del sistema nella battaglia con l’ambiente che non è mai vinta ma sempre “aggiustata”. Se poi la battaglia si perde, il si-stema, arrivato al punto di rottura, o viene distrutto o si trasforma radical-mente con una forma di ‘emergenza’, un’estrema forma di creazione di barriere difensive e strategie di interpenetrazione con l’ambiente. Immagi-niamo sistemi in continuo movimento che non hanno bisogno di fissare contenuti di verità e di realtà, quanto di creare scenari di apparenze, quello che Hannah Arendt chiamava il valore della superficie (Arendt 1987: 107).

4. Il valore della superficie

Il nulla è difetto di essere esternoVladimir D’Amora

Quando Hannah Arendt introduce, in The Life of the Mind, il fenomeno come unico oggetto possibile d’indagine, che non rimanda ad altro che a sé, non avendo riferimenti ontologici di cui costituirebbe la rappresentazio-ne, cita le ricerche zoologiche di Adolf Portmann che negli anni Cinquanta aveva tentato una teoria alternativa a quella darwinista, sostenendo che le

34 Errore

forme degli animali sono troppo sofisticate per essere spiegate con il fun-zionalismo darwiniano del valore di sopravvivenza. La funzione ha senso anzi non tanto come funzione di conservazione quanto come strumento di auto-presentazione (Arendt 1987: 108). Adolf Portmann infatti, seguendo Goethe, sostiene che la forma dell’essere vivente esista per essere portatri-ce di informazioni su di sé. Trascurato come irrilevante rispetto alle teorie darwiniste, il tentativo di Portmann, che resta ancora tutto da sviluppare, potrebbe spiegare invece quello che resta inspiegato nella teoria evoluzio-nistica, improntata sull’analisi scientifica, cioè sui ‘meccanismi’ che go-vernano le cose, lasciando da parte la questione teleologica del vivente, il “suo fatto formale, il suo essere così e non altrimenti” (Portmann 1989: 226). I colori presenti in una configurazione animale possono essere ridot-ti a reazioni chimiche quantificabili sperimentalmente, eppure la conside-razione chimica non comprende perché i sistemi continuano a differenziar-si, cioè ad esibirsi in modi sempre più specifici e vari (Portmann 1989: 211). Un conto è spiegare la struttura di una forma, un altro conto è capire come quella forma si è auto-costruita e auto-esibita, secondo una tecnica della natura (nel senso che appartiene alla auto-poiesis attiva delle cose na-turali e non legge strutturale di cui la natura è prodotto). Piumaggio, ciber-netica, danze rituali sconosciute, queste cose disparate hanno in comune una struttura ‘creativa’ che sfugge alla scienza (Portmann 1989: 235). Cre-ativo vuol dire che si auto-crea senza nessun’altra intenzione che quella di crearsi. Non si tratta di distinguere l’organismo dalle sue produzioni for-mali, ma di dire che l’organismo è forma teleologica, “organismo come forma finalistica” (Portmann 1990: 149): la forma non solo non è strumen-tale ma non è nemmeno oggetto di un’intenzione, è intenzione essa stessa. La forma, cioè la bellezza ‘formale di certi animali (inclusi pesci e batteri) che sembrano fatti di elementi decorativi non necessari alla loro già molto simmetrica apparenza, non ha spiegazione. In alcuni casi, non sappiamo nemmeno se i membri della stessa specie siano in grado di percepire quel-la bellezza che appare sui loro corpi.

Il “valore della superficie” in difesa dall’autonomia delle apparenze ci serve qui a sostenere una definizione di errore come necessario in una pro-spettiva fenomenica del reale: il gesto di distinzione della verità assegna una realtà, ma lo può fare solo se ha già definito quello che deve esclude-re. Se assegniamo a un animale una classe (e un nome) ne escludiamo un’altra in base a un sistema di riferimento che è un sistema degli errori. Quindi lo stesso animale può appartenere a classi diverse, a forme diverse, a superfici diverse. Questo non è necessariamente un relativismo linguisti-co, ma ha conseguenze ontologiche:

35B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

Non potrebbe essere che le apparenze non siano al servizio del processo vi-tale ma, viceversa, che il processo vitale sia al servizio delle apparenze? (Arendt 1987: 108).

Non è la conoscenza a fermarsi ai fenomeni, è la realtà a essere fenome-nica e fluida. È come se le forme delle cose tendessero a resistere alla loro propria fluidità, senza riuscirvi e formando per questo continue riconfigu-razioni di bellezza (che ci sembra forma stabile solo nell’ambito del lasso di tempo “umano”, che non percepisce la fluidità delle configurazioni).

Così Roger Caillois proponeva scienze diagonali, perché i caratteri dell’elemento di una classe che vengono eliminati come irrilevanti (come errori, o come forme arbitrarie e non funzionali), possono tornare rilevanti in un’altra classe:

Se voglio studiare il funzionamento delle ali, è chiaro che questa volta devo ricongiungere il pipistrello agli uccelli e anche alle farfalle, […] lepidotteri in-vertebrati, uccelli vertebrati, [...].Se poi volessi studiare il volo a punto fisso, cioè il tenersi il corpo fermo e sospeso in aria, dovrei mettere insieme l’uccel-lo mosca con lo sfingide macroglosso, eccetera. (Caillois 1998: 4).

Sembra esserci una relazione tra funzione e disfunzione o superfluità funzionale. L’una è esclusa dall’altra, nel senso che il funzionale è tale in base al disfunzionale. L’uno rimanda all’altro. La superfluità funzionale ha – paradossalmente – una funzione che non può essere non riconosciuta dal-la funzione che la esclude. A che servono i colori di queste ali? È una do-manda che contiene la risposta: non servono, quindi servono per se stessi. Potremmo dire che, in presenza di due sistemi in relazione di doppia con-tingenza, ad esempio l’animale di cui riconosciamo le funzioni strutturali e quello che esibisce le proprie configurazioni formali (che può essere lo stesso animale), ognuno dei due, è rispetto all’altro, produttore di errori che sono il limite entro cui si esplica l’altro sistema.

Così lo scenario che esibisce ad esempio un progresso (sociale, tecnolo-gico, eccetera) è una forma che si presenta erronea rispetto alle argomenta-zioni che ne distruggono la sostenibilità, e viceversa. Non c’è via d’uscita da questa correlazione conflittuale, perché corrisponde a fenomeni che si possono esibire nella loro parzialità mobile (e solo nella loro parzialità mo-bile). Si può esibire il progresso come il regresso e non sono errori se non rispetto a una funzionalità opposta, cioè una disfunzionalità.

Per questo abbiamo bisogno di pensiero abduttivo, perché metaforizza – trasporta in campi impropri – una figura nota in un altro sistema sconosciu-to, per estenderne la funzione e quindi il senso, come se ci fosse un propo-

36 Errore

sito unificante, un adattarsi reciproco delle forme nel loro somigliarsi. Nell’esempio di James Maxwell, l’effetto di un fluido somiglia all’effetto dell’elettricità sulle onde magnetiche – c’è una ‘forma’ comune e una tele-ologia immaginaria che, se fosse vera, renderebbe la comprensione plausi-bile. Il ‘fluido’ erroneo di Maxwell, non è direttamente funzionale alla sco-perta delle onde elettromagnetiche (essendo un passaggio contingente e immaginario), eppure costituisce un’emegenza arbitraria che, in feedback loop, facilita lo studio delle ‘cause’ di un fenomeno, che a sua volta poi ge-nera altri scenari immaginari (abbiamo sempre infatti modelli di un funzio-namento – Antomarini 2010: 22 e ss.).

Il pensiero è correlato a fenomeni-cose che gli appaiono e che gli si pre-sentano come scenari plausibili. Le cose non sono altro che quei fenomeni nel loro apparire e nel loro emergere. L’errore va dunque ridefinito come quello che l’emergenza della forma nella sua singolarità non sostiene (ma certo sappiamo che per altre forme e altri scenari quell’errore non esiste).

Le cose (e correlativamente quindi il pensare e il conoscere) emergono nel loro auto-esibirsi, nel loro plasmarsi sulle sensazioni che sollecitano, così come le sensazioni si aggiustano su quelle esibizioni. Non c’è più qui nessuna distinzione tra un soggetto che ‘conosce’ un oggetto esterno a sé, né un oggetto che ‘causa’ il movimento del soggetto pensante. Errore in questo senso vuol dire autonomia (da soggetto e oggetto).

L’auto-esibizione delle cose resta un fenomeno contingente e singolare, che si spiega non con cause generali, ma con azioni auto-teleologiche. In una prospettiva pragmatista, una cosa c’è in quanto ne ho gli effetti; da un punto di vista ontologico, una cosa c’è o la uso in quanto mi si presenta.

Quello che a livello epistemologico è una forma-scenario (un apparire gra-tuito, creativo) non-lineare rispetto a una logica inferenziale induttiva, ma le-gato a questa in feedback loop (come il fluido di Maxwell rispetto alla struttu-ra misurabile dell’elettromagnetismo), a livello ontologico è l’auto-esibizione di una auto-creazione; un fenomeno che si stabilisce tra il sistema portatore materiale della forma e il sistema in grado di percepirlo (che va oltre la fun-zione di sopravvivenza della selezione naturale o sessuale, in quanto il siste-ma che percepisce può anche non appartenere alla stessa specie del fenome-no. La bellezza dei batteri non sembra fatta per essere percepita dai batteri).

5. Il contenuto fantastico del mondo

L’emergere di una forma, se non trova e non ha spiegazione, perché non ha funzione, è erroneo dunque, è il momento arbitrario, superfluo, creativo

37B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

della reazione alla richiesta ambientale, ma proprio per questa gratuità esi-bisce la totalità dello spettacolo del mondo, dove attori e spettatori si scam-biano continuamente di posto. Al lato creativo del sapere corrisponde un lato creativo delle cose. L’errore rispetto alla funzione protegge l’autono-mia del sistema dalla sua utilizzabilità, impedisce cioè che si venga usati completamente; sposta equilibri, per sfuggire all’eteronomia della funzio-nalità che produrrebbe appiattimento entropico. L’inutile (abduttivo, con-tingente, singolare, sbagliato) fluido di Maxwell sposta il campo d’indagi-ne, spiazza il pensiero dalla sua funzionalità etero-diretta, lo lancia in una direzione nuova che, se può sbagliare, può però anche vincere. Visto con indifferenza fenomenologica, il contenuto del mondo è fantastico ben più che funzionale (Portmann 1989: 185). L’abduzione è l’elemento futuro del-la conoscenza, quando non fissa categorie (che sono il suo passato); ed è anche il pericolo della conoscenza, perché uno scenario abduttivo, come può portare effetti, azioni e decisioni buone, può anche portarmi per la stra-da più sbagliata.

Ogni scenario abduttivo – fittizio – non solo ci tiene pronti alla pos-sibilità futura che quella ipotesi diventi funzionale, cosicché se arriva non ci trovi impreparati, ma soprattutto dice di sé, manifesta se stessa come funzione di se stessa. Mi creo scenari per uscire da uno stato di ansia. Ma se ho stati di ansia è perché mi mancano scenari. Sono un es-sere che ha bisogno di scenari, fittizi, arbitrari, fantastici, allucinati. Quello che sembra sbagliato, o quello che sembra strumentale, è lo sco-po. Il fenomeno è interfaccia epistemologica (fittizio) e ontologica (for-ma in fieri).

In questa correlazione funzione e forma si anticipano a vicenda, si pro-vocano a vicenda, tenendo il sistema in condizione dinamica, nello stato dell’auto-farsi. Una condizione senza fondo, senza appiglio. Ma non è sempre così che vanno le cose? C’è quello che appare e le cose appaiono sempre in modo singolare, quindi in molti modi.

L’auto-esibizione delle cose costituisce rapporti dinamici, di feedback loop tra funzionalità e arbitrarietà, reazione ed emergenza, giusto e sbaglia-to. Che la selezione sia fondamentale nella definizione della verità ci inte-ressa qui non tanto per stabilire la relatività della verità – che comunque va testata – ma per dire che il test di verifica ha un rapporto di circolarità con lo scenario di partenza: costruisco lo scenario in base a indizi, trovo gli in-dizi che avevo presupposto, oppure non li trovo. Ma non trovo (o non tro-vo) nel test altro che quello che cerco. Mi fingo (fingo significa all’origine plasmo) di precludere l’errore come esterno alla mia considerazione (tran-ne poi inconsciamente tenerlo presente...).

38 Errore

6. Ontologia parallela

Che questa inclusione virtuale dell’errore e dell’arbitrario in una episte-mologia che rispetti le caratteristiche delle cose, sia un modo naturale del pensiero lo dicono gli esiti surreali delle categorizzazioni (pensiamo a Bor-ges o Calvino). Uno in particolare ci sembra adatto come esempio, che usa descrizioni ‘fittizie’ di piante, su base di ricerche reali, intrecciate ad altre false: La botanica parallela di Leo Lionni, grafico, scrittore e illustratore di libri per bambini. Ne La botanica parallela si descrivono piante paralle-le, non esistenti empiricamente, ma parallelamente, cioè mentalmente, vir-tualmente, o artisticamente; sono presenti nel libro infatti in forma di dise-gni e si riconoscono, dice Lionni (che cita spesso, insieme a nomi di studiosi inventati, anche Adolf Portmann), per la loro esclusiva qualità di auto-presentazione priva di funzione o significato (Lionni 2012: 84). Sono piante estranee a leggi di selezione naturale e «sfuggono ai più elementari sistemi di osservazione diretta» (Lionni 2012: 12). Essendo parallela, la classificazione di piante inventate non minaccia quella ‘reale’, eppure la sua esistenza, anche se non sperimentale, indica che anche quella ‘reale’ è parallela. La scoperta di questa botanica agisce esattamente come agisce una qualsiasi scoperta di cose ‘reali’: costringe a rivedere tutta la struttura di ‘realtà’ (Lionni 2012: 14).

Ad esempio, si racconta da parte del paleontologo ‘parallelo’ Gustav Morgensten, le lepelare (prime forme di alghe ‘parallele’) erano del tutto trasparenti e vivevano sospese sotto la superficie del mare, finché un ura-gano le sollevò in vortici così violenti da rovesciarle sulla terra e distrug-gerle: Ma ecco che

una lepelara, un ‘caso guidato’ come lo chiama Theilard de Chardin, con uno scatto mutante di inspiegabile invenzione, incomincia ad aspirare, a suc-chiare, ad assorbire dal terriccio bagnato, che la copre in parte, l’ossigeno, l’i-drogeno e i minerali [...]. L’alga trasparente è ora verde e viva, pronta al segna-le definitivo del destino che le dirà di ergersi sulla terra asciutta: prima pianta della Terra. (Lionni 2012: 44).

Ora, negli anni Novanta, la biologa Lynn Margulis, sostenendo l’ipotesi che la terra sia un super-organismo con un’energia interna auto-poietica (Gaia hypothesis), descrive come devono essere andate le cose al momen-to dell’emergere della vita vegetale così come la conosciamo, cioè nata dal-la sintesi clorofilliana: certi batteri, chiamati archaebacteria vivevano in as-senza di ossigeno, erano sparsi ovunque nell’oceano (e si trovano ancora

39B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

oggi negli stomaci delle mucche o nell’acqua di scarico), avvolti in fragili involucri gelatinosi e trasparenti, finché non formarono una membrana che li proteggeva dall’esterno e cominciarono allora usare ossigeno (Margulis 1995: 85). A quel punto si trasformarono in batteri blu-verdi che formaro-no tappeti immensi sotto la superficie del mare e si distinguevano gli uni dagli altri da una membrana, potevano assorbire energia solare e dividere al proprio interno l’idrogeno dall’ossigeno, espellendo l’ossigeno e rila-sciandolo in enormi quantità sulla superficie della terra, un inquinamento dal tasso altissimo che permise l’evoluzione delle specie viventi (Margulis 1995: 89-90).

Le due descrizioni, una fantastica, l’altra scientifica, sembrano in sinto-nia reciproca e difficilmente riusciamo a capire dove sta la differenza tra i due scenari. I batteri sono un esempio significativo non solo in quanto la loro scoperta e il loro ruolo nell’evoluzione restano legati a ipotesi abdutti-ve, ma anche perché hanno una struttura talmente lasca da proliferare non per mitosi ma per continue ricombinazioni del loro DNA, immersi in un pool genetico che non ne permette la classificazione se non temporanea (Margulis 1995: 96). Possiamo pensare che in fondo anche le nostre classi-ficazioni, a distanza spazio-temporale, hanno la stessa qualità fluida e tem-poranea, in costante disequilibrio, necessario alla coincidenza con quello fattuale.

Tra organismi empirici e organismi paralleli sembra esserci un continuo anticiparsi reciproco; il fittizio erroneo passa al testabile e viceversa, per il tramite di una percezione sempre presa nei suoi scenari abduttivi. Senza questi, percezione vorrebbe dire cieca risposta ambientale, funzionalità im-mobile e quindi incapace di proteggere, se l’ambiente è mobile («Anche l’istinto agisce per un’immagine interposta» – Caillois 1998: 17).

«Guarda che strana pianta...» (Lionni 2012: 66), quando diciamo così, sovrapponiamo la percezione gestaltico-classificatoria alla prontezza a scavalcare sia la classificazione che la percezione. È la forma quello che ci porta da un modo all’altro di pensare, non la struttura dell’organico (che è, sì, contraddistinto dalla “crescita”, ma noi non vediamo mai una cosa cre-scere, vediamo il cresciuto (Lionni 2012: 68), che è l’organico nella sua forma presentabile, auto-presentabile (temporaneamente stabile). Che que-ste forme organiche siano funzionali ad altro da sé (come la conservazione) lo abbiamo cominciato a credere da quando abbiamo costruito macchine in base a principi tecnici; il funzionalismo organico è solo un’estensione teo-rica presa in prestito da quello meccanico. La prova è che anche nelle mac-chine, che esistono per essere funzionali, tendiamo ad aggiungere elemen-ti decorativi, simbolici, estetici, ridondanti rispetto al funzionale. Abbiamo

40 Errore

un ‘impulso geometrico’ che cominciò quando – dice lo psicologo paralle-lo Wolfgang Keller (Lionni 2012: 70-72) – il primo uomo si levò su due gambe per correre dietro a un sasso tondo, lo prese per tenerlo nella mano libera, anche se non serviva a niente, ma solo perché si auto-presentava con la sua forma, unica e già forse un po’ scavata dal tempo, eppure tonda e ge-ometrica, sbagliata e sovrapposta a una forma perfetta. La contemplò pen-sando alla geometria.

7. Spostamenti di equilibri, o la legge di conservazione del caos

Che cosa dunque distingue e connette gli ‘errori’ meravigliosi della bo-tanica parallela dalla botanica “reale”? Il fatto che la botanica reale, siste-ma creato da scenari abduttivi, si definisce in base alla relazione non-line-are tra l’osservazione delle piante e l’ambiente botanico, e soprattutto si auto-fa e si auto-modifica in base alla dinamicità dell’ambiente botanico. La botanica parallela al contrario è un sistema chiuso, che non ha bisogno di modificarsi. Ma è altrettanto reale, se rivela lo scenario abduttivo mo-strato a se stesso, il lato ‘creativo’ estrapolato da ogni relazione sistemica. Anche se non riceve provocazioni da niente di esterno, rivela qualcosa del funzionamento della mente, come del funzionamento delle cose. È comple-tamente auto-poietico. La sua chiusura non è difensiva, non sposta equili-bri, non ha bisogno di sfuggire a minacce. È il puro disegno senza intenzio-ne (Caillois 1998: 24) che investe tutte le cose, pura tendenza all’ordine, come se non ci fosse una contro-tendenza al disordine. Salvaguardare il lato parallelo, l’auto-presentazione pura del pensiero e delle cose è come proteggere queste dalla pretesa di quello di conoscerle, serve a individuare quelle che Donna Haraway chiama “companion species”, specie ibride (come il cane e il cyborg) (Haraway 2008: 9) di cui vale la pena riconosce-re il divenire piuttosto che la ‘affiliazione’, come è stato nella cultura iden-titaria patriarcale, a ricordarci che conoscere il mondo non significa rinun-ciare al suo carattere fantastico, perché è questo che ci dà strategie di spostamento. È come se il disegno evolutivo di conservazione dell’esisten-za fosse guidato dall’altro, parallelo e autonomo, di voler apparire. Tutto quello che vive, vive in base a un continuo spostarsi da un punto all’altro per evitare la morte o la distruzione, attraverso forme emergenti e talmen-te differenziate da sfuggire a ogni strumentalizzazione.

Sostituire il concetto di spostamento a quello di progresso vuol dire che ogni volta che si raggiunga un obiettivo, qualcosa di buono si perde, qual-cosa di cattivo emerge, qualcosa di cattivo si perde, qualcosa di buono

41B. Antomarini - L’errore, o del carattere fantastico del mondo

emerge (e qualcosa resta). Se l’equilibrio è salvo per il momento, si può procedere, sapendo che ogni miglioramento avrà un lato oscuro. Ci si pre-sentano strade alternative e non sappiamo perché le preferiamo, esploria-mo territori che potrebbero deviarci, ci teniamo in equilibrio tra errori e vit-torie intercambiabili.

Non escludiamo dunque che stiamo assistendo a una parallelizzazione di tutte le cose (Lionni 2012: 97). D’altra parte nel Primo Congresso inter-nazionale di Filosofia parallela a Tokio nel 1978 (già annunciato nel 1977 da Leo Lionni – Lionni 2012: 97) si sono messe le basi perché il vero co-minci a riscattare il debito che ha contratto con l’errore.

Bibliografia

ANTOMARINI B.2007 Pensare con l’errore. Il bersaglio mobile della conoscenza, Torino.

2010 Lo spazio teatrale come spazio cognitivo primario, in Sensibilia 3. Spazio fisico/Spazio vissuto, M. Di Monte - M. Rotili (a c. di), Mila-no, pp. 11-28.

2012 Thinking Through Error. The Moving Target of Knowledge, Lanham.

ARENDT H.1978 La vita della mente, Bologna 1987.

42 Errore

CAILLOIS R.1960 L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Milano 1998.

HARAWAY D.2008 When Species Meet, Minneapolis.

LIONNI L.1977 La botanica parallela, Roma 2012.

LUHMANN N.2001 Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna.

MARGULIS L. - SAGAN D.1995 What is Life?, Berkeley and Los Angeles.

MAXWELL J.1890 The Scientific Papers of James Clerk Maxwell, W. Niven (a c. di),http://archive.org/stream/scientificpapers01maxw/scientificpapers-

01maxw_djvu.txtAccesso 5.V.2014.

NOË, A.2004 Action in Perception, Cambridge (Mass.).

PEI RCE C.S.1955a Some Consequences of Four Incapacities, in Id., Philosophical

Writings of Peirce, J. Buchler (ed.), New York, pp. 228-250.

1955b Abduction and Induction, in Id., Philosophical Writings of Peirce, J. Buchler (ed.), New York, pp. 150-156.

PORTMANN A.1969 Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Milano 1989.

1990 Essays in Philosophical Zoology, New York City.

RUMELHART D.E. - MCCLELLAND J.L.1986 Parallel Distributed Processing. Explorations in the Microstructure

of Cognition, Cambridge.

43

ERRARE NEL LABIRINTO DELL’ERRORE

di Stefano Bevacqua

1. Il labirinto di cui si vuole qui discutere non è quello di Hermann Kern, il curatore della celebre esposizione milanese del 1981 e autore della più completa e dotta ricerca in materia. Non è il labirinto delle chiese medieva-li, perché al contrario di questi non prevede un ingresso e un’uscita. Que-sto labirinto è quello in cui si erra, nel duplice senso del condursi senza una meta riconoscibile e del compiere errori, labirinto fatto di pieghe e di di-stensioni, di ripiegamenti e di continue ed equivoche mutazioni di direzio-ne. Nemmeno è un percorso iniziatico ma piuttosto una condizione, uno stare tra i due lembi dalla piega, anzi: di innumerevoli pieghe. Niente orientamento, nessuna mappa possibile. Permane soltanto la schematica procedura di una danza, quella che Omero descrive quando narra dello scu-do di Achille. Omero lo chiama «sciancato abilissimo», oppure «storpio glorioso», e non cela la propria ammirazione per la sua arte. Efesto è il solo che potrà ridare all’eroe la potenza necessaria, simbolicamente racchiusa nello scudo formato dai cinque strati concentrici sui quali erano sbalzate le immagini del mondo.

Tra un cerchio e l’altro si inserisce il sistema di opposizioni e di affini-tà, per cui al primo, che rappresenta l’universo, si ricollega il terzo, che narra della natura dell’uomo, e questa si oppone alla città, nella quale si svolge la vita quotidiana o l’eccezionalità della guerra, per cui il quarto cer-chio quello della danza e del gioco si ricollega proprio a questo e forma come una sorta di baluardo prima dell’immensità dell’oceano, una difesa ultima, da non frangere, pena il cadere nel caos. Tutto quello che è conte-nuto dal primo al quarto cerchio è il cosmo e, dal secondo al quarto cerchio, la vita dell’uomo che lo abita; il quinto cerchio è il caos, l’indifferenziato, l’oblio nella moltitudine nella quale non è possibile alcuna vita perché vi è negata ogni individualità.

Il nostro scopo è di mettere a fuoco il disegno del labirinto in quanto luo-go del limite, nel quale lo spazio si srotola fino alla sua dismisura e il tem-

44 Errore

po perde la possibilità di essere cògnito. Un luogo che si colloca già al di là di un limite senza pienamente attraversarlo, come sul bordo dell’oceano del quinto cerchio dello scudo di Achille, ma già oltre il secondo ed il ter-zo cerchio, luoghi al di qua, ove vige la quotidiana vita degli uomini. Il quarto cerchio è costituito dalla danza dei giovani e dalle mosse dei due acrobati. Null’altro. Luogo in cui perdersi, nell’infinità dei cerchi che si ri-congiungono e si ripiegano, nell’indeterminazione di un tempo ottuso dall’ebrezza. Si gira in tondo e gira la testa, la testa gira e si perde la dire-zione, l’equilibrio, si cade vittime del labirinto, rinchiusi e dimenticati nel-le sue circonvoluzioni. Solo il filo permette a Teseo di uscirne vivo e vitto-rioso, dopo aver giustiziato il mostro mezzo uomo e mezzo toro, riportando a casa le fanciulle ed i giovani.

Nel labirinto si entra ma non si esce, perché si è sempre stati dentro. È luogo al limite perché non offre soluzioni. Labirinto come luogo non più al di qua ma non ancora al di là, luogo nel confine, non nelle vicinanze, ma dentro i lembi del qui e del là, del prima e del dopo. Il quarto cerchio dello scudo di Achille permette di sporgersi verso il caos rimanendo ancora al di qua, ma non offre saldezza. La via d’uscita è soltanto quella indicata da De-dalo. L’aveva costruito lui, il labirinto, lui provetto architetto, abile in ogni edificazione. Sapeva che non avrebbe mai potuto uscirne se non lungo la via verticale. Dedalo ha inventato la visione ortogonale, la pianta dell’ar-chitetto, perché l’ha vista volando insieme a suo figlio Icaro sopra la sua opera, ha visto com’era fatto il suo capolavoro, che altrimenti conosceva soltanto attraverso il percorso, nell’ebrezza dell’insuccesso e dell’avvici-narsi al caos dell’oceano. Dedalo vola via dal suo labirinto tenendosi alla giusta altezza sopra al mare, né troppo in basso, ché le acque potrebbero inumidire e appesantire le ali; né troppo in alto, ché il sole potrebbe brucia-re le piume. Icaro, lo sappiamo, non gli da ascolto. Ma le sue ali non arri-vano a bruciarsi: è la cera, che si scioglie per il troppo calore. Errore archi-tettonico, per Dedalo architetto.

2. I labirinti, materiali o immaginari, metaforici o emozionali, sono estremamente comuni, costituiscono una condizione assai diffusa e addirit-tura ripetitiva del vivere quotidiano. Basta pensare al dubbio, quella posi-zione mentale, e anche spirituale ed emotiva, nella quale ogni persona rica-de con frequenza più che quotidiana. Ebbene, il dubbio non è altro che la porta del labirinto, inteso, questo, come lo spazio di una proposizione da as-severare o di una decisione da cogliere, posizione ad alto contenuto di peri-colo, perché fa sporgere oltre l’ovvietà e la – presunta – sicurezza che si colloca nell’al di qua; il labirinto, infatti, fa scorgere un al di là, non meta-

45S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

fisico, nei molti casi della quotidianità, ma più semplicemente emotivo e, in tutti i casi, capace di intimorire, di mettere in difficoltà nel decidere, gene-rando, appunto, il dubbio; forse perché è un semplice scorgere, uno sbircia-re oltre, senza certezza, perché la certezza non è di nessun vivente. Il dub-bio si genera insieme all’errore, quello che allontana dalla soluzione, che distoglie e produce a sua volta nuovi dubbi, ancora più densi, difficili da contenere e metabolizzare, faticosi, stordenti; errori che si compiono con assoluta continuità, in una normalità dello scivolare quasi senza coscienza, in misura spesso impercettibile, a fianco, a latere, oltre, oppure troppo in qua o perfino verso il contrario di ciò che era desiderato, atteso, dovuto, prospettato, incitato, obbligato. Per cadere in errore non è necessario av-venturarsi in luoghi o pensieri o intenzioni o azioni inconsuete, straniere, diverse da ciò che è frequente e solito. Si commette l’errore anche com-piendo il tragitto che riporta nella consuetudine della propria casa, attraver-sando luoghi ben noti e abituali. Si dice cadere in errore, oppure anche es-sere colti dall’errore, ovvero commettere un errore. Non è dato sapere che volto dare a questo errore, che sembra un estraneo pronto a tendere traboc-chetti, nel primo caso, quando vi si cade; oppure come un demone che in-segue e perseguita, per afferrare e fermare, arrestando il cammino, deviar-lo, per portare ciascuno lontano da dove dovrebbe – e vorrebbe – andare; infine, atto personale, che deriva dal proprio essere e fare, deliberato, tal-volta, involontario, talaltra, ma comunque che si genera in ciascuno e che ciascuno compie, senza scuse, senza spiegazioni che rinviino a una respon-sabilità altra che la propria. Si commette l’errore nel modo più semplice, in-nocente, involontario. E si cade nell’angoscia del labirinto, ci si perde.

Da quando avevo abbandonato il teatro un Leitmotiv risonava nella mia mente con leggera e ineffabile insistenza: l’Irr Motiv (il tema dell’Errore). M’affascinava quel seducente percorso cromatico legato e discendente dei vio-loncelli, che si contrapponeva a un ascendere difficoltoso, frammentato e sin-copato dei primi violini; era come se il «fondo» fosse facile da raggiungere, ammantato di lusingante voluttà; la vetta, per contro, ardua da possedere e irta di errori e deviazioni. (Sinopoli 1991: 13)

Il maestro Sinopoli, veneziano di nascita, musicista per vocazione, me-dico per mestiere e archeologo per passione, aveva appena terminato le prove del Parsifal wagneriano in un Fenice non ancora punita dall’incendio del 1996. Mormorava l’Irr Motiv, avviandosi a piedi – a Venezia ci si spo-sta soltanto a piedi o per le vie d’acqua, ma soprattutto a piedi: non sareb-be mai accaduto se Sinopoli fosse uscito dalla Scala per raggiungere un qualsiasi luogo milanese più lontano di quattro isolati – verso la casa del

46 Errore

fratello, in calle della Passion, percorrendo ponti, fondamenta, rii, salizade, marzerie, campi e calli a lui ben note dall’infanzia.

Il Maestro si perde a Venezia, perde Venezia, la città gli scivola via, come fosse ignota e a lui dunque estranea; non riesce a percorrerla, trasfor-mata in labirinto popolato di vicoli ciechi, di ostruzioni, di circonvoluzio-ni, ripiegamenti e dispiegamenti, ritorni all’indietro e scarti di lato, incroci, ponti, corti opache. Il Maestro giunge a casa all’alba; ha percorso, in una nottata, un grande cerchio sinistroso, attraversando quasi a scatti, con con-tinui ripensamenti, l’intera ansa disegnata dalla doppia esse del Canal Grande. È uscito dal labirinto, ha superato la prova. Una mappa non lo avrebbe aiutato. Venezia non ha una mappa di carta, è fatta da itinerari, i luoghi si definiscono per il percorso con il quale raggiungerli, che cambia a seconda del luogo dal quale si prendono le mosse. È questo che ha tradi-to il Maestro, assorto nelle melodie del Parsifal: non aveva tenuto conto che l’ultima volta che si era recato dal fratello era partito da San Marco, non dalla Fenice. Errore che lo ha portato nel cuore del labirinto. Il Mae-stro esce dal labirinto perché si ritrova – ri-trova sé medesimo nei segni del suo luogo, della città/isola, disegnata labirinticamente ogni giorno dalle correnti e dalle maree che l’uomo rincorre e addomestica. Non dunque per-ché abbia seguito qualche logica matematica, né perché sia stato salvato da una mappa, come quella che Dedalo ricostruì idealmente rivedendo dall’al-to la sua stessa opera come mai prima aveva potuto. La mappa è inutile, fa sbagliare perché è sbagliata, perché, come ha detto Michel Foucault, «di-venta nient’altro che la fotografia aerea del posto, l’individuazione esterna dei siti attraverso i loro connotati fisici rimpiccioliti e ridotti alle due di-mensioni, la mappa che un aereo da guerra può consultare utilmente per un bombardamento» (Foucault 1976: n. 1, cit. in La Cecla 2005: 73).

Nel labirinto ci si perde per due possibili motivi. Il primo attiene all’er-rore, in cui si cade, che coglie o che si commette, e, dunque, all’errare, in-teso come commettere un errore e come vagare nello spazio. Nel labirinto si erra nel doppio significato del termine, quello dello sbaglio, che si com-pie nel tentativo di districarsi tra i meandri e le circonvoluzioni, le pieghe e le riaperture, e quello del muoversi senza conoscere il proprio futuro, es-sendo il passo successivo lasciato al caso. Il secondo attiene non più all’er-rore, bensì al suo potenziale complemento: l’uniformità. Nei meandri ve-neziani si erra perché non si riconosce il luogo, come ammette lo stesso Maestro nel suo raccontare quella strana nottata del 1991, ma ogni edificio, rio, ponte, passaggio, angolo, pietra di quella città è sempre diverso da ogni altro. A indurre all’errore e a errare è, in quel caso, una carenza di cono-scenza, non una irriconoscibilità dei luoghi e delle cose. Nel labirinto che

47S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

apparisse completamente omogeneo, ove ciascun luogo e ciascun oggetto risultasse irriconoscibile da qualsiasi altro, a indurre all’errore sarebbe una impossibilità di discernere che prescinderebbe da qualsiasi possibile cono-scenza.

Perdersi non è dunque un caso, un fato, un’avventura imprevista. Per-dersi è del labirinto, è connaturato a questo luogo che si affaccia sul caos dell’oceano nel quale è inibito ogni discernere, indipendentemente dal fat-to che ciò avvenga in relazione a un errore, dovuto a una carenza di cono-scenza, oppure dall’assenza primaria di riconoscibilità, dal nostro non rico-noscere, oppure dall’omogeneità dei luoghi. Ci si muove sul limite, un poco al di qua di ciò che, in funzione dei casi, è l’indifferenziato, oppure l’ignoto o l’inconoscibile, ma già al di là dell’ovvia certezza, del noto e vis-suto, del praticato e familiare. Si abita il quarto cerchio dello scudo di Achille e quello che si credeva essere una linea, una semplice astrazione geometrica monodimensionale, si è rivelata come un luogo, un’entità che si vorrebbe definire come spaziale e temporale, ma che sfugge a qualsiasi definizione corrente, perché più complessa del vocabolario e più critica della geometria: niente metro né cronometro, solo la percezione soggetti-va, l’angoscia di essere in un luogo, il labirinto, posto sul margine, di cui non si conosce l’estensione né l’esito.

3. Le circonvoluzioni del labirinto sembrano coincidere con quelle dell’infinita piega barocca, dalla cui osservazione traspare la logica infini-tesimale della riflessione leibniziana, ma anche gli infiniti meandri della Venezia attraversata in tutte le dimensioni – la terza, in altezza è data dalle scale dei ponti, che uniscono, asserendo, ad ogni passaggio, la diversità delle rive, così come per il labirinto di Cnosso è dettata dalla finale eleva-zione in volo del suo creatore. La piega pensata come rappresentazione del luogo al limite, sul limite, dentro il limite, in quanto interminabile sistema che si avvolge e si riavvolge su se medesimo, nel quale le due facce della superficie appartengono a due distinte entità, una che guarda al di qua e l’altra che si colloca al di là, ma in una tale complessità di relazioni mutue, generate dall’infinito ripiegamento, da non permettere più di sapere con precisione se il lembo di superficie nel quale si giace in quell’istante appar-tiene al di qua oppure risiede al di là. Inoltre, mentre si percorre questo luo-go sinuoso, esso stesso muta continuamente, in un movimento inarrestabi-le di scivolamento, per il quale ciò che era convesso ora è concavo, ciò che stava aprendosi e distendendosi adesso si ricongiunge, moltiplicandosi in una nuova efflorescenza di pieghe più minute, ciò che era davanti ora sem-bra sporgersi indietro e ciò che era sicuramente al di là sembra proposi di

48 Errore

terga mentre raggiunge sé stesso nella sua continua circonvoluzione. Labi-rinto di senso, in cui tutte le posizioni possibili occupate da ogni elemento, che siano le cose che lo abitano o le persone che lo vivono, rinunciano ad essere fissate come in un quadro di coordinate cartesiane, ma soltanto pos-sono essere definite come ciò che in quel dato momento si colloca a una certa distanza e con una certa angolazione rispetto ad altre cose o altre per-sone, al punto di non consentire alcun riconoscimento di ciò che occupa un posto nello spazio e nel tempo, ma soltanto come insieme di elementi che mutualmente si definiscono l’uno rispetto all’altro. La piega diviene così l’espediente immaginifico capace di descrivere la differenza tra ciascun elemento e ogni altro. Come scrive Gilles Deleuze, la piega racchiude in sé la condizione stessa della differenziazione, ciò anche nell’ambito della bio-logia e a prescindere dal fatto che ci si riferisca a una teoria preformatisti-ca, così come l’aveva sposata Leibniz, oppure a una visione epigenetica.

Lo sviluppo non va dal piccolo al grande per crescita o incrementi, ma dal generale allo speciale, per differenziazione di un campo precedentemente in-differenziato, sia sotto l’azione dell’ambiente esterno, sia sotto l’influenza di forze interne, che sono direttrici, direzionali e non costituenti o preformanti. [...] L’essenziale è che le due concezioni, hanno in comune di concepire l’orga-nismo come una piega, piegatura o piegamento originali (e mai la biologia ri-nuncerà a questa determinazione del vivente, come testimonia oggi il ripiega-mento fondamentale della proteina globulare). (Deleuze 1988: 15s.)

Deleuze riassume così la questione: in un caso, si sarebbe di fronte alla differenziazione di un indifferenziato, nell’altro, a una differenza che si dif-ferenzia. In entrambi i frangenti l’immagine della piega resiste allo sforzo di trasporla oltre ogni sua usuale referenza e si impone come adeguata de-scrizione della complessità. A essere determinante non è tanto come la pie-ga si sia formata, se essa si produca per l’intercessione di qualche cosa di esterno – un dio o Dio creatore – sull’inanimata superficie di un mondo che assomiglia troppo a quello che la scienza propone come futuro remoto, op-pure se essa piega provenga sempre da un’altra piega, per cui dovrebbe esi-stere una piega primigenia – per così dire: laica, o forse atea, come quel ba-gno primordiale di carbonio, ossigeno ed energia. A essere determinante è la successione delle pieghe, il loro estendersi nello spazio e mutare nel tem-po, per forma e configurazione, per sembianza e sostanza, avvolgendo e re-stituendo continuamente ogni parte di sé medesime. Non si contano le pie-ghe né le circonvoluzioni del labirinto e non si misurano; si possono soltanto confrontare tra loro, per ognuna o per serie o per panorami di pie-ghe. Il confronto dice la differenza, anch’essa non misurabile in sé – non si

49S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

applica la geometria analitica, il calcolo differenziale può aiutare e ispira-re, ma non offre applicabilità né computazione possibile. La differenza può essere cercata e quindi considerata e infine ammessa. La differenza risiede nelle pieghe, ma è anch’essa una piega, la piega della piega, il ripiegamen-to. Non serve conoscere se questa differenza si generi da un indifferenzia-to o da un’altra differenza, importa che la differenza prende forma e si isti-tuisce attraverso una separazione: la piega ulteriore introduce una separazione nella piega precedente; il dispiegamento riporta unità tra le dif-ferenze; il ripiegamento le moltiplica nuovamente. La differenza è ciò che indica un qua e un oltre, un prima e un dopo, entrambe le cose. La differen-za non è il confine tra qualche cosa e qualche altro, ma coincide con esso. Il confine è nella superficie della piega, che si aggroviglia, ma mantiene sempre due distinte facce, che fa perdere la cognizione del davanti e del dietro, che confonde i ruoli, ma mantenendoli sempre distinti ancorché non riconoscibili, generando così un luogo che si apre tra qua e là, sovrastando e inghiottendo la differenza. La piega, anzi: un sistema costituito da una moltitudine di pieghe in costante evoluzione, è la descrizione possibile del-la configurazione di un mondo nel momento in cui la piega, ovvero il siste-ma delle pieghe, definisce la differenza non istituendo un confine lineare e mono o bidimensionale, ma attraverso un ripiegamento, celandosi, rivol-tandosi infinite volte, mostrando entrambe le facce ma impedendone il ri-conoscimento, generando una texture.

La texture: la fisica leibniziana comprende due capitoli principali, uno con-cernente le forze attive, dette derivate, rapportate alla materia, l’altro le forze passive ovvero la resistenza del materiale, la texture. È forse al limite che la texture appare meglio, prima della rottura o della lacerazione, quando lo stira-mento non si oppone più alla piega, semmai la esprime allo stato puro [...]. In via generale, è la maniera con la quale una materia si piega che costituisce la sua texture: essa si definisce meno per le sue parti eterogenee e realmente di-stinte, che per la maniera in cui queste diventano inseparabili in virtù di pieghe particolari. (Ivi, p. 51)

Ma è un’idea di texture limitativa, questa di Leibniz ripresa da Deleuze. In effetti si dovrebbe dire che la texture, intesa in un senso più ampio, come strutturazione delle cose che abitano un luogo e il luogo stesso come con-tente le cose, trattiene e custodisce il segno delle differenze che risiedono nel luogo attraverso le pieghe. La texture potrebbe così rappresentare l’in-sieme delle pieghe, per così dire: primarie, che moltiplicandosi in ulteriori interminabili pieghe, a loro volta istituendosi in serie di pieghe, mantenen-do traccia della correlazione che si instaura tra pieghe e pieghe e serie di

50 Errore

pieghe e serie di pieghe e della loro necessaria manifestazione come quali-tà del luogo e delle cose. L’immagine della piega diviene in tal guisa siste-ma descrittivo di ogni mondo che si proponga come luogo di transito tra qua e là e transitorio tra prima e poi; la piega permette di descrivere ogni luogo sul limite perché comprende il limite e lo rigenera come moltitudine di aspetti possibili del limite medesimo. La texture, così intesa, risolve an-che l’idea di compossibilità e quella di incompossibilità: la texture è abita-ta da entrambi, in essa trovano luogo i possibili di mondi diversi e compa-tibili, ma anche gli impossibili di mondi incompatibili, perché la texture è qua e oltre il qua al tempo stesso e può dunque comporre e contenere cose incompatibili in virtù del suo attraversare e sovrastare luoghi diversi in tempi distanti. La texture, nella quale si insediano le serie e le successioni dinamiche delle pieghe, offre ospitalità a ogni possibile oggetto perché la sua configurazione diviene qui porosa, torbida, imprecisa, financo dubbia. Nel mondo di Leibniz le attribuzioni delle cose sono necessariamente pre-cise e definite, tra di esse non sono ammesse incompatibilità e ogni cosa così fissata come esistente non potrà essere non esistente. Nel luogo del margine, nella texture generata dalle pieghe che in ogni istante assumono versi e posizioni e numero differenti, si scivola invece nell’indefinito, in una condizione in cui è permesso soltanto di seguire l’evoluzione delle condizioni del luogo medesimo.

Il luogo del confine sembra così mostrare una sorta di affinità con il caos primigenio. Scrive Deleuze ripercorrendo il pensiero di Leibniz:

Seguendo un’approssimazione cosmologica, il caos sarebbe l’insieme dei possibili, cioè tutte le essenze individuali in quanto ciascuna tende all’esisten-za per conto proprio; ma il vaglio lascia passare soltanto i compossibili, e la mi-gliore combinazione di compossibili. Seguendo un’approssimazione fisica, il caos sarebbero le tenebre senza fondo, ma il vaglio estrarrebbe il fondo scuro, il fuscum subnigrum, il quale, per quel poco che differisce dal nero, pur contie-ne tutti i colori: il vaglio è come la macchina allestita all’infinito nella natura. (Ivi, p. 104)

Il caos non appare dunque come negatività in sé, ma costituisce piutto-sto un pericolo, quello di perdersi, di non essere più capaci di ri-conoscere luoghi e cose e sé medesimi. Ecco, allora, il vaglio, il setaccio – mosso dal divino che guida la mano – attraverso il quale discernere, chiarire il possi-bile dall’impossibile, il compossibile dall’incompossibile, per creare un paesaggio privo di contraddizioni, accettabilmente compromissorio, dac-ché la compossibilità è già una concessione alla non completa e pregna co-erenza tra cose che non dovrebbero coesistere. Leibniz fa questa enorme

51S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

concessione, questo compromesso, forse perché spinto dall’evidenza me-todologica imposta dal suo calcolo infinitesimale, come calcolo che perde ogni assolutezza per accontentarsi di misurare differenze. Ma rimane, pur in questo più aperto quadro di compromesso, la presenza del vaglio che se-para, che definisce confini all’interno del caos, operando così una moltipli-cazione della complessità, invece di una semplificazione per compossibili-tà. Perché il vaglio opera nuove identificazioni e tra ciascuna identità emersa dalla sua azione e ogni altra si instaura un nuovo confine, un limi-te, una contiguità che non sarà mai quella auspicata, di netta separazione tra cose incompossibili, ma sempre un luogo di sovrapposizione, di contat-to, di miscelazione, che genera nuova indistinzione, nuovo caos su scala più piccola. E più avanza l’opera selezionatoria del vaglio, più minute e in-finitesime saranno le aree di contiguità e sovrapposizione e più minuscoli saranno i luoghi in cui si può verificare la differenza.

4. Nel labirinto come luogo del confine si consuma la differenza, si esclude l’uguale e si mantiene la possibilità dello stesso, come necessità della differenza, non intesa come negazione dello stesso, ma come luogo nel quale elementi distinti, compossibili o contrapposti, ammissibili o im-possibili, si correlano allontanandosi e divergendo, ma, al tempo stesso, ri-collegandosi e riunendosi, come in una sorta di movimento circolare ma mai ripetitivo, che impregna il labirinto e coinvolge ogni elemento, tutti at-traversandoli, per collegare continuamente ognuno a tutti gli altri. La diffe-renza si fa dunque opaca e lo stesso riesce ostinatamente a mantenersi pos-sibile, ancorché non immediatamente visibile. Nella differenza, ogni elemento si riversa nell’altro, non mutando natura o posizione, bensì nell’organica e vitale zona intermedia, nella quale si generano continue possibilità. Gli elementi che abitano il luogo del confine si moltiplicano senza più appartenere a uno o all’altro campo di contiguità, come infinite facce parziali della superficie ripiegata e dispiegata, raccolta e riemersa. Il luogo del confine appare come un continuo che, paradossalmente, contie-ne innumerevoli elementi costitutivi discreti e altrettante condizioni di transizione da ciascuna condizione a tutte le possibili altre.

La differenza non esiste come tale e non è nemmeno attributo di un qual-che ente che sia. Essa compare soltanto tra qua e là. Anzi: essa nemmeno compare, soltanto è indicata da ciò che differisce, dai due attori della diffe-renza nel loro confrontarsi. In questo modo, l’identità si riduce alla diffe-renza, poiché se si può porre l’identità tra due o più elementi è sempre e soltanto attraverso uno stesso oppure tra due o più cose distinte ma identi-che. Nel secondo caso, la distinzione produce la differenza e, quindi, la dif-

52 Errore

ferenza comprende l’identità. Nel primo caso, la differenza emerge nell’in-timità dello stesso, nella quale si colloca il fatto stesso del riconoscimento dello stesso, così che se c’è un movimento temporale che attraversa questo riconoscimento e l’intera intimità dello stesso – e non potrebbe essere di-versamente, poiché altrimenti esso stesso non potrebbe essere – c’è anche un prima e un dopo che rende lo stesso molteplice e quindi differente nel dominio del tempo. Possiamo allora descrivere la differenza come luogo nel quale non si è ancora e non si è più, non ancora oltre ma nemmeno più al di qua. Come nel luogo di un confine. Si risolve qui anche la difficoltà etimologica sorta intorno al verbo «differire» nel senso di procrastinare nel tempo: differire, nell’etimo specificamente italiano, avviene attraverso la separazione dell’elemento che sarà oggetto di un evento che avverrà; nella separazione può permanere l’identità tra gli elementi perché essa precede il confronto tra ciò che accade e ciò che accadrà. La differenza, infatti, pre-suppone il confronto, per cui si differisce con l’intenzione di separare per confrontare lo stesso nel suo essere sé stesso. Differenza, dunque, che com-porta, per essere istituita, separazione nello spazio e nel tempo. Differenza come differenziazione. Ma Derrida lo esclude:

Questo movimento (attivo) della (produzione della) différance senza origi-ne, non avrebbe potuto chiamarsi, più semplicemente e senza neografismi, dif-ferenziazione? A parte le tante possibili confusioni, una tale parola avrebbe la-sciato pensare a una qualche unità organica, originaria e omogenea, che andrebbe eventualmente a dividersi, a ricevere la differenza come un evento. Soprattutto, formandosi sul verbo differenziare, quella parola annullerebbe la significazione economica dell’obliquità, del rinvio temporizzatore, del «diffe-rire». (Derrida 1972: 41)

Eppure permane il sapore di una forzatura linguistica che fa perdere qualche cosa, proprio quel senso della possibile generazione che Derrida lascia cadere. Eppure, l’idea della differenziazione che genera il moltepli-ce dall’unico, mantenendo l’identità attraverso una moltiplicazione dello stesso, avrebbe potuto essere assai fertile. Perché, nella fretta di liberarsi di un concetto insinuante, Derrida attribuisce alla differenziazione la necessi-tà di una preesistente «unità organica, originaria e omogenea». Ma potreb-be trattarsi, in alternativa, di una condizione superficiale non unitaria, di una continuità che ammette la molteplicità del discreto, niente affatto omo-genea e capace di generare innumerevoli nuovi aspetti di sé medesima at-traverso un differenziarsi non per separazione e moltiplicazione del simile, ma per replicazione approssimata della forma: la piega, dunque, con le sue circonvoluzioni e le sue infinite possibilità. Derrida è forse rimasto prigio-

53S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

niero di una visione per la quale la differenza, che non è un concetto, è la condizione necessaria dei concetti e, con essi, del linguaggio che li enun-cia. La differenza appare così come una condizione, uno stato, una caratte-ristica di elementi o eventi stabili, immutabili. Se la differenza viene meno è perché mutano gli elementi sui quali essa si verifica in quanto essi non sono più non uguali. Ma se si pensa a concetti e segni e cose che siano in mutamento, che possono riunirsi e separarsi nel tempo, suscettibili di mu-tare continuamente il loro segno di differenza e di identità, ciascuno in re-lazione a ogni altro, allora si può intuire un luogo nel quale si genera con-tinuamente un mutamento per differenziazione. Lo spazio del confine, quale un labirinto che senza sosta evolve e muta le sue forme, nel quale il Minotauro appare e scompare lasciando a Teseo soltanto la possibilità di affidarsi alla fantasia del mutare di ogni cosa nel tempo, è sempre popola-to da dinamiche di questa natura, dal continuo mutare dell’orizzonte e, dunque, delle condizioni dalle quali ogni osservatore può considerare le differenze. Ma non è l’osservatore esterno di un metodo scientifico che già conosce tutti i risultati possibili – ed esclude, giocoforza, quelli che non è in grado di prevedere, a meno di ammettere la possibilità dell’impossibili-tà. È piuttosto come un giocatore immerso nella partita, la cui presenza è assolutamente necessaria, poiché la differenza tra due elementi sussiste soltanto se viene osservata, considerata, valutata, e non diversamente acca-de alla différance, che pretende di essere vissuta nella mutevolezza spazio-temporale in cui si genera e che essa stessa ri-genera continuamente. Non potrebbe sussistere alcun labirinto senza Teseo, nessun luogo di confine sa-rebbe possibile nell’assenza di un soggetto che ne sia abitatore. Perché lo spazio del confine non è l’arido e monotono luogo sul quale – nel quale – si costituisce una differenza per separazione, ma, al contrario, è il luogo in cui ogni elemento perde di sé e acquisisce dell’altro senza perdere la sua integrità e identità, senza cessare di essere stesso, ma assumendo una con-dizione ulteriore, terza, destinata a mutare perpetuamente.

5. L’inarrestabile movimento che rende sempre mutevole l’aspetto del labirinto e che rende l’errare di chi lo abita non soltanto inevitabile ma an-che necessario è generato dalla differenza. Ogni differenza comporta il confronto tra due stati che esprimono potenze ineguali. Se al di qua del luogo del confine vi fosse una condizione identica a quella che caratteriz-za l’al di là, cesserebbe il confine e con esso il luogo che lo abita. L’al di qua e l’al di là del confine, il prima e il dopo la separazione, sono il risul-tato della correlazione tra diversi livelli di potenziale. Il luogo del confine racchiude la differenza come differenza di potenziale, non dissimilmente

54 Errore

da quanto accade tra due punti immersi in un campo elettrico. Si potrebbe dire che la differenza di potenziale è ciò che permette l’avvenire di un mu-tamento in un sistema altrimenti continuo e uniforme. Oppure, si dovreb-be asserire che ogni manifestazione della vita presuppone una differenza di potenziale tale che la morte dell’universo si deve diagnosticare come assenza totale di differenze di potenziale – anche la morte cerebrale di un essere vivente è diagnosticata in quanto non si registra più alcuna attività neurologica, la quale si manifesta, appunto, come differenze di potenziale elettrico. Per loro stessa dinamica, le differenze generano relazione; esse aprono così un luogo “dimorabile” tra i lembi – soltanto apparenti – del confine, il quale assume dimensioni e consistenze sempre mutevoli, accet-tando per questo e grazie a questo la presenza di elementi che sarebbero altrimenti incompatibili – incompossibili. Nello labirinto è dunque impos-sibile dimorare immobili.

Non era un luogo omogeneo quello ove si sono formate le pieghe del la-birinto, ché già il tempo e lo spazio erano abitati da innumerevoli ripiega-menti e distensioni. Il labirinto si forma come per una contrazione genera-ta da una parziale separazione locale della superficie di una piega, che una piega ulteriore riverbera in una serie di pieghe ulteriori. Ciò è il frutto dal-la differenziazione generatrice, la quale afferma così la differenza come complicazione della superficie. Era, prima, una superficie occupata da un modificarsi nel tempo di elementi che si riunivano e si separavano, come il giorno che scivola nella notte, l’acqua del mare che compenetra la duna, il solido che si fa liquido, e che, ora, si presenta come una complessità moti-le, somigliante forse a una traccia, più che a una entità o a un evento strut-turati, definibili con esattezza e riferibili con completezza. La traccia per-mane sempre come indicazione di ritorno; è proprio la traccia della cancellazione della traccia, che Derrida definisce paradossale in una lettu-ra metafisica, che deve forse essere colta con cura, perché garantisce una possibilità di permanenza all’interno del labirinto, ove ancora si deve com-pletare il sacrificio-pellegrinaggio per cancellare l’errore, quello della ge-nerazione del mostro mezzo uomo e mezzo toro e quello di una fede in sé che non trova la sua direzione.

55S. Bevacqua - Errare nel labirinto dell’errore

Bibliografia

DELEUZE G.1988 Le plis, Paris.

DERRIDA J.1972 La differance, in Id., Marges - de la philophie, Paris.

FOUCAULT M.1976 Question à M. Michel Foucault sur la géographie, in «Hérotode», 1

pp. 71-85.

LA CECLA F.2005 Perdersi. L’uomo senza ambiente, Roma-Bari.

SINOPOLI G.1991 Parsifal a Venezia, Venezia.

57

MACHIAVELLI: L’ERRORE E LA VIRTÙ

di Giovanni Dessì

Il tema dell’errore nella complessa realtà dell’Italia di Machiavelli era assai presente sia a livello di cultura alta, sia a un livello di esperienza dif-fusa: la questione dell’incertezza, della insicurezza che segna il giudizio umano è presente nella cultura del tempo ed è legata alle trasformazioni che segnano il Rinascimento italiano. Dal giovanile errore di Petrarca all’erranza dei cavalieri di Ariosto, alla esperienza comune ritorna l’esi-genza di fuggire l’incertezza e l’errore. In questo contesto Machiavelli «non fa che inserire integralmente nello spazio politico, in ognuna delle sue situazioni, quel senso così acuto dell’errore e dell’illusione che domi-na tante riflessioni letterarie sulla vita umana, sulla favola che in essa si co-struisce: e che percorre la grande tradizione letteraria, fin dall’antichità, e agisce fortemente anche nella più diffusa sensibilità “pratica”» (Ferroni 2003: 74-75).

In una situazione politica caratterizzata da una grande instabilità, nella quale la crisi dell’equilibrio tra i diversi stati italiani veniva resa evidente dalla discesa in Italia di Carlo VIII del 1494 e, successivamente, dal sacco di Roma del 1527, Machiavelli pone esplicitamente a tema la questione del-la trasformazione della politica, della sua nuova forma e degli strumenti ne-cessari per una sua comprensione. L’ottica nella quale si muove non è quel-la tradizionale del rapporto tra metafisica e politica o religione e politica: egli si interessa del legame della politica con il mondo umano, con le pas-sioni, le ambizioni e le speranze degli uomini. Un primo dato, in questo sen-so, caratterizza il suo approccio alla politica: essa per Machiavelli «signifi-ca, inizialmente, l’avvertenza e l’esperienza profondamente vissuta, di una crisi e di un disordine che investono tutta la società» (D’Addio 1996: 285).

Machiavelli vive l’esperienza dell’incapacità dei tradizionali modi di intendere la politica di cogliere e descrivere le ragioni della crisi italiana: inoltre, anche da un punto di vista più pratico la tradizionale sapienza di-plomatica delle cancellerie italiane del Quattrocento si è rivelata impo-

58 Errore

tente di fronte alla forza e al soggetto che esprime tale forza, lo stato mo-derno.

Dal venir meno della fiducia nelle pratiche e nelle concezioni tradizio-nali della politica nasce l’esigenza di un nuovo approccio, insieme teorico e pratico. Il termine errore, sia esplicitamente citato, sia evocato con voca-boli diversi, come illusione, è presente sia nelle opere più politiche, sia in quelle teatrali, sia nelle lettere di Machiavelli, tanto che si potrebbe addirit-tura parlare di una fenomenologia dell’errore presente nella sua riflessione. Questa centralità va compresa appunto in relazione al venir meno di un as-setto ordinato del mondo, alla corruzione degli antichi ordini e in partico-lare degli ordinamenti di Firenze e delle altre città italiane. Come ha scrit-to nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, «ma chi nasce in Italia et in Grecia e non sia diventato o in Italia oltremontano o in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi e di laudare gli altri: perchè in quelli vi sono assai cose che gli fanno meravigliosi, in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni extrema miseria, infamia e vituperio, dove non è observanza di religione, non di leggi, non di milizia, ma sono maculati d’o-gni ragione bruttura» (Machiavelli 1531: 728). Pur consapevole del rischio di idealizzare i tempi passati, il confronto tra la grandezza del passato e la miseria del presente offre a Machiavelli sia un termine alto di riferimento e un’indicazione sulla strada da seguire per combattere la corruzione del pre-sente, sia una conferma della situazione di oggettiva povertà della politica del proprio tempo.

In questo contesto di instabilità e incertezza l’errore appare in un certo senso inevitabile, tanto che, se da una parte Machiavelli indica al principe, all’uomo virtuoso la strada per evitare di errare – prefigurando quasi una possibilità di uscita dalla corruzione –, dall’altra pone la questione in modo diverso sostenendo che tutti errano e che quindi l’obiettivo perseguibile è quello di errare di meno.

Il tema dell’errore è esplicitamente affrontato sia ne Il principe, nel III capitolo, dove Machiavelli analizza i principati misti, e poi nel capitolo XXV, sia nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in modo partico-lare nel capitolo 58 del libro I e nel capitolo 9 del libro III.

1. L’errore e la virtù ne Il principe

L’opera più nota di Machiavelli si presenta come un piccolo trattato sull’innovazione politica: la domanda che lo percorre pagina dopo pagina riguarda la possibilità per l’innovatore politico di contrastare il disordine e

59G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

di controllare la complessità di elementi che caratterizzano la situazione politica dell’Italia del Cinquecento. Il grande tema dell’opera, in altri ter-mini, è quello del rapporto tra virtù e fortuna: tra l’azione innovatrice e il disordine che appare come il dato emergente dalla storia.

A questo proposito Machiavelli propone una tipologia di situazioni di-verse nelle quali si può trovare il principe, considerato il soggetto che in quel preciso contesto storico avrebbe potuto contrastare il disordine. Nel terzo capitolo viene affrontata la questione dei principati misti, cioè di que-gli stati composti da una parte ereditaria e da una acquisita. Dopo aver con-siderato le difficoltà di carattere generale che si presentano a un principe che voglia allargare il proprio territorio, viene analizzata la politica di Lui-gi XII, re dei francesi.

Luigi XII, successo a Carlo VIII, riuscì a occupare parte dell’Italia e a conquistare Milano tra il 1499 e il 1512. Egli, pur avendo acquisito facil-mente una posizione di forza in Italia, nel volgere di pochi anni fu sconfit-to ripetutamente e costretto infine a ritirarsi. Machiavelli intende chiarire quali siano state le ragioni della sconfitte del re francese e in questo conte-sto si riferisce esplicitamente ai suoi errori. Secondo il modo di argomen-tare caratteristico de Il principe, propone al lettore una tipologia di situa-zioni politiche diverse, che richiedono azioni specifiche. Egli ritiene che quando gli stati che si vogliono conquistare siano della stessa lingua e «del-la stessa provincia» e non siano abituati a un regime di libertà il principe nuovo non incontrerà grandi difficoltà nel rendere stabile la sua conquista. Una volta uccisi i familiari del vecchio sovrano, dovrà curarsi di non cam-biare gli usi e i costumi del territorio conquistato, in modo particolare non dovrà aumentare le tasse. Si tratterà di modificare il meno possibile la vita del nuovo territorio, dal momento che gli uomini tengono generalmente alla stabilità. Seguendo tale linea di condotta non sarà difficile integrare il nuovo territorio con il vecchio. Diversa la situazione del principe che vo-glia impadronirsi di stati diversi per lingua, per istituzioni e in territori lon-tani. La soluzione ideale proposta è che il principe si trasferisca nel territo-rio conquistato: nel caso gli fosse impossibile, il suggerimento è quello di inviare coloni nei paesi da poco acquisiti. Inoltre, per quanto riguarda i rap-porti con le potenze confinanti, il principe deve agire in modo di presentar-si come protettore dei vicini più deboli e deve cercare di indebolire le po-tenze più forti. Alla luce di queste considerazioni di carattere generale, Machiavelli analizza il caso di Luigi XII.

Ricorda come, invitato in Italia dai veneziani, che intendevano contra-stare la potenza di Milano, il re di Francia si sia in breve tempo impadroni-to di buona parte della Lombardia e abbia stabilito alleanze con molte città

60 Errore

dell’Italia centrale. Da una posizione di forza però Luigi XII commise un primo errore sostenendo lo stato della chiesa, rendendosi così ostile gli al-leati. Inoltre, nel tentativo di impadronirsi anche del regno di Napoli, Lui-gi XII si appoggiò al re di Spagna e «dove prima era arbitro di Italia ci mise uno compagno». Dopo questa sintetica ricostruzione della politica del re di Francia, Machiavelli scrive: «È cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di aquistare; e sempre quando li omini lo fanno che possano sa-ranno laudati o non biasimati; ma quando non possano e vogliono farlo in ogni modo qui è lo errore et il biasimo. Se Francia adunque posseva con le forze sue assaltare Napoli, doveva farlo; se non poteva, non doveva divi-derlo» (Machiavelli 1532: 137-138).

L’errore in queste righe non ha a che fare con la trasgressione di una qualche verità religiosa, metafisica o morale: l’errore si ha quando la valu-tazione delle proprie forze, la valutazione delle opportunità, delle circostan-ze non è commisurata al fine che ci si è prefissati. Questa valutazione dell’azione politica in base alla sua efficacia è la ragione che ha fatto di Ma-chiavelli un autore decisivo per comprendere la politica nella modernità. In altri termini Machiavelli propone un’analisi del comportamento politico quale effettivamente si realizza a partire dall’istanza, da lui considerata ap-punto normale, di aumentare il proprio potere. Questa analisi si svolge non su un piano puramente teorico, quanto nella disamina del complesso gioco di forze contrapposte che caratterizzano le situazioni storiche. Erra il prin-cipe che non considera il desiderio di accrescere il potere presente in ogni uomo; che non valuta correttamente le proprie e altrui forze; che non è in grado di tenere conto delle passioni e degli interessi che verranno messi in moto dalla sua azione. Si tratta del realismo politico che trova la sua espres-sione in una delle frasi più note de Il principe, dove Machiavelli orgoglio-samente precisa «ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale del-la cosa, che alla immaginazione di essa; e molti si sono immaginati repub-bliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti invero essere. Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua» (Machiavelli 1532: 270-271).

Emerge da questo testo la presa d’atto di una lontananza tra la precetti-stica politica e la concreta attività del politico, del principe: la distanza tra come si vive e come si dovrebbe vivere, dato presente in ogni epoca stori-ca, viene denunciata da Machiavelli come evidente nel proprio tempo. Non si tratta soltanto di una questione o di una percezione soggettiva: la situa-zione storica italiana rendeva inutilizzabili, per colui che volesse compren-

61G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

derla e cambiarla, una serie di norme morali e richiedeva la affermazione di un approccio nuovo a una realtà non più riconducibile alle categorie tra-dizionali.

La verità effettuale della politica è per Machiavelli, da una parte, la ten-denza degli uomini ad acquistare potere; dall’altra, il disordine, la corru-zione, lo stato misero dei propri tempi. Questa convinzione, maturata in una grande esperienza delle «cose moderne» e nello studio «delle cose an-tique», della storia e dagli insegnamenti che da essa si possono apprende-re, rimanda a una concezione antropologica che egli ha esplicitamente e ri-petutamente affermato. Ne I Discorsi Machiavelli scrive

Egli è sentenza degli antichi scrittori come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi del bene; e come dall’una e dall’altra di queste due passio-ni nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La ca-gione è perché, la natura li ha creati gli uomini in modo che possono desidera-re ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre mag-giore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione di esso. Da questo nasce il va-riare della fortuna loro: perché desiderando gli uomini parte di avere di più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie e alla guer-ra. (Machiavelli 1531: 608)

Viene qui descritta una condizione esistenziale segnata dal dolore e dal-la noia da una parte e dalla incessante lotta per difendersi e confermare la propria potenza dall’altra. Questi comportamenti si radicano in una conce-zione della natura umana pessimistica e segnata dalla sproporzione dei de-sideri rispetto alle possibilità: gli uomini possono desiderare ogni cosa, ma non possono ottenere tutto ciò che desiderano. Da questa dinamica scaturi-sce un’insoddisfazione che ha dei risvolti rilevanti per le azioni umane e la politica. Gli uomini non godono di quello che già hanno e si protendono, a volte invano, verso quello che non hanno. La conflittualità della politica ha la sua origine a questo livello profondo dell’esperienza umana: colui nel quale prevale il desiderio per qualcosa che non ha combatte per guadagna-re ciò che desidera; chi già possiede qualcosa combatte per timore che gli sia tolto quello che è suo. Questa concezione antropologica è all’origine del pessimismo di Machiavelli e trova diverse espressioni: quelle più note sono ne Il principe, dove scrive: «delli uomini si può dire questo general-mente: che i sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene sono tutti tua, offeron-

62 Errore

ti el sangue, la roba, la vita, e figlioli, come di sopra dissi, quando il biso-gno è discosto; ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano». (Machiavelli 1532: 286)

Proprio la consapevolezza di questa dinamica della natura umana, del suo influsso sulla politica esige che il principe sia virtuoso, cioè che sappia agire per ristabilire l’ordine anche in considerazione dei concreti compor-tamenti degli individui e degli altri sovrani. L’azione virtuosa, quella che dovrebbe ristabilire l’ordine e evitare l’errore, in un certo senso, rientra in quella tendenza naturale ad accrescere il proprio potere e deve tenere con-to di questa complessità della natura umana: essa si deve quindi misurare con le passioni, i desideri, il timore; deve inoltre evitare giudizi superficia-li sulle forze in campo; deve infine confrontarsi con la fortuna. Le azioni virtuose in politica sono quelle che dal disordine sono in grado di creare l’ordine, il principato nuovo; le azioni errate quelle che non raggiungono questo fine.

D’altra parte Machiavelli ha vissuto l’amara esperienza della inelimina-bilità del disordine: anche raggiunto un obiettivo politico può facilmente accadere che il mutare delle situazioni renda vana l’azione virtuosa. In al-tri termini anche il principe virtuoso può fallire l’obiettivo di creare l’ordi-ne. L’esempio al quale vengono dedicate diverse pagine è quello di Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI, che pur agendo in modo da suscitare l’am-mirazione di Machiavelli, fallì a causa di eventi che non poteva prevedere e a causa di un solo errore, il non aver contrastato con sufficiente energia l’elezione a papa di Giulio II. In ogni caso l’azione virtuosa è tale se riesce a essere azione creatrice, cioè a ricreare l’ordine. Essa è contrapposta, vo-lutamente, a un diverso tipo di azione: quella che intende «godere del be-nefizio del tempo» (Machiavelli 1532: 133). Quest’ultimo genere di azio-ne era proprio della tradizionale sapienza diplomatica. Chabod ha scritto su questo tema pagine che, sebbene risentano della enfatizzazione propria del neoidealismo italiano della creatività dello spirito, sono diventate un punto di riferimento nell’interpretazione della virtù in Machiavelli. L’idea è che superando un approccio puramente intellettuale alla politica la virtù di Ma-chiavelli riaffermi il primato della volontà, della morale e che, d’altra par-te, questa dimensione si radichi nella sua genesi alla storia. Come ha scrit-to, per Machiavelli «il fatto storico non si esaurisce nel suo immediato contorno, si svolge invece nella sua potenza creatrice» (Chabod 1993: 9).

Questa centralità data alla azione virtuosa come possibile alternativa al disordine, implica una centralità riconosciuta alla libertà umana e, contem-poraneamente, l’affermazione della necessità della storia. Machiavelli si separa dall’idea del libero arbitrio della tradizione aristotelica, in senso ge-

63G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

nerale la capacità di scegliere, grazie al dominio della ragione, il bene in-vece del male in ogni singola volizione umana, che è quindi in tal senso in-dipendente dalle contingenze e dai risultati. Si separa, nello stesso modo, dall’arbitrarismo, nel quale la volontà si determina senza motivo. Infatti, «per Machiavelli, l’intelletto non è superiore alla volontà: ma è la volontà che deve servirsi dell’intelletto per i propri fini» (Ercole 1926: 6). Da que-sto punto di vista però un limite alla libertà è dato, appunto dal disordine, dalla complessità e dalla incertezza della realtà storica, così che la «virtù è, insomma, affermazione di libertà e ossequio alla necessità», cioè «l’attitu-dine a comprendere ogni determinata situazione di fatto per quella che è, e agire in coerenza ad essa, per trarne una nuova» (Ivi: 24). La centralità del-la libertà e della volontà non si afferma in astratto o a prescindere dalle condizioni storiche, ma proprio nella capacità di tenere conto delle limita-zioni e dei condizionamenti con i quali la volontà deve misurarsi per esse-re efficace. Insomma la virtù da una parte è capacità di azioni in grado di produrre un nuovo ordine; dall’altra «il termine virtù conservava anche il significato di mezzo con cui controllare la fortuna» (Pocock 1980: 329).

La affermazione del mondo contrapposto alla virtù rimanda al grande tema della fortuna. Il limite ultimo che segna le difficoltà dell’azione crea-trice è la fortuna. Si tratta di un tema diffuso nella cultura umanistica e fio-rentina, da Leonardo Bruni a Marsilio Ficino e Bartolomeo Scala (cfr. Brown 2013).

In primo luogo va precisato che, per Machiavelli, la questione della for-tuna viene letta in relazione alla sua idea di virtù. La fortuna non è né la Provvidenza, né il cieco caso: la sua trascendenza rispetto all’azione vir-tuosa non ha un fondamento teologico o mitico. Le azioni degli uomini non sono mai interamente virtuose: esiste «una zona oscura e non virtuosa del carattere che ogni uomo, anche il più prudente e virtuoso racchiude di ne-cessità in sé: con quella situazione, dunque, che vietandogli la percezione e il controllo di realtà segnate da tratti non congeniali alla sua mente e al suo carattere, provoca la sua rovina e la sua fine» (Sasso 1980: 396-397).

In altri termini, le azioni storiche conseguono fini diversi da quelli per le quali sono state intraprese; i fini imprevisti si intrecciano nella storia. La fortuna, in altri termini, è il risultato imprevedibile dell’intrecciarsi nella storia delle azioni degli uomini. Si può affermare che in qualche misura la stessa azione virtuosa, quella che vuole cambiare una determinata situazio-ne, sia all’origine del limite che la fortuna rappresenta.

La virtù è il mezzo con il quale si produce l’innovazione, ma diviene an-che l’occasione per determinare nuove e imprevedibili eventualità: l’azione virtuosa crea il cambiamento e gli esiti che essa produrrà sono assai difficil-

64 Errore

mente prevedibili. Insomma «la virtù non è soltanto il mezzo con cui gli uo-mini controllano la loro fortuna in una realtà politica che non presenta più fondamento alcuno di legittimità, ma può anche essere il modo con cui gli uomini producono innovazioni e annullano così il fondamento di legittimità che era prima inerente al loro mondo politico» (Pocock 1980: 337)

La tesi di Pocock permette di meglio ridefinire la virtù nel suo inevitabi-le rapporto con l’errore. Certamente la virtù per Machiavelli non è aristote-licamente la capacità del giusto mezzo; né controllo dell’intelletto sulla vo-lontà. La virtù è volontà, libertà che si esprime usando l’intelletto. Essa, come abbiamo visto, può dare legittimazione, ordine a un mondo disordi-nato attraverso la creazione di una nuova situazione politica. D’altra parte, proprio per questa ragione, l’azione virtuosa non è l’azione che non erra: in un certo senso l’azione creativa che intende creare l’ordine annulla la legit-timità del passato e sebbene intenda produrre l’ordine, crea anche il disor-dine, nuove e mai del tutto prevedibili circostanze.

Machiavelli ha espresso ripetutamente tale convinzione scrivendo «e in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene, che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro» (Machiavel-li 1531: 461).

In altri termini: «Né creda mai alcuno stato potere pigliare partiti sicuri, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubii, perché si trova questo, nell’ordine delle cose, che mai si cerca fugire uno inconveniente che non si incorra in uno altro: ma la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità degli incon-venienti e pigliare el men tristo per buono» (Machiavelli 1532: 353-354).

Queste considerazioni ridimensionano quella che è la centralità della volontà e dell’azione creatrice, tanto che la virtù può essere intesa come il continuo tentativo di porre rimedi, quindi non in una forma soltanto attiva, quanto in una forma riparatrice. A questo proposito è stato sostenuto che «l’intera visione machiavelliana della politica si inserisce nel quadro di un’antropologia del rimedio» (Ferroni 2003: 123).

In questo senso non è solo la libertà come azione creatrice al centro del-la prospettiva di Machiavelli: essa è limitata dalla fortuna e, come scrive in uno dei più noti brani de Il principe, l’uomo virtuoso è quello che costrui-sce argini per riparare il suo territorio dalla piena del fiume, per difendersi dagli improvvisi e mai del tutto prevedibili colpi della fortuna.

La questione dell’errore va quindi intesa in un primo senso come conse-guente alla limitatezza della virtù, dell’azione creatrice che non è in grado di tenere in conto tutti i fattori della realtà che intende trasformare; inoltre l’errore è in un certo senso ineliminabile in quanto l’azione creatrice che sorge dalla denuncia del disordine e dal tentativo di creare l’ordine, mette

65G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

in moto una serie di trasformazioni che non sono interamente prevedibili. Per questa ragione la virtù non è soltanto creazione: essa è nello stesso tem-po tentativo di rimediare all’irrompere della fortuna, intesa appunto come l’irrompere di nuove e non interamente prevedibili circostanze storiche.

In sostanza il disordine richiede la necessità dell’azione virtuosa; anche il principe più virtuoso, nel tentativo di trasformare l’esistente può errare nel considerare le forze in campo; più al fondo l’inevitabilità dell’errore scaturisce proprio dalle trasformazioni mai interamente prevedibili che l’a-zione virtuosa ha prodotto.

Nel capitolo XXV de Il principe, cercando di precisare il proprio modo di intendere il rapporto tra virtù e fortuna, Machiavelli offre un ulteriore elemento per definire l’errore. Dopo aver scritto di ritenere che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governa-re l’altra metà o presso a noi», aver precisato che il disordine dell’Italia è la conseguenza del non essere «reparata da conveniente virtù, come la Ma-gna, la Spagna e la Francia» (Machiavelli 1532: 376), affronta una nuova questione che può condurre all’errore: quella del riscontro con i tempi. Il termine usato è ruina e non errore, come sarà ne I Discorsi: d’altra parte l’i-dea è che lo stesso modo di procedere possa condurre in una situazione alla vittoria e in un’altra alla sconfitta, all’errore.

Il punto di partenza è la considerazione che si «vede oggi questo princi-pe felicitare e domani ruinare senza averli veduto mutare natura o qualità alcuna» (Machiavelli 1532: 376-377). In altri termini Machiavelli si chie-de perché lo stesso modo di procedere possa in una determinata situazione portare ad ottenere i propri fini e in una diversa situazione alla sconfitta.

Agendo nello stesso modo, senza «mutare natura o qualità alcuna», può accadere che il principe consegua il proprio fine in una circostanza e falli-sca in una diversa situazione: lo stesso modo di procedere si rivela efficace in una situazione, errato in una diversa circostanza.

La spiegazione proposta è che gli uomini hanno diverse nature, diversi modi di procedere, diverse identità. In un determinato e irripetibile conte-sto spazio temporale è richiesta precauzione; in un altro irruenza. In gene-rale gli uomini seguono la loro natura e questo li porta ad agire senza tene-re nell’adeguata considerazione il mutare dei tempi, dei contesti. In altri termini, anche il principe virtuoso erra. Erra di meno colui che cerca il ri-scontro della propria azione con il tempo.

L’esempio storico al quale si riferisce è quello di Giulio II, che «procedè in ogni sua cosa impetuosamente, e trovo tanto i tempi è le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine». D’altra parte Machiavelli è convinto che la breve vita del pontefice gli abbia risparmia-

66 Errore

to la sconfitta, perché «se fussino venuti tempi che fussi bisognato proce-dere con rispetti, ne seguiva la sua ruina: né mai avrebbe deviato da quelli modi a’ quali la natura lo inclinava» (Machiavelli 1532: 383-384).

Preso atto della impossibilità di cambiare modo di procedere, quindi dell’impossibilità per il principe di evitare l’errore, il capitolo si chiude con la preferenza esplicita di Machiavelli per l’azione impetuosa. In una espres-sione che rimanda da una parte all’esigenza del cambiamento, di trasfor-mazione e dall’altra all’istanza di uscire da un nodo teorico assai comples-so attraverso una opzione pratica e di senso comune, Machiavelli scrive «io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario volendola tenere sotto, batterla et urtar-la» (ibidem).

2. L’errore e il riscontro con i tempi ne I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Machiavelli, come è stato dimostrato, scrisse Il principe interrompendo per un breve periodo la stesura dei Discorsi per tornare poi a questa opera: il tema centrale de Il principe è l’innovazione politica in una situazione di corruzione; il tema dei Discorsi è l’origine, la crescita e la decadenza della Repubblica romana. Personaggio centrale de Il principe è l’individuo stra-ordinario; al centro dei Discorsi si trova un’analisi delle leggi, dei costumi di un popolo. La singolarità, anche dal punto di vista formale dei Discorsi, è nel confronto esplicito tra la Repubblica romana e la situazione di Firen-ze e dell’Italia del Cinquecento.

Machiavelli nel Proemio osserva come l’amore per il passato provochi in molti ammirazione per le grandi e virtuose gesta di popoli e condottieri, ma non conduca al tentativo di imitarne la grandezza. Così, «volendo, per-tanto, trarre li uomini di quest’errore, ho giudicato necessario scrivere di tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de tempi non ci sono stati involati, quello che io, secondo le antique e moderne cose, iudicherò esse-re necessario per maggiore intelligenza di essi; acciò che coloro che questi miei discorsi leggeranno, possino trarne quella utilità per la quale so debbe cercare la cognizione delle storie» (Machiavelli 1531: 416).

Anche ne i Discorsi la domanda di fondo è come sia possibile evitare la corruzione, la decadenza: mentre ne Il principe è centrale l’azione che non aspetta gli esiti del trascorrere del tempo nell’opera sulla Repubblica Ma-chiavelli, in alcuni casi, sembra suggerire il temporeggiamento rispetto all’azione decisa. La centralità riconosciuta ai costumi e alle istituzioni lo

67G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

spingono a confrontarsi con il cambiamento in una prospettiva di lungo pe-riodo: in altri termini la corruzione della Repubblica non può essere contra-stata efficacemente dall’azione del principe.

Machiavelli riprende da Polibio l’idea della ciclicità delle forme di go-verno e quindi della tendenza della Repubblica a corrompersi: in questa ot-tica alla Repubblica che perde la sua virtù, quella della dedizione del citta-dino soldato al bene comune, dovrebbe rispondere l’azione del principe. D’altra parte il principe si deve misurare con la consuetudine alla libertà, alla partecipazione diffusa tra il popolo, fatto che renderà assai più com-plesso ristabilire un ordine.

Il problema che interessa Machiavelli è qui non l’azione del principe ma le ragioni della corruzione, degli errori della Repubblica.

In diversi casi, come ne Il principe, l’errore è nella incapacità di sceglie-re mezzi adeguati per la realizzazione dei propri fini, insomma nella imper-fezione dell’azione che per la Repubblica riguarda essenzialmente il con-trasto con altre potenze.

Nei Discorsi il tema dell’errore viene considerato anche in un’altra pro-spettiva (come abbiamo visto è presente anche ne Il principe) la quale, pur non prescindendo dalla prima, la approfondisce e inserisce nuove conside-razioni sia sull’errore, sia sulla maggiore possibilità per il popolo rispetto all’individuo virtuoso di ridurre l’errore.

Nel libro III Machiavelli scrive: «Io ho considerato più volte come la ca-gione della triste e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e si vede che gli uomini nello agire loro procedono alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione. E perché nell’uno e nell’altro di questi modi si passano e’ termini convenien-ti, non si potendo osservare la vera via, nell’uno e nell’altro si erra. Ma quello viene ad errare meno ed avere la fortuna prospera, che riscontra con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede secondo ti sforza la natura» (Machiavelli 1531, 2: 1022).

Il problema del riscontro con i tempi e quello del modo di procedere sono temi sui quali Machiavelli si è a lungo soffermato. Un’anticipazione di questo tema del riscontro con i tempi si trova nella lettera del 1506 a So-derini, nota con il titolo Ghiribizzi al Soderino. In questa lettera Machiavel-li attribuiva un peso determinante alla corrispondenza tra il carattere dell’individuo e il tipo di azione richiesta dalla situazione. La sintonia tra “modo di procedere” e “azione richiesta dalla situazioni” poteva condurre alla vittoria, la discordanza alla sconfitta. Il senso dell’espressione “modo di procedere” nasceva dalle esperienza pratica di Machiavelli: in innume-revoli occasioni della sua attività diplomatica, egli si era trovato nella ne-

68 Errore

cessità di intuire le reali intenzioni dei suoi interlocutori. L’identificare un orientamento prevalente sia inteso come carattere, sia appunto come modo di procedere poteva permettere di cogliere e prevedere dietro le apparenze le reali intenzioni, in molti casi non espresse esplicitamente. Questa ten-denza degli individui a mantenere lo stesso modo di procedere era insom-ma considerata come un dato offerto dall’esperienza. Egli scriverà esplici-tamente della difficoltà degli individui di cambiare il modo usuale di agire, affermando che due ordini di ragioni rendono impossibile cambiare radi-calmente la propria disposizione.

In primo luogo viene ricordata la forza della natura di un uomo, il proprio carattere. Certamente non è semplice precisare cosa Machiavelli intenda con il termine natura: si può ritenere, anche alla luce delle considerazioni già svolte, che egli si riferisca a un insieme di disposizioni psicologiche ma-turate in un individuo per le quali egli tenderà a confrontarsi con le circo-stanze seguendo un orientamento prevalente. Inoltre un individuo che abbia avuto esiti positivi nelle sue azioni, seguendo la propria natura, difficilmen-te accetterà di cambiare (Machiavelli 1531, 2: 1024-1025).

Ne i Discorsi emerge, in merito al tema del riscontro con il tempo, un nuovo dato: Machiavelli estende il rapporto tra modo di procedere e circo-stanza dall’individuo al corpo collettivo e il risultato è per certi versi sor-prendente. Come scrive: «una repubblica ha maggiore vita, ed ha più lun-gamente buona fortuna che uno principato; perché la può meglio accomodarsi alla difficoltà de temporali, per la diversità de cittadini che sono in quella, che non può uno principe. Perché un uomo che sia consue-to a procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità che, quando e si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che ro-vini» (Machiavelli 1531, 2: 1025-1026).

La repubblica può giovarsi delle sue diverse componenti, della diversità dei sentimenti e delle disposizioni dei cittadini: mentre il principe è legato al suo modo di procedere, la repubblica può mettere in campo, in diverse occasioni, differenti modi di procedere. L’esempio che viene ripreso da Tito Livio e originalmente commentato è la duplice condotta della repub-blica romana nei confronti di Annibale. In un primo momento, dopo le ri-petute sconfitte dei romani, l’azione di Quinto Fabio Massimo nel contra-stare in Italia l’esercito di Annibale, grazie alla sua disposizione improntata alla prudenza, fu la migliore possibile. Successivamente, quan-do la Repubblica consentì a Scipione di attaccare i Cartaginesi sul proprio territorio, malgrado l’opposizione di Quinto Fabio Massimo, essa realizzò che in una diversa situazione si sarebbe potuta avvalere di una disposizio-ne diversa e più adatta alle circostanze.

69G. Dessì - Machiavelli: l’errore e la virtù

Queste considerazioni non eliminano la constatazione di Machiavelli che sia a livello individuale, sia di corpo collettivo, l’errore sia inevitabile. D’altra parte egli intuisce che, almeno nella capacità di riscontrare il modo di procedere con i tempi, il principe erra più della repubblica.

Un’ultima considerazione riguarda la corruzione della repubblica e la possibilità di evitarla o di ritardarla. Ne i Discorsi la virtù della repubblica romana è quella di cittadini soldati che sanno far prevalere il bene comune sul proprio e che sanno esprimere tale virtù sia nella capacità di affrontare i nemici, sia nel ricercare i migliori assetti interni. Quando tale virtù inizia a venire meno, poiché Machiavelli è «convinto che al mondo in qualsiasi fase storica la quantità di virtù presente sia finita» (Pocock 1980: 409), quali i possibili rimedi?

Machiavelli è convinto che la forza assicuri la stabilità, o almeno possa ritardare la corruzione. Egli crede «che la milizia è non soltanto il fonda-mento del nuovo edificio» che si vuole costruire, «ma diviene a sua volta criterio di valutazione della storia» (Chabod 1993: 74).

