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Matricola n. 0000305248
ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SCUOLA DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA
SGRADITI OSPITI. LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA DEI MIGRANTI IN
ITALIA E IN EUROPA.
Tesi di laurea in Diritto Penitenziario
Relatore Presentata da
Chiar.mo Prof. Massimo Pavarini Costanza Chelidonio
Sessione II
Anno Accademico 2012/2013
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SOMMARIO
INTRODUZIONE ...................................................................................................................................................... 3
CAPITOLO 1. ......................................................................................................................................................... 7
DAI C.P.T.A. AI C.I.E. - L'EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA ........................................................................................... 7
1.1. Alle radici del problema: la caotica disciplina dell'immigrazione in Italia .............................................. 7
1.3. Frontiere chiuse e «porte aperte»: il difficile equilibrio delle Legge Martelli. ...................................... 19
1.4. La stagione dei decreti e l'immigrazione come problema politico. ...................................................... 25
1.5. La logica binaria della legge Turco-Napolitano e la nascita dei C.P.T.A. .............................................. 27
1.6. Gli scontenti del Testo unico e le molte facce della legge Bossi-Fini. ................................................... 39
1.7. I dubbi di costituzionalità e gli aggiustamenti della Legge 271/2004. ................................................. 53
CAPITOLO 2. ....................................................................................................................................................... 62
C.I.E., C.A.R.A. C.S.P.A. E C.D.A. – LA DISCIPLINA ATTUALE. .................................................................................... 62
2.1. Emergenze umanitarie, accoglienza, transito: i centri come sistema complesso e la chimera
dell’ospitalità. .............................................................................................................................................. 65
2.2. I Centri di Identificazione ed Espulsione: il presente della detenzione amministrativa in Italia alla luce
della Direttiva Rimpatri. .............................................................................................................................. 72
2.3. «La libertà personale è inviolabile»: l’articolo 13 della Costituzione e la legittimità della detenzione
amministrativa. ........................................................................................................................................... 88
2.4. Non più sine delicto: il reato di immigrazione clandestina. ................................................................ 100
CAPITOLO 3. ..................................................................................................................................................... 119
MODELLI RICORRENTI : LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA TRA RADICI ORDINAMENTALI E PROSPETTIVE EUROPEE. .............. 119
3.1. Tutela ante delictum: le misure di prevenzione personali. ................................................................. 122
3.2. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le ordinanze di necessità ed urgenza dei sindaci. ............... 127
3.3. Fortezza Europa: geografia e disciplina normativa dei campi nei paesi dell’Unione. ........................ 135
3.4. Tra immigration removal e fast-track detainees: la gestione delle migrazioni nel Regno Unito. ...... 145
3.5 . Centri ai confini dell’Africa: Il caso spagnolo ..................................................................................... 152
BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................................................... 164
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INTRODUZIONE
A lungo si è dibattuto, nell’ambito della letteratura giuridica internazionale, sulla terminologia da
utilizzare per definire i centri di detenzione amministrativa dei migranti che a partire dagli anni ’80
del secolo scorso hanno iniziato a costellare il territorio del continente europeo. La creazione di
luoghi predisposti unicamente a trattenere gli immigrati irregolari in funzione della loro espulsione
dal territorio dello Stato è passata a lungo sotto silenzio e i legislatori nazionali hanno fatto la loro
parte nel tentare di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da un fenomeno che non poteva
non presentarsi, già ab origine, come pieno di risvolti inquietanti. I centri per la detenzione
amministrativa sono luoghi in cui si pratica, al pari delle carceri, la privazione della libertà
personale, ma la scelta consapevole di evitare l’utilizzo di termini attinenti all’ambito della
detenzione per identificare i migranti trattenuti si è rivelata estremamente funzionale al progetto di
sterilizzazione della “questione clandestini” e capace di modificare la percezione che di questi
luoghi hanno molti comuni cittadini. Se i centri sono “centri di accoglienza”, non si capisce perché i
migranti che si trovano al loro interno dovrebbero lamentarsi tanto della propria situazione invece di
ringraziare chi ha dato loro un generoso benvenuto nel proprio paese.
Il processo di “addolcimento semantico” non ha lasciato immune nessuno degli Stati del vecchio
continente che sono stati o sono tutt’ora meta di flussi migratori: nel fare riferimento al
trattenimento degli stranieri che non sono in regola con le norme amministrative in materia di
ingresso e soggiorno il lessico burocratico francese evita di utilizzare termini chiari come détention
o garde à vue preferendo l’uso di un termine più neutro come rètention e il legislatore britannico
non fa mai riferimento alla nozione di forced detention, ma a quella, connotata in senso molto meno
negativo, di custody. Le strutture nelle quali gli stranieri che sono stati intercettati alle frontiere
sono trattenuti, in attesa che l’autorità amministrativa decida se accoglierli o respingerli, diventano
semplici zones d’attente o neutri induction centres; i centri di detenzione appositamente creati per i
richiedenti asilo sono accomodation centres; il procedimento di espulsione non viene indicato con il
crudo ed evocativo termine deportation, ma con un ben più asettico removal. Persino il tedesco,
lingua solitamente caratterizzata da una grande precisione semantica, ha considerato troppo crudo
l’utilizzo del concetto “puro” di detenzione e ha scelto di identificare i migranti trattenuti nei centri
di espulsione con l’eufemistica definizione di Personen in Abschiebungshaft (letteralmente
“persone recluse in condizione di essere espulse”).
La scelta delle parole è stata utile alla formazione della communis opinio, ma si è rivelata forse
ancora più utile rispetto al tenatativo di eludere i limiti posti dalle norme costituzionali e dalle
4
convenzioni internazionali ai poteri di coercizione che lo Stato può legittimamente esercitare verso i
propri cittadini e verso quelli dei paesi terzi. I centri sono luoghi chiusi, gestiti dalla polizia di
frontiera o da agenti di pubblica sicurezza ai quali vengono attribuiti ampi poteri discrezionali e gli
stranieri trattenuti al loro interno subiscono inequivocabili limitazioni della libertà personale.
Nonostante questo, gli stati europei hanno fatto leva sulla natura «puramente amministrativa» e non
punitiva della detenzione dei migranti irregolari1, per contrastare l’applicazione delle norme di
diritto sovrannazionale in tema di habeas corpus, come l’art. 9 del Patto Internazionale sui Diritti
Civili e Politici del 1966 o l’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che pure
considera legittima la detenzione dei migranti quando non sia configurabile come illegale o
arbitraria.
Analizzando con maggiore attenzione la normativa italiana non si può evitare di notare come il
legislatore abbia effettuato, forse non del tutto consciamente, una scelta terminologica
estremamente significativa. Nelle leggi, nelle circolari, nei decreti ministeriali e nei capitolati di
gestione, lo straniero trattenuto all’interno dei centri per la detenzione amministrativa viene
costantemente definito con la medesima parola: ospite. Nell’accezione più comune nella nostra
lingua gli ospiti sono coloro che ricevono ospitalità2, le persone che vengono accolte in casa d’altri
in qualità di amici o conoscenti (ma anche come forestieri o estranei) ed è evidentemente questo il
significato che la normativa italiana intendeva utilizzare nel momento in cui ha identificato come
tali i migranti a cui veniva dato alloggio nei primi «Centri di Permanenza Temporanea e
Assistenza» istituiti nel nostro paese sul finire degli anni ’90. Ma l’etimologia del termine ha radici
più antiche, latine: hospes, hospĭtis è un antico composto di due lemmi distinti, hŏstis-pet-s il cui
significato originario è quello di nemico3. Hŏstis è a lungo il termine latino che designa lo
straniero4, contrapposto all’ingenuus, colui che appartiene per nascita, sangue e cultura alla
comunità di riferimento. I linguisti sono concordi nell’attribuire a questa locuzione una provenienza
1 E’ solo degli anni più recenti l’inversione di tendenza che ha visto numerosi stati europei (Francia, Germania, Gran
Bretagna, Svizzera) introdurre ipotesi di reato consistenti nella violazione delle norme amministrative sull’ingresso
e il soggiorno nel territorio nazionale.
2 Questo è sicuramente il significato più diffuso del termine, anche se va segnalato come la parola “ospite” sia
utilizzata anche per designare la persona che offre l’ospitalità, oltre a quella che la riceve. Si tratta dunque di una
locuzione che rientra tra quelle che vengono definite parole enantiosemiche.
3 E’ il primo dei due lemmi a designare propriamente il nemico, mentre il secondo (*pet-s, in seguito pŏtis) sta ad
indicare il potere, la signoria. Il termine latino immediatamente precedente alla forma hospes, hospitis sarebbe
dunque *hostipotis, letteralmente “il signore dello straniero”, ad indicare in primo luogo il padrone di casa, il
soggetto attivo del reciproco rapporto di ospitalità(cfr. la scheda dedicata alla parola ospite, a cura di Angela Frati e
Stefania Iannizzotto in www.accademiadellacrusca.it).
4 Verrà in epoca più tarda sostituito da peregrinus, termine che designa più esattamente colui che sta ai margini della
comunità, che vive ai sui confini.
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indoeuropea e un contenuto valoriale inequivocabile: hŏstis è l'alterità, il forestiero, l’estraneo, il
diverso (e quindi il nemico, ma anche lo strano, lo spaesante) - in una parola tutto ciò che è altro da
noi, anche se con noi viene comunque in rapporto. E’ solo in una fase successiva, quella
testimoniata da Cicerone5, che dalla stessa radice (*ghosti) viene coniato il nuovo termine: hospes,
colui che è a noi estraneo ma con cui si costruiscono relazioni – appunto - di ospitalità, di
accoglienza, colui che scambia il nostro dono con un contro-dono. Lo straniero-ospite diventa per
queste sue caratteristiche degno di rispetto, soggetto da proteggere, addirittura soggetto sacro:
l’infrazione del dovere di ospitare comporta la punizione da parte degli dei. Sottesa a questo
cambiamento di prospettiva si può individuare l’idea che dietro ai panni del viandante, dello
straniero possa nascondersi un Dio, pronto a remunerare con premi o castighi il comportamento
degli uomini nei confronti dell’estraneo incontrato sulla via – comportamento che è considerato
come rivelatore della reale inclinazione dell’uomo in questione. Si tratta di una concezione piuttosto
comune nelle culture pagane - se ne trovano numerose tracce nella mitologi greca come pure in
quella norrena – che non è però estranea neppure ai testi sacri del cristianesimo6. L’ospite
dev’essere innanzitutto accolto, sfamato e ristorato, senza soffermarsi ad indagare sulla sua storia,
sulla sua identità o sulle ragioni della sua venuta – solo dopo aver adempiuto a questi compiti si
potrà farlo7.
Al di là dell’ironia insita nel definire come ospiti una categoria di persone sottoposte nel migliore
dei casi a pesanti limitazioni della libertà personale e nel peggiore a inaccettabili deprivazioni dei
diritti umani, ci sembra importante sottolineare come la legislazione italiana in tema di
immigrazione sembri aver percorso al contrario la lenta evoluzione storica dello straniero da nemico
ad ospite benevolmente accolto. I primissimi centri italiani nascono (ancor prima della legge Turco-
5 Nel Libro primo del De Officiis, scritto nell’anno 44 a.c., troviamo un’affermazione inequivocabile: «hostis enim
apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus» [infatti i nostri antenati chiamavano hostis
quello che noi oggi chiamiamo peregrinus].
6 Solo per fare riferimento all’antico testamento possiamo prendere in considerazione l’episodio di Abramo alle
Querce di Mamre (Genesi 18, 1-5): il patriarca si trova davanti all’ingresso della tenda «nell’ora più calda del
giorno» e vede apparire davanti a sé tre viandanti, che poi si riveleranno essere tre angeli inviati al Signore. Abramo
offre loro riparo, acqua, focacce, latte e panna e «un vitello tenero e buono»: la ricompensa sarà la miracolosa
gravidanza della moglie Sara.
7 In tal senso valgano questi due passi dell’Odissea: quando Ulisse compare sulla spiaggia dell’Isola dei Feaci
Nausicaa così si rivolge alle sue ancelle, spaventate dalla vista dell’uomo nudo : «Fermatevi dove fuggite alla vista
di un uomo? Pensate forse che sia un nemico? (…) Questo è un infelice che arriva qui errante, bisogna averne cura .
Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, ciò che ricevono anche se poco, è gradito». E quando Telemaco giunge
da Nestore Re di Pilo alla ricerca di informazioni sul proprio padre questi gli offre da bere e da mangiare prima di
rivolgergli queste parole «Ora che gli ospiti si sono saziati di cibo, è più opportuno chiedere loro chi sono. Chi siete
dunque, stranieri? Da dove venite, navigando per le vie d’acqua? Avete qualche commercio o senza meta vagate sul
mare come i predoni che vanno, rischiano la vita e a tutti portando rovina?». L'ospitalità, nella sua prima fase, è
dunque garantita senza nessuna condizione: se lo straniero si rivelerà un pirata, un guerriero ostile o comunque un
malintenzionato ci si difenderà solo dopo aver compiuto il proprio dovere di accoglienza.
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Napolitano) come centri di prima accoglienza, con la precisa finalità di fornire una rapida assistenza
materiale a uomini e donne in fuga che riuscivano fortunosamente ad approdare sulle coste del
nostro paese. I centri odierni sono costituiti con un obbiettivo diametralmente diverso: riuscire
espellere dal territorio dello Stato nel modo più rapido possibile i migranti trovati in stato di
irregolarità amministrativa (forse con la segreta speranza che questo sarà sufficiente a far desistere
loro e i loro connazionali dal tentare un nuovo viaggio all’inseguimento del “sogno europeo”).
Quanto alle prospettive future, a ciò che accadrà se non saranno al più presto invertite le linee di
tendenza che hanno caratterizzato l’approccio politico-normativo ai fenomeni migratori negli ultimi
vent’anni, possiamo citare le parole di Primo Levi, scritte più di sessant’anni fa ma mai così attuali:
«A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni
straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione
latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di
pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un
sillogismo, allora, al termine della catena, sta il lager»8.
8 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, ed. 2005, pag. 9.
7
CAPITOLO 1.
DAI C.P.T.A. AI C.I.E. - L'EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA
1.1. Alle radici del problema: la caotica disciplina dell'immigrazione in
Italia
Il sistema di detenzione amministrativa dei migranti in Italia, costruito attorno alle strutture che il
c.d. “pacchetto sicurezza” del 2008 ha denominato Centri di Identificazione ed Espulsione, si
inserisce e trova la propria giustificazione in quella che è la politica normativa di gestione e governo
delle migrazioni. Risulta quindi sicuramente utile, prima di procedere ad un'analisi dettagliata della
legislazione che riguarda i centri detentivi e di accoglienza, analizzare quella che è la disciplina
italiana dell'immigrazione, tentando di evidenziarne le linee evolutive. Si tratta di una normativa
particolarmente complessa: di origine relativamente recente, ha conosciuto molte e rilevanti
modifiche, a breve distanza di tempo le une dalle altre, finendo per risultare sotto alcuni profili
frammentaria e poco coerente. E' noto quanto, negli ultimi anni, la questione relativa alle modalità
di gestione dei flussi migratori nel nostro paese sia stata al centro del dibattito politico. La
“questione immigrati” è stata oggetto di grande attenzione da parte dei mass media e ha spesso
infiammato le aule parlamentari, che hanno visto le forze politiche arroccarsi su posizioni di forte
chiusura o di apertura “senza se e senza ma”. L'esacerbarsi dello scontro ideologico ha avuto come
risultato l'instaurazione di una vera e propria “legislazione emergenziale”, della quale molti giuristi
hanno messo in luce l'inidoneità a governare in modo efficace (oltre che rispettoso dei diritti
fondamentali dell'individuo) il complesso fenomeno dell'immigrazione nel nostro paese1. Da più
parti è stato segnalato come l'aver affrontato in maniera ideologica e, in alcuni casi, approssimativa
le problematiche legate alla presenza crescente di stranieri nel nostro paese abbia comportato il
venire alla luce di disposizioni normative incapaci di aderire alla realtà della dinamica dei flussi
1 Ritroviamo affermazioni critiche rispetto al modus procedendi seguito dal legislatore anche nella dottrina più
risalente (NASCIMBENE 1988, 130 e ss.) ma esse assumono veemenza sempre maggiore quanto più ci si avvicina al
momento attuale, in cui la risoluzione del “problema immigrazione” si accompagna spesso e volentieri nel discorso
pubblico al paradigma della “tolleranza zero” e a generiche invocazioni sicuritarie. Particolarmente incisive a
proposito le parole usate da FORTI (2002, 3), che definisce il metodo legislativo emergenziale come proprio della
«cattiva politica che, priva di una visione meditata e distesa, ansiosa di incamerare facili rendite demoscopiche o
elettorali dal senso di insicurezza diffuso, reagisce con impulsiva immediatezza agli stimoli dell'attualità: al punto di
adottare, anche in materie delicate, scelte legislative frammentarie e di breve respiro, spesso contraddette da
repentini ripensamenti alla luce di un diverso manifestarsi dei dati reali».
8
migratori, che, paradossalmente, hanno finito per incrementare il numero di ingressi illegali nel
territorio italiano2.
Tanto premesso, possiamo ricordare che tutti gli interventi normativi in materia di immigrazione
che si sono succeduti negli anni si sono focalizzati su tre temi principali: la disciplina delle modalità
di ingresso, di soggiorno e di accesso al mondo del lavoro per i cittadini stranieri (con la
fondamentale distinzione tra comunitari ed extracomunitari); la questione dell'asilo e del
trattamento da assicurare ai cittadini stranieri a cui questo viene riconosciuto, con il tentativo di
creare un sistema unitario per l'attribuzione dello status di rifugiato e infine il grande problema della
gestione degli immigrati definiti come “illegali” o “clandestini”, con riferimento sia a coloro che
entrano nel territorio italiano violando le leggi vigenti, sia ai cosiddetti overstayer (cioè gli stranieri
che hanno conosciuto un periodo di soggiorno regolare, allo scadere del quale non hanno però
abbandonato il paese, entrando nella condizione di irregolarità).
Di particolare interesse per il tema qui trattato sono naturalmente le norme che disciplinano
l'immigrazione irregolare e le sue conseguenze sul piano sanzionatorio, ma è doveroso sottolineare
sin d'ora come i tre aspetti sopra indicati siano assolutamente interconnessi tra loro. Gli operatori
sociali che si occupano della tutela dei migranti evidenziano molto spesso come il limite tra
condizione di legalità e illegalità sia per questa categoria di soggetti davvero labile3. Il passaggio
può avvenire nelle due direzioni, da regolare a irregolare o viceversa e in un'ampia percentuale dei
casi dipende da fattori contingenti come i tempi della burocrazia, le dinamiche interne ai nuclei
familiari, le proprie condizioni di salute o quelle dei datori di lavoro (BORGNA 2011, 17-48). Anche
il rapporto con lo status di rifugiato o richiedente asilo è complesso e, nonostante le numerose
convenzioni internazionali a definire il quadro in materia, il grado di tutela per i soggetti che
godono della protezione dello Stato italiano non è uniformemente garantito (sopratutto, come
vedremo, per quei cittadini stranieri che entrano immediatamente in contatto con i C.I.E.)4.
2 Asher Colombo e Giuseppe Sciortino sono tra gli autori che più si sono occupati di analizzare l'impatto delle
politiche legislative degli ultimi decenni sul sistema migratorio italiano, affiancando all'analisi giuridica la ricerca
sociologica e statistica. Ne emerge un quadro che da un lato smentisce l'idea tanto diffusa quanto preconcetta della
«sanatoria permanente» come fenomeno tutto italiano, figlio del carattere ancora recente dell'esperienza migratoria
del nostro paese, dall'altro conferma che per ampie fasce della popolazione immigrata il permanere, per un periodo
più o meno lungo, in uno stato di illegalità è ormai elemento fisiologico. Il mercato del lavoro elude
sistematicamente la normativa che vorrebbe imporre l'incontro dall'estero della domanda e dell'offerta e il lavoratore
straniero arriva in Italia con la consapevolezza che il suo iter verso la legalità passerà attraverso l'ingresso nel
sommerso e attesa della regolarizzazione (BARBAGLI, COLOMBO E SCIORTINO, 2004; COLOMBO E SCIORTINO, 2002).
3 L'essere tale linea di confine tanto esile influenza ovviamente anche la percezione diffusa del migrante come
criminale, come soggetto immerso nel microcosmo dell'illegalità. Per un'analisi molto interessante e puntuale del
rapporto tra condizione di irregolarità amministrativa e devianza negli immigrati vedi MELOSSI (2007, 255 e ss.)
4 Sono emblematici i casi di cronaca che riportano di gruppi di migranti provenienti dalla medesima area e con vissuti
similari che, una volta arrivati fortunosamente in Italia ed aver presentato richiesta d'asilo, subiscono sorti
9
1.2. Quando gli immigrati non esistevano: dalle norme sugli stranieri del
T.u.l.p.s. alla «disciplina per circolari».
Il fenomeno migratorio sembra quasi completamente assente dal panorama normativo italiano fino
alla fine degli anni '80 del secolo scorso. La ragione di questa lacuna legislativa va ricercata
principalmente nell'ambito socio-economico: a differenza di altri paesi europei, per un lungo
periodo di tempo, l'Italia si era caratterizzata come centro di forte emigrazione verso realtà nazionali
più favorevoli dal punto di vista lavorativo5. La svolta in senso contrario avvenne tra gli anni
sessanta e ottanta: la forte crescita economica italiana fece infatti emergere una consistente
domanda di lavoratori, che venne riempita da un flusso sempre crescente di immigrati6. La presenza
di stranieri extracomunitari (soprattutto, in origine, di provenienza nord africana) iniziò ad essere
significativa7 e la reazione dell'opinione pubblica - come pure il dibattito politico e la
rappresentazione del fenomeno nei media - passarono in breve tempo dall'iniziale benevolenza
verso le persone protagoniste di questo nuovo fenomeno ad un vero e proprio terrore dell'invasione
(PUGLIESE 1996, 936-941).
diametralmente opposte. ROVELLI (2006, 103 e ss.) porta ad esempio dell'arbitrarietà del procedimento di
concessione dell'asilo il caso dei trentasette uomini tratti in salvo nel giugno 2004 da una delle navi dell'associazione
umanitaria tedesca Cap Anamur. Nonostante tutti i passeggeri dell'imbarcazione avessero dichiarato di essere
sudanesi in fuga dal grave conflitto del Darfur solo a ventiquattro di loro venne accordata la protezione umanitaria
(dopo un unica audizione della Commissione). Agli altri tredici venne attribuita (quasi ex officio) nazionalità
nigeriana, ma di questi soltanto dieci vennero rimpatriati. Dei due restanti ad uno venne concesso il permesso di
soggiorno per motivi giudiziari per aver accettato di testimoniare nel processo intentato alla Cap Anamur per
favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina, all'altro – rimasto a terra per un disguido in occasione del
volo di rimpatrio- fu attribuito un permesso in attesa di accertare definitivamente la sua nazionalità.
5 La peculiarità della realtà italiana è stata invece la rilevanza dei fenomeni di migrazione interna dal Nord al Sud del
Paese. Per un'interessante approfondimento sul tema, anche in una prospettiva attuale, vedi BERTI e ZANOTELLI
(2008)
6 EINAUDI (2007, 51) approfondisce l'analisi del fenomeno, chiarendo come, nel periodo che qui trattiamo, fossero
venuti ad incrociarsi nella realtà italiana un forte pull factor (fattore di attrazione) proprio del nostro mercato del
lavoro nazionale e un altrettanto consistente push factor (fattore di espulsione) migratorio a livello globale. In quel
torno d'anni il processo di decolonizzazione aveva prodotto una forte spinta a migrare per i cittadini dei paesi in via
di sviluppo e l'Italia offriva numerosi posti di lavoro che, seppur non qualificati, erano in grado di garantire standard
retributivi molto appetibili (e contemporaneamente vantaggiosi per i datori di lavoro).
7 I dati del censimento generale della popolazione effettuato nel 1981 mostravano come, per la prima volta nella storia
dell'Italia Repubblicana, il numero di coloro che emigravano dal nostro Paese fosse inferiore a quello di coloro che
vi immigravano. Si deve però sottolineare che, in questa prima fase, una percentuale significativa delle presenze era
costituita da emigranti di ritorno: dall'analisi del dato disaggregato emerge infatti come le nazionalità allora
prevalenti fossero quelle dei paesi verso i quali tradizionalmente si erano rivolti i flussi migratori dei cittadini
italiani (PUGLIESE 1996, 939).
10
Appare chiaro come gli strumenti normativi presenti in quel momento storico nel nostro
ordinamento risultassero completamente inadeguati ad affrontare efficacemente flussi migratori di
portata sempre più ingente. Le norme di riferimento erano ancora quelle contenute nel Testo Unico
delle Leggi di Pubblica Sicurezza e nel suo regolamento attuativo8: il T.u.l.p.s. conteneva un titolo
V denominato “degli stranieri” e gli articoli in esso presenti (dal 142 al 152) esaurivano l'intera
disciplina legislativa in materia. La questione migratoria era dunque presa in considerazione
esclusivamente sotto il profilo della sicurezza e dell'ordine pubblico9 e alle autorità di P.S. era
lasciato un ampio margine di discrezionalità in relazione all'ammissione e all'espulsione dello
straniero.
La disciplina ruotava attorno all'istituto della “dichiarazione di soggiorno”, che lo straniero era
tenuto a produrre entro tre giorni dal suo ingresso nel territorio dello Stato, presentandosi all'autorità
di pubblica sicurezza del luogo in cui si trovava al fine di «dare contezza di sé» (art.142 comma 1).
Tale dichiarazione doveva essere ripetuta ogni qual volta questi avesse modificato il proprio
comune di residenza e dichiarazioni di contenuto analogo erano considerate come dovute da parte di
chiunque ospitasse uno straniero (anche in ragione di rapporti di parentela) o intendesse cedergli la
proprietà di immobili situati sul territorio italiano o il godimento di essi (art. 147). Adempimenti
ancor più incisivi erano previsti per il caso di assunzione di uno straniero alle dipendenze di un
italiano: in questo caso gli art. 145 e 147 del T.u.l.p.s. prevedevano non solo la dichiarazione alle
autorità di polizia delle generalità dello straniero e delle mansioni a cui sarebbe stato adibito, ma
anche un atto analogo al termine del rapporto di lavoro. Nell'ottica dello stringente controllo che le
autorità statali si attribuivano rispetto ai movimenti e alla stessa presenza fisica dei non cittadini,
tale atto doveva necessariamente essere accompagnato dall'indicazione del luogo verso cui lo
straniero si fosse diretto (o avesse dichiarato di volersi dirigere).
La mancata ottemperanza alle disposizioni qui sopra riportate era motivo autonomo in grado di
determinare l'espulsione10
e l'accompagnamento alla frontiera degli stranieri, secondo le previsioni
8 Si tratta del Regio Decreto 18 giugno 1931, n 733 e del Regio Decreto 6 maggio 1940, n 635.
9 Non era assolutamente preso in considerazione, solo per citare uno degli aspetti che ad oggi ci sembrano più
eclatanti, il tema dell'asilo e dei rifugiati. In realtà è da sottolineare come, nonostante l'art. 10 comma 2 della nostra
Carta costituzionale attribuisca il diritto d'asilo a tutti gli stranieri ai quali sia precluso nel proprio paese d'origine
l'esercizio effettivo delle libertà democratiche, per lunghi anni, il nostro ordinamento non ha conosciuto (e a detta di
numerosa dottrina non conosce ancor oggi) una disciplina organica di questa forma di protezione internazionale e di
quelle ad essa complementari (BENVENUTI 2007, 211 e ss.). Per un'interessante analisi di alcune posizioni dottrinali
tra loro contrastanti in merito al rapporto fra espulsione e diritto d'asilo nella vigenza del T.u.l.p.s. si veda SABATINI
(1971, 543).
10 Ricordiamo che l'espulsione, oggi come nella legislazione più risalente, può configurarsi sia come misura di polizia
sia come misura di sicurezza ordinata dal giudice.
11
del Capo II del Titolo V (“Degli stranieri da espellere e da respingere dal regno”11
). L'espulsione
poteva conseguire (oltre che ad una condanna penale) anche ad un provvedimento ampiamente
discrezionale, di iniziativa del Ministero dell'Interno (art. 150 commi 2) o dei Prefetti delle province
di confine (art. 152 comma 1). La lettera del T.u.l.p.s. individuava la ratio di tali provvedimenti
straordinari in generici «motivi di ordine pubblico»12
, a cui si affiancavano le ragioni di urgenza nel
caso contemplato dall'art. 152. La previsione di cui all'art. 150 comma 4, ai sensi del quale il
decreto espulsivo del Ministero dell'Interno doveva essere adottato «di concerto con il Ministro
degli affari esteri e con l'assenso del Capo del Governo» evidenzia la natura intimamente politica di
questo tipo di atto, che finiva per configurarsi come uno strumento per liberarsi degli “stranieri
indesiderabili”13
.
Completavano il quadro normativo le disposizioni di cui agli artt. 151 comma 2 e 152 comma 3 che
prevedevano sanzioni penali per coloro che una volta espulsi fossero rientrati nel territorio dello
Stato senza un'apposita autorizzazione del ministero dell'interno (arresto da due a sei mesi) e per
coloro che una volta ricevuto il foglio di via dal Prefetto si fossero «allontanati dall'itinerario ad essi
tracciato» (arresto da uno a sei mesi e, una volta scontata la pena, accompagnamento alla frontiera).
Mancavano completamente, nella disciplina del T.u.l.p.s., le garanzie legate al contraddittorio per lo
straniero che si fosse trovato ad essere destinatario di un provvedimento di allontanamento e
l'eventuale ricorso proposto contro l'autorità amministrativa non aveva alcun effetto sospensivo
rispetto all'espulsione.
Appare del tutto evidente come le norme in questione presentassero numerosi punti dei quali
avrebbe potuto essere questionata la compatibilità costituzionale: sotto il profilo delle garanzie
procedurali alle quali abbiamo appena accennato; rispetto al diritto alla difesa di cui all'art. 24, ma
11
Nonostante la titolazione facesse riferimento ad entrambi gli istituti, l'unica scarna disposizione in merito al
respingimento era quella contenuta nell'art. 152 comma 1, che attribuiva ai «Prefetti delle province di confine» il
potere di respingere alla frontiera gli stranieri che non fossero in grado di «dare contezza di sé» o quelli che
risultassero «sprovvisti di mezzi». Si coordinava con questa previsione l'art. 271 del regolamento di pubblica
sicurezza, a norma del quale dovevano essere respinti, in ogni caso, «gli stranieri indigenti» o quelli che
esercitassero «il meretricio o mestieri dissimulanti l'ozio o il vagabondaggio o la questua».
12 I motivi di ordine pubblico in grado di determinare l'espulsione dello straniero erano individuati in «qualsiasi
motivo attinente ad un interesse pubblico, comprendendo la sicurezza pubblica, la pubblica moralità, l'ordinamento
politico dello Stato» (SABATINI 1971, 544).
13 E' evidente come quest'impostazione si ponesse perfettamente in linea con «l'ideologia autoritativa» che aveva
«profondamente pervaso» l'elaborazione normativa nel periodo storico che vide la nascita del T.u.l.p.s.
(SCHWARZENBERG 1977, 192). Il rapporto con gli stranieri del regime fascista riflette la concezione totalitaria dello
Stato ed è figlia di un'interpretazione estremizzata del principio di sovranità. Stupisce piuttosto constatare come
leggi di pubblica sicurezza dalla così netta impronta autoritaria abbiano potuto sopravvivere per decenni, nonostante
la caduta della dittatura e l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, con il suo portato pienamente democratico e
garantista verso i diritti di libertà dell'individuo.
12
prima ancora rispetto agli artt. 2 e 3 della Carta. Nonostante numerose denunce in tal senso fossero
state avanzate dalla dottrina14
e dai giudici di merito, la Corte Costituzionale non aveva però mai
ritenuto di dover censurare le norme contenute nel T.u.l.p.s.. In particolare nella sentenza n. 104 del
26 giugno 1969 la Corte aveva esplicitamente asserito la compatibilità delle disposizioni del Testo
unico concernenti gli stranieri con gli artt. 2, 3 e 10 della Costituzione, giustificando il diverso
trattamento di cittadini italiani e stranieri (a cui pure gli stessi giudici costituzionali avevano
riconosciuto, con la sentenza n. 120 del 23 novembre 1967, l'estensione del principio di uguaglianza
ex art. 3 e quindi della tutela garantita ai diritti inviolabili dell'uomo) con la constatazione
dell'esistenza di «differenze di fatto» tali da incidere sulle modalità di godimento degli stessi diritti
fondamentali15
.
La disciplina normativa in materia di immigrazione in vigore nei primi anni '80 è dunque quella
derivante dalle leggi di pubblica sicurezza: estremamente scarna e gravata da pesanti dubbi di
costituzionalità. A rendere l'intero sistema normativo ancora meno chiaro e maggiormente instabile
era intervenuta la prassi dell'esecutivo di «legiferare per circolari» (NASCIMBENE 1988, 18); prassi
nata con l'intento di colmare le lacune legislative più evidenti ma che aveva finito per creare
notevoli disagi materiali sia per gli operatori del diritto che per gli stranieri, istituendo un regime
complesso e disorganico, basato su una duplice regolarizzazione, con un documento rilasciato dal
Ministero dell'Interno ed un altro dal Ministero del Lavoro. Le criticità di tale regime vengono
14
Già in tempi risalenti BARILE (1953, 51-62) aveva criticato sotto più profili la legislazione italiana riguardante i non-
cittadini, considerandola espressione di una concezione fondamentalmente illiberale dei rapporti tra Stato e straniero
(con parole particolarmente dure riservate a tutti gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che supportavano la
mancata attuazione dell'art. 10 comma 3 Cost.). In anni più vicini a noi una posizione di condanna particolarmente
ferma della disciplina dell'espulsione in via amministrativa prevista dal T.u.l.p.s. è stata presa da SORRENTINO
(1980, 216 e ss.), che ha parlato di «spropositato potere in capo all'autorità di P.S.» e ha ricordato come,
storicamente, l'utilizzo di un concetto normativo elastico come quello di ordine pubblico sia «sempre servito per
giustificare interventi autoritari a discapito dei ceti meno abbienti, voluti quali unici destinatari di previsioni
normative per altro formulate in modo da rendere giustificabile qualsiasi provvedimento particolare».
15 Può essere interessante riportare precisamente l'argomentazione utilizzata dai giudici della Consulta per affermare la
sussistenza delle «differenze di fatto» di cui sopra. La Corte ricorda che «Il cittadino ha nel territorio un suo
domicilio stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di risiedere
ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero può recarsi a
vivere nel territorio del nostro, come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che
è in genere limitato, salvo che egli non ottenga il così detto diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un
soggiorno di durata prolungata o indeterminata; infine il cittadino non può essere allontanato per nessun motivo dal
territorio dello Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi
reati». L'attuale disciplina dell'immigrazione italiana (ma anche quella proveniente dalle fonti comunitarie)
rispecchia, a molti anni di distanza, la medesima impostazione di fondo nel distinguere la condizione dei cittadini
nazionali (e oggi cittadini dell'Unione) da quella dei migranti extracomunitari. Stupisce il permanere di tale
impostazione, nonostante la notevole spinta nella direzione del riconoscimento della piena parità nel godimento dei
diritti fondamentali che avrebbe dovuto essere fornita dalle numerose convenzioni internazionali ed europee in
materia di diritti dell'uomo che sono state sottoscritte nell'arco di tempo che ci separa dalla sentenza della Corte qui
in esame e che non fanno più riferimento alla nozione di cittadino.
13
immediatamente in rilievo: anche volendo tralasciare la sistematica violazione della riserva di legge
di cui all'art. 10 comma 2 Cost., la discrezionalità amministrativa in materia di regolarizzazioni era
diventata esponenziale - con un notevole sacrificio della certezza del diritto - e le procedure facenti
capo alle due amministrazioni erano «in buona parte indipendenti e frequentemente in
contraddizione tra loro»16
(COLOMBO E SCIORTINO 2004, 52).
Per comprendere la complessità del sistema burocratico che si era venuto a creare grazie allo
stratificarsi di questa modalità normativa altamente irrituale possiamo innanzitutto fare riferimento
alla significativa Circolare n. 51/22/IV del 4 dicembre 1963, emanata di concerto dal Ministero del
Lavoro, dell'Interno e degli Affari Esteri ed avente ad oggetto “Norme per l'impiego in Italia dei
lavoratori subordinati”. Vi si introduceva un documento, il permesso di lavoro17
, che veniva a
costituire uno dei requisiti necessari all'ingresso nel territorio italiano e che poteva essere rilasciato
solo nel caso di «indisponibilità di lavoratori nazionali idonei e disposti ad occupare il posto»18
. Il
meccanismo attraverso il quale lo straniero poteva ottenere il permesso di lavoro era quello della
chiamata diretta dall'estero19
: il datore di lavoro doveva inoltrare una richiesta preventiva all'Ufficio
Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione competente per territorio, nella quale
esprimeva la volontà di assumere un determinato lavoratore straniero. L'Ufficio si occupava poi di
accertare se vi fossero lavoratori italiani idonei ed interessati ad occupare il posto e solo all'esito
negativo di questo accertamento conseguiva il rilascio dell'autorizzazione al lavoro. Una volta
ottenuto tale documento, al migrante (che secondo la lettera della norma per tutto questo periodo
16
Addirittura accadeva con una certa frequenza che lo stesso straniero fosse considerato come regolarmente
soggiornante da un Ministero e irregolarmente soggiornante dall'altro.
17 Tale documento va tenuto distinto da quello che era, allora, il permesso di soggiorno, che veniva identificato dalla
“ricevuta” rilasciata dall'autorità di P.S. locale o provinciale nel momento in cui lo straniero si recava presso di essa
a «dar contezza di sé», ai sensi dell'art. 142 T.u.l.p.s.. Il permesso di soggiorno si configurava quindi come un nulla
osta, ma sulla natura giuridica di questo istituto la dottrina e la giurisprudenza non erano concordi. Vi era chi gli
attribuiva valore di mero atto di accertamento negativo mentre altra parte propendeva per considerarlo come un vero
e proprio atto amministrativo di tipo autorizzatorio (e verso questa opinione sembrava propendere il Consiglio di
Stato, che si era pronunciato sulla questione con sentenza n. 208 del 27 febbraio 1952). Per una ricognizione delle
posizioni della dottrina e degli indirizzi giurisprudenziali su questo argomento vedi D'ORAZIO (1992, 387-388).
18 Il principio della “priorità del lavoratore nazionale” si ritrova anche nelle elaborazioni più risalenti del diritto
comunitario (TESAURO 2010, 581): il regolamento CEE 10 agosto 1961 n. 15 autorizzava i cittadini degli Stati
membri delle Comunità ad occupare un posto di lavoro in un altro Stato membro quando tale impiego non poteva
essere svolto da un cittadino nazionale. Nell'ambito della legislazione comunitaria tale impostazione venne però
molto presto superata e già con la Direttiva del Consiglio 68/360/CEE del 15 ottobre 1968 ed il correlato
regolamento n. 1612/68 si poté dire compiutamente attuata la previsione dell'art. 39 del Trattato istitutivo CEE (che
sanciva la libertà di circolazione dei lavoratori all'interno del mercato comune).
19 Si tratta del medesimo meccanismo che sul quale si baserà la Legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. Legge Bossi-Fini),
con la fondamentale differenza che nella disciplina della Circolare del 1963 la chiamata poteva avvenire in
qualunque momento e non era subordinata all'emanazione dell’annuale decreto di regolamentazione dei flussi
migratori.
14
avrebbe dovuto permanere all'estero) poteva essere rilasciato il visto di ingresso che lo autorizzava
a varcare i confini nazionali (a condizione, beninteso, che le autorità di P.S. avessero rilasciato il
proprio nulla osta all'ingresso). Solo una volta esaurito tale iter e giunto sul territorio italiano il
migrante poteva presentare la richiesta di permesso di soggiorno per motivi lavorativi (oltre ad
assolvere l'obbligo di dichiarare la propria presenza sul territorio nazionale – a pena di espulsione-
come previsto dal T.u.l.p.s. ). Ad aggiungersi al carico dei pesanti oneri che gravavano sul
lavoratore straniero, la Circolare in questione prevedeva l'obbligo di ripetere tutti gli adempimenti
appena elencati ogni qual volta lo straniero intendesse cambiare il settore della propria attività
lavorativa.
A completare il quadro della legislazione nel periodo precedente alla prima grande legge organica
in materia di migrazione (la l. 943/1986) dobbiamo segnalare due fenomeni: la tendenza alla
distinzione dello status dello straniero in relazione al tipo di prestazione lavorativa svolta20
e la
posizione altalenante del legislatore, divisa tra il tentativo di aggravare gli adempimenti necessari
per ottenere il permesso di soggiorno e quello di sanare le situazioni di irregolarità preesistenti.
Per quanto riguarda il primo fenomeno si fa riferimento sia alla già citata Circolare n. 51/22/IV del
4 dicembre 1963, che escludeva l'applicazione del proprio contenuto a determinate categorie di
stranieri sulla base di specifici accordi internazionali - creando sostanzialmente categorie di
“stranieri privilegiati” - sia ad altre circolari, emanate nel corso degli anni '70 e destinate a regolare
in particolare il lavoro domestico21
. Per la categoria dei collaboratori domestici veniva prevista una
vera e propria regolarizzazione settoriale e si istituiva un meccanismo preferenziale di chiamata
nominativa, con la possibilità per i datori di lavoro italiani di fare ricorso a liste di stranieri
interessati a svolgere quelle mansioni, depositate presso le autorità consolari. Si evidenzia quindi,
fin da tempi in cui fenomeni come quello del badantato diffuso non avevano ancora la rilevanza che
hanno oggi, una visione del migrante come forza lavoro accettata e benvenuta solo in settori rispetto
ai quali la “concorrenza” italiana era praticamente assente (trattandosi di mansioni considerate
particolarmente umili o faticose).
20
I primi settori economici in cui la presenza dei migranti si era fatta sensibile erano quelli dell'agricoltura, sopratutto
nelle regioni del Sud Italia (dove prevalevano i tunisini e, in un secondo momento, i marocchini) e del lavoro
domestico-familiare (con la sostanziale predominanza di donne provenienti da paesi dell'America latina o dalle
Filippine). La “selezione etnica” dei lavoratori di queste categorie derivava per i nordafricani da ragioni di vicinanza
geografica e per le straniere impiegate nella collaborazione familiare dall'appartenere a paesi in cui la religione
prevalente era quella cattolica (nella maggior parte dei casi venivano infatti reclutate con il tramite delle
organizzazioni ecclesiali) (PUGLIESE 1996, 937-938).
21 Si tratta della Circolare n. 443/215610 del 19 agosto 1972 del Ministero del lavoro, della Circolare n. 37/106/III del
30 dicembre 1972 del Ministero dell'Interno e delle Circolari n. 8026, 140/90/79 e 141/19/80 rispettivamente del 21
maggio 1979, 17 dicembre 1979 e 18 marzo 1980, tutte emanate dal Ministero del Lavoro.
15
Quanto al carattere ondivago del legislatore, a cui si accennava sopra come secondo fenomeno
rilevante nel torno d'anni di cui ci stiamo occupando, il riferimento è alla convulsa situazione
normativa realizzatasi tra il 1975 e il 1982. Nell'ambito di tre brevi legislature si verificò dapprima
un inasprimento delle norme in materia di espulsione, poi una sanatoria parziale, una
contemporanea esclusione di categorie di stranieri da qualunque possibilità di ottenere un permesso
di soggiorno e, infine, un rapido ritorno sui propri passi del legislatore nel tentativo di sanare
evidenti e irragionevoli discriminazioni che le disposizioni precedenti avevano determinato.
La prima norma a venire in rilievo è la legge n 152 del 22 maggio 1975 (c.d. Legge Reale), che pur
non occupandosi direttamente di immigrazione (era infatti intitolata “Disposizioni a tutela
dell'ordine pubblico”) conteneva un art. 25 che introduceva una nuova ipotesi di espulsione per gli
stranieri che non fossero in grado di dimostrare, alla richiesta dell'autorità di P.S. «la sufficienza e la
liceità delle fonti del loro sostentamento in Italia».
Di lì a pochi mesi veniva poi emanata la legge 685 del 22 dicembre 1975, in materia di stupefacenti,
che, ancora una volta, inseriva quasi en passant una disposizione relativa agli stranieri. L’articolo
81 della norma in questione prevedeva infatti un obbligo di espulsione per gli stranieri che avessero
commesso reati in materia di stupefacenti22
; espulsione che avrebbe dovuto essere eseguita
immediatamente nel caso di flagranza di reato oppure al termine dell'espiazione di pena nelle altre
ipotesi di illecito istituite dalla stessa legge. Queste nuove tipologie di allontanamento coatto
obbligatorio dello straniero dal territorio nazionale venivano dunque a sommarsi a quelle facoltative
previste dal Capo II, Titolo V del T.u.l.p.s.23
.
Avendo però constatato che nonostante l’inasprimento delle sanzioni il fenomeno migratorio
andava aumentando esponenzialmente e che la politica del “pugno di ferro” in materia di espulsioni,
affermata sulla carta, era ineffettiva nella realtà dell'attività di polizia (con un numero sempre
crescente di stranieri che eludeva i controlli entrando in Italia con visti turistici per poi non
allontanarsi dal territorio alla loro scadenza), l'esecutivo cercò di correre ai ripari con alcuni
provvedimenti di compromesso, i cui risultati furono però alquanto deludenti. Nel 1982 il Ministero
22
Art. 81, comma 3 «Se ricorre lo stato di flagranza di cui all'Articolo 382 del codice di procedura penale in
riferimento ai delitti previsti dai commi 1, 2 e 5 dell'Articolo 71, il Prefetto dispone l'espulsione immediata e
l'accompagnamento alla frontiera dello straniero, previo nulla osta dell'autorità giudiziaria procedente». Il
riferimento è ad una corposa serie di fattispecie di reato, tra le quali la fabbricazione, la vendita o l'offerta, la
distribuzione, l'acquisto e la detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope
23 Art. 81, comma 1 «Lo straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 71, 71-bis, 73 e 76, commi 2 e 3, a
pena espiata deve essere espulso dallo Stato». Si tratta qui degli stessi reati ai quali si è fatto riferimento nella nota
23, ai quali vanno aggiunti quelli di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti o di sostanze psicotrope quelli
di agevolazione dolosa dell'uso di tali sostanze (tramite la messa a disposizione di locali privati o aperti al pubblico
per l'uso di tali sostanze) e il reato di induzione nei confronti di soggetti di minore età.
16
del Lavoro emanava dunque una serie di circolari24
che ponevano in essere una sanatoria rispetto ai
lavoratori stranieri entrati nel nostro paese entro il 31 dicembre 1981 ma che escludevano
contemporaneamente qualunque possibilità di regolarizzazione per coloro che fossero giunti in
Italia dopo tale data per motivi diversi dal lavoro subordinato (escluso il caso dei lavoratori
frontalieri). Venivano inoltre irrigidite le previsioni riguardanti gli adempimenti necessari per
ottenere le autorizzazioni all'ingresso, imponendo la presentazione di un certificato di sana e robusta
costituzione del lavoratore e il rilascio di un deposito cauzionale da parte del datore di lavoro,
corrispondente al costo del biglietto aereo di ritorno dello straniero nello Stato di provenienza.
L'evidente discriminatorietà di tali norme e il dibattito molto acceso che ne seguì costrinsero il
Ministero ad emanare una successiva circolare25
, a distanza di pochi mesi, che ridimensionava le
disposizioni precedenti, rendendo di fatto destinatari della sanatoria tutti gli stranieri comunque
presenti sul territorio nazionale. Tale circolare non venne però condivisa dal Ministero dell'Interno,
che si rifiutò di recepirla nella sua interezza, ribadendo l'esclusione dalla possibilità di regolarizzarsi
per coloro che fossero in Italia a titolo di studio o formazione professionale (ricalcando quindi le
categorizzazioni previste dalla prima circolare del 1982). Ne derivò un'intollerabile impasse di
natura amministrativa di cui fecero le spese non solo i lavoratori migranti, ma anche i datori di
lavoro (cui spettava fare richiesta di regolarizzazione), per i quali, paradossalmente le circolari non
avevano previsto alcuna limitazione di responsabilità rispetto ai reati penali commessi avendo
assunto degli stranieri in modo irregolare. Se a questo aggiungiamo che il datore di lavoro che
avesse voluto far emergere il proprio dipendente dalla condizione di irregolarità incorreva
automaticamente in sanzioni di natura previdenziale, si comprende il completo fallimento della
sanatoria, che comportò la regolarizzazione di un numero di persone veramente esiguo.
1.3. La svolta degli anni ottanta e i primi interventi normativi: la legge
943/1986
In questa caotica situazione normativo - amministrativa intervenne finalmente la legge 30 dicembre
1986, n. 943, la prima norma nel nostro ordinamento a disciplinare in modo mirato - e con
24
Si tratta delle Circolari 14194/IR/A del 2 marzo 1982, 14677/IR/A del 14 maggio 1982, 14995/IR/A del 2
agosto1982. Dall'analisi complessiva di questi testi emerge un approccio della P.A. al fenomeno migratorio che è
stato correttamente definito di «sanatoria selvaggia» (ZORZELLA 1988, 1099), basato unicamente sulle esigenze
contingenti di manodopera (nella maggior parte dei casi non qualificata) nel paese.
25 Circolare Ministero del Lavoro n. 15106/IR/A del 9 settembre 1982.
17
ambizioni di organicità - la tematica dell'immigrazione, seppur limitatamente all'ambito del lavoro.
La legge, recante “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari
immigrati e contro le immigrazioni clandestine” trasponeva i principi sanciti dalla Convenzione n.
143/1975 OIL, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con legge 10 aprile 1981, n. 158. Il recepimento
della Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro fu in qualche modo strumentale al
superamento delle posizioni antitetiche che in quel periodo caratterizzavano il dibattito politico, con
le forze parlamentari (e l'opinione pubblica) nettamente divise tra coloro che propugnavano una
politica delle “porte aperte” e coloro che invocavano invece un ulteriore “giro di vite”
nell'approccio al fenomeno migratorio, con un'accentuazione dei controlli e delle restrizioni
all'entrata. La polarizzazione delle opinioni (e in particolare l'opposizione della Chiesa cattolica e di
porzioni della società civile a testi legislativi considerati lesivi dei diritti degli immigrati) aveva
portato ad una vera e propria situazione di stallo: il riferimento ad una normativa sovranazionale
costituì una soluzione di compromesso accettabile per tutte le parti (GASPARINI CASARI 2010, 112).
La legge 943/1986 rappresentò sicuramente un'evoluzione positiva della normativa italiana in
materia di immigrazione, soprattutto perché conteneva l'affermazione del principio della piena
parità di diritti tra i lavoratori italiani e quelli extracomunitari26
, a cominciare dall'eguale
trattamento salariale e tentava per la prima volta di disciplinare la condizione dello straniero anche
sotto altri profili, delineando dei percorsi di inserimento nella società italiana dell'immigrato
regolare27
. D'altra parte la norma scontava diversi limiti, primo fra tutti il suo essere ancora una
volta particolarmente scarna (solo 19 articoli) e in secondo luogo la marcata settorialità: tutte le
26
In particolare l'art. 1 della legge così recitava: «La Repubblica italiana [...], garantisce a tutti i lavoratori
extracomunitari legalmente residenti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza
di diritti rispetto ai lavoratori italiani. La Repubblica italiana garantisce inoltre i diritti relativi all'uso dei servizi
sociali e sanitari,[...]al mantenimento dell'identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell'abitazione,
nell'ambito delle norme che ne disciplinano l'esercizio». La Corte Costituzionale aveva già trattato la questione della
parità di diritti dei lavoratori stranieri nella sentenza n. 144 del 17 luglio 1970, in cui i giudici avevano riaffermato
«l'eguaglianza dello straniero rispetto al cittadino nella sfera dei diritti fondamentali» precisando però che non era
assolutamente escluso che «nelle situazioni concrete, non possano presentarsi fra i soggetti differenze di fatto che il
legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità
del suo apprezzamento». Secondo l'interpretazione della Corte era dunque lecito che anche nell'ambito lavorativo vi
fossero delle differenziazioni tra stranieri e italiani, ma solo se queste riguardavano la speciale vigilanza che le
autorità di P.S. erano tenute a operare sui primi in relazione alle «differenze sostanziali» che li caratterizzavano
rispetto ai secondi sulla base delle disposizioni legislative di attuazione dell'art. 4 Cost. La sentenza affermava in
questo modo la costituzionalità dell'art. 145 del T.u.l.p.s. ma rimane da chiedersi se, sulla scorta di questa
interpretazione, fossero costituzionali le stesse disposizioni della legge n. 943/1986 che imponevano limitazioni
particolari agli stranieri nelle modalità di accesso al mondo del lavoro, oltrepassando così le limitazioni imposte
dalle esigenze di pubblica sicurezza (da identificarsi nelle norme che disciplinavano le modalità di ingresso e
soggiorno sul territorio italiano)
27 Si tratta infatti del primo testo normativo a prendere in considerazione anche le famiglie dei lavoratori stranieri,
riconoscendo loro il diritto al ricongiungimento familiare e disciplinando le procedure per ottenerlo (cfr. artt. 1 e 4
della legge).
18
garanzie previste dalla legge erano vincolate al possesso da parte dello straniero della qualifica di
lavoratore dipendente, lasciando privi di tutela tutti coloro che si fossero trovati nel nostro paese per
motivi diversi28
o che pur avendo svolto un'attività lavorativa in passato avessero perso il loro
impiego. Inoltre la legge 943/1986 non si poneva in contrasto con a disciplina del T.u.l.p.s., che
restava ancora vigente, con il risultato che anche la regolamentazione del mercato del lavoro veniva
portata avanti nell'ottica della risoluzione di un problema di ordine pubblico (significativamente,
non furono apportati cambiamenti alla disciplina delle espulsioni, se non introducendo un obbligo
contributivo per le «spese di rimpatrio» a carico degli stranieri stessi, della cui compatibilità con la
stessa convenzione OIL era lecito dubitare29
).
Quanto al contenuto più prettamente amministrativo della norma essa manteneva in vita il principio
della prelazione del lavoratore nazionale (l'accesso ad un impiego continuava ad essere subordinato
all'indisponibilità dei lavoratori italiani ad occupare tale posto di lavoro) e prevedeva che gli
stranieri venissero inseriti in liste speciali di collocamento. La programmazione dell'occupazione
veniva attuata tramite specifici decreti ministeriali e il documento necessario per poter esercitare
attività lavorativa subordinata sul territorio italiano rimaneva l'autorizzazione al lavoro rilasciata
dagli Uffici Provinciali del Lavoro, di durata biennale30
.
Infine la legge 943/1986 conteneva una sanatoria rivolta ai migranti irregolari presenti nel paese alla
data della sua entrata in vigore: si dava in tal modo inizio alla prassi secondo la quale ad ogni legge
di riforma della disciplina dell'immigrazione regolare si accompagnava un provvedimento di
regolarizzazione degli stranieri clandestini. Qui il legislatore mostrò di aver fatto tesoro
dell'esperienza dei tentativi (fallimentari) di sanatoria compiuti negli anni precedenti: allo straniero
che avesse voluto regolarizzare la propria posizione lavorativa veniva data la possibilità di farlo in
autonomia, senza dipendere dall'iniziativa del datore di lavoro, e contemporaneamente gli si
permetteva di sanare l'irregolarità del proprio precedente soggiorno, senza incorrere nelle sanzioni
28
Mancava anche qui una disciplina a tutela dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ma rimanevano escluse anche altre
macrocategorie, in primis quella dei lavoratori autonomi.
29 Nell'introdurre tale onere l'art. 13 della legge 943 utilizzava incorrettamente il termine “rimpatrio”, ma era facile
dedurre che il legislatore si fosse riferito alle ipotesi di espulsione: questo contrastava apertamente con quanto
previsto dal terzo paragrafo dell'art. 9 della Convenzione ai sensi del quale le spese relative all'espulsione non
avrebbero in alcun caso dovuto essere a carico del lavoratore espulso o della sua famiglia. NASCIMBENE (1988, 39-
40) sottolineava come l'aver predisposto un contributo gravante su tutti i lavoratori a favore di coloro che non
fossero in grado di sostenere le spese di espulsione costituisse a tutti gli effetti una violazione della Convenzione
OIL. Una piena attuazione dell'art. 9, suggeriva allora l'autore, avrebbe potuto essere data ponendo tali spese a
carico del datore di lavoro o dello Stato (con possibilità di rivelarsi poi sulle autorità del paese di appartenenza
dell'espulso).
30 Va sottolineato che, per quel biennio, il lavoratore straniero era vincolato all'esercizio dell'attività lavorativa per cui
aveva ricevuto l'autorizzazione. Solo allo scadere dei due anni gli veniva permesso di scegliere una diversa attività
lavorativa, non vincolata ad autorizzazione, e di iscriversi alle liste di collocamento comuni (CUNIBERTI 1997, 348
e ss.)
19
penali previste dal T.u.l.p.s.. Nonostante la più corretta impostazione, la norma non ottenne gli
effetti sperati: secondo i dati del Ministero dell'Interno nel 1986 vennero accolte circa 105.000
domande di regolarizzazione (a fronte di una presenza stimata di lavoratori extracomunitari
clandestini che si avvicinava al milione). ZORZELLA (1988, 1104) rintraccia le ragioni di questo
insuccesso nel blocco operato dalle autorità di P.S. incaricate di rilasciare i permessi di soggiorno
nell'ultima parte dell'iter di regolarizzazione. Mancando una previsione normativa specifica in
merito alle modalità con cui gli stranieri potevano fornire la prova del loro ingresso in Italia in un
momento anteriore a quello dell'entrata in vigore della legge 943/1986 le singole Questure finirono
per operare con ampia discrezionalità, scremando fortemente il numero delle domande ricevute.
L'intervento del legislatore a risoluzione di tale situazione31
fu ancora più deleterio perché fece
riferimento, come unico mezzo di prova valido, al timbro risultante dal passaporto, limitando di
fatto la sanatoria ai soli overstayer e per di più appartenenti a Paesi per i cui cittadini fosse
obbligatorio il visto d'ingresso per turismo. Ulteriori ostacoli all'efficacia del provvedimento di
regolarizzazione possono essere identificati nel fatto di aver avuto come destinatari i soli lavoratori
dipendenti e nella mancanza di incentivi di tipo fiscale per i datori di lavoro, nonché probabilmente
nel non aver “tarato” sufficientemente la sanatoria sulle specificità dell'effettiva realtà migratoria
italiana e nel non avere quindi tenuto conto del «carattere di provvisorietà e di occasionalità di
buona parte dell'immigrazione extracomunitaria dell'epoca, legata a lavoro a carattere stagionale»
(GASPARINI CASARI 2010, 113).
1.3. Frontiere chiuse e «porte aperte»: il difficile equilibrio delle Legge
Martelli.
Il risultato solo parziale di questo primo intervento normativo, il permanere di numerose lacune
legislative e, sopratutto, il prepotente venire alla ribalta della “questione stranieri”, legato
all'aumento dell'entità dei flussi migratori come ai sempre più frequenti episodi di conflittualità tra
migranti e cittadini italiani32
fecero in modo che, a pochi anni di distanza dall'entrata in vigore della
31
D. l. 27 aprile 1987, n. 154, d.l. 27 giugno 1987, n. 242, d.l. 28 agosto 1987, n. 353.
32 In questo periodo i media italiani rivolgevano la propria attenzione in maniera sicuramente maggiore sui casi di
cronaca nera che vedevano protagonisti immigrati extracomunitari che sul fenomeno migratorio nella sua
complessità e sulle problematiche sociali ad esso connesse. Concertarsi sulle vicende criminali significava al tempo
stesso dar conto dell'accresciuto allarme sociale degli italiani nei confronti degli stranieri e contribuire ad
alimentarlo; paradossalmente però quest’attenzione mediatica contribuì a far emergere una consapevolezza diffusa
della difficile situazione che molti lavoratori migranti si trovavano ad affrontare al momento del loro arrivo nel
nostro paese. Fu emblematico il caso di Jerry Masslo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno (CE) il 24
agosto del 1989 per aver tentato di far resistenza contro un gruppo di balordi che aveva fatto irruzione nella baracca
20
legge n. 943 del 1986, l'esigenza di una nuova riforma fosse percepita come pressante. Un ulteriore
e più incisivo intervento in materia di immigrazione era inoltre reso necessario dall'esigenza di
rispondere agli impulsi provenienti dall'ambito comunitario: i negoziati per l'adesione dell'Italia
all'accordo di Schengen prevedevano infatti un adeguamento della disciplina nazionale a quella
degli altri paesi europei firmatari33
e questo significava, in particolare, modificare la normativa
riguardante l'attraversamento delle frontiere.
Trascorso dunque poco più di un anno dalla scadenza dell'ultima proroga della precedente sanatoria,
venne quindi approvata la legge 28 febbraio 1990, n 39 (cosiddetta Legge Martelli) che convertiva,
con alcune modificazioni, il decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416, recante “Norme urgenti in
materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione
dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato” nonché generiche
“Disposizioni in materia di asilo”.
Uno degli aspetti sui quali la Legge Martelli intervenne in modo significativo fu la disciplina delle
modalità di ingresso nel territorio italiano e del respingimento alla frontiera. Non solo vennero
finalmente abolite molte delle obsolete previsioni contenute nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza34
; a cambiare in modo sostanziale rispetto alla normativa precedente fu proprio la
prospettiva con la quale il legislatore scelse di affrontare la gestione del fenomeno migratorio. Alla
disciplina “situazionale” che aveva caratterizzato la legge 943/1986 (nella quale l'ingresso veniva
accordato sostanzialmente caso per caso, in ragione delle esigenze occupazionali contingenti) si
sostituiva una programmazione dei flussi fatta attraverso un decreto interministeriale annuale
(adottato di concerto dal Ministero degli Affari Esteri, dell'Interno, del Bilancio e del Lavoro), che
doveva indicare l'ammontare massimo degli ingressi consentiti, per motivi di lavoro35
.Il c.d.
dove dormiva, alla ricerca di un colpo facile ai danni degli stagionali africani «perché quei fessi non ti possono
neanche denunciare». L'omicidio Masslo suscitò una reazione molto forte nell'opinione pubblica e in tutto il paese vi
furono numerose manifestazioni antirazziste. E' interessante notare che ai funerali di Stato che vennero tributati al
sudafricano partecipò proprio il Vice Presidente del Consiglio Claudio Martelli, che di lì a poco avrebbe dato il
proprio nome alla legge sull'immigrazione di cui tratta questo paragrafo (SOLINO 2011, 9).
33 L'Italia entrerà nell'area Schengen il 27 novembre 1990, proprio dopo l'adozione della Legge Martelli (anche se per
il nostro paese l'accordo entrerà in vigore solo il 26 ottobre 1997). Una delle condizioni dirimenti che consentirono
l'adesione del nostro paese agli accordi fu l'abolizione della c.d. “riserva geografica” per i richiedenti asilo non
europei, cioè l'estensione a questi soggetti dello status di rifugiato come disciplinato dalla Convenzione di Ginevra
del 28 luglio 1951.
34 Tra quelle rimaste in vigore si segnalava l'art. 151, che puniva con l'arresto da due a sei mesi lo straniero che fosse
rientrato sul territorio italiano dopo essere stato sottoposto a provvedimento di espulsione. Per un'accurata analisi del
rapporto tra L. 39/1990 e le disposizioni ancora vigenti del T.u.l.p.s si veda il Commento di M. Meneghello e S.
Riondato all'art. 4 di tale legge in NASCIMBENE (1997, 227)
35 Nel determinare il numero degli ingressi, secondo quanto previsto dall'art. 2 comma 4 della legge, il Governo
doveva tenere conto delle esigenze dell'economia nazionale, dell'effettiva disponibilità finanziaria del Paese e dello
stato delle sue strutture amministrative di accoglienza, del numero di richieste di permessi di soggiorno già avanzate
21
“decreto flussi” si presentava in tal modo come un efficace strumento di pianificazione migratoria36
oltre a rappresentare un valido strumento di controllo degli ingressi e, potenzialmente, un solido
argine al fenomeno degli overstayer.
In ossequio al disegno generale degli accordi di Schengen, la legge Martelli impostò i controlli alle
frontiere in maniera molto più rigorosa: vennero introdotti numerosi obblighi, tra cui quello di
dichiarare i motivi dell'ingresso (turismo, studio, lavoro subordinato, lavoro autonomo, cura,
famiglia, culto), quello di apporre sul passaporto il timbro e la data di ingresso in Italia, nonché
quello, gravante sulle autorità di Polizia, di effettuare controlli sulle qualità personali di ogni
straniero, al fine di accertarsi che questi disponesse degli adeguati mezzi di sostentamento (e che
non dovesse essere considerato come soggetto pericoloso).
Quanto all'istituto dell'espulsione, la legge n. 39/1990 abrogava, come si è accennato, le varie
ipotesi di allontanamento coatto previste dal T.u.l.p.s. e le sostituiva con un'unica forma di
espulsione, disposta dal Prefetto (pur rimanendo in vigore una competenza eccezionale del Ministro
dell'Interno, per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato). Permaneva l'ambiguità di
fondo di un istituto riconducibile sia alla categoria delle misure di sicurezza personali che a quella
delle misure di polizia37
, ma è da sottolineare come questo intervento normativo abbia rappresentato
un notevole progresso rispetto alla disciplina precedente, sotto il profilo delle garanzie procedurali e
processualistiche predisposte a tutela del migrante. In primo luogo, ai sensi dell'art. 5, il
provvedimento espulsivo doveva essere adottato nella forma del decreto motivato, reso conoscibile
allo straniero tramite la sua comunicazione e notificazione in una lingua a lui nota (o in una lingua
veicolare a scelta tra francese, inglese e spagnolo). Quanto poi alle modalità con le quali
da cittadini stranieri già presenti sul territorio nazionale e «dello stato delle relazioni e degli obblighi internazionali,
nonché della concentrazione in sede comunitaria».
36 Ancora oggi i tali decreti programmatici sono alla base della normativa italiana – e di molti paesi europei - in
materia di immigrazione. L'efficacia del sistema delle quote di garantire la gestione effettiva dei flussi migratori
legali è stata però messa in discussione da diversi autori, soprattutto quando ad esso si accompagna il meccanismo
della chiamata diretta nominativa dai lavoratori dall'estero. Particolarmente interessante è l'analisi di BORGNA (2011,
89 e ss) che, partendo dalla sua esperienza pluriennale di magistrato, non si limita a sottolineare «la fondamentale
ipocrisia» del sistema dei «flussi predefiniti» ma immagina anche delle soluzioni alternative, in grado di garantire un
più ampio e sicuro accesso degli stranieri al mercato del lavoro italiano e al tempo stesso arginare le sacche - anche
consistenti - di criminalità dei migranti di cui non si può non riconoscere l'esistenza.
37 Il numero dei reati che potevano avere come conseguenza l'espulsione come misura di sicurezza venne ampliato,
facendo riferimento a tutte le ipotesi di condanna relative a reati per i quali il Codice prevedesse l'arresto
obbligatorio in flagranza (art. 7). Potevano invece condurre all'espulsione come misura di polizia le violazioni,
definite come «gravi», di norme piuttosto eterogenee tra loro, nell'intento del legislatore caratterizzate dall'idoneità a
suscitare particolare allarme sociale : disposizioni fiscali, norme a tutela del patrimonio artistico, norme in materia di
intermediazione di manodopera, reati contro la libertà sessuale. Veniva ovviamente confermata l'espulsione come
conseguenza della violazione di tutte le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, da applicarsi -
come è stato correttamente notato - «indipendentemente da qualsiasi valutazione sulla gravità della condotta»
(CAPUTO E FIDELBO 2012, 15).
22
l'espulsione poteva essere eseguita, nell'ipotesi ordinaria il Prefetto si doveva limitare ad intimare
allo straniero di lasciare il territorio italiano entro quindici giorni, facendo affidamento
sull’autonoma ottemperanza di quest’ultimo; l'accompagnamento coatto si configurava come ipotesi
del tutto residuale, da porre in essere solo nei casi particolari rappresentati delle espulsioni disposte
dal Ministero. Infine la nuova norma assicurava che sul provvedimento di espulsione potesse essere
effettuato il vaglio dell'autorità giudiziaria, tramite l'impugnazione davanti al T.A.R. competente per
territorio, resa poi particolarmente efficace dalla possibilità di chiedere la sospensiva del decreto
prefettizio in via cautelare.
E’ poi necessario far cenno alla riorganizzazione della normativa in materia di soggiorno, come
pure alla nuova disciplina dell'asilo (rectius: della condizione di rifugiato) da ricondursi al nuovo
testo legislativo. Per quanto riguarda il primo aspetto possiamo ricordare la semplificazione dell'iter
burocratico necessario ad ottenere un valido documento di soggiorno per i migranti, ma è
soprattutto da segnalare l'introduzione di due tipologie di permesso, uno turistico di breve durata
(tre mesi) e uno per lavoro di durata massima pari a due anni. Questa seconda tipologia, in
particolare, conferiva il diritto38
ad essere iscritti all'anagrafe nel comune di residenza e al rilascio di
una carta di identità (art. 6).
In merito al secondo aspetto, oltre alla già accennata abolizione della c.d. “riserva geografica” (v.
nota 33), la Legge Martelli introdusse un preciso procedimento per il riconoscimento dello status di
rifugiato: la competenza a svolgere l'attività istruttoria veniva attribuita alla Questura competente
per territorio, mentre la decisione finale sull'istanza doveva essere presa da una Commissione
centrale, che era tenuta a sentire personalmente il richiedente. Vennero esplicitati i casi in cui non
poteva essere concesso l'ingresso nel nostro territorio al fine di inoltrare la richiesta d’asilo (in
particolare, ai sensi dell'art. 2 comma 4, era considerato ostativo l'essere stato condannato in Italia
per reati di associazione a delinquere e per i reati di cui all'art. 380 comma 1 e 2 c.p.p.) ed era
prevista la possibilità di ricorso giurisdizionale contro i respingimenti alla frontiera avvenuti sulla
38
Va sottolineato che il comma 1 dell'art. 6 attribuiva allo straniero il diritto all'iscrizione anagrafica «secondo le
norme in vigore per i cittadini italiani», quindi senza ulteriori presupposti e restrizioni. Questa disposizione si
poneva in contrasto con il (recentissimo) regolamento anagrafico della popolazione residente (d.p.r. 30 maggio
1989, n. 223), che all'art. 14 aveva invece imposto agli stranieri che avessero voluto ottenere l'iscrizione a registro di
produrre un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno o di provare la propria iscrizione da almeno
un anno nello “schedario della popolazione temporanea”. L'art. 6 della legge Martelli rappresentava quindi
un'evidente evoluzione normativa, potenzialmente in grado di dare un deciso contributo all'integrazione degli
stranieri nelle comunità locali, a partire dai primi momenti dell'avvenuta immigrazione. A “disinnescare”
parzialmente la portata dirompente di questa disposizione intervennero alcune circolari del Ministero dell'Interno -
Servizio enti locali (la più significativa fu la n. 13 del 26 marzo 1991) nelle quali si stabiliva che il permesso di
soggiorno di breve durata non poteva essere considerato presupposto sufficiente per l'iscrizione anagrafica e si
attribuiva ai funzionari il potere di prendere in considerazione come elemento discriminante la durata del permesso
di soggiorno.
23
base di tale presupposto di pericolosità (art. 2 comma 6). Il punto debole della disciplina dell'asilo
disegnata dalla nuova legge rimaneva quello del trattamento da garantire ai migranti una volta
presentata la richiesta di protezione internazionale: lo Stato italiano assicurava loro soltanto un
contributo giornaliero di 25.000 lire per 45 giorni, un arco di tempo troppo breve, che non copriva
neppure i tempi d'attesa necessari alla definizione dello status giuridico del migrante.
Anche la legge 39/1990, come la 943/1986, conteneva una sanatoria degli immigrati irregolari
presenti nel paese al momento della sua entrata in vigore, che venne definita come «la più generosa
mai concessa in Italia» fino a quel momento, perché applicabile non solo ai lavoratori dipendenti,
ma anche ai lavoratori autonomi (e a prescindere dalla condizione di reciprocità), oltre che ai
familiari di coloro che già fossero residenti in Italia e ai rifugiati e richiedenti asilo (EINAUDI 2007,
155). La quantità di migranti regolarizzati tramite questo provvedimento fu di circa 220.000, più del
doppio di quanto ottenuto tramite l’ultimo provvedimento della medesima natura.
Infine è particolarmente interessante segnalare come proprio nella legge Martelli sia emerso, per la
prima volta nel nostro ordinamento, un riferimento a luoghi deputati ad ospitare i soli migranti,
luoghi che il legislatore aveva definito con la locuzione «Centri di prima accoglienza». Si trattava di
strutture abitative da realizzarsi con il contributo statale, la cui gestione avrebbe dovuto essere
attribuita alle Regioni in concerto con quei Comuni nei quali si registrava, all'epoca, la maggior
presenza di migranti. Centri di natura simile, ma attrezzati anche per fornire la prima assistenza a
migranti in condizioni di particolare difficoltà, avrebbero dovuto essere istituiti presso tutti i valichi
di frontiera, ferroviari, portuali e aeroportuali. Questa disposizione della Martelli rimase però
completamente in attuata fino al 199539
, ed anche allora ebbe vita piuttosto breve, visto che tali
strutture di accoglienza e assistenza vennero poi sostituite da quelle, di natura in parte differente,
previste dalla legge c.d. Turco-Napolitano del 1988, di cui si parlerà più diffusamente nel paragrafo
ad essa dedicato.
Concludendo questa breve panoramica sulla legge Martelli possiamo affermare che si tratta di un
testo normativo che può essere a buon diritto definito come «il primo tentativo concreto di metter
mano al problema» della presenza straniera nel nostro paese (GASPARINI CASARI 2010, 116), la
39
In quell'anno veniva infatti approvato, quasi in sordina, il d.l. 30 novembre 1995 n. 451, recante «Disposizioni
urgenti per l'ulteriore impiego del personale delle Forze armate in attività di controllo della frontiera marittima nella
Regione Puglia», poi convertito con la l. 29 dicembre 1995, n. 536. La c.d. “Legge Puglia”, oltre a confermare l'uso
dei militari per ottimizzare il contrasto all'immigrazione clandestina, predisponeva l'apertura di tre centri «per far
fronte a situazioni di emergenza connesse con le attività di controllo [della frontiera marittima] e che coinvolgono
gruppi di stranieri privi di qualsiasi mezzo di sostentamento ed in attesa di identificazione od espulsione».
24
prima norma programmatica e di ampio respiro in materia di immigrazione nell'ordinamento
italiano. Pur rimanendo consistenti margini di miglioramento, le si deve riconoscere il merito di
aver tentato di disegnare una via d'uscita dalla situazione al contempo caotica e immobilistica in cui
si era andata avvitando, da parecchi decenni, la disciplina degli stranieri nel nostro Paese. Purtroppo
l'impostazione di fondo rimaneva quella dell'immigrazione come problematica di ordine pubblico,
da affrontare con gli strumenti propri dell'attività di polizia, e l'intervento del legislatore si
conformava ancora una volta alla logica dell'urgenza, dell'emergenzialità40
. Mancava, nella legge
39/1990 come in tutte quelle che l'avevano preceduta, un complesso di disposizioni che – senza
limitarsi al puro governo dell'immigrazione – progettasse le modalità di integrazione degli stranieri
nella società41
e incentivasse la normalizzazione di un fenomeno, quello migratorio, la cui
irreversibilità era ormai necessario accettare.
Non fu però la carenza di visione globale e di attenzione alle prospettive future della realtà
migratoria italiana quello che venne rimproverato alla legge Martelli dai suoi detrattori dell'epoca,
ma, paradossalmente42
, l'eccessiva liberalità delle misure in essa contenute, in particolare rispetto
alla disciplina delle espulsioni. Le difficoltà di applicazione della nuova normativa furono in effetti
molte: da un lato, la regolarizzazione funzionò da richiamo per un numero consistente di migranti
dall'estero (invece di sanare soltanto la posizione di coloro che erano già presenti nel nostro paese,
come era sicuramente nelle intenzioni del legislatore); dall'altro la “morbidezza” delle procedure di
espulsione e la debolezza delle sanzioni contro i datori di lavoro che assumevano irregolarmente
40
La reazione ai massicci fenomeni migratori tramite la chiusura delle frontiere e l'inasprimento dei controlli
all'ingresso non è, naturalmente, propria soltanto dell'esperienza italiana. La constatazione che fosse il contenuto
degli Accordi di Schengen ad imporre forme più rigide di gestione delle frontiere non è però da considerarsi come
elemento giustificativo dell’impostazione del legislatore italiano quanto piuttosto come segno e sintomo di un
fenomeno di chiusura verso l’esterno comune a tutti i paesi del vecchio continente, tassello fondamentale nella
creazione di quella che è stata definita Fortress Europe.
41 Una qualche apertura in tal senso può essere rintracciata nella previsione dell'art. 2, comma 3 della legge, nel quale
si stabiliva che i decreti interministeriali annuali non dovevano limitarsi al solo “contingentamento” dei flussi di
ingresso in Italia per ragioni lavorative, ma dovevano anche contenere la pianificazione degli «interventi sociali ed
economici atti a favorire l'inserimento socio-culturale degli stranieri, il mantenimento dell'identità culturale ed il
diritto allo studio e alla casa». Anche il fatto che l'adozione dei “decreti flussi” prevedesse una consultazione
obbligatoria del CNEL, della Conferenza Stato-Regioni e delle maggiori organizzazioni sindacali avrebbe potuto
rappresentare un'auspicabile connessione di provvedimenti programmatici di tale rilievo con la complessità della
realtà migratoria italiana, in un tentativo di coglierne le diverse sfumature. In ogni caso, le disposizioni di cui all'art.
2 rimasero completamente inattuate: in particolare il tentativo di avviare una politica abitativa per gli stranieri
residenti nel nostro Paese, riservando loro una quota dei posti nelle case popolari (proposta da Carmelo Conte,
Ministro per le Aree urbane nel 1990) si arenò immediatamente davanti a proteste veementi se non violente dei
cittadini.
42 Paradossalmente perché i dati relativi alle espulsioni di cittadini stranieri dal territorio italiano ci mostrano che,
vigente la legge 39/1990, tali provvedimenti passarono da poco più di 800 nel 1989 a oltre 4000 nel 1991 e oltre
7.500 nel 1995, con un sensibile aumento della percentuale di stranieri fermati e identificati in condizioni di
irregolarità (passati dal 3,2% del 1989 al 22,3% del 1990) (EINAUDI 2007, 156).
25
favorirono il permanere di vaste sacche di illegalità, la cui presenza si fece evidente nei casi di
cronaca e alimentò un continuo susseguirsi di polemiche43
.
Ad acuire le difficoltà operative delle autorità italiane e l'attenzione mediatica, nel 1991 esplose il
caso degli albanesi44
: diverse ondate di profughi sbarcarono sulle coste della Puglia e le embrionali
strutture di accoglienza che - come abbiamo già accennato - seppur previste dalla legge 39/1990
erano rimaste per la gran parte sulla carta, si mostrarono assolutamente inadeguate ad affrontare un
fenomeno migratorio di tale portata. Il riflesso normativo della «sindrome da assedio» (PUGLIESE
1996, 941) che andava montando in quel periodo nell'opinione pubblica fu il determinarsi della
convinzione che fosse necessaria una nuova (e ancora una volta urgente) revisione della legge,
senza neppure prendere in considerazione il fatto che molti dei problemi emersi avrebbero potuto
trovare facilmente soluzione con un’applicazione più corretta e puntuale del vigente testo
normativo.
1.4. La stagione dei decreti e l'immigrazione come problema politico.
All'alba del decennio '90 la “questione immigrati” rimenava quindi più che mai aperta. Gli anni
immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge Martelli videro la politicizzazione
sempre più acuta del tema delle migrazioni - sul quale si focalizzò in particolare la Lega Nord, che
entrò per la prima volta a far parte del Governo nel 1994 - e il tentativo conseguente di contenere
l'afflusso di migranti (sia regolari che irregolari) imprimendo, in particolare, un deciso giro di vite
alla disciplina delle espulsioni45
.
43
Anche le norme in materia di asilo, sulle quali molto avevano puntato gli estensori della norma, ebbero un
“battesimo del fuoco” particolarmente duro: il 22 febbraio 1990 una nave carica di stranieri privi di visto provenienti
dall'area indiana sbarcava a Bari, dopo essere stata respinta dalla Grecia. Tutti i 54 migranti presenti
sull'imbarcazione presentarono richiesta di asilo, su indicazione dell'UNHCR. L'asilo venne rifiutato e lo stesso
Martelli, per evitare ricorsi al T.A.R. che avrebbero creato non pochi imbarazzi al Governo italiano, si adoperò
perché venissero respinti nuovamente verso la Grecia per via aerea, provocando però in tal modo un grave contrasto
con la Cgil, che aveva offerto loro assistenza legale.
44 Tra il 1990 e il 1991 in Albania viene meno il regime comunista e si tengono le prime elezioni democratiche con un
sistema multipartitico. L'accresciuta libertà di movimento dei cittadini albanesi e la grave situazione economica in
cui cadde il paese in quel torno d'anni provocarono un massiccio fenomeno migratorio che vide come meta
privilegiata proprio il nostro Paese. Nonostante questo primo afflusso di persone sia stato riportato dai media come
«esodo biblico» (anche a causa di episodi di forte impatto emotivo come quello della nave “Vlora”) si trattò in realtà
di un evento di portata molto minore rispetto a quello che si sarebbe verificato nel 1997, a seguito della cosiddetta
“anarchia albanese”. Per rendere conto delle proporzioni possiamo ricordare che la presenza albanese in Italia,
secondo dati del Ministero dell'Interno, si avvicinava nel 1991 alle 25.000 persone mentre nel 1997 la cifra saliva a
quasi 84.000 (ISTAT 2000, 62).
45 A onor del vero va segnalato che nel medesimo periodo il Parlamento cercò anche di intervenire a tutela dei
migranti, inasprendo la legislazione contro gli atti di discriminazione e le aggressioni a impronta razzista. Nel 1992
il Ministro dell'Interno del primo Governo Amato, Nicola Mancino, presentò un disegno di legge che prevedeva
pene severe per chi commettesse o istigasse a commettere atti discriminatori o violenze basate su motivi razziali,
26
Nel 1992 si registrò il primo tentativo in tal senso, con il c.d. Decreto Boniver46
, che avrebbe
dovuto introdurre l'espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera per tutti gli stranieri
entrati in Italia sprovvisti di visto e passaporto valido. Il decreto venne più volte reiterato ma le forti
critiche provenienti dalla sinistra (nonostante il tentativo di bilanciare l'aspetto repressivo della
misura raddoppiando i fondi destinati ai centri regionali di prima accoglienza) fecero in modo che
decadesse senza venir convertito in legge.
Nel 1993 toccò al Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso occuparsi della questione
migranti, varando il decreto che porta il suo nome47
. La norma si concentrava principalmente
sull’introduzione di significative modifiche in materia di trattamento penitenziario, ma prevedeva
anche disposizioni specifiche per gli stranieri extracomunitari. Nel tentativo di alleviare il problema
del sovraffollamento carcerario veniva introdotta l'espulsione come pena alternativa alle pene
detentive di durata pari o inferiore ai tre anni e, sotto un diverso profilo, si rendeva obbligatorio
l'accompagnamento coatto alla frontiera per coloro che avessero commesso alcuni reati di
particolare gravità. Lo straniero extracomunitario che si fosse sottratto ai controlli di frontiera, al
respingimento o all'espulsione o che una volta espulso avesse fatto ritorno nel territorio nazionale
veniva punito con la reclusione da uno a tre anni (punto questo particolarmente contestato). Mentre
il Decreto Conso riuscì a raggiungere la conversione in legge decadde invece quello presentato
nello stesso anno dal Ministro per gli Affari Sociali Fernanda Contri, che aveva il lodevole
obbiettivo di agevolare il lavoro stagionale degli immigrati e alleggerire il carico contributivo per i
datori di lavoro48
.
Un impatto sicuramente più significativo sull’intera materia del diritto dell’immigrazione ebbe poi
un altro decreto legge, il n. 489 del 18 novembre 1995 (c.d. Decreto Dini, dal nome dell'allora
presidente del Consiglio), che oltre ad occuparsi delle espulsioni conteneva norme sulla
programmazione dei flussi, sul lavoro stagionale, sui ricongiungimenti familiari e sulla
regolarizzazione, come pure sulla previdenza e l'assistenza sanitaria. L'estensione della tutela
medica ai lavoratori stranieri regolarmente residenti appare ai nostri occhi come l'elemento più
innovativo della norma, ma gli aspetti che suscitarono più controversie al momento
etnici, nazionali o religiosi. Il decreto originario venne convertito con alcune modificazioni nella legge 25 giugno
1993 n. 205, che è rimasta alla base della disciplina volta al contrasto della xenofobia fino al suo “svuotamento”
avvenuto nel 2006.
46 D.l. 29 febbraio 1992, n. 193 intitolato “Modifiche e integrazioni al decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416 in
materia di ingresso e soggiorno in Italia di cittadini extracomunitari”.
47 D.l. 13 aprile 1993, n. 107, convertito in legge n. 296 del 12 agosto 1993.
48 Si tratta del D.l. 22 giugno 1993, n. 200. Tra gli aspetti salienti della norma si segnalava l'introduzione di un
apposito permesso di soggiorno di durata semestrale per lavoro stagionale.
27
dell'approvazione del Decreto furono, ancora una volta, quelli della regolarizzazione e delle
espulsioni. Si riconfermava la duplice impostazione dell'espulsione come misura amministrativa e
come provvedimento dell'autorità giudiziaria: nel primo caso era attribuito il potere al Prefetto di
intimare allo straniero che avesse fatto ingresso irregolare o avesse lasciato scadere il proprio
permesso di soggiorno da più di 30 giorni senza presentare domanda di rinnovo, di lasciare il
territorio dello Stato entro 10 giorni (con la possibilità di fare ricorso al T.A.R., con effetto
sospensivo del provvedimento). Il reingresso illegale da parte di chi fosse stato oggetto di tale
intimazione veniva punito con la reclusione da sei mesi ad un anno e, inoltre, diventava reato la
mancata esibizione del documento di identità, al pari della sua distruzione.
Quanto all'espulsione giudiziaria venne estesa l'area dei delitti in relazione ai quali poteva essere
disposta (reati non gravi per i quali fosse previsto l'arresto in flagranza) e si introdusse una
particolare previsione che riguardava gli stranieri nei confronti dei quali sussistessero «elementi
concreti» tali da ritenerli qualificabili come «persone pericolose». Non solo lo straniero poteva
essere espulso solo sulla base di tale valutazione (seppur effettuata dall'autorità giudiziaria) ma, in
caso di ricorso, poteva essergli imposto l'obbligo di dimora come misura cautelare personale, la cui
violazione comportava fino ad un anno di reclusione. In relazione a questa ipotesi l'art. 7-sexies del
decreto specificava, con un fugace richiamo all'art. 283 comma 4 del codice di procedura penale,
che il provvedimento del giudice con il quale si imponeva l'obbligo di dimora doveva anche
contenere la prescrizione per lo straniero di «di non allontanarsi dall'edificio o struttura indicati […]
e scelti fra quelli individuati con uno o più decreti del Ministero dell'Interno di concerto con il
Ministro del Tesoro e gli altri Ministri interessati». Le strutture a cui il legislatore fa riferimento
sono ancora i Centri di accoglienza previsti dalla Legge Martelli, che però qui già iniziano ad
assumere, seppur timidamente, quella fisionomia di centri di detenzione dei migranti irregolari che
apparirà ben più esplicitamente nella normativa successiva.
1.5. La logica binaria della legge Turco-Napolitano e la nascita dei
C.P.T.A.
Entrato in vigore nel novembre 1995, già a metà del 1996 il Decreto Dini era da considerarsi
politicamente superato: le elezioni nazionali avevano visto prevalere il raggruppamento di centro-
sinistra (l'Ulivo) e la Lega Nord, ostile all'introduzione di norme più favorevoli per gli immigrati,
era passata all'opposizione. Già a poco più di un mese dall'insediamento del nuovo Governo
emergeva chiaramente la volontà politica di redigere una nuova legge organica sull'immigrazione,
28
molto più vicina alle proposte elaborate dalla Commissione Contri-Bolaffi che all'impianto
legislativo allora vigente. Forti spinte in tal senso provenivano sicuramente dalla società civile, in
particolare dall'area dell'associazionismo cattolico49
, ma fu in realtà una sentenza della Corte
Costituzionale50
a dare il colpo di grazia al Decreto Dini: i giudici della Consulta censurarono come
incostituzionale la prassi di ripresentare con testo inalterato i decreti legge scaduti prima della
conversione e, di conseguenza, il Decreto decadde “tecnicamente”.
Il compito di sovraintendere alla stesura del nuovo testo normativo fu affidato al Ministro
dell'Interno Giorgio Napolitano e al Ministro della Solidarietà Sociale Livia Turco, al quale era stata
affidata la delega all'integrazione degli immigrati. L'approvazione della legge fu particolarmente
complessa: l'intenzione era quella di dar vita ad un testo quanto più possibile concertato, ma le forze
politiche di minoranza avevano assunto, sul tema immigrazione, posizioni di principio inconciliabili
con quelle espresse dall'Ulivo nel proprio programma51
. Anche all'interno della stessa coalizione di
centro-sinistra lo scontro tra coloro che auspicavano maggior rigore nel controllo degli ingressi
irregolari e coloro che invece invocavano misure molto più garantiste anche a favore dei clandestini
(soprattutto Verdi e Rifondazione Comunista) si rivelò assai aspro, tanto da condizionare
pesantemente la durata dell'iter parlamentare del disegno di legge presentato dai due ministri.
Ad acuire la necessità di giungere, in ogni caso, alla stesura e all'approvazione di un testo di legge
contribuirono due elementi: la necessità di evitare l'esclusione dell'Italia dall'area Schengen e
l'esplodere della seconda e ben più consistente “Crisi albanese”, a partire dai primi mesi del 1997.
49
Si vedano, ad esempio, i vari “memorandum” sulla politica dell'Unione Europea in materia di immigrazione e la
proposte di riscrittura del Decreto Dini presentata nel giugno 1996 dal “Gruppo di Riflessione degli organismi ed
associazioni di ispirazione religiosa attivi nel campo delle migrazioni”, sigla della quale facevano parte, tra gli altri,
la Fondazione Migrantes della CEI, le ACLI, la Caritas italiana, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e
il Gruppo Martin Buber - Ebrei per la Pace. Per la ricostruzione del dibattito politico italiano in tema di
immigrazione verso la fine degli anni '90 e per inquadrare il ruolo svolto dalle forze sociali si è fatto riferimento ai
documenti contenuti nell'archivio curato da Sergio Briguglio, che dal 1992 al 2000 è stato rappresentante della
Caritas romana nei rapporti con il Governo in materia di immigrazione ed asilo. L'archivio è liberamente
consultabile su www.stranieriinitalia.it/briguglio.
50 Si tratta della Sentenza n. 360 del 24 ottobre 1996, che dichiarò illegittimo l'art. 6 comma 4 del d.l. 6 settembre
1996, n. 462 in materia di smaltimento e recupero dei rifiuti per violazione dell' art. 77 della Costituzione, nella
parte in cui sancisce il divieto di reiterazione dei decreti legge non convertiti.
51 I quotidiani di quel periodo e gli atti del dibattito parlamentare riportano numerose dichiarazioni di esponenti del
Polo e della Lega Nord che mettono in luce il profondo timore, ai limiti del rigetto, che queste forze politiche
esprimevano per l'ipotesi di una legge improntata alla piena e incondizionata accoglienza dei migranti, che venivano
descritti come un corpo estraneo e altamente perturbante nella società italiana. L'onorevole Alberto Di Luca (Forza
Italia), attaccando la scelta del Governo di salvaguardare gli effetti della sanatoria contenuta nel decaduto decreto
Dini dichiarava: «Dobbiamo dire “basta” con gli equivoci del solidarismo demagogico […], “basta” con il rischio
sanitario di patologie come l'AIDS e la tubercolosi […], “basta” con lo sfruttamento del lavoro […], “basta” con lo
sfruttamento minorile della prostituzione (sic) […], “basta” con l'essere sempre ai margini degli accordi europei che
pongono il nostro paese in posizione ridicola […], “basta” con la demagogica proposta di inserire nel nostro tessuto
sociale abitudini e costumi troppo lontani dai nostri come la poligamia». Il testo completo dell'intervento reso
davanti alla Camera dei Deputati è consultabile online sul sito www.legislature.camera.it (Atti Parlamentari, XIII
legislatura: seduta del 5 dicembre 1996 p. 8476).
29
Sotto il profilo degli obblighi europei le tempistiche erano serrate: il 26 ottobre 1997 sarebbe
entrato in vigore, per il nostro paese, l'accordo di Schengen, sottoscritto nel 1990, che avrebbe
comportato la progressiva l'abolizione delle frontiere interne e lo spostamento dei controlli
d'identità alle frontiere esterne dell'Unione. L'effettività del sistema di cooperazione tra stati
previsto dalla Convenzione (che comportava, tra l'altro, l'adozione di visti d'ingresso comuni) si
basava sulla capacità di tutti gli aderenti di assicurare il medesimo standard nelle procedure di
controllo e forti dubbi erano stati espressi, ad esempio da Olanda e Germania, sulla capacità
dell'Italia di tener fede a tale impegno. Il Presidente del Consiglio Romano Prodi, nel luglio 1997,
diede assicurazioni in sede europea che la nuova legge si sarebbe approvata in via definitiva entro il
1 aprile 1998, data che segnava il termine del periodo transitorio e l'apertura completa delle
frontiere terrestri e portuali: tutti gli sforzi dell'esecutivo si concentrarono a quel punto nel garantire
il rispetto di questa deadline.
A fungere da sprone verso l'approvazione della nuova legge ma anche a rendere più infuocato il
dibattito politico contribuì anche in maniera significativa, come abbiamo accennato, la forte crisi
politico economica che colpì l'Albania dal marzo 1997 (VICKERS E PETTIFIER 1997, 9 e ss). Il
passaggio all'economia di mercato nel paese balcanico aveva comportato una riduzione del PIL di
oltre il 50% nel 1992 e in questo clima di grave contrazione economica si erano diffuse moltissime
imprese finanziarie che promettevano tassi di interesse molto alti per i propri clienti, attuando
quello che si rivelò poi essere il classico “schema piramidale”. Fu nel gennaio del 1997 che la bolla
esplose e la gran parte di queste imprese fallirono, privando di tutti i propri risparmi circa un terzo
delle famiglie albanesi, le quali diedero vita a veementi proteste contro il Governo, che prima del
crollo aveva assicurato agli investitori la legittimità di queste operazioni economiche. La polizia
represse con violenza le manifestazioni di piazza e altrettanto violentemente rispose la popolazione,
impadronendosi delle armi contenute nei depositi predisposti dal vecchio regime. La situazione si
aggravò velocemente, il Governo proclamò lo stato di emergenza e ampie aree del paese caddero
nelle mani di bande armate e milizie paramilitari. Solo l'intervento delle forze dell'ONU52
fu in
grado, alcuni mesi più tardi, di porre rimedio alla grave situazione, ma l'esodo disperato della
popolazione albanese si era già consumato. I porti pugliesi diventarono ancora una volta il punto
d'approdo privilegiato di un numero massiccio di persone in fuga, anche se un flusso altrettanto
52
La missione umanitaria dell'ONU era guidata dalle forze militari italiane (circa 3000 uomini). PERLMUTTER (1998,
204) afferma che il motivo per il quale l'Italia si impegnò ad assumere la guida della c.d. “Operazione Alba” fu
proprio quello di dimostrare che era pienamente in grado di monitorare e difendere le frontiere esterne dell'UE da
ingressi massicci e indiscriminati anche in situazioni di crisi, come previsto dagli Accordi di Schengen. Se
l'intervento italiano riscosse il plauso internazionale e contribuì a normalizzare la situazione nel paese balcanico,
molto contestate furono invece le operazioni di respingimento delle imbarcazioni albanesi in fuga, attuate
contemporaneamente dalla marina italiana e considerate, nel migliore dei casi, come espressione di un'inaccettabile
«eccesso di zelo».
30
numeroso ma meno eclatante interessava le frontiere di terra della Grecia: solo da marzo a giugno
1997 sbarcarono sulle coste italiane 16.964 cittadini albanesi senza visto (EINAUDI 2007, 230).
Difficile gestione della crisi umanitaria, reazione negativa dell'opinione pubblica e pressioni da
parte degli altri Stati aderenti agli accordi di Schengen: facendo leva su questi tre elementi il
Governo riuscì a far uscire dalle secche del dibattito parlamentare il progetto di legge Turco-
Napolitano che, dopo più di un anno dalla presentazione ottenne finalmente l'approvazione delle
due Camere, seppur con alcune modifiche significative. Entrava così in vigore la l. 6 marzo 1998, n.
40 recante la “disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, che conteneva
a sua volta, all'art. 47, la delega legislativa ad emanare un nuovo Testo Unico53
che disciplinasse
l'intera materia, testo che venne di lì a poco approvato e che è ancora oggi, nonostante le numerose
modificazioni successive, il perno della disciplina italiana dell'immigrazione.
Presentando il proprio disegno di legge, nel 1996, Livia Turco aveva annunciato quali avrebbero
dovuto esserne i tre pilastri fondamentali: «programmazione dei flussi, lotta alla criminalità
organizzata che sfrutta la disperazione dei clandestini, costruzione di un percorso di cittadinanza per
fare in modo che l'immigrato non sia più un cittadino di serie B» (EINAUDI 2007, 211). Il Testo
Unico nella sua versione finale dava riscontro solo parzialmente alle parole del Ministro: strumenti
innovativi e importanti erano stati introdotti per ottimizzare la programmazione dei flussi migratori
ed erano state introdotte norme severe a contrastare le attività di favoreggiamento degli ingressi
clandestini (concentrandosi soprattutto sul fenomeno dello human trafficking via mare). Del
progetto originario si era però perduta una parte giustamente definibile come «assai qualificante»,
quella riguardante il diritto di elettorato amministrativo (GASPARINI CASARI 2010, 123). Questa
previsione – fortemente osteggiata dalla Lega Nord e da Alleanza Nazionale – venne stralciata dal
testo per favorirne l'approvazione, tenendo conto anche dell'opinione di alcuni costituzionalisti che
avevano sottolineato (correttamente) come una norma di tale contenuto avrebbe dovuto essere
approvata nelle forme della modifica costituzionale. Una legge costituzionale di modifica in tal
senso dell'art. 48 della Costituzione venne effettivamente presentata alcuni mesi dopo, ma non si
arrivò alla sua approvazione. Stessa sorte ebbero del resto le proposte di riforma in materia di
cittadinanza e in materia di asilo, che avrebbero dovuto costituire i corollari del Testo Unico54
. Ne
53
Si tratta del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, intitolato “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Nell'analisi che segue in questo paragrafo la
numerazione degli articoli, dove non altrimenti specificato, fa riferimento al T.U. e non alla l. 40/1998.
54 Il progetto di legge sulla cittadinanza presentato da Livia Turco assieme all'allora ministro dell'Interno Rosa Russo
Jervolino prevedeva la possibilità per gli stranieri di richiedere l'attribuzione della cittadinanza italiana dopo cinque
anni di residenza regolare e ininterrotta. Agevolazioni particolari erano poi previste per i minori nati in Italia ma
figli di stranieri, che acquisivano automaticamente la cittadinanza al sesto anno di età, se i genitori risiedevano nel
31
risultò un indebolimento dell'impianto ideale della legge: nel difficile bilanciamento tra politiche
dell'integrazione e più rigorosa repressione dell'illegalità migratoria finirono per prevalere le norme
relative al controllo e alla gestione delle presenze straniere irregolari.
Il nuovo Testo Unico si presentava, in ogni caso, con un articolato molto più consistente rispetto a
quello della Legge Martelli (49 articoli contro i precedenti 13). Scorrendole norme in esso
contenute, dopo alcuni articoli introduttivi riservati ai diritti e ai doveri degli stranieri e
all'enunciazione dei principi generali della materia, si incontra un corposo Titolo II dedicato alla
disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'espulsione (artt. 4-20), seguito dai più brevi Titoli III,
IV e V, contenenti rispettivamente la disciplina del lavoro (artt. 21-27), quella dei ricongiungimenti
familiari e le disposizioni a tutela dei minori (artt. 28-33) e previsioni di varia natura «in materia
sanitaria, nonché di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale»
(artt. 34-46). Cercheremo qui di analizzare gli elementi più salienti e innovativi del d.lgs. 286/1998:
modifica del sistema di contingentamento dei flussi migratori legali; tentativo di avviare dei
percorsi di integrazione a lungo termine degli stranieri regolari; contrasto dell'immigrazione
clandestina tramite l'inasprimento del sistema di espulsioni e l'introduzione di strutture di
trattenimento per gli stranieri irregolari.
Sotto il primo aspetto lo strumento più interessante introdotto dal T.U. era il c.d. “documento
programmatico triennale”: un testo contenente i criteri generali per la definizione delle politiche
migratorie del Paese, che si andava ad affiancare al “decreto flussi” annuale introdotto dalla Legge
Martelli, di carattere più attuativo. Il documento, ai sensi dell'art. 3, doveva essere emanato55
con
dopo aver acquisito il parere dei Ministri e delle Commissioni parlamentari competenti, come pure
di un gruppo numeroso di organismi governativi e non, a rappresentare le esigenze del mondo del
lavoro ma anche le istanze di tutte quelle associazioni nazionali delle quali lo Stato riconosceva
l'impegno costante nell'attività di assistenza ai migranti e al loro percorso di integrazione. Il Testo
Unico mostrava in tal modo di avere una visione maggiormente ancorata alla realtà del fenomeno
migratorio in Italia, troppo a lungo considerato come qualcosa di episodico, transitorio:
nostro paese regolarmente da cinque anni. La nuova legge sul diritto d'asilo, con la quale ci si proponeva di attuare
pienamente il dettato costituzionale e dare finalmente effettività alla protezione nazionale sul nostro territorio, venne
discussa a lungo in tutto il corso della XIII legislatura ma non venne mai approvata, arenandosi davanti ai timori
espressi da più parti che le sue disposizioni potessero essere usate «come uno strumento per aggirare le norme di
prevenzione e contrasto dell'immigrazione clandestina» (cfr. dichiarazioni dell'On. Giulio Calvisi riportate
nell'articolo Diritto d'asilo, primo sì alla legge. Sarà più facile ottenere lo status di rifugiato ma scoppia la
polemica, “La Repubblica”, 6 novembre 1998).
55 Direttamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri e non più con accordi interministeriali, come prevedeva
invece la Legge n. 39/1990 per il decreto flussi annuale.
32
l'impostazione del legislatore era di più ampio respiro, si voleva immaginare un percorso duraturo
degli stranieri nel nostro paese, almeno nel medio periodo.
Ma il sistema di programmazione dei flussi trovava nel nuovo testo legislativo un'altra significativa
novità, sul cui valore positivo o negativo i commentatori si sarebbero in seguito divisi. L'art. 21
della legge esplicitava la possibilità di assegnare, in via preferenziale, un numero di «quote
riservate» a cittadini appartenenti a Stati extraeuropei con i quali l'Italia avesse concluso «accordi
finalizzati alla regolamentazione dei flussi d'ingresso e delle procedure di riammissione». Per gli
stranieri provenienti dai paesi destinatari di queste «quote privilegiate» era anche reso possibile
iscriversi a liste di collocamento presso i consolati, alle quali i datori di lavoro potevano fare
riferimento per selezionare i candidati e chiamarli in Italia. In un ordinamento che, in linea con le
direttive comunitarie «subordinava (e tuttora subordina) la possibilità di ingresso regolare
all'incontro a livello planetario tra domanda e offerta di lavoro» (CAPUTO E FIDELBO 2012, 17),
quest'apertura finì per costituire un escamotage attraverso il quale aggirare procedure astratte e
farraginose che non consentivano di venire incontro alle reali esigenze dei datori italiani: la lista dei
paesi privilegiati andrà progressivamente aumentando56
e la firma di accordi bilaterali con i paesi di
più forte emigrazione diventerà uno degli aspetti centrali della politica migratoria italiana. Oltre a
questo istituto soltanto il ricongiungimento familiare e il c.d. sponsor - cioè il cittadino italiano o
l'immigrato regolarmente residente che dichiarasse di farsi garante dell'ingresso di uno straniero57
-
erano in grado di assicurare un certo tasso di flessibilità delle procedure di ingresso, permettendo la
formazione di vere e proprie “catene migratorie” verso il nostro paese.
Proseguendo con l'analisi del d.lgs. 286/1998 dobbiamo dedicare alcune righe, come abbiamo
anticipato, alle previsioni in favore dei migranti e del loro percorso di integrazione nel tessuto
sociale italiano, facendo riferimento in particolare a quelle contenute nel Titolo V. Il legislatore ha
scelto di operare, in quest'ambito, una distinzione molto netta tra migranti clandestini e regolari e,
all'interno di questi tra migranti temporanei e permanenti, delineando un vero e proprio “iter dei
diritti civili”: si prevedeva che lo straniero arrivasse a conseguire il pieno godimento di questi ultimi
soltanto con il permanere nel tempo nella condizione di regolarità. Il Testo Unico infatti, se da un
56
Emblematici sono i numerosi casi riportati dalle pubbliche amministrazioni di cittadini stranieri che fanno
riferimento a consolati di paesi ai quali non appartengono per ottenere i visti “agevolati” e iscriversi alle liste di
collocamento per entrare regolarmente in Italia.
57 Ai sensi dell'art. 23 del T.U., lo sponsor era tenuto a presentare entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto flussi
una richiesta alla questura, dimostrando altresì di poter garantire allo “sponsorizzato” vitto, alloggio e copertura
sanitaria adeguata. La garanzia per l'accesso al lavoro poteva essere prestata anche dalle Regioni, dagli enti locali,
dalle associazioni professionali e sindacali e dalle associazioni di volontariato che operassero nel settore
dell'immigrazione e fossero state riconosciute con un apposito decreto del Ministero per la Solidarietà Sociale.
33
lato ribadiva il riconoscimento dei «diritti fondamentali della persona umana» a tutti cittadini
stranieri presenti in Italia, indipendentemente dalla regolarità della loro condizione (art.2), dall’altro
riservava ai soli regolari una tutela molto più ampia, garantendo loro parità di diritti con gli italiani
in ambito lavorativo, nei rapporti con la pubblica amministrazione, nell'accesso ai servizi e in
materia di tutela giurisdizionale.
Veniva predisposto un ampio ventaglio di tipologie di permessi di soggiorno, che potessero
adattarsi alle esigenze del lavoratore migranti: il permesso per lavoro stagionale con durata massima
di nove mesi, quello per ricerca di lavoro, con durata massima di dodici mesi e, infine, il permesso
di soggiorno di durata biennale per lavoro subordinato, che poteva estendersi per quattro anni al
primo rinnovo e trasformarsi, dopo cinque anni di residenza regolare, in carta di soggiorno58
, in
ossequio a quel meccanismo di crescita nei diritti a cui accennavamo supra59
. I titolari della carta di
soggiorno arrivavano a godere, tra l'altro, del diritto di partecipare alla vita pubblica e politica a
livello locale, avevano la possibilità di accedere a tutti i servizi e le prestazioni erogate ai cittadini
dalle pubbliche amministrazioni e, ai sensi dell'art. 9, non potevano essere espulsi (se non per gravi
motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale).
Tra le previsioni che si ponevano come nettamente a favore dello straniero ed esprimevano una
volontà legislativa di rimuovere gli ostacoli all'emersione dall'irregolarità, spianando la strada
all'integrazione dei migranti, dobbiamo infine ricordare quella contenuta nell'art. 44 del Testo
Unico, intitolato «Azione civile contro la discriminazione». Questa disposizione introduceva la
possibilità per lo straniero che fosse stato oggetto di discriminazione per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi - da parte di privati o finanche della Pubblica Amministrazione – di fare ricorso
al giudice. Se il Tribunale riconosceva la discriminazione poteva innanzitutto ordinare la cessazione
del comportamento e «adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a
rimuovere gli effetti della discriminazione» ma poteva anche condannare la parte resistente al
58
Si tratta del permesso di soggiorno a tempo indeterminato, che poteva essere esteso anche al coniuge e ai figli dello
straniero se questi dimostrava di avere un reddito sufficiente a mantenere sé e il proprio nucleo familiare. A partire
dal gennaio 2007 tale documento è stato sostituito con il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo
periodo, che attribuisce al titolare sostanzialmente i medesimi diritti ma è più difficile da ottenere, dovendo lo
straniero superare una prova di conoscenza della lingua italiana.
59 A questi vanno aggiunti i permessi concessi per ragioni mediche (art 36) e quelli previsti dalla lunga lista degli
«ingressi per lavoro in casi particolari» (art. 27), i visti d'ingresso per lavoro autonomo di durata biennale (art. 26) e
il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale (art. 18). Si tratta sicuramente di casi che interessano un
numero più limitato di stranieri, ma è da lodare il fatto che il legislatore si sia preoccupato di introdurre delle
previsioni specifiche per ciascuna di queste situazioni particolari, rimandando poi ai regolamenti attuativi per
disciplinare più attentamente i presupposti per la concessione di tali permessi e la loro durata. In particolare il
documento di cui all'art. 18 – di durata semestrale - veniva concesso agli stranieri sottoposti a violenze o in gravi
condizioni di sfruttamento, che avrebbero messo in grave pericolo la propria incolumità se avessero tentato di
sottrarsi alle associazioni criminali che li tenevano in stato di soggezione. Questo permesso, rinnovabile e affiancato
ad un percorso di reinserimento si rivelerà un ottimo strumento al servizio delle Autorità di Polizia, particolarmente
utilizzato per proteggere le donne vittime di tratta e costrette a prostituirsi (EINAUDI 2007, 218).
34
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Se il soggetto che aveva posto in essere il
comportamento discriminatorio era un privato che godeva di un qualche beneficio fiscale o
creditizio da parte dello Stato o delle Regioni, questi gli venivano immediatamente revocati; se
aveva stipulato un contratto d'appalto per l'esecuzione di opere pubbliche o per la prestazione di
servizi alle P.A. il contratto veniva immediatamente rescisso (con l'esclusione da qualsiasi appalto
per due anni nei casi più gravi). Negli anni seguenti all'introduzione del Testo Unico la prassi dei
tribunali ebbe modo di testimoniare l'efficacia di questa previsione (AMATO, 2005): ancor più che
un gesto di civiltà la sua introduzione va considerata il più efficace deterrente contro l'impiego di
migranti irregolari – sfruttati e malpagati – nel sottobosco del mercato nero.
Veniamo infine alle politiche di repressione dell'immigrazione clandestina contenute nel nuovo
Testo Unico. Nel tentativo di contrastare l'azione delle organizzazioni criminali che sfruttavano la
situazione di emergenza creatasi nei Balcani e, in senso più ampio, di togliere linfa al fiorente
mercato del traffico di esseri umani il T.U. introduceva pene molto severe (reclusione fino a tre anni
e multa fino a trenta milioni di lire) per coloro che fossero stati riconosciuti colpevoli di
favoreggiamento dell'immigrazione irregolare (art.12). Se il trafficking veniva compiuto a scopo di
lucro o ai fini dello sfruttamento della prostituzione o riguardava soggetti minori dei diciotto anni le
pene aumentavano ancora: da cinque a quindici anni di reclusione e cinquanta milioni di lire di
multa per ogni straniero di cui si fosse procurato l'ingresso60
.
Ma se da un lato il Governo si impegnava nella lotta a coloro che traevano vantaggio
dall'immigrazione irregolare dall'altro inaspriva il trattamento riservato agli stessi immigrati
irregolari, confermando quella «logica binaria delle politiche migratorie» (PASTORE 1998, 1047) che
pone un «netto discrimine»61
tra la condizione dello straniero regolare e di quello clandestino,
mostrando di considerare quest'ultimo – al di là delle buone intenzioni espresse al manifestarsi di
una qualche “emergenza umanitaria” - come un indesiderabile. Il d.lgs. 286/1998 riconfermava
innanzitutto la pluralità di tipologie espulsive ereditate dal precedente stratificarsi dell'ordinamento:
60
Si tratta naturalmente di reati particolarmente odiosi e in grado di suscitare un forte allarme sociale, anche in
ragione della loro “visibilità”. Il Ministro Livia Turco si spese molto per l'introduzione di questa fattispecie
aggravata di reato, come pure per quello delle sanzioni accessorie che colpivano i vettori riconosciuti colpevoli di
favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (confisca dei mezzi di trasporto, divieto di reingresso e sospensione
della licenza necessaria allo svolgimento dell'attività di trasporto per il guidatore ). Per dar conto di come il tema
fosse particolarmente sentito nell'opinione pubblica si può fare riferimento alle pagine dei giornali, che prima
dell'emanazione della legge Turco-Napolitano riportavano spesso e con indignazione le cronache di questa nuova
tratta e che salutarono con entusiasmo l'introduzione della nuova legge (a titolo di esempio cfr. CORRADO ZUNINO
Rapita, violentata, sfruttata in “La Repubblica”, 28 gennaio 1997 e MARIA STELLA CONTE Così libereremo dal
racket le prostitute schiave in “La Repubblica” , 21 gennaio 1999).
61 L'espressione si ritrova nella Relazione di accompagnamento alla l. 40/1998, dove viene inoltre rimarcato come tale
netta differenza di trattamento sia caratteristica comune a tutte le legislazioni dei maggiori Stati europei (CAPUTO E
FIDELBO 2012, 18).
35
espulsione amministrativa, espulsione come misura di sicurezza62
, espulsione come misura di
prevenzione ed espulsione come sanzione sostitutiva della detenzione. Quest'ultima in particolare
poteva essere comminata ai cittadini stranieri condannati per reato colposo o a quelli che avessero
richiesto l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (il c.d. “patteggiamento), se l'entità della
condanna non superava i due anni di detenzione. Una volta eseguito questo tipo di espulsione, ai
sensi dell'art. 16, lo straniero non poteva più rientrare in Italia per un periodo di cinque anni – e se
lo faceva commetteva un'infrazione punibile penalmente. L'aspetto più innovativo del nuovo testo
legislativo era rappresentato però dalle modalità con le quali si prevedeva che l'espulsione potesse
essere disposta, caratterizzate da un grado di incisività (e, nelle intenzioni del legislatore, di
effettività) molto maggiore rispetto a quanto previsto dalla Legge Martelli. Rimaneva l'ormai
consolidatissimo istituto dell'espulsione amministrativa disposta dal Ministro dell'Interno per motivi
di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, da eseguirsi tramite l'accompagnamento alla frontiera
a mezzo della forza pubblica. L'art. 13 prevedeva però che questa modalità di espulsione dovesse
essere applicata anche nei casi di espulsione ordinata dal Prefetto nei confronti di stranieri sottrattisi
ai controlli di frontiera e non prontamente respinti che fossero privi di documenti di identità e nei
confronti dei quali sussistesse un concreto pericolo che si sottraessero all'esecuzione del
provvedimento. In tutti gli altri il provvedimento di espulsione veniva eseguito tramite intimazione
da parte del Questore a lasciare il territorio italiano entro quindici giorni (questo tipo di esecuzione
riguardava in particolare gli overstayer).
Sotto il profilo delle garanzie rimaneva l'obbligo di disporre l'espulsione con decreto motivato del
Prefetto e di comunicare il provvedimento allo straniero nella sua lingua madre o i una lingua
veicolare. Contro il decreto di espulsione si prevedeva la possibilità di presentare ricorso al Pretore
(con facoltà, per gli stranieri privi di mezzi, di avvalersi del gratuito patrocinio a spese dello Stato)
ma il deposito del ricorso non sospendeva l'esecuzione del provvedimento, tanto che il comma 10
dell'art. 13 attribuiva all'espulso la facoltà di inoltrare il ricorso «anche per il tramite della
rappresentanza diplomatica o consolare italiana nello Stato di destinazione, entro trenta giorni dalla
comunicazione del provvedimento». A difesa delle categorie di immigrati considerate più deboli o
più meritevoli di tutela perché in grado di vantare un legame solido con il nostro Paese venivano
introdotte diverse ipotesi di inespellibilità. Ai sensi dell'art. 19 beneficiavano di questa protezione
rafforzata gli stranieri minori, le donne in stato di gravidanza (o che stessero accudendo un neonato
62
La misura di sicurezza dell'espulsione poteva essere assegnata, fuori dai casi previsti dal codice penale, a tutti gli
stranieri condannati per delitti per i quali fosse obbligatorio l'arresto in flagranza e che fossero considerati
socialmente pericolosi (art. 15).
36
di età inferiore a sei mesi), i parenti o coniugi di cittadini italiani e gli immigrati in possesso di una
carta di soggiorno63
.
Il legislatore del Testo Unico si preoccupava dunque di tutelare gli immigrati, anche irregolari, in
situazioni di disagio (e per questo venivano aperti anche a loro, tra l'altro i Centri di Accoglienza64
)
ma il suo obbiettivo primario rimaneva in ogni caso quello di rendere il più effettive possibili le
espulsioni dei clandestini, in ossequio alle richieste degli altri paesi appartenenti all'area Schengen e
in risposta alle istanze portate avanti dall'opposizione parlamentare, che raccoglieva l'effettivo
disagio di parte della popolazione per il diffondersi della criminalità “di strada” legata ai recenti e
massicci flussi migratori. La problematica più spinosa venne individuata nella necessità di
identificare gli stranieri privi di documenti: durante la vigenza della legge Martelli era stato
denunciato come spesso la polizia fosse obbligata a liberare gli immigrati privi di permesso di
soggiorno e non immediatamente identificabili, con il risultato che essi non si allontanavano dal
territorio italiano ma facevano semplicemente perdere le proprie tracce65
. La legge n. 39/1990 aveva
immaginato lo svilupparsi di tale problematica e aveva attribuito al Questore la possibilità di
ottenere l'applicazione dell'incisiva misura di prevenzione della sorveglianza speciale, normalmente
63
Nei confronti di queste categorie di persone residuava soltanto la possibilità di operare l'espulsione ex art. 13 comma
1, cioè quella disposta dal Ministro dell'Interno per ragioni di sicurezza dello Stato e ordine pubblico. La lettera
dell'art. 19 comma 2 non lasciava spazio a dubbi in tal senso, ma bisogna sottolineare come l’ammettere l'espulsione
con accompagnamento coatto immediato alla frontiera per le donne in stato di gravidanza e, soprattutto, per i minori
(anche non accompagnati) destasse (allora come oggi) molte perplessità sotto il profilo della compatibilità con le
Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese (una per tutte la Dichiarazione Universale dei Diritti del
Fanciullo del 1959).
64 Il modello dei Centri di Accoglienza ricalca in parte quello delineato dalla Legge Martelli: si tratta di strutture che
dovevano essere allestite dalle Regioni, in collaborazione con gli enti locali minori, destinate ad ospitare migranti
regolari ma privi di mezzi e quindi temporaneamente non in grado di trovare un alloggio e provvedere al proprio
sostentamento (art. 40). Il duplice scopo dei C.d.A. era dare assistenza materiale ai migranti in difficoltà e renderli
nel più breve tempo possibile autonomi, fornendo servizi sociali e culturali che favorissero l'inserimento nel tessuto
sociale italiano. Si trattava dunque di strumenti di supporto all'integrazione, ma il Testo Unico ne introduceva un
altro possibile utilizzo: su indicazione dei sindaci e in casi di particolare emergenza i Centri di Accoglienza
potevano ospitare anche migranti irregolari, «ferme restando», precisava il testo, «le norme sull'allontanamento dal
territorio dello Stato degli stranieri in tali condizioni». Questa confusione funzionale tra C.d.A. e C.P.T. (che è anche
confusione tra trattenuti e ospiti) è da considerarsi come uno dei punti critici del sistema di misure disegnato dalla
legge Turco-Napolitano.
65 Dal momento che molti dei paesi di immigrazione riammettevano (e riammettono) i propri connazionali espulsi solo
se muniti di un documento la prassi di distruggere od occultare i propri documenti di identità si era diffusa tra gli
immigrati clandestini, che intendevano a tutti i costi evitare il rimpatrio. Altra pratica comune era quella dell'uso di
identità false, soprattutto tra gli stranieri che avevano già subito una condanna o erano già stati denunciati: risultando
incensurati, la speranza di ottenere la sospensione condizionale della pena era per loro molto più consistente.
BARBAGLI (2002, 103) riporta come dato statistico quello dei minori stranieri arrestati in veneto nel 1996: solo lo
0,5% era provvisto di documenti validi, il 6,5% li aveva falsi e il 93% era privo di qualunque documento di
identificazione. BORGNA (2011, 25 e ss.) riferisce un caso di un ragazzo marocchino arrestato per cinque volte in
flagranza di reato per spaccio di stupefacenti e per cinque volte rilasciato dopo pochi giorni dopo grazie
all’espediente delle generalità fittizie. Lo stesso ragazzo risultava oggetto di quattro condanne penali sotto diversi
nomi, tutte sospese condizionalmente.
37
accompagnata dall'obbligo di dimora66
. Si trattava però di una soluzione non del tutto economica e
difficilmente applicabile ad una popolazione immigrata in crescita esponenziale senza un notevole
impiego di risorse umane da parte delle autorità di P.S.. Si decise così di introdurre una nuova
misura, quella del trattenimento coattivo dei migranti in luoghi deputati proprio alla loro
identificazione: i Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza, più noti con la sigla C.P.T.A. o
semplicemente C.P.T..
Nel d.lgs. 268/1998 la disciplina dei centri di detenzione amministrativa era contenuta in un unico
articolo, il 14, che chiariva i presupposti per il trattenimento, le sue finalità e il trattamento da
riservare ai migranti presenti all'interno delle strutture. Il trattenimento avveniva conseguentemente
all'impossibilità di eseguire il respingimento alla frontiera o l'immediata espulsione tramite
accompagnamento alla frontiera, ma le motivazioni che potevano dar luogo a quest'impossibilità
erano molteplici: necessità di dare soccorso allo straniero, necessità di eseguire accertamenti
sull'identità o la nazionalità del migrante e di acquisire i documenti per il viaggi e «indisponibilità
di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo». Era inoltre previsto che potesse essere imposta la
permanenza coatta nei Centri anche a stranieri sulla cui identità non vi fossero dubbi e in possesso
di documenti ma che si trovassero in condizione di irregolarità per non aver richiesto o rinnovato
nei termini il permesso di soggiorno o per aver avuto il permesso revocato o annullato (art. 13
comma 6). Nei confronti di queste persone l'espulsione avrebbe dovuto essere eseguita tramite la
semplice intimazione ad abbandonare il territorio italiano ma qualora il Prefetto avesse avuto
ragione di ritenere sussistente un concreto pericolo che lo straniero si sottraesse all'esecuzione del
provvedimento, si poteva disporre il trattenimento ex art. 14, che finiva così per configurarsi come
un'atipica misura cautelare.
I C.P.T. si presentavano come strutture polifunzionali dal carattere misto, primo punto di approdo
dei migranti in condizioni di grave disagio e nodo di passaggio quasi obbligato nell'iter
dell'allontanamento dei clandestini. Un elemento va fin d'ora sottolineato: l'aver previsto come
motivazione del trattenimento la mancanza di mezzi di trasporto significava, alla prova dei fatti,
elevare a prassi la permanenza nei Centri. La cronica scarsità di risorse a disposizione delle autorità
66
Così l'art. 7, commi 11 e 12 della Legge Martelli: «Quando a seguito di provvedimento di espulsione è necessario
procedere ad accertamenti supplementari in ordine all'identità' ed alla nazionalità dello straniero da espellere, ovvero
all'acquisizione di documenti o visti per il medesimo e in ogni altro caso in cui non si può procedere
immediatamente all'esecuzione dell'espulsione, il Questore del luogo in cui lo straniero si trova può' richiedere,
senza altre formalità, al tribunale l'applicazione, nei confronti della persona espellere, della sorveglianza speciale
della pubblica sicurezza, con o senza l'obbligo di soggiorno in una determinata località. Nei casi di particolare
urgenza, il Questore può richiedere al Presidente del Tribunale l'applicazione provvisoria della misura di cui al
comma 11 anche prima dell'inizio del procedimento. In caso di violazione degli obblighi derivanti dalle misure di
sorveglianza speciale lo straniero e' arrestato e punito con la reclusione fino a due anni».
38
di P.S. unita alle fisiologiche difficoltà di un accompagnamento coatto in territori anche molto
lontani dal nostro avrebbero fatto sì che, negli anni successivi all'approvazione del T.U., le
espulsioni eseguite con immediato accompagnamento alla frontiera diventassero sempre meno
frequenti e aumentasse invece il numero di coloro che facevano esperienza di un periodo di
trattenimento in un Centro di Permanenza Temporanea. La prime ripercussioni di questo fenomeno
si sarebbero viste proprio sull'efficacia espulsiva dei centri, non ancora sufficientemente attrezzati
ad recepire un numero consistente di migranti: nel 1999, su circa 8.800 stranieri transitati attraverso
i C.P.T. solo il 44% era stato effettivamente espulso e la percentuale scendeva al 31,1% dei 9.700
trattenuti per l'anno 2000 e al 29,6% dei quasi 15.000 per l'anno 200167
.
La detenzione in un C.P.T. poteva protrarsi per un tempo massimo di venti giorni, estendibile per
altri dieci su autorizzazione del Pretore, da concedersi quando «l'eliminazione dell'impedimento
all'espulsione o al respingimento» fosse da considerarsi «imminente». Il legislatore poneva un
termine (relativamente) breve per il trattenimento dei migranti, supponendo che tale lasso di tempo
fosse sufficiente a svolgere le attività di identificazione (normalmente consistenti in colloqui con gli
stranieri e visite ai consolati) ma nulla diceva il T.U. rispetto al caso in cui a tale identificazione non
si fosse riusciti a giungere entro i trenta giorni. Il punto verrà chiarito dal Regolamento attuativo68
:
gli immigrati clandestini ai quali non si fosse riusciti a dare un identità certa (e soprattutto una
nazionalità) dovevano essere lasciati liberi ma doveva essere loro intimato di lasciare il territorio
italiano entro quindici giorni. Ciò significava una riproposizione, in tutta la sua virulenza, del
problema dell'identificazione e l’innescarsi di un circolo vizioso di ordini di allontanamento non
eseguiti e trattenimenti scaduti a cui i legislatori degli anni successivi non sembreranno essere in
grado di dare risposta diversa dal prolungamento ad libitum dei termini massimi di permanenza nei
centri.
L'art. 14 si occupava di predisporre le garanzie giurisdizionali per i migranti detenuti nei C.P.T.: il
Questore era tenuto ad informare il Pretore dell'avvenuto trattenimento entro 48 ore. Compito di
quest’ultimo era verificare l'esistenza dei presupposti necessari per l'applicazione del
provvedimento, anche tramite l'audizione dello straniero: se l'esito del controllo era positivo
ordinava la convalida del provvedimento (con le modalità dell'udienza in camera di consiglio).
Contro il decreto di convalida (e contro quello di proroga dei termini del trattenimento) era
proponibile soltanto il ricorso davanti alla Corte di Cassazione e tale ricorso non sospendeva
67
I dati sono contenuti nella Deliberazione n. 22/2003/G della Corte dei Conti- Sezione centrale di controllo sulla
gestione delle Amministrazioni dello Stato, contenente la Relazione sulla gestione delle risorse previste in
connessione al fenomeno dell'immigrazione (pag. 92 e ss.).
68
Si tratta del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394. Gli articoli di riferimento in tema di trattenimento nei C.P.T. sono quelli
dal 20 al 23.
39
l'esecuzione del provvedimento: il migrante rimaneva dunque all'interno del C.P.T., esposto
all'eventuale esecuzione dell'espulsione.
Bisogna fin d'ora sottolineare come, nell'intento del legislatore, il trattenimento nei C.P.T. non
dovesse assolutamente configurarsi come una misura penitenziaria e i Centri fossero stati
ripetutamente definiti «non detentivi». Dal punto di vista giuridico il Governo giustificava la
permanenza degli stranieri in luoghi esclusivamente deputati alla loro identificazione ai fini
espulsivi facendo riferimento alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 1950, che
consentiva agli stati aderenti di introdurre «misure custodiali provvisorie straordinarie preordinate
all'esecuzione del provvedimento di espulsione»69
. I sostenitori della scelta operata dal Testo Unico
sottolineavano come all'interno C.P.T. dovesse essere garantito il totale rispetto dei diritti della
persona e dovessero essere assicurate assistenza condizioni di vivibilità dignitose. A differenziare
ulteriormente il trattamento riservato ai trattenuti nei centri rispetto a quello dei detenuti si faceva
riferimento alla libertà di corrispondenza e comunicazione - anche telefonica - con l'esterno che
veniva loro garantita, ai sensi dell'art. 14 comma 2. Rimaneva però, a sottolineare chiaramente la
natura ambigua dei centri, la previsione dell'art. 14 comma 7: «Il Questore, avvalendosi della forza
pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal
centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata». La
limitazione coatta della libertà personale differenziava nettamente i C.P.T. dai C.P.A. e ne metteva
in evidenza la natura: «luoghi chiusi, parenti stretti del carcere» (EINAUDI 2007, 275).
1.6. Gli scontenti del Testo unico e le molte facce della legge Bossi-Fini.
Con l'elaborazione del Testo Unico il Governo dell'Ulivo aveva compiuto un'azione senza
precedenti, nel segno della cooperazione tra ministeri e del tentativo di dare finalmente vita ad una
politica migratoria di ampio respiro. Si trattava certo di un testo perfettibile (come era stato quello
della Legge Martelli) al quale, plausibilmente, sarebbero state apportate modifiche dopo una prima
fase di sperimentazione sul campo, ma la cui impostazione di fondo sembrava avere tutte le carte in
regola per venire incontro sia alle istanze di accoglienza che a quelle di maggior sicurezza,
espressioni di un disagio legato alla presenza degli stranieri che era in effetti consistente
69
La disposizione è contenuta nell'art. 5, comma1, lettera f della legge di ratifica n. 848 del 4 agosto 1955. La
C.E.D.U. costituiva il solo riferimento normativo in grado di dare giustificazione legale alle strutture di detenzione
amministrativa e ad essa avevano fatto ricorso i paesi dell'area Schengen che avevano adottato misure simili. Che
l'istituzione avesse radici sovrannazionali sarà sottolineato, anni più tardi, dal Ministro Turco, che affermerà inoltre
di aver ricevuto, all'epoca, un documento dell'Unione Europea che «confermava [...] che tutti i paesi europei, ad
eccezione della Finlandia, avevano creato centri di permanenza temporanei, con regole molto più severe dell'Italia»
(TURCO E TAVELLA 2005, 51).
40
nell'opinione pubblica70
. La reazione al nuovo testo normativo fu invece molto negativa. Livia
Turco alcuni anni dopo attribuirà questo contraccolpo alla mancanza di sostegno istituzionale e alla
scarsa pubblicità garantita alla legge, che avrebbero impedito ai cittadini di coglierne tutta la
complessità (TURCO E TAVELLA 2005, 66 e ss.), ma ciò che più incise fu, con tutta probabilità, la
copertura e l'attenzione che i partiti dell'opposizione diedero al tema dell'immigrazione, diventato
nodo centrale del discorso politico in vista delle elezioni per la XIV Legislatura. Caduto il Governo
Prodi ed instauratisi nel giro di pochi anni il primo e il secondo Governo D'Alema, il periodo 1999-
2001 si caratterizzò per il clima di “campagna elettorale permanente”, alimentato dal centrodestra in
ripresa di consensi. Quello dell'immigrazione era il tema sul quale far leva per mobilitare l'elettorato
più militante (a destra come a sinistra) e sul quale si erano ricomposte le fratture e le differenze
politiche tra Lega Nord e Alleanza Nazionale. Ancora una volta la “questione stranieri” era al
centro dell'infuocato dibattito pubblico e la neonata entità politica di centro-destra, la Casa delle
Libertà, ricercava il successo elettorale rimarcando la propria volontà di discostarsi fortemente
dall'impostazione della legge Turco-Napolitano. L'obbiettivo esplicitato dagli esponenti della nuova
formazione era la riduzione dell'entità dei flussi migratori, da operarsi da un lato attraverso la stretta
sull'immigrazione legale e dall'altro tramite una maggiore severità di trattamento riservato agli
irregolari e a coloro che ne procuravano l'ingresso nel Paese.
Le posizioni all'interno della coalizione d'opposizione erano in realtà alquanto diversificate, ma è
possibile riassumere le proposte portate avanti dai partiti di centro-destra nella seconda parte della
XIII Legislatura in tre capisaldi:
Lotta alla criminalità collegata all'immigrazione clandestina. La Lega Nord in particolare rilanciò il
binomio criminalità-immigrazione e propose un corposo pacchetto di modifiche per contrastare il
fenomeno: aumento delle espulsioni definite «vere» (ovvero quelle eseguite tramite
l’accompagnamento coatto a mezzo delle forze dell'ordine), rigido controllo delle frontiere,
introduzione del reato di permanenza clandestina sul territorio nazionale e utilizzo delle Forze
Armate contro i c.d. “scafisti”.
Riduzione del numero di immigrati regolari presenti nel nostro paese tramite l'introduzione di
strumenti di prelazione per i lavoratori nazionali. Il progetto era quello di introdurre quote molto più
restrittive - magari su base regionale - e, al contempo, soddisfare il fabbisogno di manodopera
70
Negli ultimi mesi del 1999 la Commissione per le politiche di integrazione (istituita dall'art. 46 della legge n.
40/1998) commissionò all'ISPO un sondaggio d'opinione per verificare la percezione dell'insicurezza dei cittadini
italiani in relazione alla crescente presenza di stranieri sul territorio. Il 73,5% degli intervistati si dichiarò molto o
abbastanza d'accordo con'affermazione “la presenza degli immigrati aumenta la delinquenza” (ZINCONE 2000, 43).
Al 31 dicembre 1999 il numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane rappresentava il 27,13% del totale. Cfr.
Documento programmatico per il triennio 2001-2003, relativo alla politica dell'immigrazione e degli stranieri nel
territorio dello Stato, adottato con il D.P.R. 30 Marzo 2001.
41
(concentrato soprattutto nelle aree del Nord-Est) incentivando la mobilità interna dei disoccupati
dalle aree depresse del meridione e il ritorno in Italia dei discendenti di coloro che erano emigrati in
passato fuori dal Paese.