Questa sua prospettiva va compresa, con i suoi limiti, all’interno di quell’urgenza di contrastare fattivamente il disordine che costituisce l’oriz-zonte ultimo della sua riflessione politica: essa appare come un tentativo di soluzione pratica, conforme alla sua natura, che possa permettere di supe-rare un’impasse oggettiva, determinata dagli eventi che sconvolgevano l’I-talia dei primi anni del Cinquecento.

Bibliografia

BROWN A.2013 Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinasci-

mento, Roma.

CHABOD F.1993 Scritti su Machiavelli, Torino.

ERCOLE F.1926 La politica di Machiavelli, Roma.

FERRONI G.2003 Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio,

Roma.

70 Errore

D’ADDIO M.1996 Storia delle dottrine politiche, Genova.

MACHIAVELLI N.1531 Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Opere, vol. I, 1-2, R.

Rinaldi (a c. di), Torino 1999.

1532 De Principatibus, in Opere, vol. I,1, R. Rinaldi (a c. di), Torino 1999.

POCOCK J. G. A.1980 Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradi-

zione repubblicana anglosassone, vol. I, Il pensiero politico fiorenti-no, Bologna.

SASSO G.1980 Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna.

71

L’OCCHIO AMMAESTRATO. SULLO STATUTO CONOSCITIVO

DELLA STORIA DELL’ARTE (VISIVA)

di Michele Di Monte

Does anybody have the charts, coordinates or maps?A hint of a direction to avoid further mishaps?

A throw of dice, a toss of coin decides what Mrs. Luck might bringas we navigate this desert by our cold, dead reckoning.

Ian Anderson, Homo Erraticus

My own feeling at the moment is that I would trust a pigeon more than your standard member of the Rembrandt project on questions of

reattributions.Arthur C. Danto, Animals as Art Historians. Reflections on the

Innocent Eye

1. Cosa c’è di speciale nella storia dell’arte?

Innanzitutto, prima di procedere nella direzione suggerita dal titolo, sarà bene chiedersi se e in che misura la “Storia dell’Arte” – intesa convenzio-nalmente come disciplina che studia la storia delle arti visive – goda o deb-ba godere di uno statuto epistemico peculiare, cosa che è assai meno ovvia di quanto molti siano inclini a pensare. Tanto per cominciare, c’è tutta una serie di operazioni, tradizionalmente ritenute tipiche della pratica dello sto-rico dell’arte, che in realtà non sono specifiche e distintive di questo me-stiere più di quanto non lo siano di tante altre attività, più o meno ordina-rie, almeno dal punto di vista cognitivo che qui principalmente ci interessa. Dovrebbe essere evidente che, per fare solo qualche esempio, la scoperta di un reperto inedito, la descrizione delle fattezze materiali, fisiche e formali di un oggetto, l’individuazione di correlazioni di vario ordine tra serie do-cumentarie diverse, l’interpretazione di significati, in generale, sono tutt’al-tro che esclusivo appannaggio degli storici dell’arte. Anzi, si può aggiun-gere, per contro, che proprio questi ultimi – almeno in seno a certe “scuole”

72 Errore

o correnti – si sono spesso fatti vanto della loro dichiarata diffidenza rispet-to alla “pericolosa” diffusione di metodi giudicati troppo poco “puramen-te” storico-artistici o comunque troppo compromessi con altri orientamen-ti disciplinari.

Un punto preliminare da mettere in chiaro è dunque che la storia dell’ar-te, entro (o oltre, secondo i gusti) certi limiti e sotto un profilo epistemico, non ha nulla di speciale. Allora, come giustificare le pretese di specificità, se non proprio di autosufficienza conoscitiva avanzate dagli specialisti? Ovvero, in altri termini, qual è – se c’è – la particolare forma di sapere che la storia dell’arte mira a costituire secondo uno statuto disciplinarmente e metodicamente distinto? La domanda è complessa e la risposta dipende in primo luogo da come si intendono, in generale, i concetti essenziali in que-stione. Qui mi limiterò a considerare una possibile linea, che però segna la convergenza almeno tendenziale di due istanze piuttosto diverse e persino remote: una, più recente e “alla moda”, che è espressione della fortuna dei cosiddetti Visual Studies, l’altra, assai più tradizionale ma tornata recente-mente in auge, se non altro come oggetto di indagine storica, che è tributa-ria della vecchia pratica della connoisseurship. Entrambe le istanze impli-cano, più o meno tacitamente e sia pure da versanti opposti, la rivendicazione dell’autonomia e persino del primato del “visivo” nella for-mazione di una particolare conoscenza storica, e per quanto questa conver-genza possa essere fortuita o paradossale non è per questo meno sintomati-ca1. Non per nulla, ci sono autori – peraltro al di sopra di ogni sospetto, sebbene forse poco sensibili alle voghe effimere – per i quali anche quegli studi che si presentano sotto l’insegna dell’avanguardia culturale «di fatto poggiano completamente» sulle competenze e gli strumenti caratteristici della storia dell’arte tradizionale (Freedberg 2006: 30)2.

Comunque si vogliano giudicare tali rapporti, il mio interesse si concen-tra qui appunto sul problema delle competenze e delle conoscenze cui que-

1 Vedi, per esempio, il breve saggio di Henri Zerner (1987), che pur essendo un peana per la connoisseurship e una sorta di omaggio a Giovanni Morelli, conclude, in una prospettiva di ben più ampio respiro, che «ours is a logocentric culture. We trust the written document much more readily than our visual understanding of an image. This must be changed and we must attend to visual clues if we want to get something out of our visual legacy. But this is not easy. Connoisseurship is in its infancy» (290).

2 Il saggio di Freedberg costituisce un’utile messa a punto della questione, in particolare per le problematiche epistemologiche che qui discuteremo. Vedi pure Ginzburg 1995, che sottolinea come la pratica della connoisseurship implichi una multidisciplinarità più ampia di quanto si pensi di solito.

73M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

ste, idealmente, mettono capo, provando a prendere sul serio la richiesta di chi, come Henri Zerner, sostiene che «what we should retrieve from art is precisely what we cannot find elsewhere, what it alone is capable of telling us. In order to do this, we need a serious examination of the visual evidence itself» (1987: 289). In questa prospettiva, e per essere ancora più chiari, non si tratta di chiederci come facciamo a sapere che Michelangelo, ponia-mo, è nato nel 1475 o ha firmato un contratto nel 1503, giacché per appu-rarlo non c’è bisogno di essere necessariamente degli specialisti in storia dell’arte, non più di quanto sia necessario esserlo per scoprire che pure Ce-sare Borgia, per esempio, è nato nel 1475 e ha firmato un contratto nel 1499. Più interessante, invece, è capire a chi chiedere come sappiamo che le opere di Michelangelo sono arte (ed eventualmente quelle del Borgia no); come sappiamo che certe opere sono di Michelangelo (e altre no); come sappiamo se quelle di Michelangelo sono più artistiche (e altre meno).

Non è difficile immaginare che molti storici dell’arte di professione stenterebbero oggi a riconoscere simili questioni come all’ordine del gior-no nella propria agenda, ancorché ciò possa sorprendere il profano. Nondi-meno, visto che comunque di quelle distinzioni di fatto ci si serve (e certa-mente se ne servono gli storici dell’arte di ogni indirizzo), anche se talvolta in modo sottinteso o surrettizio, tanto vale provare a chiarirsi le idee, quale che sia il nome della “scienza” che propriamente se ne dovreb-be far carico. D’altra parte, come vedremo in quel che segue, a questo pro-posito possono emergere connessioni inedite, ma forse illuminati.

2. Giudizi veri e motivi falsi

Consideriamo allora un caso concreto, anche se finzionale (ma non trop-po), in cui l’intreccio delle distinzioni cui abbiamo accennato potrebbe avere un’effettiva rilevanza pratica. Immaginiamo che ci sia un tale che possiede una scultura, diciamo, per esempio, una “Pietà”. L’opera è firma-ta (“Michael.A[n]gelus.Bonarotus”), ma purtroppo non è minimamente documentata. Il proprietario, che vuole legittimamente conoscere il reale valore storico-artistico dell’oggetto, si rivolge dunque a un esperto, il solo tipo di esperto che possa, nella circostanza, fornire una risposta: lo storico dell’arte conoscitore. Il conoscitore, chiamiamolo A, dopo aver attenta-mente osservato la scultura, conclude 1) che la firma è apocrifa, che lo sti-le non sembra integralmente quello di Michelangelo, e che dunque l’opera va considerata uno stentato tentativo di replicare gli originali del maestro.

74 Errore

Il proprietario, comprensibilmente poco contento, decide che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, quindi si rivolge a un altro esperto conoscitore, B, il quale, a sua volta, dopo la solita attenta osservazione, sentenzia 2) che la firma è originale, sebbene ritoccata, che la fattura apparentemente un po’ grossier della statua è in realtà l’esito della deliberata violenza espressiva, drammaticamente moderna, con cui lo scultore ha deformato la figura, e che dunque la scultura va considerata un originale estremo di Michelange-lo. A questo punto, il proprietario, comprensibilmente perplesso, per deci-dere quale verdetto sia preferibile può fare due cose: continuare a interpel-lare altri esperti, magari per tentare poi un bilancio quantitativamente statistico, oppure fare appello a ragioni del tutto estrinseche (simpatia, au-torità, convenienza, intuito o simili).

Chi ha ragione e chi è in errore? Per stabilirlo, è ovvio, dovremmo ave-re un accesso ai fatti storici indipendente da e più cogente delle opinioni degli esperti, garantito il quale, peraltro – dovrebbe essere altrettanto ovvio – le opinioni stesse diverrebbero superflue in ordine all’accertamento dei fatti. Quanto a questi, supponiamo che almeno nel nostro esperimento mentale si dia il caso – comunque logicamente ed empiricamente non im-possibile – che l’opera in questione sia effettivamente di Michelangelo, ma sia anche effettivamente mediocre da un punto di vista qualitativo, perché quando la realizzò il vecchio scultore era ormai abbastanza rimbambito e non più padrone dei propri mezzi, e la firma sia in realtà apocrifa, sebbene apposta in sostituzione di una più antica firma autografa cancellatasi col tempo. Stando così le cose, si direbbe che entrambi i conoscitori A e B ab-biano, almeno in parte, ragione. Ma possiamo anche sostenere che essi ab-biano perciò acquisito una conoscenza in senso proprio? La questione è un po’ più complicata di quanto sembri. Si potrebbe anche suggerire, infatti, che il nostro experimentum fictum prospetti qualcosa di analogo al famoso problema di Gettier (1963), il quale, a suo tempo, come noto, ha messo in crisi e revocato in dubbio la sufficienza della nozione tradizionale di cono-scenza, intesa essenzialmente come credenza vera giustificata. Nel nostro caso, e senza addentrarci nei tecnicismi, possiamo notare che entrambe le credenze sono parzialmente vere, (1) perché l’opera è qualitativamente modesta, (2) perché è un autografo di Michelangelo, ed entrambe sembra-no anche giustificate, ad esempio perché basate su una larga e comprovata familiarità di A e B con il corpus michelangiolesco. Nondimeno, si può nu-trire il dubbio che tutte e due le conclusioni siano viziate da un’erronea connessione con i fatti: la scultura va in effetti giudicata come un risultato modesto, ma non perché sia opera di un imitatore di Michelangelo, e va in-vece attribuita a Michelangelo, ma non perché sia un capolavoro, che infat-

75M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

ti non è. Entrambe le credenze sono giuste, ma lo sono, per così dire, per i motivi sbagliati.

Capita. Questo non significa, naturalmente, che tutte le credenze di que-sto tipo soffrano necessariamente di simili limitazioni epistemiche, né ci interessa stabilire qui se il nostro scenario finzionale rappresenti propria-mente un Gettier-style case. L’esempio, però, immaginario ma tutt’altro che atipico, ci serve per richiamare l’attenzione su due elementi decisivi per una valutazione dello statuto epistemologico della connoisseurship sto-rico-artistica, ancorché troppo spesso insufficientemente tematizzati. In primo luogo, l’effettiva possibilità di soddisfare una condizione di connes-sione controfattuale tra credenza e fatto, che limiti il rischio di “conoscen-ze” solo accidentalmente vere; in secondo luogo, la necessità di mettere a fuoco la contaminazione, per non dire la confusione, spesso inavvertita, tra fatti di natura storica (il caso che un’opera sia stata effettivamente realizza-ta dall’individuo X al tempo t), di natura stilistica (il caso che un’opera pre-senti certe fattezze e proprietà), e di natura estetica (il caso che un’opera abbia un certo valore o merito estetici). I due aspetti sono inevitabilmente connessi, non solo nella pratica, ma intanto conviene esaminarli distinta-mente.

3. Connoisseurship e modelli epistemici

La capacità del conoscitore esperto di arrivare a formulare giudizi sinte-tici in tempi brevi, se non fulminei, e sulla scorta di pochi indizi visivi, a “colpo d’occhio”, come si dice, è stata descritta ripetutamente, a volte con enfasi e ammirazione, a volte con ironia, non di rado persino con disprez-zo, e spesso facendo appello all’aneddotica. Non è probabilmente una coincidenza, ad esempio, che il recente best-seller di Malcolm Gladwell, In un batter di ciglia (2005), che appunto fa l’apologia della «capacità di pen-sare senza pensare», si apra con il racconto di un tipico caso di ardua e con-troversa attribuzione storico-artistica, quello famigerato del Kouros acqui-stato trent’anni fa dal Getty Museum, che secondo Gladwell dimostrerebbe appunto come l’occhio del conoscitore sia in grado di cogliere inconscia-mente la verità, «nei primi due secondi», meglio di quanto possano fare mesi di indagini scientifiche. Il testo di Gladwell ha intenti divulgativi ed è chiaramente ispirato da una vena un po’ demagogica, ma l’immagine stere-otipata, nel bene o nel male, del conoscitore d’arte dall’occhio prodigioso è comunque indicativa. Anche il cristallizzarsi di una simile immagine con-tribuisce a spiegare perché assai più raramente le competenze e le presta-

76 Errore

zioni del connoisseur siano state considerate da un punto di vista più spas-sionatamente epistemologico.

D’altra parte, per dar seguito a un approccio di questo tipo bisogna insi-stere sugli aspetti “non speciali”, come abbiamo detto, della pratica stori-co-artistica. In sostanza, cosa fa uno specialista quando conclude, a un’a-nalisi autoptica, che una certa opera è stata realizzata da Michelangelo o da qualcun altro o, per esprimerci in termini più generali, individua un “chi”, un “quando” e un “dove”? La risposta più semplice è che il conoscitore va-luta e soppesa delle somiglianze visive tra l’oggetto in esame e un certo re-pertorio di riferimento più o meno ampio3. Quello della somiglianza, però, come tutti sanno, è un argomento scivoloso, a cominciare dal fatto che qua-lunque cosa potrebbe somigliare a qualunque altra sotto qualche rispetto. Si tratta perciò, piuttosto, di selezionare e pertinentizzare un insieme di tratti rilevanti e diagnostici in ordine all’ipotesi che siano determinati cau-salmente e non accidentalmente dal fatto che l’opera in questione sia stata appunto realizzata da un particolare individuo, in una particolare epoca, in un particolare luogo e in riferimento a certe procedure più o meno consoli-date nell’uso o convenzionali.

Sulla scorta di questa descrizione, forse un po’ asettica e poco suggesti-va ma se non altro sobriamente realistica, si può dire che il conoscitore d’arte non operi diversamente da qualunque altro esperto che, in base all’e-sperienza diretta maturata su una certa categoria di oggetti, sviluppi un’a-bilità di discriminazione, ricognizione e classificazione visiva, che in ter-mini formalmente cognitivi resta la stessa indipendentemente dall’ambito di applicazione e dal grado di specializzazione: dal clinico al perito delle impronte digitali, dal birdwatcher al pilota militare, e persino al cacciatore primitivo che insegue le impronte della sua preda, come ricordava Carlo Ginzburg (1979) in un saggio ben noto. Proprio questa equazione, però, ci consente di considerare qualche ulteriore motivo di omogeneità e disomo-geneità, sia pure a livelli diversi.

Su un piano più generale, infatti, e a dispetto di quanto sostenuto da Ginzburg, la pratica del conoscitore, inteso nel senso lato che abbiamo ap-

3 Che il confronto sia condotto a memoria e istantaneamente o più laboriosamente con l’ausilio di riproduzioni, se non addirittura di un paragone diretto con altri originali, è una circostanza del tutto irrilevante dal punto di vista che stiamo discutendo qui. Così come esula dalla nostra prospettiva, per motivi diversi, il fatto che lo specialista possa arrivare a un’attribuzione servendosi di mezzi totalmente estrinseci rispetto all’evidenza visiva dell’opera: per via documentaria, attraverso l’analisi chimico-fisica o grazie a qualunque altra strumentazione indiretta.

77M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

pena richiamato, non si affida né incarna alcun paradigma o modello epi-stemologico peculiare, sui generis o presuntivamente «alternativo» a quel-lo dominante e più «prestigioso» della scienza moderna – invariabilmente identificata con il metodo matematico «galileiano» (ivi: 170). Tanto meno, poi, se questo ipotetico «paradigma indiziario» viene concepito, come sug-gerisce Ginzburg, quale metodo destinato alla conoscenza di ciò che è as-solutamente «individuale», di contro alla cancellazione del singolare da parte della «generalizzazione» imposta dalle procedure meramente quanti-tative delle scienze moderne, interessate solo alle «proprietà universali» (ivi: 177)4. Senza diffonderci sulla questione oggi un po’ datata dei para-digmi à la Thomas Kuhn, è evidente che se un conoscitore – che sia medi-co, storico dell’arte o d’altro genere – potesse contare esclusivamente su «casi, situazioni e documenti individuali, in quanto individuali» (ivi: 170), non potrebbe formulare né abbozzare alcuna diagnosi, e men che meno po-trebbe «inferire le cause dagli effetti» (ivi: 168), come voleva Peirce, la malattia dai sintomi o l’autografia di un’opera dallo stile. Un’inferenza del genere è materialmente possibile solo se, attraverso casi numericamente diversi, esiste una ricorsività, una regolarità apprezzabile degli effetti ri-spetto alle cause, e solo se la relazione causa/effetto non viene percepita come semplice concomitanza accidentale ma come dipendenza nomica-mente determinata, cioè in forza di una legge, o qualcosa di simile, che è tanto più diagnosticamente affidabile quanto più è universalizzabile. Se la malattia si presentasse in ogni individuo in maniera totalmente diversa il medico non saprebbe che pesci prendere; se i pittori cambiassero radical-mente il proprio stile personale a ogni nuova opera il conoscitore, sempli-cemente, non potrebbe fare confronti né cogliere somiglianze indicative. Per fortuna, succede esattamente il contrario: un esperto diventa tale nella misura in cui riesce a riconoscere attraverso una casistica quantitativamen-te sufficiente (il che significa come minimo non un unico caso individuale) un elemento stabilmente ricorsivo, che appunto bisogna tematizzare, per usare un’espressione husserliana, sull’orizzonte degli accidenti idiomatici e individuali legati al singolo caso, che invece restano sullo sfondo proprio

4 La contrapposizione delineata da Ginzburg è in realtà problematica già da un punto di vista terminologico, sicché l’idea complessiva di una «conoscenza scientifica (ma di una scientificità tutta da definire) dell’individuale» (177) resta poco perspicua, a cominciare dal fatto che se veramente si trattasse di una scientificità «tutta da definire», allora tanto varrebbe non parlare di «conoscenza scientifica» ma di qualche altro tipo, posto ovviamente che sussistano comunque le proprietà comuni (o universali) che consentano di parlare in tutti i casi almeno di «conoscenza»: scientifica, indiziaria e via di seguito.

78 Errore

in quanto individuali5. Insomma, quando un conoscitore ri-conosce qual-cosa lo fa non a causa, ma a dispetto delle variabili accidentali.

Questo ci porta a un secondo punto, che riguarda una distinzione che va invece tracciata all’interno delle pratiche basate sulla connoisseurship. Af-finché le operazioni che abbiamo descritto siano infatti percorribili è ne-cessario presupporre (almeno) una qualche sistematicità di correlazione tra occorrenze singole e categorie d’ordine superiore. Ma questa sistematicità non può essere presupposta sempre nella stessa misura e con le stesse ga-ranzie. Ciò che vincola la connessione tra un sintomo nosograficamente in-dicativo e una particolare patologia non ha la stessa natura di ciò che vin-cola, poniamo, il comportamento di un individuo dotato di libero arbitrio a una certa convenzione sociale caratteristica. Il primo caso, pur ammetten-do che le correlazioni biologiche vanno intese hōs epi to polu, come dice-va Aristotele, rappresenta comunque molto più del secondo un’approssi-mazione a uno standard normativo ideale, ed è rispetto a questo che si misura una diagnosi ideale: non per nulla, come sanno tutti i medici, la dia-gnosi stessa diventa assai più difficile e incerta di fronte a una sintomatolo-gia atipica o aspecifica. Per quanto riguarda in particolare le attribuzioni storico-artistiche si tratta allora di capire come e dove “collocare” la pre-supposizione di riferimento. A questo proposito, però, le opinioni degli specialisti restano piuttosto vaghe. A parte le frasi fatte, più citate che ana-lizzate, tipo quella famosa di Buffon («Lo stile è l’uomo stesso»), si incon-trano per lo più asserzioni magari perentorie ma generiche e piuttosto inge-nue6, tacendo, per pietà, delle superstizioni di ispirazione storicistica che vorrebbero riconoscere nelle opere l’autorivelazione, magari inconscia, della “facies” dello “Spirito dell’epoca” o simili. E anzi, non meraviglia che a garanzia della presenza dell’inconfondibile impronta personale dell’autore nell’opera si sia invocato spesso proprio l’inconscio – bastereb-be ricordare Morelli, per una declinazione veteropositivista – quasi nell’in-tento di conferire un carattere modulare e cognitivamente impermeabile al

5 Non è chiaro, nel saggio di Ginzburg, se la nozione di «individuale» vada intesa in senso logico-metafisico oppure in senso antropologico, psicologico o in qualche altra maniera. Allo stesso modo, appare ambiguo l’uso del concetto di «qualità», che non si vede perché, quando pure usato per opposizione a quello di quantità, debba considerarsi come qualcosa di esclusivamente individuale.

6 Ad esempio questa di Giovanni Previtali (1971: 57): «Il prin ci pio su cui si basa l’attribuzione è molto sem plice: e cioè da un lato sulla ca pa cità della mente umana di riconoscere ciò che già co no sce, dall’altro sull’altra caratteristica dell’uomo di la sciar sem pre una im pronta per so nale su ciò che fa, sia che lo vo glia, sia che (come nella sto ria av viene as sai spesso) cer chi di ot te nere pro prio l’opposto».

79M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

meccanismo di connessione tra stile e riconoscibilità autografica. Ciò che, soprattutto, dispenserebbe dal dover fornire spiegazioni più circostanziate. Potrebbe forse competere alle neuroscienze, o alla neuroestetica, provare a stabilire quanto sia praticabile il progetto di una compiuta “naturalizzazio-ne”, in senso tecnico, della genesi dei fenomeni stilistici. Ma come che sia, dovrebbe essere chiaro che, sotto il profilo nomologico, il rapporto tra le fattezze di un quadro e l’identità dell’autore non può essere lo stesso tipo di rapporto che sussiste tra, poniamo, la comparsa delle macchie di Koplik e l’infezione virale da morbillo.

4. Le opere d’arte e il sesso dei pulcini

Non ci sarebbe bisogno di sottolineare una simile ovvietà se non fosse che la sua ricaduta di ordine epistemologico viene spesso sottostimata. Da questo punto di vista, la domanda chiave non è solo: come fa un conoscito-re a sapere che una certa opera va attribuita in un certo modo? Ma anche: come sappiamo quando un conoscitore è effettivamente competente e affi-dabile? Non si tratta esattamente della stessa questione e la loro differente portata si può cogliere forse più nitidamente, di nuovo, attraverso un con-fronto.

Prendiamo per esempio un tipo di conoscitore che ha a che fare con og-getti piuttosto diversi dalle opere d’arte, ma che si serve comunque di indi-zi visivi minimi e per il profano persino apparentemente fantomatici: il ses-satore di pulcini. Un esperto sessatore ha il compito di distinguere a colpo d’occhio, e per giunta in pochi secondi, pulcini maschi e pulcini femmine di appena un giorno, una distinzione assai rilevante almeno per gli interes-si industriali legati alla pollicoltura. La diagnosi differenziale è qui sempli-ficata dal fatto che naturalmente ci sono solo due opzioni, tuttavia l’opera-zione non è affatto facile, perché i pulcini appena nati sono praticamente indistinguibili quanto al sesso e solo un occhio estremamente esercitato è in grado – più precisamente, sbirciando la cloaca dell’animale – di ricono-scere i segni altrimenti impercettibili che fanno in effetti la differenza. Ciò spiega perché l’acquisizione di una simile competenza è lunga, complessa e fortemente selettiva7. Ma, quel che qui ci interessa rimarcare è che la competenza, comunque acquisita, è direttamente verificabile o, se si prefe-risce, falsificabile, nel senso che se (e nella misura in cui) il sessatore sba-

7 La letteratura sull’argomento è già abbastanza ampia. In sintesi, vedi Martin 1994. Per un approccio “demistificante”, vedi, per esempio, Horsey 2002.

80 Errore

glia i suoi errori diventano presto macroscopicamente evidenti. E lo stesso vale per la ratio della procedura in generale: o i segni individuati dall’e-sperto sono davvero geneticamente determinati e covariano con la diffe-renza sessuale oppure il metodo è inservibile e i risultati prima o poi si ve-dono. Dunque, se è difficile, o difficilissimo, distinguere il sesso dei pulcini, è invece estremamente facile distinguere, alla lunga, un sessatore incompetente da uno realmente capace, in teoria e in pratica.

Possiamo fare appello a un simile test per le competenze del Kunstken-ner? Evidentemente no, in primo luogo per le ragioni che abbiamo già det-to. Ciò non significa, è vero, che non si possa ricorrere a una qualche evi-denza esterna. Anzi, ed è un punto decisivo, il conoscitore, di norma, dipende prioritariamente da una conoscenza indipendente dagli elementi visivi di cui si serve in quanto conoscitore, come abbiamo già accennato. Per attribuire un’opera a Michelangelo, in quanto personalità storicamente individuata, devo disporre almeno di un termine di confronto iniziale la cui identità sia stata assicurata per una via esterna alla procedura, di solito do-cumentaria. In questo senso, evidenze indipendenti di un simile genere po-trebbero fornire, per lo meno in termini statistico-quantitativi, un criterio tendenziale per valutare il rateo di “successo” di un certo esperto, come ap-punto succede in un test. Ma, a parte l’effettiva disponibilità di elementi esterni, peraltro spesso anch’essi incerti (se non addirittura più incerti), re-sta che un test di questo tipo può servire a controllare le conoscenze di un conoscitore solo se già si dispone di quelle stesse conoscenze, avendole ac-quisite con un altro metodo. Finché sul banco di scuola c’è un aspirante esperto, passi, ma quando al banco degli imputati c’è la stessa connois-seurship, ovvero, come abbiamo detto, la ratio della procedura in genera-le? Chi controlla? Certo non la comunità stessa degli esperti. Una creden-za può essere falsa anche se largamente condivisa: né il consenso numerico né l’autorità, in quanto tali, possono fornire garanzie se non dipendono a loro volta da un criterio esterno e non circolare. Senza contare che sul pia-no pratico un consenso effettivo spesso deriva da fattori del tutto estrinse-ci, in buona o cattiva fede, soprattutto negli ambiti dove la storia dell’arte si esercita professionalmente e gerarchicamente (soggezione, servilismo, piaggeria, opportunismo, mimetismo, ignoranza pluralistica ecc., o even-tualmente l’opposto per i motivi opposti).

Torneremo tra poco sul problema cruciale dell’accessibilità dell’eviden-za ultima, ma intanto dovrebbe far riflettere il fatto che spesso proprio la retorica celebrativa delle straordinarie capacità divinatorie del conoscitore finisca per subordinare paradossalmente tali capacità a forme di conoscen-za giudicate più solidamente conclusive. L’apologo volutamente didascali-

81M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

co di Gladwell sul Kouros del Getty, che abbiamo già citato, non funzione-rebbe se nel finale non venisse fuori, a sorpresa, che gli storici dell’arte che avevano intuito a colpo d’occhio l’inautenticità dell’opera avevano di fatto ragione, come “dimostrato”, indirettamente, dalla falsificazione fraudolen-ta di documenti scritti e da una serie di esperimenti fisico-chimici, col che, tuttavia, rimettendo involontariamente il giudizio finale sulla questione proprio nelle mani di quegli stessi esami scientifici che l’intuito dei cono-scitori avrebbe dovuto sconfessare in termini epistemologici8. Argomenta-tivamente, non è per niente una buona mossa, se l’intento è quello di riven-dicare l’autonomia di un sapere basato sul giudizio immediato dell’occhio.

Qui, peraltro, emerge un’ulteriore tematica che si è spesso affacciata nella letteratura sulla connoisseurship, sia pure in termini non proprio ana-litici, e che chiama di nuovo in causa l’inconscio, non già quello dell’auto-re, che appunto non saprebbe come e dove rivela (o tradisce) se stesso nel-la propria opera, ma piuttosto quello del critico, che per conto suo non sa come spiegare o articolare le ragioni delle proprie intuizioni o impressio-ni9. Il motivo di questa insistenza, se c’è, sembrerebbe rispondere a un’a-naloga strategia: quanto più un giudizio può presentarsi come immediato, subliminale, doxasticamente impenetrabile, persino “indisponibile” alle manipolazioni dello stesso soggetto cosciente, tanto più potrà apparire frut-to di una qualche forma di contatto o connessione diretta con l’oggetto, che sembra parlare con la voce, e l’autorità, della “cosa stessa”. Non per nulla è assai frequente a questo proposito l’uso (e l’abuso, bisogna ammettere) ottimisticamente letterale della metafora plastica dell’“impressione”, me-glio ancora quando si tratti della “prima impressione”, che infatti si oppo-ne esplicitamente – come in Friedländer (1946), per un esempio tipico – all’ambito dell’analisi, dell’argomentazione, dell’inferenza e simili.

5. “Sapere che”, “sapere come” e sapere come lo sai

Sul piano gnoseologico, una simile divaricazione può accostarsi a quel-la che divide oggi gli epistemologi sul confronto tra esternalismo e inter-

8 La questione è stata dibattuta a lungo, senza pervenire, peraltro, a risultati conclusivi convincenti per tutti, a quanto pare. Indicativamente, nel museo americano la didascalia della scultura recita: “Greek, circa 530 b.C. or modern forgery”. Sulla vicenda, vedi, tra gli altri, Kokku 1993; Hoving 1996; Lapatin 2000.

9 Persino nel caso di approcci dichiaratamente metodici come quello di Morelli. Vedi a riguardo le osservazioni di Locatelli 2014.

82 Errore

nalismo. Non ci serve, naturalmente, entrare qui nel merito del problema tecnico10, se non per il fatto che ci fornisce uno strumento meglio definito per valutare la questione di cui ci stiamo occupando. E a questo scopo tor-na di nuovo utile il parallelo con il caso del sessatore di pulcini, che infat-ti, e non sorprende, viene spesso citato paradigmaticamente nell’ambito del dibattito epistemologico. In una prospettiva esternalista, il chicken sexer, come il conoscitore d’arte, potrebbe far ricorso a una capacità conoscitiva realmente affidabile, perché causalmente e controfattualmente connessa all’oggetto esterno, pur senza essere in grado di accedere a quella relazio-ne riflessivamente e introspettivamente (dall’interno) e quindi di dar conto delle proprie ragioni, come al contrario richiederebbe appunto una teoria internalista della conoscenza. Insomma, se le cose stessero così, il conosci-tore che facesse attribuzioni senza saper dire minimamente come ci sia ri-uscito non sarebbe per questo da giudicare inattendibile o incompetente. Anzi, come abbiamo accennato, si potrebbe persino supporre che questa condizione possa diventare una sorta di garanzia: come ha scritto una vol-ta Pierre Bourdieu, proprio in merito ai rapporti tra coscienza e padronan-za pratica, «è perché i soggetti non sanno ciò che fanno, che ciò che fanno ha più senso di quanto essi non sappiano» (Bourdieu 1972: 222).

Non è strano che a qualcuno sia venuto in mente di spingere il ragiona-mento fino a un limite apparentemente paradossale. Quando Arthur Danto (1992: 30) suggeriva, sia pure con sarcasmo, che in fondo le più controver-se questioni attributive poste dal corpus rembrandtiano si potrebbero far decidere con maggior sicurezza a un piccione ammaestrato – che a onor del vero possiede capacità di discriminazione e ricognizione visive notevoli e comprovate – avrebbe potuto far leva anche su questo argomento: non c’è rischio che preoccupazioni di ordine riflessivo contaminino la spontanea percezione dei piccioni, nessuno meglio di loro potrebbe superare «il test della pura sensibilità», come lo chiamava Edgar Wind (1963: 73). E di re-cente c’è stato perfino chi – non saprei se proprio per queste ragioni – ha pensato bene di mettere alla prova l’intuizione profetica di Danto, dimo-strando per via sperimentale che i piccioni sono realmente in grado di di-stinguere e “attribuire” quadri di uno stesso pittore e di uno stesso stile fi-gurativo11, a conferma di come una “declarative knowledge” si possa ridurre perfettamente a una “procedural knowledge”, un “sapere che” a un

10 Sul quale si può vedere, complessivamente, Kornblith 2001; Conee-Feldman 2004; Bergmann 2006.

11 Si vedano i risultati delle varie ricerche del gruppo di Shigeru Watanabe (2001; 2010; 2011).

83M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

“sapere come”, per riprendere i termini classici di Gilbert Ryle (1946). Chissà, forse è bene che gli storici dell’arte imparino non solo dai sessato-ri di pulcini, ma anche direttamente dai pulcini stessi.

In ogni caso, il nostro problema è un altro. Ed è quello, paradossale solo in apparenza, di assicurarci l’evidenza dell’errore. Posso assumere una prospettiva esternalista sulle capacità discriminative del sessatore perché i risultati delle sue abilità non sono controversi, non c’è rischio di confonde-re dall’esterno un vero sessatore con qualcuno che semplicemente crede di esserlo – perfino in perfetta buona fede, visto che né l’uno né l’altro posso-no accedere riflessivamente alle ragioni della propria esperienza interna, che dunque potrebbe essere del tutto indistinguibile (Pritchard 2008). E lo stesso dicasi dei piccioni, che in fondo, per il momento almeno, si limitano a riconoscere solo casi già risolti. Ma come la mettiamo con un conoscito-re di fronte a un’opera anonima, indecisa e non altrimenti documentata? Se l’attribuzione si basasse su una (prima) impressione diretta, che si palesa fenomenologicamente al soggetto come una sorta di sentimento interiore, come si spiegherebbero e come si riconoscerebbero gli errori? Come di-stinguere un sentimento di autenticità che non è un vero sentimento? Come potremmo sapere di essere i conoscitori che, magari fermamente, crediamo o sentiamo di essere?

Di nuovo, per stabilire quando una connessione esterna realmente sussi-sta e quando no sarebbe necessario ricorrere ogni volta a un elemento indi-pendente dalla stessa procedura attributiva, la quale, tuttavia, in tal modo vi resterebbe sistematicamente subordinata da un punto di vista epistemi-co. E allora, anche sul piano pratico, tanto varrebbe rivolgersi direttamen-te a metodi esterni. Probabilmente anche pensando a circostanze del gene-re proprio Max Friedländer (1946: 105) scriveva che «il giudizio intuitivo si può considerare un male necessario». Sarà pure strategica, ma certo si tratta di una ritirata.

6. Prime intuizioni ed evidenze ultime

È dunque essenziale poter sbagliare palesemente, non solo perché dagli errori si impara, come si dice, ma anche e soprattutto perché altrimenti una prassi, un metodo, un’arte, comunque li si voglia chiamare, non sono epi-stemologicamente giudicabili. Il punto critico, benché talvolta sembri pas-sare inosservato, non è squalificare la connoisseurship storico-artistica per-ché praticandola si commettono errori, né, ovviamente, pretendere che sia infallibile, ma, al contrario, cercare di capire quando, come e, fin dove pos-

84 Errore

sibile, perché porta a commettere errori. Il che significa esercitare quel tipo di vaglio critico, di «analisi distruttiva», che Polanyi (1958: 138) racco-mandava non per liquidare ma proprio per poter riconoscere la validità di certe abilità pratiche, di un tipo di conoscenza «tacita» o «personale»12. In-somma, sarà anche vero, come afferma Bourdieu, che ciò che un conosci-tore fa ha più senso di quanto egli non sappia, ma allora deve saperlo qual-cun altro, e lo deve sapere in modo più chiaramente accessibile. Non basta che più o meno frequentemente (o più o meno di rado, secondo gli stan-dard) un’attribuzione “a occhio” venga smentita in maniera ragionevol-mente sicura da un pezzo di carta o da qualche altra prova documentaria o scientifica per poter assumere, come chiederebbe David Freedberg, che la connoisseurship «offre la possibilità di giungere a conclusioni falsificabili e dunque sicure» (Freedberg 2006: 31). Anche le pratiche magiche vengo-no falsificate, quando è possibile (e non sempre lo è), ma è chiaro che que-sto non ci induce a parlare seriamente di conoscenze magiche falsificabili e dunque sicure. È semmai la teoria, o la teoria della pratica della connois-seurship nel suo complesso che dovrebbe esplicitare a quali condizioni es-sere confutabile, per soddisfare quel «criterio di demarcazione» con cui l’alfiere del fallibilismo, Karl Popper (1934: 21), proponeva di distinguere le scienze empiriche dalle pseudoscienze. Dubito che sia un’impresa util-mente praticabile.

D’altro canto, e non sarebbe neppure il caso di sottolinearlo, di gran lun-ga più disperato è il tentativo opposto di evocare standard epistemologici o scientifici abbastanza “indeboliti” da potervi includere pratiche poco con-trollabili come quelle del conoscitore, mossa che conduce, per i motivi in parte già visti, a conseguenze controintuitive, quando non patentemente as-surde13. Ove pure si volesse sostenere che la competenza del connoisseur si basa su meccanismi irrazionali, sarebbe evidentemente implausibile consi-

12 Per un’analisi cognitiva interessante del rischio di errore funzionalmente connesso alla specializzazione delle competenze degli esperti, vedi gli studi di Itiel Dror (2011; Dror – Charlton 2006).

13 Indicativo in questo senso il saggio di Ebitz (1988), che, ispirandosi a una via di mezzo tra l’anarchismo metodologico à la Feyerabend e un generico costruttivismo sociologico, arriva a concludere che «the process of connoisseurship is circular, affecting both the object of attention and the means of perceiving», ma nello stesso tempo dichiara candidamente che «sufficient correspondence is possible to support a practical level of validity» (210). Evidentemente senza rendersi conto che nella misura, quale che sia, in cui c’è corrispondenza non può esserci circolarità e viceversa, e proprio non si capisce come questo sarebbe un problema «for logicians, not for humanists and scientists».

85M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

derare i suoi risultati come una forma di conoscenza “irrazionale”, a meno di non essere sorretti da una (buona) fede incrollabile.

Ma allora come è possibile rivendicare o contestare la validità di un’at-tribuzione suggerita dalla pratica del conoscitore senza abbandonare la pra-tica stessa o sottoporla a una falsificazione che comporti una metabasis eis allos genos? La risposta più ovvia, ma per questo anche forse più banale, è che ci si può appellare solo all’evidenza, intesa in senso visivo e ostensivo. Che si tratti di dettagli minimali appena percepibili o di configurazioni ge-stalticamente più comprensive, di pattern astratti o di elementi figurativi, di caratteri aspettuali o di procedure esecutive, tutti questi indizi devono co-munque essere positivamente rilevabili e non misteriosamente divinabili in forza di qualche non meglio specificata sensibilità idiomatica. Ripetiamo-lo, l’“arte” del conoscitore, se proprio la si vuole chiamare così, può gua-dagnare in termini di credibilità epistemica nella misura in cui sia cogniti-vamente assimilabile a una capacità di categorizzazione percettiva di tipo tassonomico, non diversa, da un punto di vista funzionale, da quelle ordi-nariamente esercitate in altri ambiti dove pure la classificazione ha un ruo-lo conoscitivo preliminare, ad esempio in biologia.

Il confronto, ancora una volta, è istruttivo. Nonostante i progressi della genetica e le considerazioni suggerite dalle teorie evolutive, la morfologia resta un criterio fondamentale per l’inquadramento tassonomico, e non ci sono ovviamente capacità speciali da scomodare nella valutazione dei fatti morfologici se non le normali competenze cognitive di ogni osservatore normodotato. Ciò non toglie che tali capacità si possano finalizzare a certi scopi ricognitivi particolari, secondo gradi variabili. Non c’è dubbio che per un completo profano distinguere visivamente, poniamo, una manta da una mobula potrebbe essere un’operazione di soverchia difficoltà. Nondi-meno, i caratteri diagnosticamente distintivi tra le due specie sono abba-stanza macroscopicamente evidenti da potersi riconoscere con sicurezza grazie a un minimo di esperienza ed esercizio. Anche un bambino sarebbe in grado di fare la distinzione una volta che abbia imparato dove guardare. Naturalmente, come abbiamo già osservato sopra, i caratteri diagnostici in questo caso sono normativamente vincolati in un quadro morfologico che non può essere accidentale, ma ciò non significa che anche in biologia la classificazione visiva non possa essere progressivamente più complessa e persino controversa.

Lo mostra, tra l’altro, proprio il caso del genere Manta, la cui storia tas-sonomica è notoriamente tra le più accidentate nell’ambito della zoologia marina. In tempi moderni lo si è considerato un genere monotipico con una sola specie, Manta birostris (Walbaum 1792), sicché tutte le differenze os-

86 Errore

servabili potevano considerarsi varianti intraspecifiche. Di recente, tutta-via, alcuni biologi hanno proposto di suddividere il gruppo in due specie distinte, basandosi appunto sull’analisi di particolari caratteri morfologici e meristici14. È chiaro che a questo livello di classificazione solo un esper-to può valutare l’insieme dei tratti diagnostici rilevanti (che oltretutto non sono solo dei field marks ma includono anche in-hand marks meno facil-mente osservabili in condizioni non ottimali). Resta però, in ogni caso, che la proposta tassonomica non sarebbe neppure seriamente considerabile se queste differenze, sottili quanto si vuole, non fossero in linea di principio visivamente accessibili a chiunque si periti di accertarlo. Solo volendo co-prirsi di ridicolo un biologo potrebbe uscirsene dicendo che la differenza specifica in questione si è “rivelata” alla sua immediata e intuitiva sensibi-lità personale come un’“illuminazione” (magari “acerrima e terebrante”), sicché soltanto chi fosse dotato di un’analoga sensibilità sarebbe in grado di capirlo.

Proprio perché anche in questo caso non è verosimile aspettarsi delle conferme o delle smentite attraverso fonti indipendenti, è tanto più neces-sario che l’evidenza visiva disponibile sia effettivamente equiaccessibile, intersoggettivamente valutabile. Da ciò non consegue che tutti, in senso as-soluto, potranno riconoscere quel che c’è da vedere, e non solo perché, come sappiamo, si può negare anche l’evidenza più palmare, per esempio per i motivi strumentali o strategici che abbiamo elencato sopra: questo è banalmente un problema di onestà intellettuale. Piuttosto, non è detto che tutti, alla prova empirica, e sia pure con la massima buona fede, colgano gli elementi visivi che vengono indicati come probanti, così come non tutti e non sempre, al dunque, riescono a capire una dimostrazione logica basata sull’evidenza inferenziale. Giunti a questo piano ultimo, però, non si pos-sono chiamare in causa altri strumenti di verificazione o falsificazione che non poggino essi stessi a loro volta sul medesimo genere di evidenza fina-le. Ci si può sbagliare, vedere una cosa per un’altra, essere vittime di una momentanea inattentional blindness, farsi ingannare da un’illusione ottica, ma anche solo per stabilire che tutto questo capita e può capitare è neces-sario servirsi comunque della stessa evidenza visiva. Una volta fatti tutti i debiti controlli personali rispetto all’oggetto della mia percezione, si arriva

14 Marshall – Compagno – Bennet 2009. Può essere interessante aggiungere che la Marshall non solo propone di individuare due specie distinte, Manta birostris e Manta alfredi, ma suggerisce anche, in via cautelativa, la possibilità di discriminare una terza specie, Manta sp. cf. birostris, per la quale la biologa non ritiene però di avere sufficienti evidenze.

87M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

a un punto in cui «assolutamente nulla potrebbe essere addotto per dimo-strare che ho commesso un errore», come ha scritto John Austin in un sag-gio memorabile, sicché le constatazioni visive dirette espletate in tali con-dizioni non possono che essere considerate «certamente, decisamente e irritrattabilmente vere» (Austin 1962: 120). Che ci piaccia o no, non ci sono alternative.

Di qui, però, derivano alcune conseguenze interessanti per il nostro tema. Innanzitutto, la situazione che abbiamo descritto definisce un princi-pio regolativo: quanto più si invoca l’evidenza, tanto meno si può fare ap-pello a capacità, sensibilità o disposizioni speciali o esoteriche, e vicever-sa. Comunque si sia arrivati a notare un certo “fatto” visivo, quello deve poi essere visibile anche ad altri, altrimenti le conclusioni che ne derivano non potranno che essere più o meno largamente opinabili, anche se avanza-te dalle massime “autorità” in materia. Delle due, l’una. Si tratta di decide-re che strategia adottare. Una cosa che, invece, proprio non si può fare – ed è purtroppo piuttosto frequente – è chiedere una demonstratio ad oculos e nello stesso tempo pretendere che la verità si riveli solo agli occhi e alla mente degli specialisti (o di alcuni specialisti più specializzati di altri). Sot-to il profilo epistemico, l’intuizione sensibile, il “colpo d’occhio”, non ha proprio nulla di speciale, è accessibile a chiunque «in tutto il mondo, sen-za limiti geografici, storici, etnici, sessuali o di classe – e quindi è lontanis-sima da ogni forma di conoscenza superiore, privilegio di pochi eletti», come ricordava giustamente Ginzburg (1979: 193).

Infatti, e in secondo luogo, ciò consente anche di fare piazza pulita dell’idea mitologica che la dimensione visiva su cui si basano i giudizi at-tributivi sia soggetta a modificazioni percettive che dipendono da differen-ze di carattere professionale, generazionale o più ampiamente storico-cul-turale, sicché, per esempio, gli storici dell’arte di oggi vedrebbero diversamente (meglio o peggio?) di quelli di ieri oppure, per un’altra con-seguenza rilevante ancorché poco coerente, i copisti e i falsari alla fine ver-rebbero scoperti perché il loro occhio è sempre condizionato dalla «facies culturale» del loro tempo, come ha scritto qualcuno, sparandola grossa15. Ma su questo punto non c’è bisogno di soffermarsi troppo. Se la connois-

15 Per esempio, Cesare Brandi (1963), il quale, peraltro, poco coerentemente, sosteneva a questo proposito tesi diverse: da una parte, infatti, «la copia, l’imitazione e la falsificazione, rispecchieranno la facies culturale del momento in cui si eseguirono» (95), ma se, d’altra parte, «l’artista farà o non farà confluire nella sua scelta gusti e preoccupazioni […] che può avere in comune colla sua epoca. Sarà affar suo» (50). Per una più ampia e circostanziata critica su questo punto vedi Di Monte 2006.

88 Errore

seurship aspira alle competenze e alle prestazioni “pure” dei piccioni, allo-ra non si dovrebbe preoccupare in alcun modo della presunta storicità dell’occhio; se invece si sostiene che il sapere condiziona il vedere, allora per dimostrarlo bisogna indicare come, dove e quando, e quindi poter di-stinguere le due cose, e la loro interazione, in maniera trasparente, cioè non reciprocamente condizionata, col che dimostrando però anche il contrario: che in effetti il sapere non condiziona il vedere.

7. Meriti e periti

Questo ci porta a un ultimo nodo, che abbiamo segnalato all’inizio e che ora viene finalmente al pettine, vale a dire il rapporto tra connoisseurship storico-artistica e connoisseurship estetica. La distinzione è certo legitti-ma, ma, anche a prescindere dal fatto che molti la trascurano, è opportuno chiarire meglio i suoi termini e le sue conseguenze16. Infatti, è ben vero che si può attribuire un’opera a un certo autore o a un certo periodo senza pre-occuparsi di questioni valutative, indipendentemente dal giudizio artistico che dell’oggetto stesso si potrebbe dare, ma allora è non meno vero che l’attribuzione è indipendente anche dal fatto che l’oggetto in questione sia un’opera d’arte, e dunque parlare di connoisseurship “storico-artistica” è tutt’al più una circostanza accidentale. Se le cose stanno così, inoltre, ne consegue che un conoscitore che proceda in questo modo non ha alcuna au-torità o titoli privilegiati per pronunciare giudizi di merito estetico o artisti-co sulle opere attribuite, né tanto meno per servirsene quali strumenti attri-butivi.

Così, almeno, dovrebbe essere per coerenza. Ma, come si sa e come ab-biamo ricordato nel nostro breve apologo iniziale, le cose, in realtà, vanno diversamente. E così l’esoterismo oracolare disordinatamente serpeggian-te nelle pratiche di molti conoscitori (stricto sensu) diventa, a questo ri-guardo, dilagante. Storici e critici d’arte più o meno militanti e più o meno specialisti (soprattutto in certi ambiti) emettono sentenze “apodittiche” non solo sui meriti qualitativi delle opere d’arte ma anche sullo stesso statuto artistico degli oggetti, senza esitazioni ma anche, di solito, senza esibire ar-gomentazioni di sorta e qualche volta – il che è davvero stupefacente – per-sino ammonendo, all’occorrenza, che il concetto di arte è indefinibile o, peggio, che dei gusti non si discute e simili adagi.

16 Sull’importanza di una chiara distinzione si è pronunciato di recente Brown 2008. Vedi anche Freedberg 2006.

89M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

D’altra parte, l’abuso di un linguaggio zaratustriano è inversamente pro-porzionale alla disponibilità di criteri controllabili e di strumenti di falsifi-cazione, che a tale riguardo è in effetti assai più fantomatica che nei casi precedenti. Se, infatti, un’attribuzione autografica potrebbe sempre essere corroborata o smentita da qualche elemento esterno che acceda per altra via al “fatto” in questione (l’opera X è stata realizzata dall’individuo Y al tem-po t), non è altrettanto chiaro a quale elemento esterno si potrebbe fare ap-pello per supportare o smontare un’attribuzione di merito estetico o artisti-co. Non possiamo certo discutere qui il problema filosofico generale dei giudizi estetici “verdettivi” – per usare l’espressione di Austin – ma può es-sere comunque utile registrarne, per i nostri scopi, l’interferenza con la questione delle pretese competenze dei conoscitori. Ed è piuttosto sintoma-tico, a questo proposito, che molti autori abbiano considerato i giudizi at-tributivi e quelli verdettivi come originati da una medesima “capacità”, quando non ne hanno fatto addirittura una cosa sola.

Purtroppo, la mossa è totalmente arbitraria. Si può anche scrivere, spe-rando che qualcuno se la beva, magari suggestionato dalla perentorietà del tono, che il conoscitore trasforma (o più precisamente «converte») «imme-diatamente la sua folgorante associazione mentale in “giudizio di valore”»17, resta però da spiegare come ciò sia possibile, visto che associare un’opera a un nome non è affatto la stessa cosa che associare l’una o l’altro a un gra-do differenziale di valore, a meno che il nome stesso, a sua volta, non sia stato già preliminarmente e stabilmente associato a un valore, ma allora, per evitare il regresso, bisogna anche dimostrare come, perché e sulla base di quale autorità, e dunque il problema iniziale è semplicemente posposto. E certo non sarà la fenomenologia delle varie “folgorazioni” o epifanie in-terne, pur abbondantemente evocate in letteratura, a costituire un carattere distintivo, e men che meno una garanzia epistemica, se non altro per il fat-to che in modo ugualmente «folgorante» si presentano spesso alla mente il-lazioni erronee e non poche scemenze.

17 Così Longhi (1954: 150). Ma naturalmente simili convinzioni erano (e per molti aspetti continuano a essere) piuttosto diffuse. Non per caso, e tanto per fare un altro esempio ben noto, anche il rivale storico di Longhi, Lionello Venturi, finiva per ammettere gli stessi meccanismi di fondo. Secondo Venturi (1948: 35), infatti, «che la personalità [di un autore] sia veramente artistica, questo può dirci solo l’intuizione delle sue opere», la quale, però, dovrebbe addirittura «ricostruire la personalità dell’artista e comprendere se essa si sia assorbita nella propria immaginazione creatrice» (ivi: 26), senza chiedersi, ad evidenza, come sia possibile avere accesso alla personalità storica di un artista indipendentemente dalla sua opera.

90 Errore

Perciò, anche a voler ammettere che i giudizi verdettivi abbiano un’ori-gine puramente intuitiva, non ne consegue che siano disponibili ai conosci-tori (o a certe scuole di conoscitori) esperti più di quanto lo siano ad altri. Infatti, esperti di cosa, esattamente, in questo caso? Per sostenere una tesi del genere si dovrebbe mostrare come minimo, in una vena esternalista, che i giudizi stessi sono causalmente determinati da (e dunque nomologi-camente covarianti con) elementi oggettivi cui gli specialisti abbiano per ipotesi un accesso cognitivo privilegiato. Allora, tali elementi dovrebbero essere anche, se non proprio descrivibili, almeno ostensivamente indivi-duabili in modo sistematico – cioè, per capirci, non una sola volta o ogni volta in maniera casualmente diversa – ma, se così fosse, è chiaro che il giudizio di valore non sarebbe più tanto arcano, ineffabile o misticamente riservato.

Dal punto di vista gnoseologico che qui ci interessa, tuttavia, la difficol-tà è anche più profondamente strutturale e concerne nella stessa misura sia il problema della divergenza sia quello della convergenza epistemiche. Supponiamo pure che, a parte subjecti, la percezione del valore dipenda da una capacità intuitiva, non proposizionale, modulare e cognitivamente im-permeabile, mentre, a parte objecti, la qualità estetica o artistica sia una proprietà almeno response-dependent, se non proprio mind-independent, cioè una disposizione reale che suscita risposte determinate solo in chi pos-siede la capacità corrispondente, come succederebbe con le “qualità secon-darie” secondo la tradizione lockiana. Ora, sulla scorta di un simile approc-cio, sarebbe un bel problema se queste capacità disposizionali e le discriminazioni estetiche che ne dipendono non fossero larghissimamente distribuite, giacché come si potrebbe inferire una connessione biunivoca non aleatoria se fosse vero che «il poter farle è di pochi, di pochissimi il farle con frutto», come scriveva ingenuamente il Lanzi? (1796: XXI)18 Na-turalmente, ci si può autoconvincere di far parte di un gruppo eletto quan-to ristretto di “happy few”, ma purtroppo non si può mostrare, neppure a se stessi, che quelle autoconvinzioni non siano autoillusioni.

Si tratta perciò, in primo luogo, di dar conto della mancanza di consenso in casi di “simmetria epistemica”: come sappiamo, di fronte a giudizi diver-genti di questo tipo, chi sbaglia e chi no? Purtroppo, in questo senso, la de-concettualizzazione e la soggettivizzazione dell’intuizione qualitativa non si rivela una buona mossa ed è un bel po’ paradossale che gli storici dell’ar-te si siano spesso affidati, a tale proposito, direttamente o indirettamente (e

18 Nello stesso luogo Lanzi ribadiva che «è più raro trovare un vero conoscitore, che un pittor buono», battuta sottoscritta poi con approvazione da Longhi (1954: 150).

91M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

a volte persino senza saperlo), al Kant della Critica del Giudizio, che, in re-altà, ha non poche difficoltà proprio a spiegare tanto gli errori dei giudizi di bellezza quanto la correttezza dei giudizi di bruttezza. Infatti, se il giudizio estetico ha statuto non concettuale e non oggettivo ed è invece determinato dallo spontaneo accordo proporzionato delle facoltà conoscitive «messe in gioco» dalla rappresentazione di un oggetto (Kant 1790: §9), non si vede perché le stesse facoltà non dovrebbero funzionare spontaneamente allo stesso modo in tutti i soggetti (in ogni epoca e in ogni luogo), garantendo un’effettiva convergenza di gusti, senza doverla meramente pretendere all’infinito, né si capisce cosa dovrebbe impedirci di concludere che ogni singola rappresentazione «si accordi con le condizioni dell’universalità», che in ogni singola rappresentazione si dia la stessa «coscienza della finali-tà puramente formale nel giuoco delle facoltà conoscitive» (ivi: §12), come anzi dovrebbe essere prevedibile. Perché alcune rappresentazioni, se pure ce ne sono, non mettono in gioco l’accordo delle facoltà? Come si può stabili-re quando si tratta di un difetto della facoltà e quando di un difetto della rap-presentazione? E perché questo capita ad alcuni soggetti e non ad altri? Sfortunatamente, la costruzione del sistema kantiano non offre le risorse per rispondere a simili domande, ma questo è un problema che deve preoccupa-re piuttosto gli esegeti o i fedelissimi di Kant19.

Per quel che ci riguarda qui, invece, dobbiamo porci una seconda que-stione, complementare a quella circa il dissenso verdettivo ma altrettanto decisiva: come giustificare una convergenza fattuale su questioni di merito artistico? Di per sé, infatti, che un’opinione attributiva sia condivisa, quand’anche condivisa dagli esperti, è tutt’al più un indizio, corroborabile o smentibile, ma non già una giustificazione epistemica, se non si eviden-zia anche in che misura la stessa condivisione dipende a sua volta da uno stato di cose oggettivo20. Il consenso empirico si può formare per i motivi più diversi, come abbiamo già detto. Il solo fatto che il nome di Tizio o di

19 Il problema del dilemma tra l’ipotesi poco accettabile che tutti gli oggetti d’esperienza siano ugualmente belli e la rinuncia alle condizioni di universalità richieste dalla “Deduzione dei giudizi” è stato affrontato varie volte (vedi, per esempio, Guyer 1979: 297; Meerbote 1982; Rind 2002). Alcuni autori (Brandt, Gracyk) hanno optato per il primo corno del dilemma, altri (Allison, Ameriks, Zuckert ecc.) hanno cercato di accomodare in qualche modo le due istanze divergenti.

20 In questo senso, la conclusione di Brown (2008), per cui «the success of their collective practice [dei conoscitori] is the most reliable indication of how much intersubjective warrant aesthetic value-intuitions can acquire», pur mossa da una giusta preoccupazione antiscettica, non sembra sufficiente, se prima non si spiega come misurare effettivamente «il successo» in modo non circolare.

92 Errore

Caio sia contemplato in uno o più manuali di storia dell’arte non è un argo-mento conclusivo a favore dello statuto artistico delle loro opere, quanto non è un argomento il fatto che, per esempio, l’inferiorità mentale della donna o degli schiavi sia stata a lungo un’opinione largamente condivisa, non solo dagli esperti.

Senza dilungarci oltre, conviene da ultimo ribadire almeno un punto. Se si vuol sostenere che esiste qualcosa come un “senso della qualità” (estetica o artistica), allora, ove pure si trattasse di espressione metaforica, il foro della metafora dev’essere comunque la fenomenologia dell’espe-rienza sensoriale, dunque delle due l’una: o questo “senso” è compiuta-mente innato e non c’è nulla da imparare oppure le sue prestazioni sono migliorabili con l’esercizio. Nel primo caso, è ovvio, si possono dare er-rori “percettivi” accidentali di vario tipo, ma non ci sono conoscitori, spe-cialisti o esperti che possano insegnare a “vedere” le qualità estetiche, non più di quanto un chimico, un fisico o il gestore di un colorificio possa in-segnare a qualcuno a vedere il rosso meglio di quanto questi possa fare spontaneamente. Se insomma esistono proprietà estetiche (o artistiche) con questo statuto, allora si possono riconoscere e apprezzare anche se uno «ha dimenticato a casa la guida», come ha scritto ironicamente Nick Zangwill (2001: 88).

Nel secondo caso, ed è non meno ovvio, si possono affinare delle poten-ziali capacità cognitive (più o meno visivamente fondate) solo se si sa dove guardare e cosa imparare a riconoscere e classificare. Il che significa che dovranno essere definiti i “sensibili propri” di questo presunto “senso” del-la qualità, e che le tecniche di ammaestramento non potranno essere trop-po densamente circonfuse di un’aura misteriosofica, se ciò che si vuole tra-smettere è la “conoscenza”, in senso epistemologico, e non qualche altra cosa21. E qui, purtroppo, tanto la pratica quanto la letteratura dei conoscito-ri non sono spesso le guide migliori, giacché anche i richiami al contatto di-retto con le autentiche opere d’arte, l’uso abbondante di aggettivi intrinse-camente valutativi nelle descrizioni, l’evocazione dei valori “formali”, esecutivi o stilistici, sono, nella migliore delle ipotesi, argomenti circolari. Non basta dire che «i più intimi ingredienti» dell’arte di un pittore sono «l’esecuzione» e «il colore», come capita di leggere22, e non solo perché

21 Sugli effetti delle inconsapevoli lacune conoscitive in ordine alla trasmissione della conoscenza sono istruttivi gli esempi discussi da Fred Dretske (1982).

22 È l’opinione di Denis Mahon – in particolare su Poussin – che David Carrier (1993: 87) giudica esemplare della «filosofia» implicita della connoisseurship. Dello stesso Carrier, vedi su questo anche (2003). Per una critica radicale dell’idea

93M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

ciò è banalmente ovvio per ogni pittura, anche quella degli imbianchini, ma perché innanzitutto bisognerebbe appunto mostrare la connessione non fortuita (anche se non analitica) tra questi elementi e il merito artistico. Ed è tutt’altra operazione, che necessariamente porta fuori dal cerchio magico delle “verità” che si rivelano agli alumbrados.

8. Conclusione non speciale

Di fronte a simili questioni, certo, si può sempre rispondere con un nolo contendere, magari aggiungendo che si tratta di questioni che competono ad altri specialisti di altre discipline, ma i problemi conoscitivi di carattere generale restano quello che sono, chiunque se ne voglia o se ne debba oc-cupare. Il paradosso epistemico della storia dell’arte, se così possiamo chiamarlo, sta proprio in questo: quanto più rigidamente la disciplina cerca di delimitare, fissare e difendere i confini della propria parrocchia tanto più è costretta a uscire da quegli stessi confini per meglio puntellarli, dall’e-sterno. In fondo, e questo sì dovrebbe essere intuitivo, qualunque cosa ci sia di speciale da vedere nella storia dell’arte, può vederlo solo un occhio capace di vedere anche altre cose, un occhio non troppo specializzato.

Bibliografia

AUSTIN J. L.1962 Sense and Sensibilia, trad. it. di W. Antuono, Senso e sensibilia,

Roma 1968.

BERGMANN M.2006 Justification without Awareness, Oxford.

BOURDIEU P.1972 Esquisse d’une théorie de la pratique, trad. di I. Maffi, Per una teo-

ria della pratica, Milano 2003.

BRANDI C.1963 Teoria del restauro, Roma.

che gli elementi “essenziali” della pittura vadano cercati in questa direzione rimando a Di Monte 2012.

94 Errore

BROWN J. H.2008 Connoisseurship: Conceptual and Epistemological Fundamentals, in

J. C. Kuo (a c. di), Perspectives on Connoisseurship of Chinese Paint-ing, Washington, pp. 137-175.

CARRIER D.1993 On the Philosophy of Connoisseurship, in Id., Poussin’s Paintings. A

Study in Art-Historical Methodology, University Park, pp. 85-104.

2003 In Praise of Connoisseurship, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 61, 2, pp. 159-169.

CONEE E. – FELDMAN R. (a c. di)2004 Evidentialism. Essays in Epistemology, New York-Oxford.

DANTO A. C.1992 Beyond the Brillo Box, trad. di M. Rotili, Oltre il Brillo Box. Il mon-

do dell’arte dopo la fine della storia, Milano 2010.

DI MONTE M.2006 Fatti e contraffatti. Cosa è veramente falso nella storia dell’arte?,

«Rivista di Estetica. Falsi, contraffazioni e finzioni», P. D’Angelo (a c. di), 31, 1, pp. 49-68.

2012 Le immagini in dettaglio. La pittura vista alla distanza giusta, «Ve-nezia Cinquecento», XXII, 44, pp. 113-162.

DRETSKE F. I.1982 A Cognitive Cul-de-Sac, «Mind», 91, 361, pp. 109-111.

DROR I. E.2011 The Paradox of Human Expertise: Why Experts Can Get It Wrong, in

N. Kapur, A. Pascual-Leone, V. Ramachandran (a c. di), The Parado-xical Brain, Cambridge, pp. 177-188.

DROR I. E. – CHARLTON D.2006 Why Experts Make Errors, «Journal of Forensic Identification», 56,

4, pp. 600-616.

EBITZ D.1988 Connoisseurship as Practice, «Artibus et Historiae», 9, 18, pp. 207-212.

95M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

FREEDBERG D.2006 Why Connoisseurship Matters, in Katlijne van Stighelen (a c. di),

Munuscula Discipulorum: Essays in Honour of Hans Vlieghe, Turn-hout 2006, pp. 29-43.

FRIEDLÄNDER M. J.1946 Von Kunst und Kennerschaft, trad. di A. Bovero, Il conoscitore d’arte,

Milano 1995

GETTIER E.1963 Is Justified True Belief Knowledge?, «Analysis», 23, pp. 121-123.

GINZBURG C.1979 Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti, emblemi, spie,

Torino 1986, pp. 158-209.

1995 Vetoes and Compatibilities, «The Art Bulletin», 77, 4, pp. 534-536.

GLADWELL M.2005 Blink. The Power of Thinking Without Thinking, trad. di M. Parizzi,

In un batter di ciglia. Il potere segreto del pensiero intuitivo, Milano 2006

GUYER P.1979, Kant and the Claims of Taste, Cambridge.

HORSEY R.2002 The art of chicken sexing, «UCLA Working Papers in Linguistics»,

14, pp. 107-117.

HOVING T.1996 False Impressions: The Hunt for Big Time Art Fakes, London.

KANT I.1790, Kritik der Urteilskraft, trad. di A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Ro-

ma-Bari 1997.

KOKKOU A. (a c. di)1993 Getty Kouros Colloquium: Athens, 25-27 May 1992, Malibu.

96 Errore

KORNBLITH H. (a c. di)2001 Epistemology. Internalism and Externalism, Malden.

LANZI L.1796 Storia pittorica della Italia, Bassano.

LAPATIN K.2000 Proof? The case of the Getty Kouros, «Source. Notes in the History

of Art», 20, pp. 43-53.

LOCATELLI V.2014 “Es sey das Sehen eine Kunst”. Sull’arte della connoisseurship e i

suoi strumenti, «Kunstgeschichte. Open Peer Reviewed Journal».

LONGHI R.1954 Per una storia dei conoscitori, in Id., Critica d’arte e buongoverno.

1938-1969, Firenze 1985, pp. 149-152.

MARSHALL A. – COMPAGNO J. – BENNET M.2009 Redescription of the genus Manta with resurrection of Manta alfredi

(Krefft, 1868), «Zootaxa», 2301, pp. 1-28.

MARTIN, R. D.1994 The Specialist Chick Sexer: A History, A World View, Future Pros-

pects, Melbourne.

MEERBOTE R.1982 Reflection on Beauty, in T. Cohen, P. Guyer (a c. di), Essays in Kant’s

Aesthetics, Chicago, pp. 80-83.

POLANYI M.1958 Personal Knowledge, trad. di E. Riverso, La conoscenza personale,

Milano 1990.

POPPER K.1934 Logik der Forschung, trad. di M. Trinchero, Logica della scoperta

scientifica, Torino 1970.

97M. Di Monte - L’occhio ammaestrato. Sullo statuto conoscitivo

PREVITALI G.1971 Attribuzione, in Id. (a c. di), Arte. Enciclopedia Feltrinelli Fischer,

2/1, Milano, pp. 56-60.

PRITCHARD D.2008 Sensitivity, safety, and anti-luck epistemology, in J. Greco (a c. di),

The Oxford Handbook of Skepticism, Oxford, pp. 437-455.

RIND M.2002, Can Kant’s Deduction of Judgments of Taste Be Saved?, in «Archiv

für Geschichte der Philosophie», 84, 1, pp. 20-45.

RYLE G.1946 Knowing How and Knowing That, «Proceedings of the Aristotelian

Society», XLVI, pp. 1-16, ora in Collected Papers, vol. 2, London 2009, pp. 222-235.

VENTURI L.1948 Storia della critica d’arte, Torino 1964.

WATANABE S.2001 Van Gogh, Chagall and pigeons: picture discrimination in pigeons

and humans, «Animal Cognition», 4, pp. 147-151.2010 Pigeons can discriminate “good” and “bad” paintings by children,

«Animal Cognition», 13, pp. 75-85.2011 Discrimination of painting style and quality: pigeons use different

strategies for different tasks, «Animal Cognition», 14, pp. 797-808.

WIND E.1963 Critique of Connoisseurship, in Art and Anarchy, trad. di R. Wilcock,

Arte e anarchia, Milano 1968, pp. 53-74.

ZANGWILL N.2001 The Metaphysics of Beauty, trad. di M. Di Monte, La metafisica del-

la bellezza, Milano 2011.

ZERNER H.1987 What gave connoisseurship its bad name?, in W.L. Strauss, T. Felker

(a c. di), Drawings Defined, New York, pp. 289-290.

99

DISTRUGGERE, DISSE. AUTORITRATTO DEL FILOSOFO

DA ARCHITETTO

di Filippo Fimiani

Quanto malagevole cosa sia a chi vive […] a non fallire mai,a non incappare in qualche erroruzzo.

Giovanni Della Casa

1. Dell’utilità e dell’inutilità dell’errore per la vita della cultura moderna

Il rapporto tra errore e filosofia è efficace banco di prova per valu tare le differenze tra Antichi e Moderni. Così pensa Leopardi, che diagnostica una discordante relazione tra originalità, scoperta o invenzione intellettuale, e la sua utilità a breve e lungo termine. Tale difformità consiste in un’econo-mia ristretta della memoria culturale nella Modernità, basata sulla distru-zione e la dimenticanza, sulla rimozione di quanto si deve a ciò che si nega, l’errore appunto. Questo spostamento si afferma come tradizione del nuo-vo, come progresso – anche nella storia della filosofia o della scienza –, sebbene Cartesio o Locke, eponimi della Modernità, divengano tali proprio perché hanno levato piuttosto che aggiunto, revocato piuttosto che rischia-to, eliminato piuttosto che insegnato. Questa logica è all’opposto di quan-to diranno, riformulando un aforisma di Napoleone ma riferendosi a Carte-sio, Léon Brunschvicg e Charles Péguy: «on ne détruit que ce qu’on remplace» (Brunschvicg 1934: 64; Péguy 1901: 747).

Per Leopardi1, la principale “utilità” di un filosofo moderno consiste nel distruggere un errore e nello «spiantare un abuso», e non né nel pro-durre e costruire, né nell’insegnare e diffondere una «nuova verità» o una buona usanza. Lo sguardo retrospettivo di Leopardi accosta storia uni-versale, storia della cultura moderna, e storia psicologica, e vi trova con-ferma che «le grandi scoperte per lo più non sono altro che scoperte di

1 Leopardi 1991: 1443; le quattro note del 21 e quella del 22 maggio 1823 occupano le pagine 1441-1445 nell’edizione Pacella, da cui cito.

100 Errore

grandi errori [e correzioni di grandi abusi], i quali se non fossero stati, né quelle (che si chiamano, scoperte di grandi verità) avrebbero avuto luo-go, né i filosofi che le fecero avrebbero alcuna fama». Si tratta di «un procedere affatto negativo, sì nella scoperta, sì ancora nell’enunciazione, perché infatti da principio quella verità fu annunziata come negazione dell’errore contrario che allora sussisteva». In altri termini, nelle «opera-zioni» acquisite e considerate non solo abituali ma legittime, non si chia-mano le cose col loro nome, non si dice quel che si fa. Se l’utilità del co-noscere per gli uomini consiste nel disingannare e nel correggere, gli viene «ordinariamente» dato il nome adatto al suo opposto, viene rinomi-nato come se consistesse nello scoprire o creare qualcosa di nuovo, nell’insegnare e nel «bene accostumare». “Utili”, antichi e moderni, lo furono e lo sono i libri che distrussero e distruggono errori: «In somma – sintetizza Leopardi – la loro utilità non consiste per lo più nel porre, ma nel togliere, o dagl’intelletti o dalla vita».

A questa utilità negativa, e tuttavia invertita di segno nell’uso ordina-rio e consolidato del linguaggio in cui si istituisce e si riconosce la co-scienza storica moderna e in cui legittima i propri saperi – morali, religio-si, filosofici, scientifici –, Leopardi ne oppone un’altra. Anch’essa negativa, è il compimento non dialettico della prima, di quella non detta ed enunciata sotto falso nome, ed è realizzata non tramite una qualche forma di superamento teleologico, ma tramite un’inversione ulteriore e regressiva, erede al sublime retorico antico e vicina all’Umwertung di Nietzsche. Leopardi la descrive come quella «sommità della sapienza [che] consiste nel riconoscere la sua propria inutilità», e la cui utilità o scopo, «nel rispetto alla vita [e] a tutto quanto appartiene all’uomo», con-sisterebbe nel ricondurre l’intelletto «appresso a poco a quello stato in cui era prima del suo nascimento», nella semplicità e nel non-sapere dei fanciulli e dei primitivi. In tale disimparare è confermato, con segno op-posto, il procedere del «vero modo di filosofare», perché «la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quel-lo che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno». Proprio demolendo gli errori prece-denti, di tale «vero modo di filosofare», del suo carattere distruttivo, i fi-losofi moderni fanno, allora, la «restaurazione»: come nel “restauro di fantasia” o “romantico” – coevi alle note leopardiane, teorizzati da Viol-let-le-Duc e Ruskin – si colmano le lacune e si completa il preesistente in rovina, rendendolo però irriconoscibile, così Cartesio e Newton non con-servano o ripristinano qualcosa delle filosofie precedenti, non s’impe-

101F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

gnano in alcuna forma di “restituzione”2 di quanto del passato, pur se de-teriorato o fallito, ha comunque permesso loro di rimodellarsi e, finalmente, di rifarsi come ex novo.

La nota del 21 maggio 1821, che si conclude coll’elogio dell’utile inuti-lità dell’ignoranza e della sua “capacità negativa”3, introduce subito l’ana-logia con la pratica architettonica, accompagnata da un non meno decisivo motivo economico: «Paragonando la filosofia antica colla moderna, si tro-va che questa è tanto superiore a quella, principalmente perché i filosofi an-tichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. Il che se gli anti-chi tal volta facevano, niuno però era che in questo caso non istimasse suo debito e suo interesse il sostituire. […] Ma i filosofi moderni, sempre to-gliendo, niente sostituiscono».

Leopardi cita al banco dei testimoni Cartesio, Newton, Locke, il cui «gran genio» consisterebbe nella falsità del principio delle idee innate, nel-la scoperta di questo «inganno degli uomini, universalissimo, naturalissi-mo, antichissimo, anzi nato nel genere umano, e sempre nascente in ciascu-no individuo». Filosofo incluso, sicché «le conseguenze di questa distruzione, sono ancora pochissimo conosciute (rispetto alla loro ampiez-za e moltiplicità), e i grandi progressi che dee fare lo spirito umano in séguito e in virtù di questa distruzione, non debbono consistere essi mede-simi in altro che in seguitare a distruggere». Alla sopravvivenza degli erro-ri, corrisponde una distruzione interminabile, e il progresso della cono-scenza ne è un altro nome.

2. Rovine, istruzione per l’uso

In questa prospettiva, le rovine hanno una funzione inedita, del tutto smarcata da ogni poetica o faccenda di gusto e riferita invece alla «restau-razione della filosofia»: l’uso frequente del termine e del suo campo meta-forico diventa una spia lessicale e una misura critica del rapporto, nella Modernità, tra forme discorsive, produzione e trasmissione del sapere.

Si leggano insieme Leopardi, anti-cartesiano, e Valéry, iper-cartesiano: «Cartesio distrusse gli errori de’ peripatetici. In questo egli fu grande, e lo

2 Sulle valenze ermeneutiche e critiche del restauro, Fimiani 2013.3 La negative Capability compare in una celebre lettera di John Keats ai fratelli

George e Thomas del 21 dicembre 1817 (1953: 75); è stata poi ripresa nella teoria e nella clinica psicoanalitica, specie di Wilfred Bion e Adam Phillips.

102 Errore

spirito umano deve una gran parte de’ suoi progressi moderni al disingan-no proccuratogli da Cartesio. Ma quando questi volle insegnare e fabbrica-re, il suo sistema positivo che cosa fu? Sarebbe egli grande, se la sua gloria riposasse sull’edifizio da lui posto, e non sulle ruine di quello de’ peripate-tici?» «J’ai été extrêmement frappé, plus que je n’en fus surpris, de voir, dans plus d’un cas, l’excellent, le parfait ne s’établir que sur les ruines, jusqu’à ici inconnues de textes succéssifs, parfois assez médiocres»4 (Valé-ry 1952: 231).

Cartesio è anche il nome taciuto da Nietzsche quando, in Umano, trop-po umano, intitola un aforisma agli Errori dei filosofi e scrive: «Il filosofo crede che il valore della sua filosofia stia nell’insieme, nell’edificio. I po-steri lo trovano nella pietra con la quale egli costruì e con cui, da allora in poi, si continuò a costruire spesso e meglio: dunque in questo, che quella costruzione può essere distrutta e tuttavia conservare ancora valore come materiale [als Material Wert]» (Nietzsche 1879: 78). Ritroviamo, come in Leopardi e Valéry, una critica alla filosofia moderna in quanto costruzione sistematica e, soprattutto, un’attenzione a una temporalità negativa retroat-tiva, che concerne più una storia delle forme e dei generi della filosofia, che una storia della filosofia in generale. Non si tratta, però, di un’esalta-zione di un’interpretazione sfrenata e senza limiti, ma di una diagnosi di una produttività e di un’ambivalenza nella relazione di una filosofia a un’altra: se una scoperta o una verità di un enunciato filosofico originale si fa sugli errori e le rovine di quelle precedenti, esso, senza volerlo, mostra una parte della sua costruzione e rivela il suo essere ancipite, insieme nuo-vo e anacronistico, proprio e altrui. In tale rapporto ambivalente, s’inverte la linearità progressiva e la filosofia della storia che implicitamente sotten-de l’istituzione stessa del discorso filosofico moderno. Anche l’utilità di quest’ultimo può consistere nella sua rovina, nel suo andare o esser fatto a pezzi, nell’obsolescenza delle sue scoperte e delle sue verità e, quindi, nel-la sopravvivenza dei suoi errori, nell’uso che si potrà fare di quanto ha in-teso e creduto realizzare; uso, o abuso, che potrebbe andare perfino contro quanto il filosofo ha fatto – e detto, e non detto, di fare – delle verità e gli errori di chi lo ho preceduto. Una rovina, esiste tra due negazioni: non è più costruzione o parte di essa, e non arriva a essere distrutta del tutto, a non essere che rudere, maceria inutilizzabile e senza alcun valore.

Nietzsche tace anche il nome di Kant. Introducendo la dottrina trascen-dentale del metodo, Kant aveva scritto esplicitamente che «si tratta non tanto dei materiali [Materialien], quanto del disegno [Plan], e, essendo noi

4 Lettera a Henri Mondor del 16 febbraio 1941.

103F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

avvertiti di non arrischiare su un progetto fatto a caso e alla cieca, che po-trebbe sorpassare tutti i nostri mezzi, e non potendo rinunziare alla costru-zione di una solida abitazione, bisogna fare il piano d’un edificio in relazio-ne ai materiali che ci sono dati e che sia, insieme, proporzionato ai nostri bisogni». Posta la necessità di «una storia [Geschichte] della ragion pura […] dal punto di vista trascendentale», più avanti leggiamo che, «poiché l’unità sistematica è ciò che prima di tutto fa di una conoscenza comune una scienza, cioè di un semplice aggregato un sistema, l’architettonica è la dottrina della scientificità della nostra conoscenza in generale» (Kant 1781-1787: 558, 641-643), giacché, sintetizzando retorica e morfologia, architettura e organicismo, la totalità è organizzata per articulatio, non è coacervatio, si sviluppa per intussusceptionem e non per appositionem, o perfino generatio aequivoca, come i vermi. «Die menschliche Vernunft ist ihrer Natur nach architektonisch» (Ivi: 398), afferma perentorio Kant.

Di tale modello trascendentale, l’aforisma nietzscheano mette in luce un’altra storicità, retroattiva non solo sul piano empirico della storia del-la ricezione, ma anche sul piano della fondazione e dell’esemplarità stes-sa del modello. Se il filosofo è innanzitutto un architetto, impegnato a co-struire una struttura ben fondata perché ben progettata, nel frammento nietzscheano e nelle note leopardiane si può intendere anche un elemen-to più generale, poco preso in conto nella storia della filosofia: che essa è una storia dei filosofi. In fondo, una filosofia della storia e della storia della filosofia sono, di fatto, sottointese nel momento in cui il filosofo moderno – Cartesio, Kant – si fa carico di una distruzione capillare di er-rori e opinioni, scoperte e credenze, non solo del pensiero umano in ge-nerale e delle sue operazioni logiche e linguistiche, ma dei filosofi prece-denti e delle loro proposizioni in particolare; questo implicito vale ancor di più quando si assume tale manovra come un’azione necessaria e preli-minare al progetto e alla realizzazione di un esercizio e di una prestazio-ne della ragione finalmente certa di sé, autonoma e libera – starei per dire originale.

La metaforica architettonica potrebbe essere tematizzata in rapporto non tanto alla fondazione trascendentale, quanto a un tacito modello di storici-tà e di storiografia, valido nella filosofia moderna del soggetto e dopo, in quella anti- o post-moderna, anti- o post-metafisica. È difficile una storia della filosofia senza autori e nomi propri, o una storia delle idee e della cul-tura senza una galleria di ritratti e blasoni o emblemi; la retorica e la meta-forologia – alla White e alla Blumemberg –, la stilistica e i “personaggi fi-losofici” o le “scene” – alla Deleuze e Rancière –, non cambiano di molto le cose.

104 Errore

3. Errata corrige, o carte e favole

Distruzione è la parola d’ordine della filosofia moderna. Cartesio non è solo uomo di carte, ma d’immagini e la sua epistemologia – ce lo hanno mostrato Bachelard, Antonio Negri, Claudia Brodsky, Daniel Purdy, e altri – è costruita con metafore.

Nella risposta all’obiezione mossa dal gesuita Pierre Bourdin alle Medi-tazioni filosofiche, pubblicate l’anno precedente, il 1641, Cartesio scrive di aver «imitato gli architetti» (Descartes 1641-1642: 683); in particolare, lo ha fatto per quello che riguarda la costruzione di un edificio su un terreno sabbioso e instabile, che va prima circoscritto e isolato con un fossato, poi sgombrato e pulito fino a raggiungere la roccia e la terra ferma sottostante. Se questa analogia avrà una grande fortuna – Kant, Heidegger, Derrida, e ol-tre5 –, va detto che Cartesio si riferisce alla tipologia architettonica cristiana della cappella, esemplificatrice sia delle proprietà analitiche delle sue argo-mentazioni – le series, il nexus, l’ordo –, sia della cohaerentia e della firmi-tas dell’intero suo sistema. Il sacellum è come l’allegoria della Filosofia in-scritta nelle Meditazioni: l’architettura è il metodo stesso; lo scavo del fossato è il vuoto creato dal dubbio, che ha estirpato e sgombrato il terreno dai pregiudizi e le opinioni (Prima Meditazione); la roccia è il Cogito (Se-conda Meditazione); la colonna, tripla, è la prova dell’esistenza di Dio (Ter-za, Quarta, e Quinta Meditazione); il sacello è finalmente l’insieme delle Meditazioni. In altri termini, il principio organizzativo della struttura stessa della costruzione del sapere è un fondamento immobile e stabile, che per-mette, regola e garantisce che il metodo sia applicabile correttamente ad al-tri campi; filosofia e architettura sono analoghe in quanto a principio strut-turale e regolativo, e nelle loro pratiche istituzionali, materiali e discorsive. Ma Cartesio fa del suo testo, in forza delle isotopie architettoniche, un luo-go abitabile e non solo leggibile, un topos performativo, dove chi scrive fa e mette in pratica quel che dice e quel che pensa: le Meditazioni sono una to-pica in cui visualizzare e disporre giunture concettuali e nessi linguistici cui collabora il lettore, che avanza egli stesso nella costruzione del pensare come in quella di un edificio, introdotto e istruito alla polisemia delle analo-gie, insieme figure meta-testuali e attivatori performativi.

5 Posso qui solo evocare il tema in Heidegger (nel Kantbuch (1929), nell’Introduzione alla metafisica (1935), nel Nietzsche (1936-1946), nel Principio di Ragione (1957)) e Derrida (Economimesis (1975), La Vérité en peinture (1978), Mochlos – ou le conflit des facultés (1984), su cui specialmente Gasché 1986: 109-121 e Wigley 1993: 7-13, 60-63).

105F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

La risposta cartesiana a Bourdin consiste nel rifondare la metafisica in basso, alla base o alla radice. Come i trattati di morale degli antichi pagani saranno, nel Discorso sul Metodo, paragonati a palazzi superbi ma costru-iti sulla sabbia e sul fango, giacché innalzano le virtù facendole apparire stimabili sopra ogni altra cosa al mondo ma non le fanno conoscere, così, all’opposto della metafisica eretta come una alta torre nel cielo ma senza solide basi, la garanzia dell’edificio della filosofia e della sua abitabilità, ovvero della sua universalità, sta innanzitutto nel suolo stabile, omogeneo, misurato. Valéry ammirava tanto il Cogito quanto Eupalinos: l’architettura gli aveva insegnato che «niente si regge da solo», che, di contro al crollare e cadere in rovina, insomma all’errore, insito o indotto e sempre possibile per ogni cosa e per ogni «opera dello spirito», la costruzione è «il tipo di azione più bello che l’uomo possa proporsi» (Valéry 1932: 1277-1278). È, infatti, passaggio dal disordine all’ordine e uso dell’arbitrario per ottenere una forma di necessità sempre precaria e instabile, umana.

Nella conferenza inaugurale del IX Congrès International de Philoso-phie noto come Congrès Descartes, Valéry afferma che, per lui, «l’essen-ziale del Discorso non è altro che il quadro delle condizioni e delle conse-guenze di un evento, di una sorta di colpo di stato, che sbarazza questo Io da tutte le difficoltà e le ossessioni o nozioni parassite, di cui è appesantito senza averle desiderate né trovate in se stesso» (Valéry 1937: 806.). Se la dimensione auto-riflessiva del Cogito è universale, la sua realizzazione è allo stesso tempo singolare ed evenemenziale, e il soggetto ne deve dare in-nanzitutto una peinture (Descartes 1637: 133), presentando se stesso e il metodo proprio come in un tableau, con tanto di istoria e di fable. Introdot-ta retoricamente una dimensione esemplare ma non ancora normativa e prescrittiva, il filosofo Cartesio traccia allo stesso tempo un quadro o un ri-tratto in cui il lettore può riconoscersi, e scoprire gli elementi estranei e tra loro contraddittori, gli errori di cui patisce senza sapere come averli assimi-lati, ma anche una carta operativamente utile per orientarsi altrimenti nel mondo e nella conoscenza. Nella pagina del Discorso cui Valéry si riferi-sce, non si deve, infatti, cogliere un elemento individuale e idiosincratico, contingente e storico, perfino inconscio e segreto, ma un aspetto strategico ed evenemenziale del modello che il soggetto del discorso filosofico insie-me istituisce e restituisce a chiunque, aldilà dei limiti delle sue prestazioni e competenze specifiche e ristrette. L’atto con cui il filosofo René Descar-tes prende la parola e parla per così dire in prima persona universale e ano-nima – chi, infatti, pronuncia l’Ego Cogito? – non è un’invenzione ex nihi-lo, ma è un atto di rinvenimento e di riconoscimento, di riscoperta e di rappresentazione di un modello – l’architettura.

106 Errore

E l’architettura non è un esempio o una metafora altrimenti parafrasabi-le o permutabile, non è, cioè, solo una figura sostitutiva che sta al posto di quello che Leopardi chiama il procedere del «vero modo di filosofare» – e che si può intendere anche in senso trascendentale –, ma è anche ciò in for-za di cui il filosofo negozia con vari regimi e tipi di errori. Errori altrui o propri che il filosofo, imitando l’architetto, rimuove anche dalla produzio-ne del suo discorso, così da poter cambiare di segno all’eccezionalità e all’arbitrarietà della sua condizione e trasformarla in legalità istituzionale e in azione propriamente modellizzante e normativa. Se ogni fabula nascon-de l’azione reale e attuale che la sottende, se ogni tableau e messa in figu-ra dissimula le esclusioni dell’alterità che la determinano, nella leggenda magistrale dell’auto-rappresentazione composta e allestita, dipinta e narra-ta, da Cartesio, è in gioco il leggendario e il magistero dell’istituzione stes-sa della filosofia.

Nella Seconda Parte del Discorso (Descartes 1637: 137-138), Cartesio fornisce un autoritratto d’inchiostro celeberrimo, propriamente domestico, che ha provocato una iconografia fortunata e discussa: un ritratto di Franz Hals, due Filosofo in meditazione, di Rembrandt e Salomon Koninck6, di cui si è a lungo fantasticato che si trattasse dell’autore del Discorso sul Me-todo. In questa pagina notissima riecheggia il Libro Terzo del De Re Aedi-ficatoria di Leon Battista Alberti (1450-1452) e traspare, in negativo, un modello urbanistico medievale e già barocco – così la lesse Lewis Mumford –, nel quale sopravvive anche la tradizione dell’ingens silva come spazio caotico ed erratico del divenire. Le vie del metodo sono incompatibili con l’accumulazione e la continuazione, con l’iperfetazione e la ripresa – o, per impiegare un termine pittorico, con il repentir –, con quello che Kant (Kant 1781-1787: 643) chiamerà Bauzeug, materiale da costruzione recuperato da edifici in rovina da riutilizzare solo dopo il disegno architettonico, che è il vero lavoro filosofico. Sono queste tutte maniere di operare e di saper-fa-re, per dirla con Kant, “rapsodiche”, escluse preliminarmente dalla misura-zione, dalla planimetria, dal disegno e, soprattutto, dalla realizzazione del progetto more geometrico.

6 Una di fronte all’altro, come in uno specchio, in Descartes. Les pages immortelles choisies et expliquées par Paul Valéry, pubblicato nel 1941, una riproduzione in bianco e nero della tela di Hals, allo Statens Museum for Kunst di Copenhagen, è montata accanto a un ritratto fotografico di Valéry. Sull’attribuzione e le interpretazioni dei dipinti al Louvre, Philosophe en méditation (1632) e Philosophe au livre ouvert (1640-1650), Fimiani 2011; cfr. anche Fimiani 2012 e Leclair 2006.

107F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

Più in generale, è ripudiato tutto ciò che non è fatto da sé ma da altri o è preesistente, tutto ciò che è opera altrui o è già là, che può essere al massimo perfettibile ma non perfetto, che può essere accomodato ma non compiuto.

4. Una casa portatile

All’inizio della Terza Parte del Discorso sul Metodo, Cartesio introduce il principio della morale provvisoria tramite un’altra analogia con l’archi-tettura. Si tratta di una riformulazione che sembra parzialmente mettere in discussione la rigidità progettuale e costruttiva del Metodo, e che andrebbe riletta con la logica dell’ospitalità della trascendenza nel Cristianesimo, in cui l’Altro abita nell’Io e il soggetto non è mai presso di sé e a casa propria. Cartesio, per non restare bloccato nel disaccordo tra giudizi e azioni, tra ra-gione teorica e prassi etica, e per poter invece «per quanto possibile vivere felicemente», ha fatto come chi deve rifare casa: «prima di por mano alla ricostruzione della casa che abitiamo – scrive –, non basta abbatterla e provvedere ai materiali e all’architetto, o farci noi stessi architetti e averne anche disegnato accuratamente il progetto». No, infatti: «occorre, anzitut-to, provvedersi di un altro alloggio, dove sia possibile abitare comodamen-te finché durano i lavori» (Descartes 1637: 148-149)7.

Così, Cartesio si “forma” – ovvero concepisce e costruisce, produce an-che tramite contraffazione, di cui si fornisce e si attrezza, e che dunque tro-va e raccoglie, mette insieme8 – una morale provvisoria. Come un’abitazio-ne di fortuna se non di ripiego, e con buona probabilità non di proprietà ma altrui, risponde a bisogni essenziali e funzionali: obbedire alle leggi e rego-larsi sui costumi del proprio paese, religione e pratiche religiose incluse; es-ser fermo e risoluto, imitando questa volta non gli architetti ma «i viaggia-tori smarriti in una foresta», che però devono evitare di cambiare direzione, errare o fermarsi, e devono perseguire invece il cammino, perché, così fa-cendo, «anche se non vanno proprio dove desiderano, arriveranno per lo meno alla fine in qualche luogo dove probabilmente si troveranno meglio che nel fitto della boscaglia»; ciò che si può insomma fare è, insomma, vin-cere se stesso e non la fortuna, modificare il propri desideri e non cercare di cambiare l’ordine delle cose nel mondo. Attrezzatosi di queste massime e delle verità della fede, il filosofo si disfa delle opinioni e delle credenze, la-scia la stanza sicura dove il dubbio regna sovrano e si fa viaggatore e spet-

7 Anche per le citazioni successive.8 Ethicam quandam ad tempus mihi effinxi, recita il testo latino.

108 Errore

tatore delle commedie del mondo, eliminando «via via dal [suo] animo tut-ti gli errori che in precedenza vi si erano potuti introdurre». Anche questa volta, Cartesio non imita gli scettici, ma gli architetti: «ogni mio proposito tendeva soltanto a raggiungere qualcosa di certo, e a scartare il terreno mo-bile e la sabbia, per trovare la roccia e l’argilla». Ma, accertato il fondamen-to, la costruzione, ovvero la vita activa realizzata tra gli uomini, è affare di riutilizzo e riconfigurazione: «come nel buttar giù una vecchia casa si met-tono da parte, di solito, i materiali della demolizione, per servirsene nella costruzione della nuova; così, distruggendo tutte le mie opinioni che giudi-cavo mal fondate, facevo varie osservazioni, e raccoglievo parecchie espe-rienze, che mi sono servite più tardi per costruirne di più sicure».

L’analogia architettonica sembra ora riferirsi non tanto al disegno pro-gettuale e al progetto esecutivo dopo una fase preparatoria, quanto a una pratica se non rapsodica, continua, correttiva e integrativa, e a sua volta in-tegrata da una costante scrittura fatta di annotazioni a margine di esperien-ze esistenziali, esperimenti intellettuali, espedienti mondani, e utile a emen-dare gli errori e perfezionarli. L’economia dell’ethos e dell’oikos abbozzata qui da Cartesio sembra davvero essere un’economia del riuso e del riciclo, del costruire ricostruendo con quanto c’è e resta, demolito ma non eliminato, anzi assimilato e inglobato.

Ora, di tale maniera di procedere, o, per riprendere sotto un’altra luce il complesso termine latino usato da Cartesio di tale “formazione” di una ma-niera di abitare il mondo, è possibile dare un’altra lettura e ritrovare un mo-dello alternativo, che può ben servire da contro-esempio all’esemplarità ar-chitettonica, alla sua staticità fondativa e normativa. È un modello espressivo, biologico, naturale, morfologico, e non artificiale o addirittura artificioso, intenzionale e volontario: è una forma di vita. Di che si tratta? È il modello cocleare, non per caso evocato in molti commenti al dipinto attri-buito a Rembrandt e riferito, erroneamente, a Cartesio. Qui m’interessa so-prattutto il processo di «crescita insensibile» (Valéry 1937a: 887) e lentissi-ma, di una Bildung – in tutti i sensi e stati: geologica, organica e biologica, psicoanalitica – delle frontiere del luogo stesso dell’istituzione e della di-stinzione del soggetto.

Potrei sintetizzare così: dall’architettonica alla morfogenesi della ragio-ne, dalla logica alla malocologia, dalla normatività alla formatività. Il sito geometrico, istituito per separazione ed esclusione, del tableau cartesiano è infatti stato paragonato al luogo organico d’una dimora in continua for-mazione, per assimilazione ed elaborazione. In Claudel, critico feroce del razionalismo cartesiano, tale comparazione concerne anche tipologie abita-tive europee e orientali: come in una tavola sinottica d’un atlante architet-

109F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

tonico e zoologico, Parigi sta accanto a Tokyo, il filosofo a fianco di un ce-falopodo. La casa davvero abitabile e vivibile, leggiamo in riferimento alla stanza cartesiana, si dispone non a partire dall’esterno, «come una delle no-stre caserme trasportabili», ma si dispiega e si sviluppa «dal dentro al fuo-ri, come un essere vivente», come «il tessuto duro dell’abito cocleare» (Claudel 1927: 1202).

La transizione dall’abitazione alle abitudini, all’habitus e all’abito, ben illustra e sintetizza che la vita del filosofo, come di qualunque altro essere umano, è una forma di vita ordinaria, storica e pubblica. Senza eccezioni, e ben poco eccezionale. Come la lumaca evocata nella Dialettica dell’Illumi-nismo (Adorno, Horkheimer 1947: 273-275) per figurare l’«ostinazione gioiosa» del pensiero, sbatte la testa, si sbaglia, si fa male. E riparte. Quasi potesse ridire, ma terra terra e senza darsi troppe arie: «in amorosa erranza, dimoro» (Dante).

Bibliografia

ADORNO TH. W., HORKHEIMER M.1947 Dialettica dell’illuminismo, trad. R. Solmi, introduzione G. Galli, To-

rino 1966. BRUNSCHIVICG L.1934 Les âges de l’intelligence, Paris.

CLAUDEL P.1927 La maison de Raymond à Tokyo, in Œuvres en Prose, J. Petit - Ch.

Galpérine (a c. di), préface de G. Picon, Paris 1965.

DESCARTES R.1637 Discorso sul Metodo, trad. A. Carlini, in Opere, I, Bari-Roma 1967.

1641-1642 Meditazioni filosofiche. Obiezioni e Risposte, trad. di A. Til-gher, Bari-Roma 1967.

FIMIANI F.2011 Ego Fictus. Autoportraits et poïétiques du savoir, in L’artiste et le

philosophe. L’Histoire de l’art à l’épreuve de la Philosophie au XVIIème siècle, F. Cousinié, C. Nau (sous la dir. de), Rennes, pp. 42-61.

110 Errore

2012 Une habitation fabuleuse. Frontières, limites et porosités du lieu du savoir, in La limite, J. Pigeaud (sous la dir. de), Rennes, pp. 113-131.

2013 Restituzioni, in Anacronie. La temporalità plurale delle immagini, in «Carte Semiotiche. Rivista Internazionale di Semiotica e Teoria dell’Immagine», I (1), A. Mengoni (a c. di), pp. 80-88.

GASCHÉ R.1986 The Tain of Mirror. Derrida and the Philosophy of Reflection, Cam-

bridge (Mass.).

KANT I.1781-1787 Critica della Ragion Pura, trad. G. Gentile - G. Lombardo-Ra-

dice, rivista da V. Mathieu, Roma-Bari 1958.

KEATS J.1953 Lettere sulla Poesia, trad. parziale N. Fusini, Milano 2005.

LECLAIR A.2006 Les deux Philosophes de Rembrandt: une passion de collectionneurs

/ The two Philosophers by Rembrandt (1606-1669): a collectors’ pas-sion, «La Revue du Louvre et des Musées de France», 5, pp. 38-43.

LEOPARDI G.1991 Zibaldone di pensieri, G. Pacella (a c. di), Milano.

NIETZSCHE F.1879 Umano, troppo umano, trad. M. Montinari - S. Giammetta, in Opere

di Friedrich Nietzsche, G. Colli, M. Montanari (a c. di), IV, II, Milano 1965.

PÉGUY CH.1901 Compte rendu de mandat, in Œuvres en proses Complètes, I, R. Bu-

rac (éd. par), Paris 1987.

VALÉRY P.1932 Histoire d’Amphion, in Œuvres, II, J. Hytier (a c. di), Paris 1960.

1937 Descartes, in Œuvres, I, J. Hytier (a c. di), Paris 1957.

111F. Fimiani - Distruggere, disse. Autoritratto del fi losofo da architetto

1937a L’Homme et la coquille, in Œuvres, I, J. Hytier (éd. par), Paris 1957.

1952 Lettres à quelques-uns, Paris.

WIGLEY M.1993 The Architecture of Deconstruction: Derrida’s Haunt, Cambridge

(Mass.).

113

IMMAGINI ERRATE O ERRORI IMMAGINATI?

di Riccardo Finocchi

1. Premessa

Scrivere d’immagini, di errori nelle immagini, implica fare riferimento a buona parte della storia del pensiero filosofico estetico (e non solo), an-che semplicemente per tentare di rispondere all’istanza a fondamento di ogni possibile riflessione sulle immagini errate: cos’è un’immagine? Natu-ralmente, seguire una ricostruzione esaustiva dei concetti d’immagine che nel corso del tempo sono stati elaborati richiederebbe uno spazio superiore a quello disponibile in questa sede, inoltre numerosi studiosi, tra cui Wu-nenburger, Mitchell, Boehm, Debray, per citarne solo alcuni, hanno già for-nito pregevoli lavori dai quali è possibile attingere1. Si tratta, dunque, di operare un taglio strumentale che consenta di ridurre il campo di osserva-zione: considereremo le immagini sostanzialmente facendo riferimento alla produzione umana di immagini. Pertanto, non prenderemo in conside-razione, quantomeno non direttamente, o non in prima istanza, la sfera che riguarda il campo dell’immaginazione e dell’immaginario. Questo, in par-te, ci permette di lasciare sullo sfondo le riflessioni sulle immagini che dal-la questione della caverna platonica, passando per la fondazione estetica baumgarteniana, sono giunte al riconoscimento della fondatività dell’im-magine dell’altro nelle “filosofie dell’alterità”, con sconfinamenti nel cam-po della psicoanalisi2. Naturalmente, l’aver circoscritto alla “produzione umana di immagini” il nostro spazio d’osservazione rappresenta ancora un campo troppo vasto e vago. Infatti, la produzione di immagini può avveni-

1 In particolare ci riferiamo al testo Wunenburger 1997, cfr. anche Wunenburger 1995. Inoltre, sul tema delle immagini e della loro rilevanza nel nostro sistema culturale, nonché per una definizione cfr. Mitchell 2005 e Mitchell 2007; Bohem 2009. Ancora cfr. Debray 1992.

2 Ci riferiamo alle riflessioni lacaniane su immaginario e immaginazione, in particolare cfr. Lacan 1975.

114 Errore

re attraverso diverse forme espressive: la pittura o la scultura (ma anche l’immagine musicale o poetica), così come attraverso fotografia e cinema.

Prendiamo, pertanto, come punto di partenza per questo contributo dedi-cato alle immagini errate proprio la fotografia. Poiché la fotografia concerne direttamente la produzione di immagini nel senso comune del termine, ma consente anche di far apparire sullo sfondo un discorso implicito sulla produ-zione di immaginari che dalle immagini prodotte scaturiscono. Inoltre, pro-prio la fotografia ha catalizzato la trasformazione impressa dall’avvento del-le tecnologie digitali: una trasformazione profonda nella produzione d’immagini sia sul piano qualitativo sia su quello quantitativo, basti pensare che ormai ogni device elettronico è corredato di una fotocamera digitale in grado di catturare immagini, condizione per cui le immagini possono essere diffuse attraverso il web e le reti wireless e “invadere” il nostro quotidiano3. Naturalmente, fatte le debite differenze, all’immagine fotografica è assimila-bile anche l’immagine in movimento (cfr. Deleuze 1983.). coinvolgendo, dunque, la produzione delle diverse forme dell’audiovisivo.

Infine, un discorso sulla fotografia deve prendere in considerazione il rapporto che la produzione di immagini intrattiene con i dispositivi tecnici che la rendono possibile. Si apre così la riflessione su tutte quelle forme at-tuali di evoluzione della produzione di immagini: realtà virtuale, realtà au-mentata, immagini satellitari, morphing e ciò che rientra nel campo del tec-nico-digitale.

2. Errori nelle immagini

Fatte le debite premesse, poniamo una prima questione: cos’è un errore nelle immagini? O meglio, cos’è un errore nella fotografia?

La domanda può avere risposta almeno su due piani differenti: un primo piano, che definiamo “tecnico”, riguarda l’errore commesso dal fotografo quando gestisce in modo tecnicamente errato l’apparecchio fotografico; un secondo piano, che definiamo “raffigurativo”, riguarda l’immagine stessa che, per qualche ragione, può risultare errata nel suo raffigurare-rappre-sentare-ritrarre.

3 Di fotografia, e di fotografia digitale in particolare, mi sono già occupato nel testo Finocchi - Perri 2012, che sarà comunque un punto di riferimento per questo articolo. Sul tema del passaggio da analogico a digitale nella fotografia anche cfr. Mitchell 1994, Marra 2006, Ritchin 2009, Bajac 2010; su fotografia e la vita quotidiana cfr. Del Marco - Pezzini 2011; su fotografia e filosofia cfr. Flusser 1983.

115R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

Naturalmente, è piuttosto immediato il rimando al noto volume del cri-tico francese Clément Chéroux L’errore fotografico (cfr. Chéroux 2003). La Petite histoire de l’erreur photographique, così reca il sottotitolo, è una ricostruzione storico-cronologica che rintraccia nel “fare fotografia” un “andare errando”, quindi un “fare” che, attraverso l’errare, consente l’evo-luzione delle forme espressive della fotografia e, aggiungiamo, l’adegua-mento al mutare del gusto. “La piccola storia dell’errore fotografico”, che, già nel titolo, segnala un richiamo alla benjaminiana “Piccola storia della fotografia” (cfr. Benjamin 1931), mostrerebbe un legame, appunto, con le riflessioni di Benjamin laddove si evidenzia la capacità significativa e non controllabile del mezzo tecnico, dell’apparato fotografico, nel rilevare, mostrare, mettere in immagine, un inconscio ottico. Chéroux, dunque, ri-vede e riosserva la storia della fotografia alla luce dell’errore: si tratta di un errore produttivo o, meglio, di un errore rivelatosi inaspettatamente produt-tivo, quindi ascrivibile al fenomeno della serendipity o, detto diversamen-te, della felix culpa4. In tal modo l’evoluzione delle forme espressive, che procede seguendo il ritmo delle “scoperte” fotografiche, si caratterizza per essere una forma scientifica denominabile fautographie (da faute: errore – che riprende una definizione coniata da Man Ray intorno agli anni ’60) e il libro di Chéroux si caratterizza per essere un trattato teorico di erratologia. Non è nostra intenzione qui ripercorrere le tappe storiche dell’erratologia o gli esempi proposti da Chéroux che contemplano le avanguardie storiche, da Daguerre alla “Nuova visione” di Moholo-Nagy, o i recenti lavori di fo-tografi quali Ugo Mulas, Terry Richardson, John Hilliard, Laurent Mulot. Piuttosto, soffermiamoci ancora sul testo di Chéroux per notare che il pun-to centrale della sua argomentazione non è sulla inaspettata produttività dell’errore, quanto, piuttosto, in una pretesa di ergere l’errore a elemento determinante per innescare forme di conoscenza. Così, l’immagine errata, lungi dall’essere solo un mero errore, diviene rivelatrice di aspetti latenti, non già conosciuti e, forse proprio per questo, conoscibili solo attraverso un processo che sfugge al quadro gnoseologico immagine non errata e/o giusta. Lo scatto errato, dunque, si caratterizza come ombra residuale del giusto, come lapsus, e proprio in quanto residualità del giusto si svela e svela: lascia conoscere un diverso giusto, una verità negata o velata dal consueto che solo nell’errore emerge come possibilità alternativa, creativa, libera dal già noto. Questo modello epistemologico, che teorizza l’errore fotografico come strumento cognitivo, viene ripreso da Chéroux seguendo una suggestione da Bachelard per il quale è negli ostacoli che si pone il

4 Ci stiamo riferendo qui ad alcuni punti del tema guida di Sensibilia 7.

116 Errore

problema della conoscenza scientifica, e dunque nella fotografia si svela qualcosa proprio nelle défaillances, negli errori (cfr. Chéroux 2003).

Si tratta, come dicevamo, di un modello cognitivo che presenta una for-te assonanza con l’idea di un inconscio ottico o, forse, di un inconscio tec-nologico5, ma che, nel caso dell’errore fotografico di Chéroux, si caratte-rizza per la pretesa di fondare una modalità conoscitiva, ordinativa del conoscibile, capace di mostrare nuove forme di giustezza/adeguatezza. Ri-spetto all’inconscio ottico, dunque, parrebbe lasciare meno spazio alla sco-perta scaturita dall’errore produttivo: non si tratterebbe, cioè, di serendipi-ty quanto, piuttosto, di una struttura epistemologica dell’errore. Pur non volendo insistere oltre sul testo di Chéroux, che è qui servito per evidenzia-re la rilevanza della questione, possiamo notare che ci troviamo in presen-za di una teoria per la quale l’errore, il non vero, può essere emendato as-sumendo un punto di vista salvifico che pone l’errore stesso come verità altra in una diversa gnoseologia.

Piuttosto, per riprendere il discorso sull’errore nella fotografia, sarà uti-le rivolgerci a un’immagine definibile in qualche modo errata: la fotogra-fia del 1905 Zissou en fantôme (fig. 1) di Jacques Henri Lartigue (cfr. Fi-nocchi-Perri 2011; Id. 2012).

La fotografia di Lartigue ci consente di tornare ai due piani di errore de-lineati in apertura di questo paragrafo. Infatti, è possibile considerare l’im-magine errata tecnicamente: si tratta quasi sicuramente di una pellicola so-vraimpressa o soprastampata. Una tecnica di errore spesso utilizzata per ottenere effetti artistici, come nel caso dei ritratti di Dalì (fig. 2) nelle foto-grafie realizzate nel 1950 da Weegee (pseudonimo di Arthur Fellig, 1899-1968). Le fotografie di Weegee, come probabilmente nell’intento del foto-grafo, visto il soggetto riprodotto, utilizzano l’errore per produrre una evidente “surrealtà” che, di fatto, si presenta come un errore sull’altro pia-no, quello che abbiamo definito raffigurativo. Infatti, non è possibile che nel mondo reale esista un individuo con la testa doppia o sdoppiata: questa immagine raffigura un mondo nell’immagine che, diciamo, non ha un cor-rispettivo nel mondo fuori dall’immagine.

La foto di Lartigue, come detto, è un errore sul piano tecnico ma, come per le immagini di Weegee, si tratta di un errore voluto; mentre, sul piano raffigurativo, diversamente dalle fotografie di Weegee, non è propriamente un errore: nella fotografia noi vediamo apparire un fantasma, cioè qualcosa

5 Per riprendere uno spunto del fotografo Franco Vaccari che rielabora la tesi benjaminiana nel testo, per l’appunto, dal titolo Fotografia e inconscio tecnologico, cfr. Vaccari 2011.

117R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

che esiste. Spieghiamo meglio: nel mondo reale i fantasmi esistono, cioè esistono fintanto che rimangono nello stato fantasmatico, ossia fintanto sono non effettivamente visibili. Pertanto, l’immagine raffigura un mondo nell’immagine, quantomeno, possibile, poiché i fantasmi sono contempla-bili nel mondo reale fuori dall’immagine. Allo stesso tempo, però, nel mon-do nell’immagine, nella foto, il fantasma “si vede”, e questo non ha un cor-rispettivo nel mondo fuori dall’immagine dove i fantasmi esistono fintanto “non si vedono”. Pertanto: sul piano raffigurativo vediamo qualcosa che esiste ma che normalmente è invisibile, dunque vediamo l’invisibile e quin-di si tratta di un errore, però i fantasmi possono esistere e dunque non si trat-ta di un errore. Riepiloghiamo: la foto di Lartigue è sbagliata sul piano tec-nico, ma il fotografo voleva sbagliare e, sostanzialmente, sbaglia giusto; inoltre, è errata sul piano raffigurativo ma allo stesso tempo non è errata.

Un dilemma da sciogliere, soprattutto se vogliamo rispondere alla do-manda: cos’è l’errore fotografico e cos’è un’immagine errata?

Bene, osserviamo Zissou en fantôme e domandiamoci in che modo, in base a cosa o a quale criterio possiamo sostenere che quest’immagine è er-rata o non è errata. L’unico criterio che fin qui abbiamo potuto utilizzare, per stabilire se l’immagine (ovvero la fotografia) è “vera” o giusta, piutto-sto che “falsa” o errata, è stato ipotizzare un mondo vero di contro a mon-do raffigurato o immaginato (nel senso di messo in immagine). Certo, così si rischia di riaprire l’annoso problema della mimesis che dall’antica Gre-cia in poi ha accompagnato le riflessioni estetiche legate all’immagine (fino all’epoca dell’immagine del mondo di heideggeriana memoria6). Dobbiamo, anche in questo caso, nell’economia di questo contributo, cir-coscrivere il problema. Dunque, torniamo a Zissou en fantôme: a cosa si ri-ferisce l’immagine? La domanda così posta consente di far slittare la pro-blematicità dalla questione della giustezza alla questione del riferimento. La foto non è errata se assumiamo che un fantasma si può incontrare in un mondo fuori dall’immagine e che il mondo nell’immagine si riferisce a quello. Ma è un riferimento al fantasma o è il fantasma del riferimento? Spieghiamo meglio: l’immagine fotografica è stata da sempre caratterizza-ta dalla possibilità di evocare una relazione immediata e diretta col riferi-mento, caratterizzazione che in Roland Barthes trova la più netta espressio-ne. Per Barthes il noema della fotografia, la ragione stessa del suo essere, «è semplice, banale; nessuna profondità: È stato» (Barthes 1980: 115). Ça à été, qualcosa è stato: è stato fotografato, è stato davanti all’obiettivo, è stato nel mondo fuori dall’immagine.

6 Naturalmente ci stiamo riferendo a Heidegger 1938.

118 Errore

Naturalmente questo significa che c’è un mondo fuori dall’immagine, un “mondo reale” o un “mondo vero” che può essere, diciamo, catturato dall’obbiettivo fotografico. È un’idea di realismo della fotografia leggibile nelle tesi di altri teorici che si sono cimentati con l’immagine. Ad esempio in Dubois (1983) la fotografia viene paragonata allo sguardo pietrificante di Medusa: in un istante ciò che è vivo e nel mondo si “pietrifica” nella fo-tografia. Allo stesso modo Umberto Eco (1985), in un saggio sugli specchi, paragona la fotografia a un specchio congelante, un dispositivo che “con-gela” l’immagine che vi si riflette sopra. Ancora: Floch (1986) pensa la fo-tografia come l’impronta di ciò che appare davanti all’obbiettivo, un’im-pronta che si imprime sulla pellicola. L’immagine, dunque, viene pensata come capace di riferire direttamente ciò che c’è stato, avvalorando un’ipo-tesi realistica della fotografia, ma presupponendo anche che chi vede sente di potersi affidare e sente di fidarsi (su questo infra §4) della verità dell’im-magine7. Si tratta di una verità obiettiva, dunque, ed è piuttosto indicativo, come faceva notare Bazin (1958) in un saggio sull’ontologia della fotogra-fia, che proprio «il gruppo di lenti che costituiscono l’occhio fotografico sostituto dell’occhio umano si chiami appunto l’obiettivo» (ivi: 7, c.vo no-stro). E proprio Bazin (ivi), nello stesso testo, ipotizza che l’idea di reali-smo fotografico nasca dall’esigenza di soddisfare «definitivamente e nella sua essenza l’ossessione del realismo», la «ossessione della rassomiglian-za», di dare «soddisfazione completa al nostro appetito d’illusione median-te una riproduzione meccanica» (ivi: 6). Un’esigenza che non sarebbe una conseguenza dell’invenzione della fotografia ma, sempre seguendo Bazin, avrebbe radici antiche: dalla pratica egizia dell’imbalsamatura delle mum-mie alla scoperta della prospettiva pittorica. Dunque, l’idea che la riprodu-zione fotografica mostri fedelmente la realtà, che mostri ça à été, che con-geli o pietrifichi o sia l’impronta, «non era nel risultato ma nella genesi» (ibidem) della fotografia che, indipendentemente dalla sua possibilità di ri-ferirsi al reale, assume un valore oggettivo (obiettivo) di rassomiglianza con il reale prendendo in carico un preesistente desiderio collettivo di si-gnificato. Pertanto, in questa prospettiva, sarebbe il desiderio collettivo di realismo a determinarne lo statuto della fotografia (l’ipotesi realistica) e non il suo statuto a determinarne il valore realistico. In questo senso, il fat-to che il mondo nell’immagine si riferisca a un mondo fuori dall’immagi-ne è, quantomeno, il risultato di una impressione collettiva. Ovvero, tor-

7 Sulla verità dell’immagine, questione che soggiace alle nostre riflessioni, vogliamo, pur in nota, segnalare il testo Franzini 2004, che sviluppa però il tema in una diversa prospettiva.

119R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

nando al fantôme di Lartigue, è piuttosto il fantasma del riferimento realistico a motivare l’idea che il fantasma nell’immagine debba necessa-riamente riferirsi a un fantasma nel mondo fuori dall’immagine.

Naturalmente, un certo realismo nelle immagini fotografiche effettiva-mente sussiste, basti pensare che attraverso la fotografia si è potuto, per la prima volta nella storia umana, avere una propriocezione dell’invecchia-mento diffusa nella popolazione, che le fotografie ci aiutano a documenta-re la storia, che sono ammesse come prove nei tribunali, che i documenti d’identità recano fotografie della persona che identificano e così via. Ma ciò che ci premeva in questa sede era comprendere i motivi per cui un’im-magine, e in particolare l’immagine di Lartigue, è errata o perché possano sorgere dubbi sulla sua “giustezza” (o verità). Ma anche giungere a com-prendere che proprio l’ipotesi di un realismo dell’immagine fotografica è la condizione per cui alla fotografia viene attribuito un altissimo valore te-stimoniale.

3. Errori immaginati

Capita, a volte, che l’errore venga messo in immagine, ossia, in un certo senso, se vogliamo, capita che venga immaginato. Emblematici, in tal sen-so, sono quei casi in cui alcune fotografie assunte a testimonianza di un de-terminato “fatto”, o in senso più ampio di una “verità”, si rivelano poi fal-sificate, frutto di un fotomontaggio, di una manipolazione e così via. L’alto valore indicale e testimoniale attribuito all’immagine fotografica (ma forse all’immagine in genere), se vogliamo il fantasma del riferimento realistico, favorisce il processo per cui un errore messo in immagine, nell’immagine, sia immaginato attraverso una veridizione – attribuzione di verità8 – che solo a volte è consapevole. Pertanto ci riferiremo qui agli errori immagina-ti nel senso, appena chiarito, di immagini errate che attraverso un proces-so, consapevole o inconsapevole, di veridizione sono state acquisite come riferite a realtà (ossia, come “vere”).

Naturalmente, per illustrare quanto sopra, procederemo ad articolare il discorso utilizzando una serie d’immagini fotografiche in cui è possibile svelare il processo di veridizione del “fatto” errato immaginato, consegna-to come errore alla storia e al pensiero, attraverso le quali si può avviare una rilettura del valore di testimonialità delle immagini e aggiungere ulte-

8 Sul processo di veridizione cfr. Greimas - Courtés 1979. Inoltre cfr. Bertrand 2000, pp. 147 ss.

120 Errore

riori specificazioni al concetto di immagine errata. Proprio per il fatto che si tratta di errori immaginati consegnati alla storia, largamente condivisi sul piano della discorsività, tutte le fotografie che proporremo sono piutto-sto note e largamente fruibili, anche nel web.

La prima fotografia è stata scattata dallo studente John Paul Filo nel 1970. Gli eventi fotografati si riferiscono a una manifestazione pacifista organizzata alla Kent University in Ohio il 4 Maggio 1970 per protestare contro la decisione del presidente americano Nixon di inviare truppe mili-tari in Cambogia. Durante la manifestazione la Ohio National Guard aprì il fuoco contro la folla provocando la morte di quattro studenti. Nella foto si vede Mary Ann Vecchio chinata sul corpo di Jeffrey Miller, uno degli studenti uccisi dalla Guardia Nazionale (fig. 3a).

La fotografia di Filo ha vinto il premio Pulitzer ed è diventata, come si dice, un’icona del periodo storico. È a tutti gli effetti una testimonianza dell’accaduto. Dunque? Cosa aggiungerebbe quest’immagine alla questio-ne delle immagini errate? O a quella degli errori immaginati? Inoltre: qui la testimonianza è del tutto valida? qui il realismo fotografico “funziona”? qui effettivamente qualcosa è stato davanti all’obbiettivo?

Effettivamente, se osserviamo l’immagine originale scattata nel momen-to (fig. 3b), si tratta di una fotografia sbagliata, tecnicamente sbagliata: l’inquadratura, presa velocemente dallo studente di fotogiornalismo Filo, non ha potuto evitare di “registrare”, “congelare”, “pietrificare” un paletto di sostegno che si trova proprio sopra la testa Mary Ann. Il paletto visibile nell’inquadratura originale rende l’immagine nella fotografia poco armo-niosa, sgradevole, se non addirittura ridicola. In ogni caso, la presenza di quel fastidioso oggetto diminuisce fortemente l’effetto drammatico dell’im-magine, tanto che quando la foto doveva essere pubblicata sulla rivista Life i redattori optarono per una “pulitura”.

Cosa dire? L’immagine icona della protesta contro la guerra, quella pas-sata alle cronache e alla storia, è a tutti gli effetti un falso: una falsa testi-monianza. Un falso che è stato realizzato in nome di una maggiore resa estetica del dramma, senza dubbio, ma da annoverare come contrario al principio di realismo. La foto “falsata” testimonia benissimo l’epoca, la tensione drammatica di quegli eventi, meglio sicuramente della fotografia “vera”, ma lo fa immaginando (cioè mettendo in immagine) un errore. Questo processo mostra chiaramente ciò che definiamo estetizzazione del quotidiano.

La storia delle immagini fotografiche è ricca di episodi simili. Prendia-mo ad esempio la foto di Matthew Brady (fig. 4) scattata nella seconda metà dell’ottocento (circa 1865). È una tipica immagine commemorativa e

121R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

rappresenta i generali della Guerra Civile Americana, o Guerra Di Seces-sione Americana combattuta tra il 1861 e il 1865. La fotografia, anche in questo caso, come nel precedente di un secolo dopo, è stata modificata.

Nell’immagine modificata è stato aggiunto il generale Francis P. Blair che non compariva nello scatto originale, e che ora compare seduto alla de-stra di chi guarda9. Naturalmente, Blair doveva far parte del gruppo, era giusto aggiungerlo, poiché aveva partecipato attivamente alla guerra e alla vittoria. Ciò nonostante, quest’immagine è a tutti gli effetti una falsa veri-tà. Infatti, la fotografia che testimonia un momento storico rilevante non re-gistra quel che “è stato” davanti all’obiettivo, l’immagine è errata in nome della verità: ripristina il vero accaduto (il generale Blair aveva partecipato alla guerra) ma, allo stesso tempo, secondo il ferreo principio del realismo fotografico, falsifica il vero poiché il mondo fuori dall’immagine era diver-so dal mondo nell’immagine.

In altre fotografie dove è stata impressa testimonianza dell’accaduto qualcosa sparisce piuttosto che aggiungersi: come in alcune immagini sto-riche dei regimi del ‘900. Per esempio la foto in cui compaiono assieme Hitler e la regista e attrice nazista Leni Riefenstahl dalla quale è stato can-cellato Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich (fig. 5). Il motivo per cui Hitler decise di eliminare Goebbels dall’immagine si può supporre legato alle relazioni (o contrasti) tra lo stesso Goebbels e la Riefenstahl. In ogni caso, ciò che ci preme sottolineare, è la manipolazione attraverso cui alla storia viene consegnata una falsa testimonianza: un’im-magine errata per farla corrispondere alla verità di Hitler.

La manipolazione della testimonianza è verificabile anche in un’altra immagine (già utilizzata in un precedente lavoro - cfr. Finocchi-Perri 2012): si tratta della foto in cui Nicolae Ceauşescu, in aeroporto per acco-gliere il Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing in visita in Romania compare con due cappelli, uno in testa e uno in mano (fig. 6). Si tratta di una immagine sbagliata sul piano tecnico, il doppio ca-pello e frutto di un errore avvenuto in fase di fotomontaggio, ma anche sul piano raffigurativo, poiché non verosimile che Ceauşescu indossi due cap-pelli. Il fotomontaggio, da cui è scaturito l’errore10, venne deciso dal Parti-

9 Gli altri personaggi ritratti, in piedi, da sinistra: Oliver Otis Howard, William Babcock Hazen, Columbus Jefferson Davis e Joseph Anthony Mower; seduti, da sinistra: John Alexander Logan, William Tecumseh Sherman, Henry Warner Slocum.

10 La cui storia è stata ricostruita tra fatti veri e finzione narrativa in un episodio del film Racconti dell’età dell’oro - Amintiri din epoca de aur, Romania-Francia,

122 Errore

to Comunista Rumeno poiché pubblicare sul proprio organo di stampa (il quotidiano Scinteia) l’immagine vera, nella quale Ceauşescu appare con il capo scoperto al cospetto del collega francese col cappello (fig. 6b), avreb-be potuto indurre a pensare, per via connotativa, a una forma di deferenza della Romania nei confronti del capitalismo occidentale.

Prendiamo, ancora, l’immagine in cui si vede Lenin che nella piazza Sverdlov a Mosca, il 5 maggio 1920, si rivolge dal palco alle truppe dell’Ar-mata Rossa (fig. 7). La fotografia, che fu scattata da Goldstein, divenne molto nota e rappresenta la testimonianza di un evento storico rilevante. Nell’immagine, oltre a Lenin, sulla scaletta al fianco del palco, sono rico-noscibili altri due protagonisti della rivoluzione russa, Trotsky e Kamenev, che, in diverse foto dell’epoca, sono ripresi al fianco di Lenin.

Leon Trotsky e Lev Kamenev, dopo lo scatto della fotografia di fig. 7, vennero percepiti da Stalin come rivali e dunque come ostacolo nell’asce-sa al potere, per questo nel corso del regime stalinista furono eliminati non solo materialmente, ma anche dai ricordi storici e dalle immagini ufficiali. Così, nei ricordi pubblici sovietici, la fotografia di Goldstein fu sostituita da uno scatto anonimo, leggermente diverso, della stessa scena ma con la scala del palco dal quale Lenin parlava svuotata attraverso un fotomontag-gio (fig. 8b). Sono spariti i rivali di Stalin. Questo “errore” rappresenta una visione del mondo, rappresenta la verità di Stalin: un’idea di Rivoluzione Russa secondo la quale Trotsky e Kamanev erano scomode presenze.

A partire da queste ultime fotografie (fig. 5-6-7-8) è possibile avviare al-cune riflessioni sulla questione delle immagini errate.

Il fotomontaggio di fig. 6, Ceauşescu e Giscard d’Estaing, diviene evi-dente a partire dall’errore: la presenza anomala di un doppio cappello. Se non fosse avvenuto l’errore, nessuno avrebbe sospettato che l’immagine potesse essere alterata. In ogni caso, si può accertare la verità solo confron-tando due immagini, e questo vale per tutte le immagini viste: è solo in se-guito al confronto tra i due testi che possiamo credere che uno dei due è vero di contro ad un falso (basandoci anche sulla storia che circonda quel testo). Dunque, solo in seguito al confronto possiamo sentire di credere che un testo sia più vero, ma questo sentire più vero non si verifica ogni volta che ci troviamo alla presenza di un qualsiasi testo fotografico. Pur sussi-stendo delle tecniche scientifiche per verificare la “verità” delle immagini, queste vengono attivate solo nel momento in cui il testo fotografico è sen-tito come non credibile – un errore da verificare – e non normalmente su

2009, regia di Hanno Höfer, Cristian Mungiu, Constantin Popescu, Ioana Uricaru, Razvan Marculescu.

123R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

ogni immagine. Dunque, di fatto, abbiamo stabilito che chi vede sente di potersi fidare della verità dell’immagine, ovvero la verità viene affidata al sentire (o forse, meglio, all’attività dell’aisthesis).

4. Conclusioni

Naturalmente, a partire dal confronto, abbiamo potuto stabilire che l’im-magine vera è quella in cui Ceauşescu è senza cappello; però paradossal-mente, su un piano interpretativo, questo potrebbe significare che Ceauşescu togliendosi il cappello volesse compiere un gesto di deferenza verso il ca-pitalismo. Dunque, per altro verso (come per i generali americani di fig. 4), rimettendo il cappello a Ceauşescu si ripristina un’immagine che rappre-senta la parità tra i due leader, in cui entrambi hanno il cappello sul capo, si ripristina dunque una verità (quella del Partito Comunista Rumeno). Si im-pone, quindi, una domanda: qual è l’immagine giusta? Quella che corri-sponde al mondo fuori dall’immagine che è comparso davanti all’obbietti-vo (ipotesi realistica)? Oppure il mondo nell’immagine è una rappresentazione del mondo (fra le altre possibili) e allora la realtà e la ve-rità riguardano come viene pensato e condiviso il mondo stesso e non ciò che è stato (aprendo un problema politico)? Anche l’immagine di Lenin solo sul palco è un falso, ma lo sappiamo, come nel precedente caso, per-ché possiamo confrontarla con un’altra fotografia che sentiamo e ricono-sciamo come vera; altrettanto sappiamo che Trotsky e Kamanev si trovava-no davanti all’obiettivo poiché possiamo vedere una diversa posa scattata poco prima o poco dopo (fig. 7). Supponiamo, però, che dopo un primo scatto Trotsky e Kamanev siano saliti sulla scala, spinti da un irrefrenabile desiderio di apparire, a discapito della realtà, come protagonisti della rivo-luzione al fianco di Lenin, e che proprio in quel momento il fotografo ab-bia impresso la pellicola consegnando alla storia un clamoroso falso. Non potremmo allora supporre che la fotografia in cui compare solo Lenin (pri-ma dell’arrivo di Trotsky e Kamanev) sia andata perduta e solo in seguito a ciò Stalin, seguendo il senso di verità storico-documentale, abbia voluto ripristinare la verità?

La domanda continua a essere la stessa: cos’è un errore fotografico? Come definiamo un’immagine errata? Sentiamo che un’immagine è vera, e lo stabiliamo, in questi casi, dal confronto tra due immagini di cui una la sentiamo falsa. Il confronto, però, coinvolge due mondi nell’immagine e non il mondo fuori dall’immagine. Dunque, il nostro sentire la verità dell’immagine è fondato nell’immagine.

124 Errore

Vediamo ancora una fotografia (fig. 9), si tratta di un progetto artistico di Joan Fontcuberta dal titolo Sputnik databile11 1997. Fontcuberta simula una operazione di censura sovietica come quelle viste in precedenza, solo inverte il procedimento e, con un fotomontaggio, aggiunge sull’immagine originale una figura che non c’era, non la fa sparire, e dichiara (attraverso i media) di aver trovato le prove (fotografiche) della scomparsa di un perso-naggio scomodo per il regime sovietico, l’astronauta Ivan Istochnikov che, nell’immagine falsa, compare con tanto di firma sul capo (falsa anch’essa) insieme ad altri militari Russi. Per la cronaca, il volto di Istochnikov, che non è mai esistito, è quello dello stesso Fontcuberta. La burla artistica è creduta al punto che un’emittente nazionale spagnola la rilancia come sco-op. L’immagine “errata”, falsa, viene sentita dal ricettore come più vera di quella vera; allo stesso tempo, il ricettore, sente che dalla foto originale è stato fatto sparire un personaggio scomodo.

Dunque, seguendo le vicende legate alla fotografia di Fontcuberta, il mondo fuori dall’immagine quello che costituisce il riferimento dell’im-magine vera (fig. 9a), quello senza Istochnikov che non esiste, è risultato indifferente nello stabilire se il mondo nell’immagine sia errato. Se qualco-sa abbiamo potuto accertare, in questa ricognizione sull’errore messo in immagine, è che la decisione sulle immagini giuste o errate dipende dal sentire, e dal credere che ne deriva, anziché da ciò che realmente è nel mondo fuori dall’immagine, quel mondo a cui l’immagine si riferisce e che è stato impresso sulla pellicola nel momento in cui l’obbiettivo lo cattura-va. Ossia, come detto fin dall’inizio, non si tratta di immagini errate ma di errori immaginati. Non solo, parallelamente a questa consapevolezza, si è determinato un processo di revisione del valore indicale e testimoniale del-le immagini stesse. Infine, l’avvento delle tecnologie digitali di manipola-zione delle immagini ha complicato ulteriormente la questione, rendendo sempre più difficile stabilire l’errore nell’immagine, basti pensare alle pos-sibilità di manipolazione offerte da programmi come Photoshop12.

11 Databile poiché la realizzazione delle fotografie e la loro diffusione, la circolazione discorsiva, non sono nettamente separabili. Cfr. Fontcuberta 1997. Per una analisi del lavoro di Fontcuberta, cfr. Cervelli 2011 e Finocchi-Perri 2012.

12 Su questi temi cfr. Finocchi-Guastini 2011, in particolare la voce Photoshop di A. Ardovino. Inoltre, per una analisi più generale delle implicazioni tra estetica e sviluppi della tecnica nella produzione d’immagini cfr. Montani 2010.

125R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

Fig. 1 - Zissou en fantìme di Jacques Henri Lartigue, 1905

Fig. 2 - Dalì di Arthur Fellig (Weegee), 1950

126 Errore

Fig. 3 - Protesta alla Kent University di John Paul Filo, 1970

Fig. 4 - Generali della guerra di secessione americana di Matthew Brady, circa 1865

Fig. 5 - Hitler incontra Leni Riefenstahl, 1937

127R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

Fig. 6 - Nicolae Ceaușescu e Valéry Giscard d’Estaing in visita in Romania, 1979

Fig. 7 - Lenin parla all’Armata Rossa nella piazza Sverdlov a Moscadi G. P. Goldstein, 1920

128 Errore

Fig. 8 - Lenin parla all’Armata Rossa nella piazza Sverdlov a Mosca di anonimo, 1920

Fig. 9 - Progetto Sputnik di Joan Fontcuberta, 1997

Bibliografia

BAJAC Q.2010, Après la photographie. De l’argentique à la révolution numérique,

Paris, trad. Dopo la fotografia. Dall’immagine analogica alla rivolu-zione digitale, Roma 2011.

BARTHES R.1980 La chambre claire, Seuil, trad. La camera chiara, Torino 1980.

BAZIN A.1958, Qu’est-ce que le cinéma?, Paris, trad. Ontologia dell’immagine foto-

grafica, in Che cos’è il cinema?, Milano 1973.

BENJAMIN W.1931 Kleine Geschichte der Photographie, in «Die literarische Welt», VII,

38, 39, 40, Berlin-Lichterfelde, trad. Piccola storia della fotografia, in

129R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966.

BERTRAND D.2000 Précis de sémiotique littéraire, Paris, trad. Basi di semiotica lettera-

ria, Roma 2002.

BOEHM G.2009 La svolta iconica, Roma.

CERVELLI P.2011 Teatri del dubbio. Le passioni nell’opera di Joan Fontcuberta, in

Passioni collettive. Cultura, politica, società, D. Mangano - B. Terrac-ciano (a c. di), E/C serie speciale, VI, nn. 11/12, Roma 2012, pp. 156-160.

CHÉROUX C.2003 Fautographie. Petite histoire de l’erreur photo-graphique, Paris;

trad. L’errore fotografico. Una breve storia, Torino 2009.

DEBRAY R.1992 Vie et mort de l’image. Une histoire du regard en occident, Paris, trad.

Vita e Morte dell’Immagine. Una Storia dello Sguardo in Occidente, Milano 1999.

DEL MARCO V. - PEZZINI I. (a c. di)2011 La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale, Roma.

DELEUZE G.1983 L’Image-Mouvement. Cinéma 1, Paris, trad. L’immagine-movimento,

Milano 1984.

DUBOIS P.1983 L’acte photographique, Paris-Bruxelles, trad. L’atto fotografico, Ur-

bino 1996.

ECO U.1985 Sugli specchi e altri saggi, Milano.

130 Errore

FINOCCHI R. - GUASTINI D. (a c. di)2011 Parole chiave della nuova estetica, Roma.

FINOCCHI R. - PERRI A.2011 Il referente assente. Note sulla fotografia digitale, in La fotografia.

Oggetto teorico e pratica sociale, M.C. Brucculeri - D. Mangano - I. Ventura (a c. di), “E/C” serie speciale, anno V, nn. 7/8, Roma, pp. 53-60.

FINOCCHI R. - PERRI A.2012 No reflex. Semiotica ed estetica della fotografia digitale, Roma.

FLOCH J-M.1986 Les formes de l’empreinte, Periguex 2003, trad. Forme dell’impron-

ta, Roma.

FLUSSER V.1983 Für eine Phiolosophie der Fotografie, Berlin, trad. Per una filosofia

della fotografia, Milano 2006.

FONTCUBERTA J.1997 Sputnik, Madrid.

FRANZINI E.2004 Verità nell’immagine, Milano.

GREIMAS A. J. - COURTÉS J.1979 Sèmiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris,

trad. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mi-lano 2007.

HEIDEGGER M.1938 Die Zeit des Weltbildes, in Id., Holzwege, Frankfurt am Main 1950;

trad. L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, Scandicci-Firenze 1968.

LACAN J.1975 Le séminaire de Jaques Lacan. Livre I. Les écrits techniques de Freud

(1953-1954), Paris, trad. Il seminario. Libro primo. Gli scritti tecnici di Freud, Torino 1978.

131R. Finocchi - Immagini errate o errori immaginati?

MARRA C.2006 L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale,

Milano.

MITCHELL W.J. 1994 The Reconfigured Eye: Visual Truth in the Post-Photographic Era,

Cambridge (Ma).

MITCHELL W.J.T.2005 What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, Chicago,

trad. Che cosa vogliono le immagini?, in Teorie dell’immagine. Il di-battito contemporaneo, A. Pinotti - A. Somaini (a c. di), Milano 2009.

MITCHELL W.J.T.2007 Four Fundamental Concept of Image Science, trad. 2008, Scienza

dell’immagine. Quattro concetti fondamentali, in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, M. Cometa (a c. di), Palermo.

MONTANI P.2010 L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare

il mondo visibile, Bari-Roma.

RITCHIN F.2009 After Photography, New York, trad. Dopo la fotografia, Torino 2012.

VACCARI F.2011 Fotografia e inconscio tecnologico, Torino.

WUNENBURGER J.J.1995 La vie des images, Strasbourg, 2002, trad. La vita delle immagini, Mi-

lano 2007.

WUNENBURGER J.J.1997 Philosophie des image, Paris, trad. Filosofia delle immagini, Torino

1999.

133

L’ERRORE E L’EVOLUZIONE

di Saverio Forestiero1

1. Introduzione: la natura fa errori?

Di solito la nozione di errore, pur nella molteplicità delle sue accezioni, si riferisce tuttavia a tipi di eventi che interessano l’Uomo e i suoi prodot-ti, la sua attività conoscitiva o la sua azione nel mondo sotto forma di obiet-tivi mancati.

Per estensione, non fatichiamo a parlare di errore rispetto a certi com-portamenti di organismi complessi a noi famigliari come il cane o il gatto di casa, o ai comportamenti in natura di tante specie selvatiche. Nell’inse-guirla, il ghepardo può mancare di artigliare la gazzella; dietro l’insucces-so del predatore si nasconde una qualche forma di inadeguatezza e/o un calcolo sbagliato, un errore.

Al confine tra discorso scientifico e riflessione filosofica metterei dun-que l’idea di una plausibile storia naturale dell’errore (l’idea che la natura possa compiere errori), sulla genesi del quale, innanzitutto, vorrei condur-re qualche osservazione.

Proverò perciò a ragionare sia sull’origine dell’errore nella materia ser-vendomi del comportamento di un particolare tipo di oggetto naturale, la molecola informazionale del DNA, sia sulle conseguenze dell’errore del materiale genetico sul destino degli organismi, sia, infine, sul ruolo che l’errore assume nel fenomeno dell’evoluzione dei viventi: dunque, il posto dell’errore nell’evoluzione.

È palese che l’errore rimanda a una qualche finalità, scopo, e sembra avere a che fare con l’esistenza di possibili determinazioni e di una causa-lità. Questo è un punto critico per quanto ci proponiamo di esaminare, dato che ci sembra si diano situazioni naturali in cui è possibile riconoscere una

1 [email protected]; [email protected].

134 Errore

finalità nella materia, o meglio, un preciso scopo incarnato in uno specifi-co tipo di materia, che è la materia vivente. E questa finalità nella materia vivente ci pare a sua volta svelata proprio dall’errore, dalla sua genesi ori-ginaria dentro la materia.

Oltre che a trattare dell’origine dell’errore nella materia vivente, prove-remo anche a formulare schematicamente il problema del rapporto tra erro-re e funzione come esso si incarna nella materia vivente, ove per funzione, come sarà chiarito più avanti, intendiamo lo specifico aspetto assunto dal-la finalità nel vivente.

2. L’errore nel DNA

Presenteremo la nostra nozione di errore nella materia, indicandone il prototipo nella mutazione genica puntiforme, la mutazione di una base del DNA di un gene.

Per fare questo è necessario tracciare brevemente una fenomenologia, anche se davvero molto semplificata, del DNA e delle sue attività.

2.1. La molecola di DNA

Per quanto si sa, il DNA (acronimo che sta per DeoxyriboNucleic Acid, acido desossiribonucleico), è l’unica molecola del vivente capace di auto-replicarsi. In determinate condizioni questa molecola complessa, un poli-mero, può fare una copia di sé stessa sfruttando una proprietà direttamente derivata dalla sua struttura interna; più precisamente derivata dai legami che possono intercorrere tra le unità più piccole di cui essa si compone; le quattro basi azotate: guanina, adenina, citosina e timina. Come è noto, la molecola viene rappresentata come avente una struttura a doppia elica av-volta in maniera destrorsa (guardandola dall’alto) attorno a un asse centra-le virtuale che attraversa idealmente la successione di tutti i legami idroge-no con cui le basi sono unite a due a due. I gradini della scala elicoidale sono rappresentati ognuno da una coppia di basi tenute insieme da legami idrogeno; lo scheletro esterno della scala elicoidale consiste nella monoto-na ripetizione di un gruppo fosfato e di uno zucchero pentoso. Lo zucche-ro è legato verso l’interno della doppia elica a una base azotata, e verso l’e-sterno a due gruppi fosfato. A mano a mano che si procede salendo (o scendendo) lungo la doppia elica, troviamo ripetuti il gruppo fosfato e lo zucchero; a cambiare (ma non necessariamente) è la coppia di basi corri-

135S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

spondente al gradino della scala2. Ogni 10 gradini, più o meno, la doppia elica compie un giro complete di 360o.

Il DNA è dunque un polimero organico formato da monomeri, i nucleo-tidi, ognuno dei quali è composto da tre gruppi molecolari: il gruppo fosfa-to, lo zucchero pentoso (deossiribosio) e una delle quattro basi azotate già menzionate. Detto altrimenti, il DNA è un polimero costituito da una dop-pia catena di nucleotidi, orientata, spiralizzata, destrorsa (fig. 1).

Il meraviglioso comportamento del DNA (cioè la sua capacità di auto-sintetizzarsi, di fare una copia di sé stesso) rappresenta un preciso effetto della sua struttura chimica, in particolare discende dal criterio di collega-mento delle basi tra di loro.

2.2. L’appaiamento delle basi: regola di complementarietà

Il punto chiave della logica del vivente, che concorre a fondarne il deter-minismo è l’esistenza di una regola di appaiamento delle basi. Questa è una regola semplice. Per esempio, se su un lato della scala – lato che per como-dità potremmo identificare con il filamento di sinistra – in corrispondenza di un gradino, troviamo una molecola di guanina, è sicuro che di fronte - sul filamento di destra - ci sarà una molecola di citosina (fig. 2). Se, conti-nuando l’ascesa lungo la doppia elica, al gradino successivo a sinistra (o, è lo stesso, a destra) c’è una adenina, allora la base con cui essa sarà legata sarà immancabilmente una timina. La semplice regola di appaiamento del-le basi è Guanina con Citosina, Adenina con Timina (o con Uracile, se si tratta di RNA). Ovvero più semplicemente G-C; A-T (o, che è lo stesso: C-G; T-A). Il motivo per cui è ammesso solo questo tipo di corrispondenza risiede nel fatto che tutti gli altri appaiamenti teoricamente possibili (C-A; C-T; G-A; G-T) rendono la molecola instabile; la sua struttura non tiene.

2.3. La replicazione

Nel corpo vivo della cellula il DNA fà soltanto due cose: si autoreplica ogni volta che è necessario e presiede alla sintesi delle proteine. Va detto che nel fenomeno dell’autosintesi del DNA e in quello della sintesi di una proteina, accanto alle molecole informazionali vi sono in realtà un gran nu-

2 Un modello animato della doppia elica è reperibile all’indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/DNA; tutte le informazioni sulla molecola di DNA, la replicazione, la sintesi delle proteine e le mutazioni sono reperibili su qualunque trattato di biologia molecolare (per es., Amaldi et al. 2014).

136 Errore

mero di molecole proteiche di natura enzimatica, prima fra tutte la DNA polimerasi. Benché il loro ruolo sia fondamentale per la riuscita dei due processi, tuttavia la loro trattazione non è indispensabile per afferrare la lo-gica di base.

La replicazione del materiale genetico conservato nel nucleo di una cel-lula avviene ogni volta che c’è una moltiplicazione cellulare. Quando da una cellula ne vengono prodotte due, identiche, vengono non solo duplica-ti gli organelli presenti nel citoplasma, ma anche tutto il DNA esistente nel nucleo. L’identità genetica, l’eredità di un organismo, è contenuta nel suo DNA e, per essere trasmessa alla progenie, deve essere replicata ad ogni moltiplicazione cellulare durante la mitosi o affidata ai gameti durante la meiosi. La base chimica della replicazione è l’autocatalisi (il composto K catalizza la formazione di ulteriore composto K a partire dalla materia pri-ma): un processo che spesso ha come risultato proprio una replicazione. L’eredità dell’identità si basa sulla replicazione dell’informazione che fon-da quell’identità.

Nel caso della replicazione dell’informazione genetica di un organismo eucariotico, il doppio filamento di DNA parentale serve da stampo per la sintesi dei due filamenti figli complementari. Seguendo la replicazione di uno solo dei due filamenti, quello gergalmente noto come filamento “lea-der”, si vede che la replicazione ha contemporaneamente inizio in più pun-ti della doppia elica e che a livello di ciascuna zona del filamento dove ha origine la replicazione, la doppia elica si apre (a una velocità di circa 1.000 nucleotidi al secondo). A questo punto, grazie all’intervento di molti enzi-mi specifici (come per es. le polimerasi, le primasi, le elicasi, le topoisome-rasi, le ligasi, ecc.) viene sintetizzato un nuovo filamento, il filamento “fi-glio”, perfettamente complementare al vecchio filamento stampo. Il processo di sintesi si realizza per avvicinamento e accoppiamento, secon-do la regola di complementarietà, dei nucleotidi liberi (che si trovano nell’ambiente nucleare) con le basi nucleotidiche allineate lungo il fila-mento stampo. Finita la replicazione si ottengono due doppi filamenti di DNA, identici, ognuno composto da un filamento vecchio e da un filamen-to nuovo. La replicazione viene detta per questo: semiconservativa (fig. 3).

2.4. Il codice genetico.

Per comprendere la sintesi di una proteina è necessario introdurre la no-zione di codice genetico. Il codice genetico, stabilito per via empirica negli anni Sessanta, è uguale per tutti i tipi di organismi (universalità del codice) e consiste nella tabella di corrispondenza fra terne di basi nucleotidiche del

137S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

DNA e amminoacidi della proteina codificata da quel DNA (fig. 4). Ogni terna di basi codifica per un solo amminoacido; uno stesso amminoacido può però essere codificato da più di una terna di basi (ridondanza del codi-ce). Le basi (4 tipi in tutto) sono i materiali costituenti le molecole informa-zionali (DNA e RNA), gli amminoacidi (20 tipi in tutto) sono i materiali di cui è composta una qualsiasi proteina. Preso un filamento singolo di DNA, l’informazione genetica è precisamente data dall’ordine con cui si succe-dono le basi lungo quel certo filamento di DNA (preso un doppio filamen-to di DNA, l’informazione genetica è l’ordine con cui si succedono le cop-pie di basi lungo quel doppio filamento). La lunghezza media di un gene si aggira intorno alle 27.000 basi. Il corredo genetico, genoma, di un indivi-duo varia a seconda delle specie; nell’Uomo il numero di geni stimato è di 20.000-25.000 unità, riunite in 46 cromosomi diversi.

2.5. La sintesi delle proteine

L’altra azione del DNA riguarda la sintesi di una proteina (un polimero di amminoacidi indispensabile al funzionamento cellulare), un processo che si svolge in due fasi: trascrizione e traduzione. La prima fase, la trascri-zione, avviene nel nucleo e consiste nella produzione di un RNA (moleco-la elicoidale a filamento singolo composta da una successione di nucleoti-di uguali a quelli presenti nel DNA, con la sola differenza che al posto della Timina del DNA nel RNA si trova una base, leggermente diversa, chiamata Uracile).

Questo processo di produzione di un RNA detto messaggero a partire da una molecola stampo di DNA viene chiamato trascrizione del DNA in RNA messaggero. In pratica un segmento della molecola di DNA a doppio filamento, un gene, viene trascritto in un RNA a filamento singolo stam-pando (grazie alla regola dell’appaiamento delle basi) l’RNA su uno dei due filament del DNA: il filamento stampo. Questo RNA-messaggero dopo un trattamento biochimico esce dal nucleo raggiungendo un comples-so proteico citoplasmatico chiamato ribosoma, dove con l’intervento di un secondo tipo di RNA, una piccola molecola ponte detta RNA-di-trasferi-mento, e seguendo le regole di corrispondenza del codice genetico univer-sale, traduce il messaggio scritto sotto forma di allineamento di basi del RNA in allineamento di amminoacidi della proteina in via di formazione3.

3 Trattando la sintesi del DNA e delle proteine abbiamo fatto ricorso a una necessaria quanto brutale iper-semplificazione di fenomeni in realtà assai più complessi. Tra le tante cose non dette ce n’è almeno una della massima importanza su cui

138 Errore

3. L’errore nella materia: la mutazione genetica

Per comprendere cosa possa significare “errore nella materia”, qui sino-nimo di “mutazione”, è stato necessario partire da una molecola di DNA: la macromolecola presente nei nuclei cellulari di un qualunque tipo di or-ganismo, dai più semplici ai più complessi, che ne conserva l’informazio-ne relativa alla propria identità.

La mutazione genica puntiforme consiste nell’alterazione casuale della struttura di un gene e corrisponde alla modificazione del codice genetico, con conseguente modifica di una o più terne di basi e quindi del prodotto del gene (cioè la sua proteina). Di mutazioni ne esistono tipi diversi in rap-porto al meccanismo di azione e all’entità del cambiamento provocato (puntiformi, dell’intero gene, cromosomiche, genomiche). Le mutazioni geniche del DNA sono tutte mutazioni puntiformi che interessano una o poche basi del DNA nucleare (fig. 5). Consistono in sostituzioni, microde-lezioni, inserzioni di uno o pochissimi nucleotidi. Una mutazione puntifor-me4 implica la modifica della terna di basi, quindi dell’amminoacido corri-spondente e in ultimo della proteina contenente l’amminoacido “sbagliato”.

dobbiamo però spendere qualche parola. Sappiamo che sia nell’autosintesi del DNA che nella sintesi delle proteine intervengono molto proteine enzimatiche ognuna delle quali svolge compiti specifici indispensabili alle varie fasi dei due processi. Naturalmente nasce subito l’interrogativo su come sia stato possibile per il DNA sintetizzare la prima proteina se per farlo era necessario avere già a disposizione delle proteine enzimatiche specifiche. A questo proposito è stato ipotizzato che la molecola informazionale delle prime forme di vita fosse un certo tipo di RNA e che altre forme di RNA (ribozimi) ne catalizzassero le reazioni, proprio come oggi fanno le proteine enzimatiche nei confronti del DNA. Nel corso del tempo il sistema informazionale-catalitico basato sull’RNA si sarebbe evoluto nel più stabile DNA e nel più flessibile sistema enzimatico di tipo proteico. Seconda questa “ipotesi del mondo a RNA”, risalente agli anni ’80 del secolo scorso, RNA che oggi si trova in corpuscoli intracellulari quali i ribosomi non sarebbe altro che un residuo dell’antico mondo a RNA. (Per una trattazione della questione si veda per es. Amaldi et al. 2014).

4 Un esempio di mutazione puntiforme del DNA è quella del gene della catena β della proteina emoglobina, mutazione che determina la sostituzione della base adenina con la base uracile (GAG → GUG). Mentre nell’emoglobina normale l’amminoacido normale è la glutammina (come è stabilito nel codice genetico), nell’emoglobina mutata l’amminoacido è la valina (Tav. 6). Questo errore a livello delle basi viene tradotto in una sostituzione amminoacida nella proteina che altera il funzionamento della proteina mutata. Quest’alterazione a sua volta provoca una grave patologia emoglobinica conosciuta come anemia falciforme, il cui danno è più o meno grave a seconda dello stato genetico, omozigote o eterozigote, nell’individuo che porta l’errore, il gene alterato dentro di sé. Oltre alle mutazioni

139S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

Va osservato che gli errori nella replicazione dell’informazione genetica sono errori puramente legati al caso5. Veri e propri eventi casuali, che, sot-to un certo profilo non sono spiegabili in modo semplice e che comunque rappresentano la rottura di una precedente funzione.

L’errore informazionale a carico di una stringa di DNA si può trasmette-re o meno alla proteina (esistono infatti meccanismi, ma non infallibili, di riparazione del DNA alterato), si può propagare nella cellula e trasmettersi con la riproduzione cellulare all’organismo. L’errore biologico sembra for-temente collegato a una rottura di ordine e simmetria nel materiale biologi-co, al fallimento dell’esatta replicazione del materiale ereditario ovvero al funzionamento e alla riproduzione di una struttura assai più complessa e di ordine superiore come è un’intera cellula6.

In quanto unica sorgente di novità genetica, il fenomeno della mutazio-ne genetica è sì il prototipo, la madre di tutti gli errori, ma è anche l’even-to indispensabile a un qualunque fenomeno evolutivo, a qualunque scala tale evento venga immaginato oppure osservato. Se sono espressi a livello del fenotipo individuale, la maggioranza degli errori di mutazione sono dannosi per l’organismo; molti sono invece neutrali rispetto alla perfor-mance dell’individuo portatore; mentre in pochi casi fortunati gli errori da mutazione possono essere positivamente selezionati per il vantaggio che essi danno alla fitness individuale del fenotipo che li manifesta. Ciò acca-de quando rendono quell’individuo meglio adattato, rispetto ad altri indivi-

geniche puntiformi, ne esistono altri tipi con effetti più vistosi come le mutazioni che coinvolgono frazioni di un cromosoma o interi cromosomi e quelle che riguardano l’intero genoma individuale.

5 Le mutazioni avvengono a caso con una frequenza, variabile da gene a gene, ma che in molti casi, (per molti geni e per molte specie) si aggira su valori dell’ordine di 10-5-10-6 per gene per generazione. Per cui se ammettiamo un tasso di mutazione di 10-6 e un genoma umano di 20.000 geni, almeno 1 gamete su 200 porta un gene mutato. La stima va intesa come molto approssimativa.

6 A livello non evolutivo ma organismico, l’invecchiamento è un buon esempio di accumulo di errori nell’individuo. L’invecchiamento è un fenomeno che riguarda tanto le cellule quanto l’organismo nel suo insieme. Le acquisizioni della ricerca in questo campo indicano l’esistenza di un legame fortissimo, una causazione più che una semplice correlazione, tra la perdita di funzionalità cellulare e il peggioramento, la minore efficacia delle reazioni biochimiche che presiedono al metabolismo cellulare e al funzionamento degli organi e dei sistemi d’organo. Dietro il cattivo metabolismo cellulare c’è una alterazione delle proteine enzimatiche sia in termini qualitativi che quantitativi. I delicati meccanismi di regolazione della sintesi delle proteine sono alterati a partire dai geni proprio per un effettivo accumulo di errori a carico della struttura del DNA e delle molecole regolatrici del suo funzionamento.

140 Errore

dui, al proprio ambiente di vita, aumentando le sue probabilità di sopravvi-venza e/o di fecondità-riproduzione e quindi dandogli un premiante vantaggio selettivo.

4. Identità, differenza, individualità

Dopo avere introdotta la nozione di “errore nella materia”, converrà sof-fermarsi sulla nozione di identità, specificamente nel caso biologico, riflet-tendo sul meccanismo garante del riaffermarsi, della ripetizione dell’iden-tità nel tempo. Lo faremo trattando perciò la nozione di identità biologica basica concepita nella sua relazione con la differenza biologica relativa.

Osservando le forme di vita e la molteplicità cangiante dei cambiamen-ti grazie ai quali anche noi esistiamo e arriviamo a riflettere sul mondo, sembra necessario riconoscere la realtà della determinazione e l’esistenza per davvero degli enti molteplici e gerarchizzabili (le molteplici stringhe di DNA “erroneamente” generate, i molteplici individui, le plurime specie). Questi enti, queste stringhe di DNA, generate dall’errore, sono non identi-ci-unici e sono differenziati. Tanti non addetti ai lavori, ma talora persino qualche raro biologo, sono inclini a pensare al DNA come all’“essenza” immutabile della specie. Ciò forse sarebbe vero se esistesse soltanto la re-plica perfetta dell’identico, se l’identico corrispondesse a un ente non dif-ferenziabile e non differenziato. Ma, grazie alla creatività dell’errore, esi-stono le determinazioni e vengono generate le differenze. Nel vivente la variabilità, come l’insieme delle differenze tra individui, è la norma, e que-sto nega per sempre l’esistenza di un’unità immanente nella molteplicità. Se un’unità esiste essa perciò non potrà che essere trascendente quella mol-teplicità.

Converrà sottolineare che attraverso la mediazione dell’errore, la ripeti-zione fondata sul meccanismo della replicazione produce la differenza: la differenza è cioè prodotta dall’errore.

A un’osservazione ravvicinata appare anche che attraverso la replicazio-ne ciò che si ripete non è soltanto l’identico, il DNA-identico-a-sé-stesso, ma si ripete anche la differenza, come possibilità realizzate di novità, in un processo di perenne variazione di quello che è l’identico-a-sé-stesso.

Io riconoscerei perciò due forme di ripetizione: la ripetizione come pro-duzione di copie identiche (sul piano empirico questa produzione di copie esatte di un gene è l’evento probabilisticamente più frequente), e la ripeti-zione come dispositivo di produzione di differenze (evento normalmente raro). Ora, è proprio questa seconda forma di ripetizione a rappresentare il

141S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

materiale basico, il combustibile, l’alimento dell’evoluzione biologica. La ripetizione come possibilità produttiva di differenze genera la variabilità genetica, o meglio ancora la “variazione genetica”.

Il primo effetto della variazione genetica è che, diversamente dal mondo della materia inanimata, nel mondo vivente non esistono due organismi, due individui che siano eguali tra di loro con tutte le possibili conseguenze evolutive di ciò; e possono essere enormi se si pensa che l’evoluzione stes-sa e la selezione naturale possono esservi solo a partire dall’esistenza della variazione genetica legata all’errore. La comparsa dell’errore, la sua irru-zione nella fenomenologia della replicazione dell’informazione genetica è alla base della produzione dell’individualità. L’individuo, cioè il concretiz-zarsi delle differenze identitarie, nasce in ultimo dall’errore.

Per cui possiamo sostenere che la natura vivente è il dominio, il territo-rio dell’individualità e degli individui generati dall’errore.

Questo comporta tra l’altro, ma saremmo fuori tema se affrontassimo questo discorso, che la biologia come scienza si trova a trattare non univer-sali invarianti, ma enti e processi particolari soggetti a variabilità e impre-gnati di evenemenzialità; macchine cartesiane ma pure dispositivi storici, anche solo in quanto sede di processi irreversibili, intrinsecamente com-plessi, quali: l’origine della vita, delle specie, l’adattamento, la costituzio-ne della biosfera, l’evoluzione dei viventi (Forestiero 2000).7

7. L’unità di evoluzione: differenze alla base dell’evoluzione

In generale, un’unità di evoluzione è definibile come un’unità capace di riprodursi e in possesso di ereditarietà imperfetta.

7 Una riflessione su di un aspetto della complessità del vivente riguarda l’equilibrio precario tra identico e diverso, tra pattern ordinati e disordinati. Nelle vicende del vivente, osservabili tanto nel compimento ontogenetico quanto nel processo, aperto rispetto agli esiti, dell’evoluzione delle specie, sono continuamente all’opera meccanismi che con il loro funzionamento consentono il gioco mutevole tra riproduzione puntuale dell’identità di una struttura del vivente (una sequenza genica, un corpuscolo cellulare, un’intera cellula, ecc.) e deviazione inattesa dal prestabilito e perciò nascita della differenza. Questo gioco tra casualità (ovviamente intesa non come assenza di cause, ma semmai come presenza di cause molteplici i cui effetti intrecciati rendono il fenomeno intrinsecamente complesso e imprevedibile) e determinismo (azione di cause lineari o quasi lineari che consentono l’accesso alla conoscenza previsionale di un fenomeno) è un fattore costante caratterizzante il vivente, un segnale forte e chiaro della sua complessità.

142 Errore

Quando alcuni dei caratteri ereditari sono influenti sulle probabilità di riproduzione e/o di sopravvivenza di quell’unità, in una popolazione di re-plicatori così organizzati avremo evoluzione per selezione naturale: la co-siddetta evoluzione darwiniana.

La definizione data non si riferisce necessariamente a sistemi naturali viventi; qualsiasi sistema che soddisfi questi criteri (replicazione, imperfe-zione, replicatori con fitness diverse), tipo un virus o un’unità digitale di vita artificiale (alife), può evolvere secondo modalità darwiniane. Natural-mente, se l’unità di evoluzione è anche un’unità vivente, avremo un feno-meno di evoluzione di tipo biologico.

In ogni caso, il punto essenziale, che fonda un qualunque fenomeno evo-lutivo è l’esistenza dell’errore di replicazione, che assume valore di neces-sità, diventa precondizione necessaria e sufficiente per l’evoluzione. Alla base dell’evoluzione c’è l’errore. È indiscutibile che, come già era chiaris-simo a Darwin, l’evoluzione ha luogo se e solo se c’è disponibilità di varia-zione ereditaria nella popolazione-specie. Detto in altri termini, l’unità mi-nima di evoluzione, il cambiamento evolutivo più piccolo, ha luogo solo se si dispone di almeno una variante “erronea” all’interno di una popolazione.

Tutta la biodiversità, sotto forma di diversità tra i geni, tra le specie e tra le biocenosi e tutti gli adattamenti osservabili nei viventi sono prodotti dell’evoluzione, derivati, lungo un arco di tempo di oltre 3,8 miliardi di anni, dall’”errore” originario, ripetuto infinite volte e sommato a tutti gli altri tipi di errori distribuiti nella struttura gerarchica del vivente, nel fun-zionamento dei suoi processi, nella sua storia.

8. La finalità intrinseca allo stato vivente della materia: nascita della funzione

Prima di esaminare l’origine della funzione così come s’incarna nel comportamento del DNA, vorremmo indicare, sottolineandola, l’esistenza di una questione che anche se qui non analizzeremo ci sembra tuttavia as-sai interessante. L’idea è che le basi del DNA con la loro regola di comple-mentarietà, ovvero l’obbligatoria combinazione di basi che si fronteggiano nel DNA, anticipano sul piano ontologico quello che evolutivamente, con l’emergenza del pensiero, del linguaggio e della matematica, sarà assai più tardi la doppia implicazione sul piano della logica naturale e di quella scientifica.

Osservando la struttura materiale del DNA relativamente alla regola di appaiamento delle basi azotate si arriva a riconoscervi un principio fonda-

143S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

tivo della logica del vivente; forse, per estensione, della logica tout court, cioè il principio di doppia implicazione. Ovviamente questo: “se … allora …” nel caso del DNA è costituito da proposizioni descriventi lo stato di enti materiali, più precisamente da enunciati sulle relazioni necessarie e sufficienti tra alcuni oggetti-cose (le quattro basi azotate: adenina, timina, citosina, guanine nelle loro condizioni di esistenza nel DNA (“se A allora T”, “se T allora A”, “se C allora G” e “se G allora C”), le sole relazioni che consentendo il comportamento di autosintesi del DNA garantiscono il mantenimento dell’identità e la sua trasmissione nel tempo attraverso la re-plicazione.

Le conseguenze di questa doppia implicazione logica, ci sembrano deci-sive anche su di un altro piano, in quanto essa apre la strada a un criterio di intellegibilità della nozione di “funzione”. Intendiamo dire che la doppia implicazione logica si trova in enunciati riferentesi a oggetti che, per la pri-ma volta secondo noi, hanno introdotto nel mondo il fenomeno della “fun-zione” e che ci permettono di comprendere quanto accadde e accade nella materia vivente. Anzi, più in generale, quanto accade in qualsiasi tipo di si-stema, anche artificiale, purché incorpori al suo interno gli effetti di un principio finalistico8.

Circa il concetto di funzione adottiamo la posizione di Ruth Millikan e appoggiamo la sua difesa del concetto di “funzione propria” di un oggetto (Millikan 1984, 1989). La definizione di funzione propria (proper fun-ction) di Millikan è di tipo ricorsivo.

In sostanza, un oggetto O possiede come funzione la funzione propria F come propria funzione, se è rispettata almeno una delle seguenti due con-dizioni:

I) O si è originato come riproduzione di un elemento o di più elementi precedenti che, in parte in quanto possessori di proprietà riprodotte e tra-smissibili, in passato hanno svolto la funzione F;

II) O si è originato come prodotto di un qualche dispositivo storico pre-cedente che, date le circostanze aveva la funzione F come funzione propria

8 A scanso di equivoci, vorremmo chiarire che secondo noi le scienze biologiche possono leggittimamente e utilmente ricorrere alle spiegazioni finalistiche, come stiamo facendo in questo caso, senza cadere nell’antropomorfismo psicologico e senza dovere abbracciare necessariamente le idee di progetto, intenzione o scopo. Tutto ciò a patto di assumere la nozione di funzione in un contesto di naturalismo metodologico e filosofico. Si veda come pietra di paragone l’analisi dettagliata che fa del finalismo Ernst Mayr in Teleologia e teleonomia (Mayr 1983), originariamente pubblicato nel 1974 come Teleological and teleonomic: a new analysis, per i «Boston Studies in the Philosophy of Science», 14: pp. 91-117.

144 Errore

e che, in quelle certe circostanze permetteva che la funzione F fosse svolta mediante la produzione di un elemento di tipo O.

Come si vede, caratteristica di questa definizione di funzione è la deter-minazione di una chiusura della relazione causa-effetto (condizione iso-morfa a quanto si osserva nel vivente), in quanto la finalità è intrinseca alla materia. In altri termini, i geni ci sono per il funzionamento della cellula e sono kantianamente causa ed effetto di sé stessi. Nel nostro caso, limitan-do l’analisi alla prima funzione del DNA, l’autoreplicazione, vediamo ri-spettate entrambe le condizioni indicate dalla Millikan.

Conclusioni

Abbiamo proposto l’idea che in natura l’errore appaia con la riproduzio-ne del primo vivente e che si diffonda e perpetui nella biosfera e nel tempo primariamente attraverso la replicazione delle molecole informazionali, la riproduzione degli organismi, il loro funzionamento e l’evoluzione delle forme di vita. Per questa ragione, l’errore rintracciabile nelle cose viventi potrebbe essere visto come primo in ordine di tempo e fondamento ontolo-gico, connesso alla funzione, di tutti i tipi di errore, anche di quelli che in-teresseranno il pensiero e l’azione umana.

Sul piano speculativo, l’idea che l’origine della vita, l’origine della fina-lità e l’origine dell’errore possano essere considerati tre aspetti intimamen-ti intrecciati di una stessa fenomenologia, facce di un’unica medaglia, è se-condo noi plausibile e meritevole di riflessione; un’idea buona da pensare.

Ringraziamenti

Pur restando responsabile di eventuali errori e omissioni, l’autore rin-grazia Francesco Amaldi e Massimo Stanzione per gli utili suggerimenti e i rilievi critici fatti a una prima stesura del lavoro.

145S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

Bibliografia

AMALDI F. - BENEDETTI P. - PESOLE G. - PLEVANI P.2014 Biologia molecolare, 2a ed., Rozzano (MI).

FORESTIERO S.2000 Complessità biologica, in Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma,

pp. 405-410.

MAYR E.1983 Teleologia e teleonomia: una nuova analisi, in Id. (a c. di), Evoluzio-

ne e varietà dei viventi, Torino, pp. 206-238.

MILLIKAN R.G.1984 Language, Thought, and Other Biological Categories. New Founda-

tion for Realism, Cambridge (Mass.).

MILLIKAN R.G.1989 In Defence of Proper Functions, «Philosophy of Science», LVI, pp.

288-302.

146 Errore

Tav. 1 (e Tav. 1 bis) - Modello policromo di un breve tratto della doppia elica del DNA; le quattro basi hanno colori differenti

Tav. 2 - L’appaiamento tra le basi del DNA segue la regola di complementarietà: A-T; C-G.

147S. Forestiero - L’errore e l’evoluzione

Tav. 3 - La duplicazione semiconservativa del DNA è straordinariamente precisa. Da una singola molecola di DNA (in alto) si ottengono due molecole di DNA identiche (in basso). Ogni nuova doppia elica di DNA è formata da una semielica originaria

(semielica stampo, qui in rosso) e da una semielica nuova(semielica neoformata, qui in blu).

Tav. 4 - Il codice genetico universale. Le basi azotate si riferiscono a quelle che compongono l’RNA. I codoni (triplette di basi) sono 64 in tutto. Tre codoni (codoni di stop) non codifi cano di norma per nessun amminoacido ma servono solo a bloccare la traduzione dell’RNA messaggero durante la sintesi delle proteine. Perciò i 20 ammi-

noacidi sono codifi cati a partire da 61 codoni.

148 Errore

Tav. 5 - Mutazione durante la duplicazione del DNA: una base viene erroneamente sostituita con un’altra. Nel disegno, il fi lamento stampo è in blu, quello neoformato

in arancione. In alto: copiatura corretta; in basso copiatura errata per inserzione della base sbagliata (in rosso). Nonostante i meccanismi di controllo e di riparazione degli

errori siano altamente affi dabili, tuttavia non sono perfetti. Questi meccanismi biomo-lecolari possono agire sia durante che dopo la duplicazione del DNA.

Tav. 6 - Effetto di una mutazione durante la sintesi di una proteina. In alto: fi lamento singolo di DNA di un individuo sano (sin.), con emoglobina norma-

le, e codone alterato da una mutazione nel DNA di un individuo ammalato (dx).Al centro: RNA messaggero dell’individuo normale (sin.) e del mutante (dx).

In basso: situazione fi nale a livello della catena amminoacidica della proteina sintetiz-zata; nell’individuo normale (sin.) e nel mutante malato di anemia falciforme (dx).

Per altre spiegazioni, si rimanda alla nota 4.Le scritte 5′ (cinque primo) e 3′ (tre primo) si riferiscono alle estremità asimmetriche

di un fi lamento singolo di DNA, o di RNA, indicandone l’orientamento.

149

L’ERRORE DELL’IMMAGINAZIONE

di Elio Franzini

Partiamo dalla constatazione che il mondo dell’immagine, nelle tradi-zioni artistiche e filosofiche, è spesso associato all’errore, che deriva da quella facoltà chiamata “immaginazione”, la pazza di casa della tradizione cartesiana.

La prospettiva del Cenacolo di Leonardo è, per esempio, densa di erro-ri: un semplice calcolo mostra che la stanza misura in altezza appena due volte la statura umana e tre in larghezza. Leonardo ha fatto ricorso a una trasgressione della prospettiva nota sin dagli egizi, applicando differenti unità di misura ai personaggi. Il trucco, che dà centralità alla figura umana, viene peraltro utilizzato anche da Raffaello nella Scuola di Atene. A questo proposito, in un saggio degli anni Venti del Novecento P. Florenskij dimo-stra che gli errori degli artisti non sono “sbagli” ma delle premeditate tra-sgressioni di un codice naturalistico-imitativo del mondo, a fini espressivi (che possono essere di varia natura), finalizzati a mostrare la natura imma-ginativa e simbolica dell’arte e della sua funzione cognitiva. Di conseguen-za, conclude, che gli errori di prospettiva indicano non una debolezza dell’artista ma, al contrario, la sua forza, la forza della sua autentica perce-zione. L’errore diviene quasi un modo per “liberare” l’immaginazione, svincolandola dalla mera riproduzione del reale.

Sono proprio queste trasgressioni a condurre a un progressivo sospetto della filosofia – della scienza, della verità – nei confronti dell’immagina-zione, così come essa si manifesta nell’arte, quando si allontana da essere strumento di aiuto per una “riproduzione” del reale. Essenziale, a questo proposito, il punto di vista di Cartesio. L’immaginazione appare come la sintesi simbolica di un “potere della sensibilità” che, in vari modi, spesso confusi – dato che la confusione è parte della sua stessa essenza – può co-stituire un ostacolo per un corretto, e veritativo, percorso cognitivo. È que-sta una strada che Cartesio non esita a percorrere. Sono celeberrime quelle pagine delle Meditazioni filosofiche in cui, consapevole che le sensazioni e

150 Errore

le immaginazioni, in quanto “modi di pensare”, si trovano senza dubbio nel soggetto, intende costruire gli strumenti per “depotenziarle”, allontanando tutto ciò di cui Dio “non ha messo una chiara e distinta conoscenza nel mio intelletto”. La Sesta tra tali Meditazioni è un appassionato invito a diffida-re dei sensi esteriori e dell’immaginazione che li guida: diffidenza a parti-re dalla quale avvia il nucleo metafisico del suo pensiero, che si traduce in una radicale separazione tra sostanza estesa, soggetta all’errore, e sostanza pensante, tanto più libera da errori quanto più saprà controllare i pericoli dell’immaginario, dei sensi e delle loro fallaci e ambigue costruzioni.

Se si parte da tali premesse, si deve forse, su un piano fenomenologico, cercare di comprendere come sorga tale errore e per quali motivi possa es-sere considerato tale.

Vi sono tre luoghi nella fenomenologia dove si parla di questi problemi, cercando una “logica” del rapporto tra verità ed errore. Il primo riguarda la funzione dell’errore nella costituzione dell’intersoggettività: non se ne trat-terà, per la stratificata complessità dei riferimenti, ma è una conseguenza diretta della questione nodale della “variazione immaginativa”: solo giran-do intorno all’oggetto lo si può descrivere. Ma tale descrizione non può av-venire su base solipsistica proprio perché il soggetto isolato può sbagliare sia per le circostanze dell’apprensione sia per difetti degli apparati percet-tivi: la necessità di un piano intersoggettivo nasce dunque dalla constata-zione del possibile errore soggettivo. In secondo luogo, la questione della sintesi materiale e della funzione dell’esperienza “vera” in essa: dove la ve-rità è tutta condotta sulle qualità intrinseche alle cose stesse. In terza istan-za, connessa a questo tema, la problematica della logica apofantica, de-scrittiva della verità e dell’errore, su cui ci si concentrerà in modo specifico.

In senso proprio, va premesso che l’errore non appartiene al mondo dell’immagine, bensì al piano della memoria e delle sue specifiche rappre-sentazioni immaginative: è, infatti, “ricordando” le fattezze del mio amico Pietro che posso sbagliare; se invece lo immagino, e me lo rappresento all’interno di operazioni di “fantasia”, sono libero di attribuirgli tutte le qua-lità che più mi aggradano. Tuttavia, come è ovvio, anche nel caso delle ope-razioni memorative si costruisce una “immagine”, una “rappresentazione”: ma ciò significa, appunto, che con il termine generico “immagine” si inten-dono strati diversi di rappresentazioni, in alcune delle quali ha senso porsi il problema della “falsità” (memoria, percezione), mentre in altre ciò con-duce a controsensi immanenti alla struttura stessa degli atti (come nel caso delle rappresentazioni fantastiche). Ciò accade perché l’immaginazione, in senso proprio, ha una differente relazione con la temporalità, avendo come sua caratteristica essenziale quella della “indeterminazione temporale”.