Favorire soltanto l'immigrazione temporanea, a breve termine, con l'obbiettivo di non accrescere la
percentuale di popolazione straniera residente71
. Questo proposito si saldava con quello espresso
dalla duplice parola d'ordine leghista «padroni a casa nostra/aiutiamoli a casa loro»: gli aiuti alla
cooperazione allo sviluppo avrebbero dovuto essere aumentati, ma solo nei confronti di quegli Stati
esteri che avessero garantito pieno appoggio all'attività di contrasto dell'immigrazione clandestina e
accettazione di tutti i migranti rimpatriati a seguito dell'espulsione dall'Italia.
Nel maggio 2001 si tennero le elezioni parlamentari e la forza politica che ne uscì nettamente
vincitrice fu proprio la Casa delle Libertà. Già nei primi mesi del suo Governo, il centrodestra si
impegnò per la stesura di un nuovo testo in materia di immigrazione: il coordinamento dell'attività
preparatoria non fu però gestito personalmente dal Presidente del Consiglio, ma venne affidato
quasi totalmente all'allora Vice Presidente del Consiglio Gianfranco Fini e al Ministro per le
riforme istituzionali Umberto Bossi72
. Le prime bozze di legge che trapelarono sui giornali73
mostravano un progetto ferreo, pienamente in linea con i tre capisaldi che abbiamo descritto sopra:
introduzione del divieto di ottenere contratti a tempo indeterminato per gli immigrati
extracomunitari, introduzione del reato di immigrazione clandestina al fine di trattenere gli
immigrati nei C.P.T. a tempo indeterminato fino all'identificazione ed espulsione. Questa prima
versione della proposta di legge venne osteggiata dalla componente cattolica del Governo: i due
partiti democristiani che facevano parte della coalizione (Ccd e Cdu) rifiutavano la linea dura
espressa dai relatori e diedero inizio ad una costante azione di opposizione interna, durata più di un
anno e diretta all'eliminazione o allo svuotamento di molte delle norme proposte. Un altro elemento
del progetto portato avanti dai cattolici – sul quale insisteva in particolare il nuovo segretario del
Ccd Marco Follini74
- era l'introduzione nella legge di una nuova sanatoria, per controbilanciare la
71
Il modello di riferimento era quello adottato, fin dagli anni '60, dai paesi di area tedescofona (Germania, Austria,
Svizzera): immigrazione strettamente legata al lavoro, con prospettive di ciclico e frequente ritorno nel paese
d'origine, accompagnata da un atteggiamento verso i migranti tendenzialmente «separatista» (GASPARINI CASARI
2010, 127).
72 Al Vice Presidente Fini e al Ministro Bossi si deve l'aspetto programmatico della legge, mentre degli elementi
applicativi si occuparono poi principalmente il Ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu e il Ministro del Lavoro e
delle Politiche Sociali Roberto Maroni.
73 Cfr. Massimo Martinelli La vera bozza del Governo: via libera solo a chi potrà lavorare in Italia. Quote di accesso
ogni anno, in base alle richieste di aziende e privati. Il reato penale scatterà solo con l'obbiettivo di trattenerli nei
centri di accoglienza, in “Il Messaggero”, 11 luglio 2001.
74 Cfr. Immigrati, è ancora scontro. Dal Governo nuovo no ai centristi. Il Ccd Follini cita Deng Xiao Ping e rilancia
“risolveremo il problema nella legge sul sommerso”, in “La Repubblica”, 20 maggio 2002.
42
stretta sui controlli alla frontiera e la riduzione delle quote, venendo incontro alle esigenze delle
imprese e alle sollecitazioni dell'associazionismo. Le pressioni dell'ala moderata si mostrarono in
effetti molto efficaci, visto che al momento dell'approvazione, come diremo in seguito, la legge
Bossi-Fini conteneva un provvedimento che diede vita alla «più grande regolarizzazione della storia
europea» (EINAUDI 2007, 308).
La maggioranza voleva fortemente una rapida approvazione della nuovo testo, in modo da poter
tener fede alle proprie promesse elettorali: il disegno di legge venne presentato al Senato nel
novembre 2001 e le Commissioni parlamentari non ebbero neppure modo di concluderne l'esame
perché il Governo decise di accelerare i tempi chiedendo direttamente il voto dell'aula, cercando di
evitare che il progetto rimanesse paralizzato dagli oltre mille emendamenti proposti
dall'opposizione. Le votazioni, sia alla Camera che al Senato, si svolsero in un clima poco sereno e
con modalità piuttosto convulse75
ma alla fine la legge venne approvata l'11 luglio 2002, con la
dicitura “Modifica alla normativa in materia di immigrazione ed asilo” (L. 30 luglio 2002, n. 189).
La Bossi-Fini non abrogava il Testo Unico approvato solo pochi anni prima dal centro-sinistra, ma
interveniva su alcuni punti chiave della legge, in senso prevalentemente restrittivo: permessi e carte
di soggiorno; possibilità di ottenere i ricongiungimenti familiari; modalità di espulsione degli
irregolari; disciplina dei C.P.T.. Come ebbe a dichiarare anche lo stesso Giorgio Napolitano76
, il
Governo non era riuscito ad intaccare gli assi della precedente legge. Il sistema delle quote e delle
espulsioni amministrative era rimasto intatto e non era stata alterata neppure la parte finale del T.U.,
che conteneva le politiche per l'integrazione. Ancora una volta, il legislatore, affrontando il tema
dell'immigrazione si era risolto ad adottare una politica del bastone e della carota.
Cerchiamo ora di approfondire quali aspetti della riforma del 2002 costituissero il “polo del rigore”
e quali altri il “polo del favore”. Il primo degli ambiti a cui il legislatore andava ad imporre un giro
di vite era quello della disciplina degli ingressi e dei permessi di soggiorno. In materia va
innanzitutto segnalata una modifica apparentemente marginale relativa al meccanismo di
programmazione dei flussi, che comportava però pesanti ripercussioni in tema di politiche
migratorie e consistenza della presenza straniera legale in Italia. Parliamo dell'art. 3 della legge
189/2002 che andava a modificare il quarto comma dell'art. 3 del T.U., dov'era prevista la
75
Significativamente, il testo venne approvato al Senato alla prima lettura, dopo appena sei giorni di discussione
parlamentare caratterizzati da votazioni continue, accompagnate da tutte le possibili forme di ostruzionismo ma con
pochissime discussioni sul merito della legge. La difficoltà del dibattito emerge chiaramente dalle trascrizioni delle
sedute, che sono consultabili sul sito http://www.legxiv.camera.it.
76 Cfr. MARIASTELLA IERVASI Immigrazione, bocciata la legge. Coro di no: dai teologi ai sindacati, dall'Anm
all'Arci. Riserve anche dal Ministro Tremagia. Napolitano: «provvedimenti odiosamente restrittivi», in “L'Unità”,
16 settembre 2001.
43
possibilità, in caso di inerzia del legislatore nell'emanare il decreto di programmazione delle quote,
di fare riferimento per la loro determinazione al “decreto flussi” dell'anno precedente. Espunta dal
testo questa disposizione, puntualmente, il Governo omise di emanare, per quell'anno, il decreto
programmatorio e adottò una circolare77
diretta agli uffici preposti al rilascio dei provvedimenti che
imponeva di non accogliere le domande di autorizzazione relative ai nuovi immigrati: si realizzava
così la chiusura delle frontiere in via amministrativa78
. Sul punto non si può che condividere la
critica mossa da FINOCCHI GHERSI (2007, 16): con questo provvedimento si coltivava - per circolare
- il sogno dell'immigrazione zero, senza rendersi conto che l'effetto che ne sarebbe scaturito sarebbe
sicuramente stato quello dell'aumento dell'immigrazione irregolare piuttosto che il suo contrasto.
Non fu, in ogni caso, il tema della programmazione dei flussi quello su cui il legislatore del 2002
cercò di agire in maniera più incisiva. Nella comunicazione pubblica come nell'effettiva stesura
della legge il Governo non si era concentrato tanto sulle macropolitiche migratorie quanto su un
aspetto più prettamente amministrativo, quello delle autorizzazioni al soggiorno. La prima versione
del disegno di modifica del Testo Unico prevedeva la sostituzione del permesso con un “contratto di
soggiorno” che avrebbe dovuto essere sottoscritto da datori di lavoro e migranti, prima che questi
ultimi entrassero in Italia. Con questo contratto il lavoratore accettava di legare la propria
permanenza sul territorio italiano all'attività lavorativa, impegnandosi ad allontanarsi in caso di
perdita dell'impiego. Questo progetto - che costituiva l'applicazione pratica dello slogan leghista «si
entra in Italia solo con un contratto di lavoro in mano»79
- finì per arenarsi definitivamente per i
contrasti con le direttive europee in materia, anche se la debolezza dell'impianto era apparsa chiara
fin dall'inizio, dal momento che gli stessi redattori della l. 189/2002, nella prima versione, non
avevano voluto spingersi fino all'eliminazione dei permessi di soggiorno per richiesta d'asilo, per
motivi di cura, per studio e per motivi religiosi. Nella versione definitiva della legge il contratto,
disciplinato dagli art. 5 e 6, non sostituiva il permesso di soggiorno, ma lo affiancava soltanto.
Svuotato del proprio significato, il nuovo istituto non si rivelò nulla di diverso da un ulteriore
adempimento burocratico, capace di ingolfare le procedure a scapito della celerità necessaria al
buon svolgimento dei rapporti economici. Il contratto, inoltre, costituiva un onere soprattutto per il
77
Si tratta della Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 2 del 2002.
78 Sotto il profilo procedurale la scelta del legislatore venne fortemente criticata e ne fu messa in dubbio la legittimità:
nel momento in cui era stata emanata la Circolare, la precedente versione del Testo Unico era ancora in vigore e la
dottrina sottolineava (correttamente) come si fosse sostanzialmente vanificato con un atto amministrativo una
previsione avente forza di legge.
79 Si tratta di una frase coniata dal Ministro Maroni, che in quel torno d'anni veniva usata molto spesso nei comizi
degli esponenti leghisti, in parallelo con l'altro slogan programmatico «si viene in Italia per lavorare e non per
delinquere». Per il riferimento alle dichiarazioni di Umberto Bossi e Roberto Maroni è liberamente consultabile il
sito internet del partito http://www.leganord.org/index.php.
44
datore di lavoro, che doveva garantire un alloggio per il lavoratore e impegnarsi a pagargli le spese
per il viaggio di ritorno nel sua paese di provenienza una volta terminato il contratto80
.
Quanto alla politica dei permessi di soggiorno, abbandonata l'idea di porre un tetto massimo
assoluto alla durata della permanenza dei migranti nel nostro paese, venivano sostanzialmente
riconfermate le tipologie previste dalla legge Turco-Napolitano (massimo nove mesi per il lavoro
stagionale, massimo un anno per il lavoro subordinato a tempo determinato, massimo due anni per
il lavoro subordinato a tempo indeterminato e il lavoro autonomo). Coerentemente con l'intento di
aderire ad un modello non permanente di migrazione veniva però eliminato il meccanismo
“incentivante” a tappe contenuto nella precedente versione del Testo Unico: il permesso di
soggiorno non poteva avere una durata maggiore di quella prevista per il primo rilascio (art. 5
comma 4) e ottenere la carta di soggiorno diventava più difficile, dovendo dimostrarsi una residenza
regolare ininterrotta per sei anni invece che cinque (art. 9).
Sempre in linea con l'esempio tedesco, basato su migrazioni a breve termine, il legislatore della
Bossi-Fini mise poi mano al tema dei ricongiungimenti familiari. La possibilità di richiedere un
permesso di soggiorno per motivi di ricongiungimento familiare con un parente già presente in
Italia veniva limitata, ai sensi dell'art. 23, solo al coniuge, ai figli minori, ai «figli maggiorenni a
carico, qualora non possano per ragioni oggettive provvedere al proprio sostentamento a causa del
loro stato di salute che comporti invalidità' totale» e ai genitori, ma soltanto nel caso in cui non
avessero altri figli rimasti nel paese d'origine oppure (se ultra sessantacinquenni) qualora «gli altri
figli [fossero] impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute»81
.
In questo particolare provvedimento non si può fare a meno di ravvisare il timore verso l'instaurarsi
di consistenti catene migratorie e di radicate comunità di corregionali all'interno di aree del
territorio italiano; timore che aveva dato origine anche alla proposta (poi accantonata) di introdurre
“quote etniche” regionali, provinciali e persino comunali. Vale la pena ricordare in tal senso le
parole del responsabile immigrazione di Alleanza Nazionale Gian Paolo Landi di Chiavenna, che
già nel 1999 aveva presentato un disegno di legge contenente queste previsioni così esprimendone
la ratio: «bisogna evitare che si territorializzino concentrazioni di appartenenti a una stessa etnia o a
80
Appena resa nota questa disposizione le associazioni datoriali protestarono immediatamente per la sua gravosità. Il
correttivo non tardò ad arrivare, ma privò di significato l'istituto del contratto di soggiorno in misura ancora
maggiore. Nel regolamento attuativo (D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334) il termine «garantire» venne sostituito con
«indicare», cosicché i datori di lavoro risultassero tenuti soltanto a ad individuare una sistemazione alloggiativa, ma
non a assicurarne la disponibilità una volta che il lavoratore fosse effettivamente arrivato in Italia.
81 Nella versione originaria del Testo Unico il ricongiungimento familiare poteva essere chiesto per il genitore
indipendentemente dall'età o dalla presenza dia altri figli, come pure per i parenti a carico entro il terzo grado (art.
29, in vigore fino al 9 settembre 2002).
45
una stessa religione, in quanto ciò può facilmente comportare l'insorgenza e la recrudescenza di
consorterie, bande o cupole del crimine […] evitare pericolose agglomerazioni monoetniche e/o
monoreligiose, e così da assecondare la ricettività locale del mercato del lavoro, ove essa esiste, a
tutto favore del processo di integrazione»82
.
Il timore e la diffidenza verso i migranti, il tentativo di arginarne l'afflusso e il percorso di
assimilazione con la popolazione nazionale non costituivano però un unicum dell'esperienza
italiana. Al momento dell'approvazione della legge 189/2002, l'allarme e il sospetto nei confronti
degli stranieri avevano raggiunto un grado particolarmente elevato non solo in Italia, ma anche a
livello globale: dopo gli attentati che avevano tragicamente colpito gli Stati Uniti l'11 settembre
2001 al radicato binomio immigrazione-criminalità si era sommato quello immigrazione-terrorismo
(di matrice islamica). L'inasprimento dei controlli alle frontiere, il rafforzamento del contrasto
all'immigrazione clandestina e l'attenzione particolarmente viva rispetto alla provenienza dei flussi
migratori sono stati fenomeni che hanno caratterizzato diffusamente i primi anni 2000. E' da
ricondursi anche a questo stato di allerta l'introduzione nella legge Bossi-Fini di una delle previsioni
più contestate, quella riguardante l'obbligo di identificazione mediante la rilevazione delle impronte
digitali. L'art. 7 della legge trasformava quella che nel Testo Unico era una facoltà attribuita alle
autorità di P.S. in caso di incertezza sull'identità del migrante in un dovere: ogni straniero
proveniente da paesi non appartenenti all'Unione Europea doveva sottoporsi, al momento della
richiesta del permesso di soggiorno o del suo rinnovo a «rilievi fotodattiloscopici e segnaletici».
Questa previsione venne contestata duramente da più parti, dai sindacati (Sergio Cofferati) ai
giuristi (Asgi), che consideravano il provvedimento discriminatorio e lesivo dei diritti fondamentali,
oltre che della legge italiana sulla privacy, dal momento che il rilievo delle impronte digitali
riguardava soltanto gli stranieri extracomunitari e, per di più era svincolato dalla sussistenza di un
qualsiasi dubbio sulla loro identità personale. L'effettiva legittimità della norma sulle impronte
digitali è questione ancora aperta, sulla quale è difficile assumere una posizione non ideologica: ci
limitiamo qui a segnalare l'opinione favorevole di Paolo Borgna che, partendo dalla sua esperienza
di magistrato, afferma che la creazione di una banca dati delle impronte digitali quanto più ampia
possibile ha costituito un elemento essenziale nel contrasto alla criminalità straniera (e non), uno dei
pochi efficaci strumenti a disposizione delle forze dell'ordine non contro i migranti tout court ma
contro i «delinquenti che emigrano» (BORGNA 2011, 47).
82
Gian Paolo Landi di Chiavenna, L'Italia, paese senza più frontiere, in “Il Secolo d'Italia”, 12 gennaio 1999.
46
Su un binario parallelo a quello dell'identificazione si collocava naturalmente il tema
dell'espulsione, uno tra gli aspetti più pubblicizzati dell'intervento del Governo sul Testo Unico, al
quale la Legge Bossi-Fini dedicava gli articoli da 12 a 15. Sotto il profilo delle modalità esecutive,
la riforma aveva creato un vero e proprio rovesciamento di prospettive rispetto all'impostazione
della Legge Turco-Napolitano: l'accompagnamento coatto alla frontiera dello straniero da espellere
diventava la regola, quando nella precedente versione del T.U. era considerata un'eccezione, da
applicarsi solo nei casi di espulsioni disposte dal Ministro dell'Interno o quando si fosse riscontrato
un concreto pericolo di fuga. Parallelamente diventava residuale l'ipotesi dell'espulsione tramite
intimazione a lasciare il territorio italiano entro quindici giorni, che veniva riservata ai soli casi di
coloro che si fossero trattenuti in Italia oltre sessanta giorni dopo la scadenza del permesso di
soggiorno e non ne avessero chiesto il rinnovo. Anche per questa categoria di irregolari, in ogni
caso, poteva essere disposto l'accompagnamento immediato alla frontiera, qualora il Prefetto avesse
modo di ritenere che lo straniero si sarebbe sottratto all'esecuzione del provvedimento.
Con l'intento di dare maggior effettività alle espulsioni amministrative e a quelle giudiziali venivano
inasprite le sanzioni previste per i casi di reingresso illegale nel territorio italiano83
: per chi violava
la seconda volta le norme amministrative sull'ingresso e il soggiorno era previsto l'arresto e il
processo con rito direttissimo, seguito dall'espulsione con accompagnamento coatto, ma alla terza
entrata clandestina corrispondeva l'applicazione effettiva di una pena detentiva , da uno a quattro
anni di reclusione (art. 13)84
. A garanzia del migrante rimaneva l’obbligo di disporre l’espulsione
con decreto motivato e la possibilità di presentare ricorso contro di esso davanti al Tribunale in
composizione monocratica entro sessanta giorni, anche se il provvedimento espulsivo rimaneva
immediatamente esecutivo indipendentemente dall’impugnazione. Infine, per gli stranieri
destinatari di un provvedimento di espulsione che fossero sottoposti a procedimento penale ma non
si trovassero in stato di custodia cautelare, l'art. 12 della l. 189/2002 prevedeva la possibilità per il
Questore di disporre il trattenimento in un C.P.T. (in attesa del nulla osta dell'autorità giudiziaria).
Si trattava di una disposizione particolarmente spinosa: i Centri, nell'impostazione della legge
Turco-Napolitano, pur presentandosi come luoghi para-detentivi, erano però destinati ad ospitare
soltanto persone che avessero commesso infrazioni amministrative e l'obbiettivo precipuo della
83
Il riferimento era, in realtà, sia a coloro che si fossero trattenuti dopo aver ricevuto l'intimazione ad abbandonare il
Paese sia a coloro che fossero rientrati in Italia una volta effettivamente espulsi. La legge Bossi-Fini elevava inoltre
a dieci anni il divieto di reingresso a seguito dell'espulsione (salva la possibilità del giudice di ridurre il periodo fino
alla soglia minima dei cinque anni, prevista dalla precedente versione del T.U.).
84 Il reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine di allontanamento del Questore diventerà, negli anni seguenti, uno
dei protagonisti dell'attività quotidiana delle aule penali. E' d'obbligo sottolineare come in questa fattispecie di reato
si riscontri un'inestricabile «commistione tra dimensione penalistica e dimensione amministrativistica» che era
praticamente inedita per l'ordinamento italiano (CAPUTO 2006, 283 e ss).
47
permanenza degli stranieri al loro interno doveva rimanere quello dell'identificazione personale. Il
nuovo comma 3 dell'art. 13 T.U. apriva invece le porte dei C.P.T. a immigrati che avevano
effettivamente commesso reati penali (anche di una certa gravità), creando un contatto tra questi e la
larga percentuale di popolazione straniera incensurata. Si ponevano in essere i presupposti perché la
detenzione amministrativa si trasformasse in un vero e proprio fenomeno criminogeno e
l'esperienza degli anni seguenti avrebbe chiaramente messo in luce le proporzioni del problema
(MEDICINES SANS FRONTIERES 2010, 146 e ss.).
A parte questa disposizione la Legge Bossi-Fini non dedicava molto spazio all'istituto dei Centri di
Permanenza Temporanea85
: venivano incrementati i fondi stanziati per la costruzione di nuove
strutture, veniva raddoppiato il periodo massimo di permanenza (trenta giorni, reiterabili per altri
trenta) e si riduceva a cinque giorni il periodo di tempo concesso per lasciare il paese allo straniero
rilasciato dal C.P.T. una volta trascorso il periodo massimo di detenzione. Abbandonato il progetto
originario di introdurre il reato di clandestinità86
, la preoccupazione maggiore del legislatore
sembrava quella di evitare il rilascio degli stranieri dai Centri per decorrenza dei termini ed
aumentare l'efficacia delle espulsioni. La realtà dei primi Centri istituiti sulla base delle disposizioni
della legge Turco-Napolitano era però assai complessa e già diversi punti di debolezza dell'impianto
normativo erano emersi dalla prassi, in quel breve torno d'anni.
A sottolineare come la riforma del 2002 abbia sostanzialmente evitato di affrontare la questione dei
C.P.T., vale la pena effettuare ora un piccolo excursus sui primi, difficili passi compiuti
nell'attuazione delle misure previste dalla l. 40/1998. Le strutture per la detenzione amministrativa
dei migranti si erano rivelate fin dall'inizio istituzioni impopolari, per ragioni diverse, sia a destra
che a sinistra. In primo luogo il Ministero dell'Interno incontrò notevoli difficoltà nel reperire dei
siti adatti alla creazione dei primi centri: molte autorità locali avevano inizialmente rifiutato di
accettarne l'apertura sul proprio territorio, avendoli erroneamente interpretati come centri di
accoglienza, che avrebbero attirato un gran numero di immigrati bisognosi di assistenza che esse
85
Che avevano ormai perso, nel linguaggio comune ma in alcuni casi persino in quello del legislatore, la A di
assistenza.
86 La motivazione addotta ufficialmente dal Governo fu quella che l'introduzione di un reato apposito avrebbe finito
per sovraccaricare di lavoro i tribunali e riversare nelle carceri italiane, già in grave (e permanente) crisi di spazio un
gran numero di stranieri che invece avrebbero potuto agilmente essere allontanati dal Paese. In realtà fu
l'opposizione del Ccd-Cdu, portavoce in tal senso degli appelli della Chiesa cattolica, a portare all'abbandono
dell'ipotesi di reato. Ne è una prova il fatto che il delitto di immigrazione clandestina verrà introdotto alcuni anni
dopo dalle stesse forze parlamentari che l'avevano proposto nel 2001, in una compagine di Governo che non
comprendeva più i due partiti democristiani (e i paventati effetti di sovraffollamento carcerario e paralisi dell'attività
dei tribunali si verificarono puntualmente).
48
non potevano o volevano predisporre. In seguito, quando il ruolo dei centri divenne più chiaro,
subentrò l'aspetto della politicizzazione: la gran parte delle amministrazioni di centro-sinistra non
condividevano per puro principio l'istituzione di luoghi di detenzione per i migranti (che fin
dall’inizio avevano iniziato ad essere bollati come lager), mentre le amministrazioni di centro-
destra, che chiedevano a gran voce più espulsioni e più severità verso gli irregolari nel nome della
sicurezza, si rifiutavano di ospitare i C.P.T. sul loro territorio, affermando che avrebbero portato
degrado e avrebbero sollevato le indesiderate attenzioni dei “riottosi” dei centri sociali87
. Anche la
gestione materiale dei centri risultò problematica: l'intenzione del Governo era stata quella di tener
fuori le forze dell'ordine, utilizzandole solo per l'aspetto della sicurezza e per impedire la fuga dei
trattenuti, affidando gli aspetti organizzativi al volontariato, ma le associazioni no profit di matrice
cattolica si erano rifiutate di prendere in carico un'istituzione che consideravano esclusivamente
repressiva88
, tanto che in ultima istanza l'unica ad accettare il ruolo fu la Croce Rossa italiana.
Data la mole di difficoltà che avevano accompagnato la nascita dei C.P.T. non era improbabile
prevedere che quei luoghi avrebbero presto generato situazioni di crisi: pochi giorni prima del
capodanno del 1999 sei migranti che si trovavano all'interno del centro di Trapani morirono in un
incendio, appiccato da un altro trattenuto dando fuoco a dei materassi, forse per coprire il suo
tentativo di fuga. La questione delle condizioni di vita delle persone trattenute all'interno delle
strutture e del loro livello di sicurezza giunse immediatamente alla ribalta, convincendo il Ministro
dell'Interno ad aprire una vera e propria indagine conoscitiva. Il rapporto, stilato dal sottosegretario
Alberto Maritati, non si concludeva con la bocciatura dell'intero sistema dei C.P.T., ma richiedeva
la chiusura immediata di quattro centri considerati irrecuperabili (tra i quali il Centro di Francavilla
Fontana (BR), istituito in una fabbrica abbandonata e quello di Termini Imerese (PA) ospitato in un
ex carcere mandamentale). Maritati stilò inoltre, dopo lunghe consultazioni con le associazioni che
87
Emblematica fu la vicenda del C.P.T. di via Corelli, a Milano, in cui i migranti avevano finito per essere trattenuti
nei container che erano stati utilizzati per dare asilo ai terremotati dell'Irpinia quasi vent'anni prima. Attorno al
centro milanese si consumarono, nel gennaio 2000, violenti scontri tra polizia e centri sociali e la struttura venne
chiusa di lì a poco. Dopo la chiusura la Presidente della Provincia Ombretta Colli, che aveva presieduto
l'inaugurazione del centro come Assessore ai servizi sociali del Comune, dichiarò semplicemente: «la nostra è una
città già piena di disagi e di immigrati. E poi, possibile che con tutti i problemi che ci sono ci si debba occupare solo
di immigrati?». Altri esponenti del governo locale espressero posizioni che, ancora più chiaramente, si ponevano nel
solco del not in my backyard. Il Vice Sindaco Riccardo De Corato rilasciò questa dichiarazione alla stampa:
«Sappiano [gli esponenti della sinistra] che il comune non ha altre strutture idonee e chiediamo che lo costruiscano
in un'altra zona della Lombardia». Per una più completa ricostruzione dei fatti si veda Paolo Colonnello «Chiuso via
Corelli, non riapritene un altro»: Dopo la guerriglia a Milano un coro di no al trasferimento del centro, in “La
Stampa”, 31 gennaio 2000.
88 La Caritas italiana si era occupata della fase di avviamento di due Centri, quello di Trieste e quello di Trapani, ma
era stata un esperienza di breve durata. L'unico altro caso rilevante è stato quello del C.P.T. Regina Pacis di San
Foca, gestito per molti anni dall'arcivescovado di Lecce, che è stato chiuso nel 2006 a seguito dell'emersione di
numerosi casi di abusi perpetrati dai gestori ai danni dei migranti trattenuti al suo interno, in relazione ai quali sono
state emesse anche diverse condanne penali.
49
si occupavano di assistenza ai migranti, una «Carta dei diritti e dei doveri degli ospiti dei centri»,
che garantiva agli stranieri trattenuti assistenza legale e sanitaria, spazi di libero movimento, tessere
telefoniche gratuite, pieno accesso alle strutture per le associazioni umanitarie e libertà di praticare
le attività religiose del proprio culto col supporto dell'amministrazione.
Nonostante questi tentativi di “umanizzare” i C.P.T. un buon numero di magistrati e parte
consistente della dottrina avevano iniziato a prendere apertamente posizione contro
quest'istituzione, considerata fortemente incostituzionale, dibattendo il tema in alcuni convegni e
osteggiando nei Tribunali i provvedimenti di trattenimento89
. Nel giro di pochi mesi la questione
venne portata davanti alla Corte Costituzionale, che però si espresse in favore delle misure
contenute nella legge Turco-Napolitano, considerando l'istituzione dei Centri compatibile con le
garanzie (anche procedurali) previste dall'art. 13 della Carta90
. L'intervento della Corte non lasciò
però soddisfatti gli avversari della detenzione amministrativa e voci critiche continuarono a levarsi
contro i Centri e la loro gestione.
A grandi linee, era questa la caotica cornice in cui si era trovato ad agire il legislatore della legge
Bossi-Fini. Davanti alla scelta se eliminare l'istituto dei C.P.T. o quantomeno riformarlo
radicalmente (con il rischio di scontrarsi con il leading trend dei maggiori paesi europei91
) o se
mantenerne l'assetto, nel nome (anche) delle promesse fatte in sede di campagna elettorale, il
Governo optò per la seconda via. Si scelse quindi di allontanare il problema, di posticiparne la
soluzione, limitando le modifiche al Testo Unico a quelle scarne disposizioni a cui accennavamo in
apertura del paragrafo92
.
89
Nel novembre 2000 parte dei magistrati del Tribunale di Milano iniziarono a rifiutarsi di convalidare le richieste di
trattenimento che venivano loro presentate, liberano i migranti che si trovavano rinchiusi nei C.P.T.. La posizione
non veniva però condivisa da tutti i colleghi e si creò una situazione conflittuale piuttosto grave, sicuramente mai
auspicabile all’interno di un istituzione preposta a garantire anche la certezza del diritto. (EINAUDI 2007, 279).
90 Le sentenze della Corte Costituzionale in tema di legittimità delle disposizioni contenute nel riformato Testo Unico
saranno analizzate con maggiore attenzione nel prossimo paragrafo.
91 Nel 2001 molti paesi europei (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo, Svezia e Spagna) avevano
istituito centri di trattenimento destinati ai migranti in attesa di una decisione in merito alla loro espulsione o nei
confronti dei quali ci fossero difficoltà di identificazione o un concreto sospetto che potessero sottrarsi ai
provvedimenti di allontanamento dal territorio dello stato. I paesi nei quali queste strutture non erano ancora previste
progettavano la loro introduzione nell'ordinamento a breve e, nel frattempo, trattenevano gli immigrati destinati
all'espulsione in sezioni speciali degli istituti penitenziari.
92 In particolare con l'estensione dei termini di trattenimento fino a sessanta giorni si cercò di ovviare all'ingolfamento
delle operazioni di identificazione ed espulsione che si era venuto a creare a causa della scarsità di risorse e delle
forti difficoltà organizzative che avevano caratterizzato i primi anni dell'istituzione, come abbiamo brevemente
descritto supra. La lentezza procedurale portava ad accrescere il numero dei rilasci per decorrenza dei termini
massimi, con il conseguente abbassamento tendenziale della percentuale dei rimpatri denunciato già nel 2003 dalla
Corte dei Conti. Il successivo impennarsi della percentuale di rimpatriati (parallelamente a quello del numero totale
di trattenuti) avvenuto nel 2005 è da mettere in relazione con le modifiche apportate al Testo Unico dalla l.
271/2004, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
50
Abbiamo fin qui trattato l'aspetto repressivo della riforma del 2002, legato a quello che abbiamo
definito “polo del rigore”. Si tratta dell'aspetto più immediatamente evidente e più pubblicizzato
della legge ma per dare una panoramica completa della Bossi-Fini e del suo impatto sulla realtà
migratoria italiana dobbiamo prendere in considerazione anche il lato maggiormente propositivo, le
misure attinenti al “polo del favore” che, seppur non molto numerose, si sono dimostrate
particolarmente significative. Il primo provvedimento, sicuramente apprezzabile sotto il profilo
dell'efficienza della macchina burocratica con cui gli stranieri si trovavano a confrontarsi nel
regolarizzare la propria posizione, era l'istituzione dello sportello unico dell'immigrazione presso
ogni Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo (art.18). Attraverso la creazione di quest'unico
ufficio, responsabile dell'intero procedimento e punto di convergenza di tutte le pratiche (anche
relative al lavoro), si cercava di ovviare, alla prassi della doppia autorizzazione, nata negli anni
sessanta, nel periodo della c.d. «legislazione per circolari». Questa disposizione permise in effetti ai
datori di lavoro di evitare il duplice iter burocratico – presso il Ministero dell'Interno e presso il
Ministero del Lavoro – ed è da considerarsi come una delle novità più rilevanti contenute nella
legge 189/2002, anche se gli sportelli entrarono effettivamente in funzione solo con la legge
finanziaria del 2006.
Un altro tra gli aspetti che i relatori della nuova legge avevano scelto di evidenziare era il “cambio
di passo” che essa marcava nell'ambito della cooperazione internazionale con i paesi extraeuropei.
L'art. 1 della Bossi-Fini conteneva una disposizione ad hoc, che oltre ad allargare le maglie della
disciplina fiscale per incentivare «le elargizioni in favore di iniziative di sviluppo umanitario»,
dettava le linee guida che avrebbero dovuto essere seguite nei futuri rapporti con i paesi in via di
sviluppo, dai quali proveniva la gran parte dell'immigrazione italiana. Venivano supportati in modo
particolare gli accordi bilaterali: aiuti allo sviluppo in cambio di collaborazione nella lotta
all'immigrazione clandestina e garanzie in merito alla riammissione dei propri connazionali espulsi
dall'Italia. Nelle parole del legislatore i programmi di cooperazione dovevano tener conto della
«collaborazione prestata dai Paesi interessati alla prevenzione dei flussi migratori illegali e al
contrasto delle organizzazioni criminali operanti nell'immigrazione clandestina, nel traffico di esseri
umani, nello sfruttamento della prostituzione, nel traffico di stupefacenti, di armamenti, nonché in
materia di cooperazione giudiziaria e penitenziaria e nella applicazione della normativa
internazionale in materia di sicurezza della navigazione». Il Governo si riservava poi esplicitamente
di rivedere il programma di aiuti nel caso in cui i paesi extracomunitari in questione non avessero
rispettato, alla prova dei fatti, gli accordi, adottando misure adeguate di prevenzione e vigilanza sui
flussi migratori clandestini. Sulla carta le norme in questione si presentavano ammantate di una
51
certa severità, ma nella suddivisione che abbiamo cercato di operare tra disposizioni “di rigore” e
disposizioni “di favore” all'interno della legge Bossi-Fini non vi sono molti dubbi che le nuove
misure in materia di cooperazione internazionale afferissero al secondo polo. Il legislatore,
codificando come strumento primario di prevenzione dell'immigrazione clandestina gli accordi
bilaterali, attribuiva alle controparti extraeuropee dell'Italia un forte potere contrattuale: la minaccia
di tagliare qualsiasi collaborazione, aprire le frontiere e dare il via a ondate di migranti clandestini
diretti verso il nostro paese. Nella prassi degli anni seguenti lo strumento coercitivo non venne
infatti mai utilizzato, anche nei casi in cui i paesi esteri non dimostrarono alcuna volontà effettiva di
porre un freno alle migrazioni clandestine (o mostrarono di non esserne in grado). La cooperazione
bilaterale, che nella gran parte dei casi prevedeva l'introduzione di quote riservate per i cittadini del
paese estero con il quale si stringeva l'accordo, diventò così, alla prova dei fatti, uno degli strumenti
principali della politica migratoria italiana, canale preferenziale attraverso il quale un segmento
privilegiato (ma consistente) di stranieri riusciva a entrare nel nostro Paese evitando le gravose
strettoie burocratiche e lo spettro della clandestinità.
A questo punto non ci resta che analizzare l'ultimo e forse più importante provvedimento in materia
di immigrazione adottato nell'ambito della XIV legislatura: la maxi-regolarizzazione del 2002. La
Lega Nord si era espressa con veemenza contro l'inserimento nella legge di provvedimenti di
regolarizzazione, considerati come espressione del peggior lassismo e buonismo legislativo, ma
furono costretti a venire a più miti consigli fin dai primi momenti della discussione parlamentare.
Emergeva chiaramente, dalle critiche mosse in primis dalle associazioni di datori di lavoro, come la
legge, tentando di perseguire uno dei suoi obbiettivi, che era quello di eradicare la diffusione del
lavoro nero tra gli immigrati, finisse in realtà per scoraggiare il lavoro regolare. Era stata
immediatamente abolita la figura dello sponsor ed si era previsto di coprire i costi della più intensa
attività di polizia previsti dalla legge eliminando la possibilità per i lavoratori extracomunitari di
chiedere la liquidazione dei contributi versati qualora avessero abbandonato anzitempo la propria
attività lavorativa sul territorio italiano. Era innegabile che in tal modo lo straniero si trovava
fortemente tentato di richiedere tutto lo stipendio in nero: l'unica soluzione plausibile al problema
diventava quella di collegare lo stato di regolarità del rapporto di lavoro ad un incentivo molto più
appetibile – appunto, la sanatoria. Le prime pressioni vennero dal Ccd-Cdu, che insistette perché
venisse introdotto nella legge un provvedimento di regolarizzazione dedicato alle badanti, soggetti
graditi ai cittadini per il valore sociale della loro professione, ma una volta raggiunto un accordo su
questa misura estendere il provvedimento all'intero settore della collaborazione familiare fu quasi
immediato. Non appena la notizia trapelò sui giornali furono gli industriali (in particolare quelli del
52
Nord-Est) a protestare, sentendosi esclusi e discriminati: in pochi mesi la regolarizzazione fu estesa
a tutti i settori dell'economia. Alla fine, la sanatoria per colf e badanti venne introdotta nella Legge
Bossi-Fini (art.33) e la Lega Nord ottenne soltanto che il più ampio provvedimento dedicato a tutte
le altre professioni venisse approvato con un provvedimento separato93
, in modo tale che i relatori
potessero distanziarsene politicamente e “salvare la faccia” davanti all'elettorato. La doppia
regolarizzazione ebbe dimensioni senza precedenti non solo rispetto all'esperienza italiana ma
anche, come abbiamo anticipato, rispetto a quella di tutti i paesi europei: vennero presentate
705.000 domande e gli stranieri che effettivamente riuscirono a sanare la loro posizione furono
646.000. Il fatto che la proposta di sanatoria fosse stata presentata più di un anno prima della data
effettiva dell'entrata in vigore della regolarizzazione contribuì - unitamente al timore delle
accresciute sanzioni penali - all'aumento dei flussi irregolari diretti verso l'Italia: nei primi 3 mesi
del 2002 si registravano ben 2.600 sbarchi al mese sulle nostre coste (almeno un migliaio in più
rispetto al trimestre precedente). In ogni caso, la gran parte delle presenze irregolari nel nostro
paese proveniva oramai dall'Europa dell'Est e i protagonisti della sanatoria furono proprio i cittadini
europei non comunitari (avevano costituito il 10,4% dei regolarizzati nella sanatoria del 1990, nel
2002 erano il 59,2%)94
. Alla regolarizzazione non venne posto nessun tetto numerico e sotto il
profilo organizzativo un grosso miglioramento rispetto alle esperienze precedenti fu rappresentato
dalla possibilità di depositare le domande in qualunque ufficio postale. I datori di lavoro e le
associazioni di difesa dei migranti espressero grande soddisfazione per il provvedimento, tanto che
il Governo, che pure lo aveva adottato tra forti indecisioni, finì per trarne pubblicamente un bilancio
positivo. Se ancora a gennaio 2002 Maroni si era espresso con fermezza contro ogni sanatoria, a
dicembre 2002 Bossi e Fini presentavano i dati della regolarizzazione in conferenza stampa,
qualificando l'operazione come un grande successo della politica del centro-destra.
Se vogliamo, nella vicenda della sanatoria e nelle reazioni ambivalenti che l'hanno accompagnata,
possiamo individuare la cifra caratterizzante della l. 189/2002: nata come manifesto politico, come
contenitore di norme di bandiera, ha finito per trasformarsi in un testo dalle molte sfaccettature, nel
93
Legge 9 ottobre 2002, n. 222, intitolata “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 9 settembre
2002, n. 195, recante disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari”.
94 I dati riguardanti le due regolarizzazioni del 2002 sono tratti da ISTAT (2006, 6). L'immigrazione dai paesi
dell'Europa centro-orientale (in particolare dalla Romania) venne favorita in quegli anni dall'esenzione dal visto per
turismo, che venne concessa a partire dal gennaio 2002 a tutti i cittadini appartenenti agli stati in attesa di entrare a
far parte dell'Unione Europea (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Rep. Ceca, Rep. Slovacca,
Slovenia e Ungheria entreranno nell'Unione nel 2004; Bulgaria e Romania nel 2007).
53
quale si sono potuti leggere «la faccia feroce [del Governo] nei confronti dei poveri cristi»95
, il
velleitarismo e l'incapacità di incidere sui problemi reali96
come pure una positiva evoluzione
legislativa verso un modello di immigrazione e integrazione accettabile97
.
1.7. I dubbi di costituzionalità e gli aggiustamenti della Legge 271/2004.
Come abbiamo già avuto modo di accennare, sin dai primi anni di vigenza del Testo Unico
sull’immigrazione, si era aperto un vivo dibattito in merito alla compatibilità di alcune delle disposizioni in
esso contenute con la nostra Carta costituzionale. Gli aspetti più controversi rimanevano quelli legati
all’espulsione - alle sue modalità e alle garanzie che avrebbero dovuto circondarla – e al trattenimento degli
stranieri nei Centri di permanenza temporanea. La Consulta aveva emesso la prima importante sentenza in
materia nel 200198
, in risposta a più di venti ordinanze di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di
Milano. I giudici che avevano sollevato la questione avevano contestato in particolare alcuni punti degli
articoli 13 e 14 del T.U., riscontrando in tali previsioni una violazione dei commi secondo e terzo
dell’articolo 13 della Costituzione99
, nella convinzione che in base ad esse venisse sottratto il provvedimento
di espulsione all’effettiva convalida dell’autorità giudiziaria100
. Nei ricorsi veniva sottolineato in particolare
come sia il provvedimento di accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica sia quello che
95
La dichiarazione è dell’ex Ministro Livia Turco. Cfr. Immigrati. La faccia feroce del Governo, in “L'Unità”, 19
febbraio 2002.
96 Questa la posizione espressa dalla sociologa Giovanna Zincone : «La Bossi-Fini sull'immigrazione non è una legge
feroce. E' solo un po' inutile e incoerente. Il cane da guardia anti-immigrati si è dato una bella calmata. I ferini
propositi pre-elettorali di Bossi si sono trasformati in sterili sermoni». Cfr. ZINCONE Immigrati, tanto rumore per
nulla, in “La Repubblica”, 13 luglio 2002.
97 In particolare affermazioni in tal senso vennero rese, nel periodo immediatamente successivo all'approvazione della
legge da esponenti dell'Udc (la forza politica nata nel dicembre 2002 dalla fusione di Ccd e Cdu), soddisfatti del
lavoro di “ammorbidimento” del testo normativo da loro operato durante la discussione parlamentare. Per una
ricognizione più ampia delle posizioni favorevoli e contrarie alla nuova legge nei giorni seguenti ai licenziamento
della legge v. Passa la Bossi-Fini. Norme più severe per gli immigrati. Berlusconi: “Entro agosto regole per i
clandestini nelle imprese”. La maggioranza. “Un successo”. Il centrosinistra protesta: Angius “Legge ipocrita e
razzista”, in “La Repubblica”, 11 luglio 2002.
98 Corte Costituzionale, Sentenza n. 105 del 10 aprile 2001.
99 Art. 13, comma 2: «Non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale né
qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge». Art. 13, comma 3: «In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente
dalla legge, l’Autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati
entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si
intendono revocati e restano privi di ogni effetto.»
100 In particolare ad essere tacciati di incostituzionalità erano i commi 4, 5 e 6 dell’art. 13 nella parte in cui non
prevedevano che la mancata convalida del provvedimento di trattenimento in un Centro travolgesse gli effetti del
provvedimento di accompagnamento coatto alla frontiera e nella parte in cui non imponevano che lo stesso
provvedimento di accompagnamento fosse comunicato all’autorità giudiziaria per essere convalidato entro le 48 ore.
Una seconda e più puntuale questione riguardava poi l’art. 14, comma 5 nella parte in cui imponeva (secondo i
giudici remittenti) che la convalida del trattenimento comportasse l’automatica permanenza dello straniero nel
Centro per un periodo fisso di 20 giorni, senza che l’autorità giudiziaria potesse graduarne la durata.
54
disponeva il trattenimento in un C.P.T. fossero da considerarsi come misure restrittive della libertà personale
(in quanto suscettibili di esecuzione coercitiva) e la sentenza della Corte aveva finito per svilupparsi proprio
attorno a questo punto nodale, dietro al quale si nascondeva una critica significativa alla stessa istituzione
della detenzione amministrativa.
I giudici della Corte costituzionale si espressero in favore del d.lgs. 189/1998, rigettando le eccezioni di
incostituzionalità sollevate dai giudici di merito, ma riconobbero che espulsione coatta e trattenimento, se
non assimilabili alla detenzione vera e propria, erano da considerarsi a pieno titolo come misure restrittive
della libertà personale, sottoposte per tale motivo alla duplice riserva di legge e di giurisdizione prevista
dall’art. 13. La Consulta risolse il dubbio di costituzionalità «adottando un’interpretazione delle norme
impugnate di tipo non restrittivo» (FINOCCHI GHERSI 2001, 1124) ma fece contemporaneamente alcune
affermazioni in merito alla qualificazione giuridica dei provvedimenti di trattenimento e di espulsione
destinate a segnalare un punto fermo rispetto al precedente orientamento, da lei stessa espresso in tema di
garanzia dei diritti assoluti nei confronti del cittadino straniero, che era stato caratterizzato da un certo grado
di ambiguità101
. In merito all’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica la sentenza
affermava che esso presenta «quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante
giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalla libertà di
circolazione» e, ancora più chiaramente, ribadiva la qualificazione del trattenimento dei C.P.T. come
«misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13
della Costituzione». Dal testo della sentenza emergeva poi chiaramente come, nel bilanciamento effettuato
dal giudice tra inviolabilità della libertà personale e tutela degli altri beni costituzionalmente rilevanti, non
potesse che prevalere la prima102
.
Se la sentenza 105/2001 costituiva, per i detrattori del sistema di gestione dell’immigrazione delineato dalla
legge Turco-Napolitano, un’apertura verso le proprie posizioni aveva però avuto risvolti consistenti solo sul
piano dell’attività di polizia e su quello della prassi da seguire nelle aule giudiziarie, senza costringere il
legislatore a incidere significativamente sull’assetto normativo esistente. Ad avere invece un impatto
significativo sul Parlamento, furono invece le due sentenze gemelle emesse ancora una volta dalla Corte
101
Ricordiamo la pronuncia n. 503 del 25 novembre 1987 , avente ad oggetto l’art. 152 del T.U.L.P.S che consentiva
al Prefetto di emettere provvedimenti di espulsione immediatamente esecutivi in assenza di contraddittorio. In
quell’occasione la Corte aveva ribadito che lo straniero «non ha un diritto acquisito di ingresso e di soggiorno nello
Stato» e «gode di una tutela meno intensa di quella riconosciuta al cittadino». Ancora, nella più recente sentenza n.
62 del 24 febbraio 1994, sempre in tema di espulsione, i giudici della Consulta, pur affermando che «quando venga
riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo, qual è nel caso la libertà personale, il principio costituzionale
di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero»,
avevano anche in quel caso confermato la legittimità della disciplina processuale dell’espulsione sul presupposto
che si trattava di «una misura riferibile unicamente allo straniero e in nessun caso estendibile al cittadino».
102
Nell’analisi di diritto effettuata dalla Corte si ritrovano queste eloquenti parole: «per quanto gli interessi pubblici
incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i
problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente
scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama
inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri
umani».
55
Costituzionale nel 2004, in tema di convalida dell’accompagnamento coattivo alla frontiera103
. Con la
pronuncia del 2001 si era di fatto aperta una lacuna legislativa a cui il Governo aveva cercato di porre
rimedio con un intervento d’urgenza tramite il d.l. n. 51 del 4 aprile 2002104
, approvato con l’intenzione
esplicita «di fornire le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione agli stranieri per i quali sia stato
disposto l’accompagnamento alla frontiera» e quella implicita di evitare gli effetti di una nuova sentenza
della Corte in materia di tutela giurisdizionale che si paventava molto più penetrante (BONETTI 2002, 14). Se
con questo provvedimento si voleva sanare il vulnus venutosi a creare con l’assenza di una specifica
previsione circa la convalida dell’allontanamento tramite accompagnamento coatto immediato alla frontiera,
l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini (che generalizzava tale modalità di esecuzione del provvedimento
di espulsione) riaprì e rese ancora più furenti le polemiche sulla legittimità costituzionale della disciplina
dell’immigrazione. Nel 2003 i 56,3% delle eccezioni di costituzionalità sollevate dai Tribunali italiani e
pervenute alla Corte costituzionale riguardava il nuovo Testo Unico dell’immigrazione.
E’ in questo clima che i giudici della Consulta emisero le sentenze 222 e 223, le prime a dichiarare
l’incostituzionalità di alcuni punti del Testo Unico, come modificato dalla legge 189/2002 e dal d.l. 51/2002.
Nella prima pronuncia i giudici a quo avevano nuovamente sollevato la questione della compatibilità dei
commi 4 e 5 dell’art. 13 e del neonato comma 5-bis con diversi articoli della costituzione: secondo i
remittenti il controllo «meramente cartolare» attribuito al giudice sul decreto di espulsione andava a cozzare
non solo con le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione105
, ma anche con gli articoli 111 e 24,
ponendosi in contrasto «con il principio del contraddittorio nel processo e con quello dell’inviolabilità del
diritto alla difesa», nella misura in cui il legislatore non aveva previsto «alcuna forma di contestazione, né di
partecipazione e tanto meno di difesa da parte dello straniero colpito dal provvedimento stesso». L’oggetto
della pronuncia 223 era invece il novellato art. 14, ai commi 5-ter, 5-quater e 5-quinquies, dove si stabiliva
l’arresto obbligatorio e il conseguente processo con rito direttissimo per gli stranieri che avessero violato
l’ordine del Questore di allontanarsi dal territorio dello Stato entro cinque giorni. I giudici dei Tribunali di
Torino e di Firenze che avevano sollevato la questione di legittimità sostenevano l’incompatibilità di tale
disciplina con gli articoli 3, 13, 27 e 97 della Carta costituzionale: nel primo caso per «l’irragionevole
equiparazione operata con i gravi delitti elencati nell’art. 380 del codice di procedura penale» e per
103
Sono le sentenze n. 222 e n. 223 del 15 luglio 2004.
104 Questa nuova norma introduceva, in particolare, un nuovo comma 5-bis all’art. 13 del T.U. che prevedeva, per i casi
di espulsioni eseguite tramite accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, un obbligo per il
Questore di comunicare entro quarantotto ore dalla sua adozione il provvedimento espulsivo al Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale competente. «Il Procuratore della Repubblica», si specificava, «verificata la
sussistenza dei requisiti, convalida il provvedimento entro le quarantotto ore successive alla comunicazione».
Sino a questo punto il novellato art. 13 si presentava aderente al dettato costituzionale, tuttavia in un ultimo inciso la
norma attribuiva al provvedimento adottato dal Questore natura immediatamente esecutiva, con la conseguenza che
il giudice poteva essere chiamato a convalidate l’atto del Questore anche quando lo straniero fosse già stato
materialmente espulso.
105 Ad essere contestata era proprio l’immediata esecutività del provvedimento di espulsione a cui abbiamo accennato
nella nota precedente ma anche il fatto che contro il provvedimento di convalida non fosse esperibile alcuna forma
di ricorso o reclamo.
56
l’accentuato rigore delle norme che vedevano come destinatari i soli migranti rispetto a quelle
previste per altri reati contravvenzionali di pari gravità; nel secondo caso per il configurarsi di un
provvedimento incidente sullo status libertatis senza che fossero integrati quei casi eccezionali di
necessità ed urgenza che ne autorizzano l’adozione da parte dell’autorità amministrativa secondo il
dettato costituzionale. Da ultimo veniva contestata la violazione della presunzione di non
colpevolezza (perché l’arresto finiva per assumere la fisionomia di «un provvedimento restrittivo dal
contenuto sostanzialmente sanzionatorio») e del principio di buon andamento della Pubblica
Amministrazione, per l’aggravio di lavoro apportato agli organi di polizia giudiziaria «costretti a procedere
obbligatoriamente all’arresto senza alcun margine di discrezionalità» e agli stessi organi giurisdizionali,
destinati a «celebrare udienze di convalida dall’epilogo del tutto scontato».
Come abbiamo anticipato, la Corte Costituzionale – mostrando una «particolare sintonia con i giudici a
quibus» (RAUTI 2004, 3) - scelse di accogliere se non tutte quantomeno le più significative istanze dei
giudici remittenti. I giudici convennero che nel procedimento di cui al comma 5-bis dell’art. 13 T.U. era
«vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 [della Costituzione]» e veniva violato il nucleo
fondamentale del diritto alla difesa, dichiarandone, di conseguenza, l’illegittimità nella parte in cui non era
previsto che il giudizio di convalida si svolgesse nel contraddittorio tra le parti e prima del’esecuzione del
provvedimento di espulsione coatta. L’espulsione, in quanto misura privativa della libertà personale, poteva
essere posta in essere solo dopo una piena valutazione di merito da parte dell’autorità giudiziaria106
. Quanto
all’arresto obbligatorio i giudici della Consulta riconoscevano la piena fondatezza della questione di
legittimità costituzionale, sulla base della semplice constatazione che la norma censurata prevedeva
l’applicazione di una misura precautelare per un reato contravvenzionale «per di più sanzionato con una pena
detentiva (…) di gran lunga inferiore a quella per cui il codice ammette la possibilità di disporre misure
coercitive» quando l’ordinamento processuale prevede che tale limitazione della libertà personale possa
essere applicata solo quando si proceda per delitti in relazione ai quali è stabilita la pena dell’ergastolo o
della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni107
.
Le due sentenze della Corte non contestavano la possibilità di ordinare l’espulsione per gli immigrati
irregolari né quella di trattenerli all’interno dei Centri di Permanenza Temporanea108
ma creavano una
106
In tal senso a nulla valeva la previsione in base alla quale l’espulso poteva presentare domanda d’appello dall’estero
tramite le rappresentanze consolari, perché anche l’eventuale esito positivo del ricorso non comportava l’automatico
diritto di reingresso nel territorio nazionale, visto che l’espulsione era già stata eseguita (e del resto anche
l’eventuale appello proposto direttamente in Italia non aveva effetto sospensivo).
107 Il codice di procedura penale consente la possibilità di applicare una misura coercitiva al di fuori di questi limiti di
pena, ma, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, solo in relazione ai gravi delitti di cui al secondo comma
dell’art. 381 o a quelli per i quali è consentito l’arresto (facoltativo) anche al di fuori dei casi di flagranza.
108 Anche se gli avversari della politica del centro destra, ostile all’immigrazione, avevano avuto gioco facile nel
leggere «fra le righe [delle sentenze n. 222 e 223] la certificazione dell’inefficienza» di una legge «sicuramente
illiberale» come la Bossi-Fini (Cfr. Presentazione al n. 2/2004 di Diritto, Immigrazione e Cittadinanza).
57
situazione di potenziale vacatio legis che poteva comportare serie problematiche per il Governo. Dalle fila
della maggioranza si paventava, ancora una volta, la possibilità di introdurre il reato di immigrazione
clandestina, che avrebbe permesso di aggirare le osservazioni della Consulta in merito all’arresto
obbligatorio, prospettando per gli stranieri entrati illegalmente in Italia una pena superiore ai quattro anni di
reclusione. Le medesime ragioni politico-giuridiche che avevano convinto il legislatore a non introdurre
questa figura di illecito nella riforma del 2002 finirono però per prevalere anche in questo caso e si decise
invece per un intervento legislativo di natura correttiva, che apportava però modifiche sostanziali al sistema
di garanzie processuali originariamente previsto dalla legge Turco-Napolitano. Il decreto legge n. 241 del 14
settembre 2004, poi convertito in legge n. 271 del 12 novembre 2004 (con alcune significative variazioni) si
occupava innanzitutto – tramite alcuni puntuali interventi sugli artt. 13, 13-bis e 14 del T.U. – di affidare il
procedimento di convalida delle espulsioni ai giudici di pace piuttosto che ai giudici ordinari109
.
Nel nuovo assetto normativo si prevedeva che il Questore comunicasse l’adozione del provvedimento di
accompagnamento alla frontiera al giudice di pace territorialmente competente entro quarantott’ore e che
l’esecuzione del provvedimento in questione rimanesse sospesa fino alla decisione sulla convalida. Sotto il
profilo delle garanzie la l. 241/2004 prevedeva che lo svolgimento del giudizio avvenisse nelle forme
dell’udienza camerale, con la partecipazione necessaria dell’interessato110
e del difensore e la possibilità di
proporre, entro sessanta giorni, ricorso in Cassazione contro il provvedimento di convalida (che però non
sospendeva l’esecuzione dell’espulsione stessa). In attesa della definizione del giudizio di convalida era
previsto che lo straniero venisse trattenuto in un C.P.T., salvo essere rilasciato nel caso in cui la stessa
convalida non fosse stata concessa oppure la decisione non fosse stata adottata nei tempi regolamentari111
.
La decisione di attribuire la titolarità del procedimento di convalida delle espulsioni e dei trattenimenti al
giudice di pace nascondeva, come fa osservare EINAUDI (2007, 338), la volontà di non coinvolgere la
magistratura ordinaria «di cui si temeva la lentezza e il maggior garantismo nei confronti degli immigrati».
La scelta fu ampiamente criticata da parte della dottrina che vi vedeva uno stravolgimento del ruolo del
109
Era sottratto alla competenza del giudice di pace il solo ambito dei provvedimenti di espulsione aventi come
destinatari stranieri minorenni e quello dei relativi ricorsi. In questi casi il procedimento giurisdizionale rimaneva
nelle mani del Tribunale dei Minori, data la sua qualifica di giudice specializzato.
110 In particolare, allo straniero doveva essere notificata copia del provvedimento espulsivo, tradotta in una lingua a lui
conosciuta o in una lingua veicolare (come più di frequente accadeva nella prassi). Era inoltre previsto che
l’interessato venisse «tempestivamente informato [della data] e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza».
111 Il modificato comma 5-bis dell’art. 13 T.U. specificava che il trattenimento nei centri doveva avvenire in ogni caso
«salvo che il procedimento [potesse] essere definito nel luogo in cui [fosse] stato adottato il provvedimento di
allontanamento, anche prima del trasferimento», con evidente riferimento alle ipotesi in cui non sussistesse alcun
dubbio sull’identità e la nazionalità del migrante. Sotto il profilo più propriamente logistico va anche segnalata la
previsione di cui al nuovo comma 5-ter dell’art. 13 che così stabiliva: «Al fine di assicurare la tempestività del
procedimento di convalida dei provvedimenti di cui ai commi 4 e 5, e all'articolo 14, comma 1, le questure
forniscono al giudice di pace, nei limiti delle risorse disponibili, il supporto occorrente e la disponibilità di un locale
idoneo». Era quest’ultima una misura che veniva sicuramente incontro alle esigenze di celerità del procedimento e si
proponeva di risolvere alcuni problemi pratici legati alla scarsità di risorse a disposizione dei giudici di pace. Fin dai
primi mesi di vigenza della nuova norma gli operatori del diritto avevano però denunciato come si trattasse di una
previsione atta a legittimare lo svolgersi delle udienze negli «angusti uffici in cui spesso è ospitata la Giustizia
nell’ambito dei famigerati CPT (…) che nulla hanno a che vedere con l’amministrazione giudiziaria e che
costituiscono il vero problema da risolvere per il Legislatore» (PAVONE 2004).
58
giudice onorario, a cui pochi anni prima era stata sì attribuita competenza in materia penale112
, ma si era
sempre connotato come un magistrato esponente di una giurisdizione «dal volto mite», orientata a
«valorizzare la conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti» (CAPUTO E
PEPINO 2004, 17). Sembrava a questi giuristi particolarmente sbagliato affidare il controllo di legittimità
rispetto a provvedimenti capaci di incidere fortemente sulla libertà personale ad un giudice dallo status
particolare113
, appartenente all’ordine giudiziario in via temporanea e non esclusiva e potenzialmente più
esposto alle problematiche legate all’interdipendenza con le autorità di pubblica sicurezza114
. Anche coloro
che consideravano le nuove norme del T.U. come connotate in senso più garantista (RAUTI 2004) si
trovavano però a dover constatare le numerose difficoltà pratiche implicite nell’attribuzione alla giustizia
“minore” di attività numericamente così consistenti come quelle relative ad espulsioni e trattenimenti,
facendo riferimento in primis alla carenza del personale ausiliario di cancelleria e alla mancanza di un albo di
interpreti e traduttori, normalmente presente invece presso ogni Tribunale di primo grado.
La legge 271/2004 non si limitava a modificare l’organo giurisdizionale e cui affidare i procedimenti di
convalida, ma cercava anche di superare quelle questioni di legittimità costituzionale che erano state poste
dalla sentenza 223/2004 in relazione alle sanzioni previste per l’inottemperanza all’ordine del Questore di
abbandonare il territorio italiano. La risposta del legislatore si risolse però nella riproposizione del medesimo
«meccanismo penal-amministrativo» (CAPUTO 2005, 245) che aveva caratterizzato la disciplina contestata,
accompagnato da un forte inasprimento delle pene, riguardante non solo la fattispecie di cui all’art. 14,
comma 5-ter, oggetto della censura della Corte costituzionale, ma più in generale tutti i reati previsti agli artt.
12, 13 e 14 del Testo Unico.
La sanzione per lo straniero espulso che fosse rientrato nel nostro Stato senza specifica autorizzazione del
Ministro dell’Interno passava dall’arresto per un periodo compreso tra sei mesi e un anno alla reclusione da
uno a quattro anni, elevati a cinque nel caso in cui fosse già stato precedentemente denunciato per reingresso
illegale. Si confermava l’arresto obbligatorio anche al di fuori dei casi di flagranza e il dovere di procedere in
giudizio con rito direttissimo, mantenendo così la medesima struttura procedurale prevista dalla precedente
112
Con il decreto legislativo n. 274 del 28 agosto 2000.
113 Ricordiamo, ad esempio, che la disciplina delle incompatibilità dei giudici di pace è decisamente differente rispetto
a quella prevista dal Codice di procedura per la magistratura togata.
114 Dal 2004 ad oggi non sono stati pochi gli episodi che hanno mostrato con chiarezza come il controllo giurisdizionale
esercitato dal giudice di pace non fosse ridotto ad altro che a un avallo burocratico di una decisione adottata
arbitrariamente dall’autorità di polizia. Sono numerosi in giurisprudenza i casi di magistrati che hanno convalidato
senza opporre alcun rilievo provvedimenti di respingimento differito e di trattenimento emessi in tutta al di fuori dei
rigorosi requisiti di legge. Esemplare ed estremamente utile nell’illuminare i profili della vicenda è l’episodio,
riportato da Vassallo Paleologo (2011, 1) della lettera inviata dal Vice-Questore di Torino ad un giudice di pace che
avrebbe dovuto convalidare un decreto di trattenimento di un cittadino tunisino in attesa di espulsione. Con tale
lettera il funzionario di polizia invitava il magistrato a convalidare rapidamente la misura di trattenimento «per non
creare “ostacoli” all’applicazione dell’accordo bilaterale tra Italia e Tunisia, che peraltro non risultava neppure
pubblico, dopo le intese raggiunte a Tunisi dal ministro Maroni il 5 aprile 2011, e tanto meno approvato dal
Parlamento». E’ il funzionario di polizia ad effettuare ogni valutazione in merito all’opportunità (si badi bene, non
alla legittimità) dell’espulsione dello straniero, il giudice di pace è considerato semplice esecutore, strumento utile
ad accelerare una procedura vuotata di significato: i termini del rapporto non potrebbero essere più chiari.
59
versione del T.U. e aggirando al contempo la sentenza 223/2004, che aveva censurato l’obbligatorietà
dell’arresto basandosi sull’argomento letterale della contravvenzionalità del reato (piuttosto che su quello
della mancata discrezionalità sussistente in materia in capo alle autorità di P.S.). Anche i reati
contravvenzionali previsti dai commi 5-ter e 5-quater dell’art. 14 (ingiustificata inottemperanza all’ordine del
Questore e altre forme di permanenza illecita) erano stati trasformati in delitti puniti con la reclusione da uno
a quattro anni, elevata a cinque nel caso di reiterazione115
. Cercando di realizzare un impianto normativo che
riflettesse una certa coerenza interna il legislatore scelse inoltre di innalzare anche le sanzioni previste per
quelle fattispecie già qualificate come delittuose, nello specifico, quelle comminate per i reati di
favoreggiamento dell’immigrazione illegale ex art. 12, comma 1. Il consistente aumento di pena (reclusione
da uno a cinque anni in luogo della precedente reclusione fino ad un massimo di tre anni) appariva però
completamente ingiustificato, trattandosi di una fattispecie facente riferimento a condotte del tutto svincolate
da finalità di lucro o da qualsiasi forma di sfruttamento della situazione di necessità dei migranti116
.
Tali scelte normative sono state considerare come fortemente criticabili da larga parte della dottrina sotto
diversi profili, che cercheremo ora di chiarire. Per quanto riguarda i reati di cui all’art. 12 del Testo Unico
sull’immigrazione ci si limita qui a sottolineare che risulta evidente come, già ab origine, i delitti di
favoreggiamento dell’immigrazione illegale finissero per andare a sanzionare penalmente la condotta di
agevolazione di un fatto di per sé non penalmente rilevante, ovvero l’ingresso contra ius nel territorio
italiano117
. L’inasprimento delle pene operato dalla l. 271/2004, con l’introduzione di una sanzione
chiaramente sproporzionata rispetto alla gravità del delitto non ha fatto altro che aggravare la problematica,
che però ha continuato a ruotare attorno alla questione del bene giuridico protetto dalle fattispecie penali in
questione e a quella della presunzione di pericolosità dei soggetti, che rimanevano, sia in dottrina che in
giurisprudenza quantomeno controversi. Ancora più articolate sono state le critiche mosse al novellato
115
In un solo caso - tra quelli previsti all’art. 14, comma 5-ter - la sanzione era rimasta identica a quella prevista prima
dell’intervento legislativo del 2004: se l’espulsione era stata disposta perché lo straniero si ara trattenuto sul
territorio con un permesso di soggiorno scaduto da più di sessanta giorni, di cui non aveva chiesto il rinnovo, la pena
per l’inottemperanza rimaneva quella dell’arresto da sei mesi ad un anno.
116 Così la lettera del primo comma dell’art. 12 «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque in violazione
delle disposizioni del presente testo unico compie atti diretti a procurare l'ingresso nel territorio dello Stato di
uno straniero ovvero atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non e' cittadina o
non ha titolo di residenza permanente, e' punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa fino a 15.000
euro per ogni persona». Qui la norma sanziona con pene di entità non indifferente sia condotte abituali e
sistematiche, che possono essere riferite alle organizzazioni criminali che praticano la tratta degli esseri umani, sia
condotte meramente agevolative, riconducibili magari a situazioni nelle quali sono stati semplicemente compiuti dei
gesti di solidarietà (nonostante il secondo comma sembri escluderlo esplicitamente, non sono pochi i casi di
soccorso prestato in mare a immigrati clandestini che sono sfociati in procedimenti penali a carico degli stessi
soccorritori).