151E. Franzini - L’errore dell’immaginazione

Indeterminazione temporale non significa tuttavia “tempo indetermina-to”, da “riempire” a piacere: le sintesi temporali, al contrario, si intreccia-no tra fantasia, percezione e memoria, costruendo un rapporto con la “ve-rità” della rappresentazione che non può essere risolto rivolgendosi a una soltanto di queste prospettive di esperienza, cioè limitandosi a indagare la relazione binaria tra realtà del percepito e verosimiglianza della copia. Al contrario, il senso dell’immagine si determina analizzandone le potenziali-tà ontologiche, ovvero i modi con cui se ne può “fare esperienza”. In que-sto modo si acquista consapevolezza che, per esempio, la questione gene-rale “verità dell’immagine” diviene anche quella della sua autenticità, del suo rapporto con la cultura, lo spirito, la natura, con una rete di motivi all’interno dei quali si può comprendere se il suo “senso” possa originare senso ulteriore. In altri termini: il problema della verità dell’immagine può anche essere spostato dal dato mimetico-rappresentazionale ai vari substra-ti conoscitivi della rappresentazione stessa, cioè alla “logica” intrinseca alle esperienze possibili e reali di tale immagine. In questa logica, in sinte-si, va considerato che l’ontologia dell’immagine è un universo stratificato, che deve essere guardato da differenti punti di vista, che originano, per così dire, diverse tipologie di immagine.

In un contesto, quello in cui l’immagine è colta come mera modificazio-ne fantastica della percezione, verità e falsità dell’apparire costituiscono un unico universo ontologico, binario e perfettamente compiuto, che semplifi-ca l’esperienza del reale, arricchendolo anche – è il caso dell’immagine “falsa” – di uno spazio regolato di “immaginario”, “fantasia”, “desiderio”, di una retorica dell’apparire che, alludendo a un invisibile in realtà negato, costruisce idoli e modelli, appagando i risvolti metafisici di una pura teoria dell’apparenza.

Ma vi è anche un altro modo di avere un’esperienza dell’immagine, su-perando questi orizzonti di psicologia empirica ridotta allo schema verità/errore. Ciò significa cogliere l’immagine come struttura complessa, come struttura di rinvio o, come dice Piana, come senso “simbolico” (Cfr. Piana 1979; Franzini 2002).

“Prendere coscienza” di un al di là dell’immagine non è un atto metafi-sico; o, meglio, prima ancora di interrogarsi sulla metafisicità dell’atto, è operazione radicata nel sensibile stesso dell’immagine e nella sensibilità interrogante di un’esperienza non limitata all’aspetto mimetico della rap-presentazione sensibile (e ai suoi eventuali “trucchi” ottici). Anche il primo sguardo sull’immagine, quello che non pretende di afferrarne gli spessori simbolici, motivazionali, culturali in genere, è infatti, come già si è osser-vato, sguardo che sospende la validità delle posizioni d’essere e che dun-

152 Errore

que ri-problematizza gli atteggiamenti soggettivi nei confronti dell’ontolo-gia dell’immagine. Questa ri-problematizzazione apre non il banale problema di un rifiuto della mimesis (l’imitazione è ovviamente essenziale per il sistema stesso della rappresentazione e delle sue articolazioni di sen-so), bensì quello di una differente concezione della “logica” dei modi pre-sentativi dell’immagine. Modi che, uscendo da uno schema binario, com-portano una diversa concezione della sua funzione mediatrice tra visibile e invisibile e, di conseguenza, dei livelli esperienziali in essa e da essa impli-cati, a partire proprio dalla fondamentale (e fondativa) esperienza della “verità”.

Non ha infatti senso, come già si è osservato, porre, in questo nuovo at-teggiamento, la questione della verità o falsità dell’immagine, la cui dialet-tica è presentabile solo all’interno di una logica regolata dell’apparenza. I rapporti con la verità sono peraltro atteggiamenti conoscitivi che diversa-mente si relazionano con le forme del giudizio e il loro “adeguarsi” alle cose stesse (Husserl 1929: § 19). La relazione tra senso e controsenso, tra verità formali e verità materiali1, sono esempi di una stratificazione delle argomentazioni logiche che sarebbe improprio risolvere nelle formule del “vero” o del “falso”, se non altro perché compito della logica è anche quel-lo di criticare l’evidenza dei propri principi, riconducendoli alla critica dell’evidenza dell’esperienza. Qui si coglierà che «il nostro primo scopo dev’essere quello di retrocedere dal giudizio ai substrati del giudizio, dalle verità ai loro oggetti portanti» (Husserl 1929: § 82, 250): il che significa che la verità è un processo che implica «la retrocessione genetica delle evi-denze predicative all’evidenza non predicativa» (ivi: 259).

Ciò conduce a una conclusione radicale: ridurre questo intreccio fun-gente alla formalità di quella che potremmo chiamare una logica apofanti-ca è evidentemente limitativo. Se infatti cercare il fondamento “invisibile” dell’immagine e di suoi atti costitutivi significa indagare le stratificazioni fungenti dell’evidenza fenomenologica, ciò comporta anche una messa tra parentesi di una relazione binaria tra rappresentazione e “verità”: l’imma-gine non è una generalità mimetica, un’evidenza “ingenua”, da definire come “vera” o come “falsa” all’interno di un giudizio veritativo (logico o metafisico nelle sue premesse), bensì il punto di avvio per interrogare il senso complesso della rete di esperienze riferibili al costituirsi della rap-presentazione. Interrogare, cioè, il “co-fungere” della sua evidenza, gli “in-trecci” che in essa si manifestano, ovvero – in altri termini ancora – il lo-

1 Si vedano le Ricerche Logiche, in particolare la terza dedicata all’interno e alla parte in cui Husserl introduce il tema dei cosiddetti “a priori materiali”.

153E. Franzini - L’errore dell’immaginazione

gos esibito dallo svolgersi sensibile dei suoi modi esperienziali. Un’interrogazione, quindi, dei suoi strati ontologici, che ne “evidenzino” gli spessori affettivi, culturali, motivazionali, spirituali, ecc. È evidente – è l’evidenza stessa del fungere delle immagini – che il mondo delle “opere”, in particolare delle opere delle arti figurative, pur senza avere alcuna prio-rità metafisica in relazione alla verità dell’immagine, offre uno spettro di variazione estetica di particolare rilevanza, in quanto, come già si è osser-vato da vari punti di vista, è nella esperienza che di esse si compie che ven-gono in luce, a partire dagli spessori estetici (visivi, tattili, percettivi in ge-nere) i legami che nelle immagini stesse si manifestano tra la presenza e il suo al di là, tra il visibile e l’invisibile. E ciò è finalizzato alla determina-zione di un logos dell’immagine, ovvero alla descrizione, a partire dalla sua stessa esteticità, delle sue rilevanti costanti eidetiche.

Come sottolinea Aristotele nel De interpretatione, che se molti discorsi sono “significativi”, non tutti sono “enunciativi”, cioè apofantici. Questi ultimi sono quei discorsi nei quali, a parere di Aristotele, soltanto si dà la verità e la falsità. L’immagine dunque, come già attraverso Husserl si inse-gnava, in quanto non è l’evidenza di un logos “enunciativo”, non può veni-re ridotta a un discorso apofantico. Ovvero: su di essa si può tenere un di-scorso che può non essere né vero né falso (Aristotele 1949). In questo controverso trattato, Aristotele afferma infatti (in passi sicuramente presen-ti a Husserl nelle sue Ricerche logiche, così come lo sono a Heidegger nel-le prime pagine di Essere e tempo) che ogni discorso è “semantico”, cioè “significativo” (ivi: 4, 17a, 1), anche se solo “per convenzione”, ma non tutti i discorsi sono “apofantici”, cioè enunciativi, dichiarativi, bensì sol-tanto quelli in cui si tratta di dire il vero o il falso.

Questa tipologia di discorsi non apofantici, afferma Aristotele, deve ve-nire tralasciata su un piano logico e ricercata invece nei suoi contesti di ap-partenenza, cioè nella poetica e nella retorica, che si occupano appunto di quei discorsi che non sono né veri né falsi (ivi: 5). Tale affermazione, che certo potrebbe aprire la prospettiva che, per Aristotele, la logica è apofan-tico-formale e non “semantica”, conduce verso la tesi centrale. Premetten-do che non vi è in Aristotele un’esplicita distinzione tra “discorso” e “logi-ca” apofantica – forse nella convinzione che la logica sia costruita soltanto da discorsi apofantici e non semantici – va tuttavia precisato che qui con “logica” si intende una “organizzazione” e “articolazione” degli specifici logoi, cioè dei vari discorsi (e, appunto, quello apofantico è soltanto uno tra essi, mentre una logica apofantica è un “sistema” dei modi per manifestare enunciativamente il vero e il falso). Di conseguenza, ed è il secondo punto, una logica apofantica che ricerchi il logos del mondo estetico, consapevo-

154 Errore

le quindi della funzione dell’immaginazione in tale logica, dovrà ammette-re al suo interno discorsi “motivazionali”, in cui si vada cioè al di là di di-scorsi apofantici, esibendo invece il senso complessivo dell’immagine, e della sua evidenza, attraverso una descrizione di ciò che, non essendo dici-bile né come vero né come falso, appare “evidentemente” verosimile.

Si potrà notare che, con quest’ultima parola, si è passati da uno dei pun-ti più oscuri della logica aristotelica a un altro, ugualmente complesso, del-la sua Poetica: e il passaggio si è compiuto semplicemente seguendo il filo dei discorsi di Aristotele, che appunto osserva che dove non è possibile un discorso apofantico vi è spazio soltanto per argomentazioni poetiche e re-toriche. Tuttavia, invece di seguire la tendenziale separazione tra i due campi – vero e verosimile – suggerita dalla logica aristotelica, si può sotto-lineare come l’immagine, nella sua molteplice evidenza estetica, induca una logica apofantica che, accanto al vero e al falso, accetti il verosimile, cercando in esso la descrizione di differenti sfumature veritative delle no-stre dimensioni esperienziali e dei territori ontologici ad esse riferibili. Il verosimile è lo “spazio” in cui la logica dell’immagine inserita nella rela-zione verità/errore perde la propria identità definita.

L’immagine poetica-verosimile (senza peraltro, lo si ribadisce, opporsi al “vero”, ma semplicemente manifestando, in modo implicito, che una “logica della verità” implica una variata tipologia di “discorsi”, di logoi, che possono essere apofantici, retorici, storici, poetici) è una necessità (ha quindi un suo intrinseco ordine e una precisa direzione di sviluppo) che è però anche, e non senza un aspetto paradossale, apertura al possibile, cioè alle potenzialità che sono nell’esplicitarsi stesso dell’evidenza, che sono il suo “invisibile”, reso effettuale, tuttavia, soltanto dalla “verosimiglianza” dell’apparire. Il verosimile poetico – l’immagine – è così, ma avrebbe po-tuto essere altrimenti: che è, peraltro, la definizione di poiesis che si trae da altre pagine aristoteliche2 e che immediatamente sottolinea come la mime-sis poetica sia costituita da immagini che, pur evidenti, non sono affatto “riproduttive”, argomentabili attraverso un discorso apofantico, bensì aper-te a un discorso “verosimile”, che è l’attestazione necessaria di un “invisi-bile” possibile intrinseco alla loro realtà sensibile e narrativa.

Su queste basi è stato rilevato come in Aristotele, di conseguenza, esista-no due tipi di errore e due forme di verità (Tatarkiewicz 1979: 183). Tutta-via, sarebbe probabilmente più corretto affermare che vi sono piuttosto dif-

2 Si veda, per esempio, la Politica, 1338a, ma soprattutto la Retorica, 1366a 33, dove compare la definizione aristotelica della bellezza. Da non dimenticare, infine, le osservazioni dell’Etica Nicomachea, 1105a.

155E. Franzini - L’errore dell’immaginazione

ferenti “discorsi” (o decorsi descrittivi) intorno alla verità e all’evidenza, all’interno dei quali quelli della Poetica manifestano come la poesia con-tenga «enunciazioni che, da un punto di vista conoscitivo, non sono né vere né false e la cui funzione è diversa da quella conoscitiva» (ivi: 184).

Quando, allora, Husserl parla dei compiti di una logica pura, ritiene che quello più alto sia la costruzione di una «teoria delle forme possibili di te-orie» (Husserl 1900-1901.I: § 69) (esattamente, cioè, il ruolo rivestito dal-la verosimiglianza nella Poetica): e con questa espressione, senza disper-dersi in discorsi vaghi sulla verità, intende proprio, nella stessa direzione di Aristotele, «un sistema gerarchico di possibili forme di teorie scientifiche» (Bernet – Kern - Marbach 1992: 64). Esiste dunque, nel momento in cui si organizza discorsivamente, cioè nell’ambito di un’attività giudicativa, una teoria delle forme di teoria, che mira al “significato”, quella cioè che Hus-serl chiama “apofantica formale”. Accanto a essa, a essa anzi, in una certa misura, contrapposta, sia pure non dialetticamente, si pone la “ontologia formale”, che riguarda la “forma dell’oggetto in generale” e che si occupa della “morfologia” delle categorie formali. Si comprende così, in primo luogo, quanta ingenuità metodologica vi sia in un discorso “assoluto” sul-la verità e l’errore: la logica apofantica è invece un discorso che tende a de-terminare le condizioni necessarie della verità o falsità formale dei signifi-cati; a essa corrisponde una disciplina formale che avrà un significato “ontologico”, che cioè “in generale”, sul piano morfologico-categoriale, indagherà le condizioni in cui si pone l’essere o il non essere delle cose in quanto “forme vuote”, nella loro molteplicità possibile.

Esiste tuttavia, a completare una “logica estetica” del vero e del falso, un terzo decorso od orizzonte discorsivo, veritativo anche se non si pone sul piano di un’apofantica formale: un orizzonte, appunto, all’interno del qua-le l’estetico fonda l’analitico, cioè il piano delle ontologie materiali, che si articola in quelle che notoriamente Husserl denomina regioni ontologiche. Queste distinzioni, che sono spesso rivestite da tradizioni storiche e da ap-parati tecnici, sono state tuttavia raggiunte e articolate a partire da un me-todo di “variazioni”, che mira a determinare la struttura di logica esperien-ziale – il suo logos estetico – implicata nelle relazioni visibile-invisibile che le immagini esibiscono. Immagini, dunque, che nel loro fungere moda-le attestano non solo che la realtà ontologica dell’immagine non è quella della mera apparenza, ma che anche esibiscono il senso della rappresenta-zione nell’articolarsi logico di una dottrina dell’esperienza, della sua ne-cessità causalistica come della sua possibilità motivazionale. Ciò significa che il senso ontologico dell’immagine non è all’interno di un discorso apo-fantico, né di una logica apofantica formale: “vero” e “falso” sono qui ter-

156 Errore

mini vuoti perché, per comprendere il fungere dell’immagine, la compre-senza nella sua verosimiglianza di possibile e necessario, bisogna porsi su un piano espressivo (cui la storia ha attribuito vari nomi: poetica, retorica, teoria dell’arte, ecc.), all’interno del quale domina quel gioco di rimandi tra possibile e necessario che si connette all’evidenza estetica della verosimi-glianza stessa. Verosimiglianza che, a sua volta, riconduce sul territorio fondativo delle ontologie materiali, cioè sul piano della variazione, della visibilità estetica della mimesis, dell’aisthesis, in cui l’immagine stessa è un nucleo essenziale da svolgere per comprendere gli strati complessi che costituiscono il “logos del mondo estetico”.

Logos che nell’immagine forse non si esaurisce, ma che mostra il senso di una logica materiale come apertura a una “critica dell’evidenza dell’e-sperienza” che si sviluppa in un metodo descrittivo, di analisi dei “riempi-menti intuitivi” delle verità formali. Verità formali che da un lato rivelano così i loro “limiti” e, dall’altro, quello che Husserl privilegia, si esibiscono come fondati nel contesto di una logica che non può essere “idealizzante”. Per cui, come la logica dell’immagine ha mostrato, quando si parla di apo-fantica e di logica formale, il presupposto di tali “discorsi” è la realtà este-tica, l’unità sensibile, il senso fungente dell’apprensione esperienziale del mondo in quanto luogo qualitativo dell’esibirsi del senso complesso dell’e-steticità e dei suoi modi rappresentativi, che fungono all’interno dell’ap-prensione stessa. La “critica” della rappresentazione non è elogio (formali-stico, spesso ingenuamente metafisico anche là dove intende “decostruire”) della “differenza” bensì, come già si è osservato, analisi delle “differenze” che si esibiscono, con il metodo della variazione eidetica, nell’unità dei processi esperienziali. È cioè ricerca genetica del senso estetico e precate-goriale dell’esperienza, delle sue “materiali” condizioni di possibilità. Tali condizioni “veritative”, di fronte alla varietà stratificata e motivazionale del senso delle immagini, non sono riempite dalla necessità formale del di-scorso apofantico o da un’ontologia “vuota”: il riempimento progressivo del loro senso precategoriale e intenzionalmente fungente introduce una lo-gica del “verosimile”, cioè della possibilità, dell’espressività, dell’affettivi-tà, cioè di tutti quegli elementi extra-rappresentazionali che sono nella re-altà estetico-sensibile dell’evidenza, dell’immagine e delle sue ontologie.

Questo significa – ed è ovvio – che l’immagine è una realtà estetica stra-tificata, intenzionalmente stratificata, definibile e descrivibile attraverso le sue stesse funzioni e qualità esibite, secondo discorsi costitutivi differen-ziati, che non si limitano a griglie formali e giudizi apofantici. Ma signifi-ca soprattutto che la verità non è (non è più, non è mai stata) una nozione unitaria dal momento che – di fronte al porsi qualitativo delle ontologie

157E. Franzini - L’errore dell’immaginazione

materiali – ha in sé il possibile e il necessario, il visibile e l’invisibile, il formalmente “vero” e il materialmente “verosimile”: la verità è un proces-so fungente, che si articola attraverso sintesi variate, attraverso differenti modi di relazione con l’evidenza, non solo giudicativi e rappresentaziona-li, e che sempre comunque procede dall’esperienza al giudizio, e non vice-versa (Piana 1979: 217).

Si sottolinea soltanto che avere derivato un discorso sulla verità da una logica dell’immagine non è stato un percorso casuale, bensì descrittivo. L’immagine è quel nucleo esperienziale che mette in evidenza, proprio con il metodo delle variazioni, i limiti di una logica formalmente unitaria della verità. Da un lato, infatti, suo tramite, tramite il senso estetico che esibisce, apre argomentazioni apofantiche, formali ed estetico-qualitative. Dall’al-tro, tuttavia, la descrizione della sua realtà estetico-esperienziale, mostran-do le stratificazioni presenti nella “verità” della rappresentazione stessa, e nelle sue qualità, intenzionalmente connessa al fungere dell’attività de-scrittiva, afferra attraverso i nuclei di possibilità, di “invisibile”, che sono negli spazi di “eccedenza” dei processi immaginativi, e nelle sospensioni metodologiche che essi comportano, il simbolo di un precategoriale che ha la sua ontologia estetica al di là dell’esteticità stessa dell’apparire, in un orizzonte di possibilità che, nel suo darsi necessario, apre il mondo del pos-sibile, quella logica fungente che, prendendo a prestito il termine aristote-lico, si è chiamata della verosimiglianza.

Bibliografia

ARISTOTELE1949 De interpretazione, L. Minio-Paluello (a c. di), Oxford.

BERNET R.- KERN I. - MARBACH E.1989 Husserl, Bologna 1992.

FRANZINI E.2002 Verità dell’immagine, Milano.

HUSSERL E.1900 Prolegomeni a una logica pura, in Id., Ricerche logiche, I, G. Piana

(a c. di), Milano, 1968.

158 Errore

1929 Logica formale e trascendentale, G.D. Neri (a c. di), Roma-Bari 1966.

PIANA G.1979 Elementi di una dottrina dell’esperienza, Milano.

TATARKIEWICZ W.1979 Storia dell’estetica, I, Torino.

159

L’ERRORE INTERNO AL METODO: UNO SCENARIO FENOMENOLOGICO

di Sara Fumagalli

1. Premessa: lo scenario fenomenologico

Per prima cosa, val la pena di chiarire meglio il titolo volutamente pro-vocatorio: L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico.

La fenomenologia è infatti una galassia molto ampia e vasta. Il suo fon-datore, il filosofo Edmund Husserl, ha gettato le basi programmatiche e metodologiche “pure” di tale scienza rigorosa. Riassumerò brevemente i punti cardine intorno ai quali ruota la fenomenologia per poter poi soffer-marmi sugli errori interni al metodo che emergono dal dialogo tra Eugen Fink, Jan Patočka e Ludwig Landgrebe, prevalentemente negli anni Tren-ta.

Il primo principio, che apre alla possibilità stessa del metodo fenomeno-logico, precede temporalmente Husserl. Bisogna, infatti, tornare indietro nel tempo sino al 1806 per trovare la prima formalizzazione del principio cardine della fenomenologia. È precisamente nella sua Metafisica che Her-bart afferma che ciò che appare contiene altrettante indicazioni all’essere: «[…] wie viel Schein, so viel Hindeutung aufs Seyn» (Herbart 1806: 187).

“Tanto apparire, quanto essere” è una premessa metodologica fonda-mentale per il percorso che il fenomenologo si accinge a fare. Il mondo-della-vita, la Lebenswelt, acquista il suo senso a partire dalla quotidianità: il solus-ipse epochizzato che conosce rigorosamente il suo corpo e il mon-do circostante concretamente, liberato dai pregiudizi, è garantito nella sua conoscenza dall’essere, per come leggiamo nel principio herbartiano.

Ci si trova quindi di fronte all’apertura delle cose del mondo, di fronte all’apparire.

Il passo ulteriore, compiuto dal secondo principio è anche quello che porta al cuore della fenomenologia husserliana. Sarà soprattutto questo a essere al centro dell’esposizione quale motivo di discussione, in particolar modo per Eugen Fink.

160 Errore

Ogni scienza che voglia definirsi rigorosa si basa su un metodo che, a sua volta, per delinearsi con i caratteri della certezza si fonda su dei princi-pi a priori – per usare il linguaggio kantiano – o assiomi – per usare il lin-guaggio matematico.

Husserl individua tale principio di tutti i principi, come egli stesso lo de-finisce, nel primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica:

Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci atteniamo al principio di tutti i principî: cioè che ogni intuizione originalmente offerente è una sor-gente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’«intu-izione» [Intuition] (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso di dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà. (Husserl 1913: 52-53)

Al principio di tutti i principi, segue logicamente il più famoso e critico motto della fenomenologia: Wir wollen auf die «Sachen selbst» zurückgehen.

Il famoso motto husserliano è contenuto nel primo volume delle Ricer-che logiche all’interno della sezione dedicata alle Ricerche sulla fenomeno-logia e sulla teoria della conoscenza.

Ancor prima di iniziare la vera e propria tematizzazione delle Ricerche logiche, Husserl precisa ancora una volta il compito dell’analisi fenomeno-logica che corrisponde, nelle sue intenzioni, a una teoria oggettiva della co-noscenza, riprendendo quello che era l’obiettivo di Kant nella sua Critica della ragion pura.

Il principium enunciato precedentemente ha esplicitato l’oggetto di una tale metodologia, ovvero i vissuti afferrabili e analizzabili nell’intuizione, ma è proprio nelle Ricerche logiche che il filosofo esprime con chiarezza l’obiettivo di una fenomenologia pura dei vissuti del pensiero e della cono-scenza: «proprio questa sfera deve essere oggetto di indagine approfondita al fine di una chiarificazione e di una elaborazione critico-conoscitiva pre-liminare della logica pura; e all’interno di questa sfera si muoveranno per-ciò le nostre ricerche» (Husserl 1900: 268).

Husserl sembra quindi alla ricerca della radice di quella clara et distin-cta perceptio di cui parlava Descartes nelle sue Meditationes de Prima Phi-losophia.

Dove e come trovarla? Tramite l’analisi fenomenologica, che lungi dall’accontentarsi di una comprensione simbolica delle parole o di intui-zioni lontane, confuse o indirette, vuole tornare alle cose stesse. Queste non sono altro che le intuizioni originariamente offerenti introdotte dal

161S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

principium e che nel contesto delle Ricerche logiche Husserl sviluppa e in-serisce propriamente all’interno della coscienza e conoscenza umana:

Vogliamo rendere evidente, sulla base di intuizioni pienamente sviluppate che proprio ciò che è dato nell’astrazione attualmente effettuata è veramente e realmente corrispondente al significato delle parole nell’espressione della leg-ge; e, dal punto di vista della praxis della conoscenza, vogliamo suscitare in noi la capacità di mantenere i significati nella loro irremovibile identità, mediante una verifica, sufficientemente ripetuta, sulla base dell’intuizione riproducibile (oppure dell’effettuazione intuitiva dell’astrazione) (ivi: 271-272).

Si noti in questo passo la presenza di alcuni attributi fondamentali dell’intuizione che delineano i caratteri della cosa stessa fenomenologica: la sua corrispondenza teorica e la sua ripetitività e riproducibilità pratica. Due caratteristiche irrinunciabili per una vera e propria teoria oggettiva della conoscenza. Ma lo stesso Husserl era consapevole delle difficoltà in-trinseche al suo proposito fenomenologico e si poneva già gli interrogativi che fanno da sottofondo costante al suo motto. Sempre nelle Ricerche logi-che, infatti, si legge (quanto segue):

[…] in che modo dobbiamo intendere il fatto che l’«in sé» dell’obbiettività giunge a “rappresentazione”, anzi ad “apprensione” nella conoscenza, ridiven-tando così soggettivo; che cosa significa che l’oggetto sia “dato in sé” e nella conoscenza; come può l’idealità del generale, in quanto concetto o legge, pre-sentarsi nel flusso dei vissuti psichici reali e diventare possesso conoscitivo del soggetto pensante; che cosa significa, in rapporto alla conoscenza, l’adaequa-tio rei ac intellectus, nei casi diversi, quando l’apprendere conoscitivo concer-ne qualcosa di individuale oppure di generale, un fatto o una legge, ecc. (ivi: 273-274).

Zu den Sachen selbst! Che questo enunciato non rievochi alla mente la bi-centenaria questione aperta da Kant e dibattuta poi da tutta la filosofia occidentale della cosa in sé è difficile da immaginare. Occorre un grande sforzo per credere ancora all’esistenza di una cosa in sé da noi percepita; precisamente la cosa stessa husserliana. Ma è questo il punto debole che tutti i filosofi da Hegel in poi hanno tentato di superare: il dualismo kantia-no. Sembra che l’uomo complichi le cose che stesse lo sono tranquillamen-te ed unicamente in sé stesse, verrebbe da dire con un gioco di parole.

Per quanto sembri logicamente indiscutibile, sul piano dell’atteggiamento conoscitivo umano fenomenologicamente atteggiato, pervenire alla cosa stessa, il semplice enunciato: «Wir wollen auf die “Sachen selbst” zurück-gehen» più che una contraddizione o, come si direbbe in questo contesto,

162 Errore

un errore contiene un’incongruenza terminologica dovuta alla commistio-ne di mondi estranei tra loro: l’uomo con i suoi correlati percettivi e cogni-tivi, e l’oggetto che si vuole esperire.

E così Husserl incappa nell’irrisolta dicotomia soggetto-oggetto denun-ciandone le problematiche, così come le abbiamo individuate nei passi ci-tati delle Ricerche logiche, e proponendo con la sua fenomenologia tras-cendentale una metodologia di risoluzione dell’antinomia. Non è intenzione del presente saggio porre al vaglio critico il metodo fenomeno-logico per saggiarne il grado di validità. Quel che tento di delineare, se-guendo il filo rosso della discussione teoretica e vitale sulla fenomenologia che hanno condotto Eugen Fink, Jan Patočka e Ludwig Landgrebe, è piut-tosto mostrare come il senso di tale metodologia possa sopravvivere negli anni Trenta e oltre.

Scopriremo che sotto l’errore, inteso come limite da superare, contrad-dizione da incarnare e aporia vitale, si cela tale possibilità.

2. Il contesto: l’errore storico/umano

È prima di tutto la storia che mostra come da idee contrastanti e dalle contraddizioni possa scaturire qualcosa di nuovo che rappresenta sempre uno stimolo. Alla crisi, della quale Husserl parlava nel suo famoso scritto del 1936, faceva eco la grande depressione economica mondiale.

La disoccupazione dilagante, l‘iperinflazione in Germania spingevano strati sempre più vasti della popolazione verso soluzioni estreme e ritenute catartiche. Fascismo e nazismo da una parte, comunismo dall’altra sembra-vano più vitali e vincenti delle deboli democrazie continentali, affascinava-no piccolo-borghesi e intellettuali. Si combattevano sanguinosamente nel-la guerra civile spagnola, che anticipava, con il bombardamento di Guernica per esempio, gli orrori della seconda guerra mondiale. La Krisis di Husserl fornisce un utile strumento di psicanalisi della storia, non a caso è stato il suo scritto più contestato a posteriori e ancora oggi.

L’importanza di quest’opera sta già solo nell’aver fatto sospettare uno “sdoppiamento” del filosofo Husserl, rimettendo in discussione, sempre e di nuovo, la fenomenologia. Si può andare oltre, e rendere un merito mag-giore a questa grande metodologia universale di conoscenza analizzando tutte le sue componenti senza focalizzarsi solo su una di queste. Certo, il compito sembra molto arduo man mano che si aggiungono livelli inclusivi fino a comprendere l’umanità tutta. Ma questa difficoltà non rende meno desiderabile l’intento più nobile della fenomenologia: percorrere il cammi-

163S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

no con tutti gli orizzonti di senso che si pongono davanti all’uomo e che lo comprendono all’interno della compagine storica e intersoggettiva nella quale si trova a vivere. Ludwig Landgrebe, Eugen Fink e Jan Patočka non si sono tirati indietro. Non hanno abbandonato la fenomenologia a se stes-sa, relegandola per sempre ad Edmund Husserl e al suo percorso di pensie-ro e di vita.

Al contrario, i tre filosofi – proprio negli anni Trenta – hanno discusso sui principi della fenomenologia, i suoi punti critici e i suoi limiti per cer-care di superarli. E lo hanno fatto ognuno a modo suo, con una costante che emerge particolarmente bene nelle pagine delle loro corrispondenze: porta-re il metodo fenomenologico nelle loro vite. Un tentativo di vivere appie-no la filosofia che in particolar modo Jan Patočka incarna alla perfezione.

3. L’errore interno al metodo

Il volume Briefe und Dokumente, edito dalla Karl Alber Verlag nel 1999, raccoglie tutti i documenti che i filosofi Eugen Fink e Jan Patočka si sono scambiati nell’arco di quarant’anni. La corrispondenza si è fermata solo negli anni della guerra (1940-1945), ed è ripresa subito dopo a testimonian-za di un interesse filosofico costante e di una genuina amicizia tra i due pensatori. L’importanza di questo carteggio è data, però, dal motivo origi-nario della loro corrispondenza: i problemi della fenomenologia. È infatti un interesse puramente filosofico quello che spinge Fink e Patočka a rima-nere in contatto. E, quando nell’aprile del 1938 Husserl morì, i due pensa-tori sentirono l’esigenza, l’uno a Friburgo e l’altro a Praga di ricordare il maestro non solo per il rapporto che era riuscito a creare con i suoi allievi, ma soprattutto per le prospettive che il suo metodo aveva aperto loro.

Il contesto storico ha giocato un ruolo importante anche nel pensiero dei due filosofi e quello che ha rappresentato in termini personali ed esistenzia-li è testimoniato dalla biografia del filosofo ceco. Certo è che, inevitabil-mente, la fine della guerra porta Patočka e Fink a nuove posizioni filosofi-che che in entrambi i casi non possono più essere apolitiche e scollegate dalla storia e dall’esistenza di ognuno, come prima lo era la pura ricerca fe-nomenologica. Sullo sfondo dei loro scambi epistolari e scritti c’era negli ultimi anni una nuova lettura di Husserl che li porta a riconoscere la stori-cità della filosofia.

Nel tessere le trame di questo ricco intreccio filosofico è difficile distin-guere quanto il pensiero di Fink, incentrato sulla concezione del mondo, e quello di Patočka, che ruota intorno alla storia e all’idea di movimento, si-

164 Errore

ano generati dalla lezione filosofica husserliana o se, viceversa, da una loro esplicita presa di distanza dalla fenomenologia. Resta però che uno dei nodi problematici sul quale si confrontano gli allievi di Husserl è la ridu-zione fenomenologica. Secondo Fink, infatti, l’intero percorso tracciato dal maestro si può comprendere solo a partire dalla riduzione fenomenologica e da come essa viene intesa.

Dalla tematizzazione che il filosofo fornisce di questo cruciale concetto nell’articolo Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik del 1933, emerge chiaramente la novità della feno-menologia come apertura verso orizzonti implicitamente presenti nel pen-siero di Husserl, ma non ancora teoreticamente indagati nella loro profon-dità. È lo stesso fondatore della fenomenologia che scrive la premessa all’articolo del ’33 uscito sulla rivista Kant-Studien.

Il saggio ha un obiettivo difensivo: negli anni Trenta erano infatti fre-quenti gli attacchi che, in particolar modo i criticisti, muovevano alla feno-menologia. Husserl non ha mai risposto direttamente, è rimasto in silenzio, perché, a suo parere, le obiezioni, mancavano così profondamente il moti-vo centrale della fenomenologia che veniva proprio a mancare la “materia del contendere”. Lascia quindi a Fink, l’allievo d’eccezione che Husserl ha seguito sin dall’inizio del suo percorso accademico, il compito di chiarire i fraintendimenti principali. Sempre nella premessa del fenomenologo si può leggere che non c’è in quell’articolo alcuna frase che lo stesso Husserl non approvi integralmente o che non rifletta il suo pensiero. Per quello che è il contenuto teoreticamente forte del saggio, la premessa riveste un ruolo ancora più significativo.

In generale, si può dire che il testo vuole essere una replica al criticismo di Rickert e alla sua scuola, in particolare in riferimento a due testi: Hus-serls Phänomenologie und Schuppes Logik, Ein Beitrag zur Kritik des in-tuitionistischen Ontologismus in der Immanenzidee (1932) di Rudolf Zo-cher e Phänomenologie und Kritizismus (1930) di Friedrich Kreis.

Il giudizio complessivo del criticismo sulla fenomenologia è che questa può avere una relativa e limitata ragione come scienza pre-filosofica delle datità immediate. È una valutazione che, secondo Fink, si basa su un pre-giudizio di fondo: la fenomenologia viene considerata come filosofia dog-matica e non-scientifica, e ciò significa il rifiuto critico del metodo feno-menologico. Il pregiudizio in sintesi sta proprio nel non riconoscere la riduzione fenomenologica come metodo principale della filosofia di Hus-serl.

La riduzione è la via che porta la conoscenza dal pensiero pre-filosofico al campo “tematico” della filosofia, fino all’ingresso alla soggettività tra-

165S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

scendentale. L’obiezione dei criticisti si riferisce sia al periodo precedente alla scoperta della riduzione fenomenologica –Ricerche logiche – sia a quello posteriore, dalle Idee per una fenomenologia pura e per una filoso-fia fenomenologica. Si possono individuare due principali forme di critici-smo riguardo alla fenomenologia. La prima è l’intuizionismo, ovvero uno scorretto ampliamento del concetto di “Anschauung”. Si opera, quindi, una duplice interpretazione intuizionista: una generale che riguarda la cono-scenza in sé; e una particolare nei confronti della conoscenza filosofica. Qualunque sia la versione di intuizionismo scelta, la conseguenza è che la fenomenologia è interpretata come dogmatica, come un pensiero che rima-ne a livello dell’autodatità dell’oggetto dell’esperienza che si formalizza nell’“evidenza“, senza interrogarsi su questa autodatità, senza quindi porsi il problema dell’esperienza e, conseguentemente, dell’obiettività.

La seconda è il criticismo che considera la fenomenologia come ontolo-gica. L‘ontologismo, in questa accezione, significa l’ingiustificato restrin-gimento della tematica della conoscenza a essente. Con questi presupposti si fraintendono i motivi principali della fenomenologia, riducendola a un mero fermarsi alla datità degli oggetti, senza analizzare le condizioni di possibilità del darsi delle cose. Per questo – filosoficamente parlando – la fenomenologia fa, secondo i criticisti, di necessità virtù con il suo motto che fornisce la soluzione programmatica: Zu den Sachen selbst!

Il principio viene dai criticisti inteso come rinuncia alla comprensione filosofica. La fenomenologia non sarebbe altro, quindi, che una descrizio-ne analitica che prende il dato come si presenta. La parte principale delle obiezioni è rivolta soprattutto alle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica che aprono la cosiddetta “seconda fase” del pensiero husserliano. Secondo Fink, è solo dalle Idee che si può compren-dere l’intenzione vitale e la direzione filosofica delle Ricerche logiche. Elemento che sottolinea l‘unità del percorso concettuale husserliano e la relativa impossibilità di considerare i due testi come separati.

A questo punto l’argomentazione di Fink entra nel vivo proprio rispon-dendo ai due diversi criticismi alla maniera che segue: la critica all’intui-zionismo di Husserl non trova riscontri nelle Ricerche logiche. Non si trat-ta, infatti, di un primato della visione come capacità della conoscenza ma del primato dell’evidenza di ogni conoscenza, contro al mero riempimento signitivo di conoscenza.

La conoscenza è ovunque, è per tutti i modi di autodatità evidente nelle sue cose che concepisce e possiede come “loro stesse”. La critica è, quin-di, cieca davanti a questa assoluta novità della lezione husserliana come primo chiarimento illuminato della natura intenzionale dell’evidenza. Vi è

166 Errore

poi un grande fraintendimento nei riguardi delle visioni d’essenza (We-sensschau), interpretate come una sorta di atto mistico, come visione dell’immateriale o, ancora, come intuizione ricettiva. Viceversa, l’eidos è un correlato di un’operazione di pensiero, una spontaneità intellettiva. In secondo luogo, l’accezione critica che vede la lezione fenomenologica dell’eidos ricadere nell’ontologismo parte dalla differenza tra essente (Se-ienden) e valido (Geltenden): nelle Ricerche logiche i due concetti non sono separati e questo presta il fianco alla critica.

L’ampia estensione del concetto di essente però non è indice di alcuna tesi dottrinaria che considera il reale e l’ideale come essenti omogenei, ma lascia aperta la possibilità di porre la questione ontologica di differenti mo-dalità dell’essere e del reale.

L’idealismo critico è un idealismo della costituzione che supera il dog-matismo dell’ingenuità attraverso il collegamento della realtà ad una co-scienza teoretica. Questa coscienza non è in alcun caso un essente, ma una forma pura di coscienza assoluta e come tale è il presupposto di tutti gli es-senti.

Fink riserva, poi, una riflessione sull’esito della tesi criticista sulla feno-menologia. I criticisti ritengono che il decisivo allontanamento della feno-menologia dal criticismo, con il quale tuttavia condivide il problema e la direzione risolutiva, è da vedere nella conseguenza del suo carattere meto-dico intuizionistico e ontologico che non chiarisce l’essente col ritorno ai suoi presupposti trascendentali – come invece fa il criticismo –, ma chiari-sce l’essente attraverso l’essente. La significativa risposta di Fink alla tesi dei criticisti merita di essere riportata direttamente: «La fenomenologia non si può affatto allontanare dal criticismo, perché non è mai stata presso di lui»1. La differenza tra fenomenologia e criticismo si basa su problemi di fondo che separano sul nascere i due pensieri, si tratta per così dire di una “differenza ontologica”. La filosofia critica pone le sue problematiche sul terreno del mondo, rivestendo quindi un carattere mondano, e la sua inter-pretazione rimane all’interno del mondo stesso (Weltimmanent). Invece, la domanda principale e fondativa della fenomenologia è sull’origine del mondo. La negazione della metafisica dogmatica è il primo compito della costruzione filosofica. La critica è arrivata fino a negare la possibilità di una conoscenza del mondo riguardo al fondamento trascendente dello stes-so mondo.

1 «Die Phänomenologie kann sich gar nicht vom Kritizismus entfernen, weil sie nie bei ihm war» (Fink 1933: 99). Traduzione italiana dell’autrice.

167S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

Il problema della filosofia è presentato, in base a questa concezione, o dal punto di vista della conoscenza dell’essere intramondano, o nella forma ingenua positivistica del fissare un essente o, ancora, alla maniera di un ri-torno ai presupposti a priori dell’essente. Ma prima del problema dell’esse-re nell’origine della sua costituzione stessa, della sua fatticità, resta da ca-pire cosa è l’essere.

La problematica del criticismo sta nell’interpretazione del senso dell’es-sere e risponde attraverso un riempimento costruttivo dei presupposti di senso trascendentali – la fondazione della sfera di senso –, ma non si pone l’origine come problema teoretico.

La fenomenologia, invece, vede il suo decisivo motivo di fondo nella domanda sull’origine del mondo (Weltursprung), liberata da tutte le conce-zioni ingenue e pre-critiche dell’essere grazie alla riduzione. Se la metafi-sica dogmatica ha il suo motivo di fondo nell’origine dell’essente, la feno-menologia, al contrario, si interroga sull’origine del mondo. La fenomenologia pone la domanda di unità di essente e forma del mondo; usando la terminologia cara al critico Zocher: mette in questione l’insieme di fondato e sfera fondativa.

La filosofia critica, invece, si presenta come un chiarimento dell’intra-mondano attraverso la forma del mondo: in questo sta la “chiusura” di tale pensiero. Quel che si nota, invece, nelle trame complesse dell’affranca-mento della fenomenologia dalla critica che attua Fink, è una vera e propria apertura fenomenologica, anche attraverso il recupero integrativo della metafisica non dogmatica quando ci si interroga sull’origine del mondo.

Quest’ultimo è un elemento che accomuna sia Fink che Patočka, il qua-le scriverà una recensione proprio a questo articolo di Fink, dichiarandosi perfettamente in linea con le sue tesi. Negli scritti che Patočka indirizza all’amico Fink sono presenti esternazioni di gratitudine personale per gli anni passati a Friburgo, ma anche e soprattutto per l’esempio di filosofo che lui rappresenta ai suoi occhi. Con le sue parole: «I filosofi che, come te, fermamente e senza guardare a destra e sinistra, fanno la propria parte senza aspettarsi nessuna forma di compenso, rimangono fedeli alla cosa stessa»2. Il rapporto tra Fink e Patočka, che ha il suo punto di incontro nel comune passato fenomenologico, si obiettiva quindi nell’orizzonte di ogni esperienza fenomenologica.

2 «Der Philosophen, die, wie Du, unentwegt und ohne nach rechts und links zu schauen, das Ihrige tun und ohne auf Lohn in welcher Gestalt auch immer zu warten, der Sache selbst treu bleiben» (Patočka 1970: 75). Traduzione italiana a cura dell’autrice.

168 Errore

Molti elementi che caratterizzano la corrispondenza tra Fink e Patočka si ritrovano anche nelle lettere che il filosofo ceco e Landgrebe si scambia-no tra gli anni Quaranta e Settanta3.

A cominciare dallo stretto rapporto che lega le due famiglie, testimonia-to da un interscambio epistolare, minore ma presente, tra Helena Patočka e Ilse Landgrebe. La vena nostalgica di Patočka emerge già dalle prime righe che indirizza all’amico Landgrebe, ed è rivolta soprattutto al periodo fri-burghese che lo accompagna nei ricordi per tutta la sua vita. In aggiunta, si trova spesso nelle lettere del filosofo ceco l’esprimere apertamente e con molto trasporto la situazione critica, limitante e precaria, della sua libertà che spesse volte gli impedisce di dedicarsi alla filosofia. La sua modestia è spiazzante, molte volte chiede a Landgrebe di aiutarlo a capire perché or-mai lui si sente un “dilettante della filosofia”. Sono soprattutto gli anni Set-tanta quelli che lo vedono maggiormente vittima del totalitarismo comuni-sta, che gli impedisce di insegnare – attività alla quale lui teneva molto – e lo obbliga a ridurre al minimo le sue pubblicazioni.

Ma è sempre la motivazione filosofica quella che spinge Patočka a con-fidare a Landgrebe, come aveva fatto anche nel carteggio con Fink, la sua crisi filosofica che non si può scindere da quella responsabilità storico-esi-stenziale che egli sente e vive profondamente.

Nel 1944 scrive all’amico filosofo:

Anche io ho una crisi filosofica da superare e non sono per niente pronto; anche io voglio presentare la soluzione di questo compito con la terminologia husserliana, cosa che non sono mai riuscito a fare per tali questioni, ma che è l’unico linguaggio che filosoficamente grossomodo comprendo.4

Già da queste righe emerge la necessità di tradurre in termini fenomeno-logici la situazione storico-esistenziale che si trova a vivere: non escluder-la o isolarla, ma renderla filosofica e vitale. Si può parlare, nel caso di Patočka, di una contaminazione teoretica universale che riunisce i diversi

3 Tale corrispondenza è consultabile all’Archivio Jan Patočka di Praga, non essendo ancora stata pubblicata. Per la mia ricerca di dottorato ho avuto modo di consultare tali manoscritti e l’autorizzazione di citarli a fini di ricerca e divulgazione scientifica. Mi sia permesso di ringraziare qui il Professor Ivan Chvatík, direttore dell’Archivio, per la gentile concessione.

4 «Auch ich habe eine philosophische Krisis zu überwinden und bin gar nicht fertig damit; auch ich bin darauf angewiesen, die Lösung, dieser Aufgabe in der Husserlschen Terminologie durchzuführen, welche für derartige Dinge keineswegs geschaffen, aber die einzige Sprache ist, die ich philosophisch einigermaßen verstehe» (Patočka 1944). Traduzione italiana a cura dell’autrice.

169S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

piani dell’esistenza la quale coglie a pieno il significato del vivere il desti-no di un’esistenza filosofica di cui parlava Husserl nella Krisis. Il filosofo ceco, sottolinea anche l’importanza per la filosofia di riferirsi alla natura e alla scienza della natura, senza la quale rimarrebbe incompleta proprio in quanto scienza assoluta. Altra costante che emerge nei due carteggi presi in esame è l’interpretazione della riduzione fenomenologica.

Sempre nel 1944 Patočka ci fornisce la sua lettura in proposito: «[…] in breve, io intendo le capacità costitutive non come date nella semplice ri-flessione oggettiva, ma attraverso la riflessione sulla piena libertà della cre-scente autoconoscenza ottenuta dall’interpretazione del proprio contatto con l’essente estraneo. […] il fondamento di ogni scienza obiettiva risiede nella prova di sé dell’assoluto nel senso di libero»5. È in questo passaggio che Patočka riserva una critica all’amico Landgrebe, quando sostiene che l’autoesplicazione dell’assoluto – punto su cui Landgrebe insisterà nel suo percorso teoretico – incontra solo il livello della libertà, ma la garanzia ul-tima non risiede nell’assoluto stesso.

Particolarmente importante è ciò che Patočka scrive all’amico filosofo nel 1976 che si può considerare come una sintesi del suo percorso teoreti-co come revisione della fenomenologia heideggeriana e husserliana:

Il risultato dell’Epoché è anche per Husserl un’ontologia, naturalmente non sistematica e senza una chiara visione nella differenza. […] In questo principio si deve già, credo, considerare l’introduzione dei “limiti della riflessione”, in quanto la fenomenologia non è primariamente una scienza, ma un metodo dell’ontologia, quindi la fenomenologia come analitica dell’esserci non può es-sere una scienza della riflessione, ma ancora una “ontologia fondamentale” e procedere, quindi, ermeneuticamente.6

5 «[...] kurz, ich verstehe die konstitutiven Leistungen nicht als in schlicht-gegenständlicher Reflexion gegebene, sondern als eine durch das in der Reduktion zur vollständigen Freiheit gesteigerte Selbstverständnis gewonnene Deutung des eigenen Kontakts mit fremden Seienden. [...] die Grundlage jeder objektiven Wissenschaft abgibt – ist sie ein Selbsterweis des Absoluten im Sinne des Freien» (ivi). Traduzione italiana a cura dell’autrice.

6 «Das Ergebnis des Epoché ist auch bei Husserl eine Ontologie, freilich eine unsystematische, und ohne klare Einsicht in die Differenz. [...] In diesem Anfang muß man schon, glaube ich, vielleicht die Einführung der „Grenzeder Reflexion“ in Betracht ziehen, dem ist Phänomenologie nicht primär eine Wissenschaft, sondern Methode der Ontologie, dann kann Phänomenologie als Daseinsanalyse keine reine Reflexionswissenschaft sein, sondern selbst wieder aus eine “Fundamentalontologie” und daher hermeneutisch vorgehen» (Patočka 1976). Traduzione italiana a cura dell’autrice.

170 Errore

Questo è un passaggio fondamentale che indica la direzione comune del progetto fenomenologico di Patočka, Landgrebe e Fink.

All’interno della corrispondenza tra Patočka e Landgrebe ritorna spesso la mancanza di un genuino confronto filosofico che possa attuarsi nella loro rispettiva cerchia di contatti. Da qui l’esigenza ancora più sentita di porsi domande a vicenda sullo sviluppo della fenomenologia. Scorrendo le lettere che Landgrebe indirizza a Patočka, si nota come alcune siano delle risposte a dei quesiti sollevati dall’amico o dei veri e propri tentativi di ra-gionare ad alta voce su dei concetti. Lo stile dell’epistolario, del resto, ha sicuramente il vantaggio di rendere in maniera più autentica il pensiero de-gli autori. È forse anche per questa estrema libertà di espressione che i due filosofi non hanno remore nell’esprimere critiche al loro tempo: la filoso-fia rinuncia a dare qualsiasi fondamento, dimostrando debolezza e man-canza di coraggio. L’accusa diretta di Landgrebe è quella di far spesso e vo-lentieri sfoggio della parola Lebenswelt senza una visione sistematica del luogo e dell’insieme di questo concetto.

Il suo intento è quello di trovare una via per l’interpretazione del pro-gramma di Husserl come Ontologie der Lebenswelt e la correlata necessità dell’approdo nella riflessione trascendentale e fenomenologica per risolve-re i “paradossi” sviluppati da Husserl, mostrandone le aporie.

Il progetto landgrebiano, di cui si fa breve cenno nella corrispondenza ma che si ritrova densamente in tutti i suoi testi a cominciare dalla sua tesi di abilitazione degli anni Trenta – Der Begriff des Erlebens: Ein Beitrag zur Kritik unseres Selbstverständnisses und zum Problem der seelischen Ganzheit (1929-1932) – applica in maniera funzionale la dialettica hegelia-na alla fenomenologia: è un tentativo di ermeneutica filosofica che ha l’ambizione e il coraggio quasi “sacrilego” per qualcuno, ma vitale per al-tri, di far progredire la fenomenologia dai suoi stessi “errori”. Questo tipo di riflessione è portata avanti anche da Claesges attraverso la duplicità che egli riscontra nel concetto di mondo della vita. La fenomenologia genetica deve quindi essere intesa come storia trascendentale dell’esperienza della coscienza e deve essere chiarito il suo rapporto con la storia empirico-fat-tiva.

4. Conclusione: il progresso della conoscenza fenomenologica

Le vite e le sensibilità fenomenologiche di Landgrebe, Fink e Patočka si muovono, su questo solco, in un contesto storico difficile e contrastato che ha giocato un ruolo fondamentale: dover sopravvivere fenomenologica-

171S. Fumagalli - L’errore interno al metodo: uno scenario fenomenologico

mente. Sono andati oltre Husserl, ma con Husserl e lo hanno fatto autenti-camente. E, chissà, forse anche loro avrebbero risposto alla domanda: «A che cosa lavora?» alla maniera del signor Keuner di Brecht: «Sto fatican-do: preparo il mio prossimo errore» (Brecht 1948: 14).

Bibliografia

HERBART J.F.1806 Hauptpunkte der Metaphysik, in Id., Sämtliche Werke, In chronologi-

scher Reihenfolge, K. Kehrbach (a c. di), II, Langensalza 1887.

HUSSERL E.1913 Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica,

I, trad. V. Costa, Torino 2002.

1900 Ricerche logiche, I, trad. G. Piana, Milano 2005.

FINK E. - PATOČKA J.1933-1977 Briefe und Dokumente, M. Heitz u. B. Nessler (a c. di), Mün-

chen 1999.

PATOČKA J. - LANDGREBE L.1940-1976 Corrispondenza non pubblicata. Manoscritti consultabili

all’Archivio Jan Patočka di Praga, riportati sotto gentile concessione del direttore Prof. Ivan Chvatík.

BRECHT B.1948 Storie del Signor Keuner, trad. C. Cases - E. Ganni, Torino 2008.

173

PSICOLOGISMO, RIDUZIONISMO, INTROIETTIVISMO.

LA NUOVA FENOMENOLOGIA E GLI ERRORI DELLA STORIA DELLO SPIRITO

di Tonino Griffero

1. Le storie di un errore: un riflesso condizionato?

«Non c’è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare […]. Non essere mai avari nelle cancellature […]. Nul-la va ritenuto degno di esistere perché c’è già» (Adorno 1951: 91). Se questo valesse non solo per la scrittura, come in questo caso, ma anche per la storia delle idee, dovremmo considerare del tutto legittimo non solo mettere ordine nel pensiero filosofico occidentale, riducendolo a pochi motivi essenziali pur di evitarne la complessità e caoticità a prima vista sconcertanti – quasi un ri-flesso condizionato, nella tradizione, a partire dalla breve e tutt’altro che obiettiva storia della filosofia offerta già da Aristotele nel primo libro della Metafisica – ma anche segnalarne gli errori e i vicoli ciechi. E accogliere quindi acriticamente la tendenza assai comune nel filosofo, soprattutto mo-derno, a giustificare la propria prospettiva ritenendosi il primo a essere con-sapevole di un certo errore capitale, solitamente collocato se non all’inizio quanto meno in un periodo piuttosto arcaico e che per questo fungerebbe un po’ da imprinting dell’intera cultura successiva, ma anche il primo in grado di escuterne i testimoni e di avere gli strumenti per aggirarlo o quanto meno prenderne le distanze. C’è nel vedere nella storia del pensiero il successo di una profonda falsità (Sloterdijk 2009: 125, n. 2) solo l’imbarazzo della scel-ta: dal dogmatismo della Scolastica (Descartes) alla prospettiva tolemaica perché pre-trascendentale (Kant), dall’oblio dell’essere (Heidegger) alla vit-toria dello spirito sull’anima (Klages), dall’assassinio platonico-cristiano del tragico (Nietzsche) alla quantificazione riduzionistica dei plena (Husserl), dalla distruttiva logica dell’identità (Adorno) all’antropocentrismo masche-rato (Feuerbach), fin all’oblio della struttura in favore di sovrastrutture sup-poste autonome (Marx). E così via.

Posto che spiegare la storia del pensiero come conseguenza di un errore non sia solo una forma di paranoia, a cui la accomunerebbe anche la ten-

174 Errore

denza autotropica, ossia la capacità di autoalimentarsi perfino con le prove contrarie, a tal punto che l’illuminazione interpretativa e demistificante po-trebbe non essere meno delirante dell’errore che intende scongiurare1, è e non può non essere problematico capire che cosa voglia dire individuare e stigmatizzare un errore. Intanto perché, per individuare un errore, occorre presupporre il possesso di una verità, quanto meno locale. E poi perché, per individuarlo nel passato, occorre potersi considerare collocati su un livello cognitivamente più progredito, fosse anche solo per risalire a una verità an-teriore all’errore e alla quale – resta solitamente inspiegato come (a mag-gior ragione entro una concezione lineare della storia) ‒ sarebbe possibile ritornare. E questo senza contare il rischio di presentarsi automaticamente come un laudator temporis acti. Per individuare un errore tanto pervasivo da derivarne la storia intera e la stessa forma mentis che ci guida (o, più de-bolmente, nella quale “abitiamo”), occorrerebbe inoltre potersi ritenere esenti da tale influenza, cioè in grado, revocando l’irreversibilità del decor-so temporale, di mettere tra parentesi quella stessa forma mentis che, per quanto condizionata dall’errore, è però al tempo stesso necessariamente – e misteriosamente – la condizione di possibilità della scoperta dell’errore. E qui la difficoltà è di principio: come e perché una metafisica errata per-vasivamente influente fornirebbe ai suoi componenti, fosse pure a una loro élite, la capacità di disvelarne l’erroneità? E perché mai proprio il filosofo, in tal senso quasi una riedizione del medico trascendentale à la Novalis, sa-rebbe in grado di diagnosticare la malattia che affligge la storia della civil-tà e di prescriverle la giusta terapia (ancorché spesso circoscritta, ovvia-mente, al piano profetico del dover-essere)?

Poi vi è un’ulteriore difficoltà, che concerne le analogie o differenze che intercorrono tra la storia della filosofia e quella della scienza. Spiegare la sto-ria del pensiero o comunque sue vaste sezioni come errori non presuppone forse che in filosofia come nelle scienze empiriche vi sia un progresso e che, a differenza di quanto accade in un sistema di common law, non vi siano pre-cedenti vincolanti? Ossia2, non presupporre più in dettaglio, a) che, lungi dal ritenersi inferiori ai grandi filosofi del passato, si possa tranquillamente asse-rire di aver confutato e superato ad esempio Aristotele, che in altri termini ci si possa non considerare colleghi di chi crede nel motore immobile, così come l’astrofisico non riterrebbe suo collega chi oggi difendesse l’opinione

1 Caratterizzata cioè dalla «stessa qualità della rivelazione religiosa. E la verità rivelata di una religione non si può modificare, perché la sua modifica non sarebbe correzione ma eresia» (Zoia 2011: 31).

2 Per qualche spunto cfr. Ernst (2013).

175T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

di Tolomeo? E quindi b) non presupporre che anche in filosofia il sapere sia cumulativo, ragion per cui varrebbe la pena di discutere solo le teorie più re-centi e di considerare automaticamente inadeguate quelle più lontane nel tempo? Infine, c) non presupporre che ci si debba confrontare solo sincroni-camente coi problemi della filosofia del passato, senza lasciarli ai dossogra-fi, ma valutando così schiettamente e con deliberato anacronismo l’insuffi-cienza (o quanto meno la relatività) delle sue rappresentazioni? Si tratta per noi di argomenti improbabili e non all’altezza di una concezione della filoso-fia non come riflessione epistemologica o linguistica sulle scienze naturali (in questo caso sì soggetta al medesimo progresso dei suoi temi) ma come in-dagine concettuale-apriori di dilemmi fondamentalmente senza tempo e luo-go (ma così si fa della filosofia un genere naturale) ed essenzialmente irrisol-vibili, e quindi non all’altezza di una filosofia per principio estranea alla cumulatività delle nozioni empiriche. Una filosofia che ragionerebbe così come nel campo dell’arte, dove infatti un musicista non potrebbe dire impu-nemente di essere migliore di Mozart, ma tutt’al più offrire una diversa solu-zione dei “medesimi” problemi. Eppure, come giustificare lo scrivere anco-ra di filosofia dopo Platone, se non si presupponesse comunque la possibilità di un qualche progresso? Forse ammettendo in filosofia dei progressi solo lo-cali, tali per cui entro un certo “paradigma” sarebbe perfettamente legittimo per un filosofo sostenere di aver risolto gli errori di un filosofo precedente? Per quanto verosimile, si tratta di una soluzione molto parziale, non valendo affatto per le tutt’altro che locali (e proprio perciò più suggestive) ricostru-zioni della storia della metafisica come errore. E che poi dimentica che ogni rettifica comporta inevitabilmente guadagni ma anche perdite, donde il fatto che perfino il ricorrente appello a “ritornare”a qualche prospettiva preceden-te si giustifica a sua volta come un progresso.

2. Una (non) felix culpa: il paradigma psicologistico-riduzionistico-in-troiettivistico.

Ma anziché addurre ulteriori problemi e argomentazioni, vogliamo qui presentare con qualche dettaglio una recente e non notissima prospettiva fi-losofica, costruita appunto anche sulla (presunta) individuazione di errori nel lontano passato. Si tratta della Nuova Fenomenologia proposta da Her-mann Schmitz (cfr. Griffero 2011), nella sua fondazione storico-filosofica non così archeologica da limitarsi a interpretare i filosofi del passato per fare sembrare meno stupide le loro teorie, ma anche non così anacronistica da sfuggire alla sfida dell’acribia filologica e della contestualizzazione sto-

176 Errore

rica. Certo, qui il vincolo richiesto dalla ricostruzione storico-contestuali-stica ‒ non descrivere una visione del mondo del passato secondo criteri in-disponibili all’autore del passato ‒ ovviamente viene meno, nel senso che, com’è perfettamente legittimo presentare Colombo come lo scopritore (in-consapevole) dell’America e non del Cathay, così lo è ‒ ecco il senso delle “ricostruzioni razionali” (Rorty 1984: 231)3 ‒ presentare Platone non nei suoi termini, ma come il sistematizzatore del dualismo psicosomatico (an-che se sarebbe assurdo dire che “intendeva” fare questo!). E quindi in un certo senso conversare con lui non tanto sui suoi problemi e sulle loro so-luzioni, quanto sugli effetti epocali suscitati dalle sue idee e dalla loro (non certo consapevole) realizzazione storico-politica ‒: sulla base, tra l’altro, di un nesso causale olistico tutt’altro che chiaro e largamente debitore dello storicismo più organicistico, secondo il quale un pensiero apparterrebbe fin nei suoi dettagli più specifici esclusivamente a una certa epoca. Abbiamo qui l’inserimento dell’autore del passato in una narrazione che sfugge al vocabolario da lui utilizzato ‒ fra l’altro davvero irrimediabilmente com-promesso con le assunzioni alla base dell’introduzione di tale vocabolario?4 ‒, e che fa dialogare tra loro su argomenti considerati comuni sulla base di un canone predigerito autori invece all’epoca interessati a tutt’altro. Ma ab-biamo anche l’assunzione, giustificata dalla fallacia che trasforma il post hoc in un propter hoc, che degli avvenimenti del presente sia indirettamen-te (e destinalmente) responsabile qualche riflessione filosofica precedente (e magari anche solo oggi storicamente riscoperta), come pure quella se-condo cui un autore del passato avrebbe immancabilmente una visione “implicita” di un argomento per noi di stringente attualità. Ebbene, queste non sono che alcune delle prevedibili difficoltà ‒ per tacere del dubbio, im-mane, che anche in questo caso la storia sia sempre storia dei vincitori ‒ che inficiano qualsiasi grande narrazione geistesgeschichtlich (quanto meno da Hegel in poi), ascendente o discendente che sia. Difficoltà, que-ste, che tuttavia non riescono mai a reprimere veramente il bisogno di nar-razioni, trattandosi della necessità sia di sentirsi membri di una comunità che conta al proprio interno anche i trapassati, sia di un orientamento sul senso della vita (anche nel suo decorso storico) che, suggerendo ora iden-tificazioni e ora prese di distanza da tradizioni, possa compensare l’effetto

3 Ma si potrebbe adottare la distinzione, che sta a cuore a ogni ermeneutica ricognitiva, tra Bedeutung e Bedeutsamkeit (Betti) o tra meaning e significance (Hirsch) (cfr. Griffero 1984; 1988: 182 e passim).

4 Sulla non identificabilità di un concetto con la sua tradizione d’uso cfr. Marconi (1988: 37).

177T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

disorientante della modernizzazione. E la domanda suona allora: perché non ci si accontenta di credere di porre altre questioni (e magari perfino questioni migliori) rispetto ai predecessori e si pretende invece di dare ri-sposte migliori alle medesime questioni, giudicate fondamentali ed eterne?

Intendiamoci: Schmitz esclude di essere in conflitto con la storia della filosofia, quanto meno (lo dice senza ironia!) con quella anteriore ai cosid-detti Presocratici. Con la storia successiva, dominata dall’astrazione e so-prattutto dalla dogmatizzazione di finzioni, accettabili solo finché pensate come tali (Schmitz 1999: 377), il conflitto è invece sicuramente frontale. Prescindiamo qui dal poco plausibile retroterra storico-politico di Sch-mitz5, come pure dalla eminentemente polemica assunzione secondo cui tra il Neoplatonismo antico e Kant non emergerebbero motivi veramente nuovi, per concentrarci invece sull’analisi della madre di tutto gli errori, ossia del paradigma psicologistico-riduzionistico-introiettivistico, e degli errori che ne sono derivati (dinamismo, autismo, ironismo).

Mentre pone al centro il corpo vissuto, anziché l’incorporeo autoriferi-mento caro all’esistenzialismo, Schmitz ridefinisce il filosofare nei termini di un riflettere su che cosa si “prova” proprio-corporalmente nel proprio ambiente (Schmitz 1964: 14-27). Di qui l’esigenza di un descrivere che, re-spingendo il costruzionismo esplicativo, confligge col tipo di astrazione selettiva (sintassi indogermanica, metafisica post-democritea, ontologia fondata su cose, proprietà e relazioni) (Schmitz 2005b: 19) che nella cultu-ra occidentale, nel ricondurre a un “non altro che” esperienze assai più ric-che ‒ al dato fisico (scienze naturali), al linguaggio (filosofia analitica) e al cervello (neuroscienze) ‒, rimuoverebbe la vita sensibile reale, sia fenome-nica sia sentimentale. Guardando un po’ come Goethe (1983, 170, n. 662) allo «stato di natura ideale e grazioso», con cui i canti omerici ci liberano dal «terribile fardello che la tradizione di parecchi millenni ci ha scaraven-tato addosso», Schmitz intende rivalutare contro il razionalismo moderno un paradigma arcaico che, sopravvissuto dopo il V secolo a.C. solo nel Ne-oplatonismo (e paradossalmente nonostante Platone)6 o in enclaves mino-ritarie ed eterodosse (numerologia pitagorica, medicina umoralista, astro-logia, mistica, magia naturale, paracelsismo, alchimia, filosofia popolare,

5 Finalizzato niente meno che alla ricostruzione dell’impero romano grazie alla valorizzazione, resa possibile dalla mediazione della Germania riunificata, dei princìpi del cristianesimo orientale, in specie dell’idea (ricondotta a fonti neoplatoniche) di sobornost o solidarietà organica (Schmitz 1999: 396-404)!

6 Schmitz sembra riferirsi qui soprattutto alla spiegazione della percezione in termini simpatetici.

178 Errore

ecc.), si opponga al riduzionismo, rappresentando così «una base di astra-zione più profondamente ancorata all’esperienza della vita di quanto non lo sia quella che ha governato fin da Democrito, Platone e Aristotele la cultu-ra intellettuale dominante in Europa» (Schmitz 2007: 15). Che reagisca cioè al “terribile fardello” caratterizzato nella tradizione occidentale dalla insanabile scissione tra una cultura “affermativa” ritenuta più legittima e vincolante e una cultura della fantasia, in cui relegare, in forma meramen-te decorativo-compensativa, tutta la vasta sfera dell’esperienza vitale oblia-ta dal paradigma dominante. Alla tragica ed epocale deriva, collocabile tra il 450 e il 350 a.C., è ricondotta dunque l’erronea storia maggioritaria del-lo spirito occidentale, alcune delle cui conseguenze sarebbero sotto agli oc-chi di tutti: l’indebolimento delle sfere sovra individuali (diritto e religione ad esempio) e delle situazioni collettive (radicate in un nomos)7, in favore di una parcellizzazione autistico-personale e di un irresponsabile scettici-smo ironico; l’acritica accettazione del dogma dell’immanenza, con conse-guente spazio all’edonismo solipsistico (ridotto a piacere/dispiacere); l’in-tensificazione dei processi di auto- ed eterodominio (teologico non meno che tecnologico)8.

Ma questi sono solo alcuni dei molti esempi possibili, giacché l’intera cultura occidentale, per come la conosciamo, perfino lo sfondo d’astrazione (statistico-sperimentale-combinatorio) della fisica odierna, prima della sua matematizzazione ancora inibita dalla delega a un dio onnipotente, trove-rebbe la sua origine in un errore inaugurale commesso dai Greci usciti vin-citori nella guerra coi Persiani e avviati sulla strada della scienza, del gusto estetico e della democrazia (Schmitz 1999: 381). E il primo colpevole è qui Democrito, cui si debbono la sostituzione della dinamica con la cinetica, lo iato intraumano tra l’anima, per la prima volta pensata come una casa, e il corpo fisico, degradato a strumento dell’anima (ancorché a sua volta mate-riale), infine la standardizzazione riduzionistica dei caratteri degli atomi, dei quali parla tra l’altro come idee, tanto invarianti nell’incessante movimento (donde anche la contrapposione tra forma e materia) quanto quelle poi pla-toniche. A questa letale svolta paradigmatica ‒ spiegata in questo come in altri casi come direzione obbligata (alla luce della metafora, peraltro assai problematica nel suo rigido dualismo, degli scambi ferroviari o dei bivi) ‒ verso un pensiero che è combinatorio-prognostico perché assume il singola-

7 Fin dal Socrate platonico, significativamente sordo ai vincoli posti dalle situazioni radicate, che s’impegna infatti a dissolvere costellazionisticamente.

8 Il monoteismo stesso sarebbe funzionale al controllo di un divino atmosferico, originariamente più vario e inquietante (Schmitz 1977: 177).

179T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

rismo (giusta l’erroneo dogma nominalistico che vuole che ogni cosa sia singola), il proiettivismo (secondo cui la significatività sarebbe proiettata ex post dagli esseri viventi e per ragioni pragmatiche – un’idea divenuta viru-lenta in Nietzsche ‒ su un mondo formato da meri elementi quantitativi) e il costellazionismo (secondo l’erroneo dogma per cui l’universo, aspetti gene-tici compresi, non sarebbe che la rete di fattori singoli e delle loro configurazioni)9. Rispetto a tale svolta Platone non sarebbe che un epigono, seppure rispetto al prosieguo una sorta di spiritus rector (Schmitz 1990: 17), e Aristotele un avversario ma responsabile di altri errori, come quello di ela-borare, pur di evitare le idee platoniche, un’ontologia tripartita (cose in sé-proprietà-relazioni) il cui demerito sta soprattutto nello squalificare le rela-zioni e disconoscerne l’anteriorità rispetto ai relati.

A questa svolta, nonostante tutto più antropologico-pedagogica che strettamente teorica, motivata cioè da un’esigenza di auto- ed eterocontrol-lo il cui esito è di insuperbire l’uomo stilizzatosi come persona autonoma non sottomessa all’arbitrio degli impulsi esterni, Schmitz oppone, convin-to di offrire così all’uomo un’inedita chance di autocomprensione, il dina-mismo arcaico del sentire proprio-corporeo, il logos di un autentico alfabe-to della corporeità vissuta la cui intenzione è di relativizzare quelle nozioni apologetiche (anima, creatività, ecc.) che ai suoi occhi altro non sono che costrutti artificiali fenomenologicamente ingiustificati. La più ampia testi-monianza di questa forma mentis ancora esente da errori (per una sintesi Schmitz 2009: 39-48) si troverebbe non solo, com’è prevedibile, nella di-namica polarizzata dei Pitagorici, nell’idea empedoclea di amore e conte-sa come forze cosmiche, in Eschilo, che guarda all’ira ancora come a un sentimento impersonale aleggiante, nella contrapposizione eraclitea arco/lira, e poi residualmente negli Stoici (dottrina dinamica del tonos esempla-ta sul corpo vivo senziente), in Paolo, per il quale lo spirito e la carne sono potenze atmosferiche delle quali il corpo è il campo di battaglia, ma anzi-tutto ‒ nell’ipotesi più speculativa che strettamente filologica che non esi-sta affatto un’unitaria psicologia e antropologia omerica ‒ nell’Iliade (Sch-mitz 1965: 365-445). Questo Omero, giocato qui esplicitamente contro i filosofi, ravviserebbe nel vissuto umano ancora qualcosa di decentrato e aperto, di esposto senza protezioni a un «concerto di focolai di stimoli semiautonomi, il più importante dei quali nel dare l’impulso è il thymós»

9 Non a caso esemplati sulle lettere alfabetiche, indifferentemente al fatto che, come ricorda Aristotele (De gener. et corr., 315b, 14-16), l’esito possa essere una tragedia o una commedia!

180 Errore

(Schmitz 2003: 342)10, in breve nulla di puramente psichico. Gli Erlebnis-se omerici non sarebbero solo psicofisicamente indifferenti (tesi piuttosto diffusa nella filologia omerica) in quanto pertinenti a un’immagine del mondo che al dualismo tra corpo e spirito (o anima) preferisce la distinzio-ne tra organo e sua funzione, ma mostrerebbero un’epoca nella quale ogni modalità del vissuto era concepibile in termini di impulsi proprio-corporei (la cui molteplicità local-qualitativa giustifica la molteplicità lessicale per i loro pseudo-organi), lasciando il campo solo in seguito all’idea di veico-li od organi. Un’epoca presocratica11 che corporizzava tutto (ciò che poi si sarebbe detto) lo psichico con la medesima unilateralità con la quale la mo-dernità psichicizzerà tutto il corporeo, e che, non contando su uno schema corporeo costruito, come quello della psicologia moderna, sulla corporeità puramente fisica, ma su fluttuanti isole proprio-corporee, disponeva anco-ra di un vocabolario corporeo pluralistico, ma, soprattutto, che prevedeva ancora una quasi totale esposizione (fino alla possessione) dell’uomo alle esterne aggressioni divino-demoniche, alla cui forza incontrollabile lo pen-sava subordinato esattamente come anche oggi agli impulsi della fame e della sete.

Ma le cose cambiano, prima ancora che con Socrate e Platone, con l’Odis-sea, nella misura in cui, nel quadro di una conflittualità sentimentale ridotta alla lotta tra psiche e thymós, l’eroe, in questo uomo già pienamente moder-no ‒ una ricostruzione, lo si noti, indipendente e tuttavia analoga per larghi tratti a quella francofortese ‒, può distanziarsi dagli stimoli proprio-corporei esterni (peraltro non ancora solo meccanici, come nel naturalismo moderno) e controllarli quanto controlla le espressioni del viso. Di qui un’emancipazio-ne personale parallela alla razionalizzazione del numinoso-divino in un dai-mon ridotto a partner prevedibile, e la cui conseguenza più funestamente ri-levante è l’introiezione dei sentimenti in una sfera psichica12 concepita secondo il modello dei corpi solidi e inclusiva dell’intero vissuto (attivo e passivo), e metaforicamente, come una casa a più piani (spirito, ragione, in-telletto, sensibilità) ammobiliati (atti intenzionali, idee, ricordi, impulsi, sen-sazioni, sentimenti) (Schmitz 2003: 333-334), nella quale segregare tutta la significatività erroneamente sottratta al mondo esterno e ora creduta control-

10 Ma ricordiamo anche kradie (il cuore come focolaio dell’impulso all’iniziativa), noos (il focolaio impulsivo dell’impulso osservativo), noein (quello che accade), ätor (focolaio dell’impulso reattivo) e phrenes (diaframmatici) saggi e ragionevoli.

11 Un termine peraltro fuorviante nella misura in cui sopravvaluta la figura (romanzata da Platone) di Socrate.

12 Per la cui stigmatizzazione Schmitz si rifà ad Avenarius (1905).

181T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

lata dalla ragione. Questa privatizzazione è poi proseguita, dapprima, come si è già ricordato, frenata da vincoli e timori trascendenti, coinvolgendo nel Medioevo cristiano (per Schmitz 313-1303 d.C.) anche la felicità del creden-te, cui si intima di controllare gli impulsi di un corpo già qui ridotto a mac-china (Agostino), e cui si offre un’ontologia singolaristica (Ockham), fonda-ta cioè sull’idea (per Schmitz falsa) che la realtà, essendo formata da cose singole e discrete13, si presterebbe alle più arbitrarie combinazioni costella-zionistiche (ancora un passo ed ecco giustificate la competenza tecnica, l’e-conomia di mercato e finanche la digitalizzazione informatica). Quanto poi al potere del coinvolgimento affettivo, prima attribuito unicamente a Dio, esso passa poi nel cristianesimo occidentale attraverso vari compromessi se-colari e demistificazioni (papato, crociate, imperialismo, ecc.), che vedono comunque un dio spogliato di ogni casualità numinosa e fissato per le esigen-ze dell’uomo ‒ che infatti gli si può rivolgere sempre e comunque nella pre-ghiera ‒ sia come trinità sia come punto massimale di sapienza, potenza e bontà (Schmitz1999: 38 sgg.), comunque nelle mani dell’uomo: ciò che spie-gherebbe la ricerca dapprima non più elitario-aristocratica dell’autocontrollo e poi di un benessere non più trascendente ma terreno (capitalismo).

3. Il museo degli errori.

Fin qui la madre di tutti gli errori. E di varie, gravissime, rimozioni.A. La prima riguarda il corpo, degradato da corpo proprio o vissuto

(Leib) a corpo fisico-materiale, spazialmente e fisiologicamente delimita-to, percepibile dall’esterno e arbitrariamente manipolabile (Körper). La di-mensione voluminosa proprio-corporea, obliata in favore dell’opposizione tra anima (inestesa) e corpo fisico (esteso), cessa così di essere quello che era nella Grecia arcaica (cfr. Schmitz 1967; Rappe 1995) e sotterraneamen-te anche nell’antropologia cristiana (ben presto schiacciata dall’influenza del platonismo), cioè uno stato affettivo che si avverte passivamente e sen-za mediazione degli organi di senso e dello “schema corporeo” (Griffero 2013: 57-73), dando così carta bianca all’idea che il mondo esterno sia ac-cessibile solo tramite gli organi di senso (centrati tradizionalmente nel cuo-re e cervello, oggi esclusivamente nel secondo), cui si delega il compito di decifrare, combinare e capitalizzare i segnali (trasferiti nel mondo interio-re) in un’immagine disponibile del mondo esterno. Il corpo cessa così di essere quella “folla” di “isole proprio-corporee” anatomicamente sfuggen-

13 Per Schmitz: che incrementano cioè di un’unità un certo numero.

182 Errore

ti (petto, stomaco, pianta dei piedi, cavo orale, zona anale, ecc.)14 che gene-ra nello spazio pericorporeo unità intercorporee sovraordinate (come nel contagio emozionale collettivo) e diverse a seconda della forma assunta dall’intreccio dei due poli basilari ed estremi (Enge/Weite)15 dell’intera di-namica vitale16. Quel che ne resta, nel subentrare della localizzazione fisi-co-organica a quella patemica (si pensi invece alla salienza della zona dia-frammatica nel mondo omerico), è uno scialbo corpo anatomico, tanto cosalmente quantificabile da essere descrivibile in terza persona, costruito a partire da superfici e proprio per questo fondato su una spazialità ormai radicalmente estranea al Leib (Schmitz 1990: 284).

B. Una seconda rimozione, a sua volta legata al già ricordato dominante dualismo psicosomatico, se si vuole alla “scoperta dello spirito” (Snell) per occultamento del Leib, concerne i sentimenti e la loro specifica spazialità, traducendo (psicologismo) la situazione personale in psiche (o mens, mind e coscienza, perfino trascendentale). È proprio la (ri)scoperta dello spazio dei sentimenti ‒ proprio-corporeo, pre-dimensionale e pre-geometrico (analogo a quello del suono, del silenzio o del clima) ‒ a suggerire alla Nuova Feno-menologia anche affascinanti considerazioni atmosferologiche (cfr. Griffero 2010 e 2014). Effusi nello spazio, i sentimenti, che siano puri stati d’animo (vacuità e soddisfazione in primis) o eccitazioni, ossia sentimenti orientati, lungi dall’essere degli stati interiori, sarebbero infatti atmosfere. Vale a dire, potenze fisicalisticamente ineffabili ancorché condensate in un punto o rife-rite a un qualche punto di ancoraggio, comunque tanto “esterne” da aggre-dirci improvvisamente, impossessarsi di noi (proprio attraverso la dinamica proprio-corporea sopra accennata) e altrettanto improvvisamente abbando-narci. In questo senso, ad esempio, la furia bellica, l’amore carnale e l’amo-re-carità non erano per gli antichi stati psichici, ma sfere vitali e atmosfere, parzialmente personificate rispettivamente come Ares, Afrodite17 e Spirito Santo. Tanto esterne, inoltre, da risultare impermeabili a un impulso proiet-tivo la cui onnipotenza presuppone l’erronea credenza nella vuotezza se-

14 Ancora non esiste un pittore che raffiguri ciò che non si vede, ma si sente (il corpo proprio): cfr. Schmitz (1965: 27sg.) e Soentgen (1998: 19-20).

15 Donde altre polarità, come contrazione/espansione, tensione/distensione, sino ai punti estremi, rappresentati, nella contrazione, da terrore e quindi impotenza, e, nell’espansione, dal sonno e quindi dall’incoscienza (ma anche dall’orgasmo) (Schmitz 1993: 123 sgg.).

16 Comunque inoggettuale e afinalistica, a differenza dell’impulso freudiano.17 Quest’ultima, poi, tanto privatizzata come piacere individuale da poter essere

oggetto di uno sciopero (come nella Lisistrata di Aristofane)!

183T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

mantica del mondo18, esse, che si producano in modo fulmineo o graduale19, comunque governano la vita timica degli esseri viventi, suscitandovi un’as-soluta precisione mimica per fortuna non sufficientemente inibita dall’e-mancipazione personale20.

L’errore capitale è dunque per Schmitz l’introiezione. Se «per ogni aven-te coscienza il mondo si scinde nel suo mondo esterno e nel suo mondo in-terno, con la clausola che egli diviene massimamente consapevole di un og-getto del proprio mondo esterno nella misura in cui quest’oggetto ha quanto meno un rappresentante nel mondo interno dell’avente coscienza» (Schmitz 2007: 14)21, è inspiegabile come da un simile mondo interno, chiuso e gerar-chicamente stratificato fin da Platone, il soggetto possa poi anche uscire e acquisire un’affidabile conoscenza del mondo esterno. Sorta e consolidatasi a partire dal V secolo a.C., come si è visto22, la concezione dell’anima come di un supporto sostanziale capace di unificare tutti gli Erlebnisse sgrava l’uomo dai diktat degli stimoli involontari, rendendolo tanto autonomo da ri-sultare eticamente e penalmente imputabile di quanto prima veniva addebi-tato a potenze sovrumane23. Ma genera pure quello sdoppiamento nell’anima in soggetto e oggetto – si pensi al topos platonico del pensiero come dialogo dell’anima con se stessa – che Schmitz ha buon gioco nel descrivere ironica-mente nei termini evidentemente paradossali di un uomo che è il padrone

18 Un rischio di reificazione, paradossalmente antifenomenologico, delle atmosfere (Hauskeller 1995: 21-31; Soentgen 1998: 59, 106-110), e di deresponsabilizzazione del soggetto, “ridotto” di fatto a «passeggero delle atmosfere» (Soentgen 1998: 117), che abbiamo altrove cercato di mitigare sul piano sia fenomenologico sia ontologico (Griffero 2010: 126 sgg.) anche sulla scorta di Böhme (2001).

19 Per Soentgen (1998: 114 sgg.) la reificazione atmosferica deriverebbe proprio dal misconoscimento della processualità dei sentimenti.

20 «Il modo in cui i sentimenti s’impadroniscono del corpo proprio può essere tanto un tacito insinuarsi quanto un’infestazione improvvisa e violenta […]. Ma questo in nulla cambia la certezza mimica descritta. La perplessità dinanzi a quale sia il sentimento che davvero ci rapisce non è affatto un’incertezza circa la scelta dei gesti» (Schmitz 2002: 73-74).

21 Un atto del vedere o del sentire, una sensazione o un’immagine mentale: in genere un contenuto di coscienza, perfino correlato, stando a Husserl, a congunzioni come “e” o “o”.

22 Sebbene non sia facile stabilire da che momento in poi sia legittimo tradurre psyché (che prima significa qualcosa come l’ebraico nefesh, ossia il soffio vitale in cui l’uomo consiste) con anima (per Eraclito essa non avrebbe mura, né se ne trovano i confini…).

23 Schmitz lamenta un’erronea interpretazione (solo interioristica) dell’esortazione delfica “conosci te stesso”, al cui senso non unilaterale occorrerebbe invece tornare (Schmitz 2003: 363).

184 Errore

della casa e al tempo stesso la casa di cui è padrone. Diventando eros e pho-bos da potenze esterne semplici specializzazioni intrapsichiche di piacere e dispiacere, da un lato il mondo risulta tragicamente impoverito di tutto ciò che “muove” patemicamente l’uomo (e gli eroi omerici), dall’altro lo psichi-co, così segregato alla luce del dogma dell’immanenza, si rivela una prigio-ne da cui evadono, ma in libertà (assai) condizionata, solo gli organi di sen-so testimoniando pallidamente l’esistenza dell’esterno.

La chance dell’etero- e auto-controllo viene pagata, insomma, a caro prezzo. Dalla distruzione di situazioni collettive radicate deriva, anzitutto, quello sconsolato autismo (atomismo sociale) per cui vale l’hobbesiano homo homini lupus e che verrà solo parzialmente risarcito da una socialità convenzionale, come nel mondo protestante, e attivo-manieristica, come nel mondo cattolico-gesuitico, e poi nel culto dell’etichetta nell’ancien régime. Come in ogni grande narrazione, anche nella genealogia schmitziana dell’Occidente tutto si tiene. L’amore perde il proprio prima indispensabile ancoraggio ideale (bellezza, virtù, decoro dell’amato/a), tramutandosi in una passione esente da legittimazioni esterne ed esclusivamente orientata all’attesa del piacere. L’insicurezza e alienazione di sé, avviata dalla Rivo-luzione francese e dal pensiero di Fichte, per il quale l’immaginazione è lo Schweben dell’io quale unione finito e infinito, viene poi promossa in gran-de stile dall’ironismo dei Romantici (Novalis e F. Schlegel su tutti), convin-ti della necessità/possibilità di astrarre da tutto (ironia recessiva) e di dedi-carsi a tutto (ironia produttiva). È ciò che ammette perfino un (superficiale) antiromantico come Hegel (Schmitz 1999: 67), per il quale l’autocoscienza può scoprire «entro di sé, di poter astrarre da qualsiasi cosa e parimenti de-terminar se stesso, di poter porre per mezzo di sé entro di sé ogni contenu-to» (Hegel 1821: 28, §4; corsivi nostri). Proprio questa oscillazione, che giustificherebbe l’odierna ricerca di vissuti superficiali (privati, mediatici, sportivi, turistici, ecc.) e condurrebbe alla frustrazione sentita per situazioni non più seriamente coinvolgenti, spinge l’uomo moderno per un verso a cer-care ossessivamente, pur di riguadagnare una “posizione dell’uomo nel co-smo”, dei contrappesi in grado di vincolarlo (stato, società, Cristianesimo, ordine logico, common sense, Essere, ecc.), per l’altro a mettere in scena ar-bitrariamente ‒ è la figura nichilistica del dandy ‒ qualsiasi ruolo, purché sia capace di meravigliare senza essere a sua volta meravigliato (Schmitz 2010: 111-126). Questo dandismo, fondato su un errore come l’ironistico, recente e non gnoseologico né solo pratico, avrebbe un volto tanto filosofico, sor-prendentemente ravvisabile perfino nell’invito a tacere sui problemi vitali del Wittgenstein del Tractatus, quanto popolare, riassumibile oggi nella so-vranità con cui un uomo sradicato e senza appigli né in se stesso né negli al-

185T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

tri (Schmitz 1999: 73) si offre alle seduzioni tecnologiche ed enfatizza l’au-torealizzazione («come se un sé che può realizzarsi fosse già indubbiamente presente») (Schmitz 2010: 126).

C. Ed eccoci alla terza rimozione, perfettamente conseguente nel suo ri-duzionismo all’oblio della sfera patemica spaziale. Il mondo esterno viene così “ridotto” sensisticamente a poche caratteristiche oggettive e standar-dizzate, tanto statisticamente e intersoggettivamente identificabili, quanti-ficabili e manipolabili, da essere prognosticamente funzionali alla «autoaf-fermazione e [alla] presa del potere da parte dell’uomo» (Schmitz 2005a: 69). E contestualmente, come si è già ricordato, si esiliano fin da Democri-to24 nell’irrilevanza estetico-poetica le restanti qualità esterne (secondarie e soprattutto terziarie), cioè tutto quel più variopinto ma incontrollabile vis-suto che è fatto di suggestioni motorie e sinestesie, atmosfere e comunica-zioni intercorporee, e che ora lascia il posto a un’astrazione fisicalistica do-tata di potenzialità induttive e la cui capacità di etero-controllo si basa in fondo sull’universalizzazione di una circostanza tutto sommato rara (Sch-mitz 1990: 21) come il calcolo dei corpi solidi situati al centro del campo visivo. È così che le quasi-cose della realtà esterna (voce e sguardo anzitut-to, ma anche vento, dolore, tempo vissuto, caldo e freddo, periodi del gior-no, temi musicali e figure, ecc.) vengono per esigenze pragmatiche trasfor-mate in cose e processi causali, con semplificazioni peraltro che sfiorano il ridicolo (il vento ridotto a qualità dell’aria!) (Griffero 2013: 13 sgg.). Vice-versa le atmosfere, e più in generale le quasi-cose, analoghe alle forze de-moniche e immaginali tematizzate da Ludwig Klages ‒ «il più vicino degli spiriti affini» (Schmitz 1992: 258) ‒, sono ontologicamente altro dalle cose in senso proprio. Anzitutto perché a) vanno e vengono senza che abbia sen-so chiedersi dove siano state nel frattempo, ma anche b) perché si esauri-scono nel loro agire, senza implicare una causa loro esterna e anteriore.