117 La risposta alle critiche della dottrina orientate in tal senso sarà, qualche anno più tardi, proprio l’introduzione del
reato di immigrazione clandestina. Macchiato da una superficialità abbastanza evidente, il ragionamento del
legislatore è stato a suo modo lineare: se il problema è l’irrilevanza penale della fattispecie principale la soluzione
non può essere altro che quella di renderla penalmente rilevante. Per un’analisi più completa della travagliata
vicenda che ha riguardato la legittimità di tale previsione all’interno del nostro ordinamento costituzionale si
rimanda al prossimo capitolo.
60
comma 5-ter dell’art. 14 T.U. Da un lato se ne è contestata l’irragionevolezza sotto il profilo del c.d.
«anacronismo normativo»: solo due anni prima il legislatore aveva ritenuto corretto sanzionare
l’inottemperanza all’ordine del Questore con la reclusione da sei mesi ad un anno ed ora sceglieva di
innalzarla fino ad un massimo di cinque anni senza che in questo breve lasso di tempo fosse intervenuto
alcun «mutamento nel contesto storico e sociale di riferimento»118
tale da giustificare un inasprimento così
grave della reazione dello Stato.
Sotto un altro profilo la dottrina ha avuto modo di sottolineare come il nuovo reato di inottemperanza non
trovasse alcun riscontro dell’entità della sua vis punitiva nelle pene previste per reati analoghi. La
comparazione più immediata, quella con l’art. 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) mette
chiaramente in luce la sproporzione: secondo le previsioni del T.U., lo straniero che non abbia ottemperato
all’ordine del Questore dev’essere punito con la reclusione da uno a quattro anni, mentre per il codice penale
il cittadino italiano che non abbia dato seguito all’ordine delle autorità di P.S. è sanzionato con l’arresto fino
a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro. Del resto era ed è ancora oggi proprio la natura dei reati di
inottemperanza ad invocare una sanzione mite: come chiarito lucidamente da CADOPPI (1988, 139 e ss.) nelle
fattispecie contravvenzionali di questo tipo «il diritto penale si allontana dal paradigma del reato inteso quale
lesione di un bene giuridico» e mira invece a tutelare «l’obbedienza dei cittadini (…) nei confronti di
comandi (…) che un’autorità, e non il Parlamento attraverso una legge penale rivolge loro», con la
conseguenza che una sanzione aspra come quella prevista dal nuovo T.U. sarà avvertita come ingiusta ed
eccessiva rispetto al disvalore insito nel fatto commesso.
Cercando di dare una valutazione rispetto alla portata della legge 271/2004 nel più ampio contesto della
disciplina dell’immigrazione, essa ci appare chiaramente come l’ultimo tassello di un lungo percorso
normativo, che ha nell’emergenzialità strutturale la sua caratteristica fondamentale. Anche il legislatore del
2004 ha scelto di affrontare la questione migratoria come un problema di incolumità pubblica, riprendendo il
binomio immigrazione – (in)sicurezza che aveva costituito il Leitmotiv della discussione politica per i
governi di centro-destra, ma era rinvenibile, come sottotraccia, anche tra le righe della legge Turco-
Napolitano come pure nelle politiche europee di gestione delle frontiere. Il risultato di questo iter complesso
è tortuoso è stato quello della creazione, all’interno del nostro ordinamento, di un vero e proprio diritto
speciale dei migranti; diritto speciale che si occupa della regolamentazione dei corpi, della presenza fisica
dei migranti più che delle loro condotte contra legem. In quest’ottica i centri di detenzione amministrativa si
sono chiaramente qualificati come luogo privilegiato dove esercitare questo diritto particolare, come
cercheremo di chiarire nel capitolo che segue.
118
Così si era espresso il giudice del Tribunale di Genova che aveva sollevato sul punto l’eccezione di illegittimità
costituzionale rispetto alla l. n. 271/2004 (Cfr. Ordinanza 10 dicembre 2004, Tribunale di Genova, estensore Ivaldi).
62
CAPITOLO 2.
C.I.E., C.A.R.A. C.S.P.A. E C.D.A. – LA DISCIPLINA ATTUALE.
Avendo puntato in maniera molto netta sulle politiche di espulsione come strumento primario di
gestione dei fenomeni migratori, il Governo della XIV Legislatura non poteva far altro, per
mantenersi coerente con le proprie premesse, che rafforzare l’istituto dei C.P.T.. Ma l’adozione di
una logica ormai iper-emergenziale, basata su un uso massiccio della decretazione d’urgenza - in
risposta non solo, come nel passato, ad esigenze politico-elettorali e ad istanze sociali di sicurezza
ma anche a sollecitazioni sempre più forti dei giuristi e a “spallate” della consulta – avevano
lasciato un segno profondo sull’intero impianto normativo in materia di immigrazione, minandone
la tenuta e la coesione interna. Analizzando la disciplina dei centri in vigore nei primi anni del
decennio 2000, le caratteristiche che emergono con più evidenza sono confusione e rapida
sovrapposizione normativa. Ne è chiaro riflesso il mare di sigle create dal legislatore a segnalare le
diverse tipologie di strutture, tanto diverse funzionalmente quanto sovrapponibili nella prassi
“economica” dell’immigrazione: accanto ai C.P.T.A. istituiti dalla legge Turco-Napolitano,
destinati all’identificazione in prospettiva di una (sempre meno) rapida espulsione, continuavano a
convivere i C.P.A. creati dalla legge Martelli come luogo aperto, di accoglienza, finalizzato alla
soluzione dell’emergenza abitativa dei migranti. A questi si erano poi affiancati i C.D.I. (Centri di
Identificazione), previsti nel testo originario della legge Bossi-Fini ma entrati in funzione soltanto
negli ultimi mesi del 2005: luoghi destinati al trattenimento dei richiedenti asilo dei quali non fosse
ancora stata accertata l’identità, caratterizzati da una natura ibrida tra centro aperto e centro chiuso e
posti spesso nelle prossimità degli stessi C.P.T..
Le posizioni degli esponenti politici italiani in merito al ruolo da attribuire a questa vasta
compagine di centri si erano andate radicalizzando sempre di più negli anni dal 2001 al 2006: o si
auspicava la proliferazione ad libitum dei luoghi di trattenimento (uno per Regione o addirittura uno
per Provincia) o se ne invocava la chiusura immediata senza indicare possibili strategie alternative1.
1 Tra gli esiti negativi di questa polarizzazione va segnalato quello di aver reso praticamente impossibile un’analisi
serena e oggettiva sul ruolo effettivo svolto dai C.P.T. e dai centri correlati nell’ambito della politica
dell’immigrazione nel nostro paese e sulla loro efficacia come strumento di contrasto dell’immigrazione irregolare. I
dati del 2005 segnalavano infatti come il problema dell’inefficienza dei apparisse in via di risoluzione: l’incidenza
sul numero totale delle espulsioni di quelle eseguite a seguito di un trattenimento nei centri era cresciuta dall’11,6%
del 2000 al 41,1% del 2005 e la quota di persone rilasciate per scadenza dei termini massimi di trattenimento era
stata decisamente abbattuta, con la percentuale di espulsioni effettive passata dal 29,6% al 68,6% nel periodo 2001-
2005 (EINAUDI 2007, 341 e ss.). Nonostante ciò chi, in quel periodo, propugnava la chiusura dei C.P.T. lo faceva,
spesso, affermandone la sostanziale inoperatività (oltre che la cattiva gestione, in alcuni casi davvero manifesta)
piuttosto che contestandone la legittimità sotto il profilo giuridico.
63
Un tentativo di ripensamento e ridimensionamento del ruolo di tutti i centri di trattenimento per
migranti, accompagnato da una più generale revisione dell’intera materia del diritto
dell’immigrazione - che si voleva finalmente caratterizzata da unitarietà e coerenza – fu quello
portato avanti, nel corso della XV legislatura, dagli allora Ministri dell’Interno e della Solidarietà
Sociale Giuliano Amato e Paolo Ferrero. Il disegno di legge, approvato preliminarmente il 24 aprile
2007, prevedeva molte significative modifiche, a partire dall’ammorbidimento del sistema di
contingentamento degli ingressi, con l’introduzione di quote triennali e liste di collocamento
dall’estero, alla reviviscenza dell’istituto dello sponsor (con la possibilità di ricorrere alla c.d. “auto
sponsorizzazione” tramite il deposito cauzionale di una somma di denaro) fino alla creazione di
programmi di “rimpatrio volontario e assistito”, per risolvere il problema dell’altissima
inottemperanza agli ordini di espulsione2. Per quanto riguardava in particolare i luoghi di
trattenimento l’ipotesi normativa immaginava una revisione dell’intero sistema dei C.P.T., sulla
base delle indicazioni date dalla Commissione DeMistura3. Solo un numero limitato di centri di
impostazione prettamente detentiva avrebbe dovuto rimanere in piedi, a contenere gli stranieri
destinatari di un provvedimento di espulsione che si fossero già sottratti all’identificazione, mentre
le restanti strutture avrebbero dovuto trasformarsi in luoghi finalizzati all’accoglienza al soccorso e
alle procedure di identificazione in collaborazione con gli stessi immigrati. In questi nuovi centri
(gestiti dagli enti locali in collaborazione con Aziende Sanitarie e le associazioni umanitarie) le
misure di sicurezza avrebbero dovuto essere limitate al minimo indispensabile e ai migranti sarebbe
stata garantita la possibilità di allontanarsene per una buona parte del giorno. Anche per i C.P.T. a
natura detentiva, le modifiche avrebbero dovuto essere significative: drastica riduzione dei tempi di
2 L’ipotesi è da segnalare come particolarmente interessante per i risvolti pratici che ne sarebbero potuti derivare – se
applicata cum grano salis – in tema di deflazione dell’attività di polizia dedicata all’espulsione coatta degli stranieri,
con un consistente risparmio di risorse che avrebbero potuto essere reimpiegate sul versante della lotta allo
sfruttamento della stessa immigrazione clandestina operato dalla criminalità organizzata. L’ipotesi era quella di
introdurre un “Fondo nazionale rimpatri” presso il Ministero dell’interno, alimentato dai contribuiti dei datori di
lavoro che impiegavano immigrati regolari, delle associazioni, degli sponsor e degli stessi stranieri. Tale fondo
avrebbe dovuto provvedere a finanziare i rimpatri “tutelati” degli stranieri espellendi che avessero collaborato alla
propria identificazione (ma anche dei cittadini stranieri non destinatari di un provvedimento di espulsione ma
intenzionati a fare ritorno al proprio paese d’origine, benché privi dei mezzi di sussistenza). Per gli stranieri che
avessero aderito a questo programma di rimpatrio volontario si prevedeva un sistema di supporto burocratico -
amministrativo dall’estero perché potessero essere messi nelle condizioni di presentare domanda di permesso di
soggiorno attraverso i canali regolari e il divieto di reingresso nel territorio nazionale si riduceva sensibilmente
(anche in relazione ai motivi che avevano originato l’espulsione o la semplice emigrazione di ritorno). Il progetto ci
appare interessante proprio perché sembra prendere consapevolezza che il rifiuto di fornire le proprie generalità o
fornirne di false è, a tutti gli effetti, una strategia di difesa dello straniero contro uno Stato che avverte come ostile:
lavorare nella direzione della less eligibility dell’atteggiamento non collaborativo apre delle prospettive alternative
per la risoluzione del problema dell’identificazione, che appare il punto più serio e dolente nell’ambito dell’attività
di polizia legata al controllo delle migrazioni.
3 Il riferimento è al Rapporto elaborato, su incarico del Ministero dell’Interno, dall’apposita Commissione per le
verifiche e le strategie dei centri per gli immigrati, presieduta dal diplomatico Staffan DeMistura, in rappresentanza
delle Nazioni Unite. Il Rapporto è stato pubblicato il 31 gennaio 2007 ed è consultabile sul sito internet del
Ministero http://www.interno.gov.it.
64
trattenimento, da parametrare a quelli strettamente necessari all’identificazione; introduzione di una
disciplina regolamentare per il trattamento degli stranieri e stesura di una nuova (e realistica) carta
dei diritti fondamentali dei trattenuti che, seppur formalmente già in vigore, si mostrava
sostanzialmente ignorata nella prassi amministrativa. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti
di convalida dell’espulsione e del trattenimento sarebbe dovuto tornare all’autorità giudiziaria
ordinaria e avrebbe dovuto essere stesa una nuova disciplina dell’accesso esterno ai centri, che
sarebbe stato garantito ai sindaci e ai presidenti delle Provincie e delle Regioni, come pure ai
rappresentanti degli organi d’informazione e agli appartenenti a tutte le associazioni incaricate di
fornire - a vario titolo - assistenza e tutela ai cittadini stranieri. La riforma Amato-Ferrero trovò
però un’opposizione molto forte tra le file del centro-destra e critiche sostanziali vennero sollevate
anche da esponenti della stessa maggioranza4, tanto da rendere l’iter parlamentare del disegno di
legge estremamente viscoso. La caduta del Governo Prodi II nel gennaio 2008 travolse il progetto e
non si arrivò mai alla sua approvazione definitiva da parte di entrambe le camere.
Il tentativo di revisione del Testo Unico sull’immigrazione del 2007 non è stato però l’ultimo
intervento normativo a toccare la questione dei centri di detenzione amministrativa: tra il 2008 e il
2012 il legislatore è intervenuto tre volte, utilizzando sempre lo strumento del decreto legge;
strumento che ci appare invero non troppo adeguato, laddove da più parti si invocava e si invoca
tuttora un nuovo testo normativo, complesso e coerente, a sostituire il traballante impianto
dell’ormai “scarnificata” legge 286/1998. Le norme in questione, tuttora in vigore, sono quelle a cui
faremo riferimento nel delineare la situazione attuale dei centri e della legislazione in tema di
immigrazione: il decreto legge n. 92 del 23 maggio 20085 (che ha modificato la denominazione dei
C.P.T., trasformandoli in C.I.E.), il decreto legge n. 11 del 23 febbraio 20096 (anche questo
conosciuto, come il precedente, sotto il nome di “pacchetto sicurezza”) e il decreto legge n. 89 del
23 giugno 20117, che traspone nel nostro ordinamento la direttiva 2008/115/CE (c.d. “Direttiva
4 In particolare il disegno di legge non convinceva molti esponenti dell’Italia dei Valori, che temevano le ricadute sul
versante della sicurezza di una legge decisamente meno repressiva nei confronti dei fenomeni di immigrazione
irregolare. Dopo la prima approvazione del testo normativo il capogruppo Massimo Donadi dichiarò che l’I.D.V.
avrebbe presentato un proprio disegno di riforma organica del Testo Unico, che fu effettivamente elaborato ma non
venne mai sottoposto all’approvazione parlamentare. Cfr. Immigrazione, addio alla Bossi-Fini: rimpatri volontari e
voto agli stranieri, in “La Repubblica”, 29 giugno 2007.
5 Convertito, con alcune modificazioni, dalla legge n. 125 del 24 luglio 2008, recante “Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica”.
6 Convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009, recante “Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica”.
7 Convertito, con modificazioni, dalla legge n. 129 del 2 agosto 2011, recante “Disposizioni urgenti per il
completamento dell'attuazione della Direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il
recepimento della Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari”.
65
Rimpatri”). Sulla base di queste che sono le modifiche normative più recenti cercheremo ora di
tracciare un quadro generale della disciplina dei Centri di Identificazione ed Espulsione ad oggi
vigente nel nostro ordinamento, senza dimenticare il ruolo svolto dalla giurisprudenza nazionale ed
europea, che ha avuto modo di concentrarsi soprattutto sulla controversa questione del “reato di
immigrazione clandestina”. Data l’ampiezza della materia, che richiederebbe un introduzione
davvero vasta sulle norme che hanno disciplinato e disciplinano le modalità di tutela del diritto
d’asilo in Italia ed in Europa dal dopoguerra ad oggi, si è scelto di non approfondire la questione dei
C.A.R.A. (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), ma a questi - e alle altre strutture abitative
in bilico tra assistenza e para-detenzione che vedono i migranti come “ospiti esclusivi” – si
dedicherà ora un breve paragrafo, per poterne poi sottolineare differenze e affinità con i C.I.E., con i
quali, del resto, spesso e volentieri si trovano in contiguità spaziale.
2.1. Emergenze umanitarie, accoglienza, transito: i centri come sistema
complesso e la chimera dell’ospitalità.
Come abbiamo già avuto modo di ricordare nel capitolo precedente i primi centri dedicati
interamente ad ospitare immigrati in situazione di disagio erano stati i Centri di Accoglienza,
istituiti nel 1995 dalla c.d. Legge Puglia. Si trattava e si tratta ancora oggi di strutture in cui
vengono trasferiti i migranti appena arrivati sul territorio italiano, all’interno dei quali dev’essere
loro fornita accoglienza e le prime forme di supporto materiale, indipendentemente dallo status
giuridico che viene loro attribuito al primo contatto con le autorità di P.S.. Il periodo di permanenza
all’interno dei C.D.A. non ha un limite ben preciso: corrisponde, a norma di legge, al tempo
necessario alla definizione dei provvedimenti amministrativi relativi alla posizione dei migranti8. Si
tratta di luoghi pensati fondamentalmente per il transito e lo smistamento dei migranti, che devono
ricevere dalle autorità un provvedimento che ne legittimi la permanenza sul territorio italiano o ne
disponga l’allontanamento. I C.D.A. sono normalmente situati in luoghi definibili come “nodi di
scambio”: nel 2012 i centri in attività erano sei9, situati ad Ancona (Arcevia), Bari (Palese), Brindisi
8 L’art. 23 del D.P.R. n. 394 del 31 agosto 1999 stabilisce che «le attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte
per le esigenze igienico-sanitarie connesse al soccorso dello straniero» devono essere portate avanti «per il
tempo strettamente necessario» ad avviare quest’ultimo ad un C.I.E. o ad adottare i «provvedimenti occorrenti per
l'erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato».
9 I dati relativi ai centri attivi sul nostro territorio nazionale che sono riportati qui e, di seguito, nel corso di questo
paragrafo derivano dalla comparazione delle informazioni fornite dal Ministero dell’Interno su suo sito internet
istituzionale (che sono però aggiornate all’ottobre 2011) e di quelle contenute nella più recente relazione sui C.I.E.
italiani curata dall’organizzazione umanitaria MEDU (MEDICI PER I DIRITTI UMANI 2013, 8 e ss.)
66
(Restinco), Caltanissetta (Contrada Pian del Lago), Crotone (S. Anna), Foggia (Borgo Mezzanone)
e Gorizia (Gradisca D’Isonzo). In tutte queste località il centro di accoglienza si trova nelle strette
vicinanze di un C.A.R.A. e, tranne per il caso di Foggia, ad un C.I.E.10
. Nell’originario testo di
legge nulla si dice rispetto ai diritti spettanti allo straniero destinatario delle misure di assistenza
all’interno del centro, anche se ad oggi una sorta di “soglia minima di dignità trattamentale” può
essere dedotta dai capitolati per la gestione che il Ministero dell’Interno ha predisposto a partire dal
200811
. Le convenzioni assicurano infatti un nucleo essenziale di prestazioni e servizi, che
dovrebbero garantire la vivibilità di questi centri, la cui attitudine rimane - almeno sulla carta -
spiccatamente non detentiva: manutenzione della struttura e degli impianti, servizio di pulizia e
igiene ambientale, ristorazione e servizi alla persona (i più importanti dei quali sono quelli di
assistenza sanitaria, assistenza sociale e psicologica, mediazione linguistica e supporto legale).
Affini ai C.D.A. ma ancor più caratterizzati come luoghi di rapido transito sono i C.S.P.A. (Centri
di Soccorso e Prima Accoglienza). La loro creazione risale al Decreto interministeriale del 16
febbraio 2006: con la finalità di offrire uno strumento specifico nella gestione delle periodiche
“emergenze sbarchi” alcuni dei C.D.A. sono stati convertiti in C.S.P.A., luoghi nei quali si prevede
che i migranti sostino per un arco di tempo compreso tra le ventiquattro e le quarantott’ore. Come
indicato chiaramente dalla denominazione, si tratta di strutture all’interno delle quali gli stranieri
(che solitamente si trovano in condizioni fisiche non ottimali, se non davvero precarie) ricevono le
prime forme di assistenza (soprattutto sanitaria), per poi venir smistati in C.D.A., C.I.E. o C.A.R.A.
Anche in questo caso il decreto interministeriale non ha specificato le condizioni e le modalità
specifiche di trattenimento e anche in questo caso qualche elemento di riferimento, quantomeno
sotto il profilo gestionale, può essere dedotto dallo specifico capitolato di gestione adottato nel
200812
. La mancanza di un chiaro statuto giuridico degli “ospiti” di questi centri (ma lo stesso vale
10
Sebbene i centri abbiano, come abbiamo già accennato, finalità molto diverse tra loro la contiguità spaziale è nella
prassi molto frequente: nella maggior parte dei casi si tratta di edifici adiacenti, separati soltanto da un cancello o da
un cortile. Questo rende più semplice il trasferimento degli stranieri da una struttura all’altra una volta che ne sia
stato determinato lo status, ma non ne favorisce la destinazione funzionale oltre a dare adito a problemi della più
varia natura, primo fra tutti quello della difficile convivenza tra “ospiti espellendi” e “ospiti protetti”. Ricordiamo
che nei C.I.E. transitano anche i detenuti stranieri in attesa di espulsione giudiziaria, mentre, ad esempio, all’interno
dei C.A.R.A. viene dato alloggio solo ai richiedenti asilo, quindi a persone che, in molti casi, hanno subito violenze
significative o hanno un vissuto traumatico, in ragione del quale dovrebbero essere avrebbero essere allocati in un
ambiente quanto più possibile tutelato e protetto.
11 I nuovi capitolati di gara d’appalto per la gestione delle diverse tipologie di centri sono stati approvati con Decreto
del Ministero dell’Interno del 21 novembre 2008.
12 E’ da segnalare che, sebbene i capitolati per i C.D.A. e quelli per i C.S.P.A. siano sostanzialmente identici, nel testo
dedicato a quest’ultima categoria di centri si specifica che il servizio di «informazione di base sulla normativa
italiana ed europea in materia di immigrazione e asilo» viene garantito «compatibilmente con la durata
dell’accoglienza». I risvolti di questo minor rigore sotto il profilo della tutela dei rifugiati sono davvero gravi: si
rischia che, soprattutto nei periodi di maggior afflusso, ai migranti non sia data alcuna informazione sulle modalità
67
per i C.D.A.), la loro natura ibrida - assistenziale ma trattenitiva o pre-trattenitiva - ne fanno un
istituto singolarmente problematico. In particolare, il legislatore non ha chiarito se i C.S.P.A.
debbano essere considerati come luoghi “a porte aperte” o se, al loro interno, gli stranieri si trovino
sottoposti ad un effettivo regime detentivo. Inoltre nulla è stato detto in merito all’obbligo di
convalida del trattenimento da parte del giudice ordinario o del giudice di pace. Tutti questi aspetti,
come la stessa durata del trattenimento, sono lasciati alla discrezionalità delle autorità di P.S. che si
occupano della gestione dei centri13
. I centri di soccorso e prima accoglienza operativi nel 2012
erano quattro: Agrigento (Lampedusa), Cagliari (Elmas), Lecce (Otranto) e Ragusa (Pozzallo). Si
tratta di strutture dalla capienza molto ampia, che durante i periodi di crisi umanitarie e migratorie
degli ultimi anni (è il caso soprattutto dei grandi flussi provenienti dal Nordafrica nel periodo
successivo alla c.d. Primavera Araba) hanno spesso ecceduto il proprio limite massimo di “ospiti”
presenti.
Tra queste strutture almeno un cenno va dedicato al Centro situato sull’isola di Lampedusa, che si
segnala per la particolarità della propria posizione (è sito sul territorio più meridionale d’Italia) e
per i costanti progetti di ammodernamento che l’hanno interessato a partire dal lontano 1998, anno
della sua istituzione come C.P.T. facente funzione di «Centro di primo soccorso e smistamento».
Trasformato nel 2006 in CSPA il centro di Lampedusa è stato spesso al centro delle cronache
nazionali per i tentativi di fuga e le rivolte dei trattenuti e parallelamente ha costituito uno dei punti
focali dell'azione del Governo sulle strutture di accoglienza per migranti, tanto che il Ministero
dell'Interno fa riferimento al sistema integrato di assistenza che si è cercato di creare sull'isola come
al “Modello Lampedusa”. In passato il problema maggiore del Centro era sicuramente quello della
ricettività: la riqualificazione del 2007 ha portato la capienza a 381 persone, estensibile in caso di
emergenza a più di 80014
. La struttura lampedusana è stata il centro d'azione del Progetto
con le quali possono essere correttamente richieste le numerose forme di protezione internazionale e che questi
vengano arbitrariamente respinti senza aver potuto presentare una domanda di asilo che sarebbero stati magari
titolati ad ottenere.
13 I rapporti stesi dalla Commissione speciale del Parlamento Europeo nel 2007, da Medicines Sans Frontieres nel
2010 e dalla Federazione delle Chiese Evangeliche nel 2011 evidenziano una prassi diffusa e costante: i centri di
ispirazione non detentiva, comunque denominati, sono gestiti con un regime “a porte chiuse” molto simile a quello
vigente negli ordinar i C.I.E.. Gli “ospiti” sono sottoposti a misure di sicurezza a vario titolo e il trattenimento non è
convalidato da alcun giudice, sulla base di una presunzione di durata minimale del tempo trascorso al loro interno,
che viene concepito come sempre corrispondente a quello «strettamente necessario al primo soccorso».
Quest’ultimo assunto si rivela particolarmente sbagliato per quanto riguarda i C.D.A., all’interno dei quali molto
spesso la detenzione si protrae in attesa della disponibilità materiale di posti letto nei C.I.E. o nei C.A.R.A. o dei
mezzi necessari al trasporto dei migranti.
14 La capienza massima di 804 persone è quella segnalata dal Ministero dell’Interno sul suo sito ufficiale, i cui dati
sono però aggiornati all’ottobre 2011. Diverse testate giornalistiche hanno recentemente segnalato la situazione di
costante disagio del centro, che vede trattenuti al proprio interno un numero di persone che oscilla tra cinquecento e
seicento a fronte di una capienza massima di circa trecento posti letto. Rimane quindi la perplessità di capire quali
68
Praesidium15
, un piano di intervento multi-agenzia finanziato dal Ministero dell'Interno e dalla
Commissione Europea finalizzato a potenziare la capacità di accoglienza del centro nella
prospettiva di un intensificarsi progressivo dei flussi migratori via mare diretti verso l'Europa. Al
progetto partecipano l'UNCHR, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, la Croce Rossa
Italiana e Save the Children: ciascuna di queste agenzie ha un mandato diverso e si occupa di
portare assistenza a gruppi di migranti specificamente individuati, negli ambiti d’azione loro propri.
Grazie a questo piano di collaborazione agli stranieri viene garantito il primo soccorso al momento
dello sbarco e l’assistenza sanitaria più urgente direttamente sull’isola mentre nei casi più gravi
vengono assicurati ponti aerei o navali con la terraferma. Il Progetto Praesidium si è concentrato poi
sull’aspetto dell’informazione legale, cercando di fornire non soltanto un primo orientamento di
base sullo status dei migranti irregolari in Italia, ma anche un supporto informativo specifico sulla
legislazione nazionale in materia di asilo, tratta di esseri umani e protezione delle situazioni di
vulnerabilità ad essa legate. Il tentativo di migliorare l’operatività, l’efficienza e l’accoglienza nel
Centro di Lampedusa è sicuramente da considerare positivamente; molto più difficile è dare una
valutazione complessiva sulla possibilità di utilizzare effettivamente quello lampedusano come
modello per tutti i C. S. P.A. italiani. Diverse criticità sono state messe in luce dalle organizzazioni
non governative che esercitato le loro attività sull’isola16
ed è stato contestato che il grado di tutela
dei diritti umani garantito all’interno della struttura sia compatibile con quanto previsto dalle norme
europee in materia di trattamento dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Si tratta di una realtà in
costante evoluzione, che sembra sfuggire alla possibilità di un’analisi di prospettiva, al di là della
valutazione in merito alla sua capacità di reggere l’urto dei flussi migratori di grande entità, figli
delle numerose emergenze umanitarie che hanno colpito il continente africano in questi anni.
siano state le modalità di ampliamento della capacità del C.S.P.A. approntate dal ministero e perché non siano state
attivate nel recente periodo, caratterizzato da un afflusso di migranti via mare comunque consistente (Cfr. Sbarchi
senza fine, Lampedusa scoppia: oltre 500 migranti nel centro di accoglienza, in “La Repubblica Palermo”, 17
giugno 2013; Lampedusa il Cie scoppia: 855 immigrati, in “Il Corriere del Mezzogiorno”, 17 giugno 2013.)
15 Non si tratta in realtà di un singolo piano d’azione ma di una serie di progetti di durata solitamente biennale, ad oggi
arrivata alla sua ottava riproposizione. Il Progetto Praesidium I ha interessato il solo centro di Lampedusa,
Praesidium II ha esteso il raggio di attività anche ad altri punti strategici sulle coste siciliane e, ad oggi, il progetto
coinvolge un area di territorio ancora più estesa, comprendente Calabria, Puglia e Sicilia.
16 Volendo prendere fornire un esempio, possiamo prendere in considerazione la situazione dei minori non
accompagnati che vengono trattenuti all’interno del C.S.P.A. di Lampedusa, in attesa di essere trasferiti nelle
strutture idonee ad accoglierli. E’ decisamente preoccupante quanto rilevato da SAVE THE CHILDREN (2011, 54) :
nonostante la disciplina nazionale e internazionale preveda che i minori debbano essere trattenuti nei medesimi spazi
degli adulti solo in casi assolutamente emergenziali e per il minor tempo possibile, dato l’impatto che può avere la
detenzione sul loro sviluppo psicofisico, il dato relativo al tempo medio di permanenza nel Centro di Lampedusa di
soggetti dei quali sia stata accertata la minore età rimane molto alto. Il 55% dei minori stranieri è stato trattenuto per
un periodo compreso dai 10 ai 30 giorni prima di essere trasferiti nelle “Strutture di Accoglienza Temporanea” sulla
terraferma, ma quasi il 15% ha dovuto attendere fino a 50 giorni e per 42 minori il trattenimento nelle medesime
strutture degli adulti si è protratto per più di due mesi.
69
Funzioni e strutture significativamente diverse da quelle dei C.S.P.A. hanno infine i Centri di
Accoglienza per Richiedenti Asilo, istituiti con il decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008. Tale
decreto ha trasposto nel nostro ordinamento la c.d. Direttiva Procedure17
, che ha predisposto una
serie di norme minime comuni per la richiesta, la concessione e la revoca dello status di rifugiato
negli Stati dell’unione Europea. Abbiamo avuto modo di accennare a come già prima
dell’intervento normativo del 2008 esistessero alcuni centri dedicati specificamente ai richiedenti
asilo, denominati C.D.I. (Centri di Identificazione), creati dalla legge n. 189/200218
. Nell’intento del
legislatore del 2002 - come in quello del suo corrispettivo del 2008 - questa particolare tipologia di
centri aveva una precisa destinazione funzionale: ospitare (o trattenere) gli stranieri che avessero
presentato richiesta di asilo, ma fossero privi di documenti o si fossero sottratti ai controlli di
frontiera, fino al momento dell’identificazione e della conclusione della procedura di
riconoscimento dello status di rifugiato. La disciplina del 2002 prevedeva che il trattenimento nei
C.D.I. fosse facoltativo, ma non nel caso (molto frequente) di chi avesse eluso o tentato di eludere i
controlli alla frontiera, ipotesi nella quale diventava obbligatorio. Inoltre chi avesse presentato
domanda di protezione internazionale ma avesse già ricevuto in precedenza un provvedimento di
espulsione dal territorio italiano, il trattenimento in attesa della conclusione della procedura si
svolgeva obbligatoriamente in un C.P.T. e non in un C.D.I.. Potevano accedere ai centri per
richiedenti asilo anche coloro che avessero presentato ricorso contro il diniego del riconoscimento
dello status di rifugiato, ma si trattava di un ipotesi molto residuale, subordinata alla concessione di
un’autorizzazione alla permanenza sul territorio nazionale da parte del Prefetto. Il periodo massimo
di trattenimento in un C.D.I. era di venti giorni; il regime di trattamento applicato era quello delle
“porte aperte” (con la possibilità di uscire liberamente dalla struttura dalle otto alle venti) ma solo
per coloro che fossero sottoposti a trattenimento facoltativo e previa comunicazione al direttore19
.
La normativa del 2008 si distacca con una certa evidenza da quella che abbiamo appena tratteggiato
e cerca di delineare la struttura di un insieme di centri, quelli destinati ad ospitare i richiedenti asilo,
capaci di realizzare una vera accoglienza, distinguendoli nettamente dal punto di vista del regime da
17
Si tratta della Direttiva 2005/85/CE.
18 Ma divenuti operativi solo con il D.P.R. n. 303 del 16 settembre 2004, recante “Regolamento relativo alle procedure
per il riconoscimento dello status di rifugiato”.
19 Si intende che il direttore poteva in ogni caso negare il diritto d’uscita se lo considerava non «compatibile con
l’ordinario svolgimento della procedura». A coloro che erano trattenuti nel centro non facoltativamente potevano
invece essere concessi solo «permessi temporanei di allontanamento (…) per rilevanti e comprovati motivi
personali, di salute o di famiglia o per comprovati motivi attinenti all’esame della domanda di riconoscimento dello
status di rifugiato» (art.9).
70
quello para-detentivo che caratterizza i C.I.E.20
. Con l’abrogazione del D.P.R. n. 303/200421
si è
tentato di rafforzare il carattere umanitario dei nuovi C.A.R.A. e si è innanzitutto abolita la
differenza tra trattenimento facoltativo e obbligatorio. Ad oggi un richiedente asilo viene ospitato
nei centri a lui “dedicati” se non è in possesso dei documenti (o ne ha presentati di falsi), se è
necessario verificare la sua identità o nazionalità come pure se è stato fermato in condizioni di
irregolarità rispetto al permesso di soggiorno o dopo aver tentato di eludere o aver eluso i controlli
di frontiera. La sola differenza esistente riguarda la durata della permanenza, che è di massimo venti
giorni per il primo gruppo di casi, massimo trentacinque per il secondo gruppo. L’accoglienza nel
C.A.R.A. termina, in ogni caso, al momento in cui il riconoscimento dello status di rifugiato viene
comunicato all’interessato. Nel caso di diniego era originariamente prevista la possibilità di
protrarre il soggiorno nel centro ancora per quindici giorni, al fine di garantire la possibilità di
presentare ricorso (con effetto automaticamente sospensivo): ad oggi, dopo numerosi interventi
legislativi22
, questo non è più possibile. Se il tempo massimo di permanenza scade senza che la
procedura di esame della richiesta d’asilo sia stata completata, allo straniero viene garantito un
permesso soggiorno specifico della durata di tre mesi, rinnovabile per un periodo di pari entità (al
termine del quale però, il migrante deve in ogni caso lasciare il centro).
Nella versione originaria del d.lgs. n. 25/2008 i casi in cui il richiedente asilo non veniva trattenuto
in un C.A.R.A. ma in un C.I.E. erano piuttosto residuali, facendo riferimento a ipotesi in cui egli
avesse commesso reati considerati di grave entità secondo l’ordinamento italiano e internazionale23
.
Sul punto è però intervenuto il c.d. “pacchetto sicurezza” del 2008, che ha riproposto la procedura
precedente al decreto legislativo approvato solo pochi mesi prima: laddove si era previsto che anche
20
Il legislatore ha tenuto a precisare questa differenza anche dal punto di vista lessicale: l’art. 20, che disciplina la
permanenza nei C.A.R.A. dei richiedenti asilo è intitolato «Casi di accoglienza», mentre il seguente art. 21, che si
occupa delle ipotesi in cui i richiedenti devono invece essere trasferiti nei C.I.E. è intitolato, «Casi di trattenimento».
21 Per un’evidente mancanza di coordinamento la dicitura Centri d’Identificazione non è stata sostituita da quella di
Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo nel Decreto legislativo n. 140 del 30 maggio 2005, recante “ Attuazione
della Direttiva 2003/9/CE che stabilisce norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati
membri”. Un’altra grave lacuna normativa è costituita dalla mancata emanazione del regolamento di attuazione del
d.lgs. n. 25/2008 che, a causa dell’avvicendarsi dei Governi, non è mai stato definitivamente approvato. In questa
confusa situazione, ai sensi del secondo comma dell’art. 38 del d.lgs. n. 25/2008, continuano ancora ad applicarsi, in
quanto compatibili, le norme del 2004.
22 L’art. 35 del d.lgs. n. 25/2008 è stato dapprima oggetto di modifiche da parte del d.lgs. n. 159 del 3 ottobre 2008; è
poi intervenuta la legge n. 94 del 15 luglio 2009. Ad oggi il testo in vigore è frutto degli ulteriori rimaneggiamenti
apportati dal d.lgs. n. 150 del 1 settembre 2011.
23 Un primo gruppo di casi fa riferimento all’ipotesi che il migrante si trovi nelle condizioni previste dall’art. 1,
paragrafo F della Convenzione di Ginevra (ovvero sia una persona che abbia commesso crimini contro l’umanità
crimini di guerra, azioni contrarie ai principi e ai fini delle Nazioni Unite o si sia reso colpevole di gravi delitti di
diritto comune al di fuori del paese di accoglienza). Il secondo gruppo di casi è invece quello di chi sia stato
condannato in Italia per i reati di cui all’art. 380 commi 1 e 2 c.p.p. (ad esempio delitti legati al traffico di sostanze
stupefacenti, delitti contro la libertà sessuale, sfruttamento della prostituzione, favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina ecc.).
71
lo straniero che fosse stato oggetto di un precedente decreto di espulsione o di respingimento
dovesse essere ospitato in un C.A.R.A. una volta presentata la domanda di asilo, ad oggi è
obbligatorio che queste categoria di persone sia trattenuta nei C.I.E..
Per quanto riguarda il trattamento degli “ospiti” ad oggi prevale sicuramente l’aspetto del supporto
abitativo e assistenziale. Gli stranieri hanno la piena facoltà di uscire dal centro nelle ore diurne e
possono chiedere al Prefetto un permesso per allontanarsi dal centro per più di veniquattr’ore per
motivi personali o attinenti all’esame della domanda d’asilo. Il Prefetto ha sempre facoltà di negare
tale autorizzazione, se la ritiene incompatibile con i tempi e la procedura di esame della domanda,
ma il provvedimento dev’essere motivato e comunicato all’interessato. Uno degli aspetti della
riforma di maggior rilevanza pratica, da considerare forse come il più significativo in assoluto, è il
fatto che l’allontanamento non autorizzato dal centro non è più considerato come un’automatica
rinuncia alla domanda di protezione internazionale ma, ex art. 22, implica semplicemente la
«cessazione delle condizioni di accoglienza» privilegiate a carico dello Stato. Nella vigenza della
disciplina stabilita dal D.P.R. n. 303/2004, i richiedenti asilo si trovavano, nei fatti, costretti a
risiedere nei centri, in completa dipendenza dalla volontà del direttore del centro per quanto
concerneva la facoltà di movimento, con una consistente limitazione della loro libertà personale:
l’aver modificato questa previsione testimonia quantomeno, come afferma CAMPESI (2011, 197)
«l’intenzione di eliminare ogni aspetto vagamente punitivo dal regime dei C.A.R.A.».
Bisogna però segnalare una discrepanza tra la disciplina contenuta nel d.lgs. 25/2008 (che
nonostante le modifiche successive si è comunque mantenuta integra nella sua ossatura) e quella
che è l’effettiva realtà operativa dei diversi Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo presenti sul
territorio italiano. Nonostante il primo comma dell’art. 20 affermi chiaramente che «il richiedente
[asilo] non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda», una percentuale molto
alta di stranieri rimane all’interno dei C.D.A. o dei C.P.T. anche dopo la presentazione della
richiesta di protezione internazionale, per ragioni di natura burocratico-organizzativa. La procedura
ordinaria, caratterizzata da una breve permanenza nel C.A.R.A. e dal successivo rilascio del
permesso di soggiorno di durata trimestrale, diventa un ipotesi quasi residuale, che si applica
pienamente soltanto nelle ipotesi dello straniero che si presenti spontaneamente alle autorità di P.S..
Inoltre, nonostante le buone intenzioni del legislatore che ha recepito la direttiva europea nel 2008,
alcune criticità continuano a permanere anche sotto il profilo normativo: ai sensi dell’art. 22, una
volta che il richiedente asilo abbia abbandonato il centro in cui era accolto o trattenuto, questi è
obbligato a comunicare alla Questura e alla Commissione territoriale competente il proprio
72
domicilio, per poter proseguire nell’iter davanti a quest’ultima24
. Si tratta di una previsione che
tradisce l’immagine del richiedente asilo come persona da tenere sotto sorveglianza da parte delle
forze dell’ordine, alla stregua dei soggetti che denotano pericolosità sociale. In più, il sistema dei
C.A.R.A, nonostante la maggior libertà di allontanarsi dalle strutture oggi garantita agli stranieri,
finisce per alimentare un grado molto intenso di dipendenza dei migranti dall’istituzione in cui sono
stati inseriti: «l’attestato nominativo che certifica la (…) qualità di richiedente lo status di
rifugiato», rilasciato dalla Questura, costituisce l’unico documento di identità valido che gli è
attribuito. Per tutta la durata della permanenza nel C.A.R.A. lo straniero è privo di permesso di
soggiorno e quindi gode di diritti solo in quanto residente all’interno di un Centro.
Al 2012 i centri per richiedenti asilo operanti sul territorio nazionale erano nove: Ancona (Arcevia),
Bari (Palese), Brindisi (Restinco), Caltanissetta (Contrada Pian del Lago), Crotone (Sant’Anna),
Foggia (Borgo Mezzanone), Gorizia (Gradisca d’Isonzo), Roma (Castelnuovo di Porto) e Trapani
(Salina Grande). I centri di Ancona, Bari, Brindisi, Crotone e Foggia erano utilizzati anche come
C.D.A., aspetto che rende piuttosto difficile valutare effettivamente la capienza di tali strutture e
individuare quali spazi siano nella prassi riservati ai richiedenti asilo, data la comprensibile
consuetudine di trasferire gli “ospiti” da un area all’altra degli edifici, in relazione alle esigenze più
contingenti.
2.2. I Centri di Identificazione ed Espulsione: il presente della
detenzione amministrativa in Italia alla luce della Direttiva Rimpatri.
La nuova denominazione che il legislatore del 2008 ha scelto di attribuire a quelli che un tempo
erano conosciuti come Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza ha reso più chiara e
immediatamente riconoscibile la destinazione funzionale di queste strutture: il trattenimento dei
migranti irregolari al fine della loro identificazione, strettamente finalizzata all’espulsione dal
territorio nazionale.
24
E’ indicativo che il legislatore non faccia alcuna distinzione tra coloro che sono stati trattenuti d’obbligo nei C.I.E e
coloro che sono stati invece ammessi direttamente ai C.A.R.A. (poiché non si sono mai macchiati di alcun grave
reato in Italia o all’estero e non sono mai stati oggetto di provvedimenti di espulsione o respingimento). La
segnalazione del domicilio si giustifica per il ruolo effettivamente significativo che svolge nel contribuire al corretto
e celere svolgimento del procedimento di analisi della domanda di asilo: il luogo indicato come domicilio
corrisponde a quello in cui vengono validamente effettuate tutte le comunicazioni inerenti alla procedura. Ma per
ottenere tale risultato sarebbe stata sufficiente la comunicazione alla sola Commissione territoriale, mente l’obbligo
di rendersi noti all’autorità di pubblica sicurezza riecheggia, come già abbiamo avuto modi di sottolineare, quelle
che sono le misure cautelari personali.
73
Ad oggi il Ministero dell’Interno dispone di tredici strutture permanenti adibite a Centri di
Identificazione ed Espulsione: Bari (Palese), Bologna (Caserma Chiarini), Brindisi (Restinco),
Caltanissetta (Contrada Pian del Lago), Catanzaro (Lamezia Terme), Crotone (Sant’Anna), Gorizia
(Gradisca d’Isonzo), Milano (Via Corelli), Modena (Località Sant’Anna), Roma (Ponte Galeria),
Torino (Corso Brunelleschi), Trapani (Serraino Vulpitta) e Trapani (Milo). Nel corso del 2013
soltanto nove di questi Centri sono stati effettivamente operativi: le strutture di Brindisi e Trapani
(Serraino Vulpitta) sono rimaste attive soltanto fino ai primi mesi del 2012, il C.I.E. di Bologna ha
chiuso a febbraio del 2013 per effettuare riparazioni estensive alla struttura e il Centro di Catanzaro
è stato chiuso nel novembre 2012, a tempo indefinito (senza che la prefettura abbia indetto un
nuovo bando per la sua gestione25
.
Le modalità di ingresso, di trattenimento e di rilascio da questa particolare tipologia di Centri sono
disciplinati dall’articolo 14 del Testo Unico sull’immigrazione, rubricato “Esecuzione
dell’espulsione”. Come abbiamo già avuto modo di constatare, si tratta di una norma che ha subito
diverse modifiche dal momento della sua entrata in vigore: il suo assetto attuale va ricondotto al
decreto legge 23 giugno 2011, n. 89. La disciplina italiana si inserisce nel quadro della Direttiva
Rimpatri del 200826
, un documento di fondamentale importanza programmatica, capace di originare
conseguenze molto significative sul piano della prassi gestionale dei Centri di detenzione
amministrativa dell’area europea. L’iter di approvazione del testo è stato particolarmente travagliato
e non si può evitare di notare come la versione definitiva, frutto di un lungo processo di mediazione
intergovernativa, presenti diversi elementi di ambivalenza.
La Direttiva si pone un obbiettivo di natura generale, che emerge chiaramente nelle considerazioni
preliminari: l’armonizzazione legislativa (minima) e la creazione di un «regime comune» in materia
25 Alla lista delle strutture a disposizione del Ministero andrebbero aggiunte le tre strutture provvisorie costruite nel
2011, dopo che il consistente afflusso di migranti provenienti dal Nord Africa (da mettere in relazione con i
rivolgimenti politici causati dalla c.d. “Primavera Araba”) aveva portato il Governo a dichiarare lo stato di
emergenza umanitaria. Al momento dell’apertura questi campi di accoglienza - denominati C.I.E.-T. (Centri di
Identificazione ed Espulsione Temporanei) - si presentavano come semplici tendopoli, di dimensioni molto ampie,
capaci di ospitare anche 500 – 600 persone. Una volta revocato il decreto emergenziale il Ministero ha dichiarato di
voler rendere permanentemente utilizzabili almeno alcune di queste strutture, indicando in particolare i siti di
Caserta (Santa Maria Capua Vetere), Potenza (Palazzo San Gervasio) e Trapani (Kinisia). Nel maggio 2012 il
Governo ha ribadito la volontà di procedere all’attivazione dei nuovi Centri, prospettandone l’affidamento
gestionale alla protezione civile (cfr. Interpellanza n° 2–01434, concernente orientamenti del Governo in merito alla
gestione dei flussi migratori, con particolare riferimento all’attuazione della norma sul rimpatrio volontario assistito,
10 maggio 2012). Ad aprile 2013 sono stati stanziati 13 milioni di euro per la riapertura dei soli Centri di Santa
Maria Capua Vetere e Palazzo san Gervasio, che dovrebbero essere resi operativi entro il dicembre 2013 (cfr.
Gazzetta Ufficile, Serie Generale n. 87, 13 aprile 2013).
26 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure
comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
74
immigrazione, che ricomprenda sia la disciplina dell’ingresso e del soggiorno regolare, sia i diversi
profili legati al contrasto dell’immigrazione clandestina. Con particolare riferimento al tema dei
rimpatri e della detenzione amministrativa sia il Parlamento Europeo che il Consiglio dell’Unione
erano concordi sulla necessità di rafforzare la tutela dei diritti umani dei migranti. Da questa
urgenza discende direttamente la previsione di carattere generale di cui al secondo paragrafo del
Preambolo: le persone soggette ad un provvedimento di espulsione devono essere rimpatriate
efficacemente ma «in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro
dignità». Coerentemente con questa impostazione, il trattenimento coatto finalizzato all’espulsione,
che dev’essere effettuato «presso gli appositi centri di permanenza temporanea»27
, si configura,
nelle intenzioni del legislatore europeo, come provvedimento di extrema ratio, come strumento a
cui ricorrere «solo se l’uso di misure meno coercitive è insufficiente» rispettando rigidamente il
principio di proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini. Cercando di trasporre in diposizioni puntuali
le proprie affermazioni di principio la Direttiva incorpora poi alcuni significativi principi di
elaborazione giurisprudenziale, riconducibili al lavoro svolto dallo Human Rights Committee delle
Nazioni Unite e in particolare alle Linee Guida elaborate dal Working Group on Arbitrary
Detention. Da qui, ad esempio, l’obbligo imposto agli Stati, di concedere in via preliminare agli
stranieri un termine per l’allontanamento volontario dal territorio28
, procedendo solo in un secondo
momento e in via eventuale all’accompagnamento coattivo alla frontiera, con il correlato
trattenimento ad esso preordinato. Ancora, ha la medesima origine il principio, trasposto nell’art. 15
della Direttiva, secondo il quale lo straniero in via di espulsione può essere detenuto solo se
impedisce od ostacola la propria espulsione o se sussiste un concreto pericolo di fuga: il
trattenimento di un migrante che non sia legato ad una concreta prospettiva di espulsione è
illegittimo e comporta il suo immediato rilascio.
27
Dall’analisi dei lavori preparatori si può dedurre che tale inciso sia stato inserito allo scopo di escludere, almeno in
via generale, la possibilità di trattenere i migranti in attesa di espulsione all’interno delle ordinarie strutture
penitenziarie. L’art. 16 della Direttiva ha in ogni caso fatto salva la possibilità di sistemare il cittadino straniero in
un istituto penitenziario, qualora lo Stato membro si trovasse nell’impossibilità di inserirlo all’interno del sistema
dei centri per migranti (ad esempio nell’ipotesi – estremamente frequente nella prassi – di una carenza di posti letto
sufficienti all’interno di questi ultimi). L’unica garanzia richiesta al verificarsi di questa ipotesi è che i migranti
siano tenuti separati dai detenuti ordinari.
28 Il periodo di tempo concesso per la partenza volontaria, in base all’art. 7, è compreso tra i sette e i trenta giorni. La
Direttiva prevede sia la possibilità di una proroga del termine per un periodo congruo, nel caso in cui si manifestino
specifiche e particolari esigenze nel caso singolo (bambini che frequentano la scuola, legami familiari) sia la
possibilità di non concedere il rimpatrio volontario o accorciare a meno di sette giorni il periodo per allontanarsi
autonomamente, nel caso in cui si concretizzi il rischio di fuga o l’interessato sia considerato un pericolo per la
pubblica sicurezza o l’ordine pubblico o ancora, quando la richiesta di soggiorno regolare sia stata respinta «perché
manifestamente infondata o fraudolenta».
75
Le disposizioni a cui abbiamo appena fatto cenno sono sicuramente congrue con gli obbiettivi
espressi nel Preambolo, ma la Direttiva ne contiene diverse altre che appaiono molto meno coerenti
con tali premesse, al punto che numerose sono state le critiche portate avanti dalle organizzazioni
non governative, che vi hanno ravvisato una minaccia ai diritti fondamentali dei migranti29
. La
norma più controversa è sicuramente quella che riguarda il termine massimo di trattenimento, che
può protrarsi fino a diciotto mesi30
: un periodo di tempo estremamente ampio per realizzare le sole
operazioni di identificazione dello straniero e di preparazione logistica dell’espulsione, a fronte
delle quali troviamo l’imposizione di pesantissimi sacrifici alla libertà personale dei trattenuti.
Elementi di criticità possono essere evidenziati anche nella disciplina non esauriente della posizione
dei minori stranieri irregolari31
e nella mancata introduzione di un meccanismo di monitoraggio
costante e indipendente sui Centri di detenzione amministrativa, che è da considerarsi come
elemento dirimente per garantire un sistema di trattenimento efficiente e rispettoso della dignità
umana. Più in generale ha destato perplessità il fatto che il legislatore europeo abbia scelto di
formulare molte disposizioni in termini opzionali, lasciando sostanzialmente liberi gli Stati di
ottemperarvi o meno (FAVILLI 2009, 3).
Se la Direttiva Rimpatri presentava ab origine elementi controversi, l’ambiguità è stata aggravata
dalle modalità con le quali la disciplina europea è stata accolta nell’ordinamento italiano. Come
ricorda CAMPESI (2011, 198) il nostro Paese «ha recepito con estrema selettività le novità introdotte
dalla direttiva», soprattutto in ragione del fatto che alcune di esse finivano per svuotare di
significato «il meccanismo di lotta all’immigrazione irregolare creato con la “Bossi-Fini”».
L’innalzamento del termine massimo di trattenimento a 18 mesi è stato immediatamente incluso
all’interno del “pacchetto sicurezza” 2009, mentre la trasposizione delle norme di garanzia
29
A sottolineare come il contenuto della Direttiva rimpatri si sia prestato ad interpretazioni diametralmente differenti,
possiamo ricordare la posizione del Regno Unito, che si colloca al polo diametralmente opposta rispetto a quello di
coloro che hanno definito la norma europea come “Direttiva della vergogna”. Il Governo inglese ha infatti scelto di
esercitare il proprio diritto di opt-out e non aderire alla Direttiva 2008/115/CE affermando che il sistema di
trattenimento in essa prospettato non era sufficientemente forte ed efficace.
30 Ai sensi del comma 5 e 6 dell’art. 15 il trattenimento non può estendersi per un periodo di tempo maggiore a sei
mesi, prorogabile però per ulteriori dodici mesi nel caso in cui l’operazione di allontanamento debba protrarsi a
causa della «mancata cooperazione da parte del cittadino» straniero o dei« ritardi nell'ottenimento della necessaria
documentazione dai paesi terzi» (ipotesi che naturalmente si verificano nella prassi con eccezionale frequenza).
31 Gli articoli 10 e 17 della Direttiva si occupano rispettivamente dell’allontanamento e del rimpatrio dei minori non
accompagnati e del loro trattenimento. Nonostante l’affermazione, contenuta nelle osservazioni preliminari, che
«l'interesse superiore del bambino costituisce un criterio fondamentale per il trattenimento dei minori in attesa di
allontanamento» il legislatore europeo non ha disposto nei loro confronti un chiaro divieto di trattenimento nei
Centri. Essi dovrebbero essere alloggiati in «istituti dotati di personale e strutture consoni a soddisfare le esigenze
di persone della loro età» ma l’articolo contiene l’inciso «per quanto possibile»: nella prassi amministrativa sono
tutt’altro che rari i casi di minori trattenuti anche per lungo tempo nei medesimi luoghi in cui lo sono gli adulti,
esposti a tutte le conseguenze che le esperienze di tipo para-detentivo possono avere sul loro sviluppo psicofisico
(cfr. AMNESTY INTERNATIONAL 2006, 15 e ss.)
76
contenute nella direttiva ha impiegato molto più tempo a realizzarsi ed è stata caratterizzata dal
tentativo del legislatore di sfruttare quanto più possibile i margini che la norma europea concedeva
agli Stati per non dover apportare modifiche sostanziali al vigente sistema di detenzione
amministrativa.
Esemplare è la questione del rimpatrio volontario. Abbiamo già avuto modo di evidenziare come la
Direttiva 2008/115/CE sia caratterizzata da un favor per questo tipo di allontanamento, che permette
di evitare la coercizione e l’intervento della forza pubblica tipici della procedura di espulsione.
L’art. 7 fa però salva la possibilità per gli Stati membri di stabilire che il «congruo periodo»
finalizzato alla partenza volontaria sia concesso al migrante unicamente su sua richiesta32
e proprio
questo elemento è stato sfruttato dal legislatore italiano per limitare al massimo l’utilizzo di questa
modalità di allontanamento, che si configura sicuramente come più favorevole allo straniero. Ad
oggi infatti la concessione del termine è subordinata ad un’esplicita istanza da parte del migrante e
ad una pronuncia favorevole da parte del Questore, che per emanarla deve verificare che il
richiedente possieda adeguate fonti di reddito. Alla concessione del termine si accompagna
necessariamente anche l’applicazione di una misura cautelare non detentiva, come può essere
l’obbligo di dimora o l’obbligo di firma o la consegna del passaporto, che viene restituito solo al
giorno della partenza (art. 13, comma 5.2 T.U.).
L’art. 15 della Direttiva è chiaro nell’affermare che il trattenimento non può costituire la modalità
standard di esecuzione dell’allontanamento, dovendosi verificare che non siano sufficienti misure
meno coercitive e che ne sussistano i presupposti giustificativi (rischio di fuga, comportamento
dello straniero volto ad ostacolare od evitare l’esecuzione del provvedimento). Nonostante questo
nel nostro ordinamento l’espulsione coatta a mezzo della forza pubblica continua ad essere lo
strumento principale con il quale le espulsioni vengono portate a termine e il trattenimento nei
C.I.E. continua a svolgere rispetto ad essa una funzione prodromica se non esclusiva quantomeno
primaria, soprattutto in relazione a categorie di stranieri considerate meno affidabili o meno
collaborative (come risulta particolarmente evidente dalla disciplina del rinnovamento dei termini di
trattenimento, che avremo modo di esporre tra poco).
Secondo la disciplina attualmente vigente possono dunque essere trattenuti all’interno dei Centri i
cittadini di paesi non comunitari sottoposti a respingimento o provvedimento di espulsione con
32
La norma dispone altresì che, in questo caso, gli Stati membri sono tenuti ad informare i cittadini stranieri interessati
dai provvedimenti di espulsione della possibilità di inoltrare tale richiesta. Che questo tipo di informazione venga
fornita effettivamente agli immigrati irregolari quando vengono in contatto con le forze dell’ordine, prima che il loro
trattenimento nei C.I.E. venga formalizzato, è stato messo in discussione da diversi rapporti di associazioni
umanitarie (cfr. MEDICINES SANS FRONTIERES 2010; FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA 2011;
MEDU 2013) .
77
accompagnamento coattivo alla frontiera, se questi provvedimenti non sono immediatamente
eseguibili «a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o
l'effettuazione dell'allontanamento». E’ l’art. 14 del Testo Unico a chiarire quali siano da
considerarsi come situazioni transitorie ostative all’immediata esecuzione dell’espulsione: a)
necessità di acquisire i documenti occorrenti per il viaggio b) necessità di procedere ad ulteriori
accertamenti in relazione all’identità o la nazionalità dello straniero c) mancanza di disponibilità di
un vettore o mezzo di trasporto idoneo d) configurarsi di un effettivo rischio di fuga33
. Il testo della
norma fa poi riferimento ad un ulteriore ipotesi, quella della «necessità di prestare soccorso allo
straniero». Invero, l’inserimento di un tale inciso all’interno della disposizione che disciplina il
trattenimento nei C.I.E. appare piuttosto controversa: nell’attuale sistema dei Centri la funzione di
accoglienza e prima assistenza dovrebbe essere svolta dai C.D.A. e lo spostamento delle attività di
soccorso a strutture nate con finalità decisamente diverse risulta poco coerente e potenzialmente
foriero di problemi dal punto di vista più propriamente organizzativo.
Per quanto riguarda i termini massimi di trattenimento il legislatore ha predisposto un meccanismo
di rinnovo progressivo, coerentemente con le disposizioni della Direttiva Rimpatri, che impone di
non protrarre la detenzione dei migranti oltre il «periodo» di tempo «necessario ad assicurare che
l’allontanamento sia eseguito». Una volta ottenuta l’autorizzazione del giudice di pace lo straniero
può essere trattenuto in un C.I.E. per un periodo complessivo di trenta giorni, prorogabile però per
altri trenta giorni dalla stessa autorità giudiziaria, su richiesta del Questore se sono presenti «gravi
difficoltà» in ordine all’identificazione o all’acquisizione dei documenti necessari per il viaggio. Se
queste condizioni permangono il Questore può ottenere altre due proroghe successive di sessanta
giorni ciascuna, portando il periodo complessivo di trattenimento dovuto unicamente a ragioni di
tipo pratico, organizzativo o burocratico ad un totale di sei mesi34
. Questo termine sembra però
33
L’art. 14 richiama qui il comma 4-bis dell’art. 13, che a sua volta elenca quali elementi debbano essere presi in
considerazione dal Questore per poter confermare la sussistenza del pericolo di fuga. Le ipotesi enunciate dalla
norma sono quelle dello straniero che sia privo di un passaporto valido, che non sia in grado di dimostrare di avere a
propria disposizione un alloggio dove le forze dell’ordine possano rintracciarlo, che abbia in precedenza dichiarato
falsamente le proprie generalità, che non abbia ottemperato ad un provvedimento dell’autorità (in particolare
all’intimazione del Prefetto a lasciare volontariamente il territorio nazionale, al divieto di rientrare nel territorio
italiano a seguito di un provvedimento di espulsione) o che abbia violato una delle misure cautelari non detentive
previste dal comma 5.2. Il pericolo di fuga è dunque presunto in relazione ad una variegata gamma di
comportamenti: nella prassi, questo significa che la stragrande maggioranza dei cittadini stranieri che arrivano nel
nostro paese in situazioni di disagio (pensiamo agli sbarchi dei sans-papier nordafricani) rientrano immediatamente
nella categoria dei trattenibili nei C.I.E..
34 E’ qui importante sottolineare che secondo un parere espresso in merito dal Consiglio Superiore della Magistratura il
tenore normativo della Direttiva 2008/111/CE comporta il divieto di disporre il primo trattenimento dello straniero
esclusivamente per difficoltà nell’esecuzione delle operazioni di rimpatrio, che possono avere rilievo solo
nell’eventuale fase di proroga del trattenimento ( Parere, ai sensi dell’art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195 sul
disegno di legge n. 733-B del 3 giugno 2008, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” espresso il 10
giugno 2009. Cfr. in particolare il punto 5.5.).
78
valere soltanto per gli stranieri che si siano dimostrati “collaborativi” con le forze dell’ordine o la
cui situazione sia in ogni caso qualificabile come “non problematica”. Il quinto comma dell’art. 14
prosegue infatti disponendo che se entro i sei mesi non è stato possibile effettuare l’allontanamento
dal territorio italiano, a causa della «mancata collaborazione al rimpatrio» del cittadino straniero o
di «ritardi nell’ottenimento della documentazione dai paesi terzi», il Questore può continuare a
chiedere al giudice proroghe di sessanta giorni in sessanta giorni fino ad un limite massimo di
dodici mesi. Il trattenimento dello straniero può quindi protrarsi per un arco di tempo massimo di un
anno e sei mesi. Se neppure questo periodo è stato sufficiente a rimuovere gli ostacoli all’espulsione
dello straniero, quest’ultimo dovrà essere rilasciato dal Centro e il Questore gli impartirà l’ordine di
allontanarsi autonomamente dal territorio nazionale entro sette giorni. La violazione di questo
ordine comporta una sanzione pecuniaria molto consistente (fino a 20.000 euro) e l’emanazione di
un nuovo provvedimento di espulsione (art. 14, comma 5-ter). Il secondo mancato allontanamento
comporta l’innalzamento del tetto massimo della multa a 30.000 euro e può portare ad un’ulteriore
periodo di trattenimento all’interno di un C.I.E., se l’espulsione non può essere eseguita
immediatamente (art. 14, comma 5-quater). Il circolo vizioso di trattenimenti e mancate espulsioni
che questo meccanismo finisce per instaurare è con tutta evidenza altamente problematico, anche
solo tenendo conto del profilo economico del procedimento.
Dopo aver considerato presupposti, termini massimi e principi generali che governano il
trattenimento dello straniero all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione proviamo ora ad
analizzare il profilo delle modalità trattamentali. Il Testo Unico contiene in merito soltanto scarne
disposizioni, che costituiscono però il punto di riferimento primario per gli enti a cui è affidata
l’amministrazione dei centri e le autorità di P.S. che vi operano. Il secondo comma dell’art. 14 T.U.
contiene innanzitutto una prescrizione di carattere generale, destinata a fungere da base
interpretativa per le altre norme in materia e da guida nella prassi gestionale: «lo straniero e'
trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della
sua dignità». Cercando di concretizzare questa disposizione il legislatore menziona la libertà di
corrispondenza (anche telefonica) con l’esterno - che dev’essere assicurata ad ogni migrante
trattenuto in un C.I.E. - e l’obbligo di comunicare agli interessati tutti i provvedimenti che li
riguardano in una lingua a loro comprensibile o, se questo non è possibile, in una lingua vieicolare
(art. 2, comma 6). Il settimo comma dell’art. 14 fa invece riferimento al ruolo ricoperto nei Centri
dalle forze dell’ordine: esse vigilano «affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal
centro» e provvedono a «ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata», ovvero
a ricondurre oltre i cancelli del C.I.E. lo straniero che ne sia “evaso”. Sul punto si può brevemente
79
notare che anche soltanto quest’ultimo elemento ci permette di ricomprendere i Centri di
Identificazione ed Espulsione italiani nella categoria dei “centri chiusi”, nella quale sono
ricomprese tutte le strutture che gli stranieri non sono liberi di lasciare a proprio piacimento35
.
Oltre a quelle che abbiamo appena elencato, il Testo Unico non contiene ulteriori previsioni in
merito ai diritti da garantire o alle modalità trattamentali da riservare agli ospiti dei centri. Per
trovare disposizioni più ampie e puntuali dobbiamo scendere al rango secondario delle fonti statali e
prendere in considerazione la Direttiva Ministeriale del 30 agosto 2000 (c.d. “Direttiva Bianco”), il
documento che ha fissato le linee guida per la gestione di tutti i centri presenti sul territorio
nazionale. Si tratta di una direttiva emanata per arginare la caotica situazione creatasi nei primi anni
di gestione degli allora C.P.T.: in assenza di disposizioni uniformi il regime di trattenimento era
determinato in maniera altamente discrezionale dagli organismi gestori e la vita all’interno dei
centri veniva sostanzialmente regolata da ordini di servizio e decreti dei Prefetti36
. La direttiva,
elaborata con il contributo di diverse associazioni operanti nel settore della tutela dei migranti, è
stata poi integrata da una successiva circolare ministeriale del 2002, che ha introdotto, tra l’altro,
una prima bozza di convenzione di gestione applicabile a tutte le tipologie di centri37
.
Il primo ambito operativo su cui il testo ministeriale si concentra è quello dei «criteri generali
relativi alla salvaguardia dei livelli di sicurezza e agli aspetti strutturali»: le aree propriamente
amministrative e le aree destinate alla detenzione devono essere strettamente separate, all’interno
dei C.I.E. devono essere presenti spazi «destinati alla socializzazione e alla vita in comune» e si
deve garantire che gli alloggi abbiano uno standard qualitativo tale da assicurare «la dignità della
persona e le sue esigenze fondamentali». Il secondo aspetto preso in considerazione è quello delle
misure di sicurezza: queste devono essere tali da impedire l’allontanamento degli stranieri dai
35
Gli autori che si sono occupati dei centri di detenzione amministrativa a livello europeo hanno elaborato la
fondamentale distinzione tra “centri aperti” e “centri chiusi”, utilizzando come criterio di differenziazione proprio il
diverso regime trattamentale a cui sono sottoposti i migranti che si trovano al loro interno, con particolare
riferimento alla libertà di movimento che viene loro concessa (cfr. CORNELISSE 2010, 21; GUILD 2005, 4 e ss.).
Tenendo sempre ben presente che in molti casi la distinzione tra le due categorie può non essere netta, data la natura
ibrida delle strutture (nell’esperienza italiana ne sono un esempio i C.A.R.A. e i C.D.A.), possiamo collocare i C.I.E.
in quella sottocategoria dei centri chiusi che viene definita degli holding/deportation centres. Si tratta di luoghi
sottoposti ad un regime di sorveglianza molto rigido, affidato alle forze di polizia o all’esercito, la cui gestione fa
capo al Ministero dell’Interno della nazione in cui sono istituiti.
36 La gravità della situazione italiana venne denunciata tra gli altri dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del
Consiglio D’Europa, il cui rapporto costituì uno degli elementi che spinsero il ministro dell’Interno Enzo Bianco ad
emanare la Direttiva. Cfr. COMITÉ EUROPÉEN POUR LA PRÉVENTION DE LA TORTURE ET DES PEINES OU TRAITEMENTS
INHUMAINS OU DÉGRADANTS, 2003. Rapport au Gouvernement de l'Italie relatif à la visite effectuée en Italie par le
Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants du 13 au 25
février 2000. http://www.cpt.coe.int/documents/ita/2003-16-inf-fra.htm
37 Si tratta della Circolare ministeriale n. 3154/2002 relativa a Convenzione tipo e "linee guida" per la gestione di
Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPT) e di Centri di Identificazione (CID, già centri d'accoglienza).
80
Centri, senza però comportare «ulterior(i) affievoliment(i) dei diritti della persona trattenuta». É in
ogni caso fatta salva la possibilità di utilizzare strumenti di sicurezza più incisivi se ciò è reso
necessario da «esigenze di ordine collettivo, sia di convivenza che di sicurezza». In relazione a
specifiche esigenze relative alla sicurezza degli ospiti e degli operatori è previsto che all’interno dei
C.I.E. possano essere costituite apposite «sezioni di contenimento», la cui natura e le cui finalità
rimangono però non meglio specificate (celle di sicurezza? sezioni isolate dalle altre?).
Infine la direttiva si sofferma a lungo sul tema dei diritti e dei doveri della persona trattenuta, che
devono essere indicati in un’apposita “Carta”, tramite la quale essi vengono portati a conoscenza
dello straniero. In base a tale documento il migrante irregolare ha diritto a conoscere i motivi del
proprio trattenimento al momento dell’ingresso del centro e, in un momento successivo, quelli della
propria espulsione; ha diritto a ricevere un’assistenza legale adeguata, tramite un difensore di
fiducia o uno d’ufficio e a comunicare la propria situazione di detenzione alle autorità consolari del
proprio paese d’origine e ai familiari, se lo ritiene opportuno. Durante tutto il periodo di detenzione
dev’essergli consentito di esprimersi nella lingua di origine o in una lingua e lui nota: il diritto che
viene qui riconosciuto dalla Direttiva Bianco è più ampio di quello alla traduzione dei
provvedimenti che hanno lo straniero come destinatario, di cui all’art. 2 comma 6 del T.U.. Le
istruzioni ministeriali impongono poi il rispetto del’identità religiosa e della libertà di culto degli
stranieri38
, dell’identità di genere39
e di tutte quelle «caratteristiche personali, di razza (sic) o di
abitudini di vita che possono determinare, se compresse, una lesione alla sua identità». All’interno
dei Centri dev’essere ovviamente tutelata la salute psico-fisica dei migranti40
, come il diritto
all’unità familiare41
e più in generale i diritti del minore (che, in ogni caso, può trovarsi trattenuto in
un centro solo su esplicita autorizzazione del genitore o su autorizzazione del competente Tribunale
38
In particolare gli organismi gestori del centro devono garantire il rispetto delle abitudini e dei precetti religiosi degli
stranieri, con particolare riferimento alla possibilità di assistere alla celebrazione delle funzioni religiose e ottenere
dei pasti che non violino con i precetti alimentari imposti dal proprio credo (anche se sempre «compatibilmente con
le esigenze della vita collettiva»).
39 Questo significa innanzitutto che se ad essere trattenute sono delle donne dev’essere loro permesso di avvalersi di
personale di assistenza di sesso femminile. É prevista la possibilità che all’interno dei centri siano stabilmente
predisposte delle aree dedicate alle sole straniere, per permettere la separazione dalla popolazione maschile, anche
se secondo le disposizioni ministeriali la separazione dei reparti dev’essere garantita solo nelle ore notturne (se non
si dà prova di esigenze ulteriori). La Direttiva Bianco non detta delle disposizioni specifiche a tutela delle persone
transessuali, ma appare evidente che se si impone il rispetto dell’identità di genere dei trattenuti si deve anche
predisporre un particolare sistema di tutela per i migranti che potrebbero essere vittime di episodi di transfobia. Ad
oggi l’unico C.I.E. ad avere una sezione specializzata per il trattenimento dei migranti transessuali è quello di Via
Corelli a Milano. All’interno del Centro non viene però garantita la continuità delle terapie ormonali di transizione
ed è stata denunciata una generale mancanza di formazione specifica degli operatori (SENATO DELLA REPUBBLICA,
2012, 78 e ss.; 109 e ss.)
40 Compresa la possibilità per lo straniero di essere ricoverato in un luogo di cura esterno al centro in caso di «urgenti
necessità di soccorso sanitario» (art. 21, comma 4 del D.P.R. 394/1999)
41 Ai nuclei familiari dev’essere garantito uno spazio proprio dove alloggiare e se questo non è disponibile nel centro
in cui si trovano le persone devono essere trasferite celermente in un’altra struttura in cui questo è possibile.
81
per i minorenni). Infine lo straniero trattenuto gode, secondo la Direttiva Bianco, della libertà di
mantenere contatti con il mondo esterno, che si esplica non solo attraverso il generale diritto alle
conversazioni telefoniche (e al mantenimento della riservatezza delle stesse) ma anche e soprattutto
tramite i colloqui con «enti, associazioni di volontariato e cooperative di solidarietà»42
. Lo straniero
dev’essere informato fin da subito della possibilità di ottenere tali colloqui, che rimangono però
soggetti ad autorizzazione da parte delle autorità di polizia, che possono limitarli in relazione ad
esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza all’interno del centro.
La Direttiva Bianco ha costituito e costituisce ad oggi un importante punto di riferimento per
individuare quello che dev’essere considerato il “trattamento minimo garantito” all’interno dei
centri. Il testo presenta però diverse criticità, che d’altra parte sono state rese più acute dalla prassi
applicativa degli ultimi dieci anni. I nodi fondamentali rimangono due: la scelta di privatizzare la
gestione dei centri e il permanere di un’ampia discrezionalità in capo alle autorità di pubblica
sicurezza nel determinare aspetti significativi della vita quotidiana dei migranti all’interno delle
strutture di trattenimento.
Sotto il primo profilo la Direttiva impone ai Prefetti di stipulare convenzioni e accordi di
collaborazione con enti, associazioni o cooperative che si occupino di assicurare servizi essenziali
come l’interpretariato, l’informazione legale o la mediazione culturale e determina i requisiti che
tali enti devono possedere per poter entrare a far parte di tali convenzioni43
. A prima vista, la
decisione di attribuire la gestione materiale dei centri a soggetti privati può apparire come neutra:
una scelta dettata da ragioni di efficienza amministrativa ed economicità, che segue la tendenza
all’esternalizzazione dei servizi che ha caratterizzato la Pubblica Amministrazione nel suo
complesso a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Si tratta in realtà di una scelta non priva di
conseguenze problematiche : innanzitutto l’assoluta discrezionalità della Prefettura nello scegliere a
42
L’art. 21 comma 7 del D.P.R. 394/1999 indica quali sono i soggetti autorizzati all’ingresso nei Centri: il personale
addetto alla gestione, gli appartenenti alla forza pubblica, il giudice competente, il difensore dei trattenuti, i familiari
conviventi, i ministri di culto e il personale della rappresentanza diplomatica e consolare del paese d’origine, oltre
agli gli «appartenenti ad enti, associazioni del volontariato e cooperative di solidarietà sociale, ammessi a svolgervi
attività di assistenza» sulla base di specifiche convenzioni o di «appositi progetti di collaborazione concordati con il
Prefetto». Secondo l’ottavo comma del medesimo articolo, poi, «le modalità di svolgimento delle visite sono
adottate dal Prefetto, sentito il Questore, in attuazione delle disposizioni contenute nel decreto di costituzione del
centro e delle direttive impartite dal Ministero dell’Interno». Proprio la parcellizzazione delle decisioni in materia di
ingresso nei Centri e la “relazione privilegiata” istituita tra organizzazioni di volontariato (spesso locali) e Prefettura
ha contribuito ad aumentate difficoltà di accesso alle strutture italiane da parte di organismi internazionali come
l’UNCHR (MÉDICINES SANS FRONTIÈRES 2010, 8) che pure, secondo quanto previsto dal la stessa Direttiva Bianco,
ha la possibilità di accedere al centro « in qualsiasi momento».
43 E’ necessario che le organizzazioni in questione si siano costituite almeno due anni prima della data in cui viene
stipulato l’accordo e che presentino un progetto dettagliato per la realizzazione dei servizi, compatibile con le
finalità di tutela e assistenza dei migranti che devono essere garantite nei centri secondo quanto prescritto proprio
dalle disposizioni ministeriali.
82
quale soggetto affidarsi; in secondo luogo la tendenza manifesta a privilegiare l’aspetto del
contenimento dei costi di gestione su quello della qualità dei servizi resi44
. Se teniamo ben presente
l’importanza dei servizi oggetto di appalto nell’assicurare il pieno rispetto della dignità dello
straniero trattenuto - parafrasando le parole della Direttiva Bianco – non possiamo non considerare
questo elemento come essenziale. La privatizzazione dei servizi significa anche il necessario
avvicendamento di diversi soggetti nell’amministrazione dei Centri: in molti casi questo ha
comportato la mancanza di continuità tra vecchi e nuovi enti gestori, con la conseguenza di un
inevitabile periodo critico di “rodaggio” e la necessità di riattivare convenzioni e ridefinire pratiche
consolidate45
. Non da ultimo è da tenere in considerazione che la scelta del Ministero ha contribuito
all’affermarsi di quel fenomeno che SCIURBA (2009, 41) ha definito come «commistione tra
umanitarismo e detenzione»: si nega che i C.I.E. costituiscano vere e proprie strutture para-
detentive (con tutte le implicazioni che tale definizione comporta) sulla base del coinvolgimento di
organizzazioni non governative nella loro gestione (il primo esempio ne è la Croce Rossa Italiana).
Nella prassi, la presenza contemporanea all’interno dei Centri di personale esterno e forze di polizia
comporta che queste ultime vengano molto spesso a trovarsi all’interno delle aree dedicate ai servizi
forniti ai migranti dai soggetti terzi. Questa situazione porta i trattenuti a confondere i soggetti che
svolgono la funzione di controllo e quelli che invece svolgono la funzione di assistenza (ROVELLI
2006 , 52 e ss.) e si configura come una palese violazione delle stesse disposizioni del Testo Unico,
in base alle quali il personale delle forze dell’ordine è responsabile solo della sorveglianza
perimetrale del centro e può entrare all’interno delle strutture solo in situazioni emergenziali, in cui
l’intervento sia stato espressamente richiesto dagli enti gestori al fine di ristabilire l’ordine e la
sicurezza.
Quanto al secondo profilo critico - l’ampio margine di discrezionalità lasciato alle autorità di
pubblica sicurezza nella gestione della vita all’interno dei C.I.E. - non possiamo fare a meno di
constatare che, nonostante l’intento del Ministero nell’emanare la Direttiva del 2000 fosse proprio 44
Naturalmente l’affidare la gestione ad un soggetto pubblico non è garanzia che venga privilegiata la qualità
sull’economicità, non di meno questo aspetto è con tutta evidenza più marcato nelle licitazioni private. Ad oggi e i
servizi oggetto di appalto sono quelli previsti dagli specifici capitolati d’asta predisposti con decreto del Ministro
dell’Interno del 21 novembre 2008 e la base d’asta nei bandi di gara ministeriali è di 30 euro al giorno per migrante
trattenuto (per i medesimi servizi negli anni precedenti gli enti gestori vincitori delle convenzioni avevano stabilito
prezzi che in molti casi superavano i 60 euro al giorno pro capite). Nelle procedure concorsuali standard relative
alla gestione dei C.I.E. il criterio di aggiudicazione era in origine quello dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, ma nel 2012 il Ministero dell’Interno ha scelto di adottare invece il criterio del prezzo più basso. La
decisione ha comportato diversi ricorsi ai T.A.R. volti a denunciare la presenza di offerte basse in modo anomalo e i
risultati dell’adozione di tali modalità di aggiudicazione delle gare sono stati oggetto di più di un’interrogazione
parlamentare, l’ultima delle quali nel giugno 2013 (Senato della repubblica, Interrogazione a risposta orale 3/00138
del 13 giugno 2013).
45 A titolo di esempio il cambio di gestione avvenuto nel 2012 nel C.I.E. di Bologna ha comportato la riscrittura del
regolamento interno, l’attivazione ex novo della collaborazione con l’Azienda Sanitaria Locale e l’adozione di un
nuovo sistema di raccolta dei dati statistici (MEDU 2013, 14).
83
quello di limitare l’arbitrio decisionale delle Prefetture nelle scelte operative a loro affidate, nella
realtà dei fatti quest’ultimo permanga ancora in misura significativa. Scegliendo di non sottoporre i
Centri alla più stringente disciplina prevista dal codice di procedura penale e dalla legge
dell’ordinamento penitenziario si è sostanzialmente aperto le porte ad una gestione “personalistica”
di questi luoghi di trattenimento dei migranti, ognuno dei quali viene diretto «secondo la particolare
filosofia delle autorità di polizia e dell’ente gestore» (CAMPESI 2011, 205). Il livello di
discrezionalità lasciato all’autorità di polizia risulta particolarmente evidente quando ci si confronta
con il tema dell’accesso ai Centri da parte di soggetti esterni: se escludiamo i casi in cui è lo stesso
Ministero dell’Interno a stabilire una ristretta lista di enti i cui rappresentanti possono ottenere
l’ingresso nei C.I.E.46
, ogni decisione in merito è di norma completamente demandata all’ufficio del
Prefetto. Manca qui, ancora una volta, una norma di rango primario a disciplinare la materia: mentre
per le visite agli istituti di reclusione e i colloqui con i detenuti la legge n. 354 del 1975 e il relativo
regolamento attuativo stabiliscono dei criteri molto precisi47
, che devono essere seguiti
dall’amministrazione penitenziaria, per i Centri di Identificazione la valutazione della compatibilità
delle visite con il mantenimento dell’ordine, della sicurezza e dei presupposti di convivenza civile
all’interno delle strutture spetta solo e soltanto alle autorità di P.S.. Il risultato è una situazione che
rimane, ad oggi, estremamente variegata sul territorio nazionale e nella prassi la maggiore o minore
accessibilità dei Centri è legata più al succedersi di diversi funzionari nel ruolo di Prefetto che
all’effettiva presenza di situazioni problematiche all’interno di queste strutture.
Se la stessa Direttiva Bianco, che rappresenta il caposaldo nella disciplina delle modalità
trattamentali da attuarsi all’interno dei Centri, presenta gli elementi critici che abbiamo appena
evidenziato, la situazione appare ancora più problematica se volgiamo l’occhio alla sua
applicazione di tal disposizioni, alla prassi gestionale dei C.I.E.. I diversi rapporti sullo stato dei
46
Questo è accaduto nel 2011, con la Circolare del Ministero dell’Interno del 1 aprile, prot. 1305, con la quale il
Ministro Roberto Maroni limitava l’accesso alle strutture di trattenimento presenti sul territorio nazionale soltanto ai
rappresentati di sette organizzazioni non governative ( UNCHR, Croce Rossa Italiana, Amnesty International,
Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, Medici Senza Frontiere, Save The Children e Caritas). Nella
Circolare in questione la ratio di questa decisione veniva individuata nella necessità di non intralciare le attività
rivolte al soccorso dei migranti con visite inopportune, dato il massiccio afflusso sulle coste italiane di persone
provenienti dal Nord Africa, avvenuto a seguito dei rivolgimenti politici legati alla cosiddetta “Primavera araba”. La
scelta del Ministro è stata considerata piuttosto ambigua ed è stata criticata da più parti, sul presupposto che
l’obbiettivo reale e non dichiarato del provvedimento fosse quello di impedire ai giornalisti (ma anche ad altri
organismi indipendenti, esclusi dalla lista degli autorizzati per ragioni non chiare) di accedere alle strutture, per
evitare che fossero messe in luce le carenze nella gestione emergenziale nei centri.
47 Il riferimento è agli art. 18, 67 e 78 della legge di ordinamento penitenziario, che disciplinano rispettivamente la
possibilità di ottenere colloqui con i detenuti e le modalità di svolgimento degli stessi, le visite (anche non
autorizzate) agli istituti penitenziari e la possibilità di frequentare i luoghi di detenzione da parte di assistenti
volontari. Queste disposizioni trovano poi ulteriore specificazione negli artt. 37, 68, 117 e 120 del D.P.R. 30 giugno
2000, n. 230.
84
Centri per la detenzione amministrativa in Italia hanno spesso sottolineato l’inapplicazione delle
disposizioni ministeriali, a partire proprio dalla mancata consegna della “Carta dei Diritti e dei
Doveri” agli stranieri sottoposti a trattenimento al momento del loro ingresso nelle strutture. Si
tratta di un elemento per nulla secondario nell’analisi del “sistema C.I.E.” e della sua compatibilità
con le disposizioni del legislatore nazionale ed europeo e quindi non possiamo fare a meno di
dedicarvi ora un minimo spazio.
Cercando di dare una breve esemplificazione delle violazioni riscontrate48
dobbiamo ricordare
innanzitutto la mancanza di aree dedicate alle attività ricreative, nonché la sostanziale impossibilità
di svolgerne alcuna (nei casi migliori sono consentiti soltanto il gioco del calcio e le carte). Questa
situazione di carenza cronica, che è stata riscontrata nei tre quarti dei centri italiani, si pone
palesemente in contrasto con quanto previsto dal capitolato standard49
per i C.I.E. ed è un elemento
che contribuisce in maniera importante ad alimentare il clima di tensione presente all’interno delle
strutture, soprattutto alla luce del fatto che, secondo la normativa attualmente vigente, la detenzione
può protrarsi per periodi di tempo più che consistenti.
Un secondo elemento particolarmente preoccupante è quello delle condizioni igieniche e strutturali
dei luoghi di trattenimento, che in diversi Centri (Roma, Bari, Trapani, Catanzaro) sono state
segnalate come precarie o addirittura ai limiti della vivibilità. La scelta di utilizzare edifici
preesistenti, costruiti originariamente per svolgere funzioni molto diverse50
, ha sicuramente
comportato la necessità per l’amministrazione di superare difficoltà strutturali presenti ab origine,
che sono state però acuite dall’incuria e dalla carenza di manutenzione, spesso portato primario del
fenomeno di “gestione al ribasso” che abbiamo già segnalato come risvolto negativo della
privatizzazione dei servizi. In numerosi casi la situazione si è aggravata nel tempo, a causa del
susseguirsi di rivolte degli stranieri trattenuti, che sono culminate in incendi e danneggiamenti alle
strutture, con la conseguente necessità di investire risorse consistenti nei restauri.
48
Per essere quanto più possibile aderente alla realtà presente dei Centri e delle loro problematiche abbiamo basato
gran parte di quest’analisi sul rapporto redatto da Medici per i Diritti Umani, pubblicato nel maggio 2013.
L’indagine è stata condotta dagli operatori dell’associazione umanitaria da febbraio 2012 a febbraio 2013 ed ha
interessato tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione attivi sul territorio italiano in quel periodo.
49 Tra i servizi che le organizzazioni vincitrici degli appalti di gestione devono fornire vi è infatti «l’organizzazione del
tempo libero»: devono essere predisposte «attività di animazione socio culturale», che prevedano la «partecipazione
attiva dei beneficiari».
50 Si tratta in diversi casi di ex caserme o di strutture di tipo penitenziario (Bologna, Gorizia, Milano), ma è diffuso
anche l’utilizzo di edifici civili, come è il caso del C.I.E. di Lamezia Terme, ospitato in un ex centro di accoglienza
per tossicodipendenti, o del C.I.E. di Trapani che si trova all’interno di un ex istituto geriatrico. Nei casi in cui i
Centri sono stati costruiti ex novo si è spesso avuto un passaggio da prefabbricati o tendopoli ad edifici in muratura.
In questi casi l’aspetto più problematico non è tanto la divisione razionale e funzionale degli spazi quanto la scelta
dei luoghi in cui costruire: località isolate e difficilmente raggiungibili oppure zone adiacenti a siti militari (Bari) o a
strutture penitenziarie (Modena).
85
Altro elemento che emerge dai rapporti e che si pone in evidente contrasto non solo con quanto
previsto dai capitolati alla voce “assistenza sanitaria” ma anche e soprattutto con la Direttiva Bianco
e le disposizioni del Testo Unico è la presenza all’interno dei C.I.E. di soggetti affetti da patologie
mediche o psichiatriche completamente incompatibili con il trattenimento (come i soggetti
sieropositivi o quelli ai quali sono state diagnosticate gravi forme di depressione). Mancando
completamente convenzioni con le Aziende Sanitarie locali51
, che permetterebbero ai medici del
servizio sanitario nazionale di operare direttamente all’interno dei centri, gli enti gestori si devono
affidare a soggetti privati esterni ma, data la scarsità dei budget, nella stragrande maggioranza dei
casi l’assistenza medica non riesce ad essere garantita sulle ventiquattr’ore (nei casi di urgenze si
ricorre alla guardia medica). Già nelle visite effettuate tra il 2008 e il 2009 MÉDICINES SANS
FRONTIÉRES (2010, 149) ha messo in luce come l’assistenza sanitaria all’interno dei C.I.E. sia
strutturata in modo «reattivo» ed come il ridotto range di servizi sanitari garantiti faccia sì che gli
operatori siano in grado di fornire solo «cure minime, sintomatiche e a breve termine», situazione
decisamente inadeguata e non più sostenibile nella prospettiva attuale di un trattenimento
prolungato fino a 18 mesi. Quanto alla salute mentale è purtroppo da segnalare come le
testimonianze rese da sanitari e migranti, nonché le cronache dei giornali, riportino numerosi casi di
disagio psichico tra i trattenuti, che nelle ipotesi più lievi si manifestano con forme di insonnia o di
generica depressione e in quelli più gravi con atti aggressivi o autolesionistici. Non potendo
ricorrere, nella maggior parte dei casi, a strutture esterne adeguate, gli operatori sanitari degli enti
gestori utilizzano spesso terapie ansiolitiche e farmaci antipsicotici. Si tratta però di una scelta
rischiosa per diverse ragioni: innanzitutto vi è il pericolo di creare nei pazienti una dipendenza da
farmaci e con esso il fondato timore che essi finiscano per abusare delle prescrizioni (si tratta di
medicinali che, se assunti in grande quantità, possono produrre addirittura effetti contrari a quelli
desiderati). A questo si deve aggiungere l’utilizzo di psicofarmaci come “sostanze surrogato” da
parte di soggetti già tossicodipendenti e la conseguente creazione di circuiti di spaccio all’interno
dei Centri; come pure il rischio legato a diagnosi e prescrizioni di terapie effettuate da operatori
medici privi di competenze specifiche in campo psichiatrico (situazione riscontrata, ad esempio, nel
C.I.E. di Torino).
Se è possibile ancora più critica appare la situazione dei servizi di assistenza sociale e psicologica:
secondo le disposizioni del capitolato standard agli stranieri trattenuti dovrebbe essere garantito un
sostegno calibrato secondo le proprie specifiche esigenze individuali, prestando particolare
attenzione alle situazioni di vulnerabilità. In molti casi i migranti che transitano dai Centri sono
51
L’unico tra i C.I.E. italiani in cui questa convenzione esisteva era quello di Crotone (Sant’Anna), ma il servizio è
stato interrotto nel 2012, a causa delle difficoltà economiche dell’ente gestore del Centro.
86
vittime di violenze o di abusi, come pure sono diffuse le situazioni di tossicodipendenza52
e di
disagio psicologico grave, da porsi in relazione alla provenienza di queste persone da aree di forte
marginalità sociale. E’ lo stesso ministero a riconoscere il ruolo determinante del supporto
psicologico nella dinamica gestionale dei C.I.E., quando afferma esplicitamente che tra le finalità di
questo servizio vi è quella di «prevenire l’insorgere dei conflitti determinati dalla permanenza
prolungata degli ospiti nel Centro». In totale contraddizione con queste premesse la prassi
gestionale dei Centri si segnala per l’insufficienza delle ore di assistenza garantite e la mancanza di
spazi fisici dedicati (addirittura, nel C.I.E. di Gradisca d’Isonzo, non è presente alcuna figura di
psicologo qualificato).
In un numero più ristretto di casi, i report hanno denunciato la carenza del servizio di assistenza
legale, che dovrebbe garantire quantomeno un’informativa di base che permetta agli stranieri di
comprendere le ragioni del loro trattenimento e le garanzie giurisdizionali di cui possono usufruire.
La questione mostra tutta la propria problematicità se prendiamo in considerazione la posizione dei
potenziali richiedenti asilo, a cui dovrebbe essere garantita un’informazione completa sulle
procedure d’accesso alla protezione internazionale, per permettere loro di formulare la richiesta nel
più breve tempo possibile, al primo contatto con uno Stato membro dell’Unione Europea - come
ribadito anche dal Parlamento europeo tramite la recente approvazione del nuovo Sistema Europeo
Comune di Asilo (CEAS)53
. La mancanza di uno sportello legale (gratuito) ben strutturato e con un
ampio spettro di competenze contribuisce al proliferare (anche involontario) di situazioni di
illegalità all’interno dei Centri - come i trattenimenti ingiustificati - e all’impossibilità per gli
stranieri di denunciare eventuali abusi.
Infine è da considerarsi particolarmente grave la presenza riscontrata, in casi non numerosi ma
comunque significativi, di minori non accompagnati all’interno dei Centri di Identificazione ed
52
Nella maggior parte dei casi i trattenuti con dipendenze da stupefacenti sono trattati con terapie di metadone fornito
dai locali Servizi per le Tossicodipendenze, con cui gli enti gestori hanno accordi informali, calibrate con
l’obbiettivo di giungere alla disintossicazione entro 60 giorni. A parte la terapia farmacologica non è però
disponibile in nessuno dei C.I.E. italiani un programma strutturato di disintossicazione, del quale il sostegno
psicologico qualificato e continuativo costituisce un elemento portante.
53 Sotto il nome di Sistema Europeo Comune di Asilo è ricompreso l’insieme di tutte le norme applicabili negli Stati
Membri dell’Unione Europea che disciplinano la materia della protezione internazionale e dell’asilo. Il concetto
venne originariamente elaborato nel Consiglio Europeo di Tampere del 1999 in cui capi di Stato e di Governo dei
Paesi membri si impegnarono ad dotarsi di strumenti e norme comuni per determinare lo Stato competente ad
esaminare le domande di asilo, ad uniformare le procedure per l’attribuzione dello status di rifugiato e ad
individuare condizioni comuni minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo. Nell’ambito di questo processo di
elaborazione di una disciplina comune sono stai prodotti diversi documenti:la Direttiva 2003/9/CE del 27 gennaio
2003 (c.d. “Direttiva Accoglienza”), il Regolamento CE n. 343/2003 del 18 febbraio 2003 (c.d. “Regolamento
Dublino II”), la Direttiva 2005/85/CE del 1 dicembre 2005 (c.d. “Direttiva Procedure”) ecc.. Il 12 giugno 2013 il
parlamento Europeo ha approvato quattro documenti contenenti nuove procedure comuni per la gestione delle
domande d’asilo e un corpus di norme riguardanti i diritti di base dei richiedenti asilo. Il nuovo CEAS dovrebbe
entrare in vigore nel secondo semestre del 2015 (Cfr. Il nuovo sistema europeo d’asilo: “Un passo avanti, ma la
meta è lontana”, in “La Repubblica”, 12 giugno 2013).
87
Espulsione: abbiamo già avuto modo di evidenziare come il Testo Unico, la Direttiva Bianco e la
Direttiva rimpatri impongano che i minori stranieri non possano essere trattenuti insieme agli adulti,
ma debbano essere immediatamente trasferiti in centri idonei alla loro età. Nei casi di incertezza
l’accertamento della minore età viene effettuato tramite un esame auxologico (radiografia del
polso), che però è soggetto ad un margine di errore massimo di 24 mesi, tanto che una circolare
ministeriale54
precisa che entro tale margine l’autorità di polizia deve applicare il beneficio del
dubbio in favore del minore. Inquieta però quanto affermato sul punto da MÉDICINES SANS
FRONTIÉRES (2010, 154): sarebbe prassi usuale per i sanitari che effettuano l’esame non indicare
questo elemento nei referti medici, rendendo si fatto inapplicabili le disposizioni ministeriali.
Fino a questo momento abbiamo cercato di tratteggiare l’immagine dei Centri di identificazione ed
Espulsione come sono stati concepiti dal legislatore europeo e nazionale, mettendo poi in luce le
discrasie più salienti e diffuse tra il “dover essere” di queste strutture e quella che è invece la realtà
quotidiana con cui si trovano a contatto i migranti trattenuti al loro interno. Nell’esaminare i
rapporti delle associazioni umanitarie spesso ci si imbatte in segnalazioni di casi isolati di violazioni
gravissime dei diritti umani dei migranti55
, ma abbiamo volutamente evitato di soffermarci su di
esse, cercando di costruire un analisi delle problematiche strutturali dei Centri più che disegnare una
galleria degli orrori. Sospendendo il giudizio sulle effettive modalità di gestione dei luoghi destinati
alla detenzione amministrativa e sui passi che sarebbe necessario intraprendere per tentare di
ricucire prassi e dettato legislativo, al termine di questa breve trattazione le questioni più consistenti
dal punto di vista del diritto rimangono ancora aperte: i Centri di Identificazione ed Espulsione sono
istituzioni legittime? E’ accettabile, all’interno del nostro ordinamento costituzionale la detenzione
54
Si tratta della Circolare 9 luglio 2007 del Ministero dell’Interno.
55 Solo a titolo di esempio possiamo riportare due casi estremi, tratti dal rapporto di MEDU: si tratta di situazioni in
cui vengono a mancare elementi davvero essenziali per assicurare un regime di vita dignitoso ai trattenuti. Il primo
caso-limite è quello del C.I.E di Catanzaro (Lamezia Terme), poi chiuso nel novembre 2012: all’interno del Centro
non veniva assicurato il servizio di barberia perché, secondo quanto dichiarato dal Direttore, data la posizione isolata
della struttura non si era riusciti ad assumere un barbiere disposto a recarsi sul posto con regolarità. Per permettere
agli stranieri ospitati (tutti uomini) di radersi era stata predisposta una sorta di gabbia delle dimensioni di una cabina
telefonica, dove essi si recavano uno alla volta. All’ingresso veniva loro consegnata una lametta ed essi si radevano
da soli attraverso le sbarre, rimanendo per tutta la durata dell’operazione sotto stretta sorveglianza di due agenti,
pronti ad intervenire nel caso in cui riscontrassero il pericolo (frequente?) di azioni autolesionistiche. Il secondo
caso è quello del C.I.E. di Roma (Ponte Galeria) – il più grande Centro d’Italia – nel quale gli operatori
dell’associazione umanitaria hanno riscontrato condizioni di vita particolarmente afflittive per i trattenuti. Oltre ad
una generale situazione di grave fatiscenza degli alloggi ed insalubrità dei servizi igienici, i visitatori sono rimasti
piuttosto sconcertati quando sono venuti a conoscenza che all’interno del Centro vigeva il divieto di utilizzo di
numerosi oggetti d’uso quotidiano, come pettini, penne, matite, spazzolini, libri e giornali, imposto «per ragioni di
sicurezza» a tutti i trattenuti. Non risulta che ad oggi tale prassi sia stata modificata e nel febbraio 2013 una delle
donne trattenute nel centro dichiarava agli operatori di MEDU di pettinarsi con forchette di plastica.
88
di soggetti che non hanno commesso alcun reato penale56
? Ancora, il trattenimento nei Centri può
davvero essere paragonato alla detenzione negli istituti penitenziari o ci troviamo davanti a una
forma differente di privazione della libertà personale? Per quanto possibile cercheremo di dare una
risposta a queste domande nel prossimo paragrafo.
2.3. «La libertà personale è inviolabile»: l’articolo 13 della Costituzione
e la legittimità della detenzione amministrativa.
Introdotti nel nostro ordinamento nel marzo del 1998 e resi operativi a partire dall’estate dello
stesso anno, fin dall’inizio della loro storia i Centri per la detenzione amministrativa dei migranti
sono stati oggetto di aspre critiche, di natura innanzitutto politica, poi etica e morale e solo in ultima
istanza giuridica. Già allora la polemica tra sostenitori e detrattori del sistema dei Centri per
migranti era rovente, alimentata dai gravi fatti di cronaca che avevano segnato la prima attuazione
del Testo Unico sull’immigrazione (prima fra tutte il tentativo di fuga avvenuto nella notte tra il 28
e il 29 dicembre 1999 nel C.P.T.A. Serraino Vulpitta (TP) culminato nel rogo di parte della struttura
e nella morte di sei persone)57
. Gli argomenti utilizzati a quel tempo contro i Centri erano i
medesimi che sarebbero stati persistentemente utilizzati negli anni successivi: significativo è il
confronto tra il primo appello per la chiusura dei C.P.T. (apparso su “Il Manifesto” il 3 novembre
1999), in cui veniva utilizzata per la prima volta la definizione «lager per migranti» e l’appello
lanciato nel maggio 2010 dalla Rete Antirazzista, che proprio sulla denominazione di lager fa perno
per chiedere la dismissione di tutti i C.I.E. italiani58
. Non si può negare che il dibattito in materia di
56
Dal 1998 al 2009 il trattenimento negli appositi Centri degli stranieri in posizione irregolare, finalizzato alla loro
espulsione, è rimasto completamente svincolato dall’esistenza di una norma penale che incriminasse l’ingresso o il
soggiorno in violazione delle disposizioni amministrative in materia. Con la legge 15 luglio 2009, n. 94 e
l’introduzione nel nostro ordinamento del c.d. reato di immigrazione clandestina la prospettiva è radicalmente
cambiata, ma la questione del rapporto tra detenzione amministrativa e sanzione penale non appare ancora oggi del
tutto risolta, stante le numerose perplessità suscitate in dottrina e in giurisprudenza dalla nuova norma
incriminatrice. Per un analisi più approfondita del tema rimandiamo al paragrafo quarto del presente capitolo,
precisamente dedicato al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato.
57 Il giorno dopo la tragedia di Trapani il senatore dei Verdi Luigi Manconi, invocava la chiusura dei centri
definendoli «orribili luoghi di detenzione che l’ipocrisia vieta di chiamare carceri» e il deputato di Rifondazione
Comunista Giuliano Pisapia gli faceva eco affermando che « i centri si configurano quali vere e proprie strutture di
detenzione amministrativa, quindi carceri a tutti gli effetti, in cui però sono rinchiuse persone che non hanno
commesso alcun reato» . Il Ministro dell’Interno Enzo Bianco rispondeva che «i centri non sono carceri ma non
sono nemmeno alberghi dai quali si possa entrare e uscire liberamente» e il deputato di Alleanza Nazionale
Maurizio Gasparri chiedeva l’introduzione del reato di immigrazione clandestina in modo da permettere l’accesso al
territorio italiano soltanto a «un numero molto limitato di persone che poi possano essere accolte». (LIANA MILELLA
Quei Lager vanno chiusi, in “La Repubblica” 30 dicembre 1999 ).
58 Il nome di quest’ultima campagna era “Nella tua città c’è un lager”. Nell’appello del 1999 i Centri per la detenzione
amministrativa venivano descritti come «luoghi nascosti, alla periferia delle città, del tutto o quasi del tutto
89
legislazione dell’immigrazione sia sempre stato caratterizzato da una forte vena ideologica: i politici
e gli attivisti contrari alla struttura della legge Turco-Napolitano prima e Bossi-Fini poi non hanno
mai dubitato che i Centri dedicati all’assistenza e al trattenimento dei migranti fossero a tutti gli
effetti strutture detentive e il paragone con i campi di concentramento è stato ribadito con
convinzione e a più riprese nell’arco degli ultimi quindici anni59
.
Ad occuparsi della disciplina dei Centri per la detenzione amministrativa e a seguirne l’evoluzione
legislativa sono stati anche numerosi giuristi, che spesso hanno evidenziato carenze e criticità della
normativa o denunciato la violazione dei diritti tutelati dai codici nazionali e dalle leggi
internazionali nella prassi della gestionale dei C.P.T. prima e dei C.I.E. poi. Attenti osservatori della
materia sono stati anche i giudici di merito e più volte la nostra Corte costituzionale si è trovata
investita da questioni di legittimità riguardanti la disciplina dell’espulsione e del trattenimento dei
migranti illegalmente presenti sul territorio italiano. Peculiarmente però sia la giurisprudenza della
Corte di Cassazione che quella della Consulta non hanno mai affrontato in modo diretto e definitivo
la questione nodale della legittimità della detenzione amministrativa dei migranti e del relativo
sistema di centri, concentrando la propria attenzione sulla questione delle garanzie giurisdizionali e
legittimando in maniera soltanto indiretta l’impianto del Testo Unico sull’immigrazione (nella sua
versione originaria e con le successive modifiche).60
Facendo quindi riferimento principalmente alle
elaborazioni dottrinali cercheremo ora di fare chiarezza su questo punto, evidenziando quali
possano essere considerati ab origine i punti deboli dell’istituto dei Centri di Identificazione ed
Espulsione rispetto ai principi costituzionali in tema di libertà personale.
invisibili (…) luoghi in cui le persone trattenute non hanno commesso alcun crimine (…) luoghi di sospensione del
diritto»; nel manifesto del 2010 « Buchi neri del diritto nazionale e internazionale (…) nascosti agli occhi dei
cittadini nelle periferie delle città, inaccessibili e non monitorabili (…) nei fatti un’istituzione illegale, risultato di
abusi giuridici e di leggi razziali come quella che introducendo il “reato di clandestinità”, nega il principio di
eguaglianza». Mutatis mutandis le somiglianze tra i due testi sono evidenti: l’evoluzione normativa non sembra
essere stata in grado di rispondere agli attacchi originariamente mossi al sistema dei Centri (o quantomeno di portare
i detrattori a modificare il proprio impianto critico).
59 Soltanto per fare riferimento alle dichiarazioni più recenti, citiamo quanto dichiarato da Felice Romano, segretario
generale del sindacato di polizia SIULP, che ha definito i Centri di Identificazione ed Espulsione «ambigui e
pericolosi “lager” per immigrati e poliziotti» ( FABIO MARCELLI Chiudere i Cie, subito! in “Il Fatto Quotidiano” 28
luglio 2013).
60 Possiamo ricordare la fondamentale sentenza n. 105 del 10 aprile 2001 della Corte Costituzionale (in tema di
rapporti tra provvedimento di espulsione coattiva e mancata convalida del trattenimento) e le sentenze n. 222 e 223
del 15 luglio 2004 (in tema di diritto alla difesa e obbligo di contraddittorio nell’udienza di convalida del
trattenimento), che abbiamo già avuto modo di analizzare nei capitoli precedenti. Tra l’ampia giurisprudenza della
Corte di Cassazione possiamo invece richiamare la sentenza sez. I civ. n. 4544 del 24 febbraio 2010 e la sentenza
sez. I civ. n. 4869 del 1 febbraio 2010, che si sono occupate di ribadire i confini del nucleo insopprimibile del diritto
alla difesa in relazione alla convalida del trattenimento nel C.I.E. (in particolare la partecipazione necessaria del
difensore e l’audizione dello straniero trattenuto).
90
La prima tra le disposizioni della nostra Carta fondamentale a venire in rilievo è ovviamente l’art.
13, la norma che stabilisce i confini invalicabili in tema di limitazioni della libertà personale61
. La
Costituzione sancisce con questa disposizione l’inviolabilità della libertà personale, riconosciuta
come diritto naturale dell’individuo, e stabilisce le condizioni alle quali i pubblici poteri dotati di
potestà coercitiva possono essere autorizzati a porre in essere restrizioni a tale libertà. Nel testo
dell’articolo, soggetto e titolare del diritto non è il cittadino ma la persona ed è quindi
pacificamente accettato in dottrina e in giurisprudenza che esso riguardi qualunque individuo si
trovi presente sul territorio italiano, indipendentemente dalla sua nazionalità o dalla condizione di
apolide62
.
Dato per assodato questo punto, per verificare se il dettato dell’art. 13 (con particolare riferimento
ai commi secondo e terzo) possa applicarsi all’istituto dei Centri per la detenzione amministrativa è
allora necessario indagare preliminarmente la natura di questi ultimi, chiedendosi se, al di là del
nomen iuris, il trattenimento nei C.I.E. sia effettivamente qualificabile come «detenzione» o come
«restrizione della libertà personale» secondo la lettera costituzionale.
Il problema è piuttosto spinoso, stante la mancanza nel nostro ordinamento di una vera e propria
definizione di detenzione, che non è possibile rintracciare né nel codice penale né in quello di
procedura. Analizzando i primi articoli della legge sull’ordinamento penitenziario incontriamo i
termini «detenuto» e «internato» e dal tenore delle disposizione saremmo portati ad affermare che la
prima locuzione indichi semplicemente l’insieme degli imputati e dei condannati, ovvero i soggetti
tutelati nel loro status dai commi secondo e terzo dell’art. 27 Cost.. Si tratta però di una
classificazione necessariamente sommaria, che cede davanti alla «polverizzazione» degli
61
Così recita il testo dell’art. 13 Cost.: « 1.La libertà personale è inviolabile. 2. Non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per
atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. 3. In casi eccezionali di necessità ed
urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori,
che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle
successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. 4. È punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. 5. La legge stabilisce i limiti massimi della
carcerazione preventiva». É bene sottolineare fin da subito che si tratta di una norma direttamente e
immediatamente applicativa e non meramente precettiva, come confermato dalla stessa Corte Costituzionale nella
risalente sentenza n. 11 del 3 luglio 1956.
62 Nell’ambito della giurisprudenza italiana il punto è stato riaffermato con forza dalla sentenza n. 105/2001 della
Corte Costituzionale, ma la natura universale ed inviolabile del diritto alla libertà personale emerge chiaramente
anche dalle fonti sovrannazionali. Per fare riferimento all’ambito europeo possiamo citare l’art. 6 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea che sancisce «ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza», ma
sotto questo aspetto sono ancora più significative le previsioni contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 1948: «Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato» (art. 9) e
«Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti» (art. 5). Per un
approfondimento e una disamina dell’evoluzione dottrinale in materia vedi TEMISTOCLE MARTINES, 1994. Diritto
Costituzionale. Milano: A. Giuffrè.
91
innumerevoli stati detentivi che caratterizzano la nostra legislazione: gli internati si distinguono dai
detenuti, tra questi ultimi si distinguono condannati, giudicabili, appellanti e ricorrenti, come pure
ulteriori categorie destinatarie di trattamenti specifici sulla base del tipo di autore e al tipo di reato
commesso. Il termine «detenzione» ci appare in ultima analisi come «un vocabolo atecnico,
prodotto per generalizzazione di alcune specifiche condizioni giuridiche di privazione della libertà»
(ANASTASIA 2011, 250) - un concetto-contenitore suscettibile (entro certi limiti) di essere riempito
di significato in relazione alla legislazione vigente e di modificarsi al mutare di essa.
Le fonti internazionali possono esserci d’aiuto nel nostro tentativo di definire in cosa possa essere
esattamente individuato, ad oggi, il “carattere detentivo” di un trattamento coercitivo posto in essere
dai pubblici poteri. Viene in rilievo, in primo luogo, la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili
e Politici, adottata dalle Nazioni Unite nel 1966 e attualmente ratificata da più di 160 Stati, Italia
compresa. La convenzione da’ un’interpretazione di «restrizione della libertà personale»
corrispondente al trattenimento forzato in un luogo chiuso rispetto al mondo esterno,
ricomprendendo in tal modo nella definizione non solo le strutture penitenziarie dove vengono
scontate le condanne penali, ma anche luoghi latu sensu detentivi come i campi di rieducazione e
lavoro, gli ospedali psichiatrici giudiziari o le strutture sanitarie per il trattamento forzato delle
dipendenze (CAMPESI 2012, 345).
Molto interessante è anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che a
partire dagli anni ’80 del secolo scorso ha emesso diverse sentenze destinate a colmare le lacune
presenti nel testo della CEDU, che pur trattando all’art. 5 la materia della detenzione non ne offre
una definizione precisa, limitandosi a distinguerla dalla semplice restrizione della libertà di
movimento (che viene invece disciplinata all’art. 2 del Protocollo aggiuntivo n. 4). L’orientamento
della Corte si è attestato sulla necessità di effettuare una valutazione caso per caso, valutazione che
prende in considerazione in particolare la durata del provvedimento restrittivo, il modo in cui è
posto in essere e l’effetto complessivo che questo ha sulla vita della persona che lo subisce63
.
Rispetto alla natura detentiva o meno dei provvedimenti di trattenimento amministrativo degli
stranieri irregolari i giudici di Strasburgo avevano originariamente sostenuto la c.d. “teoria della
prigione con tre pareti”, originariamente elaborata dalla Corte Suprema statunitense agli inizi degli
anni ’50 (in relazione alle strutture “di smistamento” di Ellis Island)64
. In base a tale teoria la
detenzione dei migranti nelle “zone di attesa” degli aeroporti internazionali non dovrebbe essere
considerata una vera e propria privazione della libertà personale, coperta dall’art. 5 CEDU, nella
63
Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 6 novembre 1980, caso Guzzardi v. Italia.
64 Cfr. Corte Suprema degli Stati Uniti , Sentenza n. 345 del 23 Settembre 1953, caso Shaughnessy v. Mezei.
92
misura in cui lo straniero ha sempre la possibilità di recuperare la libertà collaborando con le forze
di polizia e accettando di lasciare di propria volontà il territorio nazionale. Questa impostazione
venne capovolta nella seconda metà degli anni ‘90 quando la Corte EDU, trattando il caso di un
piccolo gruppo di rifugiati somali trattenuti nell’aeroporto di Parigi-Orly, riconobbe che la semplice
possibilità attribuita ai richiedenti asilo di lasciare lo stato in cui erano trattenuti tramite un
atteggiamento cooperativo alla propria espulsione non era tale da escludere la presenza di una
restrizione della libertà personale di natura detentiva, soprattutto in ragione del fatto che la
possibilità di recuperare la propria libertà si configurava come meramente teorica, non esistendo
nessun altro paese che potesse garantire le medesime condizioni di asilo ricercate dai rifugiati65
.
Ad oggi la giurisprudenza della Corte rimane orienatata nel senso della necessità di una valutazione
della durata del trattenimento e del luogo in cui questo avviene per poterlo definire a tutti gli effetti
come detenzione ex art. 5 CEDU, ma non viene più messo in discussione che il trattenimento in un
apposito centro per stranieri finalizzato alla detenzione sia qualificabile come vera e propria
privazione della libertà personale.
Alla luce di quanto indicato dalle fonti sovrannazionali a cui abbiamo appena fatto riferimento ci
sembra doveroso rivedere la terminologia che abbiamo utilizzato fino a questo momento per
definire i Centri di detenzione amministrativa italiani. Basandoci soltanto sulle caratteristiche più
evidenti dei Centri di Identificazione ed Espulsione (strutture chiuse circondate da mura di
contenimento; presenza delle forze dell’ordine ad assicurare la permanenza degli stranieri
all’interno del perimetro del centro; possibilità di avere contatti con l’esterno soltanto in maniera
limitata e secondo le modalità stabilite dalle autorità amministrative del centro stesso) abbiamo
finora etichettato queste istituzioni come para-detentive: a questo punto possiamo senza timore
togliere il prefisso e riconoscerne la natura pienamente detentiva.
Esaurita questa premessa, diventa possibile rispondere al quesito che ci siamo posti in apertura di
paragrafo: il trattenimento dei migranti nei centri a loro dedicati (quantomeno per quelli
65
Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 28 giugno 1996, caso Amuur v. Francia (part. § 48). La
sconfessione della teoria della “prigione con tre pareti”, fino allora sostenuta dalla maggior parte degli stati aderenti
agli Accordi di Schengen, ebbe un chiaro riflesso sul diritto internazionale e, in particolare, sulla politica delle
agenzie non governative dell’immigrazione. Un esempio evidente è dato dai documenti dell’UNCHR: fino alla
seconda metà degli anni ’90 l’organizzazione per la tutela dei rifugiati aveva sostenuto pienamente la posizione
statunitense, ma nel le c.d. Linee Guida sulla detenzione dei richiedenti asilo, pubblicate dopo la sopra citata
sentenza della Corte EDU, si ritrova una definizione di detenzione che corrisponde pienamente al trattenimento nei
Centri finalizzati all’espulsione dei migranti («il confinamento all’interno di uno spazio ristretto o delimitato,
compresi campi chiusi, prigioni, strutture per la detenzione o zone di transito aeroportuali, dove è fortemente
limitata la libertà di movimento, e dove l’unica possibilità di lasciare tale spazio ristretto è quella di lasciare il
territorio») (UNCHR 1999, 3).
93
qualificabili come “centri chiusi”, finalizzati all’espulsione) rientra appieno nel concetto di
«restrizione della libertà personale» espresso dall’art. 13 della nostra Costituzione66
. Si tratta, del
resto, della medesima constatazione effettuata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 105 del
10 aprile 2001, che deriva in ultima istanza proprio dall’analisi del tenore letterale del secondo
comma di tale articolo. Il riferimento alla non ammissibilità (se non nei casi e nei modi previsti
dalla legge) di alcuna forma di detenzione o di qualsiasi altra restrizione della libertà personale
rende chiaro che la norma si indirizza ad ogni ipotesi di trattenimento coercitivo esercitato dai
pubblici poteri, che « le “forme” della restrizione sono del tutto indifferenti ed ancor meno importa
la relativa etichettatura» (DI MARTINO 2012, 2). La libertà tutelata dall’art. 13 Cost. si identifica
con la libertà fisica, che non corrisponde più soltanto al suo nucleo essenziale di «libertà dagli
arresti arbitrari» (CAPUTO E PEPINO 2005, 23), ma è diritto a non essere assoggettati
illegittimamente a qualunque forma di coercizione personale da parte dell’autorità pubblica. A
questo punto non ha più alcun rilievo la scelta legislativa di qualificare tale forma di detenzione
come amministrativa o di farla rientrare appieno nell’alveo penal-penitenziario: qualunque veste
assuma uno strumento di restrizione della libertà personale esso deve sottostare alla duplice
restrizione della riserva di legge e di giurisdizione prevista dalla nostra Costituzione. Le perplessità
espresse dai giudici di merito in relazione alla compatibilità della disciplina contenuta nel T.U. con
le garanzie giurisdizionali previste dall’art. 13 sono state affrontate e risolte positivamente dalla
giurisprudenza costituzionale67
, non ci rimane quindi che affrontare la questione relativa al secondo
“polo di tutela” della libertà personale e rispondere a questa domanda: per gli stranieri irregolari i
«casi e modi» in cui la garanzia dell’habeas corpus può essere legittimamente compressa sono
effettivamente determinati ex lege?68
66
Nonostante il costante e caparbio tentativo di evitare l’utilizzo di termini afferenti all’ambito penitenziario per
individuare le strutture di trattenimento per migranti e i loro ospiti, è da segnalare che, soprattutto in tempi più
recenti, l’assunto che il trattenimento nei C.I.E. costituisca una forma di privazione della libertà personale ha iniziato
ad essere ammesso anche nel discorso istituzionale. In tal senso vedi ad esempio la sezione dedicata ai Centri di
identificazione ed Espulsione (significativamente accostati alle strutture carcerarie) del Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia (SENATO
DELLA REPUBBLICA 2012, 115 e ss.)
67 Rimangono in ogni caso intatte le perplessità che sono state espresse supra in merito all’attribuzione dei
procedimenti di convalida dell’espulsione e del trattenimento nei C.I.E. ai giudici di pace: la «giurisdizione mite»
tipica di tali magistrati non appare compatibile con l’adozione di provvedimenti in grado di incidere in senso così
importante sulla libertà personale (v. cap 2, § 4). Sotto questo profilo permane, a nostro avviso, una crepa - se non
una frattura importante - nella riserva di giurisdizione imposta dal la Carta costituzionale, che è tanto più grave se
poi volgiamo lo sguardo alla prassi delle «convalide meramente cartacee» o delle «convalide collettive» spesso
denunciate dagli operatori del diritto (VASSALLO PALEOLOGO 2012, 3).
68 Ci preme sottolineare fin d’ora che per legge si intende qui soltanto la legge ordinaria dello Stato, in quanto
strumento astrattamente idoneo ad essere anche fonte della norma e della sanzione penale. Ad essa sono equiparati i
decreti legge e i decreti legislativi (anche se in dottrina sono state avanzate contestazioni anche su questo punto), ma
in nessun modo possono essere considerate come integranti il presupposto della riserva di legge le fonti di rango
secondario come i regolamenti o le circolari.
94
Quanto ai «casi» - ovvero l’insieme compiutamente determinato delle situazioni nelle quali è
ammesso quali l’uso dei poteri coercitivi - essi sono regolamentati dal primo comma dell’art. 14 del
d.lgs. 286/1998, che abbiamo già avuto modo di analizzare dettagliatamente: la norma precisa le
ipotesi in cui il trattenimento dei migranti può legittimamente avvenire, ipotesi che sono da porsi in
relazione all’impossibilità di eseguire immediatamente l’espulsione con accompagnamento coattivo
alla frontiera. Sotto questo profilo il dettato costituzionale sembrerebbe dunque rispettato. Una
prima discrepanza si intravede però nel testo dello stesso comma 1, quando si stabilisce che le
strutture adibite a Centri di Identificazione ed Espulsione sono quelle «individuat(e) o costituit(e)
con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze».
Con questa disposizione il legislatore rifiuta di prendersi carico di un aspetto che considera
meramente organizzativo e delega ad una fonte secondaria la determinazione dei parametri di
ordine generale in base ai quali individuare le strutture (già esistenti o da costruire ex novo) che
potranno ospitare i Centri 69
.
La scelta dei luoghi e la predeterminazione delle caratteristiche degli edifici in cui il trattenimento
può avvenire non è invece un elemento secondario nella costruzione dello standard trattamentale
riservato ai migranti detenuti né tantomeno un aspetto “meramente organizzativo” 70
e va
pienamente inscritto nell’ambito di quelli che Costituzione definisce i «modi» della limitazione
della libertà personale: di conseguenza la scelta di regolamentare questo aspetto con uno strumento
normativo di rango inferiore a quello di legge va considerato in contrasto con quanto previsto dal
comma secondo dell’art. 13.
69
Si tratta di una disposizione che attribuisce ai due Ministeri in questione una responsabilità molto importante a cui
corrisponde un’amplissima discrezionalità: appare per questo particolarmente preoccupante il fatto che negli ultimi
quindici anni non si sia mai effettivamente provveduto a determinare con un apposito decreto o almeno una circolare
i parametri necessari ad individuare i luoghi o le strutture da utilizzare come Centri di Identificazione ed Espulsione
e si sia continuato a selezionarli con criteri non precisati, sulla base di semplici indicazioni delle Prefetture. DI
MARTINO (2012, 6) segnala l’esistenza di un testo denominato “Linee Guida per la progettazione dei Centri di
Identificazione ed espulsione”, le quali però «non risultano previste da alcuna fonte legislativa atta ad accreditarle
come struttura regolamentare» e « non sono mai state approvate, per quanto consta (…) da alcun organo della
pubblica amministrazione munito di poteri regolamentari». Il documento sarebbe stato in realtà elaborato «da un
semplice comitato tecnico consultivo, come tale privo del benché minimo potere deliberativo avente efficacia
esterna».
70 Un caso esemplare di quanto la scelta del luogo sia in grado di influenzare la realtà operativa e gestionale dei Centri
può essere quello dell’isolatissimo C.I.E. di Lamezia Terme (CZ), a cui abbiamo fatto riferimento già in precedenza,
ma emblematico è anche quello, più recente, del C.I.E.-T di Palazzo San Gervasio (PT), istituito (in un contesto
emergenziale) in un area in passato utilizzata come riparo dai raccoglitori di pomodori stagionali, che era stata
chiusa temo prima per ragioni igienico-sanitarie. La struttura è stata riconvertita in Centro di Identificazione ed
Espulsione in due settimane, per essere poi chiusa pochi mesi dopo (giugno 2011) proprio in relazione alla grave
situazione di deficienze strutturali che avevano reso la detenzione completamente incompatibile con i più basilari
parametri di rispetto della dignità umana (cfr. RAFFAELLA COSENTINO: Deputati in visita al Cie di Potenza. “E’ un
carcere. Chiuderlo subito” in “La Repubblica”, 11 giugno 2011).
95
Una piccola precisazione è a questo punto d’obbligo: al termine «modi» si possono in realtà
attribuire accezioni diverse, che comportano diverse interpretazioni dell’ampiezza della tutela
predisposta dalla costituzione in materia di libertà personale. Determinazione dei modi può
significare semplice individuazione dei presupposti e delle condizioni necessarie e sufficienti a
consentire la restrizione della libertà individuale, ma può anche significare precisa delimitazione
delle modalità con cui questa restrizione dev’essere operata e mantenuta nel suo sviluppo
temporale. Una delle due opzioni è nettamente preferibile all’altra: fare propria la prima definizione
significherebbe svuotare di significato lo stesso art. 13 Cost., ridurre la protezione attribuita
dall’ordinamento ad una libertà fondamentale ed inalienabile ad una mera tutela procedimentale e
“burocratica”. Se però accettiamo la seconda interpretazione e la applichiamo alla disciplina dei
Centri di Identificazione ed Espulsione che abbiamo avuto modo di descrivere a lungo nel capitolo
precedente, emerge chiaramente come sia proprio sotto il profilo dei «modi» (id est delle dettagliate
modalità operative) con cui deve avvenire il trattenimento che il Testo Unico sull’immigrazione
mostra tutte le sue carenze e quindi l’intrinseca incompatibilità con il principio della riserva di
legge.
L’indicazione dell’art. 14 comma 2 («lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da
assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità») è norma di indirizzo,
formulata in termini troppo generici per poter costituire un vero e proprio indicatore di quale deve
essere il regime trattamentale da riservare ai soggetti detenuti nei C.I.E.. Le garanzie della libertà di
corrispondenza e comunicazione con l’esterno (art.14 comma 2) e gli obblighi di traduzione degli
atti in una lingua nota allo straniero o in una lingua veicolare (art. 2 comma 6) non sono certo
sufficienti a definire in modo completo le modalità di restrizione della libertà personale.
Il confronto con quanto previsto in materia di trattamento dei detenuti dalla legge di ordinamento
penitenziario è tanto interessante quanto impietoso. La legge n. 354/1975 si occupa di stabilire nel
dettaglio le condizioni generali del trattenimento all’interno degli istituti penitenziari, indicando
quali caratteristiche debbano avere gli edifici e i locali dedicati ai detenuti (artt. 5 e 6),
determinando il vestiario e il corredo che l’amministrazione penitenziaria deve fornire loro (art. 7),
definendo le condizioni essenziali che devono essere garantite in tema di igiene personale (art. 8),
alimentazione (art. 9) e assistenza sanitaria in loco (art. 10), fino ad arrivare alla disciplina gli
aspetti più marcatamente organizzativi come l’assegnazione a determinate sezioni (art. 14) o le
modalità di svolgimento delle visite (art. 18). Solo per le previsioni che entrano a tal punto nel
96
dettaglio da non essere più compatibili con i criteri di generalità ed astrattezza propri di una norma
di legge71
si fa riferimento al regolamento attuativo, che è norma di rango secondario.
Per i Centri di Identificazione ed Espulsione non esiste nulla di tutto questo: le uniche fonti dalle
quali possa trarsi una disciplina in materia di modalità di trattamento e gestione delle strutture di
trattenimento sono rappresentate dal regolamento attuativo del testo unico (D.P.R. 31 settembre
1999, n. 394) e dalla c.d. Direttiva Bianco, atti di rango subordinato e dal contenuto problematico
sotto diversi profili72
, oltre che non completamente esaustivo.
Se nel momento in cui i centri per la detenzione amministrativa erano appena stati istituiti e la
durata del trattenimento veniva conteggiata in termini di giorni, era forse ancora possibile contestare
l’effettiva necessità di previsioni dettagliate al pari di quelle dell’ordinamento penitenziario, tale
posizione non ha ad oggi più ragione di essere. Il prolungamento dei termini massimi di
trattenimento fino a 18 mesi non ha fatto altro che metter ancor più in luce la sovrapponibilità della
detenzione “ordinaria” a quella che vede come destinatari i migranti irregolari: venir meno
all’obbligo di determinare le modalità trattamentali da garantire a questi ultimi significherebbe
cadere nel paradosso di trattare la forma meno grave di restrizione in modo deteriore rispetto a
quella decisamente più grave, rappresentata dalla carcerazione.
71
A titolo puramente esemplificativo del grado di dettaglio che caratterizza le previsioni normative di rango
secondario in materia carceraria, possiamo prendere in considerazione l’art. 7 della legge di ordinamento
penitenziario, titolata «Vestiario e Corredo» e il corrispondente art. 9 del suo regolamento attuativo (D.P.R. 30
giugno 2000, n. 230) . Laddove la norma di legge prevede l’obbligo gravante sull’amministrazione penitenziaria
che «ciascun soggetto [sia] fornito di biancheria, di vestiario e di effetti di uso in quantità sufficiente, in
buono stato di conservazione e di pulizia e tali da assicurare la soddisfazione delle normali esigenze di vita» la
disposizione regolamentare si occupa di specificare che i capi di vestiario assegnati ai detenuti debbono essere
adeguati al variare delle stagioni e alle particolari condizioni climatiche dei singoli istituti e che il numero e la
qualità degli indumenti che sono attribuiti ai detenuti vengono specificati in tabelle ministeriali, come pure la loro
durata d’uso prestabilita.
72 Delle criticità contenute nella Direttiva del 30 agosto 2000 abbiamo avuto già modo di trattare nel paragrafo
precedente e ad esso rimandiamo. Rispetto al Regolamento attuativo possiamo citare l’art. 21, che al secondo
comma prevede che all’interno dei Centri debbano essere «assicurati, oltre ai servizi occorrenti per il mantenimento
e l'assistenza degli stranieri trattenuti o ospitati, i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la
libertà del culto nei limiti previsti dalla Costituzione». Ebbene, non solo la norma non stabilisce in alcun modo
quali debbano essere considerati come «servizi di assistenza e mantenimento», ma non indica neppure alcun
parametro sufficiente ad identificare quale debba essere lo standard minimo di tali servizi, lasciando l’integrazione
di questa lacuna a fonti di grado ancora inferiore quali i Capitolati di servizi e gestione approntati dal Ministero.
Ancora, particolarmente discutibile è la previsione di cui al comma 8 del medesimo art. 21, che attribuisce al
Prefetto, sentito il Questore, la potestà di adottare tutte «le disposizioni occorrenti per la regolare convivenza
all'interno del centro, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l'incolumità delle persone, nonché
quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di
cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite»: che il legislatore devolva
integralmente all’autorità amministrativa poteri discrezionali tanto ampi in relazione a questioni capaci di incidere in
misura significativa sulle limitazioni della libertà personale subite dagli stranieri all’interno dei Centri appare
decisamente in contrasto con la riserva di legge imposta dall’art. 13 comma 2 Cost..
97
Prendendo in considerazione quanto abbiamo detto finora, la conclusione ci appare obbligata e non
possiamo far altro che ribadirla: la disciplina contenuta nel Testo Unico sull’immigrazione non
soddisfa il principio di riserva di legge, perché non disciplina i «modi» con i quali quella particolare
forma di limitazione della libertà personale che è la detenzione amministrativa può essere attuata e
deve dunque essere considerata, sotto questo profilo, in contrasto con il dettato dell’art. 13, comma
secondo della nostra Carta fondamentale.
Proseguendo nell’analisi della disciplina dei Centri di Identificazione ed espulsione sotto il profilo
della compatibilità con il dettato costituzionale, viene a questo punto in rilievo il comma terzo
dell’art.13. La norma prevede la possibilità che «in casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati
tassativamente dalla legge» sia direttamente l'autorità di Pubblica Sicurezza ad adottare i
provvedimenti di restrizione della libertà personale, che normalmente rientrerebbero nella titolarità
dell’autorità giudiziaria. Si tratta di una deviazione soltanto parziale e temporanea dalle normali
garanzie che circondano le limitazioni della libertà personale, dal momento che l’autorità di polizia
è obbligata a comunicare entro 48 ore al magistrato l’adozione del provvedimento e se questi non lo
convalida, ravvisando una mancanza originaria dei presupposti, il provvedimento è revocato ed è
considerato privo di ogni effetto. In altre parole, se da un lato il legislatore costituente ha scelto di
affidare in via ordinaria e primaria la potestà di limitare un diritto fondamentale come quello della
libertà personale all’autorità giudiziaria (che è potere dello stato svincolato da condizionamenti
politici e posto per definizione in posizione terza e imparziale), dall’altro lato si è correttamente
prefigurato la possibile esistenza di situazioni in cui l’intervento delle forze di pubblica sicurezza
non può che essere immediato e precedere necessariamente la certificazione di legittimità data
dall’A.G. (i casi tipici sono quelli del fermo e dell’arresto in flagranza di reato). Le ipotesi nelle
quali l’intervento coercitivo può essere affidato all’autorità di polizia sono pensate come eccezionali
ed è solo l’eccezionalità a rendere legittima la deroga a quanto previsto dal secondo comma dell’art.
13 Cost..
La prospettiva cambia radicalmente quando prendiamo in considerazione la vigente disciplina in
tema di privazioni della libertà personale per i cittadini extracomunitari irregolari. L’espandersi
delle ipotesi che legittimano il respingimento73
, l’espulsione e l’ormai ineludibile trattenimento
73
Sul punto, ci sembra necessario ribadire l’importanza cruciale rivestita dal comma 5 dell’art. 13 T.U., che stabilisce
l’obbligo di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica dello straniero che sia
«privo di un valido documento attestante la sua identità e nazionalità». É evidente che si tratta di casi in cui sarà poi
quasi sicuramente necessario «eseguire (…) accertamenti necessari in ordine all’identità o alla nazionalità» dello
straniero amministrativamente non in regola (art.14 comma 1), con la conseguenza che questi verrà trattenuto in un
C.I.E. fino ad identificazione avvenuta. Sul piano della realtà migratoria italiana questo significa che il combinato
disposto di queste due previsioni del T.U. comporta la detenzione quasi automatica e protratta per un periodo di
tempo potenzialmente (e normalmente) molto consistente di quella fascia di migranti irregolari che si trova in
98
degli stranieri, testimoniata dall’evoluzione normativa dell’art. 14 T.U., ha trasformato in regola
l’intervento coercitivo da parte dell’autorità di P.S., che ormai si presenta come un evento costante,
normalizzato. Questo fenomeno (che è normativo, ma ha anche risvolti politici e sociali non
indifferenti) è figlio del paradigma dell’«emergenza permanente» sulla base del quale la questione
migratoria è stata affrontata nel nostro paese a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo:
indipendentemente dalla proclamazione effettiva di uno stato di emergenza umanitaria l’approccio
dei governi italiani ai fenomeni migratori è stato quasi invariabilmente nel segno dell’eccezionalità
e proprio l’eccezionalità ha permesso la lenta erosione delle garanzie giurisdizionali e del sistema di
deroghe ponderate previsto dalla nostra costituzione. Sotto questo profilo, possiamo affermare che
la detenzione dei migranti irregolari ha abbandonato la sua funzione originaria di semplice
prodromo dell’espulsione, per diventare misura di sicurezza usata per controllare uno specifico
gruppo di persone considerato intrinsecamente portatore di pericolosità ed insicurezza sociale
(CAMPESI 2013, 13).