D. E siamo all’ultima rimozione, addebitabile già al mainstream fenomeno-logico e riguardante le situazioni25 come prius percettivo della vita quotidiana. Vale a dire aree di significatività diffusa, dai confini sfocati e formate da com-ponenti non discrete; insiemi molteplici e caotici26, nei quali in prima istanza

24 Noein non significa più un’intelligenza percettiva ma un pensiero tanto sovrapercettivo da cogliere le essenze, laddove per Anassimene, Parmenide ed Empedocle conoscere significava ancora osservare impressioni.

25 Una nozione che concretizza, a un certo punto del System, quella più originaria di “caotico” (Schmitz 1977).

26 Schmitz tematizza il caotico dell’esperienza ordinaria ben prima che diventasse un tema consueto delle scienze naturali (cfr. Gamm 1994: 73 sgg., e, per una difesa dalle sue obiezioni, Soentgen 1998: 152).

186 Errore

identità e differenze risultano indecidibili (Schmitz 1964: 312), e che solo in seguito diventano oggetto di un’esplicazione “prosaica” ‒ più grossolana27 di quella “poetica” (in senso lato) nei confronti della polivocità situazionale ‒ o di una (per Schmitz come sappiamo errata) riduzione singolaristica, plausibi-le solo entro una molteplicità non più caotica. Essendo esplicazione di situa-zioni, e cioè di aloni di significatività formati, in forma di ritenzioni e proten-sioni, da stati di cose (ciò che è), programmi (ciò che dev’essere) e problemi (ciò che crea difficoltà), la conoscenza fenomenologica non dovrebbe quindi essere più fine del necessario, pena una patologica e ascientifica pedanteria.

Che siano impressive o segmentate (a seconda dall’immediatezza della loro datità), in atto o disponibili e perduranti (a seconda del loro decorso tem-porale), private (con le loro componenti retrospettive, presentive o prospetti-ve) o comuni, ecc., in quanto fulcri della percezione quotidiana le situazioni si presentano nella forma di “impressioni” pregnanti (che, come giustamen-te dice l’uso linguistico, “hanno fatto impressione”). «In virtù del campo ca-otico-molteplice della [loro] significatività, esse danno a intendere più di quanto si possa singolarmente dire» (Schmitz 1994a: 13), in specie a chi ha talento (come tale “femminile”) (Schmitz 1980a: 379) più nel “comprende-re” l’ambivalenza che non nello spiegare deduttivamente (Schmitz 1993: 85-86), dispone cioè di un’intelligenza più situazionale ‒ questo il caso del pen-siero analogico e universistico della medicina cinese, ad esempio ‒ che non analitico-induttiva. La consapevolezza delle impressioni situazionali favori-rebbe infine la vantaggiosa traduzione di nozioni ormai improduttive come “anima” (situazione personale) e “coscienza morale” (forma residuale del patemico arcaicamente ritenuto esterno) e la demistificazione di qualsiasi te-oria delle idee (di per sé non criteriologiche)28, concepita come risarcimento non tanto positivistico del metafisico (come pensa Heidegger) quanto ridu-zionistico dei sentimenti atmosferici e delle significatività situazionali.

4. Terapie?

Abbiamo fin qui visto, per quanto succintamente, come opera Schmitz in quanto Geisteshistoriker, quando cioè affianca alle sue vastissime e non sto-

27 «L’esplicazione prosaica […] mira a isolare nella situazione degli stati di cose (i fatti rilevanti) e dei programmi privilegiati (maturi per la decisione) e a gettare via tutto il resto» (Schmitz 1994b: 237).

28 In Platone si ha «il bello, che non è altro che bello [e il] bene, che altro non è che bene» (Schmitz 1999: 392).

187T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

ricistiche analisi fenomenologiche, dalle quali qui prescindiamo, una storia autogiustificativa di vasto respiro, una storia di orientamento (Marquard) o, se si vuole, una genealogia critica tutt’altro che umilmente circoscritta a quelle storie di nuclei concettuali che sono più plausibili perché coprono al massimo uno o due secoli. Qui abbiamo invece a che fare con un affresco storico che fonde ricostruzioni razionali, che interrogano il passato a partire dai nostri problemi, ricostruzioni storiche, che mostrano che alcuni di questi problemi sono prodotti storici e quindi sconosciuti ai predecessori, e infine storia dello spirito, «necessaria per giustificare la nostra convinzione di tro-varci in una situazione migliore di quella dei nostri progenitori per la sem-plice ragione che di questi problemi, ora, abbiamo coscienza» (Rorty 1984: 246). La specificità di Schmitz sta nel fatto che il progressismo implicito nella sua ricostruzione razionale e revisione di canoni ‒ come pretendere al-trimenti di individuare errori e opporsi così a una storia che è palesemente quella dei vincitori? ‒, pur tracimando talvolta in una più diluita storia intel-lettuale, per la quale può anche essere legittimo, ad esempio, che le memo-rie di un pensatore minore o perfino di un generale siano altrettanto o addi-rittura più rilevanti degli scritti di Kant, non si contrappone mai del tutto all’empatia del contestualista. Anzi, talvolta e selettivamente, se ne nutre a fondo, suggerendo proprio di rifamiliarizzarsi con una visione come vedre-mo anteriore all’epoca segnata dagli errori e della quale ‒ generando sem-mai qualche sospetto per la sua coincidenza con la visione di Schmitz stes-so! ‒ egli pretende di fornire una descrizione anche filologicamente corretta, se non addirittura l’unica veramente fedele ai “fatti”.

Ma il compito del filosofo è, per l’approccio neofenomenologico, quello di gettare una luce riflessiva e concettuale su forme irrazionali di coinvolgi-mento emozionale altrimenti inspiegabili, e che comunque non possono esse-re retrocesse a mere immagini riflesse sul fondo della caverna e platonica-mente sacrificabili a vantaggio della luce solare (idee astratte). Proprio perché consapevole di essersi in parte orientato in filosofia in seguito allo shock del nazismo, Schmitz (1999: 9-10), pretende poi di ravvisare nel nesso tra l’erro-re autistico, quello dinamicistico29 e quello ironistico un fil rouge che condu-ce necessariamente all’esito funesto ‒ l’hitlerismo ‒ della storia europea30. E

29 Cui sarebbero relativamenti estranei, donde una meno sistematica spinta all’auto- e eterocontrollo, sia la Chiesa orientale, influenzata dagli scritti giovannei e dal Neoplatonismo, sia l’Islam, per il quale imprevedibile resta la potenza divina (Schmitz 1999: 42).

30 Precorso in forma positiva da La Rochefoucauld nella massima secondo cui «La magnanimité [che Schmitz rende con megalopsichia!, 1999: 43] est un noble

188 Errore

qui troviamo il trionfalismo baconiano, la luterana salvezza individuale, l’u-nione di tecnica e imperialismo, l’ascesi intramondana, l’oblio di abitualità pratiche ed etiche, l’autismo, urgentemente compensato con un’acritica iden-tificazione nel destino collettivo favorita da un’abile tecnica delle impressio-ni. Ebbene, sarebbero proprio tutti questi fattori a condurre a quel «disporre in forma tecnica e massificata della morte per la morte con i mezzi della tec-nica moderna» (Schmitz 1999: 53), a quel tentativo di vincere l’errore autisti-co tramite un dinamicismo ipertrofico in grado di signoreggiare razionalisti-camente-tecnologicamente anche la morte (l’ultimo, residuale, segno di sfida alla volontà di potenza occidentale) che Schmitz definisce olocausto ‒ ricon-dotto, con una scelta certo assai discutibile, però non tanto al genocidio ebrai-co quanto all’inconsapevole esperimento storico del primo conflitto mondia-le31e poi anche al riarmo atomico. Può certo storicamente e politicamente suscitare perplessità fare di Hitler una figura dello spirito, che «fissa la cura della malattia dell’errore autistico ‒ di cui come persona egli soffre per costi-tuzione ‒ nell’ideale della comunità di popolo nazionalsocialista, al servizio della vendetta (da lui incarnata) in cui trova sfogo l’imperialismo colposo del primo conflitto mondiale, opponendo all’imbarbarimento dell’errore dinami-cistico l’imbarbarimento (nella sua forma trionfale) dell’anti-trionfalismo fo-bico-faustiano» (Schmitz 1999: 391), ma non si può certo negare che quella offerta da Schmitz sia una grande narrazione meritevole di discussione.

Ma alla diagnosi deve seguire la terapia. La ricostruzione critica di erro-ri storico-spirituali (per una versione ipersintetica, cfr. Schmitz 1999: 390-396), individuati grazie a uno sguardo sia sulle vicende storico-spirituali sia sulle proprie esperienze vissute senza il paraocchi di un forte io faustia-no, non ne è ancora ovviamente la cura, pur garantendo ermeneuticamente un orizzonte sufficientemente preventivo. Sinteticamente: all’errore dina-micistico, esito di quello introiettivistico, si oppone la scoperta della pre-senza primitiva e del suo valere come inaggirabile punto di ancoraggio per un’esistenza priva degli alibi forniti dall’arbitraria proiezione nel futuro. All’errore autistico, pericoloso soprattutto sul piano pratico-esistenziale, si oppone, teoreticamente, la sconfessione del nominalismo e del costellazio-nismo e, praticamente, la rigenerazione di situazioni non caratterizzate da una disorientante libertà d’indifferenza o solo inclusive (e magari fraintese

effort de l’orgueil par lequel il rend l’homme maître de lui-même pour le rendre maître de toutes choses».

31 Per una critica di questa genealogia dell’hitlerismo come ipercompensazione dei deficit spirituali dell’Occidente, cfr. Landkammer (2000) e Heubel (2003).

189T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

in un senso organicistico-armonicistico non innovativo), ma radicate32 e governate post-illuministicamente da un nomos sovrapersonale che vede l’unità indissolubile di diritto e dovere33 come pure da sentimenti atmosfe-rici spazialmente effusi. All’errore ironistico, infine, si oppone la scoperta della pienezza e originarietà dei fatti radicalmente soggettivi.

Ed ecco il solo punto che si può qui relativamente approfondire. Perché può certo sembrare paradossale che l’antipsicologismo radicale possa con-vivere nella Nuova Fenomenologia con la rivalorizzazione della soggetti-vità, più precisamente di quella “rigorosa soggettività”34 che, scoperta da Fichte35, «non consiste […] in una posizione sul terreno dei fatti oggettivi (soggettività posizionale)», guadagnata (o estorta) astraendo dai fatti og-gettivi una posizione trascendentalmente privilegiata, come tale da altri ri-feribile (è il caso della rivoluzione copernicana kantiana) a parità di cono-scenza e competenza linguistica, «bensì in una fattualità di altro genere, la fattualità di fatti soggettivi per qualcuno» (Schmitz 2005a: 6).Si tratta di fatti che può esprimere cioè solo il soggetto coinvolto, contando su un’ec-cedenza di senso (affettivo e proprio-corporeo) che manca ai fatti neutrali ‒ che infatti ne derivano, loro sì, per astrazione ‒ e non è adeguatamente descritta dalla distinzione analitica tra la prospettiva propria e quella altrui, entrambe a rigore confinate sul piano dei soli fatti oggettivi. Solo la nozio-ne di “fatti soggettivi”, che suona come una contradictio in adjecto solo entro una forma mentis colonizzata dalle scienze naturali, implicando sem-pre il coinvolgimento affettivo di qualcuno (donde anche una base non for-malistica della validità morale), getterebbe una luce sulla dimensione pro-toidentitaria e non singolare-numerica ‒ vera e propria “idea mitogena” (Stepath 2006: 119, 123) ‒ che Schmitz definisce fin dal 1964 “presenza primitiva”. Questa certo poi si emancipa, articolandosi in cinque necessa-rie dimensioni orientative (qui, ora, essere, questo, io) e nelle conseguenti

32 Schmitz non fa mistero talvolta di guardare con favore all’etica confuciana, per natura estranea al dualismo hegeliano di eticità e moralità, stigmatizzando situazioni surrogate come le messe in scena giacobine e nazionalsocialiste.

33 Schmitz si riferisce, invero assai banalmente, a servizi sociali, educazione dei piccoli, responsabilità verso la continuità delle generazioni, certezza e severità del diritto, limitazione degli eccessi del diritto alla privacy, limitazione della superbia coloniale dell’Occidente (Schmitz 1999: 386-390).

34 In contrasto con altri tradizionali tentativi come l’apparato psichico esemplato sui corpi solidi in Freud, le facoltà psichiche per gli Scolastici e per Kant, il vortice meccanico di atomi psichici per l’associazionismo e Herbart, ecc.

35 «Io scrivo, ho quindi una rappresentazione del mio scrivere, ma scrivono anche degli altri accanto a me. Come so che il mio scrivere non è lo scrivere di un altro?» (Fichte 1978: 232).

190 Errore

opposizioni binarie36 e dando la possibilità al soggetto di pervenire alla sin-golarità proposizionalmente accessibile, ma resta per fortuna in quanto tale il substrato indispensabile della vita cosciente, al quale si regredisce salu-tarmente nel coinvolgimento immediato (o in situazioni catastrofiche come riso e pianto) e che, soltanto, rendendo possibile un’autoscienza non spie-gabile nella forma inevitabilmente schlechtunendlich dell’autoattribuzio-ne, conferisce all’uomo un suo «profilo» (Schmitz 1993: 181) e una sua consistenza. Dov’è evidente che la soggettività non funge più qui da asilo di ciò che sfugge al rasoio riduzionistico, ma designa invece con estrema precisione pre-astrattiva situazioni soggettive per qualcuno (Schmitz 1994a: 15), alle quali cioè il soggetto non s’aggiunge ex post37.

Siamo ora in grado di comprendere più esattamente la dichiarazione programmatica secondo cui la Nuova Fenomenologia, esclusa ogni auto-giustificazione troppo enfatica per essere accolta38, deve

permettere all’autoriflessione di gettare uno sguardo, concettualmente pre-ciso, sul margine d’azione spettante a emancipazione personale e regressione personale tra la presenza primitiva e la presenza articolata, sul corpo-proprio senziente come medium di ogni risonanza e come forza creativa dotata di una sua specifica spazialità e dinamica, sulla comunicazione proprio-corporea come fonte di qualsiasi contatto nella corporizzazione e scorporizzazione, su-gli spazi proprio-corporei e privi di superfici soggiacenti alla rete formata dai luoghi relativi, sui sentimenti come atmosfere che catturano, sulle situazioni nei loro diversi tipi e molteplici stratificazioni, fra cui soprattutto sulle impres-sioni pregnanti (situazioni impressive). [Essa deve] restituire agli uomini, gra-zie alla comprensione, l’esperienza involontaria della vita (Schmitz 2005a: 57).

All’errore del paradigma psicologistico-riduzionistico-introiettivistico si ovvierebbe non certo pretendendo proto-fenomenologicamente di pre-

36 Spazialità assoluta proprio-corporea vs. spazio relativo; attimo assoluto vs. tempo posizionale; essere vs. non-essere (o essere solo possibile); soggetto personale vs. l’altro, ecc. Donde una latente isteria dell’uomo come tale (Schmitz 1997: 173; cfr. Stepath 2006: 124).

37 «La parola “mi” [è] da intendere non tanto come pronome quanto piuttosto come avverbio (un po’ come “qui” e “ora”), che non denomina un oggetto, ma caratterizza un milieu, così come anche con la parola “qui” non ci si riferisce a un oggetto (“il qui”), bensì a ciò che è qui, nel milieu immediatamente vicino» (Schmitz 1994a: 15).

38 La Nuova Fenomenologia sarebbe «il solo tentativo nella storia della filosofia a cui sia riuscito superare l’oggettivazione psicologistico-riduzionistico-introiettivistica (la madre dell’errore dinamicistico e autistico) non solo come pretesa ma nei fatti» (Schmitz 1999: 403).

191T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

scindere dai condizionamenti della tradizione (Schmitz 2003: 6-7) o di ri-tornare al pensiero arcaico sacrificando «una lucida razionalità che analiz-za, argomenta e critica» (Schmitz 1999: 403), ma offrendo una salutare revisione critica, un eterodosso surfing filosofico (Schmitz 2005a: 107) che, in ultima analisi, mentre riporta alla luce un rimosso in funzione com-pensativa ma anche emancipativa rispetto al diktat teorico imperante (Sch-mitz 1969, 406-407), si fa «beffe della strana illusione che sia sempre ne-cessario fare qualcosa» (Schmitz 1965: 601). Più esattamente, valorizzando accanto all’orgoglio attivistico anche l’orgoglio passivo di chi si sa esposto ai sentimenti atmosferici, accentuando nello stato di diritto liberal-demo-cratico la componente dei doveri, generando situazioni radicate comuni, alla cui “presenza” la volontà vitale si ancori senza chiamare in causa la protesi del futuro, tanto più se armonicisticamente concepito (Schmitz 1999: 380, 394). Tutto questo affinché

la volontà di vivere impari ad ancorarsi attraverso un labile equilibrio alla presenza, anziché dissiparsi in proiezioni e progetti nel frattempo divenuti va-cui. Essa deve certamente mirare a un futuro migliore e a migliori condizioni di vita, ma non in modo che l’accordo con la vita presente necessiti, come stam-pella, di una speranza in qualcosa che deve ancora arrivare. Invece di questo qualcosa, è la presenza (primitiva e sviluppata) che bisogna vivere con maggio-re intensità, alla maniera di coloro che sono innamorati o che danzano, che vi-vono la loro abitazione o esercitano coraggiosamente la giustizia. La fenome-nologia non può portare a questa forma di vita, ma, garantendo la comprensione dell’esperienza, puntellare contro i crolli (come se fosse la gal-leria di una miniera) la profondità della presenza in funzione di una visione ca-pace di dar conto di sé (Schmitz 2003: 19).

L’accesa carica polemica e l’anticonformistica controintuitività di mol-te delle tesi neofenomenologiche ne fanno un progetto rivoluzionario e ge-niale che difficilmente lascia indifferenti. Che riconferisce al mondo il “co-lore” arcaico («quanto sarebbe piatto e noioso il mondo senza quasi-cose!»; Schmitz 2003: 15), sfidando il dogmatismo riduzionistico e illuministico che alberga inconsapevolmente in ciascuno di noi. Resta certo controverso che abbia senso presentare ancora una volta la tradizione occidentale come monolitica e unitaria, anziché considerarla un flusso poroso e abitato tal-volta da un’irriducibile pluralità. Ma l’auspicabile multivocità delle scien-ze narrative si realizza comunque non tanto nella mescolanza delle pro-spettive entro una sola narrazione, quanto nel dialogo di differenti e di per sé salutarmente unilaterali storie geistesgeschichtlich. Vale forse per le grandi narrazioni geistesgeschichtlich ciò che vale in generale secondo

192 Errore

Marquard per le scienze dello spirito: «non ci si crede, ma ci si fida di loro […] perché non resta assolutamente nient’altro» (Marquard 1988: 5).

Bibliografia

ADORNO T. W.1951 Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. di R. Solmi, intr. di

L. Ceppa, Torino 1979.

AVENARIUS R.19052 Der menschlicheWeltbegriff, Leipzig.

BÖHME G.2001 Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale

della percezione, T. Griffero (a c. di), Milano 2010.

ERNST G.2013 Fortschritt in der Philosophie?, «Information Philosophie», 1, pp.

8-15.

FICHTE J. G.1978 Wissenschaftslehre nova methodo, Vorlesungen 1798/99, Fichte-Ge-

samtausgabe, IV, 2, Stuttgart-Bad Cannstatt Stuttgart.

GAMM G.1994 Flucht aus der Kategorie, Frankfurt a. M.

Goethe J. W.1983 Massime e riflessioni, intr. di P. Chiarini, S. Seidel (a c. di), Roma-

Napoli.

GRIFFERO T.1984 L’ermeneutica ricognitiva di E. D. Hirsch, «Rivista di estetica», 16,

XXV, pp. 77-91.

1988 Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto, pref. di F.Moiso, Torino.

2010 Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Roma-Bari.

193T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

2011 Come ci si sente qui e ora? La “Nuova Fenomenologia” di Hermann Schmitz, in Schmitz 2009, pp. 5-23.

2013 Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Milano.

2014 Atmospheres. Aesthetics of Emotional Spaces, Farnham.

HAUSKELLER M.1995 Atmosphärener leben. Philosophische Untersuchungen zur Sin-

neswahrnehmung, Berlin.

HEGEL G. W. F.1821 Lineamenti di filosofia del diritto, G. Marini (a c. di), Roma-Bari 1987.

HEUBEL F.2003 Hermann Schmitz’ Adolf Hitler in der Geschichte oder Zur Kritik der

Neuen Phänomenologie, in T. Ogawa (a c. di), Studies on New Pheno-menology and Theories of Collective Consciousness, Kyoto, pp. 41-51.

LANDKAMMER J.2000 Von Homer bis Hitler. Die “Neue Phänomenologie” und die Versu-

chung der Geschichtsphilosophie (www.sicetnon.org/content/editor-medien/schmitz.pdf)

MARCONI D.1988 Alcuni usi teorici della storia della filosofia, in G. Vattimo (a c. di),

Filosofia ’87, Roma-Bari, pp. 21-40.

RAPPE G.1995 Archaische Leiberfahrung. Der Leib in der frühgriechischen Philo-

sophie und in außereuropäischen Kulturen, Berlin.

RORTY R.1984 La storiografia della filosofia e i suoi quattro generi, in ID., Verità e

progresso. Scritti filosofici, tr. di G. Rigamonti, intr. di A. G. Gargani, Milano 2003, pp. 227-253.

SCHMITZ H.1964 System der Philosophie, Bd. I, Die Gegenwart, Bonn.

194 Errore

1965 System der Philosophie, Bd. II, 1. Teil, Der Leib, Bonn.

1969 System der Philosophie, Bd. III, Der Raum, 2. Teil, Der Gefühlsraum, Bonn

1977 System der Philosophie, Bd. III, Der Raum, 4. Teil, Das Göttliche und der Raum, Bonn.

1980a System der Philosophie, Bd. IV, Die Person, Bonn.

1990 Der unerschöpfliche Gegenstand. Grundzüge der Philosophie, Bonn 1990 (20073).

1993 Die Liebe, Bonn.

1994a Wozu Neue Phänomenologie?, in M. Großheim (hg.), Wege zu einer-volleren Realität. Neue Phänomenologie in der Diskussion, Berlin, pp. 7-18.

1994b Neue Grundlagen der Erkenntnistheorie, Bonn.

1999 Adolf Hitler in der Geschichte, Bonn.

2002 Begriffene Erfahrung. Beiträge zur antireduktionistischen Phänome-nologie, con contributi di G. Marx, A. Moldzio, Rostock.

2003 Was istNeuePhänomenologie?, Rostock.

2005a und W. Sohst, Hermann Schmitz. Im Dialog. Neun neugierige und kritische Fragen an die Neue Phänomenologie, Berlin.

2005b Was ist ein Phänomen?, in D. Schmoll - A. Kuhlmann (a c. di), Sym-ptom und Phänomen. Phänomenologische Zugänge zum kranken Menschen, Freiburg-München.

2007 Der Leib, der Raum und die Gefühle, Bielefeld-Locarno

2009 Nuova fenomenologia. Un’introduzione, T. Griffero (a c. di), Milano 2011.

195T. Griffero - L’errore dell’immaginazione

2010 Jenseits des Naturalismus, Freiburg-München.

SLOTERDIJK P.2009 Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault, Milano 2011.

SOENTGEN J.1998 Die verdeckte Wirklichkeit. Einführung in die Neue Phänomenologie

von Hermann Schmitz, Bonn.

STEPATH K.2006 Gegenwartskonzepte. Eine philosophisch-literaturwissenschhaftli-

che Analyse temporaler Strukturen, Würzburg.

ZOI A L.2011 Paranoia. La follia che fa la storia, Torino.

197

CRONOTOPI “SCONVENIENTI”.L’ERRORE E IL LOCUS AMOENUS

NELL’ORLANDO FURIOSO DI LUDOVICO ARIOSTO

di Cristiana Lardo

«Ogni lettore dell’Orlando Furioso vi ha potuto notare una forte presen-za di termini che alludono allo spazio dell’“errore”: lo stesso vagare dei tradizionali “cavalieri erranti” sembra assumervi il senso di una ricerca le-siva ed erronea, di un interminabile rischio di perdersi, di sbagliare strada, di deviare fuori da ogni via sicura» (Ferroni 1975: 79).

«La critica (Curtius, Schoenbeck, Avalle, ndr) definisce locus amoenus un angolo di natura piacevole e serena, composto di alberi, un prato verde o fiorito, una fonte o un ruscello, cui può aggiungersi il canto degli uccelli o il soffio della brezza» (Patanè Ceccantini 1996: 9).

Cominciando dalla fine, l’ultimo canto del Furioso inizia così:

Or, se mi mostra la mia carta il veroNon è lontano a discoprirsi il porto;sì che nel lito i voti scioglier speroa chi nel mar per tanta via m’ha scorto;ove, o di non tornar col legno interoo d’errar sempre, ebbi già il viso smorto.

«Errare», qui, appunto, in una doppia accezione: nel senso di «vagare», come da tradizione cavalleresca, per cui il canone fondamentale è quello della quête; ed «errare» nel senso di sbagliare, di commettere un errore. L’erranza e l’errore sono sempre in agguato, costituendo un’ambivalenza semantica che si è cristallizzata in un topos per la letteratura italiana fin dalle sue origini (cfr. Samson 2012).

Con Ariosto, però, si assiste a una svolta.È opportuno, però, a questo punto, chiarire il significato di cronotopo:

esso è il tempospazio. Leggere le opere della letteratura secondo il crono-topo proprio di ciascuna opera, o parte di essa, è una prospettiva suggesti-

198 Errore

va, come solo possono esserlo le letture i cui punti di riferimento sono il qui e l’ora, quelle che preferiscono la specificazione all’astrazione; il cro-notopo, allora, è definito dal tempo del moto necessario dentro un ambito definito (cfr. Bertone 2013).

In letteratura, spesso, tale moto costituisce lo spazio che intercorre tra un cronotopo privilegiato e un altro: come nel caso del locus amoenus, etimo-logicamente “luogo senza mura”, en plein air, dove tutto è perfetto, dove si è inequivocabilmente al sicuro. Come per molte altre istanze già codifica-te, anche stavolta però Ariosto spariglia le carte e ribalta il segno tradizio-nalmente affidato al valore del locus amoenus: che da luogo eletto e perfet-to diventa luogo perfetto, sì, ma intriso di errore, quindi, proprio per questo, ancora più insidioso. Diventa la rappresentazione scenografica e narrativa della contraddizione. E come per altre istanze Ariosto dissemina i luoghi di spie riconoscibili, tante volte sottolineate dalla critica ariostesca: il locus amoenus è il posto più inaffidabile che ci possa essere1.

Ariosto non passa mai nulla sotto preterizione; nulla viene accennato, se non spiegato più diffusamente poi. È sua cura costante che il suo lettore sia ben calato nella storia, portato in medias res, e come in tante altre occasio-ni non lascia spente le sue spie: che sono la presenza di acqua – «L’Acqua è il pericolo, la mobilità incontrollata, la minaccia oscura della Differenza, ma anche la via di comunicazione e della salvezza» (Bologna 1998: 96) – sotto forma di piccolo corso, rio, fiume, specchio d’acqua. Nel locus amo-enus l’acqua non manca mai. Un’altra spia riconoscibile sempre presente sono i sassi, le asperità del terreno, le radici che sbucano dalla terra. Segna-li che hanno lo scopo di mettere in guardia i personaggi; e a farli inciampa-

1 «As Curtius writes, “In the midst of these terrifying woods, there is “un boschet-to adorno” (I, 35), with a gentle breeze, two clear brooks, lawn, shade […]. In these three examples from Romance poetry [the Romance of Thebes, the epic of the Cid, and Ariosto’s Furioso] the locus amoenus is embedded in the wild forest of the romance of chivalry”.

A. Bartlett Giamatti is, of course, the other scholar who has published in 1966 a whole book on the subject of the Earthly Paradise and the Renaissance Epic, which contains the larger part of a long chapter devoted to Ariosto. The chapter, that arrives at important conclusions, deals in detail with the topic of the garden, even more specifically with “that particular kind of earthly paradise, the enchant-ed garden”, which is said to be characteristically Renaissance: “the beautiful place, sought for centuries” – inhabited, or rather ruled not by Eve but by a de-scendant of Homer’s Circe – becomes a trap to be avoided”. As the critic con-cludes, “the more attractive [these gardens] appear, the more dangerous they are”». (Saccone 1997: 2).

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 199

re – cioè cadere in errore – ci pensano poi le vicende di cui il locus amoe-nus è la location privilegiata.

Così, il luogo perfetto diventa nel Furioso il luogo dell’errore, alle spe-se del “povero” personaggio. Da un locus amoenus all’altro, seguendo l’entrelacement: particolarmente convincente e suggestiva è la proposta di Daniel Javitch, secondo il quale la scelta di tale tecnica non sarebbe soltan-to un tributo alla tradizione cavalleresca e canterina, ma una ben determi-nata strategia narrativa. L’entrelacement è di fatto la tecnica attraverso la quale il narratore si costringe ad “attendere” un fatto o piuttosto un perso-naggio che risolva un altro evento, che non potrebbe proprio proseguire senza che qualcosa o qualcuno intervenga: «Ariosto is regulary compelled to abandone one strand and take up another» (Javitch 1980: 66-80).

Di più. L’errore ha nel locus amoenus la sua residenza eletta. Quanto al tipo d’errore, occorre notare che, in scena, c’è sempre un errore di prospet-tiva o un errore di valutazione. Una distanza tra ciò che si crede o ci si aspet-ta e la realtà: «ecco il giudizio uman come spesso erra», «Signor mio, ognun che vive al mondo pecca et erra». Riportando le occorrenze del lemma nel Poema, si registra che “errore” compare ottantadue volte, “errare” ottantu-no, facendo di essi due lemmi tra i più frequenti nell’Orlando Furioso.

Vale la pena ora di dare qualche esempio della funzione che svolge il lo-cus amoenus – luogo dell’errore nel Poema.

Quivi parendo a lei d’esser sicurae lontana a Rinaldo mille miglia:da la via stanca e da l’estiva arsuradi riposare alquanto si consiglia,tra’ fiori smonta, e lascia alla pasturaandare il palafren senza la briglia:e quel va errando intorno alle chiare onde,che di fresca erba avean piene le sponde.

Ecco non lungi un bel cespuglio vededi prun fioriti e di vermiglie rose,che de le liquide onde al specchio siedechiuso dal sol fra l’alte quercie ombrose,così vòto nel mezzo, che concedefresca stanza fra l’ombre più nascose:e la foglia coi rami in modo è mista,che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

Dentro letto vi fan tenere erbettech’invitano a posar chi s’appresenta.La bella donna in mezzo a quel si mette;

200 Errore

ivi si corca, et ivi s’addormenta:ma non per lungo spazio così stette,che un calpestio le par che venir senta:cheta si leva, e appresso alla rivieravede ch’armato un cavallier giunt’era.

Se gli è amico o nemico non comprende:tema e speranza il dubbio cuor le scuote;e di quella aventura il fine attende,ne pur d’un sol sospir l’aria percuote.Il cavalliero in riva al fiume scendesopra l’un braccio a riposar le gote;e in suo gran gran pensier tanto penètrache par cangiato in insensibil pietra2.

Il cavaliere che Angelica osserva, non vista, piange e si lamenta. Nelle ottave seguenti il lettore ne viene a sapere il motivo:

-- Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci et ardie causi il duol che sempre il rode e lima,che debbo far? poi ch’io son giunto tardie ch’altri a côrre il frutto è andato prima?a pena avuto io n’ho parole e sguardiet altri n’ha tutta la spoglia opima.Se non ne tocca a me frutto né fioreperché affliger per lei mi vuo’ più il core?

La verginella è simile alla rosa,ch’in bel giardin su la nativa spinamentre sola e sicura si riposa,né gregge né pastor se le avicina;l’aura soave, e l’alba rugiadosal’acqua, la terra al suo favor s’inchina:gioveni vaghi e donne inamorateamano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelorimossa viene, e dal suo ceppo verde,che quanto avea da gli uomini e dal cielofavor, grazia e bellezza tutto perde.La vergine che ’l fior, di che più zeloche de’ begli occhi, e de la vita, aver de’,

2 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, I, 36-39. Le citazioni sono tutte dall’edizio-ne Mondadori del 1976.

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 201

lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inantiperde nel cor di tutti gli altri amanti.

Sia vile a gli altri, e da quel solo amataa cui di sé fece sì larga copia.Ah Fortuna crudel, Fortuna ingrata!trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.Dunque esser può che non mi sia più grata?dunque io posso lasciar mia vita propia?Ah, più tosto oggi manchino i dì miei,ch’io viva più, s’amar non debbo lei! -

Nelle ottave che seguono Ariosto rivela di chi si tratta: è Sacripante, un pagano, anche lui innamorato di Angelica, che ha saputo che Angelica è stata affidata a Orlando. Ed ecco che lei, all’improvviso, sbuca fuori a smentire l’errore:

E fuor di quel cespuglio oscuro e ciecofa di sé bella et improvisa mostra,come di selva, o fuor d’ombroso specoDïana in scena o Citerea si mostra;e dice all’apparir: - Pace sia teco;teco difenda Dio la fama nostra,e non comporti, contra ogni ragione,ch’abbi di me sì falsa opinïone - (I, 52).

Sacripante è felicissimo di vederla; Angelica lo abbraccia, pensando tra sé di scegliere lui, fidato e rispettoso, come sua guida fino in Oriente, a casa sua, dove lei vuol tornare. Gli spiega che Orlando è stato una compa-gnia fidata che l’ha spesso salvata da «casi rei» e soprattutto rivela

e che ’l fior virginal così avea salvo,come se lo portò del materno alvo (I, 55).

Commenta il narratore in uno dei suoi interventi autoriali, commenti fuori scena, dei veri e propri a parte:

Forse era ver, ma non però credibilea chi del senso suo fosse signore;ma parve facilmente a lui possibile,ch’era perduto in via più grave errore.Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,e l’invisibil fa vedere Amore.

202 Errore

Questo creduto fu; che ’l miser suoledar facile credenza a quel che vuole (I, 56).

Gli endecasillabi dispari sono sdruccioli, come raramente capita nel Po-ema. Sono solo tre ottave in quarantasei canti: si tratta di sequenze, tutte e tre, che hanno a che fare con un palco, con il teatro3. La scelta dello sdruc-ciolo, allora, ha a che vedere con il teatro, evocando e quasi materializzan-do l’immagine di una quinta (senza tacere che appena prima di iniziare il dialogo Angelica era apparsa all’improvviso, evocando modalità teatrali: «Dïana in scena, o Citerea si mostra») (cfr. Lardo 2011: 217-224).

Le citazioni (il «transunto», come lo chiama Ariosto, ossia i calchi, la ri-presa esplicita di sintagmi presi dalla tradizione, sono evidenti: c’è Petrar-ca («Pensier, dicea, che ‘l cuor m’agghiacci et ardi»), c’è Catullo, c’è Ovi-dio e Poliziano. C’è inoltre, un elemento importante che ha molto a che fare, come vedremo, con l’errore: la confusione delle peculiarità tradizio-nalmente assegnate ai sessi. Sacripante – uomo – si dimostra essere molto meno virile di Angelica, anche se ragiona, per così dire, da “macho”:

- Corrò la fresca e matutina rosa,che, tardando, stagion perder potria.So ben ch’a donna non si può far cosache più soave e più piacevol sia,ancor che se ne mostri disdegnosa,e talor mesta e flebil se ne stia:non starò per repulsa o finto sdegno,ch’io non adombri e incarni il mio disegno – (I, 58).

Naturalmente, qualcosa va storto: mentre Sacripante si prepara al «dol-ce assalto», arriva un cavaliere che atterra il saracino, che va a finire sotto al suo cavallo. All’errore interpretativo di Sacripante se ne aggiunge un al-tro, stavolta appartenente al codice cavalleresco: si tratta di Bradamante, una donna, quindi; e per di più, per sancire la definitiva vittoria dell’errore sulla norma, sarà proprio Angelica a soccorrerlo e a tirarlo goffamente fuo-ri dalla situazione in cui si è trovato e a consolarlo.

3 «Il ritmo vale per lui come un’implicita nota di regia: e il ritmo dello sdrucciolo in particolare, perché esige comunque un rallentamento che ne esalta la dicibilità attraverso l’attesa del colpo di decima, unico vero innalzamento del tono in cui la vocale forte si possa prolungare, attesa immediatamente riflessa dalla doppia bat-tuta atona che chiude il verso. Che è poi fatto ancor più scivoloso e senza forte ca-rattere per la scarsa densità di ictus, non solo gregari, che lo caratterizza». (Garef-fi 2007: 14).

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 203

Sospira e geme, non perché l’annoiche piede o braccia s’abbi rotto o mosso,ma per vergogna sola, onde a’dì suoiné pria né dopo il viso ebbe sì rosso:e più, ch’oltre al cader, sua donna poifu che gli tolse il gran peso d’adosso.Muto restava, mi cred’io, se quellanon gli rendea la voce e la favella.

- Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca!che del cader non è la colpa vostra,ma del cavallo, a cui riposo et escameglio si convenia che nuova giostra.Né perciò quel guerrier sua gloria accresca;che d’esser stato il perditor dimostra:così, per quel ch’io me ne sappia, stimo,quando a lasciare il campo è stato primo (I, 66-67).

L’anonimo cavaliere vittorioso, però, contraddicendo anche la pietosa menzogna di Angelica, torna indietro a rivelare il suo nome, lasciando il povero Sacripante, letteralmente, caduto in un doppio se non triplo errore, «tutto avvampato di vergogna in faccia».

I loci amoeni nel Furioso sono tanti. Troppi per considerarli tutti in que-sto contributo. Varie sono le fila che Ariosto sceglie di seguire, vari sono i tipi di errore. Immutata resta, però, la frequenza di quei lemmi (errore, er-ror, errare, variante coniugato) e di rime e rimanti quando ci si ferma nei luoghi perfetti4. Come un rapporto inversamente proporzionale tra moto e errore: meno ci si muove, più si sbaglia. Errare, come vagare equivale all’errare come sbagliare.

C’è un altro episodio fondamentale presieduto da più errori e a più livel-li: nel canto XXIII, esattamente nel centro del poema (46 canti), Orlando sta per divenire Furioso.

Il momento è centrale anche per la sua trama:

4 «Operando trasversalmente attraverso lo strumento fonetico-musicale-semantico, su cui poggia, quasi fosse un traliccio linguistico-mnemonico, la tecnica della ri-presa a distanza dei suoni, dei vocaboli e dei rimanti. Ed è questa, mi sembra, l’en-nesima e più luminosa riprova di come le fondamenta del libro poggino sulla me-moria interna dell’Autore (in persona del Personaggio) e, per indotto esercizio spirituale, del Lettore, che può “comprendere” solo nel momento in cui la Memo-ria, come avviene nei sogni e nelle analisi di essi, lo “fa tornare” sul luogo in cui furono pronunciate, e in apparenza obliate, le “prime parole”» (Bologna 1998: 200).

204 Errore

Lo strano corso che tenne il cavallodel Saracin pel bosco senza via,fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,né lo trovò, né poté averne spia.Giunse ad un rivo che parea cristallo,ne le cui sponde un bel pratel fioria,di nativo color vago e dipinto,e di molti e belli arbori distinto.

Il merigge facea grato l’orezzoal duro armento, et al pastore ignudo;sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,e più che dir si possa empio soggiorno,quell’infelice e sfortunato giorno (XXIII, 100-101).

Orlando non prevede che tutto stia andando a finire nel peggiore dei modi, per lui; e nell’unico modo, per la storia. Cominciano qui una serie di errori (di prospettiva, di valutazione) fatti dal personaggio a danno di se stesso.

Certo delle sue capacità di poter decodificare il mondo attorno a lui, in pieno possesso di quella che lui crede sia la chiave per capire tutto, il codi-ce cavalleresco e maschile, Orlando si guarda attorno riconoscendo un lo-cus amoenus perfettamente inscritto nel canone e nel codice:

Volgendosi ivi intorno, vide scrittimolti arbuscelli in su l’ombrosa riva.Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,fu certo esser di man de la sua diva.Questo era un di quei lochi già descritti,ove sovente con Medor venivada casa del pastore indi vicinala bella donna del Catai regina.

Angelica e Medor con cento nodilegati insieme, e in cento lochi vede.Quante lettere son, tanti son chiodicoi quali Amore il cor gli punge e fiede.Va col pensier cercando in mille modinon creder quel ch’al suo dispetto crede:Ch’altra Angelica sia, creder si sforza,Ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza (I, 102-103).

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 205

L’impianto narratologico dell’autore del Furioso ha raggiunto, nel cen-tro, appunto, la sua acmè. Dall’impazzimento di Orlando in poi il poema non sarà più uguale a come era prima. Il ritmo frenetico di incontri e di fu-ghe, segnato dalla tecnica dell’entrelacement, subisce una battuta di arresto dal punto di vista della sua coralità: se i primi ventitre canti sono determi-nati da un’urgenza centrifuga, la seconda parte del poema è caratterizzata da sequenze più lunghe, da narrazioni più distese.

Nel tema centrale della follia si raccoglie al più alto grado questo confronto con il limite e con l’errore: l’eccesso di Orlando “furioso” porta al parossismo quella che è una condizione consueta dell’uomo». (Ferroni 2008: 211)

La sequenza dell’impazzimento, dunque, è scandita secondo vari criteri, tutti rintracciabili nei versi dedicati. Provando a seguire l’errore come con-dizione permanente, la sequenza può essere scandita tramite un effetto a in-grandimento. Un errore fa da cornice e racchiude in sé più errori, legati, in-terdipendenti e tanto indistricabili quanto lo sono le «viti erranti» rappresentate.

Sulle prime, primo errore: Orlando cerca di convincersi che si tratti di un’omonimia («ch’altra Angelica sia creder si sforza / ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza»). Appellandosi al noto, per decodificare la si-tuazione narrativa, sopravviene il codice letterario italiano e antico, che suggerisce di non rivelare il nome dell’amata ma di mascherarlo attraverso un senhal. Ma anche il codice della poesia amorosa mostra la sua vetustà e inefficacia:

Poi dice: - conosco io pur queste note:Di tal io n’ho tante vedute e lette.Finger questo Medoro ella si puote:Forse ch’a me questo cognome mette. - Con tali opinïon dal ver remoteusando fraude a se medesmo, stettene la speranza il mal contento Orlando,che si seppe a se stesso ir procacciando.

Orlando comincia a prendere coscienza e a percepire il suo errore di va-lutazione:

Ma sempre più raccende e più rinnova,quanto spenger più cerca, il rio sospetto:come l’incauto augel che si ritrovain ragna o in visco aver dato di petto,

206 Errore

quanto più batte l’ale e più si provadi disbrigar, più vi si lega stretto.Orlando viene ove s’incurva il montea guisa d’arco in su la chiara fonte.

Il “sadismo” autoriale prosegue, facendo addentrare il personaggio in un anfratto recesso del locus amoenus, una specie di luogo perfetto “al qua-drato”, la quintessenza del locus stesso.

Aveano in su l’entrata il luogo adornocoi piedi storti edere e viti erranti.Quivi soleano al più cocente giornostare abbracciati i duo felici amanti.V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,più che in altro de i luoghi circonstanti,scritti, qual con carbone e qual con gesso,e qual con punte di coltelli impresso.

Un altro errore di interpretazione: ancora un codice letterario si ritorce contro il conte. Se prima era un codice duecentesco e stilnovista, stavolta l’errore è nel prendere alla lettera il codice petrarchesco e bembesco.

Il mesto conte a piè quivi discese;e vide in su l’entrata de la grottaparole assai, che di sua man disteseMedoro avea, che parean scritte allotta.Del gran piacer che ne la grotta prese,questa sentenzia in versi avea ridotta.Che fosse culta in suo linguaggio io penso;et era ne la nostra tale il senso:

- Liete piante, verdi erbe, limpide acque,spelunca opaca, e di fredde ombre grata,dove la bella Angelica che nacquedi Galafron, da molti invano amata,spesso ne le mie braccia nuda giacque;de la commodità che qui m’è data,io povero Medor ricompensarvid’altro non posso, che d’ognior lodarvi:

e di pregare ogni signore amante,e cavallieri e damigelle, e ognunapersona, o paesana, o vïandante,che qui sua volontà meni o Fortuna;

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 207

ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piantedica: benigno abbiate e sole e luna,e de le ninfe il coro, che proveggiache non conduca a voi pastor mai greggia - (XXIII, 108-109).

Il terzo livello a cui l’errore si situa, in un crescendo che ricorda, come già suggerito dall’autore, le trappole rinascimentali per l’uccellagione, è di competenza di un ambito un po’ diverso. Se finora si è trattato di erronea interpretazione di codici poetici, questa volta l’errore è linguistico. E non consiste nel non capire, ma nel capire troppo bene un codice:

Era scritto in arabico, che’l conteintendea cosi ben come latino:fra molte lingue e molte ch’avea pronte,prontissima avea quella il paladino;e gli schivò più volte e danni et onte,che si trovò tra il popul saracino:ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

Tre volte e quattro e sei lesse lo scrittoquello infelice, e pur cercando invanoche non vi fosse quel che v’era scritto;e sempre lo vedea più chiaro e piano:et ogni volta in mezzo il petto afflittostringersi il cor sentia con fredda mano.Rimase al fin con gli occhi e con la mentefissi nel sasso, al sasso indifferente (XXIII, 110-111).

Ma il cuore di Orlando è il cuore di un uomo preso ad esempio per tutti: il cuore del migliore, un cuore che dovrebbe essere immune dall’errore. La follia invece non risparmia proprio nessuno, è, secondo l’uomo rinasci-mentale, insita e strutturale in ogni uomo. Non a caso in questa ottava Ario-sto interviene in prima persona: abban dona per un momento la sua posizio-ne di narratore autoriale, quello che fa muovere i personaggi come se fossero burattini, e scende in campo con una riflessione personale: «crede-te a chi n’ha fatto esperimento...». Il male d’amore che induce in errore che fa diventare folli tocca a tutti gli uomini, nessuno escluso, persone e perso-naggi, nel Medioevo e nel Rinascimento, veri o fittizi che siano.

Fu allora per uscir del sentimento,sì tutto in preda del dolor si lassa.Credete a chi n’ha fatto esperimento,

208 Errore

che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.Caduto gli era sopra il petto il mento,la fronte priva di baldanza e bassa;né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)alle querele voce, o umore al pianto (XXIII, 112).

Ma da uomo moderno, da perfetto gentiluomo rinascimentale per cui la “sprezzatura” è un imperativo morale e comportamentale (cfr. Quondam 2003), Orlando non riesce a piangere. Ai fiumi di lacrime versate nella po-esia petrarchesca, per esempio, o dantesca, Ariosto contrappone un’osser-vazione scientifica: le troppe lacrime finiscono per ingorgare, come accade in fisica quando si rovescia troppo velocemente un vaso pieno con l’aper-tura troppo stretta.

L’impetuosa doglia entro rimase,che volea tutta uscir con troppa fretta.Così veggiàn restar l’acqua nel vase,che largo il ventre e la bocca abbia stretta;che nel voltar che si fa in su la base,l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,e ne l’angusta via tanto s’intrica,ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

L’errare, nella doppia accezione di “vagare” e “sbagliare”, ritorna subi-to e prende il sopravvento. Orlando non è riuscito a scoppiare in lacrime: sarebbe stato troppo facile. È pur sempre un eroe, sebbene in parodia, quel-la del “buono e bello” della tradizione, e come tale è un essere pensante che fa sempre scelte avvedute e meditate. Tuttavia, come anche prima, l’errore (o errare) prevale:

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa comepossa esser che non sia la cosa vera:che voglia alcun così infamare il nomede la sua donna e crede e brama e spera,o gravar lui d’insopportabil sometanto di gelosia, che se ne pera;ed abbia quel, sia chi si voglia stato,molto la man di lei bene imitato.

Quella serie di verbi coordinati, così, senza la virgola, «e crede e brama e spera» di reminiscenza petrarchesca, rende bene l’incalzare dell’illusione scambiata per ragionevolezza: c’è qualcuno che vuole farlo impazzire e poi

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 209

morire di gelosia, e per questo ha falsificato la scrittura di Angelica, e lo ha fatto con perizia.

In così poca, in così debol spemesveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;indi al suo Brigliadoro il dosso preme,dando già il sole alla sorella loco.Non molto va, che da le vie supremedei tetti uscir vede il vapor del fuoco,sente cani abbaiar, muggiare armento:viene alla villa, e piglia alloggiamento.

Non passa inosservata in questa ottava, dove il tono ritorna quello dell’i-nizio, quello dell’autore che si fa bonariamente beffe del suo illuso perso-naggio, la citazione – imitazione – prima di Dante e poi di Petrarca.

Ariosto, come abbiamo già detto, anticipa sempre le situazioni che ver-ranno affrontate inserendo dei termini apparentemente, sulle prime, non particolarmente significativi. Come nel caso del «cerchio», parola fatta di-ventare a poco a poco tematica: che assume sempre più importanza, e più incidenza, anche decontestualizzata, allo stesso modo nell’ottava che se-gue Ariosto evoca l’armatura: per ora, un’armatura innocua, apparente-mente poco importante, quella del cavallo.

Orlando comincia ad aver ben presente la situazione. Dopo aver avuto conferma dell’amore di Angelica e Medoro attraverso il canale della scrit-tura, che come abbiamo visto avrebbe potuto essere fallace, perché le pos-sibili obiezioni sono cadute tutte, a una a una, ora avrebbe la possibilità di averne un’ulteriore conferma, questa volta attraverso il canale dell’oralità. Evita di far domande, allora: e da notare è il ritmo dell’endecasillabo «Che-der ne vuol: poi tien le labra chete» che mima l’affollarsi dei pensieri e la rapidità della decisione.

Poco gli giova usar fraude a se stesso;che senza domandarne, è chi ne parla.Il pastor che lo vede così oppressoda sua tristizia, e che voria levarla,l’istoria nota a sé, che dicea spessodi quei duo amanti a chi volea ascoltarla,ch’a molti dilettevole fu a udire,gl’incominciò senza rispetto a dire:

come esso a’ prieghi d’Angelica bellaportato avea Medoro alla sua villa,

210 Errore

ch’era ferito gravemente; e ch’ellacurò la piaga, e in pochi dì guarilla:ma che nel cor d’una maggior di quellalei ferì Amor; e di poca scintillal’accese tanto e sì cocente fuoco,che n’ardea tutta, e non trovava loco:

e sanza aver rispetto ch’ella fussefiglia del maggior re ch’abbia il Levante,da troppo amor constretta si condussea farsi moglie d’un povero fante.All’ultimo l’istoria si ridusse,che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,ch’alla sua dipartenza, per mercededel buono albergo, Angelica gli diede.

Come al solito, nel Furioso, volere non è potere. Altra è la decisione del personaggio, altra è quella del Caso, che domina incontrastato su tutto e su tutti. Il pastore, pensando ingenuamente – ma, l’abbiamo detto, talvolta l’ingenuità è piena di colpe – di alleviare il dolore palese di Orlando, gli racconta la bella storia dei due amanti, portandogli anche il bracciale d’oro come prova. Al medium scritto e orale ora si aggiunge il più forte di tutti, il canale delle cose. Res, visibilia, prove tangibili, non opinabili come la po-esia o le dicerie, così importanti in tutto il poema. Stavolta per Orlando non c’è più nulla da fare: è tutto vero, e le conseguenze, da subito, saranno fu-neste.

I Luoghi perfetti, insomma, nell’Orlando Furioso sono l’habitat ideale per l’errore. Gli esempi potrebbero essere tanti: l’episodio di Ruggero nell’isola di Alcina; l’episodio decisamente comico di Angelica con il vec-chio eremita – che cerca di farla sua, ma soffre di impotenza senile –; l’e-pisodio di Ricciardetto e Fiordispina, nel quale vediamo in scena donne scambiate per uomini e viceversa, vero trionfo narrativo dell’errore.

Forse proprio nella parola “narrativo” risiede la chiave esatta per chiari-re il rapporto di interdipendenza che lega il locus amoenus e l’errore. Tut-to nel Furioso viene sacrificato e devoluto alla leggibilità della storia, prin-cipale fine perseguito, ultima cura di Ludovico Ariosto. E allora, forse, possiamo giustificare l’idea dell’errore considerandolo un meccanismo ne-cessario alla narrazione; ma forse possiamo anche riscattare, con Ariosto, la possibilità di errore, considerandola una delle felici manifestazioni della variatio, una delle meravigliose porzioni di realtà che fortunatamente pre-scindono da codici, canoni e condizioni.

C. Lardo - Cronotopi “sconvenienti”. L’errore e il locus amoenus 211

Bibliografia

ARIOSTO L.1532 Orlando Furioso, Milano 1976.

BERTONE G.2013 Open blog. Che fare della letteratura italiana nell’era del globale,

Novara.

BOLOGNA C.1998 La macchina del Furioso, Torino.

FERRONI G.1975 L’Ariosto e la concezione umanistica della follia, in Convegno inter-

nazionale Ludovico Ariosto, Roma, pp. 73-92.

2008 Ariosto, Roma.

GAREFFI A.2007 Introduzione a Ludovico Ariosto, Commedie, Torino.

JAVITCH D.1980 Cantus interruptus in “Orlando Furioso”, in «MLN», 95, I.

LARDO C.2011 Immagini in rima nel Furioso, in La parola e l’immagine. Studi in

onore di Gianni Venturi, M. Ariani, A. Bruni, A. Dolfi, A. Gareffi et al. (a c. di), Firenze, pp. 217-224.

PATANÈ CECCANTINI R.1996 Il motivo del locus amoenus nell’“Orlando Furioso” e nella “Geru-

salemme Liberata”, Lausanne.

QUONDAM A.2003 Cavallo e cavaliere, l’armatura come seconda pelle del gentiluomo

moderno, Roma.

SACCONE E.1997 Wood, Garden, locus amoenus in Ariosto’s Orlando Furioso, «MLN»,

112, pp. 1-20.

SAMSON A.2012 Garden and Horticulture in the Renaissance, West-Sussex.

213

ERRORI DI VALUTAZIONE

di Jerry Miller

1. Questo saggio non si occupa semplicemente di errori, ma intende an-che compierne alcuni. Inoltre, la discussione della valutazione e dell’etica come forma di pregiudizio, ci offre deliberatamente una visione pregiudi-ziale di questi stessi argomenti. Questi errori e pregiudizi, tuttavia, non compromettono gli argomenti qui presentati, quanto piuttosto, si spera, li rendono possibili. Infatti, nonostante il titolo, questo saggio non concepi-sce “le asserzioni erronee” [misstatements] come giudizi negativi che ci al-lontanano dal ruolo del valore più di quanto facciano le asserzioni sul mon-do; al contrario, lo scopo qui è mostrare come possiamo comprendere i giudizi erronei di valore in quanto produttivi di ciò che noi consideriamo delle asserzioni legittime.

A questo scopo ci si presentano un paio di approcci possibili. Si può, sul-le orme di Nietzsche, affermate che tutti i valori sono dei giudizi erronei. Nietzsche asserisce che ogni giudizio di valore – vale a dire, ogni giudizio sulla validità comparativa di una rappresentazione interpretata – è un “er-rore”. Eppure, per Nietzsche stesso tali giudizi inesatti di valore denotano degli errori che sono necessari e inevitabili, cioè sono degli errori creativi e in questo senso sono produttivi e positivi. Questi errori non sono correg-gibili, eppure, ciononostante, costituiscono dei fraintendimenti.

Un secondo modo di ipotizzare un “giudizio inesatto di valore” è quello di concepire il valore stesso come una forza produttiva. Per far ciò è neces-sario che noi pensiamo al valore non come a un genere di interpretazioni o di asserzioni, come credeva Nietzsche, ma come qualcosa che è necessario alla produzione di qualunque asserzione o occorrenza interpretativa. In que-sto senso il “valore” si riferirebbe ad un elemento strutturale che è condizio-ne per ogni rappresentazione mentale. Il valore, vale a dire, dovrebbe esse-re formativo rispetto alle asserzioni “meramente” fattuali su come il mondo “è”, per esempio, che un triangolo è una figura di tre lati, che la gelosia è un’emozione o che la creatività consente nuove modalità di esistenza. Tipi-

214 Errore

camente, non consideriamo queste asserzioni come valutative, ma come semplicemente descrittive. Infatti, si potrebbe pensare che la neutralità-va-loriale sia costitutiva della definizione di un’asserzione descrittiva – e cioè che asserire come le cose “stanno” nel mondo, e niente di più, implica l’as-senza di qualunque valenza valutativa. Se, tuttavia, le asserzioni descrittive si dimostrassero dipendenti dalla funzione valoriale, allora la vera natura e la possibilità stessa di una rappresentazione o di una considerazione “pura-mente” descrittive, non mediate dal valore, si rivelerebbe intenibile.

Questa seconda strategia si fa strada attraverso una riconsiderazione del-la relazione sussistente tra valore e fenomeni, e quindi una relazione tra eti-ca ed epistemologia. Specificamente, essa sfida la tradizionale interpreta-zione del valore come un giudizio secondario, un giudizio qualitativo che è “annesso” alla percezione presuntivamente neutra del mondo, da un punto di vista valoriale. A motivare questo riesame è la teoria della formazione del segno linguistico e la teoria della formazione linguistica dei segni di Ferdi-nand de Saussure (Saussure 1916). Nei suoi lavori, Saussure sottolinea come il valore sia una condizione per l’emergenza di rappresentazioni men-tali discrete e articolabili o di “pensieri-suoni”, e tuttavia la spiegazione che egli fornisce del ruolo del valore nella formazione di occorrenze dotate di significato, sfortunatamente, è frammentaria e nebulosa. Non è qui possibi-le fornire una ricostruzione chiara e onnicomprensiva di questa funzione, ma un’ipotesi sulla struttura generale dell’argomento ci fornirà elementi sufficienti per suggerire per quale motivo il valore per Saussure è costituti-vo del significato e perché, a sua volta, gli “errori” o i “fraintendimenti” di giudizio” pertengono a quell’operazione formativa.

2. Per poter apprezzare l’innovazione distintiva dell’analisi di Saussure è bene ricordare il primo principio convenzionale della relazione tra valo-re e fenomeni – cioè quella premessa fondamentale cui si conforma in lar-ga misura l’etica moderna e le filosofie morali moderne: in breve, cioè, che il valore necessariamente segue, o succede, all’interpretazione epistemica. Il modello generale che deriva da questa premessa procede secondo questa sequenza: prima si diviene consapevoli o si evoca un percetto mentale, cioè si concettualizza, diciamo, un triangolo, la gelosia o la creatività, e a que-sto punto soltanto, dopo aver identificato questa rappresentazione come una rappresentazione di tipo particolare, si può successivamente valutarla, cioè se ne può fare l’oggetto di una valutazione (in questa possibilità di va-lutazione è implicita l’idea che sia anche possibile che quella stessa rappre-sentazione possa non essere oggetto di giudizio valutativo). Questo ragio-namento appare chiaramente auto-evidente: se si vuole contemplare il

215J. Miller - Errori di valutazione

valore di un fenomeno, diciamo la “gelosia”, un tale intento sembrerebbe implicare logicamente una previa comprensione di quell’affetto in quanto è riconoscibile proprio come una specifica emozione. Da questo punto di vista, prima si identifica – o si riconosce che qualcuno è capace in primo luogo di identificare – un’esperienza affettiva le cui caratteristiche si pre-sentano appunto come gelosia, e successivamente si può considerare il va-lore contestuale della gelosia, che a sua volta giustifica una conseguente di-fesa o opposizione rispetto a quell’emozione.

Per meglio spiegare questa visione standard e perché, secondo Nietzsche e Saussure, essa non riesce a dar conto adeguatamente del modo in cui la forza valutativa comparativa della rappresentazione venga in essere, pos-siamo considerare tre esempi immaginari.

a) Immaginiamo che io abbia un’amica, Anna. Anna mi racconta che il suo collega riceve una promozione e che, da quel momento in poi, sente un forte desiderio di essere anch’essa promossa. Anna è sorpresa e un po’ per-plessa per ciò che sente così fortemente, e ne è preoccupata. In risposta, po-trei porle alcune domande a scopo di chiarificazione: in che modo lei vede il suo collega? Come un modello o un mentore? O piuttosto lo percepisce come un rivale competitivo o un nemico? Nel momento in cui pongo ad Anna queste questioni, quindi, sto cercando di aiutarla a denominare o identificare questo sentimento, quest’emozione di cui lei fa esperienza – cioè, distinguere, in questo caso, il sentimento di “emulazione” da quello di “gelosia”. Secondo il ragionamento concepito a partire dal modello stan-dard, dobbiamo prima determinare che cosa è quest’emozione per poterne stabilire il valore o la sua importanza. Se determiniamo che si tratta di un desiderio di emulazione allora è fortemente probabile che noi intenderemo il valore di questo sentimento in maniera diversa da come lo valuteremmo se l’avessimo identificato come gelosia.

b) Consideriamo ora che io disegni un simbolo o un segno e vi chieda: è ben disegnato o è mal disegnato? Se è una figura con tre lati, equilatera, e io dico che è un triangolo, voi potete dire che sì, è un triangolo ben disegna-to. Se, d’altra parte, io dicessi che questa figura è un quadrato, voi rispon-dereste che è mal disegnato – che io ho disegnato male il quadrato nella mi-sura in cui la figura che ho disegnato ha soltanto tre lati. In questo caso, in funzione di ciò che ho dichiarato circa quello che la figura rappresenta, si tratterà o di un triangolo ben disegnato o di un quadrato disegnato male. Di nuovo, secondo la teoria standard, la qualità della rappresentazione, dicia-mo il suo valore, dipende innanzitutto da “che cos’è” che deve essere valu-

216 Errore

tato. Questa posizione afferma, in effetti, che il giudizio valutativo del se-gno è impossibile se prima non identifichiamo quel segno, cioè finché non sappiamo di che cosa è una istanziazione di, cioè che cosa rappresenta o si-gnifica. Ora, che possa trattarsi di una rappresentazione estremamente di-fettosa non è qui di alcun interesse per il teorico morale. Potremmo dire di una casa colpita da un uragano che è pur sempre una casa, anche se metà del tetto fosse stato divelto e le quattro mura contenessero delle enormi cre-pe. Si tratterebbe, quindi, di un esempio mediocre di casa, così come po-trebbe dire il teorico morale, ma anche così malridotto l’oggetto conserve-rebbe la sua identità o il suo nome – “casa” – anche se il suo valore cambierebbe, cioè da una casa pienamente funzionale a una casa non fun-zionale. Era una buona casa ma ora non lo è più, ora è una casa manchevo-le e comunque priva di valore.

c) L’esempio finale è, in un certo modo, una variante di quello preceden-te. Immaginiamo un segno – non una forma geometrica elementare come un triangolo, ma piuttosto qualcosa che potrebbe essere o non essere una lettera o una parola. Forse potrebbe non essere neppure un segno grafico – potrebbe trattarsi di un suono. Un suono che proviene da qualche parte, fuori di me, o forse da qualcuno o qualcosa che sta fuori di me. Per il teo-rico morale, il problema di determinare se questo suono è – nel senso etico più semplice del termine – importante o non è importante, significativo o non significativo, è che non è chiaro che ci sia qualcosa che questo suono “è” oppure rappresenta. Il dilemma in questo caso consiste in qualcosa di più che semplicemente nello stabilire che cosa “è” la rappresentazione che potrebbe essere valutata – non si tratta solo di stabilire se, come negli esempi precedenti, il fenomeno sia da classificarsi come gelosia o deside-rio di emulazione, o se sia un triangolo o un quadrato. Questo suono senza referenti lascia il teorico morale incerto sul fatto che ci sia qualcosa in ge-nerale che abbia un significato – cioè incerto se questo suono abbia un “og-getto”: non una fonte o un’origine ma, come per l’esempio della figura tracciata, se esso sia una “figura” di qualcosa, come potrebbe essere un’oc-correnza linguistica (una parola pronunciata o una espressione verbale ri-conoscibile). Detto in altri termini, questo suono sarebbe “significativo” o “privo di significato”? Se avesse significato, il teorico morale potrebbe cer-care di determinare la sua identità rappresentazionale nello stesso modo in cui uno potrebbe determinare se una certa emozione è o non è gelosia, o se una certa figura è un (buon esempio di) triangolo o un (cattivo esempio di) quadrato – con ciò fornendo un oggetto al quale poter annettere un certo valore. In un caso del genere, può essere necessario dover tradurre quel

217J. Miller - Errori di valutazione

suono per poter scoprire il concetto o il “significato” che esso intende co-municare. E a quel punto, finalmente, il suono – essendo stato legato a un concetto o a un pensiero – può mettere capo ad un giudizio di valore.

Questa è, dunque, la teoria standard della relazione tra valore e rappre-sentazione fenomenica nelle tre varianti. In ognuna di queste, la determina-zione epistemica – cioè la capacità di dire che cosa un fenomeno sia o che cosa un’occorrenza specifica significhi o rappresenti – costituisce una con-dizione prioritaria per l’originarsi del valore.

3. Consideriamo allora la sfida che Nietzsche pone a questa interpreta-zione convenzionale e a ciò che egli percepisce come i suoi problemi più consistenti. La sua risposta potrebbe qualificarsi come “critica dell’origi-ne”, in quanto afferma che la visione standard presume una contraddizione implicita rispetto all’origine del valore. Precisamente, Nietzsche si chiede in che modo un’identificazione del «che cos’è» e una valutazione di quel-la interpretazione possano rivendicare una medesima origine se sono qua-litativamente e temporalmente giudizi diversi. Quando poniamo la questio-ne dell’identificazione, cioè del «che cos’è», da quale punto, si chiede Nietzsche, poniamo la questione del valore? Forse che «le valutazioni ri-mandano a un mondo metafisicamente diverso?» (Nietzsche 2003: 96). Se è così, egli suggerisce, dovremmo porre due “mondi metafisici” distinti – un mondo di verità (valorialmente neutrale) e un mondo distinto ma com-plementare di valori. Questo ci obbligherebbe, di conseguenza, a trovare un meccanismo addizionale che riesca a combinare appropriatamente i due mondi – cioè una qualche capacità che faccia corrispondere il fenomeno del primo mondo al suo proprio valore nel secondo.

Così per Nietzsche delle due l’una: o il valore inerisce al fenomeno stes-so – in altre parole l’origine del valore appartiene organicamente al fenome-no – oppure il valore si origina all’esterno del fenomeno. Se il valore si ori-gina nel fenomeno, non è chiaro in che modo il valore possa essere una comprensione secondaria che venga dopo l’individuazione di identità. Come può una stessa facoltà cognitiva che costruisce un’interpretazione a partire da percetti elementari – cioè una rappresentazione del «che cos’è?» – “percepire” in un secondo momento un’altra proprietà di quegli stessi precetti che essa non abbia inizialmente afferrato? Come può il valore esse-re una proprietà di una rappresentazione fenomenica che può entrare nella coscienza soltanto dopo che altre proprietà sono state colte in primo luogo?

Se il valore non può coerentemente emergere dalla stessa capacità della rappresentazione, si potrebbe pensare, alternativamente, che esso si origini da una fonte esterna delle nostre capacità interpretative primarie. Questa

218 Errore

spiegazione è, in larga misura, quella che Nietzsche favorisce. Definendo il valore come un’interpretazione secondaria e affettiva di un’interpretazio-ne epistemica, egli sostiene che le valutazioni non si originano nel fenome-no con cui esse sono associate, ma derivano dall’esterno rispetto a queste; di conseguenza esse possono non avere relazione coerente con i fenomeni che presuntivamente valutano. Le interpretazioni epistemiche del «che cos’è», sostiene Nietzsche, si presentano come interpretazioni valorial-mente neutrali di identità; queste vengono per prime. Le interpretazioni va-lutative, invece, seguono, ma in quanto hanno una relazione arbitraria ed esterna con le precedenti interpretazioni di identità, esse costituiscono dei «fraintendimenti». Il valore, secondo Nietzsche, è «soltanto un’interpreta-zione di certi fenomeni, [ed è] più precisamente un fraintendimento» (Nietzsche 1889: 55). Queste asserzioni valutative distorcono ulteriormen-te le credenze, che sono già prospettiche, circa l’identità e la causa delle no-stre azioni e dei nostri oggetti. Il valore, in effetti, per Nietzsche, si riferi-sce ad un giudizio interpretativo secondario e inferiore, cioè a un mondo erroneo in cui le rappresentazioni del mondo vengono ulteriormente seg-mentate e riclassificate.

Nietzsche sostiene così che se la valutazione è successiva all’identifica-zione fenomenica, così come vorrebbe la teoria standard, è soltanto perché tutte le relazioni che sussistono tra fenomeni e valori sono completamente arbitrarie e inessenziali. La sfida nietzscheana alla teoria standard, dun-que, è la rivendicazione che i giudizi valutativi non possono essere inter-pretazioni “secondarie” e nello stesso tempo avere una qualunque forza au-toritativa o prescrittiva. Infatti se la relazione di valore con i fenomeni è arbitraria, allora il valore non ha nessun significato circa la rappresentazio-ne alla quale è annesso, ma soltanto circa lo stato affettivo del soggetto per-cipiente. Il valore, conclude Nietzsche, o è intrinseco alla determinazione del «che cos’è» o è un errore inessenziale e basato sul pregiudizio.

Un esempio della critica di Nietzsche si può trovare in un’asserzione di questo tipo: “Questa sedia è insicura”. Per Nietzsche l’asserzione costitui-rebbe un giudizio erroneo di valore, nella misura in cui la sedia non può es-sere giudicata “insicura” nel modo in cui si potrebbe dire che è, per esem-pio, piccola, di legno o che ha quattro gambe. La rappresentazione interpretata della sedia, così affermerebbe Nietzsche, rimane sempre mo-ralmente neutrale; è cioè priva di valutazione. Al contrario, il giudizio va-lutativo “insicura” è un termine che possiede un significato soltanto rispet-to agli affetti individuali che si danno in un particolare contesto di ricezione. Dire che la sedia è “insicura”, in altre parole, è ciò che J. L. Austin chiame-rebbe un atto linguistico perlocutivo – cioè un’asserzione intesa a modifi-

219J. Miller - Errori di valutazione

care il comportamento dell’ascoltatore, così che chiunque dovesse sedersi sulla sedia possa ripensare come risultato della sua azione quella decisio-ne. Che qualcuno possa provare un certo nervosismo nel sedersi su una se-dia del genere non dice nulla sul valore intrinseco della sedia, che è soltan-to neutrale da un punto di vista valoriale. Non può esserci, per Nietzsche, alcuna asserzione di valore, circa una percezione o un’azione, che non sia per ciò stesso un errore.

Come si vede dall’esempio, i giudizi erronei di valore per Nietzsche non sono essi stessi privi di valore, ma sono necessari ed essenziali del nostro modo di essere al mondo. Siamo costretti a vedere le sedie come qualcosa che sostiene un certo peso o che sono fragili, stabili o instabili, e in effetti possiamo vederle soltanto in questo modo, cioè solo in relazione nostro de-siderio di sederci o di salirci sopra per piantare un chiodo cui appendere un quadro. Più in generale, dunque, le asserzioni erronee sul valore delle azio-ni e degli oggetti sono per Nietzsche funzioni delle nostre capacità creati-ve di plasmare il mondo come disponibile per i nostri progetti, come ciò che può servire ai nostri bisogni che continuamente si espandono e si am-plificano. In questo modo, è soltanto nel linguaggio e nel contesto del va-lore che noi, in quanto soggetti, possiamo intendere noi stessi come “pro-duttivi”. Il fatto che possiamo concepire le rappresentazioni in questo modo valutativo, però, dice soltanto dei nostri progetti produttivi e non ri-vela nulla circa la formazione cognitiva di queste rappresentazioni concet-tuali. Così, per Nietzsche, le nostre asserzioni sui concetti che abbiano que-sto o quel valore sono degli errori, poiché quelle qualità sono addizioni esterne o annessioni a identità che originariamente sono neutrali da un pun-to di vista valoriale. Tuttavia, nella misura in cui soltanto in virtù di queste qualità il mondo si vivifica per noi in quanto dotato di significato, come qualcosa che rende possibili le nostre esperienze riuscite o non riuscite, vantaggiose o svantaggiose per noi, le asserzioni di valori non sono degli errori che noi possiamo correggere o di cui possiamo liberarci senza, con ciò, privare il mondo di quella animazione e di qualunque relazione possi-bile che i soggetti possono intrattenere con il mondo stesso.

Quel che è utile nell’analisi nietzscheana è che essa porta alle estreme conseguenze logiche la visione della teoria standard. Se il valore è un’an-nessione successiva e secondaria ai concetti, allora è difficile vedere come qualità valutative possano appartenere a questi stessi concetti in modo si-gnificativo; come, cioè, il valore possa non essere una distorsione inessen-ziale e un pregiudizio rispetto a un’esperienza primaria del mondo che sia valorialmente neutrale. Allo stesso tempo, tuttavia, questa conclusione lo-gica porta in primo piano ulteriori contraddizioni e limitazioni di questa

220 Errore

posizione, tra cui due sembrano più evidenti e che, a suo merito, lo stesso Nietzsche riconosce. Questi due dilemmi, che sono connessi, in definitiva incoraggiano a ripensare la traiettoria di ragionamento a vantaggio di una teoria più sofisticata, sebbene più radicale, della relazione tra valore e fe-nomeni.

Il primo problema è forse evidente: se la percezione e la valutazione sono entrambe interpretazioni, come afferma Nietzsche, perché solo una è una “interpretazione erronea” (misinterpretation)? Sembrerebbe che la va-lutazione abbia l’effetto di distorcere le nostre percezioni “valorialmente neutrali” del mondo soltanto se quelle percezioni neutrali fossero intese come più strettamente corrispondenti alla natura delle cose in sé di quanto siano le interpretazioni valutative. Nietzsche, però, è estremamente scetti-co circa la relazione tra giudizi fenomenici e cose in sé in quanto parte di un continuum, come se le nostre prospettive potessero essere correttamen-te valutate come più o meno prossime a una «realtà incondizionata e iden-tica a se stessa» (Nietzsche 1886: 12). Che questa credenza rifletta per lui una “finzione” – ancorché una “finzione necessaria” – pone in dubbio la prima asserzione circa il valore, poiché propone di conseguenza che di due finzioni – cioè dell’interpretazione fenomenica e dell’interpretazione valu-tativa – soltanto l’ultima delle due costituirebbe un fraintendimento (misin-terpretation), cioè un’asserzione che richieda logicamente una commisura-zione rispetto a qualcosa che costituisce una realtà incondizionata.

In secondo luogo, sebbene Nietzsche asserisca che le interpretazioni va-lutative sono aggiunte alle interpretazioni rappresentazionali, egli non cre-de che noi possiamo coscientemente giudicare il valore di una congnizione percettiva, come invece suggerisce la visione standard. Tali percezioni, as-serisce Nietzsche, sono valutate dai nostri affetti prioritariamente rispetto all’autoconsapevolezza di quel processo – la valutazione, dunque, non è qualcosa che noi inconsapevolmente attiviamo, ma qualcosa che si verifi-ca in anticipo rispetto alla nostra coscienza riflessiva. Come tale, egli scri-ve, «il nostro mondo è colorato [di valori]» (Nietzsche 1967: 260). Sem-brerebbe cioè che i nostri affetti “colorano” valutativamente ogni impressione rappresentazionale di cui noi facciamo esperienza, così che non possiamo sperimentare una percezione che non sia colorata da un qual-che valore più di quanto possiamo percepire un oggetto privo di colore. Se, tuttavia, noi non siamo in grado di formarci un’impressione mentale a cui non sia annesso alcun valore, come possiamo sapere che questo valore è, in effetti, qualcosa che viene annesso? Come possiamo dire che esso sia stato “aggiunto” successivamente a un concetto valorialmente neutrale se non possiamo mai cogliere delle azioni o dei concetti in quello stato valorial-

221J. Miller - Errori di valutazione

mente neutrale? Se il valore è, nella nostra esperienza fenomenica, sempre presente fin dall’inizio, su che base possiamo dire che esso è secondario e inessenziale rispetto al modo stesso in cui noi diamo senso al mondo?

4. La critica di Nietzsche mette in evidenza con successo la mancanza di una qualunque teoria dell’origine concettuale e della natura del valore se-condo il modello standard e spiega perché quest’assenza teoretica renda inesplicabile la pretesa di questo modello che i giudizi di valore seguano e siano subordinati ai giudizi ontologici. Nondimeno, la soluzione nietzsche-ana, secondo cui i giudizi di valore si definiscono come interpretazioni che derivano da affezioni soggettive prioritarie ad ogni consapevolezza cogni-tiva, serve soltanto a rendere più difficile da spiegare la presunzione di va-lore, in quanto fraintendimento derivativo di una determinazione ontologi-ca. Per di più, esso riproduce il problema già presente nella teoria standard del valore in quanto elemento “annesso”, in modo tale da rendere l’intera teoria ancora più sospetta. Avendo seguito questa linea di indagine, al me-glio con risultati eterogenei, possiamo ora considerare un approccio com-pletamente diverso al valore modellato sulla linguistica strutturale. Ciò che maggiormente distingue questa lettura da quelle discusse sopra è che essa teorizza il valore come qualcosa che è primario e intrinseco alle determi-nazioni di identità ontologica – cioè le determinazioni del «che cos’è» – piuttosto che come un elemento secondario ed esterno. Questa posizione, a suo modo, intende anche il valore nel contesto di asserzioni erronee. Nel suo Corso di linguistica generale Ferdinand de Saussure dichiara che «la nozione di valore [...] ci mostra che è un grossolano errore» considerare il valore come secondario rispetto a e separato dalla formazione di rappre-sentazioni distinte ed identificabili (Saussure 1916: 112). Nel capitolo sul “Valore linguistico”, Saussure ci fornisce un argomento potenzialmente profondo, ma un po’ confuso, a sostegno di questa idea. Quelle che seguo-no sono alcune di queste asserzioni, stringenti benché non del tutto detta-gliate, che rendono plausibile la nozione saussuriana di “valore” come qualcosa che ci fornisce le risorse per controbattere al modello standard in un modo che è fortemente segnato in termini di giudizio e di pregiudizio, vale a dire in termini valutativi.

Saussure concepisce il “valore” non come un’interpretazione separata o come una “cosa” che si “aggiunge” a un concetto. Si tratta piuttosto, per lui, della forza differenziate con cui un concetto può emergere all’interno di un linguaggio. Vale a dire come distinto da tutti gli altri concetti. Il «lin-guaggio stesso», così comincia il capitolo di Saussure, «non può essere che un sistema di valori» (ivi: 110). Fin dall’inizio sembra che per poter signi-

222 Errore

ficare sensatamente si debba già significare un valore, ma non, tuttavia, nel senso di asserire una certa versione del rapporto di buono e cattivo. Al con-trario, Saussure ci propone qui che il processo stesso di significazione è reso possibile dal valore e espressivo del valore.

Cominciamo da qui. Per Saussure il concetto è concepibile soltanto come un “pensiero-suono”, cioè un’unità che comprende due componenti inseparabili: una linguistica (specificamente il segnale/significante in quanto suono, occorrenza vocale o parola, ad esempio “triangolo”) e l’altra rappresentazionale (ad esempio l’idea o la rappresentazione mentale evo-cata di un triangolo). Per Saussure, il pensiero-suono è l’unità fondamenta-le per il segno (suono/significante + pensiero/significato), e quindi di tutte le espressioni di senso. In effetti, egli considera un truismo disciplinare che la relazione suono-pensiero sia la modalità irriducibile della cognizione: «filosofi e i linguisti sono sempre stati d’accordo sul fatto che, se non fos-se per i segni, saremmo incapaci di distinguere due semplici idee in modo chiaro e coerente» (ivi: 112). Ciò significa che per Saussure un’idea o un concetto – il «che cos’è?» – “prende forma” dal caos dei dati percettivi, come una segmentazione che si verifica in concomitanza con la sua forma-zione in quanto unità linguistica. Per Saussure la parola e l’idea sono ana-loghe alle due facce di un singolo foglio di carta: inseparabili. Eppure, sul-la base di questo modello il suono/significante non è “aggiunto” secondariamente al pensiero/significato. La rappresentazione mentale non può precedere il suo segno linguistico, perché questo richiederebbe che quelle rappresentazioni siano differenziate in anticipo da qualche altra for-za che sia diversa e precedente alla forza di differenziazione del linguag-gio. Piuttosto, il significante e il concetto co-emergono concomitantemen-te come gli aspetti formali e contenutistici di ogni impressione conscia possibile.

Ma quale ruolo può svolgere il valore in questo processo ontologico? Per Saussure, il valore non è operativo al livello dell’unità del segno, ma si riferisce alla relazione strutturale tra tutte le unità di questo genere. In altre parole, il valore si riferisce al medium all’interno del quale ogni segno può apparire differenziato – come distinto – ancorché in relazione con tutte le altre unità significanti. Come Saussure spiega, l’unità del pensiero-suono (diciamo del “triangolo”) rimane inseparabile dall’intera serie dei pensieri-suoni alternativi rispetto ai quali essa si asserisce come dissimile. Sulla base di questa condizione, l’emergere riconoscibile di ogni identità ontolo-gica dipende dalla sua “simultanea coesistenza” con e, insieme, dalla diffe-renziazione dalle sue controparti in un sistema mobile di valori. Così il pensiero-suono “triangolo”, ad esempio, ha significato soltanto attraverso

223J. Miller - Errori di valutazione

la sua differenziazione “negativa”, e dunque valutativa, rispetto ad altre unità linguistiche, per esempio quadrato, cerchio, cono, scatola ecc. La possibilità di comprendere il «che cos’è» dipende essenzialmente dalla si-multanea capacità di afferrare il «che cosa non è» – un triangolo è un trian-golo nella misura in cui non è un quadrato ecc.

È qui di qualche interesse il fatto, sottostimato, che Saussure, ripetuta-mente ed esplicitamente, si riferisca a questa operazione, secondo la quale gli elementi del pensiero-suono o l’identità restano inseparabili anche se sempre differenziati dalle loro multiple e simultanee identità, come a un’o-perazione di “valore”. Come citato sopra, Saussure sostiene che è un erro-re di valutazione immaginare che l’identità del «che cos’è» possa essere pensabile fuori da un sistema di differenze. Similmente, egli afferma che il «linguaggio è un sistema in cui tutti gli elementi si combinano insieme, si adattano l’uno con l’altro, e in cui il valore di ognuno di questi elementi di-pende da una simultanea esistenza di tutti gli altri» (ivi. 113). Forse in modo più eloquente, Saussure afferma che «in un sistema semiologico come quello del linguaggio [...] le nozioni di identità e di valore si fondo-no» (ivi: 109). La tesi di Saussure, dunque, respinge il modello standard e quello nietzscheano di valore come elemento secondario rispetto ai feno-meni sostenendo che la formazione del «che cosa» si confonde con, e quin-di è per questo motivo contemporanea e indistinguibile dalla formazione del valore di quello stesso fenomeno.

Nondimeno, Saussure sostiene l’idea di valore in quanto costitutiva di «giudizi erronei», nella misura in cui «i valori implicano sempre [...] qual-cosa di dissimile che può essere scambiato per l’elemento il cui valore è ap-punto in questione» (ivi: 113). Qui Saussure ci presenta come analoghi un sistema di valutazione del significato ed un sistema economico di scambio: in un sistema economico una banconota da venti euro può essere scambia-ta con una maglietta: due oggetti dissimili, cioè, possono essere sostituiti e stare l’uno per l’altro come conseguenza del loro “identico valore”. Ma come possiamo concettualizzare il linguaggio in quanto sistema di valore in accordo con questo modello economico in cui ogni oggetto porta una re-lazione di valore con ogni altro? Come può questa analogia chiarire un si-stema in cui i valori non si aggiungono come elementi secondari e inferio-ri rispetto ai fenomeni valorialmente neutrali, ma sono piuttosto produttivi delle stesse identità linguistiche differenziate?

Ciò che complica la questione è che, secondo Saussure, al momento di entrare in un sistema dei segni multipli si verifica una transvalutazione del segno in cui, al di là della relazione negativa di differenza grazie alla qua-le il segno emerge in relazione ad altri segni, esso sviluppa anche, in un

224 Errore

certo modo, una «natura positiva». «Nel momento in cui noi consideriamo il segno nella sua interezza, incontriamo qualcosa che è positivo nel suo stesso dominio», ed è questo «sistema [di valore] che fornisce il legame operativo tra l’elemento fonico e l’elemento mentale [la cui] combinazio-ne è un fatto di natura positiva» (ivi:118-119). In che modo, però, la funzio-ne differenziante del valore realizza quest’operazione? In che modo essa costituisce un sistema di scambio tra identità che, essendo dissimili, emer-gono attraverso una comparazione negativa, ma stabiliscono anche, nello stesso tempo, una relazione positiva di somiglianza o di identità all’interno di questa differenza, tale che, come suggerisce Saussure, «[nel] momento in cui noi confrontiamo un segno con un altro, come combinazione positi-va, il termine differenza dovrebbe essere messo da parte», così com’è in questo contesto in cui due segni diventano «non diversi l’uno dall’altro ma soltanto distinti» (ivi: 119) ?

5. Queste questioni richiederebbero, tuttavia, molta più analisi e molta più ricerca di quanto si può produrre in questa breve discussione. In luogo di una vera e propria conclusione, tuttavia, questo saggio proporrà alcuni suggerimenti in via ipotetica rispetto al modo in cui potremmo interpretare queste nuove, ancorché enigmatiche, affermazioni di Saussure circa la fun-zione costitutiva del valore per l’emergenza di concetti dotati di significa-to e identificabili.

Ritorniamo all’esempio della figura di tre lati discussa prima. Secondo il modello standard, sembra che noi dobbiamo sapere quale sia la figura – o un triangolo o un quadrato – per essere in grado di stabilire il suo valore rappresentazionale. Il valore della rappresentazione, in quanto triangolo ben fatto o quadrato fatto male, sembra dipendere dalla prioritaria determi-nazione della figura stessa in quanto effettivamente un triangolo o un qua-drato. Quest’assegnazione di un valore neutrale di identità, in quanto trian-golo o quadrato, costituisce l’oggetto di primo ordine per il modello standard di valutazione etica. Ma sarebbe possibile immaginare che in ogni figura di tre lati sia simultaneamente intrinseca un’identità in quanto qua-drato mal riuscito, anche per quelle figure che noi dichiareremmo dei “buo-ni triangoli”? Se uno disegna una figura di tre lati, e io la identifico come un quadrato fatto male, egli può giudicare questa identificazione come un’asserzione erronea, il principio generale della quale suggerirebbe che tutti i triangoli sono nello stesso tempo quadrati fatti male. Di fatto, oltre ad asserire che ciò che è stato disegnato non è un quadrato fatto male ma un triangolo, si può certamente pensare che la grande maggioranza delle figu-re di tre lati sono in effetti dei triangoli e non dei quadrati fatti male, e che

225J. Miller - Errori di valutazione

sarebbe perciò un errore riferirsi ad essi in simili termini valutativi. Più specificamente, si potrebbe dire che il mio errore non è stato principalmen-te valutativo ma ontologico – cioè che ho confuso le categorie di triangolo e quadrato, e che questa è la ragione per cui ho successivamente applicato, in maniera erronea, la valutazione “fatto male” alla figura disegnata.