In coda a quest’analisi rimane da sottolineare un ulteriore elemento: la disciplina del trattenimento
amministrativo dei migranti non è in contrasto soltanto con alcuni punti singoli della norma
costituzionale in tema di libertà personale ma viene a scontrarsi con un principio, quello di
sussidiarietà o extrema ratio, che secondo la miglior dottrina va messo in relazione con l’impianto
dell’art. 13 nel suo complesso74
. Nella sua accezione “ristretta”75
(che è da considerarsi come quella
più corretta) questa norma generale esprime il principio in base al quale «il ricorso allo strumento
condizioni di maggior vulnerabilità. I dati dei rapporti sulla popolazione “ospite” dei C.I.E. sono molto chiari in
proposito (FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA 2011; MEDU 2013) : coloro che arrivano in Italia
privi di documenti li hanno perduti o ne sono stati privati in ragione della lunghezza e della durezza del viaggio
oppure se ne sono disfatti volontariamente proprio per evitare l’identificazione e il rimpatrio in un paese in cui non
hanno più nulla a cui tornare. La penalizzazione di questa precisa categoria di migranti appare paradossale,
considerano che la maggior parte della popolazione straniera irregolare in Italia è ad oggi costituita dagli overstayer,
che pur presenti tra la popolazione dei trattenuti nei Centri ne costituiscono una percentuale decisamente
minoritaria.
74 In tal senso vedi ad esempio: GIOVANNI FIDANCA E ENZO MUSCO, 1990. Diritto Penale. Parte Generale. Bologna:
Zanichelli ; CESARE PEDRAZZI, 2003. Diritto Penale. Milano: A. Giuffrè; FABRIZIO RAMACCI, 2007. Corso di diritto
penale. Torino: G. Giappichelli ; GIORGIO MARINUCCI E EMILIO DOLCINI, 2009. Manuale di diritto penale. Parte
generale. Milano: A. Giuffrè.
75 I sostenitori dell’accezione “ampia” del principio di sussidiarietà ritengono che davanti a due o più strumenti di
tutela parimenti idonei a garantire l’integrità di un bene giuridico, il legislatore abbia sempre la facoltà di sceglier lo
strumento repressivo penale. Tale scelta è giustificata, secondo i teorici della sussidiarietà in senso ampio, dal fatto
che al legislatore è attribuita la piena facoltà di decidere se orientare in maniera più o meno intensa il
comportamento dei consociati, stigmatizzando le condotte lesive di determinati beni giuridici attraverso
l’attribuzione della più incisiva tutela penalistica. Questa linea di interpretazione è stata criticata in dottrina perché
accusata di legittimare un diritto penale di natura simbolica ed “esemplaristica”, che relega in secondo piano la
concreta effettività delle norme.
99
penale è consentito solo qualora nessun altro strumento sanzionatorio appaia idoneo a tutelare un
determinato bene giuridico76
» (FERRANTE 2012, 602).
Nella normativa del Testo Unico la restrizione della libertà del migrante non rappresenta un extrema
ratio, ma ancora una volta, una regola. Sulla carta il legislatore ha dovuto adeguarsi a quanto
previsto dall’art. 15 della Direttiva Rimpatri, introducendo gli articoli 14-bis e 14-ter volti ad
implementare i rimpatri volontari assistiti; nella realtà ha cercato di sfruttare i margini flessibili del
testo europeo per preservare l’impianto rigido e repressivo della normativa in materia di
immigrazione creata dai “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009. Se l’art. 15 della Direttiva
2008/115/CE imponeva di ricorrere al trattenimento solo qualora «nel caso concreto» non fosse
possibile applicare efficacemente «altre misure sufficienti ma meno coercitive» il legislatore
italiano che ha trasposto la norma, pur configurando la partenza volontaria come modalità standard
di esecuzione dell’allontanamento, ha disegnato in modo tale l’elenco delle ipotesi che consentono
di disporre l’espulsione a mezzo della forza pubblica e il corrispettivo trattenimento (art. 14 comma
1) che la detenzione nei C.I.E. è a tutt’oggi ancora il metodo generalizzato e prevalente di
esecuzione dell’allontanamento.
La violazione del principio di sussidiarietà penale appare piuttosto evidente, come pure è chiaro il
contrasto con la lettera dell’art. 117 Cost. che impone il pieno rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e internazionale. Ci troviamo davanti ad un altro tassello di quella
che CAPUTO E FIDELBO (2012, 26) hanno definito - con una sintesi particolarmente felice -
«bagatellarizzazione della libertà personale del cittadino non comunitario». La normativa di
contrasto dell’immigrazione legale si configura sempre più come vero e proprio diritto speciale,
nell’ambito del quale le tutele attinenti all’area della libertà personale non sono garantite al
medesimo livello e con le medesime modalità riservate ai nazionali, destinate come sono a piegarsi
e soccombere davanti al diritto (quello sì assoluto) dello Stato sovrano di proibire l’ingresso sul
proprio territorio nazionale e rimuovere coloro che cerchino o riescano a sottrarsi al controllo dei
confini.
76
Sul punto è corretto sottolineare l’esistenza di una divisione dottrinale: secondo alcuni il principio di extrema ratio
comporterebbe la legittimità della pena detentiva soltanto a tutela di beni giuridici di rilevanza costituzionale,
mentre altri rifiutano tale impostazione, considerandola troppo restrittiva e vincolante per il legislatore. Secondo la
prima impostazione quest’ultimo non potrebbe imporre un sacrificio della libertà personale ricorrendo allo
strumento penale per fatti offensivi rispetto a beni che non trovino riconoscimento almeno implicito nella Carta
costituzionale. I giuristi che si oppongono a questa interpretazione contestano tra l’altro che la sua applicazione
finisce per limitare la tutela penale ai soli beni giuridici presi in considerazione all’epoca dell’Assemblea
Costituente, con la conseguenza di creare dei vuoti di tutela rispetto a quelli di più recente emersione. FERRANTE
(2012, 603) propone un ipotesi che sembra condivisibile: ampliare l’utilizzo dello strumento penale anche ai beni
giuridici “nuovi” ma soltanto nella misura in cui sia configurabile un rapporto di strumentalità tra essi e i c.d. “beni
finali” protetti dalla Carta Costituzionale, cioè quelli attinenti alle basilari esigenze della convivenza sociale.
100
2.4. Non più sine delicto: il reato di immigrazione clandestina.
Una delle critiche più comuni avanzate nel corso degli anni al sistema di detenzione amministrativa
dei migranti, è stata quella legata all’assenza di reato. Già nei mesi successivi all’apertura dei primi
Centri, gli avversari della legge Turco-Napolitano affermavano con forza la natura pienamente
detentiva del trattenimento e contestavano veementemente la possibilità di operare una privazione
della libertà personale dal contenuto così incisivo senza poterla ricondurre ad una condotta
soggettivamente meritevole di sanzione penale, senza la formulazione di un’imputazione e senza la
celebrazione di un regolare processo77
. La volontà di risolvere la questione in radice introducendo
nel nostro ordinamento quello che veniva sbrigativamente definito “reato di immigrazione
clandestina” (ovvero un’ipotesi di illecito penale corrispondente alla semplice condotta di ingresso
irregolare) era stata più volte espressa da diversi esponenti dei partiti di centro-destra, ma i progetti
di legge orientati in tal senso si erano sempre risolti in un nulla di fatto, per ragioni di tipo politico
(in particolare, per l’opposizione della componente cattolica e moderata delle varie compagini
governative).
E’ solo a distanza di dieci anni dall’approvazione della legge Turco-Napolitano che il primo
Governo della XVI Legislatura riesce a superare il blocco e, forte di una maggioranza
particolarmente ampia e coesa, fa approvare la legge 15 luglio 2009 n. 94, che modifica il Testo
Unico dell’immigrazione inserendovi l’art. 10-bis e con esso il reato di ingresso e soggiorno illegale
nel territorio dello Stato. Fino a quel momento il nostro ordinamento aveva attribuito alla
condizione di irregolarità dello straniero una connotazione di semplice illecito amministrativo ed è
innegabile che il “pacchetto sicurezza” del 2009 abbia rappresentato una svolta decisa nella politica
dell’immigrazione italiana. Non si è però trattato di una svolta indolore: il legislatore è stato
accusato di utilizzare questa fattispecie per perseguire situazioni di povertà ed emarginazione
sociale e la legittimità costituzionale della norma è stata messa in discussione sia in dottrina che in
giurisprudenza. Nonostante l’intervento in senso favorevole della Consulta78
, diversi autori
77
Citiamo ancora l’appello «Chiudiamo i lager per migranti» pubblicato su “Il Manifesto” il 3 novembre 1999. In
questo documento i Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza venivano definiti come «luoghi in cui le
persone trattenute non hanno commesso alcun crimine» e luoghi in cui «uomini, donne, giovani e giovanissimi,
provenienti da paesi diversi da quelli dell'Unione europea vengono (…) privati della loro libertà senza aver
commesso un reato, senza aver subito un processo e, spesso, senza essere messi in condizione di ricorrere
all'assistenza legale, che pure la legge prevede». Nei dieci anni seguenti, quest’argomentazione verrà utilizzata con
costanza in ogni petizione o istanza per la dismissione dei C.P.T. prima e dei C.I.E. poi (v. a puro titolo di esempio il
documento «Contro la detenzione amministrativa» diffuso l’8 luglio 2005 da Magistratura Democratica, Medici
Senza Frontiere, Arci, Cgil e Asgi o la campagna per il superamento dei Centri di Permanenza Temporanea lanciata
il primo febbraio dello stesso anno con una «Lettera aperta ai vescovi e ai credenti» da Don Andrea Gallo, Don
Albino Bizzotto e altri sacerdoti italiani).
78 Corte Costituzionale, Sentenza 8 luglio 2010, n. 250.
101
esprimono ancora oggi perplessità sulla compatibilità con il nostro ordinamento della fattispecie in
questione e il c.d. “reato di immigrazione clandestina” è recentemente tornato al centro della
discussione politica e parlamentare. L’art. 10-bis rappresenta un elemento molto significativo
nell’intero impianto della disciplina italiana in materia di immigrazione: senza pretese di
completezza assoluta cercheremo ora di delineare le caratteristiche di questa ipotesi di reato e di dar
conto del quadro di critiche che le è stato mosso, nel tentativo di chiarire se (e in che misura) sia
ancora possibile parlare di trattenimento dei migranti sine delicto o se l’originaria obiezione
avanzata dai detrattori della legge Turco-Napolitano sia da ritenersi del tutto superata in ragione
della recente evoluzione legislativa.
In primo luogo è necessario sottolineare che nel suo iter di approvazione parlamentare il disegno di
legge governativo ha subito diverse modifiche, che ne hanno attenuato non poco la vis punitiva e
hanno inoltre contribuito a mettere in luce la ratio più autentica di questa innovazione normativa.
Nella versione originaria del disegno di legge (art. 9, comma 1, d.d.l A.S. n. 773) era incriminato il
solo ingresso illegale dello straniero e non l’illecito trattenimento, ma la pena prevista era quella
della reclusione da sei mesi a quattro anni, salvo che il fatto non costituisse più grave reato. Sul
versante processuale erano previsti l’arresto obbligatorio e l’instaurazione del giudizio in via
ordinaria tramite rito direttissimo, oltre all’obbligo per il giudice di ordinare l’espulsione immediata
dello straniero qualora avesse pronunciato sentenza di condanna (art. 9, commi 2 e 3). Nel corso dei
lavori preparatori la condotta penalmente rilevante è stata estesa anche alle ipotesi di soggiorno
illegale ma le fattispecie hanno assunto natura contravvenzionale e la forza della sanzione è stata
attenuata, quantomeno formalmente.
L’art. 10-bis sanziona dunque due distinte fattispecie: la violazione delle norme amministrative che
regolano l’ingresso nel territorio dello stato e il comportamento dello straniero che, pur essendo
entrato legalmente in Italia ed avervi legalmente soggiornato per un periodo, protragga il suo
soggiorno in violazione delle norme del Testo Unico in materia di permanenza sul nostro territorio
nazionale. E’ da osservare sin dal principio che le due condotte sopra descritte sono facilmente
complementari e sovrapponibili: l’ingresso illecito, in particolare, comporta necessariamente
l’illecita permanenza, se pur per un arco di tempo breve, tanto che la dottrina ha avuto modo di
sottolineare come «duplicare il rimprovero per un fatto (la permanenza) che costituisce il naturale
sviluppo della prima condotta punibile» costituirebbe una «violazione del canone del ne bis in idem
sostanziale» (MASERA 2009, 38). Le due fattispecie si pongono in rapporto di alternatività reciproca
ed è quindi da considerare come corretta la prassi giurisprudenziale che evita di punire la
102
permanenza contra ius sul territorio dello Stato quando si è accertata la sussistenza dell’ingresso
illegale (mentre il reato di soggiorno illegale presuppone che il superamento dei confini nazionali
sia avvenuto ab origine nel rispetto delle vigenti norme amministrative).
Le due ipotesi di reato previste dall’art. 10-bis hanno diversi elementi in comune. In primo luogo si
tratta in entrambi i casi di reati propri: soggetto attivo è lo straniero ovvero il cittadino di uno Stato
non appartenente all’Unione Europea o l’apolide, in base al criterio generale individuato dall’art. 1
del T.U. sull’immigrazione. Comune è anche l’elemento psicologico del reato: sia l’ingresso che il
soggiorno illeciti integrano i presupposti del reato di cui all’art.10-bis anche quando siano stati
commessi soltanto con colpa (coerentemente con il carattere contravvenzionale del reato). Vale per
entrambe le ipotesi anche il presupposto negativo di cui all’art. 10-bis comma secondo: la norma
incriminatrice non si applica «allo straniero destinatario del provvedimento di respingimento ai
sensi dell'articolo 10, comma 1 ovvero allo straniero identificato durante i controlli della polizia di
frontiera, in uscita dal territorio nazionale79
». Non sono quindi (correttamente) considerati colpevoli
del reato di ingresso illegale gli stranieri presentatisi alla frontiera senza i requisiti richiesti per
l’ingresso e che siano stati respinti dalle autorità italiane e ad essi sono equiparati gli stranieri in
stato di irregolarità amministrativa che siano stati fermati dalla polizia di frontiera mentre tentavano
di allontanarsi volontariamente dal territorio nazionale. Non sono invece coperte dalla limitazione
dell’art. 10-bis comma secondo le ipotesi di respingimento c.d. differito con accompagnamento alla
frontiera disposto dal Questore disciplinate dall’art. 10 comma secondo del T.U.80
.
Queste distinzioni, che appaiono francamente incongrue e irragionevoli ai nostri occhi, ci aiutano a
gettare un po’ di luce sulla ratio più autentica del legislatore del 2009 prima e del 2011 poi:
l’obbiettivo finale dell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare non è la sanzione di
un comportamento antigiuridico quanto la velocizzazione e la certa esecuzione dei procedimenti di
espulsione. Sarebbe decisamente «antieconomico», in quest’ottica, incriminare un soggetto già 79
L’inciso riguardante lo straniero controllato dalle autorità di polizia «in uscita» dal territorio nazionale è stato
introdotto con il d.l. 23 giugno 2011, n. 89.
80 Il riferimento è sia all’ipotesi in cui lo straniero sia riuscito a sottrarsi ai controlli alla frontiera e sia entrato nel
territorio dello Stato, ma sia stato intercettato dalle forze dell’ordine «all’ingresso o subito dopo», sia all’ipotesi in
cui allo straniero privo dei requisiti necessari per essere ammesso in condizioni ordinarie sia stato concesso
l’ingresso temporaneo «per necessità di pubblico soccorso». Quella dell’art. 10 è una fattispecie particolarmente
controversa: la norma non prevede né l’obbligo di convalida giurisdizionale del provvedimento né la possibilità di
presentare ricorso contro di esso, entrando in tal modo in contrasto con quanto previsto dal Regolamento CE n. 562
del 2006. In merito ai rapporti tra art. 10 e art. 10-bis del T.U. è interessante osservare come l’«indeterminatezza del
dato normativo» renda i casi di respingimento differito « intercambiabili», da un lato «con quelli dell’espulsione
prefettizia di chi è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera» e dall’altro con quelli di
respingimento eseguito prima dell’ingresso nel territorio nazionale (PUGIOTTO 2010, 50): se la differenza tra le due
ipotesi è affidata in ultima istanza ad una valutazione del tutto discrezionale delle autorità di polizia di frontiera
(legata all’interpretazione attuativa della locuzione «subito dopo») risulta davvero paradossale che la prima ipotesi
sia integrata la fattispecie di reato mentre per la seconda valga la limitazione di cui all’art. 10 comma secondo.
103
respinto ed essere costretti a «sottoporlo ad un giudizio, quello davanti al giudice di pace, che è
finalizzato (…) ad un risultato sostanzialmente già ottenuto» (RENOLDI 2010, 43)81
. Nei confronti
dello straniero che stia cercando di allontanarsi volontariamente dal territorio l’interesse punitivo
dello Stato viene meno e il legislatore concentra la propria attenzione nell’evitare che l’autorità di
polizia frontaliera sia gravata dall’obbligo di denuncia per fatti considerati ormai conclusi e che i
provvedimenti di respingimento finiscano al vaglio dell’autorità giudiziaria.
Il profilo “finalistico” della nuova fattispecie di reato emerge chiaramente quando prendiamo in
considerazione il trattamento sanzionatorio previsto per gli stranieri che facciano ingresso o si
trattengano nel territorio dello Stato. La pena comminata è infatti soltanto quella pecuniaria
(ammenda da cinquemila a diecimila euro), ma il giudice può scegliere di sostituirla con
l’espulsione a norma dell’art. 16, comma primo del Testo Unico sull’immigrazione. Una sanzione
sostitutiva che incide sulla libertà personale viene predisposta in relazione ad una pena non
detentiva ma pecuniaria: l’art. 10-bis introduce una decisa asimmetria sanzionatoria, prevedendo
una sanzione sostitutiva più grave di quella sostituita, distaccandosi in tal modo dal modello di
sanzione sostitutiva che caratterizza il nostro ordinamento e rendendo chiaro come l’espulsione
rappresenti in realtà l’autentica sanzione del reato di ingresso e soggiorno.
Questa conclusione appare confermata, tra l’altro, da due elementi ulteriori: l’impossibilità di
applicare la sospensione condizionale della pena per questa ipotesi di reato, che consegue alla scelta
di devolverne la cognizione al giudice di pace82
e l’esclusione della possibilità di esperire
l’oblazione ex art. 162 c.p.. In linea generale, la giurisprudenza è concorde nell’ammettere
l’applicabilità dell’istituto dell’oblazione anche ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace
e la scelta del legislatore di escluderla rispetto al reato contravvenzionale di cui all’art. 10-bis
rappresenta un caso unico nell’intero panorama ordinamentale. Sotto quest’ultimo profilo, la norma
appare incompatibile con il principio costituzionale di eguaglianza/ragionevolezza di cui all’art. 3.:
escludere l’oblazione per il reato di ingresso e soggiorno illegale significa trattarlo in maniera
ingiustificatamente diseguale rispetto alla generalità delle contravvenzioni punite con l’ammenda
(MARINUCCI E DOLCINI 2009, 363). Se il fine ultimo dell’incriminazione è l’espulsione, su questo
altare può essere sacrificato tutto, compresa la possibilità di una definizione anticipata o
“conciliativa” del procedimento.
81
Risultato che dev’essere invece ottenuto (anche a mezzo di un incriminazione per il reato previsto dall’art. 10-bis
T.U.) nelle ipotesi di c.d. respingimento differito, nelle quali gli stranieri sono ancora presenti sul territorio
nazionale.
82 Cfr. art. 60, d.lg.s. 20 agosto 2000, n. 274.
104
Molti autori hanno sottolineato come la previsione di un reato di ingresso e soggiorno così
spiccatamente orientato verso l’espulsione finisca in definitiva per risultare inutile e ridondante, un
mero duplicato dei già esistenti meccanismi di tutela sanzionatoria di natura amministrativa. É in
effetti difficile contestare che la sfera applicativa della norma incriminatrice coincida perfettamente
con quella dell’espulsione amministrativa disciplinata dagli articoli 13 e 10 del Testo Unico
sull’immigrazione. Non si comprende come questa sovrapposizione possa rendere più efficace il
sistema di contrasto dell’immigrazione irregolare ed è anzi evidente che il “raddoppio
sanzionatorio” pone diversi problemi di compatibilità con il principio costituzionale di extrema
ratio, visto che il legislatore ha scelto di ricorrere allo strumento penale pur in presenza di altri
strumenti in grado di tutelare il bene giuridico protetto incidendo in maniera meno significativa
sulla libertà personale dell’individuo.
Acquista allora valore e consistenza l’ipotesi che uno degli obiettivi perseguiti tramite
l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di immigrazione clandestina sia stato quello di
eludere e per così dire “sterilizzare” alcune previsioni scomode della Direttiva 2008/111/CE. Il
secondo comma, lettera b) dell’art. 2 della Direttiva europea prevede infatti la possibilità per gli
Stati membri di non applicare le disposizioni in essa contenute ai cittadini di paesi terzi «sottoposti
a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della
legislazione nazionale». Tutte le previsioni della norma europea che sono da considerarsi come
disposte a tutela del migrante (rimpatrio volontario quale modalità primaria e principale di
allontanamento dello straniero irregolare; gradualità nelle modalità di esecuzione dell’espulsione,
da rapportarsi alle concrete situazioni individuali; trattenimento nei centri di detenzione
amministrativa da configurare solo come rimedio eccezionale e residuale) avrebbero dunque potuto
essere eluse grazie alla previsione di un reato penale come quello introdotto dall’art. 10-bis del
T.U.83
, garantendo il raggiungimento dell’obbiettivo principe del legislatore, quello di «consentire
83
Nonostante la sentenza n. 250/2010 abbia escluso l’incompatibilità della novellata disciplina del T.U. con le
disposizioni della Direttiva 2008/115/CE (segnatamente con quanto previsto dall’art. 7 in tema di rimpatrio
volontario), diverse perplessità possono ancora segnalarsi rispetto alle modalità con le quali il Governo italiano ha
scelto di trasporre nel nostro ordinamento la norma europea, modalità che potrebbero non corrispondere pienamente
all’obbligo imposto dall’art. 117 della nostra Carta costituzionale. La volontà del legislatore di evitare, nei fatti,
l’applicazione delle norme sul rimpatrio volontario non è contestabile, risultando chiaramente dalle dichiarazioni
rese dall’allora Ministro dell’Interno Maroni davanti al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione
dell’accordo di Schengen, che riportiamo qui di seguito. «La Direttiva europea stabilisce che la regola per
l’allontanamento dei cittadini extracomunitari sarà l’invito ad andarsene e non l’espulsione, a meno che il
provvedimento di espulsione sia conseguenza di una sanzione penale. Noi quindi volgiamo disegnare il reato di
immigrazione clandestina o di ingresso illegale puntando principalmente sulla sanzione accessoria del
provvedimento giudiziale di espulsione emanato dal giudice, piuttosto che sulla sanzione principale che sarà una
sanzione pecuniaria. In questo modo possiamo procedere all’espulsione immediata con un provvedimento del
giudice, applicando la direttiva europea ma evitando l’inconveniente che ne pregiudicherebbe l’efficacia, perché
come ha dimostrato l’esperienza italiana l’invito ad andarsene significa che nessuno verrebbe più espulso» (On.
Roberto Maroni, audizione del 15 ottobre 2008).
105
in via generalizzata l’allontanamento dello straniero per il tramite di misure coercitive» (CAPUTO E
FIDELBO 2012, 101).
Tratteggiati gli elementi essenziali comuni ad entrambe le ipotesi di reato introdotte dalla legge
94/2009 possiamo proseguire analizzando brevemente caratteristiche e criticità delle singole
fattispecie.
Il reato di ingresso illegale non presenta problematiche giuridiche di rilievo, una volta chiarita -
come abbiamo avuto modo di fare in apertura di questo paragrafo - la questione della sua
“perseguibilità alternativa” rispetto al reato di permanenza contra ius. La condotta sanzionata è
quella dello straniero che superi (con qualunque mezzo) il limite territoriale nazionale in violazione
delle norme italiane che disciplinano l’ingresso nello Stato. Il riferimento normativo della
contravvenzione è dunque rappresentato dalla legge 28 maggio 2007, n. 68 ( che all’art. 1 regola i
soggiorni di breve durata per i quali non è richiesto il permesso di soggiorno) e dall’art. 4 dello
stesso Testo Unico sull’immigrazione, dal quale si deduce che l’ingresso regolare avviene
attraverso i valichi di frontiera e richiede il possesso di un valido passaporto (o documento
equivalente) e di un visto d’ingresso, salvo per i casi in cui per quest’ultimo sia prevista l’esenzione.
In tutti i casi in cui la condotta dello straniero si discosta da quella ora descritta, questi commette
reato di ingresso irregolare – compresi i casi in cui l’accesso al territorio dello stato sia avvenuto
dietro presentazione di documenti falsi o ottenuti illecitamente84
. Si tratta chiaramente di un reato a
natura istantanea, che viene integrato nel momento e nel luogo in cui viene compiuto
l’attraversamento della frontiera.
Questioni più complesse sorgono in relazione al reato di soggiorno (o permanenza) illegale sul
territorio dello Stato. La condotta qui sanzionata è quella di chi si trattiene sul territorio nazionale
una volta che siano venute meno le condizioni per farlo legalmente o meglio di chi omette di
allontanarsi nonostante la sopravvenuta condizione di illegalità del soggiorno. Ad essere incriminata
è quindi una condotta negativa e questo ci permette di qualificare questa fattispecie come reato
omissivo proprio o reato di pura omissione. Si tratta inoltre di un reato permanente (che implica la
durata nel tempo della condotta), con tutte le conseguenze che ne derivano rispetto alla punibilità
84
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di confermare che l’ipotesi delineata dall’art. 13 comma 2 lettera a) del
T.U. (espulsione per lo straniero che entra nel territorio dello Stato «sottraendosi ai controlli di frontiera») viene ad
essere integrata non solo dai casi evasione fisica dei controlli, ma anche dai casi di esibizione di documenti
illecitamente formati o acquisiti (cfr. l’orientamento ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. II nella Sentenza 21
settembre 2004, n. 40789).
106
delle situazioni di soggiorno irregolare poste in essere prima dell’entrata in vigore della l.
94/200985
.
La particolare problematicità di questa ipotesi di reato emerge quando si prende in considerazione
quanto vasto e articolato sia l’insieme di tutti gli elementi necessari per determinare se il soggiorno
dello straniero sia da qualificare o meno come regolare: la normativa che definisce la condizione di
legalità dei migranti sul territorio italiano è di estrema complessità e non si esaurisce certo nella sola
disciplina concernente i permessi di soggiorno (contenuta negli art. 5, 9 e 9 bis del T.U.).
Innanzitutto, a determinare la condizione di regolarità o irregolarità dello straniero concorrono
norme di rango primario e norme di rango secondario. In secondo luogo, un ruolo costitutivo
fondamentale nell’individuazione dello status del migrante va normalmente attribuito alle
determinazioni dell’autorità amministrativa, anche se non bisogna dimenticare che da un lato
esistono casi in cui lo status di illegalità dello straniero prescinde dall’emanazione di un
provvedimento dell’autorità amministrativa (ad esempio l’ipotesi disciplinata dall’art. 13 comma 2
lettera b) del T.U.86
) e, dall’altro lato, casi in cui, pur sussistendo le condizioni normative in astratto
integranti l’illegalità del soggiorno, lo straniero è riconosciuto come inespellibile87
e l’eventuale
provvedimento amministrativo in senso contrario è considerato illegittimo ed inapplicabile. Anche
tralasciando i profili legati alla questione dell’errore sulla normativa richiamata dalle fattispecie
incriminatrice88
, la constatazione di come la condizione di regolarità del cittadino straniero risulti
85
In primo luogo, la fattispecie di reato è da ritenersi sussistente anche nel caso in cui il soggiorno dello straniero sia
diventato irregolare prima dell’entrata in vigore della novella e proseguito successivamente. CAPUTO E FIDELBO
(2012, 104) segnalano poi un’ulteriore prospettiva, che comporterebbe l’ulteriore ampliamento del l’ambito di
applicazione del reato di soggiorno irregolare: poiché «presupposto della contravvenzione è un ingresso nel
territorio dello Stato non riconducibile alla norma incriminatrice dell’ingresso illegale» si dovrebbe ritenere che tale
requisito sia integrato anche con riferimento agli ingressi illegali avvenuti prima dell’entrata in vigore della novella
del 2009, quando la condotta in questione costitutiva soltanto un illecito amministrativo.
86 Si tratta del caso in cui lo straniero si sia trattenuto sul territorio senza aver richiesto il permesso di soggiorno nei
termini di legge (salvo i casi di forza maggiore) o avendo lasciato scadere il permesso di soggiorno per più di 60
giorni senza averne chiesto il rinnovo o ancora avendo omesso le comunicazioni allo sportello unico
dell’immigrazione in tema di lavoro previste dall’art. 27 comma 1-bis.
87 Ricordiamo che ai sensi dell’art. 19 T.U. non può mai essere disposto il respingimento o l’espulsione dello straniero
che «possa essere oggetto» nello Stato di destinazione a persecuzioni «per motivi di razza, di sesso, di lingua, di
cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere
rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione». Sono altresì inespellibili, tranne per
ipotesi particolari disciplinate dal primo comma dell’art. 13, gli «stranieri minori di anni diciotto», gli «stranieri in
possesso della carta di soggiorno», gli «stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di
nazionalità italiana» e le «donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio». Il d.l. n.
89/2011 ha poi introdotto un comma 2 bis all’articolo 19 del T.U. in base al quale il respingimento o l’espulsione di
«persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori
nonché dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali» devono essere effettuate
soltanto «con modalità compatibili con le singole situazioni personali» (ed eventualmente differite fino al momento
in cui tali modalità siano concretamente attuabili).
88 Dottrina e giurisprudenza non sono pienamente concordi nel valore da attribuire all’errore dello straniero sulla
propria condizione di irregolarità. L’ipotesi in questione sembra suscettibile di configurarsi piuttosto di frequente,
data la particolare complessità tecnica della disciplina in materia di immigrazione e il suo continuo e rapido
107
legata a presupposti che possono completamente sfuggire alla sua sfera di controllo pone una
questione decisamente problematica. Il rischio è che il reato di permanenza illegale, più che
sanzionare una condotta (seppur omissiva) di inosservanza delle norme in materia di soggiorno,
mascheri ipotesi di responsabilità penale oggettiva o per fatto altrui assolutamente incompatibili con
il nostro ordinamento. Nel determinare la sussistenza della fattispecie in analisi il giudice dovrà
effettuare una ponderazione particolarmente attenta di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del
reato, tenendo in particolare considerazione tutte le situazioni in cui lo straniero si sia trovato
nell’impossibilità di dare attuazione al precetto normativo o rischierà, in caso contrario, di incorrere
nella «violazione di quel “limite logico” delle fattispecie omissive che viene comunemente espresso
con il brocardo ad impossibilia nemo tenetur» (RENOLDI 2009, 46).
Altre questioni problematiche poste dall’art. 10-bis del T.U. sono quelle legate alla mancata
previsione della clausola del «giustificato motivo» e all’assenza nella norma incriminatrice di un
termine imperativo per l’osservanza delle prescrizioni di legge. Il paragone tra le ipotesi di reato
previste dall’art. 14 comma 5-ter del T.U. e quelle delle previste dall’art. 10-bis mette in luce
proprio queste due lacune. Nel primo caso la norma contiene un temine di sette giorni entro il quale
lo straniero deve ottemperare all’ordine di allontanamento emanato dal Questore se non vuole
incorrere nel reato di inosservanza e vengono in ogni caso fatte salve le ipotesi in cui lo straniero
non abbia potuto ottemperare all’ordine per la presenza di un «giustificato motivo», clausola che
mira - nelle parole utilizzate sul punto dai giudici della Consulta - «ad escludere la configurabilità
del reato in presenza di situazioni ostative di particolare pregnanza, le quali, anche senza integrare
cause di giustificazione in senso tecnico, incidono sulla stessa possibilità soggettiva od oggettiva di
adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa» (Corte
costituzionale, sentenza 13 gennaio 2004, n. 5). Nulla è detto in merito ad entrambi questi aspetti
nel testo dell’art. 10-bis e non sembra neppure possibile dedurre una soluzione dalla disciplina
complessiva della materia; di conseguenza diverse perplessità sono state espresse circa la
costituzionalità della norma incriminatrice sotto questo duplice profilo.
In particolare, la mancata previsione di un termine alla scadenza del quale il trattenersi dello
straniero sul territorio nazionale in condizione di irregolarità amministrativa si trasforma in un
evolversi nel tempo, ai quali vanno assommati una giurisprudenza non sempre omogenea nell’interpretare le norme
e l’incertezza delle prassi amministrative con le quali viene data attuazione a queste ultime. Parrebbe che l’errore
sulla normativa richiamata dall’art. 10-bis debba configurarsi come errore sulla legge penale e che sia quindi
applicabile a questa fattispecie la scusante dell’errore inevitabile prevista dall’art. 5 c.p., come interpretato dalla
fondamentale sentenza 24 marzo 1988, n. 364 della Corte costituzionale (GATTA 2009, 1328). Quanto all’errore sul
fatto la dottrina tende a riconoscerne l’effetto scusante, sempre se si tratti di errore incolpevole (si pensi ad esempio
allo straniero che senza colpa non sia venuto a conoscenza del decreto di diniego del rinnovo del permesso di
soggiorno, che pure era stato regolarmente notificato).
108
comportamento di rilevanza (anche) penale sembra contrastare in modo evidente con il principio di
inesigibilità formulato dall’art. 27, comma primo della Costituzione, che garantisce che ad ogni
individuo che verrà chiamato a rispondere penalmente soltanto delle condotte che risultano da lui
controllabili.89
Come ci ricordano CAPUTO E FIDELBO (2012, 107) «la previsione di un termine entro
il quale l’azione prescritta dev’essere compiuta è un elemento imprescindibile del reato omissivo
proprio»: in mancanza di un termine il reato si perfeziona nel medesimo istante in cui la condizione
dello straniero presente sul territorio italiano diventa irregolare sul piano amministrativo, rendendo
la condotta prescritta dalla norma penale (l’ottemperanza alle norme statali in tema di soggiorno
dello straniero) materialmente inesigibile. Se non fosse sufficiente, ricordiamo poi che la mancata
previsione del termine per l’ottemperanza presta il fianco a rilievi di illegittimità costituzionale
anche in relazione al principio di materialità di cui all’art. 25, comma secondo della nostra Carta
costituzionale. Si pensi all’ipotesi dello straniero regolarmente soggiornante il cui status si sia
improvvisamente trasformato in quello di irregolare a causa dell’emanazione da parte del Prefetto di
un decreto di espulsione basato su una prognosi di pericolosità (come previsto dall’art. 13 comma 2
lettera c)): la mancata previsione di un intervallo temporale apprezzabile tra l’acquisizione della
condizione di irregolarità amministrativa e il perfezionarsi della fattispecie di reato di cui all’art. 10-
bis esclude alla radice che in questa occasione si possa configurare un «fatto» illecito nell’accezione
che è propria della norma costituzionale.
Ad oggi, la questione del termine per ottemperare non è stata ancora affrontata dalla giurisprudenza
della Corte costituzionale, ma lo è stata quella legata all’assenza della clausola del «giustificato
motivo», che la Corte ha preso in considerazione, assieme a molteplici altre questioni di legittimità,
nell’ambito della Sentenza n. 250/2010. Si tratta di una pronuncia particolarmente chiara e rigorosa
nella sua struttura argomentativa, che non può non costituire la pietra di paragone della nostra
analisi: qui di seguito cercheremo quindi di dar conto nel modo più esauriente possibile di tutte le
questioni sollevate dai giudici di merito e delle accurate risposte date dai giudici costituzionali, nel
tentativo di sciogliere definitivamente il nodo riguardante la legittimità del reato di ingresso e
soggiorno illegale previsto dall’art. 10-bis del T.U..
Nell’ambito delle numerose censure di incostituzionalità che le sono state sottoposte dai giudici di
pace di Lecco e Torino, la Consulta opera innanzitutto una distinzione tra quelle riguardanti la
scelta di penalizzazione sottesa alla norma incriminatrice e quelle che invece fanno riferimento alle
89
Così l’interpretazione del principio di colpevolezza data dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza del
24 marzo 1988, n. 364.
109
sue specifiche articolazioni. Poiché le prime, se accolte, porterebbero all’integrale ablazione della
previsione di legge mentre le seconde potrebbero comportare una dichiarazione di illegittimità solo
parziale, la Corte inizia la propria analisi, «per evidenti ragioni di pregiudizialità logica» dalle
contestazioni afferenti al primo gruppo. Con un rimando alla propria costante giurisprudenza, i
giudici della Consulta ribadiscono in primo luogo un principio di ordine generale, dal quale non si
può prescindere nella valutazione della legittimità di una norma penale sotto il profilo strettamente
giuridico: «l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento
sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può
formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte
manifestamente irragionevoli o arbitrarie»90
.
Il primo ordine di contestazioni fatte alla norma sono quelle, decisamente gravi, che riguardano la
violazione del principio di materialità e del principio di necessaria offensività del reato, espressi dal
comma secondo dell’art. 25 Cost.. Secondo il giudice a quo il reato introdotto dall’art. 10-bis non
sanziona un fatto materialmente offensivo di un bene giuridico, ma punisce una «mera condizione
personale e sociale», quella di straniero irregolare, che viene arbitrariamente assunta come
portatrice di pericolosità intrinseca. Si tratterebbe dunque di un ipotesi di «diritto penale d’autore»,
incompatibile con i principi di un ordinamento democratico e liberale91
. La Corte confuta
quest’assunzione, affermando che la norma, lungi dal reprimere un preciso «modo di essere» della
persona, punisce uno specifico comportamento antigiuridico che si concretizza nelle due locuzioni
del «fare ingresso» e del «trattenersi» sul territorio nazionale, che corrispondono rispettivamente ad
una condotta attiva istantanea e ad una condotta permanente omissiva. Le parole della Corte sono
estremamente chiare in proposito: «La condizione di cosiddetta “clandestinità” non è un dato
preesistente ed estraneo al fatto, ma rappresenta (…) la conseguenza della stessa condotta resa
penalmente illecita (…), non diversamente da come la condizione di pregiudicato per determinati
reati deriva, salvo il successivo accertamento giudiziale, dall’avere commesso i reati stessi».
90
Il parametro di valutazione della costituzionalità delle scelte legislative in materia di politica criminale è qui
particolarmente rigoroso: non basta il riscontro di elementi di irragionevolezza a far dichiarare l’incostituzionalità
della norma, ma deve trattarsi di un’irragionevolezza connotata da particolare gravità, tanto da apparire agli occhi
dell’interprete come «manifesta».
91 Il rifiuto del «diritto penale d’autore», volto a penalizzare senza ragione ulteriore situazioni di povertà ed
emarginazione, è stato alla base - lo ricordiamo - della sentenza n. 519 del 1995 della stessa Corte costituzionale,
che ha dichiarato illegittima la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 670, primo comma, cod. pen. (c.d.
mendicità non invasiva). L’identificabilità del reato di ingresso e soggiorno clandestino con un ipotesi di «illecito
d’autore», che non ci appare in realtà così peregrina, è stata al centro del dibattito giuridico e politico precedente alla
pronuncia in esame. Tra l’ampia dottrina in materia possiamo ricordare ANGELO CAPUTO, Diseguali, illegali,
criminali, in Questione giustizia, n. 1/2009 e MASSIMO DONINI, Il cittadino extra-comunitario da “oggetto
materiale” a “tipo d’autore” nel controllo penale dell’immigrazione, in Questione giustizia, n. 1/2009.
110
La sentenza in analisi respinge anche l’assunto relativo alla carenza di offensività: l’art. 10-bis non
configura un «illecito di mera disobbedienza», incapace di ledere o anche solo mettere in pericolo
un bene giuridico meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. Il bene giuridico protetto dalla
norma viene anzi agilmente identificato dal giudice delle leggi: si tratta dell’«interesse dello Stato al
controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo», che è
definito come «bene giuridico “di categoria”, che accomuna buona parte delle norme incriminatrici
presenti nel testo unico del 1998». Nulla di diverso, secondo l’argomentazione proposta in sentenza,
da quanto accade in altri settori del nostro ordinamento «nei quali la sanzione penale – specie
contravvenzionale – accede alla violazione di discipline amministrative afferenti a funzioni di
regolazione e controllo su determinate attività, finalizzate a salvaguardare in via preventiva i beni,
specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo svolgimento indiscriminato delle attività stesse»92
.
Poiché il potere di governare i flussi migratori nel territorio nazionale costituisce «un profilo
essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio», la scelta del
legislatore di configurare come illecito penale e non amministrativo la violazione della disciplina
sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri rientra pienamente nell’ambito delle scelte discrezionali
di sua competenza ed egli ha piena facoltà di «modulare diversamente nel tempo – in rapporto alle
mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla differente pregnanza delle
esigenze ad esso connesse – la qualità e il livello dell’intervento repressivo». Ad ulteriore
riconferma del potere detenuto da uno Stato sovrano in materia di immigrazione il giudice delle
leggi evoca infine il criterio comparatistico, ricordando come «norme incriminatrici
dell’immigrazione irregolare di ispirazione similare» a quella presente nel nostro ordinamento,
«talora accompagnate dalla comminatoria di pene anche significativamente più severe (…), siano
presenti nelle legislazioni di diversi Paesi dell’Unione europea: e ciò tanto nell’ambito dei Paesi più
vicini al nostro per tradizioni giuridiche (quali la Francia e la Germania), che fra quelli di diversa
tradizione (quale il Regno Unito)».
La Corte passa poi a vagliare la violazione dell’art. 3 Cost., prospettata dal giudice a quo sulla base
del rilievo che la disposizione di cui all’art. 10-bis, punendo lo straniero che sia entrato o si sia
trattenuto illecitamente sul territorio nazionale senza fare distinzione alcuna «equiparerebbe
fattispecie marcatamente eterogenee e soggetti di differente pericolosità sociale (quali lo straniero
che ha varcato clandestinamente i confini nazionali e che vive dei proventi del delitto e il migrante
trattenutosi irregolarmente dopo un ingresso legittimo, ma ben integrato nella comunità sociale e
92
I riferimenti fatti dalla Corte sono alle aree del diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei mercati finanziari e della
sicurezza del lavoro.
111
che svolge un’attività lavorativa)». Sul punto i giudici della Consulta danno una risposta netta, che
discende direttamente dalle argomentazioni svolte in merito alla supposta violazione dell’art. 25,
comma secondo: la norma incriminatrice non si pone in contrasto con il principio di uguaglianza,
perché non è volta a sanzionare la condotta di vita o i propositi dei migranti ma l’osservanza delle
norme dello Stato in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri. La diversa gravità
dell’inosservanza potrà essere adeguatamente valutata e apprezzata dal giudice di pace in sede di
determinazione della pena e per le ipotesi di «irregolarità di più ridotto significato» il magistrato
potrà sempre applicare la causa di improcedibilità della «particolare tenuità del fatto» (art. 34 d.lgs.
274/2000).
La disciplina dell’art. 10-bis non configura neppure, nell’analisi del giudice delle leggi, una
violazione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. Richiamando ancora una volta le proprie
statuizioni passate la Corte ribadisce che « in materia di immigrazione le ragioni della solidarietà
umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco» e
che il principio espresso dall’art. 2 Cost. non si pone «di per sé in contrasto con le regole in materia
di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza
ed integrazione degli stranieri»93
. Le ragioni di solidarietà trovano quindi espressione e
riconoscimento, a parere dei giudici costituzionali, in una cornice normativa più ampia di quella
relativa al solo reato di ingresso e soggiorno irregolare, che prende in considerazione i divieti di
espulsione e di respingimento, la disciplina dei ricongiungimenti familiari e la normativa sul
soccorso ai rifugiati e sulla protezione internazionale.
Gli ultimi due profili di legittimità di ordine generale presi in considerazione dalla Corte sono quelli
relativi al dovere di attenersi ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e internazionale, di
cui all’art. 117 Cost., e al duplice principio di ragionevolezza e di buon andamento dei pubblici
uffici presi risultante dagli articoli 3 e 97 della Costituzione. Quanto al primo aspetto abbiamo già
avuto modo di accennare come la sentenza in analisi abbia escluso la sussistenza di un contrasto tra
quanto previsto dall’art. 10-bis del T.U. e l’art. 7 della Direttiva Rimpatri. I giudici costituzionali
hanno preso le distanze dalla teoria, avvallata invece dal giudice a quo, che individua
nell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale un escamotage per evitare la piena
applicazione delle norme sul rimpatrio volontario e hanno respinto l’obiezione di incostituzionalità
osservando che se un contrasto con la disciplina comunitaria si dovesse delineare non
93
I due incisi appartengono rispettivamente alla sentenza del 21 novembre 1997, n. 353 e all’ordinanza del 4 luglio
2001, n. 217.
112
riguarderebbe tanto l’introduzione del c.d. reato di clandestinità quanto «le norme interne
preesistenti che individuano nell’accompagnamento coattivo alla frontiera la modalità normale di
esecuzione dei provvedimenti espulsivi»94
.
Infine, la Corte ha considerato infondata anche l’ipotesi di violazione dei principi di ragionevolezza
e di buon andamento dei pubblici uffici, che il giudice remittente ravvisava nel fatto che la norma
incriminatrice introdotta dalla novella del 2009 si ponesse come obbiettivo finale un risultato –
l’allontanamento dello straniero “clandestino” dal territorio italiano – realizzabile negli stessi
termini tramite l’istituto dell’espulsione amministrativa, creando così un inutile duplicazione di
provvedimenti aventi il medesimo scopo. La sentenza in esame ammette l’identità delle condotte
costitutive del nuovo reato contravvenzionale con quelle sanzionate dal T.U. in via amministrativa e
riconosce anche la conseguente «sovrapposizione – tendenzialmente completa – della disciplina
penale a quella amministrativa». Non nasconde neppure che, nei fatti, «l’applicazione della
sanzione penale» sia considerata dal legislatore «come un esito “subordinato” rispetto alla materiale
estromissione dal territorio nazionale dello straniero ivi illegalmente presente», ma non trae le
medesime conseguenze in termini di irragionevolezza della norma che ne aveva tratto il giudice a
quo (dietro il supporto, è doveroso dirlo, di numerosa dottrina). Secondo l’interpretazione dei
giudici costituzionali tale assetto normativo non comporta infatti una duplicazione necessaria del
procedimento di espulsione per via amministrativa, in ragione dell’impossibilità – attestata
dall’esperienza in un largo numero di casi – di dare effettività ai provvedimenti espulsivi da parte
delle autorità di pubblica sicurezza e trova d’altra parte la propria ratio in una motivazione di natura
“economica”: il diminuito interesse dello Stato alla punizione di soggetti ormai estromessi dal
proprio territorio. Le contestazioni relative al rapporto “costi-benefici” della norma e quelle relative
alla scarsa efficacia deterrente della previsione della sanzione pecuniaria nei confronti di soggetti
che nella maggior parte dei casi risultano insolvibili (e che, nelle ipotesi in cui non sia stato
possibile procedere all’accompagnamento coattivo, sono comunque destinatari di un ordine di
espulsione, la cui inottemperanza giustifica l’applicazione di una ben più severa pena detentiva) non
vengono negate in sentenza: ciò nonostante, la Corte ritiene che «simili valutazioni (…) attengano
all’opportunità della scelta legislativa su un piano di politica criminale e giudiziaria» e siano quindi
da considerarsi estranee al piano del sindacato di costituzionalità.
94
Rispetto alla supposta violazione dell’art 11, l’argomento principe utilizzato dalla sentenza in analisi rimane in ogni
caso quello temporale: nel momento in cui la sentenza è stata emessa il termine fissato per l’adeguamento
dell’ordinamento nazionale alla direttiva non era ancora scaduto e la Corte non ha di conseguenza ritenuto che
potesse configurarsi alcuna violazione dell’obbligo di conformarsi ai vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario .
113
Il principio di buon andamento della pubblica amministrazione è invece considerato semplicemente
irrilevante nel caso in questione: si tratta di un criterio «riferibile all’amministrazione della giustizia
solo per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, e non
all’attività giurisdizionale in senso stretto» e quindi nell’eventuale aggravio del carico di lavoro dei
giudici di pace derivante dalla duplicazione dei procedimenti non è riscontrabile una violazione
degli obblighi imposti dall’art. 97 Cost..
Esaurite le censure di carattere generale la sentenza n. 250/2010 si occupa di quelle attinenti aspetti
specifici della disciplina, il cui accoglimento potrebbe comportare una dichiarazione solo parziale di
illegittimità costituzionale dell’art. 10-bis. La prima questione che viene affrontata è quella relativa
alla mancata previsione della clausola «senza giustificato motivo», presente invece nella fattispecie
contigua disciplinata dall’art. 14 comma, 5-ter del medesimo Testo Unico. La Corte riconosce la
centralità della clausola nel garantire un’applicazione costituzionalmente coerente del reato di
inottemperanza all’ordine del Questore95
, ma al contempo esclude che il suo «inserimento nella
formula descrittiva dell’illecito (…) sia indispensabile al fine di assicurare la conformità al
principio di colpevolezza di ogni reato in materia di immigrazione, e particolarmente di quello
oggetto dell’odierno scrutinio». «La mancanza della clausola» - continua ad argomentare la
Consulta - «non impedisce che le esimenti generali trovino comunque applicazione» e
l’applicabilità delle scriminanti comuni (in particolare quella dello stato di necessità di cui all’art.
54 cod. pen.) come pure delle cause di esclusione della colpevolezza (compresa quella
del’ignoranza inevitabile della legge penale ex art. 5 cod pen.) è sufficiente, in ogni caso, a garantire
il rispetto del principio costituzionale contenuto nell’art. 27 della nostra Carta. A rafforzare la
propria affermazione (con particolare riferimento all’ipotesi di reato concernente l’illecito
trattenimento) la sentenza in esame ribadisce la piena operatività del «basilare principio ad
impossibilia nemo tenetur», che vale per ogni fattispecie di natura omissiva, e ne conclude che «un
insieme di situazioni, rilevanti come «giustificato motivo» in rapporto al reato di inottemperanza
all’ordine di allontanamento, ben possono venire in considerazione anche ai fini di escludere la
configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (si pensi, ad
95
Sul punto i giudici costituzionali richiamano la propria precedente giurisprudenza, in particolare la sentenza n. 5 del
2004 e le ordinanze n. 386 del 2006, n. 302 e n. 80 del 2004. Assoggettare alla pena per mancata ottemperanza
all’ordine del Questore «anche lo straniero che si trovasse nella pratica impossibilità di munirsi di documenti e di
biglietto di viaggio nel ristretto termine di cinque giorni» - ad esempio in ragione della sua «condizione di assoluta
impossidenza» oppure in conseguenza del «mancato rilascio, da parte della competente autorità diplomatica o
consolare, dei documenti necessari, pure sollecitamente e diligentemente richiesti» - significherebbe avvallare un
ipotesi di responsabilità penale oggettiva, in contrasto con l’art. 27 Cost.. Un’interpretazione costituzionalmente
orientata impone quindi che in tali ipotesi «si ravvisi un “giustificato motivo” di inottemperanza all’ordine di
allontanamento, con conseguente esclusione della configurabilità del reato».
114
esempio, alla indisponibilità, da parte dello straniero, per cause indipendenti dalla sua volontà, dei
documenti necessari al fine di lasciare legalmente il territorio nazionale)» .
Quanto poi alla conformità al principio di uguaglianza-ragionevolezza della diversa disciplina
dell’art. 10-bis rispetto all’art. 14, comma 5-ter, la Corte riconosce che nella seconda fattispecie la
presenza della clausola «senza giustificato motivo» garantisce rilievo esimente ad un nucleo di
situazioni molto più ampio rispetto a quello coperto dalle scriminanti di carattere generale, ma
sottolinea altresì la diversa struttura delle due norme incriminatrici. In particolare, l’art. 14, comma
5-ter risulta applicabile solo quando non sia stato possibile eseguire coattivamente il rimpatrio dello
straniero irregolare, e dunque in situazioni in cui è frequente che lo straniero non sia in grado di
adempiere nel breve termine concessogli (sette giorni) all’obbligo di fare ritorno al Paese d’origine;
mentre la contravvenzione si applica indipendentemente dalla mancata esecuzione di un
provvedimento di espulsione ed è caratterizzata da un trattamento sanzionatorio di entità modesta,
che rende meno impellenti, secondo l’opinione del giudice delle leggi, le esigenze di “moderazione”
a cui risponde clausola del «senza giustificato motivo».
Tutte le altre questioni sollevate dai due giudici remittenti96
sono state dichiarate inammissibili dalla
Corte e per ragioni di brevità non ne analizzeremo qui le stringete motivazioni: prenderemo invece
in considerazione le obiezioni che sono state sollevate rispetto al ragionamento argomentativo della
Corte, per tentare di concludere l’analisi relativa al reato di ingresso e soggiorno irregolare e dare
una risposta definitiva al quesito relativo alla sua liceità.
Prendiamo le mosse proprio dalle argomentazioni utilizzate in sentenza per escludere l’illegittimità
costituzionale della mancata previsione della clausola «senza giustificato motivo» nel testo dell’art.
10-bis, che ci appaiono come le meno convincenti di tutto l’impianto motivazionale. Il riferimento
fatto dalla Consulta all’applicabilità delle esimenti generali anche alle fattispecie di reato in analisi
96
Il Giudice di pace di Torino aveva sollevato questione di legittimità costituzionale anche in relazione alla
compatibilità con l’art. 3 Cost. della facoltà attribuita al giudice di pace di sostituire la pena pecuniaria con
l’espulsione; alla compatibilità con l’art. 3 Cost. del vigente divieto di sospensione condizionale della pena; alla
compatibilità con l’art. 24, secondo comma Cost. della mancata previsione di una disciplina transitoria che
salvaguardasse gli stranieri illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in vigore della
legge n. 94 del 2009; alla compatibilità con l’art. 24, secondo comma Cost. del combinato disposto dell’art. 10-bis
con gli artt. 6, 35 e 38 del T.U. (che a detta del remittente imporrebbe un obbligo di autodenuncia al migrante
irregolare responsabile dell’adempimento dell’obbligo scolastico del figlio minore) e alla compatibilità con gli artt.
3 e 24, secondo comma Cost. della mancata previsione di garanzie a favore dello straniero che presenti istanza di
permanenza in Italia per gravi motivi connessi alla tutela di familiari minori. A sua volta, il giudice di pace di Lecco
aveva sollevato questione di legittimità costituzionale anche in merito alla compatibilità con gli artt. 3 e 27 Cost.
della disposizione che obbliga il giudice a pronunciare sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta
espulsione dello straniero.
115
non coglie nel segno, dal momento che il problema sollevato dai giudici a quibus riguardava
proprio l’impossibilità di evitare l’applicazione di pena a ipotesi non rientranti nell’area delle
esimenti generali, ma che avrebbero ben potuto essere ricomprese, in quella ben più vasta (per
ammissione della stessa Corte) del «giustificato motivo», locuzione che dev’essere intesa «come
clausola generale di inesigibilità, indispensabile per rendere conforme la rigorosa disciplina in
materia di immigrazione con il principio costituzionale di colpevolezza» (MASERA 2010, 55).
Anche l’enfatizzazione delle differenze tra le fattispecie di illecito di cui all’art. 14, comma 5-ter e
quelle previste invece dall’art. 10-bis non ci appare condivisibile: le due norme sono evidentemente
caratterizzate da elementi diversi tra loro, ma l’argomentazione della Corte non prende in debita
considerazione o addirittura tenta di svilire «l'affinità strutturale» dei due reati, resa particolarmente
chiara dall’«identità, nelle due fattispecie omissive, dell'azione prescritta, rappresentata
dall'allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato». È proprio in relazione a questo
contenuto precettivo comune che «deve essere valutata la - diversa - dimensione dell'esigibilità
delineata dal legislatore per il reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine di allontanamento del
Questore e per quello di ingresso e soggiorno illegale» (CAPUTO 2010, 1187).
Infine, il riferimento alla possibilità attribuita al giudice di pace di dichiarare l’improcedibilità per
«particolare tenuità del fatto», ci appare più come un indicatore della volontà della Corte di
moderare l’impatto della propria decisione, che un elemento realmente atto ad integrare e rafforzare
l’impalcatura argomentativa della sentenza sul punto in questione. La clausola del «giustificato
motivo» attiene all’area della tipicità del reato, mentre la «particolare tenuità del fatto» attiene a
quella della procedibilità: pensare di riempire il deficit strutturale di una fattispecie incriminatrice
con lo strumento dell’improcedibilità, cercando in tal modo di controbilanciare la mancata
attribuzione di rilievo alle fattispecie di «giustificato motivo», ci sembra invero una soluzione poco
coerente e poco efficace.
Uscendo dall’area delle censure riguardanti aspetti specifici della norma ed entrando in quella delle
più radicali critiche alla scelta punitiva del legislatore, i punti dell’iter argomentativo della corte che
ci appaiono come più discutibili sono quelli relativi alle supposte violazioni del principio di
materialità e necessaria offensività da un lato, e del principio di ragionevolezza dall’altro. Le
conclusioni del giudice delle leggi in merito alla prima questione sono di fondamentale importanza,
perché rappresentano il nucleo essenziale del ragionamento logico-giuridico della sentenza n.
250/201 e non sono scindibili tra loro: il reato di ingresso e soggiorno illegale dev’essere collocato
nell’ampia area del diritto penale in cui la sanzione è ricollegata alla violazione di norme
amministrative; non si tratta di un illecito di mera disobbedienza; la condotta punita è offensiva di
116
un bene giuridico precisamente individuato; non si può parlare di «diritto penale d’autore». Secondo
numerosa dottrina critica, il riferimento alla tutela penale delle funzioni amministrative non sarebbe
però sufficiente a garantire la compatibilità dell’art. 10-bis con il principio di offensività di cui al
secondo comma dell’art. 25, perché tale compatibilità dipende fortemente dal «grado di prossimità»
(MANES 2005, 100) della condotta tipica rispetto al bene finale alla cui salvaguardia sono
preordinate le stesse funzioni amministrative (i c.d. «beni pubblici finali» che la Corte ritiene
suscettibili di essere lesi da parte dei fenomeni migratori incontrollati). Omettendo di effettuare la
valutazione di questo elemento, «il riferimento all’interesse dello Stato al controllo e alla gestione
dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo corre il rischio di tradursi in una
sorta di ipostatizzazione della funzione amministrativa, così privando il principio di offensività di
qualsiasi attitudine selettiva e, in ultima analisi, derubricandolo da principio costituzionale a mero
criterio orientativo di politica criminale» (CAPUTO E FIDELBO 2012, 119). Si ritorna alla conclusione
che la norma penale che punisce l’ingresso e il soggiorno illegale sia diretta a condannare soltanto
in apparenza le condotte attive ed omissive dello straniero quando in realtà ad essere sanzionato è
l’essere irregolare dell’individuo migrante: se il bene tutelato è l’interesse dello Stato al controllo
dei flussi migratori il pericolo deriva proprio dalla presenza dello straniero sul territorio, «si
identifica con la sua condizione esistenziale di migrante non in regola con la disciplina del
soggiorno» (MASERA 2010, 49). Il ragionamento della Corte pecca quindi di formalismo e l’illecito
di cui all’art. 10-bis configura proprio quel modello di «diritto penale d’autore» paventato dal
giudice remittente.
Queste critiche, lo abbiamo anticipato, si saldano a quelle mosse al percorso argomentativo portato
avanti dai giudici della Consulta in tema di ragionevolezza della norma incriminatrice. La sanzione
penale si sovrappone a quella amministrativa e la duplica, con la conseguenza di privare la prima di
ogni autonomia funzionale, rendendola eventuale e subordinata rispetto all'allontanamento
amministrativo dello straniero (eventuale perché irrogata solo in assenza della condizioni per
l'applicazione dell'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva di cui all’art. 16 del T.U. e subordinata
perché l’avvenuta esecuzione dell’espulsione impone la pronuncia della sentenza di non luogo a
procedere). A diversi autori questi elementi sono sembrati sufficienti per poter affermare
l’intrinseca irragionevolezza della norma incriminatrice e la sua incompatibilità con il principio di
extrema ratio in materia penale e la Corte costituzionale è stata accusata di non voler prendere
posizione trincerandosi dietro «all’insindacabilità delle opzioni politico criminali, ormai un vero e
proprio leit motiv delle decisioni in materia di diritto penale dell’immigrazione» (MASERA 2010,
53).
117
I rilievi e le censure sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito in relazione alla
fattispecie penale introdotta dalla novella del 2009 e le argomentazioni prodotte a supporto della sua
legittimità dalla Consulta nella sentenza n. 250/2010 ci appaiono come molto difficilmente
conciliabili. La questione fondamentale, quella legata alla classificazione della contravvenzione di
ingresso e soggiorno illegale come reato «insito nelle persone» (DONINI 2009, 126), espressione di
un «diritto penale non più ancorato al “fatto”» ma all’autore - identificato sulla base della sua
appartenenza nazionale - comporta una presa di posizione che è politica prima ancora che giuridica,
un giudizio di valore sulle modalità con cui i governi italiani che si sono succeduti negli ultimi
quindici anni hanno impostato le politiche nazionali di gestione dei flussi migratori nel nostro
paese. La Corte ha scelto (in questa pronuncia come in molte altre in passato) di agire con estrema
prudenza, ed è probabile che se l’art. 10-bis finirà nuovamente sotto il suo scrutinio (magari in
relazione alle questioni dichiarate inammissibili nella sentenza n. 250/2010) l’esito sarà il
medesimo. Il rilievo preliminare dei giudici costituzionali che «l’individuazione delle condotte punibili
e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore»
costituisce un assunto difficilmente superabile : dichiarare l’illegittimità del c.d. reato di clandestinità
avrebbe significato esporsi a pesanti accuse di ingerenza nelle aree di competenza del potere
legislativo ed esecutivo e la Corte non ha voluto (forse correttamente, visto il ruolo istituzionale che
le compete) esporsi a questo rischio.
In conclusione non possiamo fare altro che constatare che, allo stato vigente della legislazione
italiana, il reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dello Stato è presente ed è stato
legittimato dal giudice delle leggi. La contravvenzione di cui all’art. 10-bis del T.U. prevede
l’espulsione come sanzione alternativa alla pena pecuniaria e in caso di impossibilità di eseguire
immediatamente l’allontanamento dello straniero la soluzione primaria prevista dal nostro
ordinamento rimane quella del trattenimento nei centri di detenzione amministrativa, opzione resa
possibile anche dalle maglie lasche della normativa europea in materia di immigrazione ed asilo.
Nonostante sia difficile non condividere le conclusioni di RINOLDI (2009, 54) - secondo cui la
disciplina sostanziale e processuale delle fattispecie di reato di cui all’art. 10-bis T.U. costituisce
soltanto un tassello ulteriore nella costruzione di un modello di «giustizia accelerata», incentrato
sulla creazione di un «vero e proprio rito speciale degli stranieri», funzionale soltanto al risultato
«auspicato» dell’espulsione del migrante97
- dobbiamo riconoscere che, in base alla normativa
97
«In attesa di questo “auspicato” esito processuale» prosegue poi l’autore «gli imputati potranno essere
tranquillamente trattenuti nei Centri di identificazione ed espulsione, attraverso lo strumento della “detenzione
amministrativa” che funzionalmente prende il posto dell’arresto, è sottoposta a un controllo solo formale da parte
dello stesso giudice di pace ed ha una durata molto più lunga della stessa misura pre-cautelare».
118
vigente, l’obiezione relativa alla privazione della libertà sine delicto portata avanti dai detrattori dei
C.I.E. non sembra più avere fondamento giuridico formale.
Volendo però aprire l’analisi a prospettive future, possiamo azzardarci ad affermare che non è per
nulla scontato che la situazione normativa attuale rimanga immutabile. Recentissimamente il
Ministro per l’integrazione Cècile Kyenge ha prospettato l’abrogazione del reato di immigrazione
clandestina98
e l’ha fatto non solo sulla base di una valutazione politica ma anche facendo
riferimento ai dati statistici riguardanti l’applicazione dell’art. 10-bis durante il primo anno e mezzo
della sua applicazione. Le statistiche provenienti dalla Direzione Generale della giustizia penale99
parlano di soli 172 fascicoli aperti e 55 processi definiti, dei quali 4 si sono conclusi con una
sentenza di assoluzione, 18 con una sentenza di condanna e 32 con un patteggiamento o con altre
modalità di definizione del procedimento. Numeri così esigui possono naturalmente essere messi in
relazione alla lentezza della definizione dei procedimenti nel sistema giudiziario italiano, ma
parlano anche di una norma dalla scarsissima applicazione, di una «norma manifesto» che neppure
le autorità di polizia giudiziaria e i pubblici ministeri sembrano interessati a perseguire. Arrischiamo
una facile previsione: nell’ipotesi di un’abrogazione dell’art. 10-bis del Testo Unico, il problema
della detenzione amministrativa come privazione della libertà personale svincolata da qualunque
condotta penalmente rilevante tornerà a farsi sentire in tutta la sua forza.
98
Cfr. Immigrazione, Kyenge: "Verso l'abrogazione del reato di clandestinità"Il ministro dell'Integrazione: "Con il
Ministero dell'Interno inizieremo un percorso comune. Pochi giorni fa spiegava: "Più immigrati per un'Italia più
giovane", “Libero”, 29 giugno 2013.
99 La rilevazione è stata condotta nelle sedi centrali di Tribunale e nelle sezioni distaccate che utilizzano il sistema
informatizzato “Re.Ge” (restano escluse pertanto le sedi di Firenze, Genova, Lucca, Napoli, Palermo). Tale sistema
ha permesso quindi di rilevare i dati relativi al 79 per cento dei fascicoli iscritti nel 2010 presso i tribunali italiani. Si
tratta quindi di informazioni parziali ma ad ogni modo significative, anche immaginando un distacco dalla media
statistica dell’attività dei Tribunali non presi in considerazione.
119
CAPITOLO 3.
MODELLI RICORRENTI : LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA TRA
RADICI ORDINAMENTALI E PROSPETTIVE EUROPEE.
La fisionomia della disciplina italiana in materia di immigrazione, caratterizzata dalla difficoltà per
lo straniero di entrare e risiedere legalmente sul territorio dello Stato e dal ricorso massiccio agli
strumenti di espulsione coattiva come mezzo per combattere i fenomeni di “clandestinità”, non
costituisce certo un unicum nel panorama europeo e internazionale. Prendendo in considerazione in
particolare il sistema di detenzione amministrativa dei migranti che è oggetto della nostra analisi, ci
si rende facilmente conto di come esso affondi le sue radici nella Convenzione di Schengen1,
l’accordo per la libera circolazione firmato originariamente il 14 giugno 1985 da cinque paesi
dell’Europa centrale (Belgio, Francia, Germania Ovest, Lussemburgo e Olanda) e oggi esteso a
ventinove Stati compresa, a partire dal 1990, l’Italia. L’obbiettivo principale degli accordi di
Schengen – l’abolizione dei controlli sistematici sulle persone alle frontiere interne degli stati
firmatari – si è presentato fin da subito come inevitabilmente interconnesso al rafforzamento dei
controlli alle frontiere esterne e all’impiego massiccio delle forze di polizia nei procedimenti di
identificazione ed espulsione dei migranti irregolari2, sulla base del poco condivisibile sillogismo
secondo il quale assicurare la libertà di circolazione ai cittadini nazionali comporta necessariamente
tener fuori gli stranieri dal territorio statale o quantomeno lasciarli entrare con il contagocce,
ricorrendo a strumenti repressivi per allontanare coloro che riescono a scivolare tra le fitte maglie
dei controlli frontalieri.
1 Facciamo ovviamente riferimento al capillare sistema di Centri per la detenzione amministrativa nella fisionomia da
essi assunta nell’ambito europeo negli ultimi vent’anni ( diversa fisionomia ha, ad esempio, il sistema di Centri
elaborato dagli Stati Uniti). Volendo ricercare paradigmi di più antica data si può risalire addirittura all’esperienza
coloniale spagnola: nel 1896, a Cuba, nell’ambito di un insurrezione della popolazione nativa il governatore
dell’isola ordina che «entro il termine tassativo di otto giorni, tutti i contadini che non desiderano essere trattati
come insorti si concentrino in campi fortificati», creando il primo campo di concentramento nell’accezione moderna
del termine (RAHOLA 2003, 65). Anche lasciando da parte la terribile esperienza dei lager nazisti, il ‘900 europeo (e
non solo) ci appare costellato da una miriade di luoghi destinati a trattenere e confinare «l’umanità che non
appartiene», tanto da meritarsi la definizione di «secolo dei campi» (cfr. JOËL KOTEK E PIERRE RIGOULOT, 2002. Il
secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio, la tragedia del Novecento. Milano: Mondadori)
2 Gli ulteriori obbiettivi contenuti nel trattato di Schengen erano evidentemente complementari ai due principali. Oltre
all’abolizione dei controlli personali alle frontiere interne e al rafforzamento delle frontiere interne gli stati firmatari
si impegnavano a migliorare la collaborazione tra forze di polizia, attribuendo alle autorità di pubblica sicurezza
della possibilità di intervenire, in alcuni casi, anche oltre i propri confini, ad implementare il coordinamento tra Stati
nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale ( in particolare rispetto ai delitti di mafia, traffico
d'armi, traffico di stupefacenti, human trafficking e human smuggling) e ad integrare banche dati delle forze di
polizia delle singole nazioni in un unico sistema (SIS).
120
La costruzione della c.d. “Fortezza Europa” è passata attraverso numerosi snodi politici, sociali e
normativi: la diffusione nei media e nel discorso politico dell’inscindibile binomio immigrazione-
criminalità, l’introduzione di norme sempre più restrittive in materia di asilo politico e protezione
internazionale, la stipula di accordi di riammissione con i paesi a più forte impronta migratoria3, le
periodiche regolarizzazioni rivolte soltanto a specifiche categorie di lavoratori e molti altri ancora.
Rispetto a questo fenomeno la creazione dei “campi per migranti” non costituisce altro che un punto
di emersione particolarmente evidente, un elemento problematico ma perfettamente inserito nel
quadro del ragionamento politico di matrice neoliberista che vede lo spostamento degli individui
dalle zone meno ricche del mondo verso altri Stati più economicamente appetibili non come un
fenomeno socio-economico inevitabile (da trasformare in risorsa), ma come una terrorizzante
invasione da cui difendersi con ogni strumento fornito dal diritto (e non solo4). La privazione della
libertà personale, che è per i cittadini di ogni nazione europea evento eccezionale, circondato dalle
pregnanti garanzie giurisdizionali che contraddistinguono lo Stato di diritto e conseguenza di
condotte antigiuridiche di non indifferente entità5, diventano per lo straniero evento normale,
accadimento quasi necessario e inevitabile all’interno di ogni percorso migratorio.
Ma la limitazione della libertà personale svincolata dalla sanzione penale non è un fenomeno nuovo
per l’ordinamento italiano: già le norme in materia di stranieri contenute nel Testo Unico delle
Leggi di Pubblica Sicurezza prevedevano la possibilità di limitare il diritto all’habeas corpus del
3 Per valutarne l’impatto si pensi che il primo accordo di riammissione siglato tra i paesi dello spazio Schengen e uno
Stato terzo (la Polonia) risale addirittura al marzo 1991.
4 Nel corso del 2012 ha suscitato grande scalpore la notizia che il Governo greco del conservatore Antonis Samaras
aveva ultimato la costruzione del famigerato muro dell’Evros, blindando con una recinzione di filo spinato tagliente
lunga dodici km e mezzo e alta quattro metri il confine tra Grecia e Turchia. L’imponente costruzione è stata eretta
con il preciso compito di dissuadere i migranti (e soprattutto i potenziali richiedenti asilo) provenienti dall’Asia
dall’entrare nel territorio europeo attraverso lo stretto canale del confine ellenico. Nnonostante la Commissione UE
avesse espresso un parere negativo sulla creazione di quello che è stato definito «muro della vergogna» nessuna
azione è stata intrapresa dalle istituzioni di Bruxelles per convincere il Governo greco a smantellarlo. In questo caso
non è lo strumento del diritto o la forza di delle autorità di polizia ad essere utilizzato per difendere il territorio
nazionale dall’«invasione degli immigrati» ma una barriera fisica e al tempo stesso fortemente simbolica, il cui
ruolo era stato chiarito dal Ministro dell’ordine pubblico e della protezione del cittadino già nel 2011: «Tutti I
migranti illegali impareranno la lezione che la Grecia non è più aperta a tutti coloro che desiderano entrare nel suo
territorio» (cfr. MARIANI PAPANIKOULAU Un muro tra Grecia e Turchia. Misure europee nella guerra all’asilo
politico, 20 gennaio 2011, www.meltingpot.org).
5 Questo assunto ci sembra particolarmente veritiero se pensiamo alle politiche di «decarcerizzazione» che sono state
attuate nel nostro ordinamento a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso, nel tentativo di risolvere il problema
del sovraffollamento carcerario e di disegnare il sistema delle pene parametrandolo al singolo reo con finalità
marcatamente special-preventive. La diffusione delle pene sostitutive e delle misure alternative alla carcerazione è
stata ampia nel nostro ordinamento, ma ha paradossalmente contribuito a creare la strana fisionomia del sistema
carcerario italiano, in cui le statistiche ci mostrano come gli stranieri siano trattenuti negli istituti penitenziari molto
più a lungo dei cittadini italiani (indipendentemente al tipo di reato commesso) proprio perché molto difficilmente
possono accedere alle modalità alternative di esecuzione della pena . Per un approfondimento sul tema vedi
PAVARINI E GUAZZALOCA, 2004 pp. 31 e ss e 121 e ss..
121
non-cittadino tramite misure applicabili al di fuori di ogni intervento dell’autorità giudiziaria, sulla
base di valutazioni di pericolosità presunta che nulla avevano a che fare con il riconoscimento di
una condotta antigiuridica. E anche una volta superata la disciplina del T.u.l.p.s. i provvedimenti
aventi la medesima natura originaria della detenzione amministrativa6 - quella di restrizione della
libertà personale sine delicto – non sono scomparsi dal nostro ordinamento. Continuano ad esistere
le forme di tutela ante delictum, come pure continuano ad esistere ipotesi in cui un individuo può
essere accompagnato dalla forza pubblica in un ospedale e costretto a rimanervi e a sottoporsi a
trattamenti medici contro la propria volontà: si tratta di casi in cui l’azione coercitiva da parte
dell’autorità di polizia non ha alcuna correlazione con un comportamento illecito precedente e ad
essere sottoposti a questo particolare tipo di limitazioni della libertà personale non sono soltanto gli
stranieri, ma anche i cittadini italiani.
Ci è sembrato opportuno, in chiusura della nostra analisi sui Centri di Identificazione ed Espulsione
allargare lo sguardo nelle due direzioni che abbiamo appena descritto. Per prima cosa prenderemo
in considerazione le fattispecie descrivibili come compressioni del principio dell’habeas corpus
completamente svincolate dall’illecito penale che possono ancora essere rinvenute nel corpus
giuridico italiano, cercando di determinare se esista un filo conduttore tra queste ipotesi - la cui
origine è risalente nel tempo - e quelle di più recente introduzione che vedono come protagonisti
soltanto gli stranieri. In un secondo momento dedicheremo un breve spazio a delineare la situazione
presente della detenzione amministrativa in Europa, per poi passare ad analizzare le caratteristiche
della legislazione in tema di espulsione e trattenimento dei migranti di due Stati nazionali
(segnatamente il Regno Unito e la Spagna) storicamente caratterizzati da approcci alle politiche
migratorie non sovrapponibili a quelli italiani, nel tentativo di comprendere se, dopo gli interventi di
“riavvicinamento normativo” operati dal legislatore dell’Unione si possa davvero parlare di
“approccio europeo” alla gestione dei flussi migratori e se tale approccio possa costituire o meno la
soluzione alle numerose problematiche che al giorno d’oggi presenta la gestione dei centri di
detenzione per migranti nel nostro Paese.
6 Abbiamo avuto modo di chiarire nel capitolo precedente come la normativa italiana attualmente vigente abbia
scavalcato le problematicità insite nell’istituto della detenzione amministrativa introducendo il reato di ingresso e
soggiorno illegale sul territorio dello Stato. Nondimeno dal 1998 al 2009 nel nostro paese è stata pratica comune la
detenzione sine delicto dei migranti e la prospettiva di un’eliminazione del reato di cui all’art. 10-bis che non sia
accompagnata da una completa revisione del sistema di trattenimento finalizzato all’espulsione, comporterebbe il
ritorno in auge di tale forma “pura” di detenzione amministrativa, di modo che è tuttora interessante indagare i
profili di vicinanza con altre ipotesi simili presenti nella legislazione italiana.
122
3.1. Tutela ante delictum: le misure di prevenzione personali.
Le misure di prevenzione, originariamente disciplinate dalla legge 27 dicembre 1956, n. 14237,
trovano oggi il proprio riferimento normativo nel d.l. 6 settembre 2011, n. 159, denominato «Codice
delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione». Si tratta di ipotesi in cui l’autorità di pubblica
sicurezza può disporre limitazioni della libertà personale8 di varia natura nei confronti di soggetti
che sono stati valutati come potenzialmente pericolosi per la collettività. L’applicazione delle
misure di prevenzione non rientra nella categoria delle conseguenze giuridiche del reato – da ciò
discende la definizione di misure ante o praeter delictum e la loro qualificazione come misure
amministrative o misure di polizia. La ratio di questa particolare tipologia di misure è da
rintracciare nella volontà dei legislatori di fine ottocento di «espellere dal sistema penale (…) la
previsione di provvedimenti di natura sostanzialmente repressiva svincolati dalla commissione di
fatti lesivi di beni giuridici, di cui il diritto penale premoderno era pervaso» (PAVARINI E
GUAZZALOCA 2004, 66). Le misure ante delictum escono in tal modo dal sistema penale per entrare
a far parte, assieme alle misure di sicurezza9, del sistema di prevenzione dell’ordinamento giuridico
italiano, sistema che tenta di “anticipare” il concretizzarsi dei reati facendo in modo che il “reo
presupposto” non sia materialmente messo nelle condizioni di commettere il delitto.
Le misure di prevenzione possono essere di natura personale o patrimoniale: queste ultime
(sequestro e confisca) hanno l’obbiettivo precipuo di sottrarre ai sospetti rei la disponibilità
materiale di beni che si trovano nella disponibilità di questi ultimi e che si suppongono di
provenienza illegittima. In questa breve analisi ci occuperemo solo delle misure di prevenzione
personali, poiché sono quelle che vanno ad incidere direttamente sul diritto alla libertà personale e
come tali hanno più affinità alle forme di detenzione amministrativa dei migranti.
7 La legge n. 1423/1956 è stata poi oggetto di numerose modifiche, a partire dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (che
si è occupata degli aspetti relativi alla prevenzione del fenomeno mafioso) per poi proseguire con la legge 22
maggio 1975, n. 152 (c.d. Legge Reale), la legge 3 agosto 1988, n. 327 e le leggi 19 marzo 1990, n. 55, 8 giugno
1992, n. 306 e 24 luglio 1993, n. 306. La stratificazione legislativa e la parcellizzazione delle disposizioni aveva
comportato una situazione di grave incertezza nell’interpretazione delle norme , a cui il legislatore ha finalmente
posto rimedio con l’elaborazione del Testo Unico nel 2011.
8 Con la definizione «limitazioni della libertà personale» sono intese, in senso stretto, quelle misure che restringono
l’ambito della libertà personale con particolare riferimento «alle facoltà e ai diritti che ineriscono alle esplicazioni
più preganti della personalità umana, spesso costituzionalmente presidiate, salve (…) le limitazioni imposte o
autorizzate dalla legge» (POLITI 2000, 17). Questa categoria va tenuta distinta da quella delle misure di privazione
della libertà personale, che ricomprende invece l’arresto, il fermo di polizia e la restrizione in carcere o in un luogo
ad esso assimilabile.
9 Le misure di sicurezza si distinguono dalle misure di prevenzione per un elemento strutturale essenziale:
presupposto per la loro applicazione è l’aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato (oltre all’esito
positivo del giudizio di pericolosità personale effettuato sul reo).
123
Destinatari di tali misure possono essere soltanto i soggetti appartenenti a determinate categorie,
specificamente individuate dalla legge:
a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;
b) coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi (ancora, in base ad elementi di
fatto) vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose
c) coloro il cui comportamento lascia ritenere che sino dediti alla commissione di reati in grado di
offendere o mettere in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la
tranquillità pubblica (valutazione che va sempre effettuata basandosi su elementi di fatto)
d) i soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'articolo 416-bis c.p. (associazione
per delinquere di stampo mafioso).
e) i soggetti indiziati di aver commesso uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice
di procedura penale ovvero del delitto di cui all'articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge
8 giugno 1992, n. 306. Il primo articolo fa riferimento ad un gruppo di reati di associazione a
delinquere finalizzati a commettere gravi delitti contro la persona o contro la fede pubblica e ai reati
commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni a delinquere di stampo mafioso o
avvalendosi delle condizioni da esse create. Il delitto a cui fa riferimento l’art. 12-quinques è invece
quello di trasferimento fraudolento o possesso ingiustificato di valori (commesso al fine di eludere
le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali)
f) coloro che, operando in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente
rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato (il riferimento è a reati molto gravi, come
quelli di attentato alla Costituzione, insurrezione armata contro i poteri dello Stato o sequestro di
persona a scopo di estorsione) oppure diretti alla commissione di reati con finalità di terrorismo
anche internazionale
g) coloro che compiano atti preparatori (definiti come «obiettivamente rilevanti») diretti alla
ricostituzione del disciolto partito fascista (ex art. 1 legge 20 giugno 1952, n. 645), in particolare
con l'esaltazione o la pratica della violenza. A questa categoria possiamo assimilare i soggetti a cui
fa riferimento l’art. 4, primo comma, lettera e) del Codice Antimafia (soggetti che abbiano fatto
parte associazioni politiche disciolte ai sensi della legge n. 645/1952 rispetto ai quali debba
ritenersi «per il comportamento successivo,che continuino a svolgere una attività analoga a quella
precedente»)
h) coloro che siano stati condannati per uno dei reati previsti dalla legge 2 ottobre 1967, n. 895 e dagli
articoli 8 e ss. della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (relativi alla fabbricazione, detenzione o uso di
armi da fuoco, munizioni o esplosivi) «quando debba ritenersi, per il loro comportamento
124
successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie» ma con le medesime
finalità che abbiamo indicato alla lettera f)
i) gli istigatori, i mandanti e i finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti (sono definiti come
finanziatori coloro che forniscono ai rei «somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui
sono destinati»)10
.
Tre sono le principali misure di prevenzione di natura personale: l’avviso orale, il rimpatrio con
foglio di via obbligatorio e la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. L’avviso orale, che
sostituisce l’antica diffida, è sostanzialmente un ammonimento emesso dal Questore, che intima ai
soggetti destinatari di «tenere una condotta conforme alla legge». Si tratta di una misura non
coercitiva, sostanzialmente blanda11
, il cui unico scopo appare, in realtà, quello di poter chiedere
l’applicazione della sorveglianza speciale – misura che può essere adottata solo se il destinatario
dell’avviso non abbia recepito l’ingiunzione. L’avviso orale si applica solo alle prime tre categorie
della nostra lista di soggetti e lo stesso vale per la misura del rimpatrio con foglio di via obbligatorio
– i destinatari di quest’ultima misura però devono anche trovarsi al di fuori del proprio luogo di
residenza e devono essere qualificati come «pericolose per la sicurezza pubblica». Rispetto a questi
soggetti il Questore può appunto emanare il foglio di via obbligatorio, imponendo loro di tornare
nel comune di residenza (senza doverli tradurre coattivamente) e impedendogli di ritornare per un
periodo di tempo (non superiore a tre anni), a meno di non essere previamente autorizzati.
Quanto infine alla sorveglianza speciale, si tratta di una misura applicabile a tutte le categorie di
soggetti che abbiamo elencato supra, se si tratta di persone identificate come pericolose per la
pubblica sicurezza. É il Tribunale ordinario, con decreto motivato a determinare l’applicazione di
questa misura e a stabilirne la durata, che non può essere inferiore ad un anno o superiore a cinque.
10
Risulta chiaro anche a colpo d’occhio come destinatari delle misure di prevenzione possano essere indistintamente
soggetti nei confronti dei quali vi siano fortissimi e fondati sospetti che si preparino a compiere reati di grave natura,
ma il cui comportamento non sia ancora (o non sia pienamente) qualificabile come reato (ad esempio le persone che
rientrano nelle categorie che abbiamo segnato come f) e g)), come pure soggetti nei confronti dei quali non vi sono
che sospetti, a volte anche piuttosto labili (pensiamo alla lettera dell’ipotesi sub c): «persone il cui comportamento
lascia ritenere»…). Questa elasticità della norma, che mescola soggetti la cui pericolosità è più o meno certa e più o
meno grave e li sottopone tutti alle medesime restrizioni della libertà personale, ne rappresenta, a nostro avviso, uno
dei punti più deboli.
11 Se però i destinatari dell’avviso orale sono persone che sono già state definitivamente condannate per un delitto non
colposo il Questore può aggiungere alla misura una corposa serie di divieti. La maggior parte di queste proibizioni
riguarda il possesso di armi o materiali che potrebbero essere utilizzati per commettere nuovi reati (il che appare
anche comprensibile, nell’ottica special-preventiva dell’istituto) ma l’elenco delle proibizioni si estende anche
all’acquisto o all’uso di prodotti che rientrano pienamente nell’ambito del quotidiano di ogni persona. Estremamente
generico è, ad esempio, il divieto di detenere «sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo
sprigionarsi delle fiamme» oppure «programmi informatici ed altri strumenti di cifratura»: questo genere di
limitazioni rende chiaro come anche la più lieve delle misure di prevenzione si presenti fortemente orientata verso la
restrizione della libertà personale.
125
Concretamente la sorveglianza speciale consiste nell’imposizione da parte dell’autorità giudiziaria
di una lunga serie di prescrizioni, la cui osservanza è posta sotto il controllo dell’autorità di
pubblica sicurezza: «vivere onestamente, (…) rispettare le Leggi (…), non allontanarsi dalla dimora
senza preventivo avviso all'autorità locale di pubblica sicurezza (…), non associarsi abitualmente
alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza
(…), non rincasare la sera più tardi e non uscire la mattina più presto di una data ora e senza
comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all'autorità locale di
pubblica sicurezza (…), non detenere e non portare armi (…), non partecipare a pubbliche
riunioni». Inoltre, se il destinatario del decreto è una persona «indiziata di vivere con il provento di
reati» il magistrato aggiunge ulteriori prescrizioni: quella di darsi alla ricerca di un impiego, quella
di fissare la propria dimora e di farla conoscere all'autorità' di pubblica sicurezza (il tutto «entro un
congruo termine») e infine quella di non allontanarsi dalla dimora scelta senza preavviso alla stessa
autorità di polizia. Se queste previsioni non fossero considerate sufficienti il magistrato può poi
sempre assommare al contenuto “basilare” della sorveglianza speciale il divieto di soggiorno in uno
o più comuni o provincie oppure l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora
abituale12
. Infine, quale norma di chiusura, il comma quinto dell’art. 8 del Codice Antimafia
prevede che il Tribunale possa imporre al soggetto “presupposto pericoloso” «tutte quelle
prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale». La violazione
delle prescrizioni dell’autorità giudiziaria che costituiscono il contenuto concreto della misura della
sorveglianza speciale integrano una fattispecie di reato punita, ex art. 75 del Codice Antimafia, con
l’arresto da tre mesi a un anno o con la reclusione da uno a cinque anni, se l’inosservanza riguarda
l’obbligo o il divieto di soggiorno (in tal caso è anche consentito l’arresto fuori dai casi di
flagranza).
A fianco di questa terna di misure, che costituisce il nucleo originario del sistema preventivo di
polizia, va segnalato anche il divieto di accedere alle manifestazioni sportive (c.d. DASPO),
introdotto dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401 con la particolare finalità di contrastare la violenza
negli stadi in occasione delle partite di calcio. Che si tratti a tutti gli effetti di misura di prevenzione
sembra confermato dalle affermazione fatte dai giudici della Corte Costituzionale nella Sentenza 4
dicembre 2002, n. 512, che hanno respinto l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 6 comma 3
12
Si discute in dottrina se l’obbligo di soggiorno nel comune in cui si risiede o dimora e il divieto di soggiorno in uno
o più comuni o provincie siano da considerare come autonome misure di prevenzione o come parte integrante delle
previsioni che vanno a costituire la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. In favore della prima ipotesi si
esprime POLITI (2000, 22) ricordando che l’art. 14 della legge 31 dicembre 1991, n. 419 (che ha istituito il Fondo di
sostegno per le vittime di richieste estorsive) parla dell’applicazione della «misura dell’obbligo di soggiorno»
considerandola autonomamente.
126
della l. 401/1989 per la mancata previsione tra i presupposti per l’applicazione del DASPO della
clausola di «eccezionale necessità ed urgenza». La misura preventiva in questione si applica a
soggetti che siano già stati condannati (anche con sentenza non definitiva) o semplicemente
denunciati nei cinque anni precedenti «per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone
o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano
incitato, inneggiato o indotto alla violenza»13
. A queste persone il Questore può impedire l’accesso
ai luoghi in cui si svolgono determinati eventi sportivi (sia in Italia che all’estero) e ai luoghi
«interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono» a questi eventi
(luoghi che devono essere «specificamente individuati» nel provvedimento). Il Questore può inoltre
ordinare ai destinatari del divieto di comparire di persona una o più volte negli uffici dell’autorità di
polizia nell’arco di tempo in cui si svolge la manifestazione sportiva, a rafforzare ulteriormente
l’efficacia della misura. In quest’ultimo caso (e solo in quest’ultimo) la misura dev’essere
convalidata dall’autorità giudiziaria: il Questore comunica immediatamente il provvedimento al
Procuratore della Repubblica, il quale a sua volta chiede, entro 48 ore dalla notifica, all’interessato
la convalida del Giudice delle Indagini Preliminari. Se il P.M. non avanza la richiesta oppure il
G.I.P. non dispone la convalida entro le 48 ore successive il provvedimento perde ogni efficacia. Il
divieto di accedere alle manifestazioni sportive non può avere durata inferiore ad un anno o
superiore a cinque anni, in analogia con quanto previsto per la sorveglianza speciale di pubblica
sicurezza.
La permanenza nel nostro ordinamento di un sistema di misure di prevenzione ante delictum come
quello che abbiamo delineato fin qui, presta il fianco alle critiche sotto diversi profili. Come per la
detenzione amministrativa dei migranti profili di incompatibilità sussistono con diverse previsioni
costituzionali: il principio di inviolabilità della libertà personale sancito dall’art. 13 (che, lo
ricordiamo ancora una volta, fa riferimento non solo alla detenzione ma a «qualsiasi altra
restrizione» di tale libertà); i principi di materialità, necessaria offensività e tassatività di cui all’art.
25 comma secondo Cost. e la presunzione di non colpevolezza enunciata dall’art. 27, secondo
comma Cost.. Prendendo in considerazione anche soltanto la misura della sorveglianza speciale
estremo stupore desta la presenza di previsioni così generiche come quelle dell’art. 8 del Codice
Antimafia: l’utilizzo di locuzioni come «vivere onestamente» o «rispettare le leggi» comporta
13
Questo il criterio di ordine generale. A questa categoria di soggetti vanno affiancati coloro che siano stati condannati
o denunciati per alcuni specifici delitti (la cui commissione è sempre associata allo svolgimento di manifestazioni
sportive): le norme incriminatrici prese in considerazione sono segnatamente l’articolo 4, primo e secondo comma,
della legge 18 aprile 1975, n. 110; l'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152; l'articolo 2, comma 2, del decreto-
legge 26 aprile 1993, n. 122 e gli articoli 6-bis (commi 1 e 2) e 6-ter della stessa l. 13 dicembre 1989, n. 401.
127
lasciare uno spazio di manovra molto ampio all’autorità di polizia, che può interpretare il
comportamento del sospetto reo secondo criteri discrezionali e trarne poi tutte le conseguenze sul
piano penale. Inoltre prescrizioni dirette a coloro che sono destinatari anche dell’obbligo di
soggiorno (che, lo ricordiamo, può essere suggerito dall’autorità di polizia) configurano un regime
del tutto simile a quello degli arresti domiciliari e prescrivere una limitazione della libertà personale
sulla base del solo sospetto ci pare davvero incompatibile con la struttura dello stato di diritto. Le
misure di prevenzione personali hanno come destinatari soggetti che risponderebbero di precisi
illeciti penali, se vi fossero prove producibili in giudizio delle loro attività: in mancanza di una base
probatoria in grado di essere presentata davanti all’autorità giudiziaria la presunzione di innocenza
dovrebbe prevalere e nessuna limitazione della libertà personale potrebbe esser loro imposta.
L’istanza della difesa sociale fa invece «arretrare» le restrizioni dell’habeas corpus «fino alla soglia
del mero sospetto» (PAVARINI E GUAZZALOCA 2004, 67) e se a questo aggiungiamo le perplessità
che fondatamente sono state espresse sull’efficacia effettiva di questo genere di misure nel
prevenire i delitti14
ci sembra doveroso chiederci se non sia giunto il momento di una revisione
sostanziale della materia o addirittura dell’espulsione completa delle misure di prevenzione
personali dall’ordinamento.
3.2. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le ordinanze di necessità ed
urgenza dei sindaci.
Proseguendo con l’analisi delle altre ipotesi di limitazione della libertà personale assimilabili a
quelle che vedono protagonisti i migranti secondo le norme del Testo Unico prendiamo ora in
considerazione una fattispecie di applicazione sicuramente più limitata rispetto alle misure di
prevenzione ma altrettanto significativa: il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Alle radici di questa
procedura si trova la legge 14 febbraio 1904, n. 36 (denominata «Disposizioni sui manicomi e sugli
alienati e custodia e cura degli alienati»), che prevedeva la possibilità di disporre il c.d. “ricovero
coatto” nei confronti delle persone «affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando
siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo»: la disciplina dell’epoca in materia
14
Sull’utilità del Daspo nel prevenire effettivamente lo scatenarsi delle violenze negli stadi si discute da più di dieci
anni, invocandone da una parte l’eliminazione dall’altra l’estensione agli episodi di violenza commessi in contessti
diversi da quello delle manifestazioni sportive (cfr. Maroni “Daspo nelle piazze anche da subito”: “Mi sembra una
proposta interessante quella di Mantovano” www.rainews24.it 18 dicembre 2010). Addirittura, la misura preventiva
della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno applicata a soggetti sospettati di appartenere ad associazioni
mafiose o di esserne a capo, è stata accusata di essere uno degli elementi che hanno contribuito alla diffusione dei
fenomeni di criminalità organizzata su tutto il territorio italiano.
128
di sanità mentale era fortemente orientata verso le finalità di difesa sociale più che verso la tutela
della salute e degli altri diritti del paziente, e pur con le modifiche strutturali che ha conosciuto nel
corso del novecento quest’impronta “difensiva” è rimasta costante nella norma. Il T.S.O. come lo
conosciamo oggi è stato istituito dalla c.d. Legge Basaglia (l. 13 maggio 1978, n. 180) ed è
attualmente disciplinato dagli artt. 33, 34 e 35 della di poco successiva legge 23 dicembre 1978, n.
833 (che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale). Si tratta di un provvedimento dalle
caratteristiche particolari, che potremmo definire di natura medico-giuridica: gli accertamenti e i
trattamenti sanitari obbligatori sono proposti da un medico e attuati dai servizi sanitari pubblici
nazionali, ma sono disposti dal sindaco «nella sua qualità di autorità sanitaria».
Di norma ogni persona che si sottoponga ad un trattamento sanitario lo fa di propria spontanea
volontà; perché si possa ricorrere ad un A.S.O. o T.S.O. (con obbligo di degenza ospedaliera)
devono ricorrere determinati presupposti: il destinatario della misura dev’essere affetto da
«alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici», deve aver rifiutato tali
interventi e al contempo non dev’essere possibile, date «le condizioni e le circostanze», metter in
atto «tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere» (che dovrebbero costituire, nei casi
normali, la modalità primaria di cura delle situazioni di sofferenza psichica). Il provvedimento
dev’essere proposto e motivato da un medico della U.S.L., entro le 48 ore seguenti esso deve
concretizzarsi tramite l’approvazione del sindaco, che a sua volta è tenuto a trasmetterlo al giudice
tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune. Entro le 48 ore successive il giudice convalida o
non convalida il T.S.O. e in quest’ultimo caso la persona che è stata tradotta e trattenuta
coattivamente nella struttura ospedaliera15
dev’essere immediatamente lasciata libera di andarsene.
Se regolarmente convalidato il trattenimento ha una durata normale di sette giorni, ma può essere
prolungato ad libitum per periodi della medesima entità se il sanitario responsabile del servizio
psichiatrico dell’ U.S.S.L. lo ritiene necessario e ha formulato «in tempo utile» richiesta motivata di
proroga al sindaco. Sia la persona sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio sia «chiunque vi
abbia interesse» (familiari e non) può presentare ricorso al Tribunale competente contro la
convalida emessa dal giudice tutelare e chiedere la sospensione del provvedimento sindacale in
attesa che si svolga l’udienza di comparizione16
.
15
Segnatamente, gli unici luoghi in cui può essere eseguito il T.S.O. sono i reparti di psichiatria esistenti negli ospedali
pubblici (denominati Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura o S.P.D.C.). Il ricovero in un altro reparto dell’ospedale
pubblico o in qualunque altra struttura medico-psichiatrica o sociale a natura privata può essere solo e soltanto
volontario.
16 Sulla richiesta di sospensiva il Tribunale è tenuto a decidere entro 10 giorni. Questa previsione ci pare
particolarmente problematica visto che il periodo normale di applicazione del T.S.O. (seppur prorogabile) è di sette
giorni e in tal modo il giudice rischia di decidere sulla sospensiva quando il ricovero coatto ha già cessato
autonomamente di esistere.
129
E’ chiaro che il T.S.O., nelle intenzioni del legislatore, si propone come strumento decisamente
innovativo e migliorativo rispetto al precedente regime di “internamento” dei sofferenti psichiatrici:
il fine della procedura vuole essere quello della tutela della salute e della sicurezza del paziente e la
norma di legge prescrive esplicitamente che il trattamento dev’essere eseguito «nel rispetto della
dignità della persona e dei diritti civili e politici compreso per quanto possibile il diritto alla
libera scelta del medico e del luogo di cura» (art. 33, comma 2)17
. Nondimeno si tratta di una
limitazione della libertà personale di rilevante entità: non solo si è trasportati in un luogo contro la
propria volontà tramite la forza pubblica e si è lì trattenuti con mezzi di tipo coercitivo, ma si è
anche sottoposti, contro la propria volontà a trattamenti sanitari (farmacologici o meno) che
possono essere dotati di un alto grado di invasività e incidere in modo non indifferente sull’integrità
psicofisica del malato psichiatrico18
. Diverse falle sono poi ravvisabili nella disciplina contenuta
nella l. 833/1978, a cominciare da quella più grave, costituita dal fatto che il legislatore ha previsto
che i presupposti per l’applicazione del T.S.O. possano essere certificate da qualunque esercente la
professione medica, a partire dal medico di famiglia, senza che sia necessario che questi abbia una
specializzazione in psichiatria. In secondo luogo nulla dice la norma rispetto all’obbligo di
notificare all’interessato il provvedimento del sindaco, con il risultato che il destinatario non può
essere considerato, almeno sotto il profilo formale, a conoscenza dell’emanazione di un T.S.O. nei
suoi confronti (e di conseguenza non è messo in grado di esercitare i propri diritti di difesa nei
confronti dell’atto, nonostante quanto detto supra in merito al mantenimento dei diritti civili e
politici). Infine ci sembra particolarmente preoccupante, anche se attinente non al piano della norma
ma della sua applicazione, la prassi accettata da sindaci e giudici tutelari di utilizzare prestampati o
certificazioni che si limitano ad enunciare la presenza dei tre presupposti per l’applicazione della
misura: la motivazione medica con riferimento al caso specifico costituisce la base giuridica del
provvedimento e la sua mancanza fa venir meno la legittimità del trattamento, come ha avuto modo
di ribadire anche la Corte di Cassazione19
.
17
Applicazioni dirette di questa previsione di carattere generale possono essere considerate le disposizioni che
prevedono che il T.S.O. debba essere comunque accompagnato da accompagnati da «iniziative rivolte ad assicurare
il consenso e la partecipazione da parte di chi vi e'obbligato» e che in ogni caso al soggetto sottoposto a
trattenimento nella struttura ospedaliera debba essere garantita la possibilità di comunicare con chiunque desideri.
18 Si pensi alla famigerata terapia elettroconvulsivante (c.d. elettroshock) che ancor oggi viene praticata come terapia
per alcune forme di depressione grave (ed è disciplinata dalla Circolare 15 febbraio 1999 del Ministero della Salute)
oppure ai rischi che corre il paziente psichiatrico di sviluppare una dipendenza dagli psicofarmaci che gli vengono
somministrati.
19 Cfr. Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 27 marzo 1998
130
In sintesi una restrizione della libertà personale che possiamo considerare più pesante (seppur
tendenzialmente di applicazione molto meno prolungata nel tempo) rispetto alle misure di
prevenzione, applicata a soggetti che non sono neppure indiziati o sospettati di aver commesso o
voler commettere un reato ma che, in relazione alla loro condizione di malati psichiatrici20
hanno
assunto dei comportamenti che li hanno fatti ricadere nella categoria dei soggetti pericolosi per la
società.
Il trattamento sanitario obbligatorio si colloca in un area grigia, a cavallo tra la cura e l’esclusione
sociale, tra l’assistenza alle situazioni di fragilità e la creazione di outcasts che vanno tenuti ben
lontani dagli occhi e dal cuore della collettività. Il paragone con la detenzione amministrativa dei
migranti è sul punto, perfetto: nel sistema dei centri italiani assistenza e accoglienza si mescolano
inestricabilmente con la privazione della libertà personale, l’umanitarismo è inscindibile dalla
carcerazione. Come il malato mentale non può essere sottoposto a T.S.O. in qualunque momento,
ma solo se rifiuta le cure che gli sono proposte/imposte così il migrante non viene trattenuto nei
C.I.E., in linea di principio, solo perché migrante, ma perché ha rifiutato di andarsene
volontariamente: coloro che lo Stato punisce con queste misure sono i soggetti non collaborativi21
.
L’ultimo istituto che prendiamo in considerazione nella nostra breve analisi della normativa italiana
che presenta affinità con quella in materia di immigrazione è quello delle ordinanze di necessità ed
urgenza emesse dal sindaco. Ad un primo sguardo le affinità con le altre misure che abbiamo preso
in considerazione non appaiono così evidenti: si tratta infatti di provvedimenti (detti anche
«ordinanze contingibili ed urgenti» o «ordinanze extra ordinem») che il sindaco emana in
particolari casi emergenziali, con la finalità di tutelare la collettività che egli rappresenta. La materia
è attualmente regolamentate da due norme (in verità piuttosto scarne) contenute nel Testo Unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.l. 18 agosto 2000, n. 267): l’art. 50, comma prevede
che queste particolari ordinanze sindacali possano essere emanate «in caso di emergenze sanitarie o
20
Senza entrare nel discorso dell’antipsichiatria, che misconosce l’esistenza delle malattie mentali come tali, possiamo
qui sottolineare ancora una volta come effettuare una corretta diagnosi di malattia mentale (e quindi la correlata
determinazione del livello di pericolosità del malato, per sé o per gli altri) sia un’operazione di una difficoltà
estrema, soprattutto se a prendere la decisione in merito è, come la legge permette, un medico generico non
specializzato in psichiatria.
21 Ricordiamo qui la lettera dell’art. 14 comma 5 del T.U. dell’immigrazione, che stabilisce la possibilità di protrarre il
trattenimento all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione per un periodo superiore a sei mesi se non è
stato possibile eseguire l’espulsione in quest’arco di tempo «nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo,
a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato». In queste parole ci
sembra quasi di sentire la delusione e il disappunto del legislatore nel constatare che, nonostante i sei mesi di
detenzione e la buona volontà degli agenti di polizia, il “clandestino” non si è ancora deciso a modificare il suo
comportamento e collaborare alla propria espulsione.
131
di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale» e l’art. 54 ne consente l’emanazione «al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
L’ordinanza emanata dal sindaco è, in linea generale, un provvedimento con il quale il primo
cittadino, nella sua qualità di ufficiale di Governo e capo dell’amministrazione locale, fa sorgere in
capo a uno o più soggetti un determinato obbligo di fare o non fare (la cui inosservanza è, in alcuni
casi, sanzionata anche penalmente): si tratta normalmente di atti il cui contenuto e i cui presupposti
applicativi sono predeterminati dalla legge, nel pieno rispetto del principio di legalità. Le ordinanze
di necessità e urgenza si distaccano da questo modello: non hanno un contenuto predeterminato dal
legislatore, il tipo di azione da intraprendere per risolvere le situazioni emergenziali è determinato
discrezionalmente dalla pubblica autorità, come pure le modalità con cui tali azioni devono essere
portate avanti.
I parametri a cui il Sindaco deve attenersi nell’esercizio dei suoi poteri extra ordinem sono stati
ribaditi più volte dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato22
: a) la presenza di uno stato di
necessità, da intendersi come situazione di fatto che renda improrogabile l’intervento immediato
della Pubblica Amministrazione b) la presenza di uno stato d’urgenza, che si concretizza
nell’impossibilità di posticipare l’intervento a causa dell’inevitabilità della situazione di un pericolo
imminente c) l’impossibilità di ricorrere ai mezzi ordinari messi a disposizione dall’ordinamento a
causa dell’imprevedibilità dell’emergenza da fronteggiare (si deve trattare quindi di un evento
eccezionale, accidentale e straordinario). Se questi presupposti sono integrati l’ordinanza può essere
emanata e il suo contenuto può anche derogare la norma di legge23
, anche se le deroghe non devono
mai intaccare norme di rango costituzionale o i principi generali dell’ordinamento (Cfr. sentenze n.
8/1956 e 26/1961 della Corte Costituzionale).
22
Cfr. a titolo di esempio la Sentenza 7 maggio 2003, n.2387 o la sentenza 17 settembre 2008, n.4436 del Consiglio di
Stato.
23 Questa caratteristica dei provvedimenti in esame ha fatto nascere in passato un dibattito dottrinale piuttosto ampio su
quale natura (amministrativa o normativa) dovesse essere attribuita loro. Secondo una tesi minoritaria le ordinanze
contingibili ed urgenti sarebbero atti sostanzialmente normativi e solo formalmente amministrativi, in relazione al
contenuto generale ed astratto di questi provvedimenti e alla forza innovatrice rispetto all’intero ordinamento che li
caratterizza. La diatriba è stata risolta ancora una volta dal Consiglio di Stato, che ha ribadito come tali ordinanze
abbiano natura «formalmente e sostanzialmente amministrativa». Tenendo in considerazione il fatto che in alcuni
casi le ordinanze extra ordinem hanno come destinataria l’intera collettività, mentre in altri si rivolgono a singoli
determinati il Consiglio di Stato le ha definite come «atti amministrativi atipici, dotati di particolare forza
derogatoria rispetto a talune norme dispositive di legge».
132
Dopo la riforma dei poteri di ordinanza dei Sindaci avvenuta nel 200824
, che ha completamente
riscritto l’art. 54 del T.U. sull’ordinamento degli enti locali, si è assistito ad un fenomeno di forte e
progressiva espansione delle ordinanze di necessità e urgenza in materia di «sicurezza urbana»,
dirette ad introdurre divieti ed obblighi finora completamente inediti per il nostro ordinamento: nel
periodo dal 2008 al 2009 l’81% dei comuni con popolazione compresa tra 100.000 e 250.000
abitanti e nove su dodici dei comuni con popolazione superiore avevano adottato provvedimenti di
questo genere (ANCI 2009, 13). Il Sindaco diviene in tal modo, nelle parole utilizzate dal T.A.R. del
Lazio25
«soggetto attuatore di regole all’uopo stabilite (…) in relazione alle domande sociali di
sicurezza che di volta in volta le singole comunità pongono». Come è stato fatto notare da alcuni
autori si tratta però di regole «si riducono alle scarne previsioni di un decreto ministeriale, di natura
non regolamentare» (CARAPELLUCCI 2010, 322), alle previsioni di un testo che si limita ad indicare
le finalità per le quali il Sindaco può intervenire e a specificare sinteticamente la terminologia
contenuta nel novellato art. 54 T.U..
Il decreto in questione26
è in effetti particolarmente interessante ai fini della nostra analisi:
innanzitutto esso stabilisce che cosa debba intendersi per incolumità pubblica («l’integrità fisica
della popolazione») e sicurezza urbana («un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a
difesa (…) del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di
vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale); in secondo luogo predispone
un elenco delle situazioni che il sindaco può (o meglio deve, nella lettera piuttosto perentoria del
decreto ministeriale) «prevenire e contrastare» tramite lo strumento delle ordinanze di necessità ed
urgenza. Si tratta di cinque ipotesi, tutte attinenti a fenomeni definibili come di “degrado urbano”,
che non hanno evidentemente nulla a che fare con i presupposti di necessità, urgenza e
imprevedibilità che dovrebbero fungere da base normativa per l’attribuzione di un potere
ordinatorio così ampio come quello insito in questa tipologia di provvedimenti27
.
24
La riforma è avvenuta ad opera del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, poi convertito con modificazioni in legge
24 luglio 2008, n. 125.
25 Tar del Lazio, sentenza 22 dicembre 2008, n. 12222.
26 Si tratta Decreto del Ministero dell'Interno 5 agosto 2008, denominato «Incolumità pubblica e sicurezza urbana.
Interventi del Sindaco».
27 Qui di seguito, le cinque ipotesi prese in considerazione dall’art. 2 del Decreto Ministeriale:
a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi, quali lo
spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili e i
fenomeni di violenza legati anche all'abuso di alcool;
b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne
impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana;
c) l'incuria, il degrado e l'occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);
133
L’espandersi dell’area di applicazione del potere di ordinanza «in deroga» dei Sindaci28
, che
costituisce del resto solo uno dei casi più evidenti della generale espansione dell’area dei
provvedimenti emergenziali29
, fa aumentare ancora di più i dubbi di legittimità costituzionale che
hanno sempre circondato questo strumento, che sembra in primo luogo predisposto per aggirare il
principio di legalità e in secondo luogo per evitare le “strettoie” legislative alla decretazione
parlamentare d’urgenza imposte dall’art. 77 Cost..
Le preoccupazioni maggiori in merito all’esercizio dei poteri extra ordinem rimangono quelle legate
all’assenza di qualunque determinazione del contenuto del provvedimento: trattandosi di atti che
possono derogare alle leggi ordinarie, apparentemente nulla impedirebbe al Sindaco di predisporre
tramite ordinanza limitazioni più o meno intense alla libertà personale dei cittadini come degli
stranieri (pensiamo a ipotesi estreme, come l’imposizione di forme di coprifuoco distribuite per
quartieri o le limitazioni all’accesso a determinate zone della città o l’imposizione di trattamenti
sanitari a determinate categorie di persone considerate “rischiose” per la salute pubblica). Situazioni
di natura simile a quelle a cui abbiamo appena accennato, si sono in realtà già avverate e, seppur
censurate dall’autorità giudiziaria30
, ci danno un chiaro segno che la linea seguita dalle autorità di
d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle
di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico;
e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica
decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi
pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l'accesso ad essi.
28 Nell’art. 38 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (sostituita poi dal d.l. 267/2000) le materie nelle quali il sindaco poteva
intervenire utilizzando le ordinanze contingibili ed urgenti erano specificamente individuate (sanità, igiene, edilizia
e polizia locale); con la riforma del 2000 la lettera della norma diventa estremamente più generica e il primo
cittadino è autorizzato ad intervenire in qualunque ambito purché l’intervento sia motivato dalla volontà di
«prevenire e di eliminare» non meglio specificati «gravi pericoli che minacciano l'incolumità' pubblica e la
sicurezza urbana»
29 Pensiamo solo ai poteri straordinari esercitabili dal Governo nel caso di eventi disastrosi che rientrino nelle
competenze del Servizio Nazionale di Protezione civile (ex art. 2 della l. 24 febbraio 1992, n. 225 sono le «calamità
naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri
straordinari»), che sono stati estesi in anni più recenti anche alle ipotesi di «grandi eventi» (Art. 5-bis, comma
quinto, d.l. 7 settembre 2001, n. 343).
30 Pensiamo ad esempio all’ordinanza n. 81/2008 emanata dal sindaco del comune di Verona al fine di contrastare la
prostituzione in strada, che vietava a chiunque di «contattare soggetti che esercitano l’attività di meretricio», come
pure di «assumere atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti che manifestino
inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di meretricio». Le premesse dell’ordinanza erano
costituite dalla constatazione che «il fenomeno della prostituzione su strada crea nei cittadini veronesi un importante
senso di insicurezza» e dalla valutazione che la presenza delle prostitute sarebbe stata foriera di un «aumento non
solo del senso di insicurezza percepita dalla cittadinanza ma anche di (…) conseguenze negative per l’ordinato e
sicuro vivere civile», anche perché «alcune prostitute con il loro atteggiamento offendono la pubblica decenza,
mostrandosi in abiti succinti e in alcuni casi con le parte intime esposte». Lasciando da parte l’ovvia constatazione
che una situazione come quella della prostituzione in strada appare caratterizzata più da elementi di cronicità che di
necessità e urgenza, vogliamo qui ricordare che il T.A.R. di Venezia ha avuto modo di stabilire che il
provvedimento in questione costituiva una compressione ingiustificata ed irragionevole della libertà fisica e morale
di soggetti non individuabili (che pongono comunque in essere una condotta di per sé non illecita), incidendo sul
134
governo del territorio è quella dell’utilizzo sempre più massiccio dei provvedimenti extra ordinem
per risolvere problematiche del tutto ordinarie. A questo si deve aggiungere la prospettiva aperta
dalla Sentenza n. 264 del 24 aprile 2011 emessa dal T.A.R. di Pescara che ha constatato come nel
nuovo Codice del processo amministrativo31
le ordinanze di necessità e urgenza, non siano più
incluse nel novero degli atti relativamente ai quali la cognizione dell’autorità giudiziaria è estesa
anche al merito. Osservando questa discrepanza, i giudici del Tribunale amministrativo abruzzese
ne hanno tratto la conseguenza che la discrezionalità del Sindaco può ad oggi essere oggetto di
valutazione in sede giurisdizionale soltanto sotto i «profili di logicità e coerenza della motivazione,
anche in relazione alla veridicità dei presupposti di fatto considerati», ma non sotto a quelli «relativi
alla sufficienza ed alla attendibilità delle disposte istruttorie ed alla convenienza, opportunità ed
equità delle determinazioni adottate».
Sulla base di quanto abbiamo detto finora ci pare di poter formulare una conclusione: le ordinanze
di necessità ed urgenza si iscrivono pienamente all’interno di quel sistema di misure coercitive
presenti nel nostro ordinamento che non si pongono come finalità ultima la repressione di
comportamenti antigiuridici, ma il controllo e il governo di persone considerate fuori luogo nella
società. L’«esclusione sociale dei gruppi bersaglio» (MARGARA 2009, 69) passa, oltre che dalla
carcerazione vera e propria, anche da misure come quelle in analisi.
La constatazione che in alcuni casi questo tipo di riescano effettivamente a contenere le situazioni
di disagio, a permetter la gestione delle reali emergenze32
e a controllare individui che sulla base di
elementi concreti possono essere etichettati come pericolosi per la collettività, non basta a
giustificar l’ampiezza e l’incisività delle limitazioni alla libertà personale che esse impongono e
l’incredibile grado di discrezionalità con le quali possono essere applicate. La legislazione in
materia di immigrazione (in particolare, ma non solo, quella concernente la detenzione
diritto alla libertà sessuale, che costituisce una delle modalità essenziali di espressione della persona umana e della
sua libertà personale (cfr. Ordinanza n. 22 dell’8 gennaio 2009). Nonostante questo l’ordinanza de qua è stata
riproposta in forme più o meno simili negli anni successivi e ha trovato riscontro anche nell’attività ordinatoria dei
sindaci dei comuni limitrofi a quello di Verona (cfr. FEDERICA VALBUSA Sona, l’ordinanza non basta: La regionale
11 resta a luci rosse, in “L’Arena”, 22 febbraio 2012).
31 Cfr. d.l. 2 luglio 2010, n. 104. L’art. 134 del Codice del processo amministrativo è stato oggetto di una modifica da
parte del d.l. 15 novembre 2011, n. 195 e di una pronuncia di parziale illegittimità costituzionale da parte della
sentenza 20 giugno 2012, n. 162, ma né il legislatore né la Consulta si sono espressi per il ripristino delle ordinanze
di necessità ed urgenza tra le materie di giurisdizione estesa al merito, sicché è da ritenere che l’interpretazione data
dal T.A.R. abruzzese sia ad oggi ancora perfettamente valida.
32 In dottrina la giustificazione più diffusa per l’esistenza dei provvedimenti sindacali extra ordinem è quella che
attribuisce loro il ruolo di colmare le inevitabili lacune dell’ordinamento, che non può predisporre soluzioni
articolate e precise per ogni situazione emergenziale. Se questo ci appare vero per le emergenze sanitarie o di igiene
pubblica, che possono presentarsi in modi estremamente variegati e necessitano in ogni caso di interventi di
contenimento immediato, non lo è affatto, lo ripetiamo, per le ipotesi prese in considerazione dall’ art. 54 del T.U.
enti locali, come integrato dalle disposizioni del Ministero dell’Interno.
135
amministrativa) si presenta al contempo come modello di sperimentazione e punto di emersione di
correnti sotterranee radicate da tempo nel nostro ordinamento. Il timore è che si avveri quello che
denunciava DONINI (2009, 127) rispetto all’introduzione del c.d. reato di immigrazione clandestina,
che l’ossessione securitaria finisca per asservire il diritto penale, amministrativo e penitenziario alle
funzioni di pubblica sicurezza, fino a farlo diventare un «diritto di polizia penalmente armato con
scopi assorbenti di prevenzione generale»: se un’inversione di tendenza non arriva dal legislatore
italiano né da quello sovra europeo si tratta di una prospettiva con la quale dovremo ben presto
iniziare a confrontarci.
3.3. Fortezza Europa: geografia e disciplina normativa dei campi nei
paesi dell’Unione.
Fino al secondo dopo guerra il fenomeno migratorio in Europa è stato piuttosto contenuto: era il
vecchio continente a produrre emigranti verso il resto del mondo, e se fenomeni di immigrazione
esistevano anche fra Stati confinanti (pensiamo alle relazioni tra Italia e Svizzera), si trattava di
cifre molto minori rispetto a quelle rappresentate dalle partenze in uscita per altri continenti.
L’inversione di tendenza si è avuta quando il nucleo degli stati dell’Europa centrale, piegati dal
conflitto mondiale, hanno cominciato a cercare presso gli Stati periferici della stessa Europa e nelle
proprie ex-colonie lavoratori stranieri da impiegare nella ricostruzione del territorio, nell’attesa di
una nuova fase di sviluppo economico. Flussi migratori costanti hanno iniziato a provenire dalla
Spagna, dall’Italia, dal Portogallo, dalla Grecia e dalla Yugoslavia e a questi sono andati
sommandosi quelli provenienti dal subcontinente indiano (verso l’Inghilterra) e dal Nord Africa
(principalmente verso la Francia).
Questa prima ondata migratoria ha subito un brusco arresto verso la metà degli anni ’70: la crisi
petrolifera e le conseguenti problematiche economiche hanno portato con sé la chiusura delle
frontiere ai nuovi immigrati, anche se un numero costante di stranieri ha continuato ad essere
ammesso all’interno delle nazioni europee tramite le procedure di ricongiungimento familiare, le
richieste di asilo politico o umanitario e le politiche di re-nazionalizzazione di alcune comunità
situate all’estero ma legate da forti connessioni con lo Stato di accoglienza33
. La seconda fase di
33
Un esempio di quest’ultimo fenomeno è la politica di riconoscimento adottata dalla Germania nei confronti dei
cosiddetti Aussiedler e Spätaussiedler (“Rimpatriati” e “Rimpatriati tardivi”), ovvero gli individui appartenenti a
gruppi di popolazioni definiti come deutsche Volkszugehörigkeit (“di etnia tedesca”) ma costretti per ragioni storiche
a stabilirsi in aree di reinsediamento nelle allora repubbliche sovietiche. Il reingresso nella Germania Ovest prima e
in quella federale poi di questi gruppi di persone, alle quali venivano pienamente riconosciuti i diritti civili e
136
massicce migrazioni verso l’Europa è invece avvenuta negli ultimi decenni del XX secolo e ha
interessato proprio gli Stati periferici del vecchio continente che avevano dato origine alla maggior
parte dei precedenti flussi di emigrazione, come l’Italia, la Spagna o il Portogallo34
.
É necessario sottolineare come i fenomeni migratori di più recente realizzazione siano stati
caratterizzati da un radicale cambiamento del progetto migratorio degli stranieri che ne sono stati
protagonisti, cambiamento che ha avuto risvolti significativi sotto il profilo della percezione di
questa fascia di popolazione nella società recettrice. Fino agli anni ’80 le emigrazioni sono state
considerate come un fenomeno passeggero, destinato ad esaurirsi quando i migranti, fatta un po’ di
fortuna, sarebbero tornati al loro paese natale. Nella sentire comune dei cittadini dei paesi interessati
dalla prima ondata migratoria europea, il fenomeno non era da considerarsi preoccupante proprio
perché temporaneo, non destinato ad intaccare l’assetto socio-economico vigente. Le migrazioni
degli ultimi decenni e quelle attuali sono invece caratterizzate da un ben più alto grado di stabilità,
almeno progettuale: si tratta di persone provenienti da aree del mondo molto più lontane e per loro
la prospettiva del ritorno è un evento remoto e a volte altamente indesiderabile. Le reazioni a questa
prospettiva, che implica una modifica sostanziale della società, un mescolarsi di etnie, culture e
religioni, sono state molto più dure, soprattutto nei paesi che più recentemente si sono trasformati in
luoghi di emigrazione, privi degli strumenti sociali (e legislativi, come nel caso italiano) adatti ad
affrontare un fenomeno di tale portata.
L’immigrazione europea è un fenomeno ben lontano da poter essere definito omogeneo e in ragione
di queste differenze nell’evoluzione dei fenomeni migratori nelle diverse aree del vecchio
continente una certa dicotomia permane ancora oggi nell’approccio della società e del legislatore
alla gestione dell’immigrazione tra paesi come Germania, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito da
una parte e Irlanda, Italia, Grecia, Spagna e Portogallo dall’altra35
. Le popolazioni straniere presenti
nei diversi paesi dell’UE presentano nella composizione e nell’approccio al paese di ricezione
differenze significative ed ancora oggi, nonostante quanto possano prevedere sulla carta e singole
legislazioni, nella grandissima parte delle nazioni europee lo status dei migranti subisce variazioni,
venivano assegnate quote riservate nell’accesso al lavoro, è stato favorito fino al 31 dicembre 2009, quando è stata
abolita l’originaria legge federale del 19 maggio 1953.
34 Gli elementi che hanno dato origine a questa seconda fase di massiccia immigrazione verso l’Europa possono essere
individuati nello sviluppo economico favorito dalla creazione della Comunità Europea, nella forte diminuzione del
tasso di natalità nel vecchio continente e nella crisi socio politica della vecchia Europa dell’Est. Hanno sicuramente
avuto influenza anche fenomeni di dimensioni globali, come la capillare diffusione dei mezzi d’informazione o
l’abbattimento dei costi dei trasporti, a loro volta mescolati a singoli eventi traumatici che hanno interessato le aree
più povere del mondo come conflitti bellici o calamità naturali (AJA E DIEZ 2005, 14 e ss.).
35 Un elemento di forte discrepanza è, ad esempio, la forte presenza di asilanti tra i migranti dei paesi del nord rispetto
a quelli del sud Europa.
137
anche significative, in ragione della loro appartenenza nazionale, delle affinità linguistiche o
sociologiche con il paese di destinazione (ad esempio, la comune fede religiosa), come pure di
ragioni contingenti legate alla ricezione della singola ondata migratoria in termini positivi o
negativi.
Gli organismi comunitari hanno compiuto uno sforzo sensibile per tentare un riavvicinamento delle
legislazioni nazionali in materia di immigrazione, con lo scopo primario di garantire ai migranti un
trattamento omogeneo e conforme almeno a standard minimi su tutto il territorio dell’Unione. Il
percorso si è presentato e si presenta tuttora molto accidentato, data la riluttanza dei Governi
nazionali a cedere anche solo in parte alle istituzioni dell’U.E. quell’aspetto della sovranità che
riguarda il governo delle migrazioni. Se a questo assommiamo la contraddizione insita nel voler
riservare un trattamento dignitoso e “umanitario” agli stessi soggetti che si cerca di respingere
tramite il rafforzamento dei controlli di frontiera e la “militarizzazione” dei confini più fragili36
, ci
rendiamo facilmente conto di come l’impresa degli organismi di governo europei appaia
difficilmente destinata al pieno successo. Nonostante le molte discrepanze che ancora permangono
rispetto alle modalità con le quali è disciplinato l’ingresso e il soggiorno dei cittadini stranieri, va
comunque segnalato come un effettivo progresso nel senso dell’uniformazione delle normative
nazionali sia stato compiuto in materia di espulsione e trattenimento degli immigrati irregolari,
soprattutto grazie alla Direttiva 2008/115/CE, che abbiamo ampiamente avuto modo di esaminare in
precedenza.
Ad oggi tutti i paesi dell’Unione Europea (compresa la neo ammessa Croazia) hanno una
legislazione nazionale che prevede la possibilità di allontanare tramite l’utilizzo della forza pubblica
gli stranieri che hanno fatto ingresso illecitamente sul territorio dello Stato o vi sono rimasti senza
più averne i requisiti e, parallelamente prevedono la possibilità, nel caso in cui l’espulsione non
possa essere eseguita immediatamente, di trattenerli all’interno di strutture chiuse, destinate
unicamente a questo scopo. Le forme di privazione o compressione della libertà personale dei
migranti sono però molteplici, complice una legislazione interna frammentaria e mutevole che in
molti casi ci ricorda quella italiana: nel 2012 la rete Migreurop ha stimato la presenza, nel solo
perimetro territoriale dell’Unione, di 420 luoghi di detenzione, suddivisi tra centri destinati agli
36
Si inserisce pienamente in questo contesto la creazione di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della
cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione Europea. Si tratta di un istituzione,
con sede a Varsavia, in Polonia, il cui scopo è il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree,
marittime e terrestri degli Stati della U.E. e l'implementazione di accordi con i paesi confinanti con per la
riammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le frontiere. Sull’operato di Frontex hanno espresso serie
preoccupazioni Amnesty International e l’European Council for Refugees and Exiled, che hanno accusato l’agenzia
di operare sistematici respingimenti di potenziali richiedenti asilo verso paesi terzi non sicuri.
138
stranieri irregolari rintracciati sul territorio dello stato e in attesa del provvedimento di espulsione,
centri per stranieri che hanno appena fatto ingresso nel territorio dello stato e hanno bisogno di
assistenza o desiderano presentare la domanda d’asilo, centri che svolgono entrambe le funzioni
appena descritte e prigioni ordinarie utilizzate regolarmente per la detenzione amministrativa degli
stranieri. La capacità complessiva conosciuta di questo sistema di strutture37
copre circa 37.000
posti, anche se la cifra è più che approssimativa, tenuto conto che molto spesso i centri superano la
capienza consentita e che è prassi comune che le autorità amministrative autorizzino la detenzione
in luoghi che non figurano nelle liste ufficiali Le strutture utilizzate per la detenzione sono di
differente natura: prefabbricati, tendopoli, caserme, edifici militari o amministrativi, commissariati
di polizia o della gendarmeria come pure strutture costruite ex novo allo scopo preciso di ospitare i
migranti in attesa di espulsione. A questo elenco vanno aggiunti i cosiddetti «microspazi di
detenzione»: locali aeroportuali, cabine delle imbarcazioni della marina mercantile, camion, bus,
aerei o scompartimenti dei treni utilizzati per periodi ti tempo (tendenzialmente) brevi o brevissimi
dalle autorità di pubblica sicurezza statali o dagli operativi dell’Agenzia Frontex.
Quattro fondamentali elementi possono essere individuati nel sottolineare le diverse caratteristiche
dei centri esistenti nell’area europea. La prima differenza è tra gli stati che collegano la detenzione
ad un reato penale e la inseriscono pienamente nella cornice del diritto criminale e quelli che invece
la pongono in relazione con un mero illecito amministrativo. In linea di massima la posizione dei
migranti all’interno dei centri dovrebbe essere maggiormente garantita nel primo caso rispetto al
secondo, perché alla configurazione dell’illecito penale si accompagna un grado più alto di tutela
giurisdizionale (anche se il caso dell’Italia mostra che la connessione tra questi due aspetti non è
assolutamente scontata).
Il secondo elemento dirimente è quello dell’affidamento della gestione dei Centri: le strutture
possono essere consegnate al Ministero dell’Interno (e in tal caso la gestione verrà materialmente
portata avanti da autorità amministrative e/o da funzionari di pubblica sicurezza), all’esercito (come
accade a Malta) oppure a compagnie private (come accade in Svezia, dove, ad esempio, l’alloggio
nei centri per richiedenti asilo può essere garantito dietro il pagamento di un canone d’affitto)38
. La
37
I dati relativi ai Centri di detenzione europea disponibili tramite le indagini effettuate dal Comitato europeo per la
prevenzione della tortura, da Migreurop, da Human Rights Watch e dallo stesso Parlamento europeo, assommati a
quelli diffusi al pubblico dall’Agenzia Frontex, permettono di coprire circa i due terzi delle strutture detentive
ufficiali presenti sul territorio europeo. Per 135 Centri non è stato possibile reperire alcun dato riguardo alla
capienza massima della struttura.
38 Esisteva anche una quarta ipotesi, rappresentata dal centre d'hébergement et d'accueil d'urgence humanitaire di
Sangatte, in Francia – una struttura particolarmente sui generis nel panorama europeo. Il centro, chiuso dal Governo
nel 2002, non era stato costituito sulla base di una disposizione legislativa nazionale ed era gestito autonomamente
dalla Croce Rossa, con la “tolleranza” delle autorità francesi.
139
presenza di un regime gestionale amministrativo in alcuni centri non esclude che altri vengano
affidati a militari o a privati, anzi in alcuni paesi (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Svezia e
Regno Unito) l’affidamento completo della gestione di particolari strutture presenti sul territorio è
un’esperienza risalente nel tempo: normalmente regimi più rigidi, che prevedono uno stretto
controllo dei trattenuti da parte dei militari o delle forze di polizia, sono riservati ai migranti
detenuti in attesa di espulsione, mentre l’affidamento a compagnie private ad orientamento sociale
avviene più spesso rispetto ai centri in cui si trovano gli stranieri giunti da poco nello Stato e in
attesa di avere una risposta i merito alla propria richiesta d’asilo39
.
La terza e sostanziale distinzione è quella tra centri aperti e chiusi, distinzione che trova il suo
fondamento nella libertà di movimento che viene concessa agli stranieri ospitati al loro interno. I
migranti possono lasciare i centri aperti a loro discrezione (o con restrizioni ragionevoli, come la
chiusura notturna o il preavviso prima di lunghe assenze) mentre il contrario vale per i centri chiusi,
con la conseguenza che il trattenimento all’interno di questi ultimi si configura come una vera e
propria privazione della libertà personale (e ricade pienamente nell’ambito dell’art. 5 della
Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo). Generalmente i centri aperti sono definiti come
«reception centres» o centri di accoglienza, mentre quelli chiusi sono identificati come «removal
centres» o centri per l’espulsione. Nel corso degli anni le preoccupazioni espresse dalle associazioni
non governative riguardo alle violazioni dei diritti umani all’interno dei centri sono sempre state
minori per i primi rispetto ai secondi (GUILD 2006, 5).
Infine questione essenziale è quella dell’individuazione delle modalità di controllo: quali sono gli
strumenti approntati dagli stati per garantire la legittimità del trattenimento e come possono essere
attivati? Tre sembrano essere le tipologie principali: il sistema di controllo giurisdizionale può
essere messo in moto da un ricorso o una contestazione presentata dal singolo detenuto o dall’ONG
o associazione che lo rappresenta (come accade nel Regno Unito); può essere predisposto un
sistema di monitoraggio continuo, affidato a uno specifico organo giurisdizionale (è il caso della
Germania) oppure il controllo può essere esercitato periodicamente tramite visite cadenzate svolte
da rappresentanti governativi o da associazioni umanitarie nazionali, come nell’esperienza del
nostro paese. Il monitoraggio periodico viene in ogni caso portato avanti in tutti gli Stati
appartenenti all’U.E. dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. Sempre sotto il profilo
della tutela giurisdizionale, la presenza o meno della possibilità di presentare ricorsi contro la
decisione giudiziale che ha ordinato la detenzione (o la sua proroga) costituisce, a nostro avviso, lo
39
Esistono naturalmente anche strutture ad ispirazione mista, in cui soltanto alcune funzioni (segnatamente la
sicurezza perimetrale e il mantenimento dell’ordine pubblico, sia nelle situazioni ordinarie che in quelle di
emergenza) vengono affidate alle autorità di pubblica sicurezza, mentre l’amministrazione e la fornitura dei servizi
vengono delegate a organismi privati.
140
spartiacque tra le situazioni di detenzione amministrativa ancora accettabili e quelle completamente
incompatibili con i principi dello stato di diritto.