Come si può stabilire, tuttavia, che la verità epistemica di una figura di tre lati è che essa è un triangolo? Che cosa distingue esattamente un trian-golo ben fatto da un quadrato disegnato male che abbia solo tre lati? Secon-do la mia lettura, Saussure propone che le due figure (il triangolo e il qua-drato) siano di fatto indistinguibili. Più indirettamente, egli asserisce, in maniera implicita, che la possibilità di una figura di significare un triango-lo deve presumere che questa figura sia un esemplare “buono” o appropria-to di triangolo e che dunque si debba simultaneamente rilevare il suo esse-re un quadrato inappropriato. Ciò significa che la differenza tra il triangolo e il quadrato non è, come abbiamo creduto all’inizio, una distinzione pura-mente epistemica o ontologica, non si dà cioè il caso che il triangolo venga riconosciuto come tale in forza di una relazione con qualche nozione idea-le di triangolo, o che esso intrattenga una relazione negativa rispetto al se-gno “quadrato” così come ad altre figure. Anche se questa relazione nega-tiva fosse operativa, sarebbe insufficiente a spiegare come queste relazioni negative possano andare oltre una posizione puramente negativa di diffe-renza per attingere a quella relazione positiva che Saussure chiama «distin-zione».

In un sol colpo, dunque, in quanto differenza, il triangolo e il quadrato acquisiscono le loro identità attraverso la loro relazione negativa: un trian-golo è un triangolo perché non è un quadrato, una definizione attribuita sul-la base di una serie di elementi negativi sincronici e simultanei – nel mo-mento in cui non è un quadrato, non è neanche un cerchio ecc. Eppure Saussure è del tutto chiaro sul fatto che la definizione del pensiero-suono “triangolo” – e dunque del suo significato e della sua identità – non può es-sere una pura negazione. Per essere un segno significativo, il triangolo deve essere positivamente, così come negativamente, correlato al quadrato e a tutte le altre cose. Un’altra formulazione di questa stessa idea potrebbe essere che la relazione negativa tra segni non può essere esaustiva – non può essere cioè una piena negazione, perché una piena negazione elimina tutte le relazioni implicando una completa incommensurabilità fra quelle identità, o, in termini economici, l’esclusione di quegli elementi dalla rela-zione di scambio. Ma allora come possono identità di questo genere corre-larsi positivamente e negativamente? Solo, sembrerebbe, attraverso il valo-re: è attraverso il valore, insomma, che un triangolo può anche essere,

226 Errore

positivamente, un quadrato. Che un triangolo non sia un quadrato signifi-ca, secondo questa idea, non stipulare un’identità esclusiva ma una defini-zione relazionale e valutativa grazie alla quale un buon triangolo è allo stesso tempo un esempio mal riuscito di quadrato. Valutarlo come un qua-drato fatto male, o deforme o erroneo, non significa perciò che esso non sia un esemplare di quadrato, ma un esempio di valore nettamente dissimile. In questo senso sarebbe come la casa che è stata colpita dall’uragano; pre-sentare la casa pesantemente danneggiata come un significante danneggia-to del concetto “casa” sembrerebbe un’erronea rappresentazione o un giu-dizio erroneo, poiché in quanto casa deficitaria essa serve come indicatore deficitario; questo non significa però, che esso non significhi anche positi-vamente, in senso valutativo, in quanto casa deficitaria. Ciò produce, nel linguaggio di Saussure, non una «differenza» ma una «distinzione», dove «distinzione» si riferisce alla prossimità valutativa piuttosto che a una se-parazione ontologica.

In questo modo il valore sarebbe costitutivo di asserzioni apparentemen-te neutrali da un punto di vista valutativo, così come quella forza con cui i segni acquisiscono relazioni positive gli uni con gli altri in un modo che conserva le sue relazioni di identità negativa. Infatti, dire che qualcosa sia un triangolo improprio o deficitario non corrisponde a dire che qualcosa non sia un triangolo: la prima è una distinzione qualitativa, la seconda è una distinzione ontologica. Secondo questa lettura di Saussure, potremmo non avere identità epistemiche puramente neutrali da un punto di vista va-loriale rispetto a pensieri-suoni – perché questo significherebbe isolare quelle unità dalla loro relazione valutativa sistematica da tutti gli altri.

La teoria di Saussure è certo un tentativo insolito per cominciare a pen-sare al valore in modo del tutto contrario a come il termine funziona nei di-scorsi quotidiani o accademici in tema di etica. Eppure, questo genere di errori di valore che Saussure ci indica, diversamente da quelli proposti dal modello standard o da Nietzsche, sembrano essere proprio quelli grazie ai quali ogni gesto significativo o ogni asserzione diviene possibile.

(Traduzione Silvia Pedone)

227J. Miller - Errori di valutazione

Bibliography

SAUSSURE F.1916 Course in General Linguistics, C. Bally - A. Sechehaye (a c. di),

trans. R. Harris, Chicago 1972.

NIETZSCHE F.1886 Beyond Good and Evil, trad. W. Kaufmann, London 1966.

1889 Twilight of the Idols, trad. R. J. Hollingdale, New York 1968.

1967 Will To Power, W. Kaufmann (ed.), trad. W. Kaufmann - R.J. Holling-dale, London.

2003 Late Notebooks, R. Bittner (a c. di), trad. K. Sturge, New York.

229

LA STORIA DELLE SCIENZE DALL’ERRORE ALL’OSTACOLO EPISTEMOLOGICO

di Mattia Della Rocca - Gloria Galloni - Carmela Morabito

«Quanto più trattiamo come mitile teorie dei nostri predecessori,

tanto più saremo propensi a trattare come dogmi le nostre teorie»

(Toulmin 1972: 18)

1. Quale scienza, quale storia

La storiografia della scienza ha ormai “metabolizzato” quello che po-tremmo definire l’“epistemological turn” avvenuto nel secondo ‘900, sulla base del quale si è assunta la consapevolezza del fatto che tra storia e filo-sofia della scienza, dunque tra storiografia ed epistemologia, si pone un co-stitutivo e inestricabile nesso. La storia della scienza è necessario comple-mento di ogni indagine epistemologica; e l’epistemologia si pone come infrastruttura teorica che sostiene e sostanzia l’analisi di singoli case stu-dies e la definizione di contesti teorici, sociali, politici e ideologici com-plessi in momenti temporali e luoghi specifici. «La storia della scienza sen-za l’epistemologia è cieca; l’epistemologia senza la storia della scienza è vuota» (Lakatos 1970: 48), è stato detto parafrasando Kant.

Così oggi lo sviluppo scientifico non è più concepito in maniera conti-nua, lineare e in qualche modo ‘finalizzata’ allo stato attuale, e non si guar-da più al passato cercandovi il presente sulla base dell’applicazione di un obiettivo teorico forte: trovare nelle opere scientifiche del passato ciò che non è superato e non può esserlo.

La “storia epistemologica” prodotta invece a partire dalla metà del ‘900 – soprattutto per merito della Scuola Francese sviluppatasi alla fine degli anni ’30 ma diffusasi solo a partire dal secondo Dopoguerra – ha generato infatti una “esplosione” di studi storici sul pensiero scientifico che, dando

230 Errore

corpo a quella che è stata chiamata la ‘svolta post-neopositivistica’, hanno messo in evidenza i limiti teorici e metodologici di una concezione ristret-ta e superficiale della storia della scienza che la considerava un ininterrot-to susseguirsi di ‘geni’ e di scoperte, di teorie e di invenzioni, una mera cro-naca cronologica di situazioni ed eventi individuati sulla base di macroscopici errori e di minute datazioni tese a stabilire primati e priorità cronologiche: «sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi», nelle parole di Paolo Rossi (Rossi 1977: 182).

La storia, invece, mostra come lo stato attuale di una scienza sia in par-te convenzionale e accidentale, fatto di ‘sangue e sudore’ di individui inse-riti (si direbbe di più, in parte prodotti) dal loro contesto culturale e socia-le, politico ed economico. Il mutato paradigma guarda allo sviluppo storico della scienza come un intricato sovrapporsi e susseguirsi di modelli teorici della realtà, di immagini del mondo e concezioni dell’uomo nel suo rappor-to con l’ambiente, un percorso fatto di collettivi di pensiero, di ‘stili cogni-tivi’, di ostacoli epistemologici e rotture. Oggi non si cercano più precurso-ri geniali e ingenui studiosi caduti in errore, non si tessono più complessi teoremi da applicare alla trama imperfetta e insicura del reale. Ricorrendo ancora alle parole di Rossi: «Gli storici hanno comunque sempre nutrito una spiccata preferenza per la ‛opacità’ del tempo della storia piuttosto che per “la deliziosa rapidità del tempo logico […]. Ciò che prevalentemente li interessa, ed è questo il punto decisivo, sono i processi temporali e non i loro ‟sostituti logici”» (Rossi 1982: 89).

Questi importanti sviluppi sono le condizioni – e al tempo stesso i pro-dotti – di una radicale operazione epistemologica che ha sovvertito metodi e presupposti teorici della storiografia della scienza, producendo l’abban-dono di strumenti concettuali inadeguati e fuorvianti quali il “superamen-to” dell’errore e il “precursore” dell’acquisito.

2. Precursori? Superamento? Errori?

Scandagliare la scienza del passato alla ricerca di concezioni false ormai superate e – per converso – di acute intuizioni di sviluppi futuri per opera di precursori geniali, ha prodotto soltanto una storia ideale. Uno svolgersi temporale negato nella sua natura storica costitutiva, autentica dinamica di cambiamenti ininterrotti, ricostruito – anzi “prodotto” – adottando le cono-scenze attuali come canone sub specie aeternitatis. Così, la vanificazione del processo temporale ha guardato agli “errori” come ostacoli e deviazio-ni dallo sviluppo lineare e ininterrotto di una sorta di marcia trionfale ver-

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 231

so la verità. E, in maniera complementare, ha generato goffi tentativi di modernizzare artificiosamente problemi e scoperte nella figura del precur-sore, soggetto ideale collocato in un limbo atemporale, luogo di incontro e fittizio dialogo fra scopritori di verità.

Contro questo appiattimento dell’autentico spessore temporale, questa semplificazione cieca alle reali dinamiche storiche ed epistemologiche alla base dello sviluppo del sapere scientifico, la storiografia della scienza con-temporanea ha fatto propria e sviluppato una linea di pensiero, di vero e proprio ripensamento alla radice, che parte dalle critiche di Nietzsche al mestiere da «becchini, gente che vive tra bare e segatura» (Nietzsche 1887: 23), e giunge alla rivoluzione kuhniana passando per il pensiero di Fleck sulla dimensione storica e sociale della scienza.

«La malattia mortale della storiografia della scienza, dovuta al virus del precursore, ha prodotto una dimensione storica solo apparente […] un pre-cursore sarebbe un pensatore di più tempi […] che lo storico crede di poter astrarre dal suo inquadramento culturale per inserirlo in un altro […] in uno spazio intellettuale in cui è stata ottenuta la reversibilità delle relazioni» (Canguilhem 1952: 23). È allora contro questa semplificazione banalizzan-te, questa “addomesticazione” del tempo e della ricerca scientifica, che si sviluppa la critica al superamento delle false credenze e delle “sbagliate” direzioni di ricerca.

In quest’ottica, anche l’errore è istruttivo: indica allo storico il significa-to teorico dell’adesione a una credenza e dei limiti della direzione di inda-gine che per il suo tramite si snoda. È dunque anche nei “vicoli ciechi” im-boccati e spesso ostinatamente percorsi, che si può trovare una valenza euristica importante, che del semplice errore fa un “ostacolo epistemologi-co”, un fattore di empasse nello sviluppo della conoscenza e al tempo stes-so un elemento propulsivo che stimola la ricerca.

«L’errore è una delle fasi della dialettica conoscitiva che bisogna neces-sariamente attraversare. Esso dà origine a indagini più precise ed è l’ele-mento motore della conoscenza» (Bachelard: 1938: 244). In questo senso, l’errore assume una funzione positiva e stimolante irrinunciabile nella dia-lettica tra “falso” e “vero”, “passato” e “presente” che connota lo sviluppo storico della scienza. E nel percorso del sapere, nella dialettica conoscitiva, il passaggio da vecchie a nuove istanze conoscitive non si snoda più supe-rando errori bensì misurandosi con “ostacoli epistemologici” che intralcia-no la comprensione e al tempo stesso la stimolano.

Anzi, in questa nuova prospettiva teorica, si pone chiara la centralità dei momenti di frattura nella dinamica del sapere, le fasi in cui si opera una modifica radicale negli assetti delle conoscenze scientifiche. Il cammino

232 Errore

del sapere coincide in larga misura con un continuo “oltrepassamento” di ostacoli. È una modalità costitutiva della struttura stessa del conoscere.

Obiettivo dello storico della scienza quando indaga sulle origini di una sco-perta o di una teoria nuova, deve essere in primo luogo scoprire quali problemi assillavano gli scienziati prima di arrivare alla soluzione, quali domande essi si ponevano, quali erano i loro presupposti e le loro speranze, e che cosa era per loro una risposta e una spiegazione. E, proseguendo l’indagine, lo storico della scienza deve tener conto non soltanto dei successi acclamati a quei tempi o ai nostri, ma anche delle spiegazioni che nacquero morte o che furono uccise nell’infanzia, o che per lo meno non sopravvissero, degli esperimenti che furo-no, per noi o addirittura per i contemporanei, inadeguati o male impostati (Crombie 1952: 13).

Il riconoscimento della natura socio-culturale, storica, della scienza comporta dunque un radicale cambiamento nella concezione che l’impresa scientifica ha di sé e della propria storia. Un cambiamento che comporta una riflessione approfondita sul valore, l’utilizzo e i limiti dell’errore nella logica della scoperta scientifica: «l’errore è una delle fasi della dialettica conoscitiva che bisogna necessariamente attraversare. Esso dà origine a in-dagini più precise ed è l’elemento motore della conoscenza» (Bachelard: 1938: 244).

Si pone dunque una sorta di “primato” teorico dell’errore: «Occorre er-rare per riuscire […]. La prima e la più essenziale funzione dell’attività di una persona è quella di errare. Più complesso sarà l’errore, più ricca sarà la sua esperienza. L’esperienza è, né più né meno, il ricordo degli errori retti-ficati» (Bachelard: 1970: 89).

3. Un caso di studio: la teoria fibrillare e la teoria cellulare

Per molti versi, un esempio significativo della necessità di sostituire il concetto di ostacolo epistemologico a quello di errore è rappresentato, nel-la storia delle scienze della vita, dalle vicende in merito alla teoria fibrilla-re. Con questo nome si definisce una teoria fisiologica e anatomica del vi-vente, dominante in Europa a partire dal XVI secolo, la quale individuava nella fibra l’elemento minimo della costituzione di muscoli, tendini e ner-vi e che fu soppiantata definitivamente dalla teoria cellulare proposta negli anni Trenta del XIX secolo da Matthias Jacob Schleiden (1804-1881) e Theodor Schwann (1810-1882). La scelta di questo tema ci pare, in accor-do con la necessità sottolineata dalla Scuola Francese del ‘900 di imposta-

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 233

re l’esercizio storiografico delle scienze a partire dalle problematiche del presente, particolarmente felice. Negli ultimi anni infatti, una rinnovata at-tenzione nei confronti dei tessuti di collegamento si è imposta all’interno della comunità neuroscientifica internazionale, particolarmente nel dibatti-to intorno alla connettomica e allo shift epistemologico dall’elemento del-la struttura nervosa alle sue capacità di colegamento: una riflessione stori-co-epistemologica su questo tema, come introdotta in questo testo, non vorrebbe limitarsi dunque a un mero esercizio di ricostruzione finalizzata all’analisi della validità della categoria di errore nella storia delle scienze, ma punta a riflettere apertamente sulle aporie e limiti che inevitabilmente emergono in ogni tentativo di stabilire un concetto scientifico come nuovo centro teorico per una disciplina – o in termini bachelardiani, nella costitu-zione di una nuova frontiera della scienza normale.

L’attenzione verso il concetto di fibra in un contesto di descrizione espli-cativa degli organismi è presente già nella biologia di Aristotele, sebbene la metafora meccanica della catapulta applicata al movimento muscolare, utilizzata dal filosofo nel De Motu Animalium, rientri solo parzialmente all’interno di una visione realmente meccanicista. Pur collocandosi nell’ambito di una teoria che in ultima istanza individuava in una causa vi-talista – l’anima originatasi dal cuore – l’essenza del movimento, l’analo-gia funzionale proposta da Aristotele tra le corde utilizzate nelle macchine da guerra del periodo classico e le fibre organiche visibili nei corpi degli animali, si stabilì con forza all’interno dell’epistemologia biomedica dell’Antichità. L’idea che si potessero considerare le fibre muscolari, ten-dinee e nervose alla stregua di funi, pur oscillando costantemente tra qua-dri esplicativi più improntati ora al materialismo atomista, ora al vitalismo, rimase nella sostanza inalterata fino alla metà del XVI secolo.

Com’è noto, la Rivoluzione Scientifica del Seicento sostituì definitiva-mente al sistema aristotelico delle “qualità” della physis una concezione dei fenomeni fisici fondata sulle sole proprietà di estensione, figura e moto degli elementi della materia. Se Galileo ne Il Saggiatore aveva potuto af-fermare di non credere «che nei corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richieda altro che grandezze, figure, moltitudini e mo-vimenti tardi o veloci» (Galilei 1623: 129), fu René Descartes, nei Princi-pia Philosophiae del 1644 a definire i contorni teorici di un sistema mec-canico universale che comprendesse anche i fenomeni del vivente, un’ambizione epistemologica già presente nel Discours de la Méthode del 1637 e nel De l’Homme (pubblicato postumo nel 1662). Sottostando alle stesse leggi universali, il mondo dell’artificiale e quello del naturale cessa-va di essere contrapposti, e nella fisiologia meccanicista cartesiana si an-

234 Errore

nulla la differenza tra macchine e animali. All’interno della concezione cartesiana, i viventi infatti sono automata, dispositivi meccanici che diffe-riscono da quelli costruiti dall’uomo solo ed esclusivamente nel loro grado di complessità: l’alterità sostanziale dell’anima razionale, pur permettendo funzioni speciali all’essere umano, non inficia la teoria generale di Descar-tes sul funzionamento del corpo dell’uomo1. La fisiologia cartesiana trat-teggiata nel De l’Homme è una scienza biologica caratterizzata dall’identi-tà, sul piano epistemologico, tra le corde aristoteliche e le fibre muscolari e nervose – queste ultime in particolare, composte da «una moltitudine di piccoli fili molto delicati» contenuti all’interno della membrana nervosa (Descartes 1662: 13) - attraverso cui gli spiriti animali possono determina-re la sensibilità, il movimento e l’azione delle parti anatomiche. E tuttavia, quella di Descartes non è l’unica fisiologia a fare delle fibre l’elemento di riferimento dell’analisi dei corpi viventi. Negli stessi anni, l’anatomista e fisiologo inglese Francis Glisson (1597-1677) propone una teoria delle fi-bre che, relegando in secondo piano il ruolo degli spiriti animali nella defi-nizione del loro comportamento, attribuisce loro una tensione vitale pro-pria, in grado di farle contrarre in base a un principio che Glisson definisce “irritabilità”. Il quadro teorico proposto da Glisson, fortemente connotato in senso metafisico, fu tuttavia oggetto di critiche da parte degli studiosi del suo tempo e finì presto dimenticato nella comunità scientifica del tardo Seicento.

Il cambio di paradigma meccanicistico introdotto dall’opera cartesiana, invece, incontrò il favore di una nuova generazione di medici e fisiologi che, alla metà del XVII secolo, aveva introdotto nello studio dell’anatomia gli allora recenti progressi della tecnica microscopica, convinta di poter in-dividuare in tal modo gli elementi minimi del corpo vivente umano. Nasce-va così lo iatromeccanicismo, tra i cui esponenti principali, nell’ultima

1 Deviando lievemente dal problema della teoria fibrillare, ma rimanendo nei termini della nostra questione, sarebbe quasi scontato suggerire che Descartes operò una “correzione” dell’ “errore” vitalista sostituendo al primo motore immobile aristotelico dell’anima la semplice disposizione più o meno complessa degli organi: in realtà, come mostrato magistralmente da Canguilhem (1955), anche in questo caso sembra più lecito parlare di una semplice traslazione dell’ostacolo epistemologico costituito dal ruolo del cuore nell’origine del movimento. Descartes, che aveva incamerato le scoperte sul sistema cardiovascolare di William Harvey nel suo sistema, non poteva accettare che il cuore fosse un organo diverso, per funzionamento e sostanza, dagli altri, e come è noto, optò per uno spostamento del problema sul piano metafisico, inserendo l’ipotesi ad hoc del movimento volontario originato dall’azione dell’anima razionale, sostanzialmente diversa dalla materia.

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 235

metà del Seicento, figurarono gli italiani Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) e Marcello Malpighi (1628-1694).

Entrambi questi studiosi concentrarono la loro analisi anatomica su quella che ritenevano essere la struttura elementare essenziale dei diversi organi del corpo umano, la fibra (Canguilhem 1952: 213). Per la prima ge-nerazione di iatromeccanicisti, che poteva affiancare alle analogie e alle metafore di Cartesio (esclusivamente teoretiche) l’osservazione microsco-pica diretta dei tessuti, le fibre smettevano di essere una semplice figura-zione euristica della realtà anatomica: Malpighi, nel 1665, descriveva per la prima volta le formazioni fibrose della sostanza bianca del sistema ner-voso centrale; Borelli, nel De Motu Animalium (1680 – 1681) operava un’analogia tra la ritrazione di una corda bagnata e la contrazione musco-lare, sostituendo poi l’immagine della corda con quella di una catena di anelli romboidali. Le intuizioni teoriche provenienti dalle ricerche di Bo-relli e Malpighi furono sistematizzate a distanza di qualche anno dall’allie-vo di quest’ultimo, Giorgio Baglivi, che nel De fibra motrice ac morbosa libri IV del 1702, ribadendo il ruolo delle fibre come costituenti minimi del corpo animale, distinse tra fibra motrice e fibra nervosa, offrendone un’in-terpretazione non solo anatomica, ma anche fisiologica e patologica. «Tut-te le fibre del corpo umano si riducono a due generi, uno membranaceo, un altro carneo o muscolare. Le membrane hanno origine dal cervello, con-giuntamente alla pia e alla dura madre, i muscoli dai tendini ed i tendini dalle ossa. […] imperocchè, siccome da innumerevoli strati di fibre si com-pongono i muscoli, così pure da varii strati di fibre si compongono gli ossi medesimi» (Baglivi 1702: 321). Furono comunque Albrecht von Haller (1708-1777) e gli studiosi della sua scuola a formulare la cosiddetta “teo-ria della fibra vivente”, in cui si esponeva una concezione unitaria degli elementi morfologici costitutivi degli organismi viventi. All’interno di questo quadro teorico, i diversi tipi di fibre elementari sono considerati unità strutturali, identificabili attraverso alcune proprietà emergenti carat-teristiche della vita e derivanti da un principio di formazione proprio. Si-gnificativamente tali proprietà sono definite, recuperando il pensiero di Glisson, nei termini di “sensibilità” e “irritabilità”. Con l’aiuto di queste fi-bre elementari, concepite come elementi lineari, sembrava possibile de-scrivere, attraverso un processo analogo a quello della composizione di su-perfici e di volumi, la strutturazione complessa di un organismo integrato, sede di funzioni globali da cui emergono proprietà ulteriormente comples-se rispetto a quelle elementari delle fibre. Si noti come l’introduzione di un concetto vitalista – una vis interna alla fibra, in grado di determinarne sen-sibilità e irritabilità, e dunque funzione – sia collocato da Haller all’interno

236 Errore

di una cornice teorica che, nella sua formulazione più diretta, non accenna minimamente a rinunciare ai cardini epistemologici mutuati dalla fisica e dalla geometria, propri del meccanicismo cartesiano. Nel pensiero di Hal-ler, «la fibra è per il fisiologo ciò che la linea è per il geometra, l’elemento da cui nascono tutte le figure» (Haller 1757-66, I: 2). A partire dalla metà del XVIII secolo dunque, la fibra è divenuta il fondamento di tutta la me-dicina e la biologia occidentale, e negli anni di transizione verso l’Ottocen-to, le teorie di Charles Bonnet, Denis Diderot e Xavier Bichat sulla fibra e i suoi agglomerati – i tessuti – costituiscono il cuore della “scienza norma-le” del periodo. Eppure, proprio nell’assurgere della teoria fibrillare al ruo-lo di teoria primaria della composizione del vivente, si pone il limite – o in termini bachelardiani, la frontiera – nel quale lo sviluppo dell’indagine scientifica avrebbe incontrato, a più riprese, il suo ostacolo principale, che avrebbe determinato l’abbandono della fibra in favore della cellula. Quale fosse la natura dell’ostacolo è presto detto: al di là delle asserzioni di Ba-glivi prima e successivamente di Haller, che affermavano il ruolo primor-diale della fibra nella costituzione del vivente, la teoria fibrillare non sem-brava essere in grado di fornire una risposta esauriente al problema dell’origine e della loro formazione. Il problema dell’origine diveniva così l’ostacolo epistemologico principale per la teoria della fibra: e nel tentati-vo di superare questa lacuna – come vedremo, in un senso più letterale di quanto si immagini – in biologia si determinò il passaggio alla teoria cellu-lare.

La natura di ostacolo epistemologico di questo passaggio è testimoniata proprio dalla presenza del “problema cellulare” all’interno della teoria fi-brillare. Già a metà del XVII secolo, Robert Hooke, nella sua Micrographia pubblicata nel 1665 aveva descritto, osservando il parenchima vegetale, gli ampi spazi interstiziali dei tessuti, dando loro il nome di cellule, in analo-gia con le piccole celle degli alveari. E di fatto, il concetto di cellula – o utricolo o vescicola – rimase presente in tutta la teoria fibrillare, da Malpi-ghi a Haller, senza alcuna soluzione di continuità. Ma come è stato osser-vato, esso è utilizzato in tale contesto «come concetto di forma, in senso geometrico, e non di formazione, in senso morfologico. Da un lato, ciò che si intende per cellula muscolare è una disposizione relativa della fibra, e non un elemento assoluto. Dall’altro, ciò che verrà chiamato in seguito tes-suto cellulare è un tessuto lasco e spugnoso, tessuto paradossale la cui struttura è lacunare e la cui funzione consiste nel colmare lacune» (Can-guilhem 1952: 213-214). La transizione alla teoria cellulare vera e propria poté operarsi solo quando, in un recupero del pensiero di Leibniz da parte della filosofia della natura Romantica e pre-Romantica, naturalisti come

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 237

Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) e Lorenz Oken (1779-1851) concen-trarono la loro attenzione sulle monadi organiche, e cioè sulle (ancora pre-sunte) strutture fondamentali della vita che risiedevano proprio nei più pic-coli spazi del tessuto vivente. Oken considerava queste monadi osservabili come un fluido mucoso indifferenziato, che etichettò con il nome di Ur-schleim e che riteneva responsabile della formazione delle vescicole sferi-che che caratterizzavano, all’analisi microscopica, tutti i tessuti: Johannes Evangelista Purkinje (1787-1869), nel 1839 descrisse la sostanza di queste vescicole utilizzando il nome di protoplasma.

La nascita della teoria cellulare, che acquisì solide basi empiriche su cui fondare il proprio primato solo con l’opera di Schwann e Schleiden (e la re-visione, a partire dal 1855, nei lavori di Remak e Virchow), aveva trovato origine nel tentativo di aggirare il problema degli spazi lasciati vuoti pro-prio dalla teoria fibrillare, la quale subiva così un durissimo colpo. E tutta-via, la diatriba tra i sostenitori delle singole monadi e i fautori dell’impor-tanza delle fibre nella funzionalità dell’organismo, era ancora lontana dalla sua conclusione. La teoria cellulare, infatti, presentava anch’essa un osta-colo significativo, specifico per lo studio del sistema nervoso, le cui tecni-che di indagine non permettevano, a metà dell’Ottocento, di osservare con chiarezza la nuova struttura nella sua supposta caratteristica di “monade”. La comunità neuroscientifica del XIX secolo si trovava dunque divisa in due. Da un lato, i cosiddetti “neuronisti”, sostenevano l’uniformità del si-stema nervoso al resto dell’organismo, e lo consideravano dunque dotato di un’organizzazione in cellule separate; dall’altro, i “reticolaristi” continua-vano invece a sostenere che il sistema nervoso – pur condividendo alcune strutture comuni al resto delle cellule – fosse composto da larghe reti di tes-suti, o reticoli, generati da un processo di fusione delle singole cellule. Su questo punto si scontrarono proprio Robert Remak (1815-1865) – il conia-tore del motto «Omnis cellula e cellula» generalmente attribuito a Virchow e che divenne il fondamento della nuova anatomo-fisiologia cellulare – e Gabriel Valentin (1810-1883), rispettivamente su posizioni neuroniste e re-ticolariste. Come è noto, neppure l’affermazione della dottrina neuronale a opera di Wilhelm Waldeyer (1837-1921) nel 1891 fu capace di eliminare definitivamente le teorie reticolariste, come testimoniato dalla polemica tra Camillo Golgi e Santiago Ramon y Cajal, entrambi vincitori del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina del 1906. Mentre Golgi continuava ad affermare una continuità strutturale tra i neuroni, individuando nei reti-coli nervosi il fattore di unità dell’intero sistema, Ramon y Cajal sosteneva con forza la separazione tra singoli neuroni.

238 Errore

Certo, sarebbe molto conveniente ed economico dal punto di vista dello sforzo analitico, se tutti i centri nervosi fossero costituiti da una rete interme-diaria continua tra i nervi motori e quelli sensoriali. Sfortunatamente, la natura sembra inconsapevole dei nostri bisogni intellettuali di convenienza e unità, e molto spesso trova il suo diletto nella complicazione e nella diversità […]. La suggestione irresistibile del complesso reticolare di cui vi ho parlato (il quale cambia forma ogni cinque o sei anni) ha condotto molti fisiologi e zoologi a obiettare alla dottrina della propagazione della corrente nervosa a contatto o a distanza […]. Dirò solo che nonostante gli sforzi intrapresi per osservare que-ste supposte anastomosi intercellulari nelle preparazioni realizzate con diverse colorazioni […] non sono mai riuscito a individuarne una in maniera definita (Ramon y Cajal 1906: 240-242).

Nonostante la verve polemica espressa da Ramon y Cajal centrasse ai nostri occhi contemporanei il problema epistemologico fondamentale quel-lo dei «nostri bisogni intellettuali di convenienza e unità» (ibidem), occor-re riconoscere che Golgi aveva obbiettivamente dei motivi – molto validi e condivisi per il suo tempo – per sostenere la sua posizione. Convinto fau-tore della posizione halleriana (successivamente fatta propria, in Francia, da Pierre Marie Flourens) dell’equipotenzialità del sistema nervoso, la sua convinzione dell’esistenza delle reti nervose si fondava su una visione pro-fondamente olistica dell’anatomia del sistema nervoso centrale, una posi-zione teorica compatibile con le evidenze costituite dai molti fenomeni di recupero funzionale dei deficit traumatici del cervello:

Il concetto della cosiddetta localizzazione delle funzioni cerebrali dovrebbe essere ulteriormente indagato […] poiché in maniera rigorosa, esso non sareb-be in perfetta armonia con i dati anatomici […]. Si è dimostrato, per esempio, che una fibra nervosa è in relazione con i gruppi estensivi di cellule gangliari, e che gli elementi gangliari delle intere provincie, e di quelle vicine, sono uni-te per il tramite di reti diffuse, alla cui formazione contribuiscono tutte le varie categorie di cellule e fibre nervose di tali province» (Golgi 1883: 395).

Golgi ribadì, nel discorso di premiazione del Nobel del 1906, la sua po-sizione, ma il miglioramento delle tecniche di indagine istologica, a distan-za di pochi anni, diede definitivamente ragione a Ramon y Cajal: l’ipotesi cellulare, nella sua versione di teoria neuronale guadagnava così definiti-vamente il suo primato. Nella vulgata della storia delle neuroscienze, Gol-gi era in errore, poiché in effetti non vi era alcuna continuità tra i neuroni, e non era possibile individuare alcun processo di anastomosi. Ma davvero di errore si trattava? Quando Karl Spencer Lashley (1890-1958) suggerì, alla metà degli anni Cinquanta del XX secolo, la possibilità che le memo-

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 239

rie fossero largamente distribuite in rete neurali interconnesse in differenti parti della corteccia, aprendo la strada alle indagini contemporanee sul ruo-lo delle reti neurali, in pochi colsero la portata delle intuizioni che Golgi aveva formulato ed espresso mezzo secolo prima. Nella ricostruzione che è propria della storia delle scienze, allora, sembra più corretto parlare di nuovo della presenza di un ostacolo epistemologico, posto per definizione alla frontiera della scienza normale (à la Kuhn) di un determinato periodo storico. L’attualità infatti, fatta propria la conoscenza approfondita delle di-verse classi neuronali considerate nella loro singolarità, volge di nuovo il suo interesse scientifico nei confronti delle connessioni tra essi, ripropo-nendo un’inversione di tendenza nella polarizzazione tra cellula e fibra. E parlare di errori, da questo punto di vista, non giustifica la ricchezza e la valenza euristica dell’impresa scientifica, studiata nel suo divenire storico. Si tratta piuttosto di comprendere che è proprio attraverso la creazione, ne-cessaria e inevitabile, di temporanee frontiere della conoscenza scientifica che si dispiega il potenziale epistemologico della confusione e dell’ambi-guità, che non essendo errore ma limite, porta in sé lo strumento del suo su-peramento, la possibilità e la necessità del suo superamento: come è stato scritto «il beneficio di una storia delle scienze ben compresa ci sembra es-sere quello di rivelare la storia nella scienza. Storia, e cioè secondo noi, il senso della possibilità» (Canguilhem 1952: 55).

240 Errore

Bibliografia

BACHELARD, G.1938 La Formation de l’Esprit Scientifique, Parigi.

BACHELARD, G.1970 Studi di filosofia della scienza, trad. di Andrea Cavazzini, Milano 2006.

BAGLIVI, G.1702 De fibra motrice ac morbosa libri IV, in Opere complete medico-pratiche

ed anatomiche di Giorgio Baglivi, R. Pellegrini (a c. di), Firenze 1841.

CANGUILHEM, G. 1952 La Connaissance de la Vie, Paris.

1955 La formation du concepte de réflexe au XVIIe et XVIII siécle, Paris.

1966 Le normal et le pathologique, Paris.

CROMBIE, A.1952 Augustine to Galileo: The History of Science A.D. 400 – 1650, Cam-

bridge (MA).

DESCARTES, R.1662 De l’homme, in Œuvres Complètes de René Descartes, A. Gombay (a

c. di), Toronto 2001.

LAKATOS, I.1970 La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, in Critica e

crescita della conoscenza, I. Lakatos, A. Musgrave (a c. di), trad. di G. Giorello, Milano 1976.

GALILEI, G.1623 Il Saggiatore, in Opere, A. Favaro (a. c. di), Firenze 1965.

GOLGI, C.1883 Sulla fine anatomia degli organi centrali del sistema nervoso, in «Ri-

vista Sperimentale di Freniatria», IX, pp. 385-402.

HALLER, A.1757-1766, Elementa Physiologiae Corporis Humani voll. X, Losanna.

M. Della Rocca, G. Galloni, C. Morabito - La storia delle scienze dall’errore 241

NIETZSCHE, F.1887 Frammenti postumi 1887-1888, trad. di S. Giametta, Milano, 1971.

RAMON Y CAJAL, S.1906 The Structure and Connexions of Neurons, in Nobel Lectures, Physi-

ology or Medicine 1901-1921, Amsterdam 1967.

ROSSI, P.1977 Immagini della Scienza, Roma.

1982 s.v. Storia della scienza, in Enciclopedia del Novecento, Roma.

TOULMIN, S.1972 Human Understanding: the Collective Use and Evolution of Con-

cepts, Princeton, NJ.

243

LA QUESTIONE DELL’«ERRORE»IN LUDWIG KLAGES

di Giampiero Moretti

Se i giudizi degli storici, anche dei più autorevoli, fossero sentenze inap-pellabili, sarebbe ben arduo tornare a parlare di Ludwig Klages (1872-1956) dopo quel che ne scrisse Georg Lukács nel suo La distruzione della ragione. Una citazione per tutte: «la tipologia antropologica [di Klages: vale a dire la sua cosiddetta “caratterologia”, o “scrittura dell’espressione”; Seelenkunde, in altre parole] significa un attacco frontale contro lo spirito della scientificità, contro la parte che la ragione, la conoscenza, lo spirito, hanno sostenuto e sostengono in tutta l’evoluzione dell’umanità. [Secondo Klages, prosegue Lukács, lo] stato cosmico conforme alla natura, organico e vivente, viene cacciato e distrutto ad opera dello “spirito”. […] Come il prodigioso cambiamento abbia avuto luogo, nessuno sa […]. Ma anche se non si sa come lo spirito sia giunto a dominare, la sua azione è per Klages del tutto evidente: “uccidere la vita”. Tutta la filosofia di Klages non è che la variazione di questo pensiero fondamentale. […] Prima di lui [di Klages] la ragione non era ancora mai stata combattuta in modo così aperto e radi-cale […] una lotta contro la realtà di una storia universale che viene presen-tata come una colpa dello spirito e della ragione» (Lukács 1954, II: 532-35).

Eravamo nel 1954, Klages era ancora vivo, ma il giudizio dello storico ha pesato almeno per un altro trentennio, e ancora oggi è necessario ricor-darlo e confrontarvisi, anche in relazione al tema del nostro discorso odier-no. Lukács afferma che Klages incolpa spirito e ragione, indicando in que-ste ultime l’origine dell’errore che l’Occidente, nel corso del suo sviluppo, avrebbe commesso. Proviamo allora a prendere lo spunto da questo uso del verbo commettere, che troviamo connesso sia al termine “colpa” sia al ter-mine “errore”, così da evidenziare una vicinanza tra i due. Si “commette” una colpa ma anche un “errore”. Ad unirli, colpa e/o errore, è l’esistenza di un soggetto, cui errore e/o colpa possano essere “imputati”, vadano co-munque “riportati”. Non però necessariamente una volontà, come intenzio-

244 Errore

ne. L’errore e/o la colpa possono talvolta essere anche il frutto di uno sba-glio, non derivare necessariamente da un’intenzione, rinviare a una responsabilità precisa e individuale. Nel sistema giuridico italiano, alla colpa deve aggiungersi il dolo, cioè l’intenzione di nuocere con un atto, af-finché la responsabilità delle cause che derivano dall’atto in questione sia attribuibile pienamente al soggetto che lo ha compiuto. In tedesco, Schuld è il debito, anche in denaro, ed è la colpa nel senso di quel che è addebita-bile a qualcuno. Un intreccio linguistico e di significato non facilmente di-stricabile, poiché il “colpevole” naturalmente si sente “responsabile” del danno compiuto, anche se non intendeva compierlo, e, talvolta, anche mag-giormente, proprio perché non intendeva compierlo. Queste osservazioni servono, speriamo, a introdurre la questione da trattare. Chi è il “soggetto”, il “colpevole”, dell’“ingresso” dello spirito/intelletto nel flusso vitale? A chi, o forse meglio, a cosa, attribuire, o almeno ricondurre questo avveni-mento?

L’orizzonte di pensiero che dà origine alla metafisica di Ludwig Klages è certamente molto composito, sono però altrettanto certamente tre i nomi che vanno qui richiamati, e lo facciamo in ordine “cronologico”, come a ripercorrere la loro presenza nell’orizzonte più ampio della filosofia tedesca: 1) Goethe; 2) Bachofen; 3) Nietzsche. Per quanto riguarda il primo nome fatto, Goethe, occorre subito ricordare che non esiste personalità, eminente o secondaria, della cultura tedesca, sulla quale, dal 1830 circa in poi, Goethe non abbia avuto un’influenza effettiva, non di maniera, e almeno per un secolo, forse anche oltre. Per Klages, Goethe è il pensatore della realtà metamorfica della vita e dell’esistenza, il profeta e l’annunciatore di un divenire, il cui significato è inscritto nell’interno stesso di questo movimento trasformativo. Non occorre insistere ulteriormente per declinare meglio questo concetto, ben noto a tutti i lettori di Goethe e a chi abbia anche solo un po’ di familiarità con la letteratura tedesca. Più interessante è invece sottolineare come l’intero impianto della ricerca di Bachofen, quel suo insistere quasi ossessivo sul percorso che l’umanità avrebbe complessivamente e ovunque compiuto da matriarcato a patriarcato, questo impianto, che è appunto per Bachofen un percorso dialettico-polare, viene da Klages interpretato come la “materia” della metamorfosi goethiana, una “materia” che non ha più, come invece in Bachofen, la direzione, il senso che porta, sia pure attraverso mille difficoltà e peripezie, o che comunque per Bachofen dovrebbe portare, dal matriarcato al patriarcato; e però è pure un senso come significato, ovvero: la certezza che la “materia” del divenire metamorfico è simbolicità allo stato puro, essenza irriducibile allo spirito (patriarcato) poiché è quello, la simbolicità, che precede questo, lo

245G. Moretti - La questione dell’«errore»in ludwig klages

spirito. Nietzsche in questo quadro agisce come un Goethe in ritardo, potremmo quasi dire: da un lato restituisce al divenire il significato di una purezza priva di significato, dall’altro Klages limita espressamente tale intervento “correttivo” del pensiero di Nietzsche alla stigmatizzazione dell’influenza cristiana su quel percorso storico. Insomma: Nietzsche consente a Klages, che viene dopo Bachofen, di tornare a Goethe facendo salva la conquista bachofeniana della simbolicità originaria della materia, che viene mantenuta come viatico ed eredità indispensabile per l’inizio del “dopo-Nietzsche”. Non soltanto, però: se Nietzsche consentisse semplicemente a Klages di recuperare un Goethe “simbolicamente” potenziato, e “pagano”, non riusciremmo a porci neppure la questione che oggi ci occupa, quella dell’errore e/o colpa dello spirito nei confronti della vita. Il pensiero “sovrano” di Goethe, ben lo sanno i suoi lettori, è piuttosto lontano dall’idea di “incolpare” o “accusare” di qualcosa il divenire, la vita; insomma il movimento metamorfico è in grado di bilanciarsi, equilibrarsi, al proprio interno senza dover ricorrere a potenze “esterne” con le quali rapportarsi, confliggendo. È invece la scuola nietzscheana del sospetto ad agire in Klages, e a condurlo a ricercare un colpevole della decadenza, altro termine schiettamente nietzscheano, quella decadenza che certo Goethe intravedeva, ma che non avrebbe mai indicato come “colpevole” o “sbagliata” o “erronea”.

Lo spirito, o intelletto/volontà, nel senso dell’attività che si rivolge e quindi si ritorce contro la Madre, è il colpevole della decadenza. Com’è possibile ciò in una realtà pienamente, cioè essenzialmente e compiuta-mente, metamorfica? Una realtà le cui componenti sono tutte e totalmente interne alla realtà stessa, tanto da costituirne il motore del divenire?

La metafisica di Klages non è irrazionalistica, non vuole esserlo, nelle intenzioni dell’autore, e tuttavia pare non potersi sottrarre alla “censura” di irrazionalismo, o meglio, di “illogicità”, proprio nella misura in cui, volen-do spiegare e fondare, giustificare razionalmente e ragionevolmente, il contrasto presente tra anima e spirito nella civiltà, non riesce tuttavia a ri-spondere alla domanda: com’è possibile che lo spirito sia totalmente, es-senzialmente estraneo alla realtà in cui esso pure penetra e agisce? Quale “madre” lo ha partorito? E, ancora: è “logico”, è pensabile – nel senso di raggiungibile col pensiero umano – uno scarto così fondamentale, così in-colmabile, tra realtà e spirito?

Iniziamo a intravedere qualche piccola luce, in grado di consentirci, sia pure a fatica, di inquadrare il problema nei termini del titolo di questa con-versazione: l’opposizione essere-divenire, nella filosofia occidentale, ha dato origine a linee di pensiero, ricerca ed espressione che si sono a loro

246 Errore

volta variamente contrapposte, considerando, ora l’una ora l’altra, “illuso-rio”, benché per certi aspetti tollerabile proprio in quanto illusorio, il termi-ne “centrale” avverso, fosse esso essere o divenire. Il tentativo della filoso-fia kantiana, proprio perciò rivoluzionario-copernicano, di attingere a entrambe le tradizioni in maniera innovatrice, non è stato in grado fino in fondo di conciliare le due opposte istanze: l’elemento aprioristico, come spazio razionalistico ascrivibile all’essere, prevale, benché mostri per la prima volta con chiarezza un carattere nichilista in precedenza impensabi-le: la ragione kantiana, non potendo dimostrare l’esistenza di Dio, né po-tendo giustificare razionalmente la fede, di fatto abbandona l’istanza razio-nalistica a se stessa, all’umanità del proprio presupposto. E umanità è fragilità, esposizione all’errore e/o alla colpa.

L’altro vero, grande tentativo di “conciliazione” tra le due posizioni è compiuto da Goethe, che non a caso abbiamo visto essere tra le fonti di riferimento primarie di Klages. Ora, però, Goethe non ha compiuto tale tentativo sul piano della tradizione filosofica, e questo non è un particolare da poco, per la nostra riflessione. Non a caso Hegel, che quasi contemporaneamente a Goethe compie il medesimo tentativo, cerca variamente di portare Goethe dalla “propria parte”, ma senza grandi risultati. L’idea goetheana di metamorfosi, infatti, non riesce a sposarsi con il percorso e gli esiti di una filosofia della storia razionalisticamente improntata. Rispetto a Kant, tuttavia, lo spazio del divino, che viene mantenuto sì aperto ma riempito con un punto interrogativo, Hegel lo innerva proprio con il divenire, con la storia, sperando che questa iniezione di viva sostanza possa tramutarsi in azione divina; ma, come detto, l’impresa non riesce appieno, perché der Geist, lo spirito, hegelianamente inteso, si “concilia” con la natura solo nella misura in cui la attraversa per appropriarsene e “restituirla” poi completamente altra: spiritualizzata.

Ed eccoci a Klages: la sua posizione metafisica del problema è apparen-temente limpida, lineare: da un lato il mondo delle cose, dall’altro il mondo dei fenomeni, che egli chiama anche essenze, Wesen. Il primo è il risultato di una costruzione operata dallo spirito, il quale “blocca” il divenire feno-menico, che di per sé è perennemente irriducibile all’involucro “cosale”; tale operazione di riduzione è esemplificata dal procedimento scientifico moderno, il quale, riducendo l’esterno dell’uomo ad oggetto, costruisce ap-punto per i propri usi e scopi il mondo come oggetto manipolabile e, di fat-to, manipolato. Scrive Klages in un saggio tra i suoi più riusciti: «il mondo dei fenomeni si trova quindi in perpetua fuga e trasmutazione, mentre il mondo delle cose – sottratto al tempo – resta fisso» (Klages 1940: 11). Di che natura, di che tipo è il tempo che ai fenomeni viene sottratto, così da tra-

247G. Moretti - La questione dell’«errore»in ludwig klages

sformarli in cose? Infatti è innegabile che anche le cose abbiano un tempo, che siano soggette al tempo. Il tempo delle cose è il tempo lineare, un tem-po spazializzato. L’analisi del tempo spazializzato e del tempo-superficie delle cose, che diviene subito tempo superficiale e quindi inautentico, è co-mune a Klages e a molti altri pensatori suoi contemporanei. Di una certa ori-ginalità è invece la posizione klagesiana sulla natura di quel tempo “sottrat-to”. Klages lo definisce: ritmo. Il saggio di Klages L’essenza del ritmo, da cui abbiamo citato poco fa, potrebbe a suo modo chiamarsi anche: L’essen-za dell’essenza, poiché il ritmo, inteso come fa Klages, è precisamente l’es-senza dei fenomeni, la loro vera natura e vita. E poiché l’indagine sull’es-senza, dice in un altro luogo Klages, ha il nome di metafisica, ecco che allora l’indagine sull’essenza del ritmo è la metafisica per eccellenza.

Il ritmo è perciò quel fenomeno originario e inapparente grazie al quale la vita aritmicamente si manifesta ai sensi dell’uomo, che della vita fa par-te (questo è un aspetto da non dimenticare, e diverrà fondamentale nel mo-mento in cui si affronta la questione dell’ingresso o apparire dello spirito nella vita). Il ritmo è originario, poiché alle sue spalle, per così dire, secon-do Klages non c’è nulla, e inapparente poiché, proprio come la respirazio-ne, lo pratichiamo senza avvedercene. Attraverso i sensi, il corpo partecipa del ritmo del mondo. Cosa vuol dire ciò? Che i sensi percepiscono il ritmo, nel senso che ne sono completamente assimilati, e l’anima, la forza vitale interna e caratteristicamente individuale, benché non personale, del ritmo che permea il corpo, del pulsare vitale continuo, riconosce, nell’attimo, la somiglianza tra quel che precede e quel che segue. Il principio che consen-te il riconoscimento del simile è la pura e semplice appartenenza della cel-lula corpo-anima al nucleo universale del ritmo. L’orientamento che l’esse-re umano originariamente sperimenta nell’esistenza è perciò dovuto, o, più semplicemente, scaturisce, da quell’appartenenza. Riconoscimento e ripe-tizione del simile sono la legge ritmica fondamentale. L’esistenza è l’infi-nita variazione di un unico tema originario, infinitamente ripetuto senza noia né ripetizione pura e semplice. Così Klages interpreta l’alba dell’uo-mo.

Che accade? Perché il ripetersi infinito del ritmo e del simile vengono meno, o, meglio, sono interrotti, e ciò accade peraltro in maniera tale che noi possiamo legittimamente chiederci se di errore o di colpa si tratti?

La risposta a questa domanda è accennata – non sviluppata o argomen-tata – in quello scritto sul “ritmo” cui si faceva riferimento poco più sopra. Fedele al dualismo di fondo della propria prospettiva metafisica, Klages in-dica nella contrapposizione, che egli vede sussistere a ogni livello dell’esi-stenza umana, tra ritmo e battuta, un rispecchiamento, un’espressione mol-

248 Errore

to significativa della contrapposizione esistente tra vita e spirito, una contrapposizione che rivela, almeno in parte, la loro funzione ed azione. Con la consueta determinazione, scevra da dubbi di sorta, che caratterizza la sua prosa ed il suo incedere interpretativo, Klages chiama “ritmo” lo scorrere dei fenomeni (naturali, principalmente, ma anche umani se non-spirituali) senza “interruzioni antagonistiche”, la vita in parole povere, e “battuta” l’azione «ora volontaria, ora del tutto inconscia», in seguito alla quale, raggruppando le nostre impressioni, l’intelligenza viene facilitata a raggiungere uno «sguardo complessivo», ottenendo, «se così è permesso esprimersi, la spiritualizzazione del mondo fenomenico». L’azione della suddivisione in battute (“colpi” veri e proprî) della vita fenomenica, di per sé aritmicamente improntata, è perciò tanto un’azione sostanzialmente di-visoria e separatrice, diretta a sganciare il singolo fenomeno dal flusso vi-tale che gli fornisce il suo fondamento (contenuto) altrettanto vitale, quan-to altresì un’azione che riposiziona la “battuta”, ottenuta, appunto per separazione, in un’articolazione complessiva la quale diviene congruente e giustificata soltanto a partire dalla medesima intelligenza la quale, volonta-riamente o inconsciamente, aveva prodotto quella separazione. Prima di quell’atto separatore-divisorio, in altre parole, la realtà e la sua contempla-zione-percezione non richiedevano secondo Klages a nessun livello di es-sere “giustificate” e, ancor meno, in base a una congruenza. A questo pun-to del suo discorso, Klages si sofferma su quello che egli stesso, qui e altrove, definisce un vero e proprio “scambio”: «invece di riconoscere nel-la spiritualizzazione ciò che essa è, e cioè un’azione divisoria, la si prese e la si prende per un’azione formativa, la quale darebbe la primissima forma, eídos, al mondo fenomenico, che senza di essa sarebbe caotica accidentali-tà» (ivi: 15).

In questa sede, con riferimento cioè al tema da trattare, del discorso di Klages ci interessano i seguenti aspetti:

il carattere attivo, ma di certo spesso inconsapevole, probabilmente, ini-zialmente, del tutto o quasi inconsapevole, del primo atto spirituale.

L’insistenza sull’aspetto separatore-divisorio di tale azione, originaria o successivamente ripetuta all’infinito per comodità, abitudine e desiderio di dominio: un aspetto che potremmo definire intrinsecamente diabolico.

È anche tra questi due aspetti della questione che va situata la riflessio-ne sul carattere di errore o di colpa, o di entrambi, che l’atto spirituale comporta.

Tanto Klages è determinato e attento nell’individuazione del “problema”, quanto lo è nel ritenere di non dover fornire una risposta sulla sua “origine” o causa, limitando perciò in tal modo la propria prospettiva di pensiero a

249G. Moretti - La questione dell’«errore»in ludwig klages

una disamina priva di slanci teoretici capace di far balenare possibili alternative a una “situazione”, quella dell’umanità spiritualizzata, la quale non può che produrre catastrofi o, eventualmente, palingenesi. Ma il problema resta. Fu un errore o una colpa, o entrambi, il primo atto umano di spiritualizzazione del flusso del reale? “Spiritualizzazione” è per Klages sinonimo di intervento destinato alla perpetuazione artificiale di uno “stato”, che di per sé è necessariamente transeunte, passeggero. Spiritualizzazione e individuazione sono concetti molto vicini, si toccano, ed è probabilmente anche per questo che Klages è stato di frequente avvicinato a Schopenhauer. Spiritualizzazione vuol dire attribuire alla realtà, sperimentata come frammento, un’esistenza che va al di là del suo essere-frammento. In tale attribuzione, l’individuo costituisce se stesso come soggetto che è in grado di attribuire quel sovrappiù di esistenza, cui il frammento non avrebbe diritto, e costituisce altresì il frammento fenomenico come cosa a sé contrapposta ma tuttavia autonoma, come fonte di quell’attribuzione. Non siamo di fronte a una vera e propria volontà di affermazione individuale dinanzi e di contro a una vita universale che richiederebbe invece dal singolo nient’altro che un puro e semplice trascorrere, passare? Se rispondiamo positivamente a questa domanda, come per tanti versi riteniamo sia lecito fare, si comprende meglio anche il carattere esasperato dell’antigiudaismo di Klages, così spesso scambiato per antisemitismo (va detto che Klages non fece moltissimo per tenere distinti i due piani), poiché emerge con sufficiente chiarezza la contrapposizione tra il comandamento cristiano di obbedienza al Creatore come rinuncia a quegli aspetti della personalità individuale che cristianamente vengono stigmatizzati come affermazioni dell’orgoglio personale e antidivino, da un lato, e dall’altro il comandamento dell’appartenenza individuale alla metamorfosi infinita della realtà, rispetto alla quale ogni resistenza assume l’aspetto della hybris greca, una resistenza che è appunto quasi un peccato d’orgoglio. Se invece rispondiamo che non tanto di “colpa” deve parlarsi, per l’origine della spiritualità in Klages, quanto di errore, o forse persino di casualità e di destino, allora non possiamo tralasciare di rievocare un altro dei tratti più originali di questo pensatore, che consiste nella sua interpretazione-critica di Nietzsche. Non è necessario qui richiamare, se non con un accenno velocissimo, il fatto che negli anni Venti del secolo scorso il pensiero di Nietzsche è al centro di una disputa ermeneutica molto vasta e “aspra”. Klages sceglie di concentrare la propria analisi sulla questione dell’eterno ritorno dell’identico, che è strettamente connessa, proprio per la nozione di “ritorno”, al tema del ritmo della vita e dell’esistenza, una questione che abbiamo visto essere

250 Errore

centrale per il suo pensiero. Se lo spirito, nella sua interpretazione, è all’origine dell’esperienza dell’identità come raggelamento, incantamento del fluire della vita, e se la “battuta”, come risultato di tale ipnosi, che lo spirito esercita sulla vita, per bloccarla e disporne a suo piacimento, è l’esito di tale identificazione dell’attimo, davvero Nietzsche, il pensatore dell’esaltazione vitalistica e dionisiaca del divenire, ha contribuito, con la sua teoria dell’eterno ritorno dell’identico, al consolidamento dell’universo identitario-spirituale?

È questa la domanda alla quale Klages intende rispondere, con la propria disamina della teoria nietzscheana, e come vedremo sarà una risposta in gra-do di collocare Klages in una posizione davvero originale nel novero degli in-terpreti di Nietzsche. In pagine che, a quanto sembra, risalgono al 1920, e che successivamente Klages avrebbe inserito (1932) a conclusione della sua ope-ra maggiore, Lo spirito come antagonista dell’anima, la riflessione attorno al significato “spirituale” e “spiritualizzante” della volontà di potenza nietzsche-ana si articola nel modo che segue, e che qui viene per necessità molto stiliz-zato. Secondo Klages, il piano della somiglianza, che poi è un altro termine per indicare quel che tradizionalmente si chiama analogia, è il piano lungo il quale trascorre incessantemente la realtà come successione di immagini reci-procamente richiamantisi, appunto, per similitudine. Scrive Klages:

anche se lo spazio dell’attimo che viene, per lo sguardo dell’anima, può es-sere diverso dallo spazio dell’attimo che va, tuttavia lo spazio che viene asso-miglia allo spazio che va; […] ha dunque luogo un ritorno, che però non è ripe-tizione ma è quel che lo spirito non può mai afferrare: il rinnovamento! […] La norma dell’eterna ripetizione dell’identico costituisce lo spazio d’azione delle cose, il ritmo dell’eterno ritorno del simile è lo spazio d’azione delle immagi-ni. La norma, per essenza priva di temporalità, vincola, gettando nella vita, l’at-timo […]; il ritmo, eterna forma manifestativa del tempo della realtà, scioglie incessantemente, ringiovanendo, quel che incessantemente invecchia (Klages 2006: 121-122)1.

La lunghezza della citazione ci verrà spero perdonata in virtù della sua importanza. Poche altre volte nella sua opera, come qui, Klages riesce con tratti essenziali a delineare il fondamento metafisico della sua filosofia. “Metafisico”, insistiamo, poiché è evidente che Klages ricorre alla contrap-posizione tra tempo come apertura sull’autentica realtà e spazio come co-struzione-chiusura limitante, ipnotica, incantatrice e funzionale agli usi

1 Su Klages, ci sia consentito di rinviare a Moretti 2001 e alla bibliografia in esso presente.

251G. Moretti - La questione dell’«errore»in ludwig klages

spirituali, di quella realtà. In tal modo, ad esempio, Klages individua, nell’apriorismo kantiano spazio-temporale, proprio uno dei passaggi epo-cali della storia dello spirito: la corrispondenza kantiana tra lo spazio e il tempo non soltanto nobilita la spazialità a un piano che non le sarebbe pro-prio, ma soprattutto svilisce l’esperienza del tempo, originariamente auten-tica, al piano di una funzionalità umana, sul quale poi illusoriamente, e in-consapevolmente, Nietzsche erge il proprio edificio del “ritorno eterno dell’identico”. Un eterno ritorno, insiste Klages, che non è certo “errato” nelle intenzioni, ma che assume persino i contorni di una “colpa” appena si evidenzia che «l’eterno ritorno non insegna assolutamente una sorta di tempo circolare ma la forma circolare dei fenomeni materiali nel tempo» (ivi, p. 123). Il che vuol dire: nel tempo una volta che questo, con Nietzsche, viene definitivamente ed esclusivamente pensato a partire dalla definizio-ne-esperienza dello spazio. Lo scopo di Nietzsche era forse quello, dioni-siaco, di «superare il concetto di meccanismo, porta però in verità alla sua estremizzazione, e può in tal senso valere come il perfetto contrario della restituzione pelasgica dell’origine» (ibidem).

Sarebbe potuto Nietzsche pervenire a una simile visione dell’eterno ri-torno se avesse mantenuto intatto il proprio legame con i principî fonda-mentali del romanticismo tedesco, in particolare se avesse mantenuto aper-to il legame con il piano del sacro e non l’avesse scambiato con un’escrescenza filistea? Probabilmente no.

Ma torniamo a Klages. Il dionisiaco nietzscheano viene interpretato come un grimaldello liberatorio dell’attimo dall’ipnotico e incantatore sguardo dello spirito. L’affermazione nietzscheana dell’assenza di senso (significato e direzione) del movimento dell’eterno ritorno viene respinta in favore del significato sacro della temporalità dell’esistenza e dell’espe-rienza vissuta su cui l’esistenza del singolo può “poggiare”, sia pure senza “insistere”, e soprattutto senza incorrere in colpa o errore. Tale esistenza privilegiata e particolare, oltre che naturalmente, fino in fondo passeggera (in quest’orizzonte ontologico va compreso e interpretato il rapporto tra “frammento” e “romanticismo”), è, nemmeno a dirlo, quella dell’artista. Ma non l’esistenza artistica come esistenza eccezionale, al di fuori della “norma” e della “mediocrità”, come si è in genere portati a pensare, bensì l’esistenza artistica come esempio di esistenza aritmicamente inserita nel flusso normale della vita. L’artista è per Klages il modello dell’essere uma-no in cui lo spirito non agisce, inducendo all’errore: l’errore è dunque fa-cilmente individuabile, nella vita artistica, come l’affermazione della per-sonalità artistica fine a se stessa, in quanto tale affermazione si manifesta nell’insistenza dell’identità e l’identità è il vero e proprio “marchio” dello

252 Errore

spirito, per Klages, l’identità, ciò che impedisce la similitudine per affer-mare la singolarità come eccezione fatta emergere dal flusso indistinto è fissata. Non a caso Klages individua una vicinanza simbolica e significati-va tra il “Pelasge”, com’egli chiama l’abitatore patico del tempo, l’uomo non condizionato dallo spirito e dalle sue scelte “obbligate”, e l’artista. Anzi, si potrebbe proprio affermare che il Pelasge è il prototipo senza tem-po, fuori del tempo spirituale come tempo spazializzato, dell’artista come modello umano nel tempo, un tempo sì già spazializzato, e quindi un tem-po in qualche modo “ingabbiato”, incasellato, costretto, ma capace di ren-dere tale gabbia, tale incasellamento, tale costrizione, trasparenti. Tale tra-sparenza è l’opera d’arte, la quale corrisponde alla normale consuetudine di vita del Pelasge.

Ne risulta perciò un quadro all’interno del quale temporalità e arte sono realtà strettamente connesse, direi quasi imprescindibili. Il richiamo alla “trasparenza” della realtà che l’opera d’arte è in grado di offrire non va però ricondotto al piano della “critica” e della “denuncia”. Il sostrato meta-fisico del pensiero di Klages, al quale ho fatto variamente riferimento all’i-nizio, porta invece in tutt’altra direzione: al flusso vitale lo spirito oppone resistenza e pone degli argini che l’arte rende trasparenti nel senso di con-sentire un vero e proprio sguardo sull’essenza della realtà. L’opera d’arte, in tal senso, neutralizza l’errore spirituale, elimina la deviazione, la perver-sione, la presa ferrea che lo spirito esercita sulla realtà. Ma soltanto per l’attimo della sua “durata”. Non è sbagliato affermare che, in questa posi-zione klagesiana, siano molto presenti echi di Schelling e soprattutto di Schopenhauer, e forse anche di Bergson. Ma la presenza di Nietzsche non è semplicemente di facciata, nel pensiero di Klages. La critica nietzschea-na alla metafisica e al suo platonismo fondamentale, alla duplicazione mondo vero/mondo falso con la sua inevitabile componente di “illusorie-tà”, ha avuto un’eco non piccola, com’era da attendersi. Non tanto, perciò, l’opera d’arte è in grado, per Klages, di far scomparire l’illusorietà del di-venire consentendo uno sguardo sul mondo intatto dell’essere, quanto, piuttosto, l’arte è in grado di far riconoscere il divenire come unica realtà della vita, sulla quale lo spirito, ingannevolmente ma funzionalisticamen-te, agisce creando l’identità e i suoi addentellati, i “denti” del meccanismo del funzionamento finalizzato all’ottenimento di scopi e risultati. L’opera d’arte scioglie per un attimo l’errore, e proprio liberando la temporalità dell’attimo. Che tipo di temporalità è quella dell’attimo “liberato” (osser-viamo che anche in quest’idea di liberazione-emancipazione dell’attimo è presente Nietzsche)? È temporalità autentica. Che lo spirito, parola che tra-dizionalmente, da sempre, e a tutte le latitudini, viene accostata a ciò che vi

253G. Moretti - La questione dell’«errore»in ludwig klages

è di più autentico, venga invece da Klages considerato l’antagonista per ec-cellenza dell’autenticità, la temporalità interna dell’esistenza, e quindi all’origine dell’errore: questo l’aspetto certamente più inquietante del pen-siero di Klages.

Bibliografia

KLAGES L.1940 L’essenza del ritmo, in Id., L’anima e lo spirito, R. Cantoni (a c. di),

Milano.

2006 La realtà delle immagini. Simboli elementari e civiltà preelleniche, G. Moretti (a c. di), Milano.

LUKÁCS G.1954 La distruzione della ragione, vol. II, tr. di E. Arnaud, Torino 1980.

MORETTI G.2001 Anima e immagine. Studi su Ludwig Klages, Milano.

255

MA COME TI VESTI? ERRORI E TRASFORMAZIONI

NELLA TELEVISIONE CONTEMPORANEA

di Marta Perrotta

1. Tra factual e fictional

Tra le forme della cultura televisiva contemporanea c’è un genere, il fac-tual, che riscuote un discreto successo nel mercato televisivo internaziona-le e di recente anche in quello italiano. La parola «factual», conosciuta pri-ma nell’ambito della teoria della letteratura e ora anche tra i generi e le culture produttive della televisione, indica sinteticamente tutto ciò che in televisione non è fictional, ovvero di finzione, contiene rappresentazioni veritiere della realtà e fornisce contestualmente un sapere sul mondo (Hill 2007: 3). Questo genere ha fatto la sua comparsa da poco in Italia, in asso-ciazione a programmi lifestyle e makeover che accompagnano la moltipli-cazione dei canali nel nostro sistema televisivo e che affollano i nuovi pa-linsesti digitali.

Ma come ti vesti?, Extreme Makeover o Extreme Makeover Home Edi-tion, Cucine da incubo, Paint your life, Pimp my ride, Clio Make Up: que-sti titoli trasformano l’offerta televisiva in una rivista piena di rubriche di cucina, cura del corpo, fai da te, moda e trucco, automobili e animali dome-stici. Una soluzione molto economica alla necessità di riempire i nuovi ca-nali, ma allo stesso tempo una dinamica che s’intreccia con l’evoluzione del linguaggio televisivo e dei gusti dei telespettatori. Si tratta di show che portano nel proprio patrimonio genetico l’impalcatura narrativa della rea-lity television, con modelli discorsivi incentrati sul privato, ma che invece di ricreare realtà in vitro e di osservarle esibendo l’intimità dei sentimenti dei protagonisti, si rivolgono a tutti gli ambiti e agli interessi della società. Esplorandone con occhio diagnostico le caratteristiche, essi cercano di mi-gliorare le competenze dei protagonisti (e indirettamente degli spettatori) nei diversi ambiti che sono oggetto della rappresentazione, anche attraver-so espliciti consigli per gli acquisti.

256 Errore

Come è accaduto per la diffusione del reality, infatti, il lifestyle e il ma-keover si sono radicati in un contesto di interesse della televisione verso il quotidiano, l’ordinario, il vissuto della gente comune. Ma se il reality era una semplice, per quanto parossistica, osservazione e spettacolarizzazione delle dinamiche interpersonali tra i protagonisti di un gioco, nei program-mi factual la telecamera esamina l’intimità dei luoghi, delle persone e del-le relazioni e indugia sulle vite dei personaggi alla ricerca dell’errore e di una possibile soluzione.

L’interesse verso questi programmi è duplice: in prima istanza essi ci mostrano un uso esperto delle dinamiche narrative, perché vivacizzano il racconto di lati noiosi e banali della vita di tutti i giorni (truccarsi, vestirsi, fare la spesa, portare a spasso il cane, dipingere il muro del bagno); in se-condo luogo questi show condividono un’ideologia simile e producono un racconto coerente, in sintonia con i tratti della tarda modernità: un raccon-to i cui protagonisti sono tenuti a un perenne automonitoraggio, all’eserci-zio di un “progetto del sé” che non ammette distrazioni. L’errore è un lei-tmotiv di queste narrazioni, sia perché è un espediente drammaturgico molto efficace nella costruzione del racconto, sia perché è quasi sempre la premessa dei programmi di questo genere: siamo sbagliati nel modo in cui ci vestiamo, cresciamo i nostri figli, cuciniamo il risotto; ma c’è qualcuno – l’esperto della Tv – che può aiutarci a cambiare, a ricominciare, a non sbagliare più. Mettendo l’errore al centro delle nostre riflessioni guardere-mo dunque il programma Ma come ti vesti?1, un factual makeover di con-sigli sull’abbigliamento, con un occhio alle sue forme narrative e un altro alle implicazioni sociologiche di un fenomeno caratteristico dell’età dell’incertezza.

Esploreremo infatti personaggi, situazioni e punti di svolta di un raccon-to strutturato sulla ricerca e stigmatizzazione dell’errore verso un percorso di trasformazione, di sicuro impatto sul pubblico: un meccanismo che fun-ziona in tutto il mondo, attraverso il mercato dei format televisivi. Paralle-lamente, però, osserveremo il fenomeno in termini più ampi, utilizzando le teorie che analizzano l’azione “normativa” della Tv (cfr. Giomi 2013). Se-condo queste prospettive, nel gioco di specchi tra televisione e società si re-

1 Il makeover show Ma come ti vesti?, prodotto da Magnolia per Real Time (Discovery Communication), in onda sul canale free e sulla piattaforma satellitare SKY, è adattato dal format britannico dal titolo What not to wear, programma che la BBC ha mandato in onda sul canale 2 dal 2001 al 2003 e dal 2004 al 2007 (su BBC1). La versione made in USA dello show è stata tramessa da TLC (The Learning Channel) a partire dal 2003. Dal 2006 al 2014 il programma in Italia ha avuto 8 edizioni.

257M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

alizza quel bisogno dell’individuo di uno sguardo “altro” ai fini di una compiuta rappresentazione: l’esperto stigmatizza le vecchie abitudini (ali-mentari, di abbigliamento, relazionali), ma insieme promette una trasfor-mazione, esaltando le possibilità del singolo di reinventarsi a partire da un abito diverso, da un taglio di capelli, da una casa più bella, da nuovi com-portamenti di consumo. In questo senso, i makeover sembrano contenere formule di trasferimento di una disciplina “istituzionale”, fatta di tecniche del sé che, una volta apprese, gli individui possono utilizzare per rappre-sentarsi e auto-monitorarsi, alla ricerca di una nuova identità.

2. L’errore in Tv

L’errore è un meccanismo narrativo molto efficace, fin dalla nascita del-le forme di imitazione poetica, prima tra tutte la tragedia greca. Non sare-mo noi i primi a mettere in relazione la Poetica di Aristotele con i manuali di scrittura, perché il linguaggio della televisione attinge a dei principi nar-rativi che, di ibridazione in ibridazione, arrivano dal teatro dell’antichità e che Aristotele nella Poetica aveva già individuato ed evidenziato nel IV se-colo a. C.; oltre alle riflessioni più generali sulla funzione mimetica e catar-tica dell’arte, la Poetica arriva a noi con una serie di indicazioni su come ottenere interesse drammatico nei racconti e su come individuare la strut-tura di una storia efficace. Anche se il mondo è cambiato dai tempi di Ari-stotele, possiamo dire con Roger Silverstone (1999: 78) che

mimesi, realismo, verosimiglianza sono al centro anche della nostra poesia, anche se questa assume la forma della situation comedy e del lungometraggio, anche se le tragedie e le commedie si svolgono nei palinsesti serali dei vari ca-nali […]. Tutte queste forme, che hanno diverso successo e sono soggette a dif-ferenze di valore, richiedono un’analisi: è necessario comprendere come ope-rano. Ed è necessario comprenderlo senza cadere nella trappola dei formalismi che hanno confinato la poetica nell’ambito della critica letteraria.

Nelle narrazioni contemporanee riecheggiano forme precedenti, miti, racconti popolari delle culture orali: questi tipi di storie «riflettono, rifran-gono e risolvono, almeno in apparenza, i dilemmi grandi e piccoli della vita e delle credenze e delle culture che le ospitano» (ibidem). Per questo, ieri come oggi gli strumenti che ci fornisce Aristotele sono utili, e per questo possiamo usare termini come “peripezia”, “riconoscimento”, “meraviglia”, “catarsi” e, appunto, “amartia” – l’errore tragico o fatale – per studiare le storie di oggi.

258 Errore

Ciò che costituisce materia di poesia e in particolare di tragedia, per Ari-stotele, non è l’errore che capita per caso o in relazione a sfortunate coinci-denze. Quando il soggetto non è vittima ma è agente dell’errore, causato da ignoranza nelle scelte, o errori di giudizio e di valutazione, ecco l’intrigo tragico2. È l’ignoranza che fa commettere l’errore. L’ἁμαρτία è stata inter-pretata dalla critica alternativamente in due sensi: quello più comune è il senso di amartia come tragic o fatal flaw, per cui l’eroe tragico si rovina commettendo un’azione dannata e dannosa e viene punito: lo spettatore prova indignazione per l’azione e per la colpa, ma vedendo gli effetti della punizione che colpisce l’eroe, si placa3.

Nella Poetica di Aristotele l’amartia è un errore intellettuale e non un di-fetto morale del personaggio4. Come sostiene van Braan (1912: 266-272), una caratteristica essenziale della tragedia è il darsi di una sofferenza sen-za colpa morale, ma è evidente che la radice della sofferenza dev’essere in-terna all’eroe: «tale radice può essere unicamente un errore di conoscenza, giacché cosa c’è di più umano di un errore di giudizio, l’insufficienza del-la mente umana nell’eterna lotta con le complessità e i misteri di questo mondo?».

Secondo Zanatta (2001: 245), la nozione di ironia tragica deriva intera-mente dal nostro vedere un eroe commettere un errore fatale di giudizio nel momento in cui sta facendo affidamento sulla propria intelligenza per diri-gere le proprie azioni: «per Aristotele ἁμαρτία corrisponde a un errore in-tellettuale che interviene nel corretto corso dell’azione compiuta da un sog-getto animato dal desiderio di fare ciò che è giusto, ma che manca della necessaria intelligenza per compierlo.» Il punto di svolta nella tragedia ari-stotelica è proprio quando l’eroe si rende conto della propria amartia. A questo momento seguirà una forma di purificazione/redenzione: due pas-saggi che riportano in auge l’umanità del protagonista rispetto all’errore commesso.

Se applichiamo queste riflessioni alle narrazioni in Tv ci troviamo di fronte a vari casi di utilizzo dell’errore come punto di svolta di una storia. Nel quiz, per esempio, la costruzione dell’engagement dello spettatore si

2 Troviamo riferimenti all’amartia nella Poetica di Aristotele al capitolo XIII (1453 a 8-10).

3 C’è anche un altro senso di amartia, che è quello di «mistake of fact», errore materiale, ma non sembra più adatto del primo ad esprimere il senso della tragedia.

4 Se il contenuto dell’amartia fosse morale, se l’amartia dell’eroe della tragedia ideale di Aristotele fosse un moral flaw, la risposta emozionale dello spettatore non potrebbe più essere la pietà per una sofferenza immeritata o la paura che qualcuno come lui soffra un tale destino.

259M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

gioca su alcuni fattori fondamentali: la presenza di due o più concorrenti, di una posta in gioco e di una competizione per ottenerla, elementi che per-mettono a chi guarda di godere della dimensione ludica, di mettere alla pro-va le proprie conoscenze o le proprie reazioni emotive di fronte alla gara, e dunque di calarsi nella situazione. Pertanto la possibilità dell’errore in sen-so aristotelico nel quiz è un elemento centrale, che rende il genere imme-diatamente comprensibile e lo fa ruotare attorno all’opposizione fonda-mentale tra risposta esatta e sbagliata. Come scrive Feyles (2003: 160),

la possibilità dell’errore esalta il conflitto tra i partecipanti al gioco, renden-doli avversari tra loro o avversari del ‘banco’, del programma. Essi lottano per non sbagliare o per non sbagliare per primi. […] L’errore è il vero fine delle do-mande: il quiz non saggia tanto la competenza ma il limite dell’incompetenza. Infatti solo quest’ultima è televisivamente interessante, perché legata a un mo-mento ben determinato, a una soglia identificabile […]. Non si può raccontare per immagini l’estensione di un sapere, ma si può mostrare il livello in cui un sapere entra in crisi. […] Il negativo, cioè il difetto o il rovesciamento, si può raccontare in modo drammatico meglio del positivo.

Secondo questa prospettiva, dunque, l’errore è non solo la più semplice, ma anche la più rappresentabile delle peripezie dell’eroe. Per lo stesso mo-tivo, nella storia della televisione ci ricordiamo dello scandalo “payola” (letteralmente: bustarella), quello per cui nel 1959 i produttori del quiz americano Twenty One, sulla spinta degli sponsor del programma, favori-rono un concorrente telegenico truccando il gioco e facendo perdere il campione, bruttino ma infallibile, e dunque poco interessante da un punto di vista televisivo (cfr. Menduni 2001). La stessa storia è narrata nel film di Robert Redford, Quiz Show del 1994, ed è una dimostrazione ulteriore dell’interesse narrativo che si crea di fronte alla possibilità dell’errore: in questo caso, un interesse giustificato dal fatto che qui si racconta di quella volta in cui la Tv ruppe il patto narrativo che il quiz ha con lo spettatore, quello di non dire bugie. È l’errore in un meccanismo in cui l’errore è fon-damentale.

Anche il premio nel quiz assume un nuovo significato, se letto in chiave aristotelica: «l’errore del concorrente determina la perdita del premio, ma non secondo giustizia. A osservare bene, c’è quasi sempre una sproporzio-ne tra ciò che viene perso e l’errore o tra ciò che viene vinto e il non erro-re» (Feyles 2003: 160). Per fare un esempio, in Chi vuol essere milionario, così come in Lascia o Raddoppia?, una risposta sbagliata dopo una serie di risposte esatte può interrompere l’ascesa del concorrente verso un premio consistente; a L’Eredità, si può essere buttati fuori gioco dall’avversario

260 Errore

che ha sbagliato e che, temendo un concorrente bravo, lo sceglie per un duello, puntandogli il dito contro. Secondo Feyles (ibidem) questo è un meccanismo

coerente con la vita, ma non con la ragionevolezza. In effetti, nella realtà i fatti sembrano accadere secondo logiche analoghe, tanto da far protestare chi subisce una sventura contro il destino “avverso” o “crudele”. Per contro l’a-spettativa ideale sarebbe diversa e prevedrebbe, se non un’assenza di negativi-tà, almeno una proporzione tra il negativo e il positivo, tra il merito e il premio e il demerito e la punizione. Per dirla con termini familiari ad Aristotele, una proporzione tra virtù e felicità. Nei quiz televisivi, questa giustizia non c’è: come nella tragedia, anche nei quiz può essere un’inezia o un piccolo errore a provocare un’irrimediabile caduta. Nella tragedia, secondo Aristotele, questo porta lo spettatore al terrore e alla pietà. Naturalmente nel quiz i sentimenti sono diversi, meno forti, ma siamo ugualmente in presenza di un’emozione su-scitata da un meccanismo analogo di sproporzione tra causa ed effetto. A dimo-strazione ulteriore, il quiz non può che essere “cattivo” o comunque inflessibi-le, pena perdere di credibilità (cioè di verosimiglianza).

La neotelevisione ha sfruttato con grande abilità l’errore, ad esempio nella costruzione della suspense. La dilatazione dei tempi di risposta dei concorrenti, non più troppo vincolati alla variabile tempo – pensiamo an-cora a Chi vuol essere milionario che ha eliminato il cronometro e il gong di scadenza del tempo – e contemporaneamente l’insistenza del conduttore nel domandare al concorrente di riflettere attentamente prima di dare la ri-sposta definitiva, sottolineano ancora di più le dinamiche della formazione dell’errore e la sua possibile incombenza. Allo stesso modo, alcune modi-fiche nella struttura dei giochi – come quelli in cui per vincere bisogna dare la risposta sbagliata e non quella giusta – e l’introduzione della multiple choice rendono l’errore evidente, cristallizzato in alcune sue possibili ma-nifestazioni, ma sempre vicino alla risposta esatta. «Ancora una volta», continua Feyles (ivi: 163), «il senso che si comunica è il fatto che l’errore è sempre in agguato».

3. L’errore nella makeover Tv

Dal quiz ai programmi factual il passo non è immediato. Si tratta di due generi molto diversi, in cui cambia profondamente il patto comunicativo tra emittente e destinatario. Questo non ci impedisce di leggere in chiave factual anche il quiz, considerandolo come contenente rappresentazioni

261M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

veritiere di una realtà: quella di un concorrente a un gioco televisivo che re-almente si aggiudica premio, oppure no. Di fatto, per quanto pettinata, per usare un’espressione di Carlo Freccero, è una storia vera pure questa, come quella di chi è protagonista di un qualsiasi factual.

Non ci soffermeremo troppo a descrivere Ma come ti vesti? il factual makeover che analizziamo in questa sede5, perché il concept è davvero es-senziale – anche questo ne ha fatto la fortuna internazionale: due consulen-ti d’immagine (in Italia, Enzo Miccio e Carla Gozzi) trasformano lo stile d’abbigliamento di persone comuni, quasi sempre donne, segnalate da pa-renti o amici non contenti del loro look. Ogni puntata presenta una macro-struttura di tre fasi (pre-trasformazione, trasformazione e post-trasforma-zione), suddivise a loro volta in cinque diverse sequenze: la prima di svelamento e presentazione del caso, la seconda di analisi del caso e accu-sa del/la protagonista, la terza di intervento/consiglio/indottrinamento e ri-programmazione dei suoi gusti, la quarta di messa in pratica nello shop-ping, con tanto di valutazione degli esperti, la quinta di rivelazione della nuova immagine a se stessa e alla comunità.

FASE 1Pre-trasformazione

FASE 2 Trasformazione

FASE 3Post -trasformazione

SEQUENZA 1

Svelamento/Presentazione del caso

SEQUENZA 2

Analisi/Accusa

SEQUENZA 3

Intervento/Consiglio/Indottrinamento/Riprogrammazione

SEQUENZA 4

Shopping/Valutazione

SEQUENZA 5

Rivelazione

Uno dei principi fondamentali delle forme narrative contemporanee, dal film d’azione alla soap opera, fino al talk show o al game televisivo, è pro-prio la struttura in tre atti. Ogni storia è suddivisibile in tre fasi: un inizio che introduce una complicazione nella vita del personaggio; una sezione intermedia che dispiega un conflitto e presenta un’azione in svolgimento, con delle rivelazioni che fanno sviluppare la storia; una parte finale che ri-

5 Nota metodologica: sono state prese in esame 10 puntate del programma, appartenenti a diverse stagioni. Il campione è stato interamente trascritto, suddiviso in sequenze e scene e poi analizzato per evidenziare i contenuti che emergono nel parlato tra conduttori/esperti e protagoniste e la corrispondenza tra questi contenuti e la struttura del format.

262 Errore

solve il conflitto attraverso un ribaltamento delle condizioni di fortuna del personaggio principale. Tutti i manuali di sceneggiatura riportano questi ri-ferimenti parlando di struttura in tre atti, di arco di trasformazione del per-sonaggio, di viaggio dell’eroe distinto in fasi (Vogler 1992).

Come tutti i factual makeover, anche MCTV racconta una trasformazio-ne ed è costruito sul contrasto prima/dopo. Questi due momenti, immorta-lati a fine puntata l’uno accanto all’altro nello split screen, sono solo gli estremi di un processo che si racconta in ogni dettaglio attraverso due pun-ti di vista da interpolare, ugualmente interessanti per il pubblico: quello delle persone che si sottopongono al cambiamento e quello degli agenti della trasformazione. In MCTV il “prima” ruota attorno a una generica sciatteria, bollata come indegna e penalizzante dal punto di vista sociale dagli esperti e anche dai mandanti dell’imboscata. Il “dopo” è un’adesione a regole di stile il cui codice è posseduto dai due esperti e snocciolato pun-tata dopo puntata in una serie di consigli a uso e consumo di un pubblico di massa.

L’errore in un meccanismo narrativo come questo è disseminato ovun-que, ma spetta ai conduttori il compito di esaltarne la potenza. È nella pri-ma fase, in cui i due consulenti spiano la futura protagonista, commentan-done con sarcasmo gusti e scelte di abbigliamento. La spettacolarizzazione del difetto fisico – “ginocchione”, “fianchi abbondanti”, “postura da oran-gutan” o “da scaricatore” – e l’accumulazione dei commenti rispetto a scel-te sbagliate – “scarpe inguardabili!”, “è indifendibile!”, “ci vorrebbe un miracolo!” – sono centrali in questa sequenza iniziale. L’inquisizione pro-segue nel momento in cui la protagonista è obbligata a mostrare il contenu-to del proprio armadio e a scegliere un look per tre diverse occasioni d’uso (lavoro, tempo libero, sera): come rilevato da Martina (2013: 66) da un lato la protagonista persevera – resistenza – nella sua convinzione di avere uno stile personale, collezionando errori su errori; dall’altro i consulenti svalu-tano il guardaroba – l’archivio – della protagonista, ridicolizzando la sua inadeguatezza con atteggiamenti maligni e all’occorrenza offensivi, in un rituale di umiliazione vagamente perverso che «posiziona anche gli spetta-tori nel ruolo di giudici inclementi».

La trasformazione sembra iniziare nella fase in cui i consulenti propon-gono un look e delle regole per riprogrammare la protagonista: in questa fase i suoi errori sono mostrati al pubblico e alla stessa concorrente, men-tre i consulenti riguardano con lei il footage rubato nella fase iniziale di os-servazione, stimolando l’auto-analisi e il riconoscimento di ciò che non va: come sostiene Martina (ivi: 67), «qui il corpo viene smontato e si mette all’opera quello che Sherman definisce “panopticon retroattivo”: mettere

263M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

la concorrente nella condizione di guardarsi dal di fuori e vedersi ripresa nelle vesti annose», in un potente esercizio dello sguardo che scinde la pro-tagonista in soggetto e oggetto e le fa alternare la prospettiva dell’osserva-tore a quella dell’oggetto osservato (cfr. Sherman 2008). Torniamo ad Ari-stotele, perché questo sembra il punto di svolta, il momento in cui l’eroe si rende conto della propria amartia e cerca la redenzione dall’errore.

Eppure, il vero e proprio makeover non avviene neanche durante lo shopping, dove la concorrente prova a mettere in pratica i consigli appresi, ma viene bloccata perché ancora una volta sta sbagliando acquisti. Non c’è speranza che la protagonista abbia incamerato il codice che le è stato pre-sentato dai coach. È il loro intervento durante lo shopping a costruire il nuovo guardaroba e a elaborare la nuova identità che la protagonista indos-serà a fine puntata. Identità che non potrà che essere effimera e basata su presupposti labili, destinata alla reversibilità – poco credibile per il tele-spettatore alle prese con le narrative di trasformazione.

Rispetto al quiz, in un factual makeover cambia la natura del premio. MCTV mette in palio una possibile nuova identità, una promessa di cam-biamento nel look, che la protagonista si aggiudicherà nonostante la pro-pria incapacità di aderire al codice, ma che probabilmente svanirà nel giro di qualche giorno. L’errore, dunque, assume un ruolo diverso rispetto a quello che accade nel quiz, l’errore non determina la perdita del premio. Eppure, non si perde il valore dell’errore come espediente narrativo per creare l’ironia tragica.

Se l’ironia tragica deriva dal vedere il nostro eroe commettere un errore “fatale” di giudizio mentre si affida alle proprie competenze per agire, in MCTV ancor più che in un quiz, l’ironia tragica nasce perché gli errori oc-corrono in soggetti animati dal desiderio di fare bene senza averne di fatto le competenze. Sebbene non si possa raccontare per immagini l’estensione di un sapere, come diceva Feyles (2003: 160) «si può mostrare il livello in cui un sapere entra in crisi». È così che si crea l’empatia col pubblico, una risposta emozionale che è un misto di pietà per una sofferenza immeritata e paura di essere sottoposti allo stesso trattamento. Ma quello che nella tra-gedia aristotelica è il punto di svolta6, in MCTV passa attraverso l’interven-to salvifico dei deus ex machina, che blocca l’acquisizione del sapere da parte dell’eroe e gli assegna arbitrariamente una nuova identità.

6 Ovvero la presa di coscienza della propria amartia da parte dell’eroe, già anticipata nella fase di pre-trasformazione, a cui segue un percorso di purificazione/redenzione.

264 Errore

Del resto, la moda è una lingua arbitraria, elaborata da griffes, riviste, in-dustrie tessili; soprattutto essa non evolve bensì cambia, come fosse di vol-ta in volta ricreata da capo. Il segno di moda è esplicitazione di un atto ti-rannico, come sostiene Barthes (1967: 218) nel suo discorso sul sistema della moda e sui processi di significazione che lo determinano: «l’istituzio-ne del segno linguistico è un atto contrattuale (a livello della comunità in-tera e della storia), mentre l’istituzione del segno di moda è un atto tiranni-co: vi sono errori di lingua e colpe di Moda. Infatti la Moda sviluppa tutta una retorica della Legge e del Fatto». Oltretutto, nel caso di MCTV la natu-ra del sapere ha poco o nulla a che vedere con la moda; eppure ugualmen-te in esso si rende esecutiva la retorica della legge. Il programma sovrappo-ne «l’idea di stile con l’idea di regola e di codice (che causa la reversibilità della trasformazione). Si trasmette l’idea di abbigliamento e decoro, non di moda e di sistema complesso di riferimenti» (Martina 2013: 67), rimandan-do a icone di un passato già ampiamente mediatizzato, ipersemplificato ma senz’altro consolatorio.

4. Tutto sbagliato

I programmi di lifestyle e makeover sono dunque un luogo in cui l’erro-re è un perno narrativo e tematico molto forte. Spettacolarizzando gli erro-ri (e i difetti) dei protagonisti, e individuandoli a volte come fonte della scontentezza degli stessi, questi show propongono soluzioni individuali a problemi che sono spesso di natura sociale, alimentando una cultura ambi-valente, a volte contraddittoria,

che da un lato incoraggia processi di autoconsapevolezza e di acquisizione di autonomia, ma dall’altro appare indissolubilmente legata ad un atteggiamen-to mentale di ossessivo auto-ascolto e di percezione del sé come luogo di pe-renne conflitto, fonte di insoddisfazione e oggetto di ansia. (Giomi 2013: 164)

I governamentality studies di matrice foucaultiana considerano questi show, e la loro insistenza sulla connessione tra dimensione estetica e psico-logica, i luoghi in cui si costruisce la soggettività delle società contempora-nee: in essi «la governance opera a distanza, tramite il trasferimento di una disciplina istituzionale, di “tecniche del sé” utilizzate dagli individui per au-to-monitorarsi, controllare e indirizzare la propria condotta» (ibidem).

Effettivamente, MCTV come altri programmi indirizza l’individuo verso un self-improvement di stampo neoliberista che non ha nulla a che vedere

265M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

con la realizzazione del sé, piuttosto prefigura la sottomissione a una presun-ta autorità in campo estetico e ai suoi consigli per gli acquisti. Per uscire dal problema, che in alcuni casi non è neanche percepito – si pensi alla resisten-za che fanno le vittime di MCTV a gettare gli abiti a cui sono affezionate e a cambiare look – «il protagonista dovrà apprendere nuovi valori, saperi, pra-tiche e regole. Una nuova etica, insomma, ma anche – e soprattutto – una nuova disciplina. È abbastanza evidente, dunque, come i makeover shows si-ano caratterizzati da una dimensione fortemente normativa» (ivi: 164). So-prattutto, attraverso l’equazione implicita cambiamento materiale=evoluzione personale, l’intervento degli stylist diventa automaticamente un fare terapeu-tico, vissuto come salvifico e in realtà portatore di ulteriori ossessioni e umi-liazioni, vista l’impossibilità di un cambiamento strutturale.

C’è poi chi analizza questi show seguendo la teoria della modernizza-zione riflessiva di Beck, Giddens e Lasch (1994), e che considera questi show al pari dei manuali di auto-aiuto, dei percorsi di coaching e di consu-lenza personale, strumenti per far fronte al crescente processo di individua-lizzazione istituzionale che crea condizioni sociali in cui è possibile auto-gestirsi facendo affidamento sulle proprie risorse: in questa luce i makeover «divengono strumenti cui i membri del pubblico possono ricorrere per es-sere “imprenditori di se stessi”, capaci di costruire consapevolmente – ri-flessivamente, appunto – il proprio progetto di vita, fuori dalla mediazione istituzionale e oltre i limiti delle appartenenze tradizionali di censo, razza, genere» (Giomi 2013: 165). Non un condizionamento, dunque, ma una possibilità.

Un nuovo inizio per l’eroe. Mentre nel quiz, chi sbaglia la paga cara e non ha possibilità di rientrare in gioco e dimostrare che non sbaglierà più, nel makeover non esiste una punizione simile, piuttosto si mette in scena la possibilità di una rinascita. E sebbene, come abbiamo mostrato, in MCTV si tratti di una mimesi della stessa – in fondo la protagonista subisce la tra-sformazione che non sarà in grado di mantenere – la nuova identità della concorrente viene approvata e salutata come un nuovo inizio, una riabilita-zione presso coloro che l’avevano segnalata al programma e per i quali essa era sbagliata, colpevole.

Riflettendo sulla differenza tra tragedia antica e moderna e sull’evolu-zione del concetto di amartia, Kierkegaard rilegge Aristotele e mette in luce la natura paradossale della colpa tragica nella tragedia antica. Come sottolinea Rocca commentando gli scritti del filosofo danese,

l’amartia, l’errore, è insieme responsabilità e assenza di responsabilità, col-pa e innocenza. Essa è quel frammezzo tra “colpa soggettiva” e “colpa eredita-

266 Errore

ria”. La stessa “colpa ereditaria contiene in sé quest’autocontraddizione, d’es-sere colpa e tuttavia di non essere colpa”. Nel momento in cui nell’epoca moderna impera la riflessione e l’individuo diventa responsabile delle proprie azioni il conflitto tragico viene a cadere. Si perde l’aspetto ereditario della col-pa, ognuno risponde delle proprie azioni, quindi l’errore diventa un affare dell’etica, non più dell’estetica. L’errore dell’individuo moderno non è tragico, è male, è peccato. L’individuo moderno vuole essere creatore di se stesso, per questo non è tragico, è disperato (2001: 76).

Come interpretare allora gli errori7 dei protagonisti della makeover tele-vision? C’è un ripristino di umanità nelle vicende che vengono narrate? Una dimostrazione di valore che annulli una possibile interpretazione dell’errore tragico in senso moderno? La sofferenza dell’eroe genera un com-patire del pubblico? Sostiene ancora Rocca:

nella modernità cambia la costellazione. Con la riflessione sulla pena si pas-sa al dolore trasparente. Dalla pena derivata dalla colpa, si passa al dolore per il peccato. Questo dolore è il pentimento. E il pentimento è quanto mai perso-nale e soggettivo, non ha nulla a che fare con lo spettatore. […] Il tragico, con la sua ambiguità e il suo conflitto, non esiste più. Allo stesso modo lo spettato-re perde la sua funzione. L’interesse per quel dolore può essere psicologico, non estetico (ivi: 76).

A parziale conferma di questa rilfessione, Paolo Taggi, studioso e auto-re televisivo, sostiene che con il makeover siamo di fronte a uno sposta-mento di fuoco:

se i personaggi drammatici si rivelano agendo, i protagonisti dei makeover subiscono l’azione per gran parte del tempo che viene loro assegnato dalla Tv. Non più buoni o cattivi, intraprendenti o timidi, vincitori o perdenti, sono sem-plicemente eroi passivi. Destinati a offrirsi a un cambiamento che altri mettono in atto per loro, su di loro, su invito di mandanti esterni. Anche nei makeover che riguardano le cose, i destinatari sono eroi passivi per la quasi totalità del tempo del format. Esistono solo per esprimere desideri e reagire quando si tro-vano di fronte alla creatività di altri, che non avrebbero neppure saputo imma-ginare […]. Nei makeover chi ha agito, trasformandolo, non è l’eroe secondo le regole della narrazione. Affascina e suscita ammirazione, ma non emozione. La passione dello spettatore nasce dall’effetto che la trasformazione ha sul sogget-

7 Se vogliamo l’errore del protagonista del quiz non è tragico nel senso antico, ma semplicemente disperato, perché ad eccezione dei casi di alea, è lo stesso concorrente ad essere responsabile della propria ignoranza, rispondendone personalmente, in un contesto che non prevede appello.

267M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

to passivo del cambiamento. Gli interventi, anche cruenti, su di lui, sono la nuova forma della ferita drammatica (2013: 233).

Così, di fronte a trasformazioni più spettacolari, come quelle extreme che passano attraverso chirurgia estetica o ingegneria edile, i “travestimen-ti” di MCTV sono rivelazioni in miniatura, incantesimi ordinari che si svol-gono lungo “binari obbligati”, in un meccanismo perfetto di alternanza tra prevedibilità e sorpresa. «L’enigma iniziale (quale sarà il risultato del cam-biamento) produce dopo una lievitazione variabile un risultato visibile, condivisibile, verificabile, nello spazio di una puntata o in un arco di tem-po stabilito, che lo spettatore conosce in partenza» (ibidem). L’unico suo compito, dunque, imitando e amplificando lo stupore dei partecipanti e di chi hanno intorno, resterebbe quello di stupirsi a comando, sperando in questo modo di attenuare l’ansia per i propri fallimenti e di apprendere qualcosa dagli errori degli altri. Una nuova forma di catarsi?

Bibliografia

ARISTOTELE334-330 a.C. La Poetica, trad. di G. Paduano, Roma-Bari 1998.

BARTHES R.1967, Sistema della Moda, trad. di L. Lonzi, Torino 1970.

BECK U. - GIDDENS A. - LASCH S.1994 Modernizzazione riflessiva, trad. di L. Pelaschiar - J. Golunovic - L.

Papo, Trieste 1999. FEYLES G.2003 La televisione secondo Aristotele, Roma.

GIOMI E.2013 Pedagogia o spettacolo dell’oppresso. Uno sguardo sociologico

sull’azione normativa della makeover television attraverso l’analisi di cinque programmi, in Factual, Reality, Makeover. Lo spettacolo della trasformazione nella televisione contemporanea, V. Innocenti - M. Perrotta (a c. di), pp. 163-182, Roma.

268 Errore

INNOCENTI V. - PERROTTA M. (a c. di)2013 Factual, Reality, Makeover. Lo spettacolo della trasformazione nella

televisione contemporanea, Roma.

HILL A.2007 Restyling factual Tv. Audiences and news, documentary and reality

genres, London.

MARTINA M.2013 Il difficile concetto del vestirsi bene. Reversibilità e standardizzazio-

ne nei fashion makeover, in Factual, Reality, Makeover. Lo spettacolo della trasformazione nella televisione contemporanea, V. Innocenti - M. Perrotta (a c. di), pp. 63-73, Roma.

MENDUNI E.2001 I linguaggi della radio e della Tv, Roma-Bari, 20145.

ROCCA E.2001 L’Antigone di Kierkegaard o della morte del tragico, in Antigone e la

filosofia. Hegel, Holderlin, Kierkegaard, Heidegger, Bultmann, Mon-tani P. (a c. di), Roma.

SHERMAN Y.D.2008 Fashion femininity: clothing the body and the self in What Not To

Wear, in Exposing lifestyle television: the big reveal, G. Palmer (a c. di), Aldershot.

SILVERSTONE R.1999 Perché studiare i media, trad. di A. Manzato, Bologna 2002.

TAGGI P.2013 Gli occhi nuovi con cui guardare, in Factual, Reality, Makeover. Lo

spettacolo della trasformazione nella televisione contemporanea, V. Innocenti - M. Perrotta (a c. di), pp. 229-235, Roma.

VAN BRAAN P.1912 Aristotle’s use of hamartia, «Classical Quarterly», VI, pp. 266-272.

269M. Perrotta - Ma come ti vesti? Errori e trasformazioni

VOGLER C.1992 Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narra-

tiva e cinema, trad. di J. Loreti, Roma 1999.

ZANATTA M.2001 La ragione verisimile: saggio sulla ‘Poetica’ di Aristotele, Cosenza.

271

L’ARATRO E LA STELLA: TUTTO È IEROFANIA, BASTA SAPER GUARDARE.

LA SECOLARIZZAZIONE COME ERRORE

di Massimo Rosati

Vorrei iniziare con due citazioni. La prima è tratta da un volume piutto-sto noto di Peter Berger:

Un bambino si sveglia di notte, forse dopo un brutto sogno, e si trova circon-dato dal buio, solo, assillato da indistinte minacce. In quel momento i contorni della realtà amica sono cancellati o invisibili e nel terrore per il sopravvenire del caos il bambino chiama in aiuto sua madre. Non è affatto esagerato dire che, in quel momento, la madre è invocata come se fosse una grande sacerdotessa dell’ordine protettivo. È lei, infatti (e in molti casi lei soltanto) che sa bandire il caos e far sì che il mondo riacquisti il suo aspetto gradevole. Certo, questo è quanto farà ogni buona madre: prenderà in braccio il suo piccolo, lo cullerà con il gesto eterno della Magna Mater che è poi divenuto tipico della nostra Madon-na. Accenderà una lampada, forse, che avvolgerà la stanza con un caldo baglio-re di luce rianimatrice. Parlerà o canterà al bambino; e quello che vorrà comu-nicargli sarà sempre la stessa cosa: ‘non avere paura, tutto è a posto, tutto va bene’. Se tutto va bene, il bambino si sentirà rassicurato, avrà ripreso fiducia nella realtà e con questa fiducia tornerà a dormire (Berger 1969: 79-80).

La seconda è in realtà un suggestivo proverbio africano, che Mons. Ra-vasi ama richiamare spesso nei suoi scritti, secondo cui bisogna “aggancia-re l’aratro alla stella” perché la realtà abbia un senso più alto (cfr. Ravasi 1995: 196). Si tratta di due citazioni che dicono la stessa cosa – una cosa decisamente fuori moda nel nostro immaginario secolarizzato –, ossia riba-discono quella simmetria e relazione tra macro- e micro-cosmo che non c’è religione, almeno storica, che non sottolinei.

Peter Berger è stato protagonista di molte fasi del dibattito sulla secola-rizzazione, ora in veste di suo campione, ora di suo aspro critico. La cita-zione appena riportata sembra voler attribuire alla religione, anche in un orizzonte moderno, una funzione di orientamento nel mondo, di argine al caos cognitivo e morale. La sostenibilità di questa tesi, per Berger come per la sociologia delle religioni in generale, è un fatto empirico, la cui vali-

272 Errore

dità dipende da strumenti di misurazione degli atteggiamenti religiosi degli individui. Su questa base, ad oggi la posizione di Berger è che la secolariz-zazione, dopo fasi alterne, si dimostra essere un errore empirico; tuttavia, si può essere critici della secolarizzazione e delle teorie connesse anche da un altro punto di vista, considerandola cioè come un errore di altro genere, che definirei categoriale. Per questo secondo tipo di errore richiamerò, spe-ro non a torto, le posizioni di Émile Durkheim e Mircea Eliade. Spero, na-turalmente, di chiarire la differenza nel corso della mia presentazione, an-che se dovrò procedere in maniera necessariamente estremamente sintetica.

1. Dalla religione come errore alla secolarizzazione come errore (empi-rico)

La storia delle teorie della secolarizzazione è una storia quanto mai tra-vagliata. Nate sul suolo europeo, esse hanno (pesantemente) riflettuto l’e-sperienza in primo luogo europea, erroneamente generalizzando linee di tendenza proprie al più della sola Europa. Per quanto la storia sia natural-mente più lunga, possiamo forse farla cominciare in periodo post-illumini-sta, allorché è alle credenze religiose che viene assegnato, in diverse forme, lo statuto di un errore che spetta alla ragione dissolvere. Errore effetto di una proiezione, come in Feuerbach e nella teoria animista di E. B. Taylor, o errore causato dalla povertà di un’analisi non ancora materialistica delle cause della sofferenza umana, come in Marx e poi in Freud (cfr. Filoramo 1985, Filoramo - Prandi 1991, Kippenberg 2002, Stroumsa 2010), giusto per fare qualche esempio. Quel che caratterizza questa fase è, notoriamen-te, la fiducia pressoché totale, soprattutto in un contesto positivista, che i lumi della ragione e delle scienze positive faranno chiarezza una volta per tutte negli errori del passato, e che in buona sostanza le religioni siano de-stinate a sparire dall’orizzonte della modernità (occidentale – ancora per molto le due cose coincideranno). Non che manchino, già in questa fase, contro-interpretazioni, in area romantica e fenomenologica, ma la cifra del tempo è rappresentata dalle visioni illuministiche e positivistiche, rispetto alle quali le altre si pongono come contro-culture, ‘piccole tradizioni’ (nel vocabolario di Shils e Eisenstadt) al cospetto di quella ‘grande tradizione’ che marca il centro del sistema valoriale della modernità occidentale. Sull’onda lunga di queste prospettive, si accomoderanno nel tempo le ana-lisi di carattere più sociologico, che mostreranno come la fine delle religio-ni sia determinata da un più articolato complesso di processi storico-socia-li, empirici, in cui la modernizzazione è scomponile: urbanizzazione,

273M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

scolarizzazione, individualismo, pluralismo di interessi e valori, aumento del tenore e qualità della vita, tutto concorre a una accelerazione dei pro-cessi di modernizzazione direttamente proporzionale all’assottigliarsi del-lo spazio residuo per le religioni nella vita individuale e collettiva. A que-ste analisi sociologiche, si uniscono da ultimo le teologie della morte di Dio, le teorie sulla città secolare (Cox 1965), fino a quelle – più recenti – del cristianesimo come religione della fuoriuscita dalla religione (Gauchet 1985). Il de profundis per le religioni è un coro polifonico.

Da questo coro, iniziano a prendere le distanze, negli anni Sessanta del secolo scorso, quegli autori che preferiscono descriverci un processo più che di scomparsa delle religioni, di trasformazione di queste ultime e di diaspora e trasformazione del sacro, non necessariamente legato al religio-so in senso tradizionale. Iniziano così a fiorire una quantità di studi che mo-strano come le analisi e previsioni illuministiche e positivistiche fossero semplicistiche e viziate da bias ideologici anti-religiosi, e che prendono a coniare curiose ed efficaci formule tese a descrivere le linee di trasforma-zione del religioso nella modernità matura. La cifra di tutte queste interpre-tazioni, di cui le più famose sono probabilmente quelle di Berger e Luckmann, è data dall’enfasi sull’individualizzazione della scelta religio-sa, sulla religiosità individuale e privata contrapposta alla religione nei suoi aspetti collettivi, istituzionali, pubblici, che trova celebri precursori in autori come Simmel e William James. Entrano così nel vocabolario socio-logico espressioni come religione invisibile (Luckmann 1969), sheilaismo (Bellah 1985), fino alle più recenti believing without belonging, o espres-sioni come patchwork religioso, supermarket religioso, che stanno a indi-care come le credenze religiose nella modernità siano il risultato di libere scelte individuali di soggetti che, all’interno di un’offerta plurale, assem-blano e inventano tradizioni in modo da cucire abiti tagliati su misura, in modo da ritagliare complessi di credenze e pratiche, non sempre coerenti al loro interno, che rispondano all’imperativo dell’autenticità. Tutte queste prospettive, al tempo ritenute perfettamente compatibili con una generale tesi della secolarizzazione (cfr. Davie 2005), con il senno di poi possono sembraci in modo egualmente plausibile l’inizio di un ribaltamento di pro-spettiva che oggi vede nella secolarizzazione, almeno in una certa accezio-ne, un errore. Infatti, dopo un paio di decenni circa avremmo iniziato a sen-tir parlare di de-secolarizzazione (la spettacolare curva a U di Peter Berger, protagonista di ogni stagione, quella delle teorie della secolarizzazione come quella del suo opposto, cfr. Berger 1999), di de-privatizzazione delle religioni, nuovamente protagoniste all’interno della sfera pubblica e politi-ca (Casanova 2000), e di religioni collettivistiche (Jakelevtić 2010), ossia

274 Errore

di quelle religioni in cui l’elemento della scelta è pressoché nullo, e che pure hanno svolto un ruolo non da poco ad esempio nello scacchiere balca-nico. Va da sé che questo nuovo clima intellettuale risente dei cataclismi di fine XX secolo (le guerre balcaniche appunto) e di inizio XXI (il post 11 settembre, la politicizzazione dell’Islam, lo scontro vero o presunto di ci-viltà), come anche, dal punto di vista intellettuale, della presa di coscienza del carattere eccezionale e non esemplare dell’Europa, rispetto ad altre par-ti del mondo occidentale come gli USA (cfr. Berger - Davie - Focas 2008), del carattere ‘uneven’ della secolarizzazione nella stessa Europa, e – last but not least – dei limiti delle teorie della convergenza e della modernizza-zione (Eisenstadt 1997), oggi criticamente riviste alla luce del paradigma delle modernità multiple (2006). Insomma, ci siamo dovuti accorgere non solo che le religioni esistono ancora, non solo che sono rilevanti in forme de-tradizionalizzate per gli individui in foro interno, ma anche che conti-nuano a esistere nello spazio pubblico come forze collettive, che struttura-no identità individuali anche al di là della scelta soggettiva.

Da questi smottamenti teorici, la teoria della secolarizzazione esce mal-concia ma, per alcuni, non del tutto ‘superata’. La proposta di José Casano-va, ormai risalente a venti anni fa, è stata quella di distinguere tre aspetti del-la teoria della secolarizzazione: la differenziazione funzionale delle sfere secolari (stato, economia e scienza in primis) dalla sfera religiosa; la tesi del declino della religione, secondo cui la conseguenza della differenziazione sa-rebbe stata in the long run la completa sparizione delle religione; la tesi del-la privatizzazione delle religioni. Di questi tre aspetti, sostiene Casanova, il secondo e il terzo si sono rivelati empiricamente falsi, mentre la tesi della dif-ferenziazione funzionale rimarrebbe in piedi, compatibile con quella della de-privatizzazione e con quella della funzione a volte critica delle religioni nei confronti del carattere autopoietico delle sfere differenziatesi. L’errore è empirico nel senso che si sarebbe trattato di errori di misurazione relativi alle dimensioni in cui si può distinguere la religione; tipicamente, in sociologia delle religioni (per quanto soggetta a critiche e affinamenti) vale ancora la di-stinzione suggerita da Glock tra la dimensione della credenza, quella della pratica, quella della conoscenza, quella dell’esperienza, quella dell’apparte-nenza (Glock - Stark 1965). Ora una ora l’altra di queste cinque dimensioni, in relazione ora ad uno ora ad un altro contesto, sarebbe stata sovra- o sotto-stimata, o esse sarebbero state poste in correlazioni sbagliate tra di loro. In re-lazione alla religiosità, in sostanza, si possono commettere errori di misura-zione, come quelli che si danno quando l’effettivo conteggio che un gruppo di osservatori compie delle volte in cui le persone si recano a pregare in un tempio non corrisponde alla rappresentazione che le persone stesse danno

275M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

della loro religiosità (solitamente sovra-rappresentata rispetto alla dimensio-ne della pratica), o come quando le dimensioni dell’appartenenza o dell’e-sperienza vengono sotto-rappresentano rispetto a quella della credenza (come nel caso delle religioni collettivistiche).

2. La secolarizzazione come errore categoriale

Émile Durkheim: esperienza religiosa, sacro e homo religiousus.

L’idea di poter misurare la religiosità, le sue dimensioni, come anche il suo venire meno, trasformarsi o ripresentarsi, si attaglia perfettamente alla sobrietà di una prospettiva che si vuole scientifica. Eppure, c’è un senso di pienezza dello sguardo sulla religione che non è soddisfatto da questa so-brietà. C’è una dimensione di radicalismo che non è colta da essa, e che in-vece – con altri costi naturalmente – coglie di gran lunga meglio quel tipo di sguardo che arriva a pensare la secolarizzazione come un errore non em-pirico, bensì categoriale, a partire naturalmente da una diversa concezione della religione, non più pensata come atteggiamento individuale ma come condizione strutturale della coscienza umana. Per errore categoriale inten-do, nel senso di Gilbert Ryle, l’incapacità di usare un concetto e di porlo nella categoria cui appartiene. Così intesa, la secolarizzazione appare un errore di portata diversa e forse maggiore di quanto sia se pensata come er-rore empirico. L’errore, in questo caso, origina non da un difetto di misura-zione di una delle dimensioni della religione, ma da una erronea definizio-ne del concetto stesso di religione. Nel XX secolo, credo che una delle espressioni di questa seconda prospettiva più nitide, radicali, al limite del provocante il buon senso, è quella proposta dallo storico delle religioni ru-meno Mircea Eliade. Credo altresì che le origini della posizione di Eliade siano nel più sobrio classico della tradizione sociologica Émile Durkheim, da cui vorrei partire per questo tratto di ragionamento.

Nell’opera del 1912 Le forme elementari della vita religiosa, l’“errore” si affaccia frequentemente. La prima volta, con riferimento alla tesi avan-zata dalla teorie animiste sull’origine della religione. In base alla prospetti-va di Taylor e Spencer, negli spiriti e negli dèi si vedono solo anime subli-mate; essendo, tuttavia, l’anima null’altro che il duplicato dell’uomo quale appare a se stesso durante l’esperienza del sogno, è evidente che dietro la nozione di spiriti e dèi, per l’animismo, non vi sarebbero che rappresenta-zioni allucinatorie, senza alcun fondamento oggettivo (Durkheim 2005: 120). La religione non sarebbe altro che un “sogno sistematizzato e vissu-

276 Errore

to, ma senza alcun fondamento nel reale” (ibidem). Un errore, appunto, che la nascente scienza delle religioni avrebbe come conseguenza quello di dis-solvere. Strana scienza, sostiene Durkheim, quella che dissolve il proprio oggetto di indagine (ivi: 121). In realtà, l’errore qui è compiuto, secondo Durkheim, dall’animismo: «è inammissibile, infatti, che sistemi di idee come le religioni, che hanno occupato nella storia un posto tanto rilevante, e a cui i popoli hanno in ogni tempo attinto l’energia che era loro necessa-ria per vivere, siano tessuti soltanto di illusioni» (ibidem). Deve necessaria-mente esserci una qualche realtà dietro le religioni, che ne spieghi la persi-stenza.

Apparentemente, questa realtà soggiacente alle religioni viene loro rico-nosciuta da un’altra prospettiva teorica che al tempo cercava di rendere conto dell’origine delle religioni, ossia il naturismo di Max Müller. Per quest’ultimo, la religione origina dall’esperienza di forze naturali che han-no tutto per risvegliare l’idea religiosa. Tuttavia, l’uomo ha avuto la neces-sità di pensare quelle forze naturali attraverso l’unico strumento possibile, ossia il linguaggio, che ordinando, classificando, conferisce individualità a nozioni astratte e impersonali. Così, sostiene Müller, il fulmine diventa qualcosa che accende il fuoco, il vento qualcosa che soffia, il fiume qual-cosa che scorre ecc. Assimilando le cose ad azioni umane, i fenomeni na-turali finirono per essere pensati sotto forma di agenti umani, e le metafore finirono per essere prese alla lettera; è così, secondo Müller, che si sarebbe formata la nozione di dèi: un errore, ancora una volta, che solo la scienza può dissipare. La mitologia, la parte principale delle religioni studiata da Müller, è insomma una sorta di delirio verbale. Così, però, siamo da capo: se all’inizio il naturismo sembrava assegnare alle religioni una base reale, come nel caso dell’animismo, esso finisce per pensarle come un’illusione, un errore indotto questa volta dal linguaggio, che si riflette in forma iper-trofica nella mitologia. Se così fosse, sostiene però Durkheim, Müller non potrebbe spiegare la persistenza nel tempo del culto.

Il culto, infatti, pensato da Müller come ‘mito messo in azione’, non può che rivelarsi come un insieme di azioni empiricamente inefficaci, incapaci di produrre adattamento alle cose del mondo. Perché, a fronte dei tanti erro-ri di riti che non producono gli effetti attesi, l’uomo avrebbe continuato a ri-petere gesti senza senso? L’errore, in realtà, sarebbe ancora una volta per Durkheim nella prospettiva teorica, del naturismo come dell’animismo, che nella religione non sanno vedere altro che una interpretazione delirante, prodotta ora dal sogno, ora dalle immagini evocate dalla parola (ivi: 139).

Al contrario di quanto sostenuto da entrambe queste prospettive, per Durkheim la religione non rappresenta un errore. In questo sta la grande

277M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

differenza rispetto alle teorie al tempo correnti di matrice illuminista e po-sitivista. Il fedele, per Durkheim, non si inganna «quando crede all’esisten-za di una potenza morale da cui dipende e da cui riceve il meglio di se stes-so» (ivi: 283). Egli non è la vittima di un’illusione; gli uomini non si ingannano quando sentono, fuori di loro, qualcosa che rigenera la loro vita e le loro forze (ivi: 410); «le impressioni che i fedeli provano non sono im-maginarie», e tuttavia non costituiscono «intuizioni privilegiate» (ivi: 482), di cui cioè essi soli possano scoprire le cause sottostanti. È solo a questo punto, quando si tratta di disvelare la realtà e verità di ogni religione, che la gnosi durkheimiana entra in scena. La forza religiosa che il fedele prova, e che corrisponde a una realtà empirica, è la forza collettiva e anonima del gruppo riunito, della società. L’esaltazione e l’intensità della vita che gli uomini provano in determinati momenti – quelli che Durkheim indica con l’espressione celebre di effervescenza collettiva – è reale e realmente il prodotto di qualcosa che trascende l’individuo disperso, solo, atomizzato, ossia la società riunita (ivi: 283). Se, in sostanza, «si può dire che la religio-ne non sia priva di un certo delirio, bisogna aggiungere che questo delirio (…) è ben fondato. Le immagini di cui è costituito non sono delle semplici illusioni come quelle che gli animisti e i naturisti pongono alla base della religione; esse corrispondono a qualcosa che è nel reale» (ivi: 285). L’erro-re compiuto da animisti e naturisti, a partire dalla prospettiva di Durkheim è un errore categoriale, perché essi sono incapaci di porre le esperienze re-ligiose dei fedeli nella categoria sotto la quale vanno sussunte, che è quel-la del sacro, dietro la quale lungi dall’esservi una mera illusione riposa una realtà empirica capace di trascendere l’individuo, ossia il gruppo riunito impegnato in pratiche comuni dotate di specifiche proprietà (il rito). Il sa-cro, che per Durkheim è l’espressione ipostatizzata e simbolicamente me-diata della forza del gruppo riunito, è quella dimensione che trascende la realtà profana di una vita quotidiana languente, grigia e monotona, e pro-ietta in un tempo e in uno spazio separati e interdetti.

L’esperienza religiosa, dunque, va analizzata a partire dalla chiave inter-pretativa del sacro, una realtà, una forza trascendente l’individuo che si sprigiona ogni qual volta ci sia un gruppo riunito entro certe precise condi-zioni, quelle che definiscono l’azione rituale.

Se così stanno le cose, ne consegue, per Durkheim, che la secolarizza-zione non può che essere un errore. Infatti, non può esistere società senza sacro, senza una qualche forma di sacro, semplicemente perché quest’ulti-mo altro non è che l’espressione ipostatizzata e simbolicamente mediata della società. Insomma, se c’è società c’è sacro, e se non c’è sacro è perché non c’è società, ma individui dispersi e atomizzati. L’errore non è empiri-

278 Errore

co: non si tratta di non saper misurare adeguatamente l’esperienza religio-sa, sovra- o sotto-dimensionandola, ma di non porre alcune esperienze e i concetti che le organizzano nella giusta categoria. Le esperienze di auto-trascendimento dell’individuo, che possono darsi mediante azioni rituali di diverso genere purché con specifiche caratteristiche comuni, svelano la loro natura religiosa solo a patto di essere collocate nella categoria del sa-cro. Per fare alcuni esempi, strettamente durkheimiani: quando degli ebrei si riuniscono per celebrare le tappe dell’esodo o il dono della Torah, essi fanno esperienza di un tempo sacro; quando dei cristiani si riuniscono per celebrare la passione di Cristo, essi fanno esperienza di un tempo sacro; quando i cittadini di una repubblica si riuniscono per commemorare la fon-dazione della Repubblica, essi fanno esperienza di un tempo sacro; quando dei soldati si riuniscono per tributare onore alla loro bandiera, essi fanno esperienza di un tempo sacro; gli esempi possono facilmente moltiplicarsi, purché si parta dalla categoria del sacro per comprendere il religioso. Se pensiamo le società moderne come secolarizzate, è perché non riconoscia-mo più il sacro nei suoi molti travestimenti, non sappiamo più guardare dentro noi stessi e scorgere l’homo religiousus nelle forme che, nell’imma-ginario sociale moderno, assume l’auto-trascendimento individuale.

2.2. Mircea Eliade: i camuffamenti del sacro e le ierofanie nascoste

In un paper discusso in un seminario tenuto per il Dottorato in Storia e Scienze Filosofico Sociali (Tor Vergata), mi sono soffermato su alcuni ele-menti teorici che distinguono il pensiero di Durkheim da quello della con-troversa figura di Mircea Eliade. La fenomenologia delle religioni di Elia-de deve non poco al pensiero di Durkheim per quanto si tratti di un debito mai riconosciuto. In termini molto generali, si può dire che Eliade guardi alle religioni come a dei sistemi di ierofanie, manifestazioni fenomenolo-gicamente ordinabili, del sacro. Più specificamente, Eliade fu interessato a ordinare la serie impressionante di ierofanie che le diverse tradizioni reli-giose presentano, in modo tale da ricavarne una antropologia filosofica dell’homo religiousus, di cui l’uomo arcaico rappresenta la forma pura. Tuttavia, l’interesse di Eliade per l’uomo arcaico non è fine a se stesso, né semplicisticamente nostalgico. Il progetto di Eliade fu quello di indagare l’«universo mentale arcaico», rilevabile attraverso la descrizione fenome-nologica (Culianu 2008: 62), con lo sguardo rivolto in realtà all’uomo mo-derno. Esattamente come per Durkheim, ne Le forme elementari della vita religiosa, la «religione arcaica» non è indagata «per il solo piacere di rac-contarne le bizzarrie e le singolarità» ma perché è considerata come «la più

279M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

adatta a far comprendere la natura religiosa dell’uomo, cioè a rivelarci un aspetto essenziale e permanente dell’umanità», sicché al fondo oggetto d’analisi – attraverso la religione arcaica – è «l’uomo, e in particolare l’uo-mo di oggi, perché non c’è altro uomo che siamo più interessati a conosce-re a fondo» (Durkheim 2005: 51), così in Eliade «il punto di partenza e il punto di arrivo sono identici: si tratta dell’“uomo moderno” e della sua po-sizione davanti alla natura e alla storia. Tuttavia, fra punto di partenza e punto di arrivo si frappone l’“orizzonte arcaico”, nel quale Eliade trova gli elementi per abbozzare la comparazione» (Culianu 2008: 106). La ricerca di Eliade sulle religioni arcaiche, così come quella sulle tecniche di salvez-za (yoga, sciamanesimo, alchimia, varie tecniche soteriologiche, la cui analisi lo portò vicino a quelle dell’occulto proprie del “Pensiero Tradizio-nale” di Guénon e Evola, cfr. Marcello De Martino 2008), trova la sua ori-gine nel problema della libertà. Libertà pensata come libertà dalla storia, anziché nella storia, da una condizione di alienazione derivante dall’esse-re l’uomo moderno immerso nella contingenza, bisognoso di un riscatto, di una morte e risurrezione che liberi dalla gettatezza nella storia (Culianu sottolinea a più riprese le assonanze con il tema heideggeriano dell’inau-tenticità della temporalità). L’uomo di Eliade, come soprattutto la narrativa eliadiana rende manifesto (cfr. Culianu 2008: 98; Filoramo 1986; Negoiţescu 1986), vive nella nostalgia di un tempo senza tempo da cui è esiliato (sul tema dell’esilio in Eliade, cfr. Ellwood 1999: 98-104), nella nostalgia di un orizzonte in cui la sofferenza storica poteva essere giustifi-cata avvalendosi di categorie mitiche, sofferenza e precarietà a cui l’uomo moderno non ha invece nulla (Culianu suggerisce: come per Camus) da op-porre, se non (come vedremo) forme camuffate e degradate di miti. L’uo-mo arcaico poteva relegare la storia – con relativa sofferenza e precarietà – nella sfera del profano, e dunque della non-esistenza, laddove il mito rappresentava il paradigma a cui ogni coscienza si riferiva per attribuire senso al tempo e allo spazio, mentre l’uomo moderno relega il mito a una equivoca esistenza nel profondo dell’inconscio. La morfologia del sacro e la storia religiosa servono dunque a Eliade per ricostruire l’antropologia fi-losofica di un uomo, quello arcaico, che possedeva una chiave per trascen-dere l’illibertà dell’uomo moderno.

Posta così, tuttavia, la questione appare in termini di soluzione profetica della crisi dell’uomo moderno mediante un ritorno (chimerico) ad archeti-pici modelli mitici. In realtà, in Eliade le cose erano ben più complesse, come proprio la sua concezione della secolarizzazione credo metta in luce. Nonostante alcune ambiguità, infatti, la posizione di Eliade è interessante esattamente in virtù di un radicalismo che tende rifiutare la tesi della seco-

280 Errore

larizzazione, accorciando le distanze tra l’uomo moderno e quello arcaico, e riportando il primo alla stessa antropologia filosofica del secondo, ossia quella dell’homo religiousus. Il sacro, per Eliade, non è assente dall’oriz-zonte della modernità, semplicemente si presenta in forme camuffate, con-traffatte, nascoste, degradate. Camuffamento e degradazione sono, direi, processi diversi, che presuppongono diverse diagnosi e giudizi di valore da parte di Eliade. In ogni caso, quel che l’autore sembra intendere è che la tesi della secolarizzazione dipenda più da una incapacità ottica dell’uomo moderno di vedere e riconoscere il sacro nelle forme in cui si dà oggi, piut-tosto che da una sua assenza. Il compito dello storico delle religioni, dun-que, sembra quello di cercare «una demistificazione alla rovescia», ossia quello di «demistificare i mondi apparentemente profani […] per rilevare i loro elementi sacri, sebbene si tratti, naturalmente, di una sacralità ‘ignora-ta’, camuffata o degradata» (Eliade 2000: 143). Sebbene si tratti, come ve-dremo, di una affermazione auto-immunizzante, Eliade arriva ad includere la stessa profanazione di elementi religiosi in un processo di trasformazio-ne della religiosità: «la secolarizzazione di un valore religioso, costituisce semplicemente un fenomeno religioso che, in fin dei conti, illustra la legge della trasformazione universale dei valori umani; il carattere “profano” di un precedente comportamento “sacro” non presuppone una soluzione di continuità: il profano non è che una nuova manifestazione della stessa struttura costitutiva dell’uomo che prima si manifestava attraverso espres-sioni “sacre”» (Eliade 1948: 10). Appartenendo alla “struttura della co-scienza umana” – in un senso a cavallo tra l’ontologico e il fenomenologi-co trascendentale che ho cercato di discutere nel seminario precedentemente citato – la dialettica sacro-profano può, nel corso della storia, solo rivestirsi di nuovi simboli, senza che le innovazioni storiche possano mai avere la meglio una volta per tutte sulle strutture simboliche primordiali (2009: 88-89) – quelle simbologie uraniche, acquatiche, tellu-riche, agrarie, temporali ecc., che sono al centro di tante pagine eliadiane. Eliade non cancella le differenze, né nega che l’uomo moderno sia il risul-tato di un processo di desacralizzazione (ivi: 129) dell’esistenza umana, ma rammenta che «quest’uomo areligioso discende dall’homo religiousus e, lo voglia o no, è anch’egli opera sua, ha preso forma partendo dalle situazio-ni assunte dai suoi antenati» (ibidem).

Desidero indugiare su questo punto, ancora prima di entrare nella feno-menologia dell’immaginario religioso dell’uomo moderno descritta da Eliade. Il punto è che, per quest’ultimo, l’uomo moderno «ha ancora a sua disposizione tutta una mitologia camuffata e parecchi ritualismi degradati» (ibidem):

281M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

la maggioranza dei “senza-religione” non sono veramente liberi da compor-tamenti religiosi, da teologie e mitologie. Talvolta si trascinano tutto un ingom-brante bagaglio magico-religioso, deformato fin quasi alla caricatura, quindi difficilmente riconoscibile. Il processo di desacralizzazione dell’esistenza umana è giunto a volte a forme ibride di magia minore e religiosità scimmiesca […] comportamenti religiosi camuffati o degenerati non si ritrovano soltanto nelle “piccole religioni” [chiese minori, sette, scuole di occultismo, MR] o nel-le mistiche politiche [da ultimo il comunismo, MR]: li troviamo anche in quei movimenti che si dicono francamente laici, ossia antireligiosi (ivi: 130)

come per esempio il nudismo e i movimenti per la libertà sessuale assolu-ta, re-inclusi, con la tipica mossa di cannibalismo religioso di Eliade, nei miti della nostalgia delle origini. Semplicemente, per così dire, la tesi è che siccome un essere umano puramente razionale non può esistere, e il sacro è espressione di un surplus di senso, l’uomo profano non può annullare la struttura dell’homo religiousus, e «la maggioranza degli uomini “senza-re-ligione”, in definitiva, condividono tuttora delle pseudoreligioni e delle mi-tologie degradate» (ivi: 132). Tra breve, vedremo che è nel mondo dell’im-maginario e dell’inconscio che Eliade suggerisice di andare a scavare per riportare alla luce le tracce di un sacro camuffato e degradato. Con toni ‘de martiniani’, Eliade salda il sacro all’essere tramite il rapporto stringente che esisterebbe tra ‘presenza dell’uomo nel mondo’ e ‘crisi esistenziale’ (da De Martino pensata in termini collettivi oltre che di identità personale):

poiché la religione è la soluzione esemplare di qualsiasi crisi esistenziale, non solo per il fatto che si ripete all’infinito, ma anche per la sua origine tra-scendentale, e conseguentemente valorizzata in quanto rivelazione che viene da un altro mondo, quello transumano. La soluzione religiosa non solo risolve la crisi, ma “apre” contemporaneamente l’esistenza a quei valori che non sono più contingenti né particolari, permettendo all’uomo il superamento di qualsia-si situazione personale e, infine, il raggiungimento del mondo dello spirito (ivi: 133).

Senza dunque «arrivare ad una esperienza religiosa in senso proprio, l’uomo moderno occulta religione e mitologia nell’immaginario e nell’in-conscio. La vita dell’uomo moderno continua a brulicare di miti semidi-menticati, di ierofanie decadute, di simboli abbandonati» (Eliade 1981: 20), cosicché egli «è libero di disprezzare le mitologie, tuttavia ciò non gli impedirà di continuare a nutrirsi di miti decaduti e di immagini degradate» (ivi: 21).

La fenomenologia di queste ierofanie decadute e immagini degradate è piuttosto ampia. L’immaginario americano (e si ricordi che Eliade spende

282 Errore

la seconda parte della sua vita a Chicago) colpisce Eliade per i suoi riman-di al paradiso e all’utopia, per il mito della nuova Gerusalemme, per il cul-to della giovinezza letto come speranza di rinascita a nuova vita, per il de-siderio adamico del primordiale che esalta la sacralità della vita e del corpo, espresso ad esempio da Whitman (Eliade 1968: 113-117), come an-che per la sacralizzazione della natura, il cui fascino, mistero e maestà re-siste ad una completa desacralizzazione (Eliade 1948: 118). I riti di passag-gio, soprattutto legati a morte, nascita e matrimonio, continuano ad alimentare l’immaginario religioso moderno. La psicanalisi, per Eliade, presenta un bagaglio di simboli religiosi enorme: la beatitudine dell’‘origi-ne’ e degli inizi dell’essere umano, l’idea del ritorno all’indietro attraverso il ricordo, tanto simile ai comportamenti arcaici; il regressus ad uterum, che corrisponde al regresso dell’Universo allo stato caotico o embrionale (Eliade 1963: 104-108). La diffusione in occidente di tecniche mistiche indù e buddhiste, vicine a quelle arcaiche e da intendersi come tecniche per «guarire l’uomo dal dolore dell’esistenza nel Tempo» (2007: 113). E poi ancora «le strutture mitiche delle immagini e dei comportamenti imposti alle collettività dalla vita dei mass media» (ivi: 219). I personaggi dei fu-metti, i romanzi polizieschi, intessuti di lotte del bene contro il male, di eroi e demoni; ma soprattutto l’arte e la letteratura, la prima – nei suoi linguag-gi avanguardistici, dal cubismo al dadaismo al surrealismo, la musica con la dodecafonia – con la sua furia distruttrice dei linguaggi consolidati

ci porta a credere che la riduzione degli “Universi artistici” allo stato pri-mordiale di materia prima, è soltanto un momento in un processo più comples-so; come nelle concezioni cicliche delle società arcaiche e tradizionali, il “Caos”, la regressione di tutte le forme nell’indistinto della materia prima, sono seguite da una nuova Creazione, omologabile a una cosmogonia (ivi: 224).

La seconda, la letteratura, è strutturalmente parente prossima del mito, in quanto forma di narrazione di ciò che è significativo nel mondo:

[…] l’interesse per la narrazione fa parte del nostro modo di essere al mon-do. Essa corrisponde al bisogno che abbiamo di comprendere quel che è suc-cesso, quel che hanno fatto gli uomini, ciò che possono fare: i rischi, le avven-ture, le prove di ogni sorta. Non siamo qui come pietre, immobili, oppure come fiori o degli insetti, la cui vita è perfettamente tracciata: siamo esseri di avven-tura. E mai l’uomo farà a meno di ascoltare storie (Eliade 1978: 14).

283M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

Credo che al campionario di epifanie degradate qui sommariamente ri-chiamato, Eliade non avrebbe difficoltà oggi ad aggiungere tanta letteratu-ra e cinema di fantascienza, che esplicitamente si richiama a un immagina-rio religioso (un esempio su tutti, il romanzo Cybergolem di Margie Piercy, cfr. Henry 2013), o il profluvio di simboli sacri che caratterizza il cybersa-cred e le pratiche dei religionauti (cfr. Pace in corso di stampa e Vecoli 2013).

Conclusione.Infalsificabilità del sacro o psicologia sociale del profondo?

La tesi della secolarizzazione come errore empirico ha un limite, dal mio punto di vista, ossia quello di essere poco radicale. Essa rimette la falsifi-cabilità dei livelli di religiosità alla misurazione delle dimensioni della re-ligione, e così facendo non va oltre gli atteggiamenti religiosi soggettivi. È intrinsecamente in un certo senso weberiana. Per un durkheimiano, quale ammetto di essere con tutti i difetti del caso, il punto di vista della prima persona non è mai privilegiato e unico. La posizione di Eliade, che in real-tà qui non ho considerato nella sua completezza e complessità, compensa questa insoddisfazione esattamente perché scava negli immaginari e nell’inconscio (in questa sede non apro il capitolo dei rapporti tra Eliade e Jung), cercando l’homo religiousus là dove una prospettiva già segnata e viziata da lenti moderniste prima maniera non lo cercherebbe più: tra le pa-gine di un romanzo, tra le note di una composizione musicale, tra le pen-nellate di un quadro, nel respiro di un sogno.

D’altro canto, non possiamo nasconderci che una posizione come quel-la di Eliade si immunizza da ogni critica rendendo per definizione impos-sibile ogni falsificazione. Se le ierofanie, camuffate e degenerate, sono po-tenzialmente ovunque, benché visibili al solo occhio addestrato dello smascheratore alla rovescia, è a questa superiore e inverificabile gnosi che la tesi della secolarizzazione deve la sua verità o falsità. Quel che viene meno è la pubblicità del sapere scientifico, e la persistenza o meno del sa-cro diventa materia esoterica.

Io credo che verità o errore della tesi della secolarizzazione andrebbero discussi in base a qualcosa di simile a una razionalità estetica. Una razio-nalità che va al di là del quantificabile, ma che consente la comunicabilità, e non consegna al solipsismo. Personalmente non ho ‘formule’ migliori, per quanto limitata sia, di quella che pensa il sacro come una forma di tra-scendentale sociologico, una condizione di possibilità della società storica-mente ed empiricamente falsificabile. Vale ancora, per me, la vecchia af-

284 Errore

fermazione di Plutarco: «Viaggiando, potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza case, senza ricchezze e senza l’uso della mo-neta, prive di teatri e di ginnasi (palestre). Ma una città senza templi e sen-za dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sa-crifici per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’hai mai veduta, né la vedrà mai». Templi e dèi, giuramenti e preghiere, divinazioni e sacrifici cambiano pelle, e alla sobrietà dell’analisi sociologica rimetto la capacità di scavare negli immaginari e forse anche nell’inconscio collettivo per rin-tracciarne forme camuffate, senza salti nella metastoria (il riferimento, ov-viamente, è alla critica – giusta o meno che fosse – di De Martino a Elia-de). Non si fa, un saggio maestro me lo insegnò anni fa, ma ho cominciato con una citazione e finisco con una citazione: l’obiettivo della sociologia, pensata come una forma di psicoanalisi sociale, è quello di «rendere visibi-le l’inconscio sociale, rivelare agli uomini e alle donne i miti di cui sono plasmati in modo che possano costruire nuovi miti al loro posto» (Alexan-der 2006: 21).

Bibliografia

ALEXANDER J.2006 La costruzione del male, Bologna.

BELLAH R. et alii1985 Habits of the Hearth, California University.

BERGER P.1969 Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Bologna

1995.

1999 (a c. di), The desecularization of the world, Wm. B. Eerdmans Pub-lishing.

BERGER P. - DAVIE G. - FOKAS E.2008 Religious America, Secular Europe?, Farnham.

CASANOVA J.2000 Oltre la secolarizzazione, Bologna.

285M. Rosati - L’aratro e la stella: tutto è ierofania, basta saper guardare.

COX H. G.1965 The Secular City: Secularization and Urbanization in Theological

Perspective, Princeton.

CULIANU I.2008 Mircea Eliade, Roma.

DAVIE G.2005 The Sociology of Religion, London.

DE MARTINO M.2008, Mircea Eliade esoterico, Roma.

DURKHEIM É.1912 Le forme elementari della vita religiosa, Roma 2005.

EISENSTADT S.N.1997 Modernità, modernizzazione e oltre, Roma.

1997 Sulla modernità, Soveria Mannelli.

ELIADE M.1948 Trattato di storia delle religioni, Torino 2009.

1952 Immagini e simboli, Milano 1980.

1963 Mito e realtà, Roma 2007.

1969 La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Brescia 2000.

1978 Il vecchio e il funzionario, Milano.

ELLWOOD R.1998 The Politics of Myth. A Study of C. G. Jung, M. Eliade, J. Campbell,

New-York, Albany.

FILORAMO G.1985 Religione e ragione tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari.

1986 Il fascino della notte, in Mircea Eliade e L’Italia, M. Mincu, R. Sca-gno (a c. di), Milano, pp. 75-79.

286 Errore

FILORAMO G. - PRANDI C.1991 Le scienze delle religioni, Brescia.

GAUCHET M.1985 Il disincantamento del mondo, Torino.

GLOCK C. Y. - STARK R.1965 Religion and Society in Tnesion, Chicago

HENRY B.2013 Dal Golem ai Cyborgs, Livorno.

JAKELEVITĆ S.2010 Collectivistic Religions, Farhnam.

KIPPENBERG H. G.2002 La scoperta della storia delle religioni, Brescia.

LUCKMANN T.1963 La religione invisibile, Bologna 1969.

MASSENZIO M.1997 La ripetizione della ripetizione, in Ernesto De Martino e la cultura

europea, C. Gallini, M. Marcello (a c. di), Napoli, pp. 238-246.

PACE E.Le religioni e internet, in c.d.s.

RAVASI G.1995 Il racconto del cielo. La storia, le idee, i personaggi dell’Antico Te-

stamento, Milano.

STROUMSA G.2010 A New Science, Princeton.

VECOLI F.2013 La religione ai tempi del web, Roma-Bari.

287

IL FILM COME IMMAGINAZIONE1

di Martin Seel

1. A Bakersfield

A metà di Intrigo internazionale (North by Northwest) di Hitchcock, Roger Thornhill (Cary Grant) e Eve Kendall (Eva Marie Saint) arrivano, dopo il loro rendez-vous, alla stazione centrale di Chicago in un treno not-turno proveniente da New York. Con l’aiuto di Kendal, Thornhill riesce a non farsi notare dalla polizia, che ha emesso un mandato di cattura contro di lui in quanto presunto assassino. Thornhill vorrebbe finalmente incon-trarsi con George Kaplan, con il quale lo identificano i suoi inseguitori. Eve Kendall, la bella doppiogiochista che sa che quest’uomo non esiste af-fatto, si fa promotrice dell’organizzazione di un incontro con l’invisibile terzo. D’accordo col proprio complice, dice a Thornhill di prendere il Greyhound Bus per Indianapolis e scendere dopo un’ora e mezza a una cer-ta fermata; lì avrebbe incontrato George Kaplan. Dopo il loro passionale incontro – gettando nello sconcerto Thornhill – i due si congedano fredda-mente. Cosciente di averlo messo in trappola, Kendall segue Thornhill con occhi pieni di paura mentre lui si allontana.

Comincia quindi la scena del campo di mais, girata a Bakersfield in Ca-lifornia. Per giungere con un autobus nel luogo in cui sono effettivamente avvenute le riprese, Thornhill avrebbe dovuto essere in viaggio da giorni. In un film tuttavia ciò non ha importanza. La sua finzione non è legata al nesso reale di spazio e tempo. Un film può comporre il paesaggio del suo mondo incrociando scenari a piacere. Ora, dunque, Thornhill si trova nel mezzo di uno spazio aperto e in cui, in un primo momento, non succede nulla. Aspetta, si guarda intorno, inghiotte la polvere sollevata dalle vettu-re che passano, scambia un contadino di poche parole, che intende sempli-

1 Il presente saggio costituisce la traduzione del settimo capitolo di Seel 2013: 169-197.

288 Errore

cemente prendere il prossimo autobus, per il maledetto George Kaplan e non sa ancora della minaccia incombente dell’aeroplano, che già di lonta-no si ode. Solo lentamente, quasi al rallentatore, prende velocità la dram-matica azione prevista non dal personaggio ma dallo spettatore, fino a che Thornhill non riesce una volta di più a scamparla. Anche in questa scena si sviluppa il gioco piuttosto folle dei topoi del thriller che, per l’intera esten-sione del film, è legato all’esibizione di altre ossessioni del regista e a nu-merosi artifici cinematografici.

2. Un’interpretazione illusionistica

Nelle molte interpretazioni che sono state date di questo film l’autorefe-renzialità della sua messa in scena è stata più volte osservata (Wartemberg 2007: 141-155). Anche George Wilson ha fornito un’interpretazione simi-le: «North by Northwest presents us with a kind of wry apologia for the sort of illusionistic art – more specifically, for the sort of illusionistic cinema – that Hitchcock, paradigmatically, has always practiced» (Wilson 1986: 64)2. Questa interpretazione però è contraddittoria. Una strana apologia dell’illusionismo cinematografico non può essere compatibile con l’illu-sionismo che, si presume, un film come Intrigo internazionale mette in mo-stra. Perché un’esibizione delle proprie tecniche filmiche minerebbe gli ef-fetti illusionistici che, secondo l’interpretazione di Wilson, tali tecniche producono. Se poi si assumesse che gli spettatori normali si lasciano anda-re all’illusione estetica, mentre soltanto l’interprete professionista ricono-sce il calcolo artistico che le sta alla base, ne seguirebbe che il film avreb-be mancato del tutto l’obiettivo attribuitogli da Wilson. Hitchcock avrebbe fallito nel «presentare» al pubblico i propri pezzi di bravura – una presen-tazione di cui Wilson dice, del tutto a ragione, che costituisce una buona parte dell’attrattiva di questo film.

La contraddizione nell’interpretazione di Wilson cade se si cancella dal-la frase citata la parola «illusionistico» e nasce perché Wilson è un rappre-sentante di una teoria dell’illusionismo filmico che non coglie le peculiari-tà di questo come di molti altri film. Per Wilson, questa posizione è legata con il pensiero di una «trasparenza» dell’immagine filmica: «the function of transparency is to induce in the spectators the impression of seeing the given fictional world through the screen as directly as they see the actual world through their front windows» (ivi: 78). Questa idea tuttavia rende

2 In inglese nel testo originale (n.d.t.).

289M. Seel - Il fi lm come immaginazione

impossibile dar conto delle finezze audio-visive e, così, allo specifico po-tere d’attrazione del cinema. Non è di maggiore aiuto il fatto che Wilson osservi, pensando a Hitchcock, che «it is a fundamental aspect of classical narration that seeks, in effect, to collapse the distinction between percep-tion of the world and perception of the film in its own fashion» (ibidem). Come sarebbe possibile questo collasso della differenza tra l’accadere fil-mico e quello extra-filmico? Come sarebbe possibile prendere sul serio un film, nella sua propria forma, se per percepirlo fosse necessaria la creden-za che la sua coreografia sia legata direttamente allo scorrere del mondo?

Diversamene da quanto ha preceduto, il presente capitolo ha un obietti-vo prevalentemente critico: la teoria dell’illusionismo filmico. Abbozzerò un’interpretazione alternativa sorretta dalla fenomenologia della manife-stazione dei film al cinema, fin qui sostenuta. Questo confronto sarà dedi-cato esclusivamente ai lungometraggi narrativi. Come motto per l’indagi-ne ci sia concesso di adottare una versione leggermente modificata della frase precedentemente citata da George Wilson: Intrigo internazionale ci mette di fronte a una strana apologia di una forma di arte immaginativa, più precisamente, di quella forma di cinema immaginativo che Hitchcock ha sempre praticato in maniera esemplare.

3. La figura dell’illusionista

Senza dubbio, l’esigenza dei teorici dell’illusionismo filmico è anche quella di rendere giustizia alla specifica forza attrattiva dell’immagine fil-mica. Vorrebbero spiegare il potere immersivo del cinema. Vorrebbero ren-dere comprensibile perché, come spettatori di film, possono essere varia-mente assorbiti da quanto accade sullo schermo cinematografico. Le loro teorie sono legate a questo forte motivo. La loro tesi fondamentale suona così: l’illusione spiega l’immersione. Contro di essa vorrei mostrare che una spiegazione della fascinazione del film cinematografico può fare a meno delle stravaganze illusionistiche. «Immersione senza illusione» op-pure, positivamente, «immaginazione invece di illusione» – questi slogan ci indicano la direzione da seguire.

Per i fini di questa critica introdurrò artificiosamente la figura dell’illu-sionista, in quanto la mia argomentazione prende di mira meno le singole rappresentanti e i singoli rappresentanti di una teoria dell’illusionismo fil-mico e più le assunzioni fondamentali che in differenti combinazioni rap-presentano. L’«illusionista» assume altresì il ruolo di uno sfidante in modo simile alla figura dello «scettico» in teoria della conoscenza, il quale – per

290 Errore

quanto possibile – in quel contesto deve essere messo a tacere. In queste controversie, naturalmente, a essere contestata è spesso persino l’attribuzio-ne di una posizione teoretica allo schieramento scettico piuttosto che a quel-lo antiscettico. Le cose non stanno diversamente nella discussione sul sen-so o sul non senso di una teoria illusionistica dell’arte in generale e, nello specifico, di una tale teoria filmica. Dalla prospettiva di radicale anti-illu-sionismo a cui mirano le nostre indagini, le tracce dell’illusionismo in filo-sofia dell’arte e, in particolare, nella teoria del film sono talvolta presenti in modo virulento proprio laddove una teoria crede di potergli resistere3.

Questo anti-illusionismo è comparativamente radicale per una semplice ragione: combatte l’idea che l’illusione estetica sia un elemento necessario e, in questo senso, costitutivo dell’esperienza intensiva di un film quale che sia il modo della sua produzione. La mia tesi non asserisce tuttavia che un’esperienza illusionistica dei film sia impossibile, non combatte il fatto che una tale esperienza si dia al cinema, né contiene assunzioni su quanto sia diffusa. Credo tuttavia che il potenziale estetico del film giunga a pieno sviluppo solo al di qua della costruzione dell’illusione. La mia tesi si diri-ge dunque anche contro gli illusionisti moderati, i quali vorrebbero accor-dare all’illusione estetica solamente un ruolo secondario, quand’anche per lo più inevitabile, nell’esperienza del cinema. Anche per costoro, però, la possibilità dell’illusione appartiene al fondamentale potenziale artistico del film. Per gli illusionisti moderati l’illusione si presenta sempre nel cinema, anche se può continuamente sottrarsi, talvolta può venir interrotta e, da cer-te forme di film, essere neutralizzata (p.e. Hediger 2006: 205-230).

4. Illusione e immersione.

La figura concettuale centrale dell’illusionista si trova nell’interpreta-zione che i film in grado di avvincere il loro pubblico fanno credere alme-no parzialmente che quanto avviene sul proiettore, nel momento in cui av-viene, accada veramente. Lo spettatore percepisce la rappresentazione come se fosse reale. Nel modo di questo «come se» gli si fa incontro una

3 Argomentano in un senso in parte stretto, in parte largo o, meglio, contengono piccole tracce di illusionismo, p.e., Michotte van denBerck (1948: 110-125), Metz (1972: 20-35), Walton (1990), Allen (1995), McGinn (2005), Wilson (2011), Voss (2013). Danto (1981) formula una critica generale della teoria illusionista dell’arte; per la critica alla variante filmica di siffatta teoria, cfr. Carrol (1995: 68-85) e Seel (2007: 152-155).

291M. Seel - Il fi lm come immaginazione

realtà a cui hanno accesso solamente nel vedere, nell’ascoltare e nel senti-re proprio-corporeo, non però nell’effettivo agire. Per gli illusionisti in ciò si mostra la «trasparenza» dell’immagine filmica. Immagine che consente una prossimità e una partecipazione a un evento presentato, nel qui e ora dello svolgimento del film, ricche di segni di autenticità. Pertanto, afferma l’illusionista, l’immagine-mossa formidabilmente ci conquista. È l’illusio-ne estetica che consente un’immersione più intensa rispetto alle altre arti.

Questa apparenza estetica è, nell’idea degli illusionisti, tutt’altro che un inganno. L’apparire audiovisivo di un film non porta in nessun modo il pubblico – anche stando alla comprensione che esso ne ha – a un errore. Senz’altro sa di seguire «soltanto un film»; ma lo segue in modo tale da ri-manere in un certo qual modo invischiato nello spettacolo. Inoltre ottiene molte vere convinzioni sulla costituzione dei rispettivi mondi finzionali, anche se, per ragioni drammaturgiche, occasionalmente viene preso per il naso. Rispetto alla scena del campo di mais, in Intrigo internazionale, lo spettatore assume a ragione che Roger Thornhill vuole incontrarsi con Ge-orge Kaplan. Questa convinzione è vera, sebbene, come risulterà in segui-to, non è vero che, nel mondo di questo film, ci sia effettivamente una per-sona dal nome George Kaplan. L’impressione di realtà al cinema si costruisce su un gioco corrispondente alle convinzioni degli spettatori, e se ne nutre. Per l’intera durata del film devono esser pronti a credere alla re-altà di ciò che, inscenandolo in un certo modo, il film fa credere loro.

In autori come Kendall Walton e George Wilson questa comprensione del film si lega con il pensiero di un «vedere che immagina». Come spetta-tori ci immaginiamo pertanto che il personaggio incarnato da Cary Grant sia il Roger Thornhill pubblicitario, due volte divorziato e prigioniero di un insolito legame con la madre, inseguito da diverse forze come spia e assas-sino e comunque, alla fine, salvo nelle braccia della terza Mrs. Thornhill. Nella scena del campo di mais ci immaginiamo come Thornhill sia confu-so, inghiottisca polvere, venga attaccato da un aeroplano e, infine, trovi ri-paro sotto un’autocisterna. Ce lo immaginiamo come una persona reale. Così funziona la finzione, dice l’illusionista, di questo come di ogni altro film (o, in ogni caso, di ogni altro «classico»): nell’osservarlo, le sue figu-re ottengono la vita di persone, le cui azioni e avventure ci incontrano così e iniziano così qualcosa come se fossero del nostro mondo4.

4 «In viewing a photograph of a class reunion […] one actually sees the members of the class, albeit indirectly via the photograph, but at the same time imagines seeing them directly without photographic assistance. In the case of non-documentary films, what we actually see (the actors and the movie set) may be

292 Errore

Una tale teoria del vedere come rappresentazione di immagini è però gravata da una notevole ipoteca. Opera con un concetto ingenuo di vedere, il quale non rende giustizia all’ontologia dell’opera d’arte. Nel cinema, come nel teatro, non è che vediamo delle persone sullo schermo o sul pal-coscenico che dovremmo in qualche maniera immaginarci in aggiunta in-carnare certi personaggi. Piuttosto il nostro vedere, al cinema come a tea-tro, contiene fin dall’inizio il sapere sulla natura della rappresentazione di ciò che avviene sullo schermo o sul palcoscenico. I nostri vedere e ascolta-re hanno già sempre il carattere di un percepire che comprende. Poiché al cinema siamo sospesi a seguire uno spettacolo artistico, vediamo Roger Thornhill stare nella polvere del Midwest, in cui il suo interprete, durante le riprese, non si è mai trovato. Che i personaggi degli interpreti prendano corpo e, così, siano visibili anche nella loro rappresentazione appartiene semplicemente alle regole del gioco artistico, a cui sottostanno allo stesso modo spettacolo, attori e pubblico. La familiarità con le regole fondamen-tali di questo gioco tinge poi anche il nostro vedere e ascoltare, quando questa o quella sua regola viene disattesa. Chi ha compreso le regole e le infrazioni delle regole di questo gioco percepisce cosa accade nei suoi mondi finzionali poiché in essi giunge a manifestazione.

Al contrario, l’illusionista impegna gli spettatori del cinema (e i destina-tari di molte altre arti) a un pesante oblio della rappresentazione. Questo er-rore è responsabile del dilemma di Wilson. Una partecipazione immersiva all’accadere filmico deve potersi attendere solamente se la sua organizza-zione formale viene dominata ampiamente. Perché l’illusione – compresa, certo, cognitivamente, ma esteticamente autorizzata – può aver luogo sola-mente se gli spettatori mentre guardano l’immagine filmica, diciamo, guar-dano per essa al di là di essa. Con l’illusionismo, il coinvolgimento percet-tivo di un film non può permettersi alcuna – o solo una minima – attenzione per le sue tecniche. Il seguire attentamente un film viene privato del segui-re attentamente il film.

5. Immaginazione invece di illusione

Questi paradossi di teoria dell’arte sono fatali sebbene, fortunatamente, non siano necessari. Si sciolgono non appena la costituzione immaginativa del film stesso viene conosciuta e riconosciuta. Questa immaginazione non

different from what we imagine seeing (the characters, a murder, a chariot race)» Walton 2008: 127.

293M. Seel - Il fi lm come immaginazione

ha la sua origine in una parvenza estetica, bensì in una manifestazione este-tica. È data con le proprietà formali elementari di un film. Gli spettatori se-guono la sua presentazione immaginativa quando seguono un film. Ne sono incantati, se sono incantati da un film. L’oblio della rappresentazione tipico dell’illusionismo può e deve essere superato. Non l’illusione, l’im-maginazione spiega l’immersione.

Questa tesi ricapitola solo le ricerche fin qui svolte. I primi due capitoli hanno presentato il procedimento base del film come apertura di uno «spa-zio immaginativo» e di un «tempo immaginativo»; il terzo ha descritto l’immaginazione artistica come una forma di «immaginazione articolata» che nello spazio audiovisivo del cinema viene portata in una «zona dell’im-maginazione» intensificata; sulla base di queste idee, il quarto capitolo ha messo in evidenza la specifica virtualità del movimento audiovisivo di un film; il quinto ha paragonato la prestazione immaginativa del film con quella della letteratura; il sesto ha accentuato la specifica disposizione im-maginativa dei film di finzione in rapporto all’esplorazione documentaria del mondo nel cinema. Il concetto di immaginazione filmica sviluppato in queste tappe è un concetto formale. In questo senso, procedono immagina-tivamente non solo film a sfondo fantastico – come Céline et Julie vont en bateau (Jacques Rivette, F 1974), o Blade Runner (Ridley Scott, USA 1982) –, ma anche film genericamente narrativi per quanto possano allon-tanarsi – in misura maggiore o minore – con la loro finzione dalle possibi-lità del mondo storico.

L’«immaginazione» di un film così compresa non indica soltanto l’im-maginato eventualmente presente in esso. Il concetto sta piuttosto per la re-lazione tra rappresentazione e rappresentato. Indica il nesso, decisivo per la dinamica di un film, tra il porre-in-immagine e il posto-in-immagine (assie-me alla sua dimensione uditiva). Grazie alla loro immaginazione i film di-schiudono uno spazio di gioco anche per l’immaginazione dello spettatore. Questa però resta dipendente da quella: resta dipendente da come ci vengo-no rappresentate situazioni e figure nel movimento del film, cioè da come lì vengono esibite. Guardando Intrigo internazionale, non siamo noi a imma-ginarci Roger Thornhill come un uomo che deve superare ogni sorta di av-venture; il film ci rappresenta questo nella coreografia della sua messa in scena. Non è come se Thornhill stesse aspettando in un paesaggio agrario completamente vuoto; il film ce lo mostra in questa situazione. Non imma-giniamo di vedere un personaggio che esiste sullo schermo, lo vediamo agi-re all’interno del racconto filmico. Ci possiamo risparmiare il raddoppia-mento teoretico di un «vedere che immagina», perché il film lo risparmia ai suoi spettatori. Una tale possibilità non può nemmeno essere considerata

294 Errore

perché, grazie alla sua immaginazione, il film esibisce ed espone ciò che sempre troviamo rappresentato nel suo processo.

Non diversamente stanno le cose con le rappresentazioni in generale. Le immagini non ci danno l’illusione di una presenza reale delle relazioni da esse presentate, ci danno visioni reali, che non stanno per qualcos’altro, ma sono ciò che sempre mostrano; e proprio così allargano lo spettro della per-cezione umana. L’immagine-mossa dei film partecipa a suo modo a queste relazioni. In rapporto all’intreccio della dimensione uditiva con quella vi-suale del film, già nei primi tre capitoli è diventato chiaro quanto la virtua-lità dello spazio e del tempo filmici sia qualcosa di assolutamente reale. In-fatti, al cinema, non è come se gli spettatori fossero al centro dell’accadere audio-visivo del film. Loro – mentre seguono un film vedendo, ascoltando e sentendo – lo sono. Con i sensi massimamente attenti gli spettatori parte-cipano al modo in si svolge il film. Nessuna illusone li distoglie dalla per-cezione delle finezze presenti nella messa in scena filmica.

6. Ancora su fotografia e film

Per chiarire l’importanza del mio argomento contro al teoria illusionisti-ca del film, val la pena tornare ancora una volta sulla relazione tra fotogra-fia e film. Perché è in rapporto a questa relazione che si decide la fecondi-tà di una prospettiva teoretica sulle arti del cinema. Qui, bisogna respingere tutta una serie di errori che ne hanno uno in comune: il frainten-dimento dell’incontestabile parentela dei due media. Trovano qui la sua ra-dice non solo le varianti di un realismo eccessivo, ma anche le tentazioni dell’illusionismo. Sono cinque i paralogismi che, in quest’ottica, tracciano una falsa pista.

Il primo paralogismo è genealogico. In un certo senso è dovuto a un’in-genuità: poiché il film è proceduto dalla tecnica fotografica, entrambi i me-dia sono parenti nel senso più stretto anche da un punto di vista estetico. Tra i teorici classici del film, Siegfried Kracauer (1960) ha rappresentato questa interpretazione forse nel modo più deciso; in una forma più debole si trova in André Bazin (1975: 21-27). Come ha reso chiaro il capitolo pre-cedente, l’affaire con il «reale», che anche il film intrattiene, non deve tut-tavia essere compreso nel senso di un realismo normativo. Per quanto di comune fotografia e film abbiano, dal punto di vista estetico non sono pa-renti «nel senso più stretto».

Questo diviene chiaro con il secondo paralogismo, quello tecnicistico, il quale può essere confuso con il primo: poiché l’immagine filmica, osserva-

295M. Seel - Il fi lm come immaginazione

ta tecnicamente, consiste di una successione di immagini fotografiche, condivide il gesto realistico delle immagini fotografiche. Prescindendo per una volta completamente dal fatto che non ogni film, oggi, consiste di im-magini fotografiche, questa tesi emerge da un passaggio illegittimo dalla tecnica all’estetica dell’immagine filmica, perché anche il film convenzio-nale – il cui mondo-immagine viene prodotto da «fotografia più movimen-to» e, perciò, osservato tecnicamente, consiste di una sequenza di immagi-ni fotografiche – non è per questo ancora obbligato al gestus dell’immagine fotografica. Pertanto non è in alcun modo possibile applicare incondiziona-tamente siffatta teoria della fotografia al film. Persino se la tesi di una «tra-sparenza» dell’immagine fotografica risultasse vera, ancora non risultereb-be vera quanto allo status dell’immagine filmica, giacché mediante il movimento figurale (e sonoro) dell’immagine si produce una differenza di principio: il mondo di un film non è uguale al mondo della fotografia.

Ciò vale, poi, proprio quando un film utilizza in modo offensivo il poten-ziale fotografico del suo medium. Questo accade nella scena – descritta all’inizio del terzo capitolo – di Perpetuum Mobile. Il film di Nicolás Pere-da – così l’ho descritto – si avvicina per quasi due minuti allo stile di un di-pinto fotorealistico. Questi dipinti non sono una semplice riproduzione del-lo sguardo fotografico, ma esplorano, trasformano e tematizzano questo sguardo: si vede la stessa cosa come se stesse su una fotografia corrispon-dente e, tuttavia, non è la stessa cosa. In Perpetuum mobile avviene qualco-sa del genere: si deve comparare un’immagine di scena tolta da questo pun-to con la sequenza filmica in questione. Lo stile è quello di un’immagine fotografica. Che cosa mostra? Un uomo giovane e una donna più grande che siedono inerti su un divano. Dove guardano le persone nella foto? Guardano nella macchina che, di fronte a loro, ha ripreso la scena. Che cosa vediamo però noi alla posizione corrispondente della sequenza filmica? Ve-diamo Teresa e Gabino, in attesa, sedere su un divano. Conosciamo due fi-gure, sulla cui situazione di vita sappiamo già tutto grazie al racconto pre-cedente. Dove guardano i due all’interno della sequenza filmica? Non guardano nella macchina di fronte, perché questa non esiste affatto nella finzione del film (e nella maggior parte degli altri film). Che guardino «nel-la camera che passa di fronte a loro», ciò che l’attore naturalmente fa, è una proposizione analitica sul film. Proposizioni di questo genere – nel modo che ho impiegato continuamente nelle mie descrizioni di film – mettono in rilievo il tipo di messa in scena volta per volta in esame. I personaggi sulla scena del film però non guardano al set cinematografico dove è prodotto, con la macchina, il regista, i tecnici, ecc. Guardano nello spazio della loro abitazione, in cui attendono il figlio e il fratello assenti. Ciò che è esterno

296 Errore

allo spazio filmico visibile è inoltre del tutto diverso da quello di ogni sin-gola inquadratura fotografica isolabile nella sequenza in questione. Esso si trova nell’orizzonte invisibile del mondo di questo film delineato mediante la sua intera coreografia. Ciò deriva qui da un movimento figurale (e sono-ro) prodotto mediante la proiezione di immagini fotografiche, movimento che non è tuttavia affatto legato, in quanto tale, al gesto realistico dell’im-magine fotografica, perché l’immaginazione di un film può allontanarsi quanto vuole dalla pretesa e dalla promessa di un’immagine fotografica.

Un realismo esagerato in teoria dei film può senz’altro tentare di salvar-si, rinviando alla natura fotografica almeno dei film tradizionali, con un ul-teriore tesi. Giungiamo così al terzo paralogismo, che questa volta è tempo-rale: in quanto immagine essenzialmente fotografica, il film condivide con essa il carattere di essere presentificazione di un accadimento passato. Que-sta idea però misconosce la differenza categoriale, mostrata nel terzo e nel quinto capitolo, tra la forma temporale dell’immagine fotografica, da un lato, e quella dell’immagine filmica, dall’altro. Diversamente dalla fotogra-fia, che presenta un presente passato, il film stesso, se riguarda qualcosa di passato, ha luogo in presenza della sua rappresentazione audiovisiva.

Dalla scoperta degli errori di una teoria filmica realista troppo orientata alla fotografia si può cogliere l’occasione per trarre una prima conseguen-za illusionistica, ancora comparativamente ingenua. Si giunge così al para-logismo di un illusionismo percettivo: poiché il movimento dell’immagine filmica contraddice la successione di immagini immobili, il film è un me-dium illusionistico. Qui si assume che alla base delle nostre percezioni dei film si trovi un inganno ottico di fondo. Nel caso degli inganni ottici si ma-nifesta ai nostri sensi qualcosa come qualcosa, che agli oggetti corrispon-denti della nostra percezione non spetta veramente. La loro apparenza di-verge dalla loro natura. Nei casi più ostinati, come nell’illusione Müller-Lyer, l’impressione visiva di due linee di diversa lunghezza resta anche quando sappiamo che le due linee hanno la stessa lunghezza. Stando all’illusionismo percettivo le cose stanno così anche nella percezione di film. Perché, pur sapendolo, non possiamo però vedere che i movimenti sullo schermo vengono suscitati da una successione di immagini immobili e separate l’una dall’altra.

Questo fatto è senz’altro vero ma non ha nulla a che vedere con un’illu-sione, perché nella percezione dell’immagine-mossa vediamo un movi-mento di linee, superfici o colori che si realizzano effettivamente sullo schermo. Descrizioni di ciò che accade sullo schermo sono senz’altro ca-paci di verità: restituiscono in modo giusto o falso ciò che avviene davanti ai nostri occhi. Il gioco delle manifestazioni visive di un film è reale quan-

297M. Seel - Il fi lm come immaginazione

to qualsiasi cosa. Che la causa tecnica del movimento delle figure non ci sia accessibile percependo non significa che questo movimento sia una par-venza. Che non possiamo vedere qualcosa (le distinte registrazioni fotogra-fiche che causano tecnicamente l’immagine-mossa) non significa che ve-diamo qualcosa d’altro da ciò che fattualmente è. Vediamo solamente un’altra manifestazione figurativa rispetto a ciò che ci sarebbe accessibile al tavolo di montaggio: ciò che non sorprende giacché le opere d’arte sono appunto, per essenza, manifestazioni.

Più serio invece è – quinto – il paralogismo dell’illusionismo estetico. Questo paralogismo conduce direttamente al cuore della discussione sull’arte del cinema. Poiché il cinema – così argomenta l’illusionista este-tico – non presenta, diversamente dalla fotografia, in primo luogo qualco-sa di esistito, bensì anzitutto l’esistenza di ciò che in lui accade, è un me-dium costitutivamente illusionistico. Esperiamo quanto accade sullo schermo – necessariamente – come se fosse vero. Questa tesi rende per lo meno comprensibile l’attrattiva di un’estetica illusionistica del cinema. Fin dal primo passaggio che viene compiuto, infatti, trae una conseguenza as-solutamente preziosa dal rifiuto del paralogismo temporale delle teorie concorrenti. All’interpretazione temporale delle filosofie realistiche del film contrappone una versione temporale dell’illusionismo. Quest’ultima tende appunto all’interpretazione presentistica dello spettacolo cinemato-grafico, la quale altresì si appoggia su caratteri che anche in questo libro svolgono un ruolo portante. Ne dà tuttavia un’interpretazione diversa da quella datane qui. Anzitutto, il cinema narrativo e di finzione – dice l’illu-sionista – è una forma d’arte che accorda ai suoi spettatori una forma im-pareggiabile di coinvolgimento nelle sue storie. Lo spazio virtuale del ci-nema, intrecciato con lo spazio reale del pubblico per mezzo della dimensione sonora, costituisce il come-se fondamentale di questo medium, il quale è presupposto ancora laddove – nei film di Godard e compagni – viene trasgredito. Anche quando la maggior parte degli illusionisti devono concedere che ci sono film non illusionistici, vedono il potenziale fonda-mentale del film nella sua capacità di far credere al pubblico – se non dall’inizio alla fine, quanto meno momentaneamente – di essere in presen-za di un avvenimento reale.

Ora, è fuor di dubbio che gli s pettatori si trovino in presenza di un avve-nimento reale, che per giunta si rapporta esplorativamente ai fatti umani re-ali o irreali; solamente si tratta dell’accadere effettivo del film stesso, acca-dere che conquista gli spettatori con il suo spettacolo. L’illusionista misconosce la natura specifica della presenza cinematografica a cui si ri-chiama con enfasi, perché cede a un dogma che porta confusione anche

298 Errore

nelle teorie delle altre arti performative. Questo dogma dice che ogni for-ma di «medium awareness» influisce come un ostacolo all’intensità dell’e-sperienza estetica. Tuttavia, anche e soprattutto al cinema è vero il contra-rio: un sensorium rispetto al modo della messa in scena di un racconto cinematografico non causa alcuna diminuzione dell’esperienza estetica, bensì la intensifica. L’attrattiva della storia di un film risulta dall’attrattiva del suo racconto e consente pertanto un’attenzione per entrambe le cose: questo è l’aspetto centrale della disposizione immaginativa del cinema che le teorie illusionistiche non colgono.

7. Doppia attenzione

Questa fondamentale proprietà formale del film cinematografico è un leitmotiv delle mie considerazioni fin dall’inizio. Da un lato, il cinema con-divide questa proprietà con molte altre arti, da un altro le conferisce una ve-ste che non si trova in nessuna delle altre arti. In una drammatizzazione della dualità di presentazione e presentato si compiono molti modi della rappresentazione artistica. Nell’attenzione per questa tensione si compie la loro percezione non ridotta. Nel terzo capitolo ho introdotto, dal punto di vista della teoria dell’immagine, il teorema della doppia attenzione con ri-ferimento a Richard Wohlheim, Gottfried Boehm e Max Imdahl. Esso ri-flette la prestazione, prima di tutto dell’immagine artistica, di portare a rap-presentazione nella configurazione del suo apparire un punto di vista su ciò che viene presentato in o da essa. Ciò che conosciamo in quanto offerto in o da un’immagine, deriva dalle relazioni di questa rappresentazione. Rela-zioni di questa specie giocavano già un ruolo centrale nei primi due capito-li. L’«architettura» di un film emerge dalla dinamica di uno spazio, che ac-cade in tutto ciò che in esso accade. La «musica» di un film si compie come movimento insieme nell’immagine e dell’immagine. L’autentico «spetta-colo» di un film – così ho concluso il quarto capitolo – nasce da un’intera-zione tra la dimensione dell’attrazione e quella della narrazione, nella qua-le spesso nessuna domina l’altra. Oltre a ciò, il racconto filmico si sviluppa in una tensione strutturale tra prospettiva narrante e narrata (e spesso in una pluralità di prospettive). In rapporto a tutto ciò alla forma-tempo del cine-ma spetta un ruolo decisivo. Gli spettatori di un film sono resi partecipi in modo formidabile di ciò che di volta in volta è presentato, poiché sono coinvolti formidabilmente nel presente della sua presentazione.

La possibilità di una doppia attenzione nei rispetti richiamati è sempre data al cinema, è contenuta nella costituzione immaginativa del film come

299M. Seel - Il fi lm come immaginazione

differenza del presentato e della presentazione (e delle sfaccettature). Che un’attenzione simultanea per l’accadere del film e per l’accadere nel film sia sempre possibile, non significa tuttavia che sia sempre necessaria per essere conquistati da un film. Questa restrizione non è però tra le carte che l’illusionista può giocare. Essa sottolinea solamente che le possibilità in questione possono realizzarsi in modo diverso e, cioè, sia nell’organizza-zione di un film che nella sua percezione. Alcuni film – come In the Mood for Love – esigono una doppia attenzione per potere essere in generale ap-prezzati; alcuni – come The Searchers, Zabrinskie Point o The Bourne Su-premacy – la raccomandano; tutti però la ammettono. E per questa sempli-ce ragione: che i film sono fatti di quei raddoppiamenti.

Questa modo di produzione inaugura uno spettro di possibilità della per-cezione che può essere messo a frutto in modi diversi e che è indipendente da quanto offra un film all’una o all’altra. Gli spettatori possono simultanea-mente portare l’attenzione sul racconto filmico e sul tipo di drammaturgia audiovisiva cui dà corpo, lasciare oscillare la loro attenzione tra i due poli o, durante la visione, operare uno scambio tra i due. Spesso ci si trattiene di più in un modo dell’attenzione che in un altro. È altresì possibile concentrarsi prioritariamente sulla storia narrata o sul modo in cui è messa in scena. Inve-ce non è possibile, nel seguire un film, non porre affatto attenzione all’una o all’altra delle dimensioni, in quanto, per farlo, si dovrebbero chiudere occhi e orecchie. Anche quegli spettatori che tentassero di concentrarsi interamen-te sul modo di produzione di un film, non potrebbero essere distolti dalla sua storia, perché è proprio questa storia che si sviluppa in questo dato modo di metterla in scena. Anche gli spettatori che si lasciassero ammaliare comple-tamente dalla storia di un film, si lascerebbero sequestrare dalla storia di questo film, dunque dal modo in cui il film è realizzato nel calcolo che gli dà forma. Senza dubbio, un film può essere seguito con un’amplissima gamma di modi e gradi di consapevolezza per le finezze della sua rappresentazione. Queste però sono sempre in gioco, come peraltro viene riconosciuto senza ri-serve dall’illusionista. Tuttavia sono presenti altresì in diversi modi e gradi nel gioco dell’attenzione del pubblico, non appena in generale entra in rela-zione con l’accadere filmico, perché entra in relazione con l’accadere di una rappresentazione, il cui carattere rappresentativo non deve essere necessaria-mente occultato. Piuttosto rende possibile portare a termine, grazie alla sua presenza, il prodigio occasionale della sua presentazione.

Questa «medium awareness», che accompagna continuamente la visio-ne, come tollera sempre il coinvolgimento nell’accadere filmico e, spesso, ne esige in misura sufficiente, non può essere equiparata a una riflessione elaborata sulla tecnica cinematografica, in cui essa è necessaria solo per es-

300 Errore

sere animati da un film. Neppure deve significare l’investimento in un’in-terpretazione esplicita. Per ciò, spesso, al pubblico non resta neanche il tempo. La «medium awareness» può semplicemente consistere nella fasci-nazione dovuta al modo in cui è condotta la regia, nell’ammirazione per la composizione di situazioni e sequenze o anche nella rabbia per l’assenza di ispirazione nella costruzione del film. Immersione e assorbimento nel cine-ma – ecco cosa segue da tutto ciò – non possono essere comprese in manie-ra unidimensionale. L’essere incantati da un film risulta fondamentalmente dal lasciarsi trasportare dalle tensioni del suo svolgimento, da come nasco-no, tra le altre cose, dalla sua relazione con lo spazio e il tempo, dall’inte-razione delle sue prospettive e dall’intreccio di attrazione e narrazione.

8. Illusione come tecnica

Questo apparire pluridimensionale è sempre importante perché un film abbia risonanza nel pubblico. Talvolta però è subdolo: superata la metà de Gli uccelli (USA 1963) l’elegante Melanie Daniels (Tippi Hedren) è in atte-sa su una panca accanto a una scuola elementare da cui viene una ripetitiva canzonetta per bambini. Dietro di lei si vede, inizialmente vuota, una struttu-ra su cui è possibile arrampicarsi e sulla quale si posa una cornacchia. In una ripresa ravvicinata si vede Daniels accendersi una sigaretta. Stacco. Vista sulla struttura, dove adesso posano quattro cornacchie. Stacco. Si vede la donna fumare. Stacco. Un’altra cornacchia atterra sulla struttura. Stacco. Da-niels che fuma. Stacco. Ancora due cornacchie in arrivo. Stacco. Inquadratu-ra più lunga, in primo piano, su Daniels, che si guarda intorno senza notare nulla di ciò che sta accadendo dietro di lei e, infine, guarda verso l’alto. Stac-co. Vista sul cielo azzurro; un carrello segue il volo di una cornacchia. Stac-co. Primissimo piano di Daniels che segue il volo dell’uccello, girandosi len-tamente. Stacco. Un carrello fissa il volo della cornacchia, che atterra sulla struttura nel frattempo riempitasi di suoi simili; sul comignolo di due edifici e su un muro sullo sfondo sono schierate, allo stesso modo, cornacchie. Stac-co. Con lo sguardo impietrito Daniels si alza dal suo posto. Stacco. Camera sulla struttura sovraffollata. Stacco. Daniels trattiene il proprio spavento.

La struttura, su cui poggiano le cornacchie pronte all’aggressione (come il personaggio e gli spettatori presumono e presto sapranno), viene mostra-ta in tutto per cinque secondi. E per una ragione molto semplice: nei brevi istanti in cui sono visibili, tutti gli uccelli radunati sulla struttura sembrano vivi. Si tratta di un’impressione ingannevole. Se si osserva la scena con at-teggiamento analitico, si scopre che solo alcuni animali si muovono; gli al-

301M. Seel - Il fi lm come immaginazione

tri sono pupazzi. Persino guardando il film alla sua velocità reale, lo si può vedere, benché sia appena percepibile a un primo sguardo. (Ciò che invece non può proprio essere visto è che gli uccelli schierati sul tetto sullo sfon-do vengono tenuti al loro posto da un magnete). Come non di rado avviene nei film, qui è in atto un’illusione. Qualcosa appare come qualcosa e sem-bra di conseguenza essere qualcosa che veramente così non è. Questa tec-nica però deve essere compresa nel modo corretto. Non ha infatti nulla a che fare con un carattere costitutivamente illusorio dei film. La parvenza sta anche qui al servizio della sua manifestazione (Seel 2000: 113-118). Il come-se di una tecnica illusionistica occasionale resta, in questo caso, sem-pre dipendente dal così-come dello sviluppo dello spazio filmico e del tem-po filmico. Questi artifici ottengono il loro valore dal contributo che danno all’allestimento di certe sequenze e quindi del film. L’atmosfera che gene-ra può essere prodotta solo all’interno del mondo prestabilito di un film. Questo deve già esistere perché gli occhi o le orecchie degli spettatori si la-scino abbacinare da essa. Tecniche quali quelle che vengono impiegate nel-la scena de Gli uccelli, sostengono la finzione del film (qui, quella di un mondo d’uccelli oltremodo aggressivo). L’utilizzo di questa finzione gra-zie a un’impressione figurale illusoria non conferisce al film stesso un ca-rattere illusorio. Che di fronte a queste tecniche non esista alcuna ragione di concludere dalla finzione all’illusione (ciò che sarebbe solo un nuovo paralogismo), si vede del resto già nel fatto che possiamo diventarne piena-mente coscienti senza che venga in alcun modo ridotto il nostro interesse per la scena in cui è presente. Al contrario, spesso questa coscienza accre-sce l’attrattiva di un film per l’osservatore.

Lo stesso dicasi anche per l’inseguimento altamente artificiale di The Bourne Suupremacy, già descritto nel secondo capitolo. Come molte altre scene d’azione nel cinema non ha mai avuto luogo. Nessuna serie di caram-bole è mai accaduta per le strade di Mosca. Nessun inseguimento, che si sa-rebbe potuto verificare lì, avrebbe mai potuto essere svolto in una tale mu-sicalità visuale e acustica. L’episodio, nel film, è integralmente fatto con un montaggio di immagini e suoni. Solo qui, nella sua immaginazione, ha luo-go. L’episodio non guadagna la sua attrattiva da un’illusione, ma la sua in-tensità dall’attrattiva della sua manifestazione audiovisiva.

9. Caché

Le finezze di un film di grande qualità artigianale come The BourneSu-premacy non devono essere gustate intenzionalmente perché si sia avvinti

302 Errore

da esse. Vi sono però film che non ammettono o non offrono solamente una molteplice attenzione tanto per la tensione tra l’attrazione estetica e la nar-razione finzionale quanto per l’eterogeneità delle loro prospettive, bensì addirittura la estorcono. Nel film di Michael Haneke Caché (F et al. 2005) sono le immagini filmiche a sconvolgere l’ordine di una vita cittadina be-nestante e, insieme, quello della finzione vera e propria. Il film comincia con una lunga ripresa statica da una strada laterale di una casa in un quar-tiere nobile di Parigi. In sovraimpressione appaiono i titoli di testa impie-gando un buon minuto e mezzo e per rimanervi altri 34 secondi privi di commento. Si possono udire i rumori della strada, alcuni passanti attraver-sano l’immagine, tra cui anche una donna, che lascia la casa registrata dal-la cinepresa. Dopo più di due minuti, si può ascoltare il dialogo di un uomo e di una donna che si interrogano su qualcosa, per loro, di enigmatico. Dopo circa tre minuti il primo stacco. Si vede un uomo e, dietro di lui, una donna (quella vista in precedenza) venire dalla casa; l’uomo si guarda in-torno e torna verso casa. Segue la stessa inquadratura dell’inizio, il dialogo tra i due personaggi prosegue e, poi, dopo quasi quattro minuti, all’improv-viso l’immagine si muove lentamente in avanti. Si capisce allora che non si tratta di una ripresa oggettiva dell’abitazione interna al film, ma della ripre-sa di un video, ripresa che ha luogo nell’abitazione. L’immagine che il pub-blico ha avuto di fronte per diversi minuti è l’oggetto che getta nello scon-certo gli spettatori che sono dentro il film. Proprio per questo il video viene interrotto, riavvolto e nuovamente riprodotto e i due si cimentano senza successo in un’altra analisi dell’immagine. Solo dopo 5 cinque minuti cir-ca il racconto del film si sposta nella casa oggetto dell’immagine iniziale. Si vedono l’uomo e la donna nel loro soggiorno stare di fronte alla televi-sione e guardare il video che, in precedenza, aveva riempito lo schermo. Nel loro spazio privato vengono confrontati con uno sguardo da fuori che non possono localizzare nel mondo della loro vita.

Video simili vengono continuamente consegnati al conduttore televisivo Georges Laurent (Daniel Auteil). La loro provenienza resta nascosta a lui e a sua moglie Anne (Juliette Binoche), che lavora presso una casa editrice, nonostante tutte le ricerche svolte fino alla conclusione del film. Neppure gli spettatori ricevono alcuna delucidazione. Attimo dopo attimo diviene però chiaro che rinviano a un avvenimento vergognoso avvenuto nell’in-fanzia di Laurent e da questi rimosso (aveva fatto in modo che un giovane di origini algerine, accolto dai genitori nella sua famiglia – e i cui genitori, come viene spiegato per sommi capi, erano stati assassinati nel 1961 du-rante il massacro di Parigi –, venisse ripudiato dalla famiglia). In questa maniera – crescendo nel corso del film e inasprendosi crudelmente – Ca-

303M. Seel - Il fi lm come immaginazione

ché inscena la disgregazione delle immagini che il personaggio principale ha di sé e della sua vita e, contemporaneamente, delle immagini in cui il film parla degli stati di nascondimento e rimozione. Il personaggio princi-pale nasconde la memoria di un vissuto traumatico; la buona società, cui appartiene, nasconde il disprezzo sociale di cui approfitta; il film nasconde la provenienza delle registrazioni che ne motivano il racconto.

All’interno del racconto di Caché infatti, il punto di osservazione delle videoregistrazioni resta del tutto misterioso. Esse, nella realtà della finzio-ne, costituiscono dall’inizio alla fine uno sguardo da nessun luogo. L’effet-to di tutto ciò consiste in un persistente disorientamento non solo dei per-sonaggi del film, ma anche degli spettatori. Nel cambiamento di inquadratura e di scena non si riesce mai a capire se singole sequenze rap-presentino la prospettiva delle immagini inquietanti ed enigmatiche, quel-la dei personaggi coinvolti o quella oggettiva. Quanto più dura il film, tan-to più il pubblico cade preda del dubbio se la tale sequenza sia parte del mondo del film o rappresenti da fuori quello sguardo inquietante. Per lo più, nell’avanzare dell’azione viene scoperto quale statuto abbia la sequen-za precedente. Nell’inquadratura finale resta però indeciso. In un altro pun-to è inoltre possibile interpretare un viaggio ripreso da un’automobile in-sieme come l’immagine inquietante e come la ripresa immanente al mondo narrato. Anche questo espediente per creare confusione rispetto allo statu-to delle prospettive compresenti nel film contiene elementi di tecnica illu-sionistica. Tuttavia, di nuovo, la sua funzione le proviene dalla costruzio-nedi un mondo filmico, all’interno del quale in generale può nascere la differenza tra inquadrature oggettive e soggettive, interne ed esterne. La costruzione del film ammette gli inganni e, in parte, li rivela per rinviare ai possibili modi in cui le sue immagini ingannano: così procede la sua imma-ginazione.

In questo è presente una differenza radicale rispetto alla logica delle ri-prese che, per esempio, troviamo in Intrigo internazionale. Qui l’osserva-tore sa sempre perfettamente da che punto di vista viene rappresentato l’ac-cadere. Caché al contrario mette in scena prospettive strutturalmente avvelenate sui luoghi della sua storia. Le inquadrature anonime pongono gli spettatori parzialmente nella posizione dei personaggi, che appunto si domandano che cosa significhino. Una seria asimmetria tuttavia rimane. Perché mentre i personaggi si vedono esposti a uno sguardo velenoso sulle loro vite, gli spettatori vengono messi di fronte a uno sguardo velenoso sul-la vita dei personaggi e, al contempo, a sguardi che rispetto al piano narra-tivo del film stesso non sono commensurabili. La simultaneità delle pro-spettive dei personaggi, la posteriorità di una prospettiva sui personaggi e

304 Errore

la presentificazione della prospettività del film stesso devono accadere si-multaneamente perché Caché ammette solo l’una mentre pretende dal suo pubblico l’altra. Vedendo un film come questo non è solo possibile guida-re l’attenzione sia sugli avvenimenti narrati che sull’avvenimento del loro racconto, è del tutto impossibile fare diversamente.

(Traduzione di Marco Tedeschini)

Bibliografia

ALLEN R.1995 Projecting Illusion. Film Spectaroship and the Impression of Reality,

Cambridge.

BAZIN A.1975 Ontologie des fotografischen Bildes, in Id., Was ist Kino? Bausteine-

zur Theorie des Films, Köln, pp. 21-27.

CARROLL N.1995 Towards an Ontology of the Moving Image, in Philosophy and Film,

C. A. Freeland - Th. E. Wartenberg (a c. di), New York, pp. 68-85.

DANTO A. C.1981 The Transfiguration of the Commonplace, Cambridge (Mass.).

HEDIGER V.2006 Wirklichkeitsübertragung. Filmische Illusion als medienhistorische

Zäsur bei André Bazin und Albert Michotte, in G. Koch - Ch. Voss (a c. di), … Kraft der Illusion, München.

KRACAUER S.1960 Theorie des Films. Die Erretung der äußeren Wirklichkeit, Frankfurt

a. M. 1973.

MCGINN C.2005 The Power of Movies, New York.

305M. Seel - Il fi lm come immaginazione

METZ CH.1972 Zum Realitätseindruck im Kino, in Id., Semiologie des Films, Mün-

chen, pp. 20-35.

MICHOTTE VAN DEN BERCK A.1948 Der Realitätscharakter der filmischen Projektion, «Montage», XII, 1,

2003, pp. 110-125.

SEEL M.2000 Ästhetik des Erscheinens, München.

2007 Realismus und Anti-realismus in der Theorie des Films, in Id., Die Macht des Erscheinens, Frankfurt a. M., 152-175.

2013 Film als Imagination, in Id., Die Künste des Kinos, Frankfurt a. M., pp. 169-197.

VOSS CH.2013 Der Leihkörper. Erkenntnis und Ästhetik der Illusion, München.

WALTON K. L.1990 Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Representa-

tional Arts, Cambridge (Mass.).

2008 On pictures and Photograph. Objections Answered, in Id., Marver-lous Images, Oxford, pp. 117-132.

WARTEMBERG T. E.2007 Ethics or Film Theory? The Real McGuffin in North by Northwest, in

Hitchcock and Philosophy. Dial M for Metaphysics, D. Bagett - W.A. Drumin (a c. di), Chicago-La Salle, pp. 141-155.

WILSON G. L.1986 Narration in Light. Studies in Cinematic Point of View, Baltimore.

2011 Seeing Fictions in Film. The Epistemology of Movies, Oxford-New York.

307

A NATURAL DISASTER. L’ERRORE DUALISTICO

ALLA LUCE DEL POST-UMANO

di Davide Sisto

1. La sceneggiatura de «l’uno è quello che l’altro non è»

Il dualismo, nella sua versione cartesiana quale compimento ultimo del-la tradizione orfica, determina – secondo Hans Jonas – la riduzione di tut-ta la realtà oggettiva a una sostanza dotata della sola estensione, per cui co-noscibile esclusivamente tramite misurazioni matematiche, ed esterna alla coscienza soggettiva strategicamente isolata (Jonas 1966: 70). Le caratteri-stiche principali del dualismo, per Jonas dominante in Occidente da Carte-sio a Husserl, sono le seguenti: 1) eliminazione di tutti i contenuti spiritua-li da un mondo reso inanimato e parallela attribuzione di un’interiorità a-mondana al solo uomo; 2) elusione dei problemi inerenti alla vita e inte-resse esclusivo per le cose morte: rispetto all’imbarazzo conoscitivo gene-rato dal corpo vivo, in quanto colmo di enigmi, per la cultura dualistica ri-sulta più familiare il corpo nella sua dimensione cadaverica in quanto, essendo inerte, aderisce perfettamente alle leggi universali che regolano la comprensibilità umana a compartimenti stagni (ivi: 20); 3) convinzione che vi sia una frattura tra il singolo uomo e il mondo, da cui seguono la sva-lutazione metafisica e scientifica della natura e lo spaesamento cosmico dell’essere umano, di cui è accertata la solitudine giacché egli non è parte della natura, ma prigioniero di essa, gettato in un mondo a lui ostile. La for-mula con cui Jonas riassume il dualismo occidentale è la seguente: «l’uno è quello che l’altro non è» (ivi: 22). Se all’anima e alla coscienza spettano significato spirituale e dignità metafisica, poiché capaci di ritrarsi in sé e di isolarsi, al mondo non rimane che subire una forma di demonizzazione cul-turale tale da privarlo di qualsivoglia valore.

L’uno è quello che l’altro non è: la differenza e l’esclusione, quali ci-fre identificative del dualismo, determinano l’esaurimento del reale nel concetto, di modo che il dialogo umano con la natura sia, oggi come ieri, niente più che una «ricognizione disincantata di un deserto lunare dall’e-

308 Errore

sterno» (Prigogine, Stengers 1978: 11). Ciò che conta è la ricostruzione razionale e distaccata del mondo e la rigorosa linearità della spiegazione da parte di un osservatore esterno, le cui fondamenta teoriche poggiano sull’assunto che il funzionamento della vita è equiparabile a quello di una macchina rigorosamente determinata da leggi, regole e invarianti, le qua-li possono essere carpite mediante la sola applicazione di un metodo logi-co-matematico. Ciò emerge con evidenza nel dialogo sperimentale a cui si affida la scienza moderna, in cui l’esigenza di modellare il mondo e di trarne risposte rassicuranti ha una sua priorità assoluta rispetto al tentati-vo innanzitutto di comprenderlo. Come spiegano Ilya Prigogine e Isabel-le Stengers, il dialogo sperimentale con la natura, lungi dal presupporre un’osservazione passiva dei fatti, fa ricorso immediatamente a un’osser-vazione attiva e pratica: «si tratta di manipolare, di “fare una sceneggia-tura” della realtà fisica, per conferirle un’approssimazione ottimale nei confronti della descrizione teorica» (ivi: 41). “Fare una sceneggiatura” equivale a prendere l’oggetto d’interesse, purificarlo e sradicarlo dal suo ambiente naturale, per posizionarlo in uno artificiale – quello in cui ha luogo l’esperimento – cosicché vi siano le condizioni per una «situazione ideale, fisicamente irrealizzabile, ma intelligibile per eccellenza, dal mo-mento che incarna l’ipotesi teorica che guida la manipolazione» (ibidem). Nella situazione ideale, costruita artificialmente dalla sceneggiatura dello scienziato, l’oggetto di studio è sottoposto a un interrogatorio i cui esiti, proprio perché ricavati in laboratorio e non dal mondo reale, rappresenta-no comportamenti alterati, mai del tutto aderenti alla complessità propria delle cose mondane.

La differenza e l’esclusione («l’uno è quello che l’altro non è») e la co-struzione artificiale del reale («fare una sceneggiatura») costituiscono le basi a partire da cui ha luogo quello che, per il movimento del post-umano, è il disastro naturale prodotto dalla cultura dualistica. Due sono i piani in-terpretativi attraverso cui possiamo riassumere i suoi tratti caratteristici.

Il primo è un piano propriamente metodologico, legato all’elaborazione di un paradigma antropocentrico: vale a dire, un modello concettuale che, nel guidare tutti i discorsi sul mondo, pone al centro dell’attenzione esclu-sivamente l’uomo o, ancor peggio, una sua specifica parte. Tale paradig-ma, imposto a prescindere dal fatto che gli sia aderente o no la concreta re-altà, si traduce nell’idea che non ci sia possibilità alcuna di comprensione del mondo, così come si presenta ai nostri occhi, se non viene posta a pri-ori una distanza – quantitativa e qualitativa – tra l’uomo, unico essere pen-sante, e tutti gli altri esseri viventi, privi di ragione. Tale paradigma, secon-do Prigogine, è paragonabile a un monologo, mentre l’interpretazione del

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 309

mondo va pensata come un gioco, in cui uno dei due giocatori – l’interpre-te – deve indovinare il comportamento dell’altro, che non corrisponde af-fatto a ciò che esige l’interprete (ivi: 7). È naturale che da tale piano deri-vi il disastro teorico consistente nel voler attribuire significato a ogni singolo aspetto del vivente a partire dalla prospettiva esclusiva di un uomo-soggetto autoreferenziale e convinto che la realtà debba funzionare come vuole lui.

Il secondo piano è, invece, per così dire ontologico: ogni singolo indivi-duo, nella sua esistenza concreta, è in toto conforme al paradigma antropo-centrico. Egli è di per sé la somma di due parti distinte: la prima, la co-scienza, dispone di un valore qualitativamente superiore rispetto alla seconda, il corpo, ed è ciò per mezzo di cui è possibile stabilire il ruolo so-vranamente eccentrico dell’essere umano nel mondo. La coscienza è quel-lo che il corpo non è. Pertanto, si nega all’uomo la sua individuale incarna-zione in un singolo corpo vissuto, situato spazio-temporalmente in una dimensione storico-sociale specifica, per sostituirlo con un modello uni-versale e astratto, che va bene in ogni stagione, abitante in provetta – nella sua sostanzialità scevra di contingenza – all’interno di un dipartimento o di un laboratorio, dunque non radicato nel turbinio erotico del mondo caoti-camente variopinto in cui è nato. L’aderenza ontologica dell’uomo al para-digma antropocentrico presuppone, dunque, l’idea che l’essere umano sia realmente chiuso all’interno di una soggettività autoreferenziale, in una specie di solitudine eterna: l’uomo è quello che la natura non è. «Il regno umano, sintesi di ordine e di libertà – osserva Morin – si contrappone […] sia ai disordini naturali (“legge della giungla”, pulsioni incontrollate) sia ai meccanismi ciechi dell’istinto; la società umana, meraviglia di organizza-zione, si definisce per opposizione agli assembramenti gregari, alle orde e alle mute» (Morin 1973: 20). Qui il disastro è ai danni di tutto ciò che è na-turale: l’intera storia umana testimonia un corpo a corpo tra l’uomo e la na-tura esterna e interna a lui, da cui segue l’instaurazione di un rapporto in cui l’uomo nega e, a un tempo, subordina la natura, «producendo un ripe-tuto cortocircuito: la natura non è ancora umana e l’uomo non è più natura-le» (Bonito Oliva 2009: 17). Il cristianesimo – «la religione di un uomo la cui morte soprannaturale sfugge al destino comune delle creature viventi» (Morin 1973: 17) – e l’umanesimo – «la filosofia di un uomo la cui vita so-vrannaturale sfugge a questo destino; egli è soggetto in un mondo di og-getti, sovrano sopra un mondo di soggetti» (ivi: 17-18) – hanno per secoli tentato di integrare nella cultura dualista il piano metodologico e quello on-tologico. Si tratta ora di mostrare quali sono le fallacie di questi due piani teorici alla luce del post-umano.

310 Errore

2. Fine dell’umanesimo e ricostruzione dell’io: la temperie post-umana

Solitamente si ritiene che il termine post-human, con o senza il trattino, sia stato coniato nel 1977 da Ihab Hassan, nel testo Prometheus as Perfor-mer, in cui egli sostiene che l’epoca contemporanea, alla luce delle impo-nenti rivoluzioni tecnologiche, esige un radicale cambiamento della forma umana, inclusi i desideri e le sue rappresentazioni esterne: «cinquecento anni di umanesimo devono incamminarsi verso una fine, di modo che l’u-manesimo dia luogo a qualcosa che dobbiamo senza riserve chiamare po-stumanesimo» (Hassan 1977: 212)1.

Questo termine comincia ad affermarsi, a partire dai primi anni ’80, ne-gli ambienti underground della letteratura fantascientifica e della cultura sotterranea del cyberpunk, influenzata da William Gibson, James G. Bal-lard, Philip K. Dick, per riassumere l’idea centrale del movimento ciberne-tico ispirato da Norbert Wiener, secondo cui il concetto di umanità sarà se-gnato dalla contaminazione del biologico con il tecnologico (cfr. Pepperell 1997: 169; Caronia 2006: 43). Entra a far parte di un contesto teorico meno di nicchia quando Jeffrey Deitch decide di curare la mostra d’arte intitolata Posthuman, che ha luogo nel Museo di Arte Contemporanea di Losanna nel 1992, giungendo in Italia nell’ottobre dello stesso anno al Castello di Rivo-li, in provincia di Torino. Deitch, nel descrivere il progetto della mostra, è convinto che la chirurgia plastica, la ricostruzione genetica e gli innesti di componenti elettronici, diventando prassi comune e alterando radicalmente la struttura delle interazioni umane, rappresentino le basi di un nuovo stadio evolutivo dell’essere umano: finita l’era moderna intesa come «il periodo della scoperta dell’io», l’era post-moderna, «il periodo transitorio di disin-tegrazione dell’io», si accinge a confluire in quella post-umana, la quale «sarà caratterizzata dalla ricostruzione dell’io» (Vattese 1998: 299).

Ora, l’integrazione nel concetto di post-umano del superamento dell’u-manesimo, a cui si riferisce Hassan, e della ricostruzione dell’io, a cui fa accenno Deitch, rimanda a un orizzonte sterminato di riferimenti filosofi-ci, spesso tra loro eterogenei e combinati insieme in modo poco ortodosso: dall’evoluzionismo darwiniano alle scienze della complessità, dalle teorie della fenomenologia francese sul corpo alle critiche dell’uomo-soggetto da parte di Foucault e di Deleuze, dalle espressioni più colorite del femmini-smo anni ‘70 e dei moderni gender studies agli studi di robotica della metà del XX secolo, dagli sviluppi contemporanei delle biotecnologie e dello

1 A proposito cfr. Hayles (1999: 247), Farisco (2011: 61).

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 311

human enhancement alle filosofie anti-speciste ed ecologiche2. L’unico convincente filo conduttore del discorso post-umano è la convinzione che

la normale scala evolutiva delle culture umane stia subendo oggi un’accele-razione, per cui i tradizionali modelli descrittivi di tipo quantitativo non sono più sufficienti, e occorrono forse nuovi modelli di tipo qualitativo. […] Proba-bilmente nell’essere umano l’equilibrio tra componenti culturali e componenti biologiche sta cambiando rispetto a quello che abbiamo conosciuto sinora (Ca-ronia 2006: 53).

Questo cambiamento in atto è strettamente legato agli esiti della tradi-zione dualistica occidentale, tanto che è possibile individuare due differen-ti espressioni teoriche del post-umano, le quali rappresentano le risposte fi-losofiche ai due piani – metodologico e ontologico – del dualismo. La prima espressione coincide con l’elaborazione di un pensiero post-organi-co, quindi di un pensiero che teorizza il superamento dell’uomo “dualisti-co”, in quanto oramai antiquato e obsoleto, e preconizza la ricostruzione di un io in grado di fare a meno del suo lato naturale, corporeo. La seconda espressione consiste, invece, nella rivalutazione dell’organico, cioè nell’e-laborazione di un pensiero che interpreta il superamento dell’umano, in atto nel mondo contemporaneo, come trascendimento del paradigma antro-pocentrico, dunque come emancipazione del naturale e del corporeo dal loro tradizionale ruolo di oggetti compresi a partire dalla prospettiva esclu-siva dell’uomo-soggetto.

3. Post-umano come post-organico: il disprezzo per il corpo

Il punto di partenza del pensiero post-organico è la convinzione che l’uomo si senta profondamente inadeguato all’interno di una società in cui il progresso tecno-scientifico e le grandi rivoluzioni industriali evidenzia-no, senza remora, i limiti delle sue azioni. Egli coglie come radicale il di-sequilibrio tra le sue capacità razionali, mentali, intellettuali – in senso lato, “culturali” – costantemente in divenire in virtù degli sviluppi tecno-scien-tifici, e la sua corporeità morfologicamente statica, uguale a quella dei pro-pri antenati, refrattaria alla libertà e soggetta alla degradabilità, cui si ac-compagna una drammatica penuria istintuale. I progressi della scienza e

2 Per quanto concerne una ricostruzione teorica del post-umano si veda Braidotti (2013). Sul ruolo dello human enhancement nel post-umano si vedano Agar (2014) e Blackford (2014).

312 Errore

della tecnologia nel XX secolo paiono intensificare lo iato tra il biologico, costretto a obbedire alle leggi di natura, e lo spirituale, il cui tratto identi-ficativo è la libertà, con cui lo spirituale riesce a eludere il vincolo biologi-co e a trascendere gli impulsi e i bisogni fisici (cfr. Marchesini 2002: 212). Se la costruzione artificiale del reale, che ha contraddistinto la scienza mo-derna secondo Prigogine e Stengers, è il frutto dell’idea che ci sia una dif-ferenza qualitativa tra il corporeo e lo spirituale, il mondo contemporaneo porta alle estreme conseguenze la «mutilazione» che colpisce il rapporto che l’uomo ha con il corpo (cfr. Horkheimer, Adorno 1944: 249-254). Come scrive Ballard, il ruolo del corpo è stato talmente sminuito «che sem-bra ormai poco più di un’ombra spettrale osservata sulla lastra radiografi-ca della nostra riprovazione morale» (Ballard 1992: 44). Günther Anders, in particolare, sostiene che il corpo e l’organico siano ciò che danno vita alla cosiddetta “vergogna prometeica”, consistente nella presa di coscienza da parte dell’uomo di essere diventato, a causa della sua limitatezza orga-nica e della sua deteriorabilità fisica, antiquato rispetto ai prodotti indu-striali da lui stesso creati, la cui perfezione, garantita dalla loro riproduci-bilità infinita, li rende gli unici detentori della libertà. L’uomo si vergogna, pertanto, di non essere una cosa, a cui riconosce una superiorità ontologica senza eguali nella storia occidentale del rapporto tra soggetto e oggetto, e tale vergogna lo spinge a desiderare di ridurre se stesso a una cosa, di pri-varsi quindi della sua natura organica e della sua singolarità, considerando un difetto radicale l’essere costituito di un corpo (cfr. Anders 1956: 37). Si spiegano, così, la devozione umana per le macchine industriali, l’intensiva applicazione dell’ingegneria al corpo e l’inestricabile groviglio di reale e virtuale che segna il mondo odierno: «il mondo quotidiano con cui gli uo-mini hanno a che fare è in primo luogo un mondo di cose e di apparati mec-canici, nel quale esistono anche altri uomini; non un mondo umano nel quale esistono anche cose e apparati» (Anders 1980: 52). L’auto-reificazio-ne, obiettivo che muta l’homo faber in homo creator, è l’esito di un percor-so che dalla vergogna prometeica porta al superamento dell’umano, quindi alla speranza di varcare i confini naturali e di entrare a far parte del regno innaturale dell’ibrido e dell’artificiale.

Il superamento dell’umano, proprio di un pensiero che reputa obsoleto l’organico, si traduce in una ricostruzione ontologica dell’io, che però di fatto degenera nell’in-umano o nel dis-umano. Il pensiero post-organico, infatti, dà per assodato, in primo luogo, che l’uomo sia un essere dualisti-co, costituito dalla somma della mente e del corpo. Evidenzia, in secondo luogo, il dislivello qualitativo tra il suo lato culturale e il suo lato naturale, dislivello che assume dimensioni preoccupanti nel momento in cui i pro-

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 313

gressi tecno-scientifici determinano condizioni di inadeguatezza nei con-fronti dei prodotti industriali. Attualizza, in terzo luogo, la teoria dell’eso-nero di Gehlen, vale a dire il meccanismo che permette all’uomo preveggente di instaurare abitudini comportamentali mediante cui può prendere le distanze dagli stimoli molteplici che riceve, senza risposte im-mediatamente istintuali, e quindi la convinzione che egli sia “aperto al mondo”, non chiuso – come tutti gli altri animali – all’interno di uno spe-cifico ambiente. Si muove, in quarto luogo, nella direzione di una trasfor-mazione dell’uomo in un essere ontologicamente tecnologico. Traduce, in-fine, l’handicap dualistico dell’essere umano nel progetto di mettere da parte l’elemento debole della sua costituzione: il corpo.

La “tecnologizzazione” del corpo, cui si accompagna un’ipotetica “cor-poreizzazione” del tecnologico, evidenzia come «post-umano», all’interno di questa via post-organica, indichi la consapevolezza che il patrimonio tecnologico ci è ormai connaturato quanto quello genetico, per cui il supe-ramento delle opposizioni tradizionali tra naturale e artificiale, mente e corpo deve attuarsi nei termini di una progressiva eliminazione del natura-le e del corporeo. Ma questo modo di pensare, che apparentemente sembra disconoscere l’uomo dualistico, non fa che portarlo alle estreme conse-guenze. In quanto apparentemente carente da un punto di vista biologico, l’uomo si crea una seconda natura, approntata artificialmente e depurata dalle insufficienti “tossine” biologiche. Espressione fondamentale di que-sta seconda natura è la tecnica, insita già nell’essenza umana, in cui conflu-iscono tutte le capacità e i mezzi con cui l’uomo si impegna ad asservire la natura, appropriandosi delle sue leggi, sino a sfruttarle per i propri benefi-ci. L’ibrido uomo-tecnologia risulta, pertanto, essere il punto di arrivo del-la costante esaltazione occidentale del lato mentale e del parallelo disprez-zo per il vivente, il corporeo, l’organico.

E così, se Gregory Stock sostiene che la possibilità di riprogrammare gli esseri umani arriverà a prescindere dalla nostra volontà, Robert Jastrow au-spica di trasferire il contenuto della mente completamente nel computer e Marvin Minsky prevede di duplicarla attraverso speciali chip in grado di ri-produrre ogni cellula del cervello, abbandonando la meat machine (il cer-vello) e la bloody mess (il corpo). Hans Moravec parla di mind children, fissando l’idea di liberare la mente dal corpo mortale attraverso il collega-mento di fasci neurali del cervello ai cavi di un computer, di modo da im-magazzinare lo spirito in un computer, farne il download e copiarlo in più esemplari. Raynold Kurzweil prevede l’avvento nel 2060 della “singolari-tà tecnologica”, quale trascendimento ultimo della condizione umana, in virtù di una combinazione di sana condotta (alimentazione equilibrata,

314 Errore

esercizio fisico, uso di integratori e controlli sanitari continui), biotecnolo-gie (ricerca sulle cellule staminali), nanotecnologie e robotica, con cui si produrrà un’alterazione profonda delle abitudini della vita, con il supera-mento dell’invecchiamento e della morte. Un superamento su cui vertono gli studi di Nick Bostrom, filosofo svedese della Oxford University, diret-tore del Future of Humanity Institute e fondatore della World Transhuma-nist Association, il quale mira a sviluppare teorie immortaliste, con le qua-li trasformare completamente l’antropologia, coniugando l’estensione della vita con il potenziamento dedalico dell’uomo. Non va dimenticato Arthur C. Clarke, noto per il romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, nonché per aver ipotizzato per primo nel 1945 l’utilizzo dell’orbita geosta-zionaria per i satelliti dedicati alle telecomunicazioni, che appunto ha pre-so il nome di Fascia di Clarke, il quale afferma l’esito immateriale della nostra futura vita terrena, per cui riusciremo a trasformarci in energia per sottrarci alla tirannia della materia, secondo il modello dello spirito disin-carnato già teorizzato dal noto biologo britannico J.D. Bernal in The World, the Flesh and the Devil (1929) (cfr. Sisto 2013: 181 ss).

4. Post-umano come recupero dell’organico: circuito vivente, multi-identità, simbiosi

La seconda espressione del post-umano tende a mostrare il carattere er-roneo del dualismo senza però prendere la via del pensiero post-organico; piuttosto, mira a ridefinire il rapporto ermeneutico tra uomo e mondo, a partire da una rivalutazione qualitativa dell’organico le cui basi poggiano sui concetti di contaminazione, ibrido e soglia. Il punto di partenza è l’evi-denza che la realtà, nella sua concretezza, mai aderisce alla visione separa-tiva delle cose imposta dall’uomo dualistico. È evidente che l’essere uma-no non sia costituito di due parti sovrapposte, bio-naturale l’una e psico-sociale l’altra; è altrettanto evidente il carattere utopico di una radi-cale contrapposizione tra un uomo-soggetto, chiuso nella sua autoreferen-zialità, e un mondo-oggetto, cosificato perché apparentemente privo di co-scienza. Il superamento dell’umano e la ricostruzione dell’io consistono, pertanto, nello smascherare la narcisistica separatezza, imposta dal para-digma antropocentrico proprio del dualismo e responsabile di gerarchie ed esclusioni, che connota il rapporto tra uomo e mondo, di modo che siano assunte prospettive aperte alla contaminazione con l’alterità, sia essa ani-male sia essa tecnologica. Questa seconda via del post-umano, pertanto, ri-conosce nel corpo e nell’organico i luoghi simbolici delle molteplici espres-

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 315

sioni umane, a partire da cui vengono meno i confini identitari e le pretese immunitarie (cfr. Marchesini 2002: 207-244).

Lungi dall’essere inteso come un sistema chiuso, quale soggetto autori-ferito, votato al culto della purezza e dell’incontaminato e ossessionato dall’operazione dell’epurare, che consiste nell’«intraprendere un percorso divergente dall’empirico e dall’applicato, una direzione proiettata lontano dal tellurico e trascendente l’esperienza, l’incarnato, il sensibile» (Marche-sini 2009: 52), l’uomo va pensato come quel circuito vivente, di cui parla Schelling, «in cui ogni termine scorre continuamente nell’altro e in cui nes-sun elemento può separarsi dall’altro richiedendosi tutti reciprocamente» (Schelling 1810: 50-51). L’uomo-circuito vivente schellinghiano è una sor-ta di auto-organizzazione mediata con l’etero-determinazione: la sua con-servazione dipende da un processo di autopoiesi che mai può fare a meno dell’apertura all’altro, dello scambio d’azione con ciò che è all’esterno. Tale “esterno” rappresenta tanto il suo fecondo punto d’origine (Natur) quanto il suo patogeno abisso oscuro (Ungrund), da cui riceve indifferen-temente la spinta per la sua formazione e il freno che lo inibisce. Ciò che è all’esterno corrisponde, per Schelling, a ciò che è interno. Questo perché egli fornisce un’interpretazione simbolica dell’esistenza che si traduce in uno schema tripartito, in base a cui vi è un elemento medio – l’anima qua-le trama invisibile – che determina la corrispondenza tra il lato spirituale e quello naturale, rendendo simpatetico il rapporto tra l’uomo e la natura a lui interna ed esterna. Non vi è spirituale che non sia di per sé naturale, né naturale che non abbia in sé una forma di spiritualità. La circolazione inter-na all’uomo-circuito vivente poggia sulla relazionalità, ma una relaziona-lità mai armonica, bensì segnata da disequilibri, salti, disarmonie, perturba-zioni, arresti. Il circuito vivente si auto-sostenta in virtù della costante alternanza di equilibri e di squilibri, un’alternanza che definisce lo stesso concetto di vita (Schelling 1800: 339). Tutta la vita dell’uomo-circuito vi-vente si articola sul confine tra equilibrio e squilibrio, confine che la dina-mizza e la spinge a una costante rielaborazione di sé.

Quest’idea schellinghiana dell’uomo-circuito vivente, che precorre in termini simbolici il concetto scientifico di “struttura dissipativa” teorizza-to da Prigogine per indicare «la stretta associazione […] che può esistere tra struttura e ordine da una parte, e perdite e sprechi dall’altra», al punto che «la dissipazione dell’energia e della materia diventa, in condizioni lon-tane dall’equilibrio, fonte di ordine» (Prigogine - Stengers 1978: 148), può essere letta come un’anticipazione metafisica del superamento del paradig-ma antropocentrico, su cui si sofferma una parte del movimento post-uma-no. L’uomo-circuito vivente non è, infatti, un’identità statica, auto-centra-

316 Errore

ta e autosufficiente in virtù di una soggettività sovrana, a prescindere dalla relazione con l’alterità; è piuttosto una multi-identità aperta alla contami-nazione, frutto di un processo creativo e non determinato, che sposta co-stantemente i propri confini, attraverso scambi, relazioni, disequilibri. La multi-identità implica una concezione del corpo come soglia fondamenta-le da cui si dipanano tutte le relazioni tra l’interno e l’esterno, per cui ogni singolo incontro con il biologico e con il tecnologico determina un muta-mento significativo dei principi regolatori dell’attività vitale del singolo in-dividuo e genera nuove forme, nuove identità3. L’uomo-circuito vivente del XX secolo, contraddistinto ontologicamente dal carattere multi-identi-tario, è un «essere transizionale eteroriferito» (Marchesini 2002: 14), estra-neo ai concetti di dualità, separazione, purezza e in costante divenire gra-zie alla dialettica perpetua tra auto-organizzazione ed etero-determinazione, che lo allontana da qualsivoglia ermeneutica fondata sull’isolamento. Tale dialettica rimanda necessariamente al concetto di simbiosi, «un’associazio-ne stabile e strettamente integrata tra due organismi di cui uno, detto ospi-te, costituisce l’habitat dell’altro. L’associazione simbiotica porta vantaggi reciproci ai due organismi» (Longo 2013: 41). Con una sempre più diffusa ibridazione tra biologico, meccanico ed elettronico, si perviene all’imma-gine di un essere umano come simbionte di biologia e di tecnologia, in cui si mescolano un artificio divenuto naturale e una natura divenuta artificia-le (ivi: 44). Il simbionte quale espressione dell’ibrido ontologico, in cui confluisce l’uomo-circuito vivente di schellinghiana memoria, mette in luce come l’essere umano non sia di per sé carente a livello fisiologico: egli si percepisce incompleto in seguito al suo sviluppo culturale, allo stesso modo in cui l’uomo descritto da Schelling si percepisce incompleto in se-guito allo sviluppo della coscienza. Si comprende, pertanto, che la cultura, lungi dal rappresentare uno strumento per sopperire a mancanze naturali, è piuttosto un «non equilibrio creativo, un continuo spostamento di soglia che facilita i processi ibridativi con l’alterità» (Pireddu 2006: 21). La cul-

3 «La multi-identità è una vecchia idea che il romanticismo e la cultura moderna hanno già espresso: dentro di noi abbiamo tante identità, come dottor Jekyll e mister Hyde, o anche lo stesso Avatar. L’immagine della molteplicità appartiene ai racconti dell’Ottocento e alle tradizioni popolari. Non c’è mai qualcosa di nuovo, ma tutto torna a realizzarsi. La multi-identità è l’idea che, attraverso forme di comunicazione non più unidirezionali, verticali e centralizzate, ma fondate sulla relazione, sull’interattività e sullo scambio, si realizzino non delle identità forti, ma tanti momenti identitari che si trasformano a seconda della condizione, del problema, dell’occasione, dell’aria che tira» (Abruzzese - De Kerckhove 2010).

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 317

tura è, in altre parole, diretta espressione della natura, ma non si riduce mai a un suo esito meccanico, essendone il prodotto sempre nuovo e inedito; concorre essa stessa alla ridefinizione e all’evoluzione della sua stessa base naturale. Un esempio della relazione tra naturale e culturale, così come vie-ne intesa dal movimento post-umano quale risposta alla fallacia dualistica, è quello dello slittamento della pressione selettiva, che consiste nella coo-perazione della cultura all’evoluzione della natura mediante il riferimento ai feedback che ogni tecnologia produce sul sostrato biologico. Questo slit-tamento diviene facilmente comprensibile se pensiamo al caso dell’anti-biotico. Prima della sua invenzione, il processo di antibiosi, vale a dire la difesa attuata dall’organismo nei confronti dei batteri, era un importante di-scrimine per la sopravvivenza o la morte degli organismi: chi non era in grado di produrre antibiosi naturalmente era inevitabilmente destinato a soccombere, a causa delle infezioni, pertanto «la mancanza di una sua di-retta discendenza non avrebbe portato avanti nelle generazioni una formu-la organica imperfetta dal punto di vista dell’antibiosi» (Marchesini 2002: 31). Dopo la sua invenzione, non è più l’uomo selezionato in base alla sua capacità o incapacità di produrre antibiosi, ma è l’antibiotico che viene se-lezionato per le sue capacità di offrire all’uomo proprietà antibiotiche: in altre parole, il discrimine diviene il possesso dell’antibiotico, con il quale anche gli organismi incapaci di sintetizzare antibiosi possono continuare a sopravvivere. Tale esempio mette bene in luce l’alternativa teorica offerta da questa seconda corrente post-umana alla visione tipicamente dualistica dell’essere umano.

Al termine di questa succinta analisi dell’errore dualistico alla luce del post-umano, ci rendiamo conto che la comprensione dualistica della realtà è un “disastro naturale” sotto diversi punti di vista: un “disastro” nei con-fronti di tutto ciò che è “naturale”, un “disastro” che è “naturale” – nel sen-so di “ovvio”, “normale” – tenuto conto di come si è sviluppato il pensiero occidentale a partire dalla tradizione platonico-cartesiana, un “disastro na-turale” per le conseguenze che il dualismo determina nell’attuale realtà contemporanea segnata da profonde rivoluzioni tecno-scientifiche.

318 Errore

Bibliografia

ABRUZZESE A. - DE KERCKHOVE D.2010 Saper leggere il libro del mondo. Reti e connessioni al tempo di

“Avatar”, «Multiverso», 10, http://www.multiversoweb.it/rivista/n-10-link/saper-leggere-il-libro-del-mondo-reti-e-connessio-ni-al-tempo-di-%E2%80%98avatar%E2%80%99-3382/

AGAR N.2014 Truly Human Enhancement. A Philosophical Defense of Limits, Lon-

don.

ANDERS G.1956 L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della

seconda rivoluzione industriale, trad. di L. Dallapiccola, Torino 2007.

1980 L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, trad. di M. A. Mori, Torino 2007.

BALLARD J.G.1992 Project for a Glossary of the Twentieth Century, «Zone 6: Incorpora-

tions», Zone, New-York, pp. 268-279.

BLACKFORD R.2014 Humanity Enhanced. Genetic Choice and the Challenge for Liberal

Democracies, London.

BONITO OLIVA R.2009 Ancora una domanda sulla natura umana, «S&F», 1, pp. 17-23.

BRAIDOTTI R.2013 Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte,

Roma 2014.

CARONIA A.2006, Corpi e informazioni. Il post-human da Wiener a Gibson, in Post-

umano. Relazione tra uomo e tecnologia nella società delle reti, M. Pireddu - A. Tursi (a c. di), Milano, pp. 43-56.

Davide Sisto - A natural disaster. L’errore dualistico alla luce del post-umano 319

FARISCO M.2011 Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Milano.

HASSAN I.1977 Prometheus as Performer: Toward a Posthumanist Culture?, in Per-

formance in Postmodern Culture, M. Benamou - C. Caramella (a c. di), Madison.

HAYLES K.N.1999 How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Litera-

ture, and Informatics, Chicago.

HORKHEIMER M. - ADORNO T.W.1944 Dialettica dell’illuminismo, trad. di R. Solmi, Torino 2010.

JONAS H.1966 Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, trad. di A. Patruc-

co Becchi, Torino 1999.

LONGO G. O.2013 Il simbionte. Prove di umanità futura, Milano.

PIREDDU M.2006 La carne del futuro. Utopia della dematerializzazione, in Post-uma-

no, M. Pireddu, A. Tursi, (a c. di), pp. 13-28.

PRIGOGINE I. - STENGERS I.1978, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, trad. it. di P.D. Napo-

litani, Torino 1999.

MARCHESINI R.2002, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino.

2009, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Bari.

MORIN E.1973, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Torino 1974.

PEPPERELL R.1997, The Posthuman Condition. Consciousness beyond the Brain, Exeter.

320 Errore

SCHELLING F.W.J.1800, Sistema dell’idealismo trascendentale, trad. di G. Boffi, Milano

1997.

1810, Clara, ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spi-riti, trad. di M. Ophälders, Rovereto 2009.

SISTO D.2013, Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano, Pisa.

VATTESE A.1998 Capire l’arte contemporanea dal 1945 ad oggi, Torino.

321

L’INDICE DELL’ERRORE.LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE E IL PROBLEMA DELLA CREDENZA VERA

GIUSTIFICATA

di Marco Tedeschini

Esiste un indice dell’errore per la conoscenza? Si può cioè anticipare – almeno metodologicamente – l’errore? Si possono definire le condizioni per cui una conoscenza è effettivamente tale, senza margine d’errore, o quanto meno consentano ex ante una determinazione senza eccezioni di che cosa significa conoscere? A queste domande ambiziose dovremo ri-spondere che no, non è possibile. Beninteso, il discorso che intendiamo portare avanti qui è del tutto preliminare, preparatorio. Tuttavia, l’intento è già quello di mostrare ciò che, se si vuole, è del tutto ovvio. Che, cioè, non è possibile raccogliere in anticipo le condizioni della conoscenza e dunque offrirne una definizione adeguata e coerente che possa almeno fungere da regola per essa. Sicché, per converso, l’errore – inteso come conoscenza sbagliata – non può essere oggetto di anticipazione concettuale. Da quando infatti, nel 1963, Edmund Gettier mise in questione l’idea che la conoscen-za proposizionale di X presupponesse che X fosse vero, che il soggetto del-la conoscenza credesse a questa verità e che avesse buoni motivi per cre-dervi, numerosi sono gli autori che, soprattutto in ambito anglosassone, hanno cercato soluzioni, le più disparate, per individuare una condizione che rendesse meno debole (se non certo) il criterio per definire la cono-scenza proposizionale come opinione, o credenza, vera giustificata (Justi-fied True Belief)1.

Tra gli autori che hanno tentato non vi è – se non altro per ragioni ana-grafiche – Edmund Husserl. Tuttavia ne La crisi delle scienze europee e la

1 Per una documentata introduzione all’argomento vedasi Ichikawa - Steup 2014. Sia detto per inciso che questa definizione del concetto di conoscenza, era stata già respinta da Platone nel Teeteto (201a-210a), il quale nel Menone (97a-99a) sembra escludere qualunque parentela tra le due dimensioni (a meno che l’opinione vera non diventi, grazie all’anamnesi, conoscenza). Gettier (1963: 121 n. 1), stranamente, sostiene invece che, se nel primo dei due dialoghi Platone semplicemente considera l’ipotesi della conoscenza come opinione vera giustificata, nel secondo «sembra che [la] stia […] accettando» (ibidem).

322 Errore

fenomenologia trascendentale questi dedica alcune pagine decisive alla questione dell’errore, che ci hanno dato parecchio da riflettere quanto ai problemi inaugurati, in tutt’altra cornice filosofica, da Gettier. Istruire la nostra indagine sul problema di Gettier a partire dalle pagine di Husserl de-dicate all’errore ci permetterà anzitutto di circoscrivere un ambito di perti-nenza per l’errore nel suo legame con la conoscenza e dunque ci spingerà a cercare di definire un «indice» per riconoscere l’errore. Proprio sulla scorta di Husserl, dovremo però ammettere che il guanto lanciato da Get-tier non va preso come una sfida, ancorché affascinante e ambiziosa, ma come un limite che2, come ogni limite, racchiude in sé un’occasione. L’oc-casione di un’altra prospettiva sulla conoscenza.

1. Il problema di Gettier

Per fornire le coordinate del problema a cui la strategia trascendentalista di Husserl sembra poter dare una valida risposta, occorre considerare bre-vemente il saggio di Gettier che ha ispirato la nostra riflessione, Is Justified True Belief Knowledge? Si tratta di un saggio brevissimo: poco più di due pagine. Esso si concentra principalmente su un tipo di conoscenza che si può definire «proposizionale» e sulle condizioni necessarie e sufficienti che la definiscono. Si tratta di quel genere di conoscenza per cui «S sa che P» e dove «S» è il soggetto conoscente e «P» la proposizione nota. Si badi che, naturalmente, il verbo inglese utilizzato in questo contesto è know. L’inglese, infatti, non distingue parole come ‘sapere’ e ‘conoscere’. «S sa che P» è dunque equivalente a «S conosce che P»; equivalenza tutt’altro che scontata in italiano. Basti però, per i presenti fini, questa precisazione terminologica e la si tenga presente per il prosieguo.

Nel suo contributo, Gettier sostiene esservi almeno due casi in cui le condizioni perché «S knows that P» non sono sufficienti. Nel caso della co-noscenza proposizionale le condizioni che la definiscono si riducono a tre: che (I) P sia vera, che (II) S creda o sia convinto o sia dell’opinione che P e che (III) S sia giustificato nel, abbia cioè ragione di credere che P. Gettier intende appunto mostrare che queste tre condizioni non sono sufficienti «per la verità della proposizione che S sa che P» (Gettier 1963: 121). La

2 Cfr., a tal proposito il lavoro di Zagzebski (1994), la quale mostra appunto che il problema di Gettier è inaggirabile a partire dal tentativo di recuperare, precisandolo (cioè arricchendolo di almeno una condizione), il dispositivo dell’opinione vera giustificata.

323M. Tedeschini - L’indice dell’errore.

strategia adottata consiste nel portare all’attenzione due casi in cui, sostan-zialmente, le condizioni che definiscono la conoscenza sono vere per una proposizione «benché, allo stesso tempo, è falso che la persona in questio-ne conosca quella proposizione» (ivi: 122).

In entrambi i casi Gettier parte dal duplice presupposto che la P creduta in modo giustificato possa essere «in realtà falsa» e che se P implica Q e S deduce Q da P allora «S è giustificato a credere che Q» (ivi: 121). In que-sta maniera Gettier mostra che, in due casi, S sa qualcosa di sbagliato («che P»), e ne deduce «che Q», la quale però, in un senso ancora da precisare, è vera. La situazione che si verifica è quella per cui S asserisce qualcosa di vero che però non conosce, perché le sue ragioni di partenza riguardano P, che è falsa. Riportiamo il primo dei due casi considerati da Gettier: Smith ha forti elementi a disposizione per affermare (P’): «Jones è l’uomo che ot-terrà il lavoro e Jones ha dieci monete in tasca»; da ciò deduce la proposi-zione (Q’): «l’uomo che otterrà il lavoro ha dieci monete in tasca». A que-sto punto Gettier introduce dei dettagli che, però, Smith non conosce e che fanno sì che a) alla fine lui ottenga il lavoro in luogo di Jones e che b) an-che lui abbia dieci monete in tasca. Ne segue che (Q’) è vera, ma Smith non lo sa, proprio perché parte da presupposti diversi.

Le tre condizioni considerate sufficienti perché S conosca/sappia che P si rivelano dunque insufficienti. La conoscenza non si esaurisce in queste condizioni, né viene definita da esse. Nel prosieguo proveremo a mostrare che il problema aperto da Gettier – quali siano le condizioni perché vi sia conoscenza proposizionale –, se opportunamente affiancato a una trattazio-ne fenomenologica della conoscenza, ha molto più l’aspetto di un’occasio-ne. Una tale “trasfigurazione” richiede dei passaggi intermedi. Il primo, e decisivo, sarà quello di mostrare come, fenomenologicamente, la cono-scenza stringa un forte legame con l’errore. Errore che, ovviamente, ben-ché non sia tematizzato, è una categoria imprescindibile anche negli esem-pi di Gettier, dove Smith fa semplicemente un errore di attribuzione.

2. La fondazione fenomenologica della conoscenza

Il problema di Gettier non è il problema di Husserl. Questi non intende risolvere la questione della (analisi della) conoscenza ricorrendo al ricono-scimento delle condizioni necessarie e sufficienti che la determinano. Hus-serl si muove su un piano che gioca d’anticipo per molti versi. Infatti va in cerca delle condizioni che rendono possibile la conoscenza, ma non di quelle che de facto la determinano. In entrambi i casi, è vero, la ricerca por-

324 Errore

ta su delle condizioni. Se però il problema di Gettier mostra che, conside-rate le tre condizione enunciate in precedenza, non è sempre possibile sa-pere se in un dato caso vi sia stata effettivamente conoscenza – non è cioè possibile anticipare le condizioni per cui è possibile asserire con verità «Io so che P»; Husserl opera su un terreno che prepara e consente la conoscen-za fattuale, che non decide se la tale conoscenza sia veramente una cono-scenza, ma tenta di stabilire se, in generale, qualcosa possa essere cono-sciuto. Il problema è neutralizzato.

Una regola che il fenomenologo impara presto a fare propria è che, lad-dove c’è ordinarietà e ovvietà, ebbene proprio lì, si cela un nodo centrale per la ricerca filosofica. Ora, l’esperienza del conoscere e quella dell’erro-re sono quanto di più ordinario esista. È ovvio che ci si possa sbagliare, al-meno tanto quanto è ovvio che si possa conoscere qualcosa. Quello che Husserl ci sembra mostrare con grande chiarezza nelle pagine della Crisi, che analizzeremo, è che, perché si dia conoscenza, è necessario che si dia l’errore. Osserviamo infatti qual è la condizione di partenza che dà luogo all’errore. Siamo al § 47 della Crisi e Husserl introduce la questione che va sotto il titolo di Mutamento di validità:

[si tratta] della trasformazione dell’essere in parvenza. Nella percezione continua una cosa è qui per me nella semplice certezza d’essere della presenza immediata […]. Ma se io mi chiedo che cosa includa in sé quest’inerenza del-la rappresentazione della cosa all’evoluzione delle cinestesi, mi accorgo che essa implica una nascosta connessione intenzionale definibile mediante l’e-spressione «se-allora»: le rappresentazioni devono avvenire in una certa suc-cessione sistematica; perciò, nel corso della percezione, esse sono preannun-ciate nell’attesa come un che di concordante. […] È questo dunque il sottofondo intenzionale di qualsiasi certezza d’essere della cosa nella sua pre-senza. (Husserl 1959: 188-189)

Per prima cosa occorre osservare che qui Husserl parla di conoscenza percettiva (knowledge by acquaintance, direbbero gli inglesi). Pertanto si potrebbe rimproverare fin d’ora la debolezza dell’operazione ivi tentata. In verità non è così, se non altro per la permeabilità (fino alla loro intima fu-sione) di principio che Husserl stabilisce tra linguaggio e intuizione (cfr. al-meno la I e VI delle Ricerche logiche). Venendo al passo citato, l’idea di Husserl è che il procedere percettivo cela dietro l’evoluzione cinestetica una connessione intenzionale di natura motivazionale («se-allora»), la qua-le richiede – per realizzarsi effettivamente – una successione coerente e si-stematica tale da preannunciare coerentemente gli sviluppi della percezio-ne. Nell’intenzionalità, che coglie l’oggetto nella sua interezza

325M. Tedeschini - L’indice dell’errore.

costituendolo progressivamente, si ha il fondamento della «certezza d’es-sere della cosa nella sua presenza». Il Geltungswandel incide esattamente su questa certezza, allorché trasforma l’essere in parvenza. La causa di questo mutamento sta in una discordanza percettiva. Questa discordanza produce il senso per cui il percepito non era un essere, ma una rappresenta-zione soggettiva. La discordanza è dunque indice dell’errore.

Ferma restando la distinzione tra propositional knowledge e knowledge by acquaintance, si potrebbe dire che, anche nell’esempio di Gettier, è una discordanza quella che conduce Smith a riferire a Jones (Q’); e precisa-mente la discordanza tra (Q’), le credenze che la giustificano e l’oggetto di riferimento. In tal senso il meccanismo del «se-allora» formalmente fun-ziona, ma, appunto, nei fatti è fallace. E questa “fallacia” è inanticipabile. Husserl e Gettier si trovano dunque in situazioni analoghe che, ci sembra, possono essere utilmente poste a confronto: in entrambi i casi le condizio-ni date per la conoscenza non sono infatti sufficienti e, pertanto, non si può parlare in senso proprio di conoscenza.

Ma in Husserl sorge una difficoltà ulteriore. Bisogna infatti tener conto del fatto che Husserl al § 41 aveva effettuato l’epoché, sospendendo ogni giudizio sul mondo e inibendo qualsiasi pretesa di adeguatezza con la sfe-ra del mondo reale. In regime di epoché l’unico spazio conoscitivo valido è quello esperienziale e, nel caso della conoscenza d’oggetto, quello noe-matico. Sono proprio le serie concordanti noematiche (ciò che è propria-mente intenzionale) a costituire la certezza d’essere che va in frantumi nell’esempio di Husserl. Il problema sorge tuttavia rispetto alla possibilità di discernere l’essere dalla parvenza (nell’apparire): quand’anche le serie concordanti fossero infinitamente tali rispetto al dato X, l’unico criterio in-terno alla coscienza per fissare questa conoscenza è proprio l’accordo tra le intenzioni. Questo significa che, mancando un criterio esterno all’esperien-za e dovendo l’essere venire ricavato dall’apparire, delle due l’una: o l’er-rore non avrebbe cittadinanza – nel senso che non avrebbe senso –; oppure esso renderebbe la conoscenza fenomenologica per principio ostaggio del-la possibilità dell’errore. Vediamo perché.

O infatti, come ha mostrato brillantemente Stefano Bancalari nel suo Intersoggettività e mondo della vita, venendo meno un criterio conosciti-vo esterno alla coscienza trascendentale, parlare di errore per una tra due opinioni o percezioni contraddittorie non ha senso (Bancalari 2003: 144); oppure l’indiscernibilità di principio dell’essere dalla parvenza rendereb-be l’errore lo spettro stesso della conoscenza, in quanto, a fronte della ne-cessaria presunzione di oggetto (il riferimento intenzionale), potrebbe sempre darsi la possibilità che esso si riveli una mera presunzione. Che

326 Errore

sia l’errore o sia la certezza della conoscenza a dissolversi, l’esito è co-munque lo stallo epistemologico. Nel primo caso, si potrebbe sempre dire che l’uomo è stato sostituito da un manichino senza che vi sia la pos-sibilità di comprendere la discordanza come un’opposizione tra «tesi» in-tenzionali. Sarebbe dunque un mero cambiamento d’oggetto e non avreb-be senso parlare di discordanza o di errore. Nel secondo caso si avrebbe invece l’angosciosa situazione di dover decidere per l’uomo o per il ma-nichino senz’altra certezza che un dato fenomenico afflitto a sua volta dall’impossibilità di fornire una certezza d’essere che non sia “appesa” ai successivi decorsi esperienziali. Questa seconda tesi, per molti versi ov-via, perde la sua trivialità nel momento in cui si ricordi che Husserl un paragrafo prima, il § 46, scrive che «senza queste intenzionalità, non esi-sterebbero affatto per noi né gli oggetti né il mondo, i quali hanno il sen-so e il modo d’essere in cui si definiscono e si sono definiti attraverso queste operazioni soggettive» (Husserl 1959: 188). Sembra di poter con-cludere, allora, che senza conoscenza niente errore, ma anche senza erro-re niente conoscenza.

Crediamo di poter rinvenire la causa di questo stallo, almeno nella fe-nomenologia trascendentale di Husserl, nella temporalità che, da sola, non è criterio bastevole alla conoscenza e, di conseguenza, al riconosci-mento dell’errore. L’indice dell’errore non può così essere nella sempli-ce frattura dell’accordo tra le singole percezioni, né quello della cono-scenza il mero accordo. In una cornice strettamente temporale, infatti, l’errore non avrebbe propriamente senso, la conoscenza si ridurrebbe in-vece a mera credenza, nel senso più deteriore della parola. Di questo Husserl sembra essere assolutamente cosciente, al punto che, proseguen-do con la lettura del § 47 si giunge a un altro Geltungswandel, questa vol-ta relativo non all’errore in senso proprio ma alle rettifiche conoscitive opportune di fronte «al fatto che noi, nella percezione del mondo costan-temente fluente, non siamo isolati, che siamo bensì legati agli altri uomi-ni» (ivi: 190). Questo fatto implica ulteriori revisioni dovute a disaccor-di che portano – o dovrebbero portare – all’accordo intersoggettivo sul mondo e dunque alla sua unità intenzionale in quanto intersoggettiva. In questa situazione Husserl osserva che

nel rilievo della differenza tra ciò che è «originalmente proprio» e ciò che è offerto dall’«empatia» di fronte all’altro nel come dei modi di apparizione, e addirittura della possibilità del disaccordo tra le concezioni proprie e quelle sentite per empatia, ciò che da ognuno è esperito in modo veramente originale, la cosa della percezione, si trasforma in una mera «rappresentazione di»,

327M. Tedeschini - L’indice dell’errore.

nell’«apparizione di» ciò che è obiettivamente essente. Le cose hanno assunto, in base alla sintesi, appunto il nuovo senso di «apparizioni di» e ora valgono appunto come tali. (ivi: 191)

La differenza tra la sfera dell’originariamente proprio e quella dell’em-patia «trasforma in una mera “rappresentazione di”» l’apparizione della cosa stessa, sottraendo per principio l’essere all’apparire e svelando la re-latività a un soggetto di quest’ultimo. Ma in tal modo l’apparire può esse-re riconosciuto come tale e l’essere si svela essere costituito attraverso l’accordo intenzionale tra i soggetti, cioè in «un orizzonte aperto di uomi-ni con cui è possibile incontrarsi e che possono entrare con me, e con gli atri, in una connessione attuale» (ivi: 192).

In questo modo il problema dell’errore acquista un senso e, così, quello della conoscenza: se è vero che il problema di una continua pendenza epi-stemica quanto alla certezza dell’essere non è risolto, ma solo spostato dal piano dell’esperienza soggettiva a quello dell’esperienza intersoggettiva, certo la questione dell’insensatezza dell’errore perde la sua forza, in quan-to l’errore è eo ipso riconoscibile non solo nel commercio di opinioni, ma fin dal momento in cui l’oggetto appare non più come essere, ma come mia rappresentazione, ovvero come soggettivo-relativo. Datosi l’errore, acqui-sta senso anche il problema della conoscenza, dal quale allora dipende la questione della distinzione tra essere e parvenza. Questione il cui unico cri-terio viene a coincidere con quello che decide dell’errore: il disaccordo in-tersoggettivo.

3. L’indice e l’errore

Per molti versi, le conclusioni a cui siamo giunti commentando Husserl sembrano del tutto compatibili con la posizione di Gettier. In fondo, se Smith scopre l’errato oggetto di riferimento della proposizione vera Q’ è o per discordanza nell’ordine dei vissuti, o per l’interazione sociale (e dunque per un intreccio intersoggettivo lato sensu). Tuttavia, Gettier non entra nel merito. Così come non dice nulla sullo stretto legame tra conoscenza ed er-rore – posizione che sembra poter essere condivisa dalla sua prospettiva te-orica. Tutto ciò è dovuto evidentemente al diversissimo approccio metodo-logico alla questione della conoscenza: l’analisi dei suoi componenti effettivi non è infatti assimilabile alla regressione dal fatto al diritto della conoscenza, operazione, questa, che conduce su un piano in cui la cono-scenza fattuale non è ancora data, ma deve essere fondata. In entrambi i casi

328 Errore

si giunge però a una conclusione chiara e, ancora una volta, ovvia: la cono-scenza sbagliata o, peggio, la conoscenza che, in realtà, non è conoscenza è una scoperta sempre successiva. L’errore non può essere anticipato.

L’errore è infatti l’indice, in Husserl, della necessità di una fondazione in-tersoggettiva della conoscenza e, pertanto, è anche l’indice che, entro limiti intersoggettivi, è possibile conoscere. La conoscenza non è dunque un even-to solitario, ma richiede un impegno dialogico continuo: questo è lo spazio della conoscenza, laddove lo spazio dell’errore si situa o a livello stretta-mente soggettivo o al livello della comunità degli uomini (l’errore epocale, p.e.). Ma in questo quadro husserliano vi è un indice per l’errore? La tem-poralità, lo abbiamo visto, è un criterio secondario, derivato. Ancorché ne-cessaria, non è sufficiente a parlare di errore; d’altra parte l’intersoggettivi-tà consente di parlarne perché suppone un’esteriorità non riducibile alla sfera della coscienza singola, ma non tematizza esplicitamente l’errore se non come punto di vista diverso sulla cosa. Ora, questo principio è inservi-bile nell’ipotesi di un testimone unico o di un pensatore isolato o, ancora, della comunità di uomini summenzionata. L’idea dell’errore come disaccor-do presentata da Husserl, consente di fondare la conoscenza (e l’errore me-desimo) e di parlare sensatamente di conoscenza entro ben precisi limiti, ma non di definire un criterio oggettivo per riconoscere e anticipare un errore. Ma questo non è solo un problema della fenomenologia di Husserl. Infatti è l’idea stessa di errore come disaccordo (che, come lo stesso Husserl sa, s’in-cardina nei connettivi logici “se-allora”, premessa/condizione-conseguen-za), che forse limita la definibilità dell’errore e dunque l’individuazione di un criterio adeguato per riconoscerlo. E infatti: come definire l’errore diver-samente? Come anticipare ciò che per definizione segue sempre? Se anche, come abbiamo provato a mostrare, una nozione forte di conoscenza emerge, fenomenologicamente, solo a seguito della scoperta della relatività al sog-getto delle rappresentazioni e dunque è un concetto cooriginario a quello di errore; è pur vero che l’errore s’incardina in qualcosa che lo precede: nell’in-contro con l’altro, che libera dalla dimensione del semplice apparire inge-nuo e acritico, dalla dimensione in cui la coscienza assume tutto ciò che si dà nell’intuizione senza che si sia posta il problema di una critica del senso di ciò che si dà.

Torniamo a Gettier. Il tentativo di individuare, ex ante, le condizioni ne-cessarie e sufficienti perché si dia conoscenza sembra essere un’impresa quanto mai lontana dal giungere a conclusione. Osservato da una prospet-tiva attenta alla questione dell’errore, quest’ultimo diviene però ben più di uno spettro, giacché gli argomenti di Gettier rendono impossibile sapere quando vi sia conoscenza e quando no. Il limite di questa analisi consiste

329M. Tedeschini - L’indice dell’errore.

sostanzialmente nel voler risolvere ciò che per definizione non è esaurito in sé in se stesso: la conoscenza. Stando a Husserl, essa non solo è inaugura-ta in senso proprio come sfera dalla possibilità dell’errore, ma, ancor pri-ma, dall’incontro con l’altro che rende sensato un qualsivoglia discorso sulla conoscenza e sull’errore. Per questo il metodo fenomenologico-tra-scendentale ci sembra meglio attrezzato per affrontare l’impasse, neutraliz-zandola e mostrando attraverso e oltre il limite da essa sanzionato un’altra prospettiva sulla conoscenza.

Bibliografia

BANCALARI, S. 2003 Intersoggettività e mondo della vita. Husserl e il problema della fe-

nomenologia, Padova.

GETTIER E.1963 Is Justified True Belief Knowledge?, «Analysis», 23, 6, pp. 121-123.

HUSSERL E.1959 Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale

Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag, trad. E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendenatale, Milano 1961 (2008).

ICHIKAWA J. J. - STEUP M.2014 The Analysis of Knowledge, in E. N. Zalta (a c. di), The Stanford En-

cyclopedia of Philosophy, http://plato.stanford.edu/archives/spr2014/entries/knowledge-analysis.

ZAGZEBSKI L.1994 The Inescapability of Gettier Problems, «The Philosophical Quarter-

ly», XLIV, 174, pp. 65-73.

331

GLI AUTORI

Alessandro Alfieri è dottore di ricerca in Scienze Filosofiche e Sociali presso l’Università di Roma Tor Vergata e Cultore in Estetica all’ Univer-sità La Sapienza di Roma. Nel 2008 consegue il Master in Critica Giorna-listica istituito dall’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. At-tualmente all’Université Jean Moulin Lyon 3 per una borsa di perfezionamento, è socio ordinario della Società Italiana di Estetica, e ha collaborato e collabora con numerose testate occupandosi prevalentemen-te di cinema, arte e fenomeni sociali. Ha tenuto conferenze in festival e uni-versità italiane e inglesi. Oltre a diversi saggi su riviste specializzate, tra le sue pubblicazioni: Dogville. Della mancata redenzione (Vasto 2008); Vita e tensione dell’immagine. Saggio su Warburg, il cinema e l’arte contempo-ranea (Città di Castello 2010) e Vasco, il Male. Il trionfo della logica dell’identico, con Paolo Talanca (Milano 2012). È membro della redazione di «Aperture», nonché fondatore e direttore del sito «Ipercritica».

Brunella Antomarini è dottore di ricerca in Estetica, presso l’Università Gregoriana di Roma e insegna Estetica e Filosofia contemporanea alla John Cabot University di Roma. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Pen-sare con l’errore (Torino 2008, in corso di pubblicazione la versione in in-glese Thinking through Error, Lexington, MD, USA); L’errore del maestro (Roma 2006); Teatri dell’occhio. L’alternarsi non-lineare delle teorie dei colori, in AA.VV. Connessioni inattese. Crossing tra arte e scienza (Mila-no 2009); The Notion of afterlife in Benjamin’s Philosophy of History. Pro-ceedings of the International Conference at John Cabot University on Crit-ical Theory, (Rome and Delaware 2009); La natura come caso speciale della tecnica, in Il corpo e la tecnica (con B. Antomarini e S. Tagliagambe, Roma 2007); The Acoustical Pre-history of Poetry, «New Literary Histo-ry» XXXV, 3, Summer 2004.

332 Errore

Stefano Bevacqua è giornalista professionista dal 1980. È stato redatto-re presso il quotidiano «La Repubblica», corrispondente da Parigi dell’a-genzia di stampa «Adnkronos» e caposervizio presso il quotidiano «Il Messaggero». Ha compiuto studi presso l’Université Paris I Sorbonne. Presso il Collège de France ha seguito gli insegnamenti e i lavori semina-riali di Roland Barthes (1979-1980) e di Jules Vuillemin (1981-1984). Cul-tore di studi filosofici, si occupa attualmente di strategie di comunicazione in campo energetico e ambientale.

Mattia Della Rocca è dottorando in Filosofia e Storia della Scienza pres-so l’Università di Pisa e membro del Laboratorio di Storia e Filosofia del-la Psicologia e delle Neuroscienze presso l’Università di Roma Tor Verga-ta. I suoi interessi di ricerca sono orientati verso la storia, l’epistemologia e la critica delle scienze della vita, con una particolare attenzione verso i rapporti tra scienze della mente e del cervello e società. Dal 2011 è mem-br o del Centro Interuniversitario di Ricerche Storiche ed Epistemologiche sulle Scienze del Vivente (RES VIVA), e fa parte della redazione di Medici-na & Storia. Collabora come divulgatore scientifico sulle pagine di diversi quotidiani nazionali ed è autore del blog A Mind-Body Problem.org.

Giovanni Dessì è professore associato di Storia del pensiero politico presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Filosofico-Sociali, dei Beni Culturali e del Territorio dell’Università di Roma Tor Vergata. È responsa-bile dei seminari di storia del pensiero politico dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Si è interessato del pensiero politico italiano del Novecento e del pensiero politico del Nord America con particolare attenzione al realismo politico. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Niebuhr, Kennan e il realismo politico nell’America della guerra fredda, in La politica tra storia e diritto (Milano, 2012); Democrazia e opinione pubblica, in Popolo e potere tra storia e politica (Roma 2012); Luigi Sturzo e il Risorgimento, in Pensiero politico e Letteratura del Risorgimento (Soveria Mannelli 2013).

Michele Di Monte è dottore di ricerca in Storia dell’Arte presso l’Uni-versità di Venezia Ca’ Foscari. È vicedirettore della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. Si occupa di storia e teoria dell’arte e di problemi di teoria delle immagini da un punto di vista filoso-fico-cognitivo. Ha recentemente curato i volumi: La storicità dell’occhio di A. Danto (Roma 2007); La svolta iconica di G. Boehm (Roma 2009); La metafisica della bellezza di N. Zangwill (Milano 2011); L’immagine che siamo. Ritratto e soggettività nell’estetica contemporanea (Roma 2014).

333Gli autori

Filippo Fimiani insegna Estetica presso l’Università di Salerno. Visiting Professor e membro di vari centri di ricerca stranieri e italiani (ACTE / Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne-CNRS, CRAL / Ecole d’Hautes Etudes en Sciences Sociales-CNRS, CICADA / Université de Pau et des Pays de l’Adour, CERILAC / Université Paris-Diderot Paris 7, KNOTS / Università di Salerno, PUNCTUM / Università di Bergamo), è nella dire-zione di «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico». Studia i rap-porti tra retoriche e poetiche delle immagini e teorie delle arti; tra i suoi ul-timi lavori, Fantasmi dell’arte. Sei storie con spettatore (Napoli 2012); Fisiognomica del senso. Segni Immagini Discorsi (con Marina De Palo e Antonella Trotta, Napoli 2011); L’esthétique à l’oeuvre: Gérard Genette (con Pierre-Henri Frangne), «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’e-stetico», IV, 1 (2011), e la nuova edizione del Lautréamont di Gaston Ba-chelard (Milano 1989-2009).

Riccardo Finocchi, abilitato come professore di seconda fascia in “Este-tica e Teoria dei Linguaggi”, insegna all’Università LUMSA di Roma e all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale. È autore e curatore di di-versi volumi, tra cui di recente: No reflex. Semiotica ed estetica della foto-grafia digitale, con A. Perri (Graphofeel 2012); la curatela con D. Guasti-no di Parole Chiave della nuova estetica (Roma 2011). Ha pubblicato, inoltre, numerosi contributi su volumi collettanei e riviste specializzate.

Saverio Forestiero è stato ricercatore presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Tor Vergata dove ha insegnato Evoluzione biologica ed Ecologia evolutiva. Attualmente si interessa di storia e didattica della teo-ria dell’Evoluzione e di Niche Construction Theory.

Elio Franzini è professore di Estetica nell’Università degli Studi di Mi-lano. Oltre a molteplici curatele e volumi in collaborazione con altri auto-ri, tra le sue più recenti pubblicazioni: Introduzione all’estetica (Bologna 2012); La rappresentazione dello spazio (Milano 2011); Elogio dell’illumi-nismo (Milano 2009); I simboli e l’invisibile. Figure e forme del pensiero simbolico (Milano 2008); L’altra ragione. Sensibilità, immaginazione e forma artistica (Milano 2007); Verità dell’immagine (Milano 2004).

Sara Fumagalli è dottoranda in Filosofia alla Albert-Ludwigs-Univer-sität di Friburgo (Germania) in cotutela con l’Università degli Studi di Mi-lano. La sua ricerca, che svolge sotto la guida di Hans-Helmuth Gander e Renato Pettoello, intende portare l’attenzione sul metodo fenomenologico

334 Errore

husserliano e sulla messa in discussione dello stesso a cominciare dagli al-lievi di Husserl (Ludwig Landgrebe, Eugen Fink e Jan Patočka) fino ad al-cuni sviluppi più recenti in Italia e in Francia. Scopo dell’indagine è inter-rogarsi sulla possibilità di una lettura inedita della fenomenologia che preveda la ripresa di alcuni concetti propri del pensiero idealistico tedesco. Tra le sue pubblicazioni recenti si ricordano: La galassia emotiva della fe-nomenologia husserliana, «Fenomenologia e società», XXXVII, 1, 2014; Die sinnliche Gewissheit des neuen Realismus, «Meta: Research in Herme-neutics, Phenomenology, and Practical Philosophy» Special Issue/2014; Husserl e la filosofia classica tedesca, «Rivista di storia della filosofia», III, 2013; Husserl - Arbeitstage 2012, «Magazzino di Filosofia», XXI, 7, 2012; I principi della fenomenologia e la dialettica dell’assenza di presup-posti, «www.filosofia.it» 01, 2013.

Gloria Galloni. Laureata in Filosofia presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata (con una tesi di Filosofia della Mente), è dottore di ricer-ca in Psicologia Cognitiva (Sapienza Università di Roma) e dottoranda di ricerca in Scienze Filosofiche e Sociali (Università degli Studi di Roma Tor Vergata). Insegna ‘Filosofia della Scienza’ e ‘Psicologia Generale’ come docente a contratto presso l’Università di Roma Tor Vergata. È membro del Laboratorio di Storia e Filosofia della Psicologia (Università degli Studi di Roma Tor Vergata), del Coordinamento Nazionale di Filosofia della mente e delle Scienze Cognitive, del CODISCO (Coordinamento Nazionale dei Dottorati Italiani in Scienze Cognitive), di Res Viva (Centro Interuniversi-tario di Ricerche Epistemologiche e Storiche sulle Scienze del Vivente) e di Sensibilia - Colloquium on Perception and Experience. Si interessa di questioni storico-epistemologiche riguardanti i modelli della mente. Su queste tematiche ha pubblicato diversi articoli e saggi, nonché curatele di volumi. Si segnalano: Galloni G., Rotili M. (eds.) Sensibilia 4. Il dolore (Milano-Udine 2011); introduzione e cura con C. Morabito della rivista «Teorie & Modelli» dal titolo Muoversi, agire, pensare, conoscere: verso un modello motorio della mente, XIV, 1, 2009; Galloni G. (ed.), Identità e rappresentazione. Scienza cognitiva e teorie della mente (Roma 2006).

Tonino Griffero è professore di Estetica nell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e direttore della collana «Percezioni. Estetica & Feno-menologia» (Marinotti, Milano) e del master in «Comunicazione estetica e museale». È altresì direttore della rivista «Lebenswelt. Aesthetics and phi-losophy of experience» e di «Atmospheric Spaces. Aura Stimmung Am-biance», sito web che aspira a promuovere la riflessione sul concetto di «at-

335Gli autori

mosfera». Tra le sue pubblicazioni più recenti: Quasi-cose. La realtà dei sentimenti (Milano 2013); Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Roma-Bari 2010; tr. Engl. Atmospheres. Aesthetics of Emotional Spaces, Farnham 2014); Storia dell’estetica moderna (Roma 2008); Il corpo spiri-tuale. Ontologie “sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetin-ger (Milano 2006); Immagini attive. Breve storia dell’immaginazione tran-sitiva (Firenze 2003).

Cristiana Lardo è professore associato di Letteratura italiana presso l’U-niversità Tor Vergata. Ha pubblicato monografie e studi sulla letteratura ca-valleresca del Cinquecento, su autori del Novecento (Dino Buzzati, Delio Tessa, Alberto Savinio, Carlo Emilio Gadda, Pier Paolo Pasolini e altri) e sulla letteratura contemporanea.

Jerry Miller è professore associato di filosofia e letteratura comparata presso lo Haverford College in Pennsylvania. Si occupa di etica, poststrut-turalismo e questioni legate al problema della razza. Tra le sue recenti pub-blicazioni ricordiamo: (no relation), «Philosophy and Social Criticism», XXXVIII, 9, 2012, e A Lesson in Moral Spectatorship, «Critical Inquiry», XXXIV, Summer 2008.

Carmela Morabito è docente di Fondamenti di Psicologia e Introduzio-ne alle Scienze del Comportamento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, e Psicologia Generale presso la Fa-coltà di Medicina dell’Università di Roma Tor Vergata. Si occupa da anni di storia e di epistemologia della psicologia e delle neuroscienze cognitive, nonché di filosofia della mente e storia delle scienze medico-biologiche dell’Ottocento. Dal 2008 è vicedirettore del Centro Interuniversitario di Ricerche Storiche ed Epistemologiche sulle Scienze del Vivente (RES VIVA). È rappresentante dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata in ECoNA (Centro Interuniversitario di Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva nei Sistemi Naturali e Artificiali). Ha pubblicato numerosi saggi e volumi su questioni relative allo sviluppo storico dello studio interdisciplinare del-le relazioni mente-corpo, e sistema nervoso-comportamento, tra cui: La cartografia del cervello. Il problema delle localizzazioni cerebrali nell’o-pera di David Ferrier, fra fisiologia, psicologia e filosofia (Milano 1996); Modelli della mente, modelli del cervello (Milano 1998); La metafora nel-le scienze cognitive (Milano 2002); La mente nel cervello. Un’introduzio-ne storica alla neuropsicologia cognitiva (Roma-Bari 2004, V ed. 2008); Introduzione alla storia della psicologia (Roma-Bari 2007).

336 Errore

Giampiero Moretti è ordinario di Estetica presso l’Università di Napoli-Orientale dal 2000. La sua ricerca verte intorno all’asse teorico e storico che collega l’estetica e la poetica dall’età romantica e preromantica al pen-siero di Heidegger e contemporaneo. Dopo aver attivamente partecipato, nella seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, alla cosiddetta My-thos-Debatte, con testi e traduzioni di autori dal tedesco, ha progressiva-mente indirizzato la propria ricerca verso una riflessione sui concetti di Bild e di Stimmung, per saggiarne le valenze estetiche e ontologiche. Il suo testo più noto è Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo (Brescia 2013, 3a ed.), ma vanno ricordati anche Il genio. Origine, storia, destino (Brescia 2011, 2a ed.) e la monografia su Novalis (Torino 1991). Per l’analisi del pensiero di Heidegger e il significato della lettura che questi fornisce di Hoelderlin, proprio in relazione ai concetti di Bild e Stimmung, si vedano: Il poeta ferito. Hoelderlin, Heidegger e la storia dell’essere (Imola 1999) e Per immagini. Esercizi di ermenutica sensibile (Bergamo 2012). Ampio il suo contributo alla conoscenza di autori tede-schi in Italia attraverso traduzioni di testi di Walter F. Otto (Il mito, Legge, archetipo e mito, Gli dèi della Grecia), Novalis (Opera filosofica I), Ba-chofen (Il matriarcato, antologia), Schiller (Poesie filosofiche), Schelling (Le arti figurative e la natura), Klages (La realtà delle immagini), Creuzer (Simbolica e mitologia), Fechner (Nanna o l’anima delle piante; Il libretto della vita dopo la morte) e Guardini in uscita presso Morcelliana (Brescia) la riedizione degli scritti su Hoelderlin.

Silvia Pedone è dottore di ricerca in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e attualmente svolge un secondo dottora-to presso la Sapienza Università di Roma. Nel 2011 è professore a contrat-to in Storia dell’Arte Medievale presso l’Università di Urbino Carlo Bo. Collabora con le cattedre di Storia dell’Arte Bizantina di Sapienza Univer-sità di Roma e di Tor Vergata con cui ha curato il volume Rex Theodericvs. Il Medaglione d’oro di Morro d’Alba (Roma 2008), ed è membro del grup-po, finanziato dal Ministero degli Esteri (PRIN), che lavora in Turchia con una ricerca dal titolo Roman and Byzantine marble sculptures of the Aya-sofya Müzeleri Institution (The Sculptures of the Ayasofya Müzesi in Istan-bul. A Short Guide, 2010). Nel 2013 pubblica insieme a V. Cantone il volu-me Phantazontes. Visioni dell’Arte Bizantina, con prefazione di Herbert L. Kessler (Padova 2013). Da oltre dieci anni lavora presso il MIBAC, svol-gendo la sua attività nella sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma.

337Gli autori

Marta Perrotta è ricercatrice in Cinema Fotografia e Televisione presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre, dove insegna Format e Narrazioni televisive nel corso di laurea magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale. Parallela-mente all’attività di ricerca sui contenuti, i linguaggi e le culture produtti-ve della radio e della televisione, scrive testi per programmi radio e tv. In-sieme a Veronica Innocenti ha curato il volume Factual Reality Makeover. Lo spettacolo della traformazione nella televisione contemporanea (Roma 2013). Ha scritto Il Format Televisivo. Caratteristiche internazionali, usi e abusi (Urbino 2007) e L’Abc del fare radio (Roma 2003), e numerosi con-tributi a volumi collettanei e articoli pubblicati in riviste internazionali («Media», «Culture & Society», «International Journal of Cultural Stu-dies», «The Radio Journal», «Imago»).

Massimo Rosati (1969-2014) è stato uno dei più brillanti sociologi ita-liani ed europei della sua generazione, prima della sua prematura scompar-sa nel gennaio del 2014. Laureatosi con Alessandro Ferrara e addottoratosi con Franco Crespi, è autore di Consenso e razionalità. Riflessioni sulla te-oria dell’agire comunicativo (1994); Il patriottismo italiano (2000); Soli-darietà e sacro (2002). Co-autore con A. Ferrara di Affreschi della moder-nità. Crocevia della teoria sociale (2005) e con W.S.F. Pickering di Suffering and Evil. The Durkheimian Legacy (2008), ha poi pubblicato Ri-tual and the Sacred. A Neo-Durkheimian Analysis of Politics, Religion and the Self (2009) e curato con K.Stöckl Multiple Modernities and Postsecu-lar Societies. Dopo aver insegnato a Perugia e Salerno, Rosati era profes-sore associato di Sociologia generale presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e Direttore del Centro per lo Studio della religione e delle istitu-zioni politiche nella società postsecolare. Nel 2015 è prevista la pubblica-zione postuma, a cura di A. Ferrara, del suo libro The Making of a Postse-cular Society. A Durkheimian Approach to Memory, Pluralism and Religion in Turkey (Farnham, Ashgate).

Martin Seel è professore di Filosofia all’Università Johann Wolfgang Goethe di Frankfurt am Main dal 2004. Dal 1992 al 1995 ha insegnato presso l’università di Hamburg e dal 1995 al 2004 presso l’Università Ju-stus-Liebig di Gießen. Ha pubblicato diversi lavori in filosofia teoretica, pratica ed estetica. Tra questi ricordiamo Ästhetik des Erscheinens (Mün-chen 2000); Sich bestimmen lassen. Studien zur theorethischen und prakti-schen Philosophie (Frankfurt a. M. 2002); Die Macht des Erscheinens, (Frankfurt a. M. 2007) e Die Künste des Kinos (Frankfurt a. M. 2013).

338 Errore

Davide Sisto è assegnista di ricerca in Filosofia Teoretica presso l’Uni-versità di Torino. Nel 2009 ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Verona. È membro del direttivo del Cespec (Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo) di Cuneo e socio ordinario della Socie-tà Italiana di Estetica, della Società Filosofica Italiana e della Internationa-le Schelling Gesellschaft. Caporedattore della redazione torinese della rivi-sta «Estetica. Studi e ricerche» e redattore della rivista «Lessico di Etica Pubblica», collabora con diverse testate filosofiche e musicali italiane. I suoi studi vertono su Schelling e il romanticismo tedesco, sui temi della morte e del rapporto tra naturale e artificiale nel pensiero contemporaneo, sul post-umano, sullo human enhancement e sulla filosofia della medicina in relazione allo sviluppo delle biotecnologie. Oltre a numerosi saggi su ri-viste specializzate, ha pubblicato: Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano (Pisa 2013) e Lo specchio e il talismano. Schelling e la malin-conia della natura (Milano 2009). Ha curato, insieme a Giacomo Pezzano, il volume Immagini, immaginari e politica. Orizzonti simbolici del legame sociale (Pisa 2013).

Marco Tedeschini è dottore di ricerca in Scienze Filosofiche e Sociali presso l’Università di Roma Tor Vergata. Si è occupato della cosiddetta controversia Idealismo-Realismo in fenomenologia, osservata a partire dal pensiero di Adolf Reinach. I suoi interessi riguardano la fenomenologia a tutto tondo e le sue possibili connessioni con l’estetica, in una più ampia ri-flessione sul problema del dato immediato. Da qualche tempo sta lavoran-do sul concetto e sul sentimento del disgusto. Tra le sue pubblicazioni più recenti: On the Good Life of Disgust. L’esthétique du stercoraire and the Postmodern Society, «Lebenswelt. Aesthetics and Philosophy of Experien-ce», III, 2013, pp. 200-225 e La controversia idealismo-realismo (1907-1931). Breve storia concettuale della contesa tra Husserl e gli allievi di Gottinga, «Lexicon Philosophicum», II, 2014, pp. 235-260.


Recommended