Da ultimo e in aggiunta a questi quattro fondamentali elementi di differenziazione va segnalato
come ulteriore criterio di demarcazione l’utilizzo delle strutture carcerarie per la detenzione degli
stranieri irregolari: la Direttiva Rimpatri consente questa pratica, ma non la incoraggia e nella
maggior parte dei paesi europei è la disciplina legislativa stessa ad escludere radicalmente questa
possibilità. Nonostante questo, il trattenimento dei migranti “clandestini” negli istituti penitenziari è
prassi molto diffusa nei paesi di area tedesca (in Svizzera, la detenzione ha luogo all’interno di
sezioni speciali degli istituti penitenziari ordinari) e in Irlanda rappresenta addirittura l’unica
modalità con la quale la detenzione amministrativa può venir posta in essere.
Infine va evidenziato il fatto (a nostro parere molto grave) che, nonostante l’art. 15 della Direttiva
2008/115/CE imponga un tetto massimo di 18 mesi alla detenzione dei migranti all’interno dei
centri, ad oggi ben otto stati dell’Unione Europea (Finlandia, Estonia, Lituania, Danimarca, Olanda,
Regno Unito, Malta e Cipro) non prevedono nella loro legislazione un termine entro il quale il
trattenimento non può più protrarsi.
Delineata con queste brevi considerazioni la condizione attuale della detenzione amministrativa nel
vecchio continente, prima di passare ad analizzare con maggior dettaglio il caso spagnolo e quello
inglese, ci sembra utile fare una piccola digressione, a mo’ di sintesi, sul tema dei diritti
fondamentali. Ogni Stato membro dell’Unione Europea è vincolato al rispetto della CEDU, della
Carta di Nizza come pure a quello di diverse altre fonti sovrannazionali: cercheremo ora qui di
delineare succintamente quali sono i diritti basilari che spettano ai migranti (indipendentemente dal
loro stato di regolarità) secondo le norme europee e internazionali, diritti che dovrebbero dunque
essere garantiti all’interno di ciascuno dei 420 centri sparsi sul territorio dell’Unione e nel corso del
procedimento di espulsione.
Cominciamo dal diritto alla vita, la pietra angolare di questo “decalogo”: si tratta di un diritto
sanzionato come inviolabile già dall’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del
1966, ribadito dall’art. 2 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e riconfermato, con
forza ancora maggiore dall’art. 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che
stabilisce semplicemente «Ogni individuo ha diritto alla vita» e «Nessuno può essere condannato
alla pena di morte, né giustiziato». La conseguenza immediata del riconoscimento di questo diritto è
l’obbligo per lo stato di non sottoporre nessun individuo (compreso quindi l’immigrato
“clandestino”) a trattamenti o condizioni che possano provocare la morte o metterne comunque a
141
rischio l’incolumità fisica. Per fare un esempio, il trattenimento in un centro di detenzione
amministrativa, senza sorveglianza o assistenza sanitaria adeguata, di uno straniero gravemente
malato, cui consegua la morte della persona, può essere correttamente inquadrata come una
violazione diretta del diritto alla vita. Un corollario particolarmente importante del principio appena
espresso è quello che riguarda l’obbligo di protezione indiretta del diritto alla vita (o protezione par
ricochet, nel linguaggio del diritto internazionale): lo Stato deve impegnarsi a non espellere lo
straniero verso un paese in cui correrebbe il rischio specifico e diretto di perdere la propria vita.
Tale rischio può derivare dall’emissione di una condanna a morte (e in tal caso l’espulsione verso lo
stato d’origine potrà avvenire solo dietro precise assicurazioni da parte delle autorità statali che la
pena capitale, se comminata, non sarà eseguita), ma può anche derivare dal pericolo concreto di
uccisione per mano di privati, nel caso in cui il paese di destinazione non fornisca una protezione
adeguata40
contro questo tipo di minaccia.
Dopo il diritto alla vita viene immediatamente in rilievo il diritto a non essere sottoposti a tortura o
trattamenti inumani e degradanti, sancito dall’art. 7 del Patto sui diritti civili, dall’art. 4 della Carta
dei diritti U.E. e oggetto di una specifica Convenzione delle Nazioni Unite41
. Il concetto di
trattamento inumano e degradante è suscettibile di modificarsi sulla base di diversi fattori, in
particolare alla situazione personale del singolo individuo in relazione al sesso, all’età e allo stato di
salute o di altre condizioni di particolare vulnerabilità. Anche solo il protrarsi della detenzione (in
un istituto penitenziario come in un centro per migranti) per un periodo molto lungo in condizioni
non ottimali può integrare una violazione del divieto, se, ad esempio il trattenuto è giovane o
giovanissima età. Tutti gli effetti fisici e mentali che il trattenimento e la durezza del trattamento
sono suscettibili di creare nel singolo individuo devono essere presi in considerazione per poter
individuare la sussistenza di una situazione qualificabile come trattamento inumano e degradante.
Anche qui l’obbligo di garantire protezione anche par ricochet allo straniero implica il divieto di
espulsione verso paesi nei quali si potrebbe configurare un rischio concreto che egli venga
sottoposto a tortura o trattamenti inumani e degradanti, da parte di soggetti pubblici, come le
autorità di polizia, o privati42
. Di conseguenza devono essere considerati come particolarmente
40
In tal senso si è più volte espressa la Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. ad esempio i casi Singh e altri v.
Regno Unito, n. 30024/96, decisione del 26 settembre 2000 e Merzouk v. Francia, n. 48453/99, decisione del 14
novembre 2000).
41 Si tratta della Convenzione contro la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti firmata a New York nel
1984.
42 In alcune pronunce la Corte di Strasburgo ha avuto modo di chiarire che implica la violazione indiretta dell’art. 3
della CEDU (“Proibizione della tortura”) anche l’espulsione o il respingimento di uno straniero che abbiano la
conseguenza di porlo nell’impossibilità di curarsi per malattie suscettibili di minare gravemente la sua integrità
142
gravi gli accordi di riammissione tra paesi dell’Unione e stati terzi quando vi sia la certezza o il
fondato sospetto che i cittadini espulsi vengano sistematicamente sottoposti a questo tipo di
trattamenti 43
.
Di grande rilevanza in tema di trattenimento dei migranti irregolari è poi il rispetto del diritto a non
subire una detenzione illegale o arbitraria. Come già sappiamo non esiste sul piano giuridico
internazionale un divieto tout court di sottoporre a restrizione della libertà personale i cittadini
stranieri che non siano in regola con le disposizioni nazionali sull’ingresso e in soggiorno nel
territorio dello Stato, anzi l’ipotesi è espressamente presa in considerazione dall’art. 5 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo44
. La detenzione di un migrante viene però a
configurarsi come violazione di un diritto garantito a livello sovrannazionale (in particolare dallo
stesso art. 5 della CEDU e dall’art. 9 del Patto per i diritti civili e politici) se quest’ultimo viene nei
fatti sottoposto ad un esercizio del potere coercitivo da parte dell’autorità pubblica che può essere
definito come arbitrario e non legalmente garantito. Perché non si incorra in questo genere di
violazione è necessario che la misura detentiva (anche se presenta carattere amministrativo) sia
sempre adottata con provvedimento ufficiale e formale da un’autorità competente, e che sia
suscettibile di controllo effettivo e possibilità di revisione da parte di un organo di tipo
giurisdizionale (come recentemente riconfermato anche dall’art. 15, paragrafi 2 e 3 della Direttiva
Rimpatri). Al concetto di arbitrarietà può essere anche ricondotto il fatto che la durata della
detenzione non sia determinata e conoscibile in anticipo o che non ne sia conoscibile almeno il
limite massimo come pure l’eccessivo prolungarsi della detenzione a causa dell’inerzia, della
mancanza di diligenza o delle carenze strutturali delle autorità statali nell’espletamento delle
fisica o di causare sofferenze insopportabili (v. ad esempio Corte europea dei diritti dell’uomo, caso D. v. Regno
Unito, sentenza del 2 maggio 1997, in tema di indisponibilità delle cure per l’AIDS nel paese di destinazione).
43 L’Italia è stata più volte messa sotto accusa per aver stipulato accordi in materia di immigrazione con Stati
extraeuropei nei quali, nei fatti, il rispetto dei diritti umani dei migranti rimpatriati o respinti non veniva in alcun
modo garantito (v. ad esempio il Trattato di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia firmato a Bengasi il 30 agosto
2008 dal presidente del consiglio Berlusconi e dal Colonnello Gheddafi, allora ancora dittatore del paese
nordafricano). Nel 2011 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha inserito il nostro paese nella lista degli
stati che presentano «gravi deficienze sistematiche» nella legislazione e nella prassi di polizia riguardante i migranti
irregolari tali da causare serie violazioni dei diritti fondamentali della persona e in particolare il diritto a non essere
sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Secondo l’Assemblea l’Italia (insieme a Bulgaria, Grecia, Moldavia,
Polonia, Romania, Russia e Turchia) ha ignorato le chiare indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
«not to deport individuals who might be at risk of torture or ill-treatment.» e non può quindi essere considerata
come paese sicuro («safe for returns») per ricevere immigrati espulsi, allontanati o trasferiti da altri Stati membri
dell’Unione Europea. (cfr. FULVIO VASSALLO PALEOLOGO Respingimenti ed accordi di riammissione - Sotto accusa
l’Italia: non è un paese sicuro per i richiedenti asilo, 31 gennaio 2011, www.meltingpot.org)
44 La lettera f) del suddetto comma 5 afferma che una persona può essere legittimamente privata della libertà personale
(sempre «nei modi previsti dalla legge»), «se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per
impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento
d’espulsione o d’estradizione».
143
procedure d’identificazione e allontanamento. Anche il fatto che la detenzione perduri anche in
assenza di rischio di fuga del migrante o quando egli collabori sufficientemente nel procedimento di
espulsione sono stati considerati da alcuni autori come elementi di arbitrarietà incompatibili con il
rispetto del diritto in analisi (PALMISANO 2009, 519). La detenzione dev’essere poi circondata da
una nutrita serie di garanzie procedurali: lo straniero dev’essere immediatamente informato dei
motivi per i quali viene trattenuto in una lingua a lui comprensibile (e il ricorso alla lingua veicolare
dev’essere preso in considerazione solo come extrema ratio) e dev’essergli garantita la possibilità di
ricorrere ad un organo giurisdizionale legittimato a giudicare della legalità della detenzione e
eventualmente ad ordinarne la liberazione, verificando non solo l’esistenza dei presupposti
normativi della detenzione sotto il profilo formale, ma anche la fondatezza della misura detentiva
nel merito e nell’opportunità.
Un altro obbligo derivante dal diritto sovrannazionale che riguarda in modo specifico la situazione
dei migranti irregolari è quello relativo al divieto di espulsioni collettive. Il divieto, stabilito dall’art.
4 del Protocollo n. 4 della Convenzione europea dei diritti umani e dall’art. 19 Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, costituirebbe ormai secondo fonti autorevoli45
, un principio di
diritto internazionale generale. La decisione di espellere un cittadino straniero dev’essere adottata
dallo Stato a seguito di un esame individuale del caso e non può in alcun momento avere luogo
l’allontanamento indiscriminato di un gruppo di stranieri basato solo su criteri etnici o nazionali.
Nonostante la CEDU riconosca il diritto a determinate garanzie procedurali in merito all’espulsione
soltanto ai migranti «regolari» (cfr. protocollo n. 7 della Convenzione), la Corte di Strasburgo ha
avuto modo di chiarire46
che, proprio in attuazione del divieto di espulsioni collettive
l’allontanamento dei “clandestini” deve realizzarsi in modo proceduralmente equo, tramite la
valutazione individuale della posizione e delle dichiarazioni del clandestino da parte di autorità
indipendenti e competenti, (che devono anche essere dotate del potere di disporre la sospensione del
procedimento nel caso in cui l’espulsione potrebbe comportare danni gravi e irreparabili per la
persona in questione). Quest’impostazione è stata riconfermata dalla Direttiva 2008/115/CE, che
oltre ad esprimere al punto 6 del Preambolo l’esigenza che le procedure di espulsione vengano
poste in atto «secondo una procedura equa e trasparente» e che le decisioni in materia siano
«adottate caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi a prendere in
considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare», dedica l’intero Capo III proprio
45
Lo ha affermato, tra gli altri, Maurice Kamto, Relatore speciale sul tema dell’espulsione degli stranieri, nel suo
Third report on the expulsion of aliens, presentato alla Commissione di Diritto Internazionale delle Nazioni Unite il
19 aprile 2007.
46 Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, caso Ĉonka v. Belgio, n. 51564/99 decisione del 5 febbraio 2002.
144
all’individuazione delle garanzie procedurali (obbligo di motivazione in fatto e in diritto dei
provvedimenti di espulsione, obbligo di traduzione in una lingua comprensibile al destinatario,
diritto per lo straniero di esercitare il ricorso davanti all’autorità giudiziaria e gratuito patrocinio).
Prendiamo infine in considerazione un diritto che non riguarda solo il migrante come singolo ma
anche come individuo che si rapporta con altri, come individuo che ha relazioni e affetti: il diritto al
rispetto dell’unità famigliare. Tale diritto, già sancito dall’art. 17 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici, si ritrova anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 7) e
nella Direttiva Rimpatri, al par. 22 del Preambolo («il rispetto della vita familiare dovrebbe
costituire una considerazione preminente degli Stati membri nell'attuazione della presente
direttiva»), e negli articoli 5 e 14 (quest’ultimo in particolare inserisce il mantenimento dell’unità
familiare tra le garanzie assicurate al migrante prima del rimpatrio). L’obbligo in capo allo stato di
rispettare l’unità famigliare dello straniero può comportare una maggior difficoltà o anche
l’impossibilità di espellerlo, qualora l’allontanamento potrebbe pregiudicare gravemente il diritto
della famiglia a restare unita e a condurre insieme la propria vita. Bisogna però chiarire che il
dovere che grava sullo Stato non è quello di rispettare assolutamente questo diritto (come invece
accade per gli obblighi a cui abbiamo fatto riferimento finora) ma di tenerlo in considerazione nel
bilanciamento degli interessi che dev’essere doverosamente effettuato prima di adottare qualsiasi
decisione di espulsione (esigenze della vita familiare del migrante vs interesse dello stato a non
permettere al migrante irregolare di entrare o permanere sul suo territorio).
La linea interpretativa prevalente nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo è quella di ritenere
illegittime, perché ordinate in violazione del diritto all’unità familiare, le espulsioni che causino «un
pregiudizio effettivo e non sostenibile» al mantenimento della vita comune del nucleo familiare, a
meno che la presenza sul territorio del migrante irregolare non comporti a sua volta «un pericolo
effettivo per l’ordine pubblico o gravi pericoli sociali»47
. La consistenza della vita familiare và in
ogni caso rigorosamente valutata alla luce di diversi elementi: il grado di unità affettiva ed
economica tra i membri della famiglia, l’effettivo pregiudizio che l’allontanamento della persona
che dovrebbe essere espulsa arrecherebbe alla propria vita personale di quest’ultimo e alla vita degli
47
Il risultato del bilanciamento non appare invero così scontato e il diritto al rispetto dell’unità familiare si sta
costruendo progressivamente, nelle decisioni della Corte EDU, come diritto “forte”. Un esempio emblematico ci
sembra quello caso Ezzouhdi c. Francia, n.471160/99, sentenza del 13 febbraio 2001: in questa pronuncia, la Corte
ha considerato come pregiudizio sproporzionato alla vita famigliare l’espulsione decisa quale conseguenza della
perpetrazione reiterata da parte di uno straniero del reato di acquisto e consumo di stupefacenti. Il livello di
pericolosità insito nella commissione di questo illecito penale (acquisto, ma non spaccio) non è stato considerato tale
da poter prevalere sul diritto all’unità familiare del reo. Seguendo questa linea di tendenza difficilmente potrebbe
essere considerata legittima l’espulsione di uno straniero motivata dalla sola violazione delle norme amministrative
sull’ingresso e il soggiorno, se questa comporta un grave pregiudizio alla sua vita familiare.
145
altri famigliari e ultimo ma non meno importante, l’intensità del legame della vita famigliare del
migrante con il territorio e l’ambiente sociale dello Stato in cui soggiorna, seppur in modo illegale
(è dirimente, ad esempio, la presenza di figli che frequentino la scuola dell’obbligo). É dunque
abbastanza evidente che questa valutazione assume un peso molto concreto nel caso dell’espulsione
di migranti overstayer, da lungo tempo inseriti nel tessuto socio-economico del luogo in cui
risiedono pur essendo “clandestini”, mentre difficilmente il diritto al rispetto dell’unità familiare
potrà avere valore nell’impedire l’allontanamento dei migranti intercettati all’ingresso o subito
dopo.
3.4. Tra immigration removal e fast-track detainees: la gestione delle
migrazioni nel Regno Unito.
Il sistema di centri per la detenzione amministrativa presente nel Regno Unito è sicuramente uno
dei più capaci in termini di capienza numerica: nel corso del 2009 circa 28.000 persone sono
transitate dai centri britannici, per poi scendere a 26.000 nel 2010 e risalire nuovamente a 27.000
nel 2011, a segnalare un trend costante e apparentemente svincolato da avvenimenti contingenti, a
differenza di quanto accade nostro paese (SILVERMAN E HAJELA 2012, 3). Le prime restrizioni
normative all’ingresso degli stranieri nel territorio dell’allora Impero Britannico risalgono al 1904,
quando venne approvato l’Alien Act in risposta all’improvviso aumento nel numero di immigrati
ebrei, che fuggivano dai pogrom frequenti in quegli anni in Russia e nei paesi dell’est Europa. A
dieci anni di distanza, con l’Alien Restriction Act, si attribuirono all’Home Secretary (il Ministro
dell’Interno) ampi poteri in tema di respingimento ed espulsione dei non nazionali: il
provvedimento, introdotto con la dizione “misura temporanea” e giustificato sulla base delle più
urgenti esigenze di sicurezza nel clima della prima guerra mondiale, venne in realtà reiterato
costantemente fino al 1971. Le limitazioni all’ingresso e le norme in materia di espulsione non si
applicavano ai cittadini del Commonwealth, ai quali era riconosciuto, sulla base di un radicato
principio di common law, il diritto di entrare e risiedere nel Regno Unito senza ulteriori
adempimenti amministrativi. Solo nel 1962, con il Commonwealth Immigrants Act venne introdotta
per la prima volta la possibilità di espellere dal territorio dell’UK un cittadino di una delle nazioni
del Commonwealth, ma soltanto dietro raccomandazione dell’autorità giudiziaria. La posizione dei
cittadini del Commonwealth venne sostanzialmente equiparata a quella degli stranieri appartenenti a
qualunque altra nazione con l’Immigration Act del 1971, che rappresenta ancora oggi la principale
base normativa in materia di immigrazione, nonostante le rilevanti modifiche introdotte
146
dall’Immigration Act del 1988, dall’Asylum and Immigration Appeals Act del 1993,
dall’Immigration and Asylum Act del 1999 e, più recentemente, dall’UK Borders Act del 2007.
É proprio la norma del 1971 ad introdurre per la prima volta la detenzione amministrativa
nell’ordinamento britannico, inizialmente concepita come strumento unicamente dedicato agli
stranieri ai quali era stato negato l’ingresso sul territorio (NASCIMBENE 2001, 498 e ss.). Nel corso
degli anni, e in particolare nell’ultima decade ha ampliato significativamente l’uso della detenzione
amministrativa, in risposta alle crescenti istanze di sicurezza provenienti dall’opinione pubblica,
spesso alimentate da personaggi politici di area conservatrice (ma non solo), che hanno rispolverato
il binomio immigrazione-criminalità e vi hanno assommato quello immigrazione-terrorismo,
questione avvertita come particolarmente grave dalla popolazione inglese dopo gli attentati avvenuti
il 7 luglio 2005 nella metropolitana di Londra48
.
In base alla legislazione attualmente vigente, responsabile dell’esecuzione delle espulsioni e del
controllo dei migranti detenuti nei centri è l’UK Border Agency (UKBA), creata nel 2008 con
funzioni piuttosto ampie di polizia di frontiera e di controllo doganale, alle dipendenze del
Ministero dell’Interno49
. Possono essere soggetti ad espulsione i migranti che hanno fatto
illegalmente ingresso nel territorio inglese, gli overstayer, coloro che hanno ottenuto un permesso di
soggiorno ma sono venuti meno a una o più delle condizioni prescritte per mantenerlo e coloro che
hanno presentato richiesta d’asilo o protezione internazionale ma gli è stata rifiutata. I migranti
irregolari possono scegliere di allontanarsi dal territorio volontariamente, sia in autonomia, se ne
hanno i mezzi, sia con il supporto di uno specifico programma per il rimpatrio volontario assistito,
gestito da un organizzazione umanitaria indipendente, Refugee Action. Coloro che si rifiutano di
cooperare al proprio rimpatrio vengono investiti da un ordine di espulsione50
e possono essere
detenuti in base all’Immigration Act 1971.
48
I tre attentati suicidi all’interno della metropolitana londinese e il quarto avvenuto su un autobus hanno provocato 55
morti e più di 700 feriti. Come chiarisce molto lucidamente BOSWORTH (2008, 15) «If earlier debates saw
imprisonment [of foreign nationals] as regrettable but sometimes necessary, by 2005 the White Paper Controlling
our Borders presented detention as an aspiration, effectively erasing the distinction between criminal and asylum
seeker through a promise to “introduce a new asylum process, detaining more people and using other means of
contact like tagging to prevent people absconding when they are ready to be removed”»
49 Dopo che numerose polemiche avevano colpito l’UKBA nel corso del 2012 (l’agenzia era accusata di aver
accumulato in pochi anni un arretrato di centinaia di migliaia di casi e il numero di denunce di abusi e mala gestione
era decisamente aumentato), il 26 marzo 2013 il Ministro dell’Interno Theresa May ha annunciato l’imminente
chiusura dell’agenzia e il ritorno della titolarità di tutte le competenze al ministero stesso. L’agenzia sarà divisa in
due distinte entità "UK Visas and Immigration", che si occuperà principalmente della gestione dei visti
"Immigration Enforcement" il cui obbiettivo sarà invece garantire l’applicazione delle norme in materia di ingresso
e soggiorno (cfr. UK Border Agency «not good enough» and being scrapped, 26 marzo 2013 - www.bbc.co.uk).
50 Nel Regno Unito esistono due modalità principali con le quali può essere eseguito l’allontanamento dello straniero
dal territorio dello Stato: la prima, definita «deportation» si applica (nella maggior parte dei casi) agli stranieri il cui
ingresso era stato in origine legale, mentre la seconda, definita «administrative (or summary) removal» si applica a
147
I presupposti che giustificano il trattenimento in uno dei molti Immigration Removal Centres
(IRCs) sono molteplici: la necessità di stabilire l’identità della persona, la necessità di verificare i
presupposti rispetto ad una richiesta di protezione internazionale51
, l’esistenza di rischi per
l’incolumità del migrante o per la pubblica sicurezza, il fondato sospetto che, in caso di rilascio o di
concessione di forme temporanee di ammissione, il migrante si renderà irreperibile e, più in
generale, la necessità di rendere effettiva l’espulsione. Gli ufficiali della polizia di frontiera sono
autorizzati a trattenere i migranti se li intercettano al momento dell’arrivo o in esecuzione di un
ordine di espulsione, ma anche in occasione di controlli di routine o nel caso in cui i migranti si
siano presentati ai locali uffici dell’immigrazione. Come accade in Italia gli stranieri che abbiano
scontato un periodo di pena detentiva, una volta scarcerati, possono essere trasferiti direttamente nei
centri per l’espulsione. Secondo l’impostazione dell’Immigration Act del 1971 la detenzione negli
IRCs è da intendersi non come punitiva ma come «strettamente amministrativa», di conseguenza la
detenzione «dev’essere usata con parsimonia e protrarsi per il minor tempo necessario»: nonostante
questo il Regno Unito è ancora oggi uno degli otto paesi europei a non aver stabilito
legislativamente un termine massimo per la detenzione52
. Secondo le statistiche rese note dal
Ministero dell’Interno il 50% degli stranieri che transita annualmente dai centri di detenzione
amministrativa sarebbe trattenuto per meno di due mesi, un 20% per un periodo compreso tra due e
sei mesi, un ulteriore 20% per un periodo compreso tra i sei mesi e un anno e solo una piccolissima
percentuale rimarrebbe nei centri per più di un anno. Questi dati sono però stati messi in discussione
dal London Detainee Support Group, un organizzazione no profit che ha condotto uno studio durato
20 mesi proprio sugli IRCs: nel periodo preso in considerazione solo il 18% degli stranieri detenuti
nei centri era stato espulso e il periodo medio di trattenimento a cui erano stati complessivamente
coloro il cui ingresso era originariamente illecito o a coloro che sono stati respinti alla frontiera. La terminologia
appare ai nostri occhi piuttosto fuorviante, dal momento che il fatto di essere entrati illegalmente nel territorio
britannico non esclude la possibilità di essere soggetti al procedimento di «deportation» e che la detenzione
amministrativa si applica indistintamente agli stranieri passibili di «deportation» e di «summary removal»
(NASCIMBENE 2001, 497). Di conseguenza quando nella legislazione troviamo riferimento ai «deportation orders» li
tradurremo semplicemente con la locuzione italiana «ordini di espulsione».
51 Rispetto agli stranieri che fanno richiesta d’asilo o di altre forme di protezione internazionale è in vigore il c.d.
Detained Fast-track System (DFT) in base al quale le persone in questione possono essere detenute se il loro caso
appare semplice e di agile e rapida decisione. Sulla base di un colloquio preliminare con lo straniero si determina se
il caso può essere deciso “velocemente”: se la risposta è affermativa questo verrà incardinato nel sistema DFT e
verrà analizzato dalla corte entro 3 giorni. Compresi gli appelli eventualmente esperibili, l’analisi della domanda
dovrebbe concludersi definitivamente entro 21 giorni, arco di tempo massimo nel quale i richiedenti asilo possono
essere detenuti negli appositi centri, anche se più studi hanno riferito di tempi medi di detenzione che si aggirano
attorno ai 60 giorni (CLAYTON 2008, 421; DETENTION ACTION 2011, 24). Se poi una richiesta di asilo è classificata
come «manifestamente infondata» viene inserita nel circuito Detained Non-Suspensive Appeals (DNSA) che
prevede una decisione definitiva entro 7 giorni e l’impossibilità del migrante di presentare appello se la protezione
internazionale dovesse essergli rifiutata.
52 Il Regno Unito ha esercitato il proprio potere di opting-out rispetto a questa particolare previsione della Direttiva
Rimpatri.
148
sottoposti ammontava addirittura a due anni e due mesi (LONDON DETAINEE SUPPORT GROUP 2009,
12).
Sotto il profilo del controllo giurisdizionale sulla detenzione bisogna sottolineare le significative
differenze tra il nostro ordinamento e quello inglese: in quest’ultimo non sono previste forme di
controllo dirette e immediate sulla detenzione e sono gli stessi detenuti ad avanzare specifici
«habeas corpus claims» davanti ai tribunali competenti53
, denunciando l’illegittimità del proprio
trattenimento e dando inizio al procedimento giurisdizionale. Tutti i detenuti hanno inoltre diritto a
richiedere la concessione della libertà provvisoria su cauzione: il procedimento prevede l’obbligo
per il giudice di revisionare il caso del ricorrente e verificare i presupposti della sua detenzione. Se
il Ministero dell’Interno non è in grado di giustificare sufficientemente il provvedimento di
detenzione lo straniero dev’essere immediatamente rilasciato, come pure nel caso in cui la
valutazione sia rimasta dubbia, secondo un generale principio di favor libertatis. Le percentuali di
accoglimento delle richieste di libertà provvisoria sono comunque molto basse e diverse fonti hanno
denunciato la carenza di informazione legale fornita ai migranti trattenuti nei centri e le difficoltà
che questi ultimi incontrano nell’ottenere l’assistenza di legali del gratuito patrocinio54
(BID 2010,
12 e ss.; DETENTION ACTION 2011, 28 e ss.).
Una pratica particolarmente criticata è quella, resa possibile a partire dal 2008, delle udienze in
collegamento video: il detenuto è connesso ad una postazione remota e rimane all’interno del
Removal Center per tutta la durata del procedimento. Si tratta di una prassi che va diffondendosi
molto rapidamente, ma che secondo quanto denunciato dalle organizzazioni di tutela dei detenuti
stranieri presenta «problematiche complesse sia sotto il profilo tecnico che sotto quello umano»
(CAMPAIGN TO CLOSE CAMPSFIELD 2011, 35).
53
L’individuazione del tribunale competente non è sempre stata semplice. L’Immigration Act del 1971 aveva
costituito l’Immigration Appellate Authority, un organo giurisdizionale indipendente con competenza di corte di
primo e secondo (nelle due diverse composizioni di Immigration Adjudicators e Immigration Appeal Tribunal) in
relazione ai ricorsi portati avanti contro le decisioni emesse da diversi soggetti pubblici in materia di immigrazione
e di asilo. Nel 2005 questa Corte è stata sostituita dall’Asylum and Immigration Tribunal, che operava come
tribunale di primo e unico grado (fatta salva la possibilità che le decisioni potessero essere “riconsiderate” dallo
stesso giudice). A partire dal febbraio 2010 l’AIT è stato abolito e la sua giurisdizione è stata trasferita all’Asylum
and Immigration Chamber, camera specializzata del Firts-Tier Tribunal, l’organo giurisdizionale creato dal Tribunal
Courts and Enforcements Act del 2007, al fine di razionalizzare il frammentario sistema di tribunali del Regno
Unito. Alcune problematiche sono sorte nel passaggio da un organo giudicante all’atro e molte richieste di revisione
degli ordini di detenzione sono rimaste in stallo per molti mesi in attesa della determinazione dell’organo
competente.
54 In particolare, è stato riscontrato che il 77% dei c.d. «fast-track detainees» non avevano avuto accesso al gratuito
patrocinio ed essendo privi di mezzi non avevano potuto ricorrere ad un legale di fiducia, con la conseguenza di
doversi preparare personalmente all’udienza e, in diversi casi, di non comprendere assolutamente lo svolgimento del
processo.
149
Fino a dicembre 2012 erano considerati operativi55
sul territorio del Regno Unito 13 centri di
detenzione amministrativa per migranti, 11 dei quali erano definiti come Immigration Removal
Centres: Brook House IRC (Aeroporto di Londra-Gatwick); Campsfield House IRC (Kidlington,
Oxon); Colnbrook IRC (Harmondsworth, West Drayton, Middlesex); Dover IRC (Western Heights,
Dover, Kent); Dungavel IRC(Strathaven, South Lanarkshire); Harmondsworth IRC
(Harmondsworth, West Drayton); Haslar IRC (Gosport, Hampshire); Larne House (Irlanda del
Nord, contea di Antrim) (22), Lindholme IRC (Hatfield Woodhouse, South Yorkshire); Morton
Hall IRC (Lincolnshire); Pennine House (Aereoporto di Manchester); Tinsley House IRC
(Aeroporto di Londra-Gatwick) e Yarl’s Wood IRC (Clapham, Bedforshire).
La capacità massima totale di questa rete di centri è di 3341 posti, ai quali bisogna aggiungere quelli
delle trentasei Short-Term Holding Facilities disseminate su tutto il territorio dello Stato. Si tratta di
aree di diverse dimensioni, normalmente situate all’interno degli aeroporti o nelle loro vicinanze o
in prossimità di altri punti di transito, che sono concepiti come “luoghi di smistamento”, atti a
facilitare le operazione delle autorità di polizia che devono gestire i migranti a cui è stato negato
l’accesso al Regno Unito e devono essere rimpatriati. Normalmente il tempo di permanenza
all’interno delle strutture è inferiore a 12 ore, ma tre di questi STHF sono qualificati come
“residenziali” e gli stranieri possono essere ivi trattenuti fino a sette giorni. Numerose sono state le
denunce in merito alle condizioni di trattenimento nelle Short-Term Holding Facilities, tra le quali
possiamo ricordare l’assoluta mancanza di luce naturale e l’impossibilità per i migranti di spegnere
autonomamente quelle artificiali, la scarsa ventilazione, l’inadeguatezza delle strutture quanto a
posti letto e possibilità di curare la propria igiene personale.
Ricordiamo infine che il Regno Unito è uno dei paesi europei che prevede nella propria legislazione
la possibilità di trattenere i migranti in condizione di detenzione amministrativa all’interno degli
istituti penitenziari (in particolare se gli Immigration Removal Centres hanno raggiunto la loro
capienza massima) o delle stazioni di polizia (in queste ultime per un periodo massimo di sette
giorni). La cifra media che il Governo inglese spende ogni giorno per ogni migrante trattenuto in un
IRC o in una struttura penitenziaria è stato calcolato in 130£ al giorno56
- contro le 150 £ stimate al
giorno che sarebbero necessarie a mantenere un richiedente asilo libero all’interno della comunità,
secondo quanto sostenuto da DETENTION ACTION (2011, 24).
55
La fonte è il Ministero dell’Interno britannico (www.gov.uk/government/organisations/home-office), ma i dati sono
stati confrontati con quelli forniti da Migreurop e da Global Detention Project (aggiornati al dicembre 2012).
56 Confrontando questo dato con quello degli anni precedenti si può notare una crescita progressiva dei costi. Secondo
i dati del Ministero dell’Interno la spesa pro capite giornaliera per il mantenimento dei migranti nei centri era di
circa 90£ nel periodo 2005/2006 (con un minimo di 73£ al giorno e un massimo di 192£) mentre era già salito a
120£ nel 2010.
150
In conclusione non ci resta che segnalare due degli elementi che sono stati indicati come più critici
dell’intero sistema di gestione della detenzione amministrativa nel Regno Unito: la privatizzazione
e la detenzione dei minori. L’affidamento della gestione dei centri a soggetti privati costituisce una
scelta originaria del legislatore del 1971, che aveva ritenuto in tal modo di poter meglio tutelare i
migranti, considerati «non prigionieri», rispetto al trattamento potenzialmente molto repressivo
riservato a coloro che avevano subito una condanna per un reato penale. Ad oggi sette IRCs su 13
sono gestiti da quattro gruppi di contractors privati, mentre i restanti centri sono affidati
all’amministrazione del servizio penitenziario nazionale (Her Majesty’s Prison Service). Lo Stato
inglese garantisce alle compagnie private un canone giornaliero per ogni migrante trattenuto nei
centri da loro gestiti, sulla base dei singoli contratti di servizi con essi stipulati, e la detenzione
amministrativa ha finito per trasformarsi in un business molto lucrativo57
.
All’interno dei centri gestiti da privati devono comunque essere garantiti standard trattamentali
minimi, specificati dapprima in appositi capitolati e poi nel Detention Services Operating Standards
Manual for Immigration Service Removal Centres, pubblicati dal UK Border Agency nel 2005, che
copre una ampio raggio di aspetti, dall’informazione legale, agli alloggi, all’assistenza sanitaria,
passando per le modalità con le quali devono essere trattate le straniere detenute e per le attività
ricreative da assicurare a tutti i trattenuti. Nonostante la determinazione di queste regole-base e
nonostante la presenza di un sistema di monitoraggio indipendente che si assomma a quello statale58
le prestazioni delle compagnie private nella gestione dei centri hanno continuato ad essere oggetto
di forti critiche, sia da parte di organizzazioni indipendenti a difesa dei migranti che da parte dello
stesso ispettorato penitenziario (Her Majesty’s Inspector of Prisons)59
. I media hanno spesso
riportato casi di aggressioni e pestaggi perpetrati dalle guardie degli istituti ai danni di migranti
(soprattutto africani) trattenuti nei centri gestiti dai contractors privati. Nel 2010 le «tecniche
avanzate di contenimento» utilizzate dagli agenti della compagnia privata G4S per rendere effettivo
57
È stato sottolineato che alcune delle compagnie private operanti nel Regno Unito sono altresì responsabili della
gestione di strutture analoghe in altri paesi europei e si sono impegnate in una pesante campagna di lobbying per il
mantenimento e l’espansione della detenzione amministrativa (BACON 2005, 12 e ss.)
58 Sulla base dell’Immigration and Asylum Act del 1999 ogni IRC dev’essere monitorato da un «Indipendent Board»,
composto da volontari scelti all’interno della comunità locale nella quale il Centro è situato, che prestano servizio
per 2-3 giorni al mese.
59 Nel 2010 l’ispettorato penitenziario ha pubblicato un rapporto su Brooke House, il più grande tra i centri inglesi,
gestito dalla compagnia G4S. Così gli ispettori ministeriali hanno descritto la loro esperienza : «we were disturbed
to find one of the least safe immigration detention facilities we have inspected, with deeply frustrated detainees and
demoralised staff, some of whom lacked the necessary confidence to manage those in their care. At the time of the
inspection, Brook House was an unsafe place. Our surveys, interviews and observations all evidenced a degree of
despair amongst detainees about safety at Brook House which we have rarely encountered. Bullying and violence
were serious problems and — unusually for the immigration detention estate — drugs were a serious problem.
Many detainees were ex-prisoners and a number compared their experience in Brook House negatively to that in
prison».
151
il procedimento di espulsione hanno provocato la morte del cittadino angolano Jimmy Mubenga,
portando all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dell’uso degli strumenti coercitivi
nell’ambito delle espulsioni e quella delle condizioni di detenzione dei migranti rinchiusi nelle
strutture gestite da privati.
Per quanto riguarda la detenzione dei minori dobbiamo iniziare col sottolineare come si tratti di un
fenomeno piuttosto recente: durante gli anni ’90 i casi di detenzione di interi gruppi familiari erano
davvero rari, mentre nel periodo dal 2005 al 2009 circa 2.000 minori ogni anno sono stati trattenuti
all’interno degli IRC, normalmente a seguito delle rispettive famiglie. La situazione ha suscitato
veementi proteste da parte di numerose associazioni umanitarie e organizzazioni non governative,
in seguito alle quali, nel dicembre 2010 il vice Primo Ministro Nicholas Clegg ha dichiarato che il
Regno Unito avrebbe messo fine alla propria politica di detenzione di lungo periodo dei minori,
sottolineando la necessità di operare «a big culture shift within our immigration system, one that
puts our values (…) above paranoia over our borders». Sulla base di questo cambio di rotta,
secondo le statistiche del ministero dell’Interno, nel 2010 il numero di minori migranti che avevano
fatto ingresso nei centri era sceso a 400, per ridursi a poco più di 100 nel 2011. Per gestire le
operazioni di espulsione o le richieste di asilo portate avanti da interi nuclei familiari il Governo
britannico ha predisposto un nuovo sistema di misure che comprende la creazione di un apposito
Family Return Panel, il cui ruolo è quello di prendere in considerazione le questioni relative al
benessere dei bambini nelle famiglie che rifiutano il rimpatrio volontario, l’apertura di una struttura
di «pre-departure» a Pease Pottage (divenuta operativa dal settembre 2011) e l’ampliamento e la
ristrutturazione dell’area dedicata alle famiglie all’interno del Tinsley House IRC (aeroporto di
Londra-Gatwick). In particolare in questi due centri le famiglie possono essere trattenute per un
massimo di 72 ore, con la possibilità di estendere tale periodo fino a una settimana in casi
eccezionali, sulla base di un ordine ministeriale.
L’opinione pubblica ha accolto molto favorevolmente i cambiamenti apportati alle norme in materia
di trattenimento dei minori, ma diversi autori hanno espresso pareri negativi, considerando le
soluzioni proposte soltanto di facciata60
e qualificando le nuove sistemazioni per famiglie come
luoghi di detenzione mascherati da luoghi di accoglienza. Solo per fare un esempio, la gestione dei
servizi della nuova struttura «family friendly» di Pease Pottage è stata affidata ad un organizzazione
60
Un sunto delle posizioni di coloro che si sono espressi contro la recente riforma può essere ritrovato nel commento
di un operatore del Centre for Migration Policy Research, riportato da CRAWLEY (2011, 2): «If the Government has
decided, as it appears to have done, that it cannot end the detention of children—or is unwilling to do so—then it
should acknowledge that this is the case and be prepared to be challenged. (…) To repackage detention as “pre-
departure accommodation” is disingenuous».
152
benefica (Barnardo’s), ma la compagnia responsabile del mantenimento della sicurezza all’interno
del centro (e dell’esecuzione delle espulsioni) è sempre la G4S, lo stesso contractor accusato di
mala gestione e maltrattamenti sui migranti all’interno dei tre Immigration Removal Centres da esso
gestiti.
3.5 . Centri ai confini dell’Africa: Il caso spagnolo
In Spagna come in Italia, la presenza di massicci flussi migratori in entrata è un fenomeno recente.
Per quasi tutto il XX secolo la penisola iberica ha prodotto un numero costante di emigranti, spinti a
cercare maggiori possibilità lavorative o condizioni economiche migliori nei paesi dell’Europa
centrale e, soprattutto, nei territori dell’America Latina, dove le comunità di lingua catalana erano
insediate ormai da secoli. Se la grande crisi economica del ’29, la Guerra Civile del 1936-1939 e la
Seconda Guerra Mondiale avevano costituito per gli spagnoli un incentivo ad abbandonare la
propria patria per trovare miglior fortuna all’estero, il fenomeno migratorio è stato alimentato nel
secondo dopoguerra dalla cosiddetta “politica delle porte aperte” del regime di Francisco Franco:
incentivando un’emigrazione “mirata” il dittatore perseguiva il duplice obiettivo di controllare la
densità demografica del paese e di liberarsi in modo indolore dei propri oppositori politici o, più in
generale, di segmenti della popolazione che venivano percepiti come “scontenti”. Soltanto con la
fine della dittatura il flusso inizia ad invertirsi, per poi subire una netta accelerazione con l’ingresso
del paese nell’Unione Europea avvenuto nel 1986: la Spagna diventa meta privilegiata
dell’emigrazione latinoamericana da un lato e nordafricana dall’altro, destinazione chiave e via di
transito per gli stranieri che cercano di raggiungere l’Europa. Lo sviluppo economico e la crescente
domanda di manodopera hanno stimolato ulteriormente l'immigrazione nel paese nel corso dei
primi anni 2000. (JARRIN MORÁN, DAN E DE LUCAS 2012, 10). Se nel 1998 la Spagna era una delle
nazioni europee con la più bassa percentuale di popolazione immigrata (poco meno del 2%), già nel
2005 il rapporto aveva raggiunto 8,5% e nel 2011, secondo l'Istituto Nazionale di Statistica, e la
popolazione nata all'estero del paese iberico aveva raggiunto i 5,7 milioni di persone (INE 2012).
A dispetto di un così aumento consistente ed improvviso della pressione migratoria, la Spagna ha
rappresentato per lungo tempo un’eccezione nel panorama europeo, sempre più marcatamente
caratterizzato da politiche restrittive verso l’immigrazione (regolare e non) e da un generale
atteggiamento di chiusura e timore verso lo straniero da parte della popolazione nazionale come dei
media. Percepiti come preziosa manodopera a basso costo dall’imprenditoria e come una valida
153
risorsa nella gestione dei costi sociali61
dalla gran parte della popolazione, i migranti erano
generalmente ben tollerati nell’opinione pubblica, con toni che rasentavano l’entusiasmo nei più
accesi sostenitori del multiculturalismo. Ancora nel 2007, un sondaggio rivelava come il 42% degli
spagnoli ritenesse che i processi di immigrazione stessero contribuendo allo sviluppo del loro paese,
contro il corrispondente 19% della popolazione francese e di quella inglese62
. La crisi finanziaria
emersa nel 2008 con l’esplosione della bolla del mercato immobiliare, in cui moltissimi degli
immigrati spagnoli erano occupati, ha cambiato radicalmente questa prospettiva. Gli episodi di
razzismo e xenofobia sono andati aumentando costantemente63
e parallelamente ad essi i centri per
la detenzione amministrativa dei migranti irregolari si sono moltiplicati sul territorio iberico, mentre
il Governo puntava con decisione sul miglioramento della sicurezza urbana e il rafforzamento dei
controlli ai confini.
Ad oggi la materia dell’immigrazione è regolata in Spagna da diverse fonti normative: viene
innanzitutto in rilievo la Legge Organica n. 4 dell’11 gennaio 2000 (meglio conosciuta con la sigla
LOEX), come modificata dalla Legge organica n. 2 dell’11 dicembre 2009 e integrata dal suo
regolamento attuativo approvato nel 2011 (RLOEX)64
, che si occupa di disciplinare i diritti degli
stranieri legittimamente presenti sul territorio nazionale e di favorirne l’integrazione sociale. A
queste vanno aggiunte la Legge n. 12 del 30 ottobre 2009 in materia di asilo e protezione
internazionale65
, il Protocollo quadro del 28 ottobre 201166
sulla protezione delle vittime della tratta
61
Come nel caso italiano, buona parte della popolazione immigrata femminile presente in Spagna era ed è tutt’oggi
impiegata nel settore dei servizi domestici e della cura degli anziani. L’affidamento di questo tipo di compiti alle
donne straniere ha contribuito non poco ad incrementare il tasso di occupazione della popolazione femminile nel
paese iberico.
62 Il sondaggio è riportato da CAROL MATLACK nel suo articolo Spain: Immigrants welcome, “Bloomberg Businesweek
Magazine”, 20 maggio 2007.
63 Questo elemento emerge chiaramente da quanto dichiarato da Mutuma Ruteree, Relatore Speciale delle Nazioni
Unite sulle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza, a seguito della sua
visita in Spagna avvenuta nel gennaio 2013. Ruteree ha enfatizzato la crescita dell’ostilità verso i migranti nel
discorso politico e ha sottolineato come gli stranieri in Spagna si trovino attualmente ad affrontare gravi situazioni di
sfruttamento lavorativo, di emarginazione sociale e di difficoltà dal punto di vista abitativo, per poi ricordare come
l’esperienza internazionale insegni che «blaming vulnerable groups for the economic crisis can create a climate of
racial hostility and violence against such groups». Il testo completo del discorso è disponibile sul sito http//:
www.ohchr.org.
64 Ley Orgánica 4/2000, de 11 de enero, sobre derechos y libertades de los extranjeros en España y su integración
social, pubblicato nel Boletìn Oficial del Estado n. 10 del 2 gennaio 2000 e Real Decreto 557/2011, de 20 de abril,
por el que se aprueba el Reglamento de la Ley Orgánica 4/2000, sobre derechos y libertades de los extranjeros en
España y su integración social, tras su reforma por Ley Orgánica 2/2009, pubblicato nel Boletìn Oficial del Estado
n. 103 del 30 aprile 2011.
65 Ley 12/2009, de 30 de octubre, reguladora del derecho de asilo y de la protección subsidiaria, pubblicato nel Boletìn
Oficial del Estado n. 263 del 31 ottobre 2009.
66 Protocolo marco de protección de las víctimas de trata de seres humanos, elaborato dal Consejo General del Poder
Judicial.
154
di esseri umani e l’Ordine Ministeriale del 22 febbraio 199967
che disciplina il regime del
trattenimento nei centri di detenzione amministrativa per i migranti. Sulla base dell’attuale assetto
della LOEX i migranti possono essere detenuti nei Centros de Internamiento de Estranjeros (C.I.E.)
in cinque ipotesi:
a) al fine di realizzare l’espulsione dei migranti che abbiano commesso una delle «infrazioni
gravi» o «molto gravi» elencate agli articoli 53 o 54 della stessa legge, tra le quali sono
comprese l’ingresso o la permanenza sul territorio spagnolo senza la necessaria
«autorización de residencia»; l’aver esercitato un’attività lavorativa in Spagna omettendo di
richiedere preventivamente l’«autorización administrativa para trabajar»; l’aver tentato di
lasciare il territorio nazionale senza documenti identificativi o attraverso valichi di frontiera
non ufficiali; aver favoreggiato l’immigrazione clandestina e, più in generale, rappresentare
un pericolo per l’ordine pubblico
b) sulla base di un ordine emesso dall’autorità giudiziaria in caso in cui le autorità di polizia
non siano in grado di dar seguito ad un ordine di espulsione nei confronti di uno straniero
entro settantadue ore dalla sua emanazione (art. 58, comma 6)
c) quando è stato attribuito un termine per la partenza volontaria ad un soggetto destinatario di
un ordine di espulsione e questi non vi ha ottemperato nel tempo prescritto
d) nel caso in cui sia configurabile il rischio di fuga dello straniero
e) quando il non cittadino sia stato condannato per un illecito penale sanzionato con la pena
della reclusione superiore ad un anno e inferiore a sei. In questi casi la legge spagnola
prevede la possibilità di comminare l’espulsione come possibile sanzione sostitutiva, anche
se in ogni caso l’allontanamento dal territorio potrà anche avvenire una volta scontata la
pena nei normali istituti penitenziari (art. 57, commi 2-4 della LOEX e art. 89 del Còdigo
Penal)
La Legge Organica del 2000 non specifica quali debbano essere le autorità pubbliche deputate alla
detenzione dei migranti nei C.I.E., ma la gestione dei Centri è affidata al Ministerio del Interior e il
mantenimento della sicurezza all’interno di questi ultimi è generalmente affidato all’Unidad Central
de Expulsiones y Repatriaciones (un’unità specializzata del corpo nazionale di polizia), che si
occupa dell’esecuzione delle operazioni di espulsione e del coordinamento delle diverse strutture di
detenzione amministrativa. I migranti possono essere trattenuti in stato di fermo nei Centri per
settantadue ore, trascorse le quali, per prolungare il periodo di detenzione è necessaria una
67
Orden del Ministerio de la Presidencia de 22 de febrero de 1999: Régimen de los Centros de Internamiento de,
pubblicato nel Boletìn Oficial del Estado n. 47 del 24 febbraio 1999.
155
convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Il trattenimento deve durare il tempo strettamente
necessario a portare a termine le procedure di espulsione e non può protrarsi per più di sessanta
giorni (erano quaranta prima dell’adozione della Direttiva Rimpatri da parte del Governo spagnolo).
Se l’espulsione non è avvenuta entro i sessanta giorni il migrante dev’essere immediatamente
rilasciato, anche se la legge non è chiara su quale sia il suo status una volta abbandonato il Centro68
.
Se l’autorità giudiziaria non convalida il prolungamento della detenzione in un C.I.E. è sempre
possibile per le autorità di P.S. adottare una o più misure precauzionali, al fine di evitare che lo
straniero possa rendersi irreperibile per eludere l’effettiva esecuzione dell’ordine di espulsione. Tra
le misure in questione sono compresi il ritiro del passaporto o del documento di identità, l’obbligo
di presentarsi al posto di polizia a cadenze precise, la residenza obbligatoria e, più in generale,
qualunque altro provvedimento che il giudice abbia ritenuto adeguato al caso di specie (artt. 235 e
236 del RLOEX). Alcune associazioni umanitarie hanno suggerito che questo sistema di misure
alternative dovrebbe essere utilizzato come unico mezzo di controllo nei confronti di persone
destinatarie di un ordine di espulsione ma che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità
(per problemi di salute, anzianità, stato di gravidanza) o che sono responsabili di minori, evitando in
tal modo completamente l’approccio, anche di pochi giorni, con i centri di detenzione (CPU 2011,
50 e ss.).
Quanto alle ulteriori garanzie procedurali, contro la convalida dell’ordine di detenzione può essere
presentato ricorso al Juez de Instruccìon (giudice istruttore) competente per il distretto in cui si
trova il detenuto, che riceve altresì tutte le petizioni e le denunce relative alle violazioni dei diritti
fondamentali all’interno dei C.I.E.. I reclami e i ricorsi devono essere presentati dai migranti
trattenuti al direttore del singolo Centro, che deciderà autonomamente se rispondervi direttamente o
inoltrare la richiesta all’autorità giudiziaria (la cui decisione, una volta emessa, è inappellabile).
L’art. 62-bis della Legge Organica n. 4/2000 indica quali debbano essere i diritti garantiti allo
straniero all’interno dei C.I.E.. Innanzitutto viene ribadita la natura non detentiva delle strutture
(«caràcter no penitenciario»), che deve avere finalità soltanto preventiva e cautelare: all’interno dei
centri dovrebbero essere garantiti tutti i diritti e le libertà previsti dalla legge spagnola, senza altre
limitazioni che quelle relative alla libertà di movimento. In particolare il migrante ha diritto a veder
68
Le persone che hanno ricevuto un ordine di espulsione, secondo l’art. 58 della Legge Organica n. 4/2000, non
possono rientrare nel territorio dello Stato per un periodo di cinque anni (ai quali può essere sommato anche un
divieto di due anni se il soggetto ha commesso una delle «gravi violazioni» di cui all’art. 53). Poiché lo status del
migrante rilasciato per scadenza dei termini di detenzione non è esplicitamente determinato alcuni autori hanno
messo in luce come questi si trovi in una situazione di “limbo legale”, nella quale corre costantemente il rischio di
essere nuovamente detenuto per violazione della normativa in materia di reingresso (JARRIN MORÁN, DAN E DE
LUCAS 2012, 45).
156
garantito il proprio diritto alla vita, all’integrità fisica e alla salute e a non essere sottoposto a
trattamenti inumani e degradanti: di conseguenza è sempre assicurata all’interno dei centri
l’assistenza medica, quella psicologica e quella sociale. Dev’essere tempestivamente informato
della propria situazione legale e dev’essere dato pieno accesso alla struttura al suo avvocato69
,
eventualmente anche al di fuori dell’orario generale di visita del Centro, se l’urgenza del caso lo
richiede. Il migrante ha diritto a colloqui (secondo la cadenza stabilita dall’amministrazione del
centro) con la propria famiglia, con i funzionari consolari del proprio paese d’origine, con le
organizzazioni non governative nazionali e internazionali che si occupano di tutela dei migranti e
con tutti gli altri soggetti autorizzati dal direttore del Centro. Queste visite possono essere proibite o
limitate soltanto dietro autorizzazione del giudice. Se lo straniero non comprende lo spagnolo viene
assistito da un interprete, che gli viene assegnato gratuitamente se non ha sufficienti mezzi
finanziari. Il monitoraggio sul rispetto dei diritti umani all’interno dei C.I.E. viene affidato alle
organizzazioni internazionali e nazionali (legalmente registrate) che si occupano di tutelare i
migranti, ai quali dev’essere garantito l’accesso a tutte le strutture, con le modalità e le tempistiche
stabilite dalla legislazione regolamentare.
Particolari previsioni normative sono contenute nell’ordinamento spagnolo in relazione alla
detenzione di determinate categorie di individui, segnatamente i minori, i richiedenti asilo e le
persone vittime di abusi o di human trafficking. Quanto ai primi, la LOEX stabilisce all’art. 62,
comma quarto un divieto generale di trattenimento dei minori all’interno degli ordinari Centros de
Internamiento por Estranjeros, fatta salva la previsione di cui al successivo art. 62-bis, che
attribuisce al genitore straniero detenuto la possibilità di essere accompagnato dai figli minori se il
Ministerio Fiscal (il Pubblico Ministero) ha preventivamente concesso la propria autorizzazione, a
condizione che il Centro sia dotato di apposite aree dedicate ai nuclei familiari, in grado di
assicurarne l’unità e la riservatezza. I minori non accompagnati non possono in alcun modo essere
detenuti e vengono ospitati in appositi Centros de Acogida de Menores, la cui gestione è affidata
alle comunità autonome regionali spagnole. Secondo i dati riportati da European Migration
Network, nel 2011 sono transitati dai centri spagnoli più di 2700 minori non accompagnati, la
maggior parte dei quali nelle enclavi di Ceuta e Melilla (EMN, 2011). L’azzeramento della
69
L’avvocato può essere assegnato d’ufficio al migrante, in caso non abbia i mezzi necessari per procurarsi
l’assistenza legale, in base ai requisiti stabiliti in via generale dalla Ley de Asistencia Iurìdica Gratuita (Legge n. 1
del 10 gennaio 1996). Non esistono uffici legali stabili all’interno dei Centri, quindi i migranti fanno riferimento agli
Ordini forensi locali: in assenza di una regolamentazione unica della materia il livello di accesso all’informazione
legale nelle diverse strutture del paese rimane disomogeneo (MIGREUROP SPAIN 2011, 25). Il coordinatore del
servizio di assistenza legale per stranieri dell’Ordine degli Avvocati di Madrid affermava che, nel corso del 2011,
sugli oltre 5000 migranti detenuti nella città, solo poco più di 2000 avevano usufruito del servizio (ABOGACÍA
ESPAÑOLA 2012, 5).
157
detenzione dei minori non accompagnati dovrebbe essere, a nostro parere, uno degli obiettivi sui
quali il governo spagnolo sarebbe tenuto a concentrarsi maggiormente, coerentemente con le
previsioni legislative nazionali e in ottemperanza alle norme europee e sovrannazionali in materia di
tutela dei minori.
Per quanto riguarda i richiedenti asilo la norma di legge, non prevede un obbligo di trattenimento
nei confronti di coloro che hanno presentato richiesta di protezione internazionale e sono in attesa
della definizione del proprio status. Se però lo straniero ha presentato domanda di asilo mentre si
trovava all’interno di un C.I.E. in attesa di espulsione, rimane in stato di detenzione per tutta la
durata del procedimento. Le istanze inoltrate da migranti in stato di detenzione amministrativa
possono essere dichiarate inammissibili con una procedura accelerata, che prevede l’adozione della
decisione entro 4 giorni dalla presentazione. Il periodo di tempo concesso per la decisione finale in
tema di ammissibilità può essere esteso a dieci giorni dietro richiesta dell’UNCHR (secondo quanto
previsto dagli artt. 21 e 25 della Legge n. 12/2009). Se l’istanza è dichiarata ammissibile
l’incartamento verrà valutato entro i tre mesi successivi, se invece è dichiarata inammissibile lo
straniero verrà trattenuto nel centro fino al momento dell’avvenuta espulsione. I dati segnalano che
solo il 10% delle richieste di asilo presentate al governo spagnolo proviene da persone detenute nei
C.I.E. e un numero estremamente esiguo di tali richieste viene accolto – la strettissima tempistica
entro la quale la valutazione sull’ammissibilità dev’essere effettuata è stata indicata da diverse
organizzazioni non governative come il più serio ostacolo all’effettività della protezione
internazionale in Spagna.
Il regolamento attuativo della Ley Organica n.4/2000 contiene, infine, diverse disposizioni volte a
tutelare maggiormente quei migranti che si trovano in situazioni di particolare vulnerabilità. Una
disposizione innovativa riguarda le donne migranti vittime di violenza di genere:
indipendentemente dalla regolarità del loro status queste donne non possono essere espulse e se
l’ordine di allontanamento è già stato emesso nel momento in cui denunciano gli abusi questo viene
automaticamente sospeso (art. 131 del RLOEX)70
. La normativa spagnola incentiva
l’identificazione delle vittime di human trafficking e human smuggling direttamente alle frontiere o
nei centri di detenzione amministrativa: a questi soggetti vengono concesse alcune garanzie contro
l’espulsione, secondo quanto previsto dal Protocollo quadro del 2011. Un ulteriore caso in cui
l’espulsione può essere sospesa in base alla normativa spagnola, è poi quello in cui le persone
70
La legge non chiarisce il punto, ma sembrerebbe che se il presunto autore non viene poi condannato dal Tribunale
l’ordine di esecuzione ritorni pienamente eseguibile (AMNESTY INTERNATIONAL 2010, 2). Sulla materia rimangono
aperte diverse questioni problematiche, relative in particolare all’efficacia dell’ordine di espulsione già emesso nei
casi in cui il reato cada in prescrizione oppure nel caso in cui non sia possibile individuare un soggetto autore della
violenza.
158
destinatarie del provvedimento di allontanamento coatto si trovano in stato di gravidanza o soffrono
di patologie mediche tali che l’espulsione ne metterebbe a repentaglio la vita e l’integrità fisica (artt.
246 e 247 del RLOEX). Nonostante la lettera della norma sia molto chiara in tal senso le
associazioni spagnole di tutela dei migranti hanno denunciato con frequenza la detenzione nei C.I.E.
e la conseguente espulsione di donne incinte o persone affette da patologie psichiatriche
(MIGREUROP SPAGNA 2011, 24; WLW 2012, 21 e ss.).
Nei primi mesi del 2013 i Centros de Internamiento de Estranjeros operativi sul territorio spagnolo
erano 7, situati rispettivamente ad Algeciras (Centro de la Pinera), Barcelona (Centro de zona
franca), Lanzarote (terminal aeroportuale), Las Palmas de Gran Canarias (Centro de Branco Seco),
Madrid (centro de Carabanchel), Murcia (Centro de Sangonera la Verde), Santa Cruz de Tenerife,
(Centro de Hoya Fria) e Valencia (Centro de Zapadores). Il Centro de Matorral di Fuerteventura è
stato chiuso temporaneamente su ordine del Governo nel maggio 2012, data la forte diminuzione
del numero di sbarchi avvenuti nelle Canarie nel corso dell’anno. Nel giugno 2012 è stato invece
chiuso (parrebbe definitivamente) il Centro de Capuchinos di Malaga, che aveva suscitato una
l’indignazione dell’opinione pubblica per le pessime condizioni di vivibilità della struttura, in cui
venivano trattenuti una cinquantina di migranti.
Ai centri permanenti vanno aggiunte diverse strutture temporanee, costituite ad hoc e utilizzate
normalmente soltanto durante gli annuali picchi dei flussi migratori diretti verso le isole Canarie e
le enclavi nordafricane di Ceuta e Melilla. Questi particolari luoghi di detenzione, denominati
Centros de Estancia Temporal de Inmigrantes, trovano posto in strutture la cui originaria finalità era
decisamente diversa: ex basi militari, capannoni abbandonati riadattati all’uso, parcheggi per
autocarri sui quali vengono costituite tendopoli temporanee. In passato il Governo Spagnolo è stato
fortemente criticato per le pessime condizioni di manutenzione di questi centri (come pure per
l’incapacità di garantire al loro interno l’integrità psicofisica dei migranti): sforzi consistenti sono
stati portati avanti per rinnovare alcune strutture, in particolare quelle di Port of Almeria e Las
Canteras, situate a La Laguna, nelle isole Canarie (APDHA 2008). Nonostante questo i due decessi
di un uomo e una donna migranti avvenuti nel 2011 e nel 2012 nei centri di Valencia e Barcelona71
sono stati messi in relazione proprio alle condizioni di trattenimento che entrambi avevano
71
Il 19 dicembre 2011 morì Martine Samba, una cittadina della Repubblica Democratica del Congo di 34 anni. La
diagnosi ufficiale dell’ospedale è stata quella di polmonite batterica, ma pare ormai assodato che la morte sia invece
da correlarsi ad uno stato generale di immunodeficienza: nessuno dei medici dei C.E.T.I. di Melilla o del C.I.E. di
Madrid aveva accertato che la donna era sieropositiva. Il 6 gennaio 2012 morì invece il giovane guineano Idrissa
Diallo (21 anni), in circostanze ancora non del tutto chiarite, dopo essere stato trasportato dal centro di Melilla a
quello di Barcelona quindici giorni prima.
159
precedentemente sperimentato nel centro temporaneo di Melilla, dove non erano state prestate loro
attenzioni mediche adeguate.
Infine anche la Spagna prevede la presenza di diverse zone d’attesa (note con il nome di Salas de
Asilo) negli scali aeroportuali strategici del paese, come l’aeroporto Barajas di Madrid. Se non in
casi eccezionali72
, non è sono stati riportati casi di trattenimento in queste aree per periodi superiori
alle 24 ore e i migranti irregolari che vi transitano sono reimbarcati immediatamente se accettano il
rimpatrio volontario oppure sono trasferiti con celerità nei C.I.E.. Le persone che transitano dalle
zone d’attesa non sono ricomprese nelle statistiche dei migranti detenuti rilasciati dal ministero
dell’Interno.
Prendiamo ora in considerazione quelle che sono le condizioni attuali di detenzione nei C.I.E., come
sono state messe in luce dai diversi rapporti redatti negli anni dalle diverse organizzazioni non
governative operanti in Spagna e dal Defensor del Pueblo (che oltre al ruolo di difensore civico
svolge anche quello di autorità di garanzia per il sistema carcerario). È innanzitutto da segnalare
proprio il frequente diniego dell’accesso alle strutture: nonostante quanto previsto dalla lettera
normativa, spesso ai rappresentanti delle organizzazioni non viene permesso di visitare i centri o, se
l’accesso viene garantito, non viene data loro la possibilità di prendere contatto con tutti i detenuti.
Gli operatori riferiscono di alcuni centri dove le condizioni igienico-sanitarie rasentano
l’invivibilità, in strutture prive di impianti di riscaldamento l’inverno e condizionamento l’estate (ad
esempio a Las Palmas). In linea più generale va segnalato come due terzi dei Centri si trovino
all’interno di edifici che in passato erano utilizzati come penitenziari o alloggi militari, da cui la
difficoltà di reimpostare gli spazi per le attività ricreative o di socializzazione, che pure la legge
prevede. I problemi di igiene e pulizia sono resi più acuti dalla prassi comune di chiudere l’accesso
ai bagni durante la notte, quando le zone sono meno controllate e quindi la polizia teme
maggiormente il rischio di fuga: questo costringe gli uomini ad orinare nelle bottiglie o, se presenti,
nei bagni interni ai moduli abitativi, da condividere con altre otto-dieci persone che dormono nella
medesima stanza.
72
Nel 2007 il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consigio d’Europa criticò fortemente le condizioni della
Sala de Asilo dell’aeroporto Barajas, facendo riferimento anche a casi nei quali le persone erano state trattenute al
suo interno per ben più di 24 ore. Riportiamo qui di seguito un estratto del rapporto:«The conditions of detention in
the area for foreigners at Barajas International Airport, Madrid, were basic. The three large one-room units were
sparsely furnished, with a limited number of chairs and beds, and some mattresses on the floor. Further, there was
no access to outdoor exercise nor activities of any other kind, and no specific support was provided for children.
That said, the lighting was adequate, the ventilation sufficient, and the sanitary facilities were clean. Such
conditions are only suitable for holding persons for short periods of 24 hours or less. However, the CPT was
informed that persons were being held in the rooms for upwards of seven days. This is not acceptable» (CPT 2011).
Per un ulteriore caso di trattenimento estremamente prolungato cfr. 29 dìas “encerrada” en Barajas, articolo
pubblicato il 29 aprile 2011 su http:// www.legalcity.es.
160
Un'altra problematica che è stata messa in luce è la gestione marcatamente “poliziesca” dei Centri,
che prevede frequenti perquisizioni all’interno delle camere e forti limitazioni alle possibilità di
comunicare con l’esterno: i cellulari dei migranti vengono sequestrati all’ingresso, causando
frequenti tensioni per l’uso (regolamentato) delle poche cabine telefoniche e l’impossibilità di
recuperare i numeri di telefono se non li si sono imparati a memoria. (CPU 2011). In caso di
problemi di ordine pubblico o sicurezza all’interno dei Centri le indicazioni del ministero sono nel
senso di autorizzare immediatamente l’intervento delle squadre antisommossa. Le persone
condannate per reati penali che si trovano all’interno dei C.I.E. in attesa di espulsione sono
alloggiati nelle medesime aree di coloro che vi si trovano soltanto per aver infranto norme
amministrative: questa commistione alimenta senza ombra di dubbio il potenziale “criminogeno” di
queste strutture.
Da ultimo va segnalata la posizione particolarmente difficile delle donne detenute all’interno dei
C.I.E., che rappresentano circa il 10% della popolazione migrante che transita all’interno delle
strutture. Solo i centri di Valencia, Madrid e Barcelona sono dotati di un padiglione riservato
soltanto alla popolazione femminile e in quest’ultimo è frequente che l’area dedicata alle donne sia
invece utilizzata per prestare assistenza ai migranti intercettati in mare e le migranti vengano
dirottate verso il primo centro. I risultati della ricerca condotta da Women’s Link Worldwide
(WLW 2012, 15 e ss.) sulle strutture di detenzione amministrativa del paese iberico mostrano un
alto livello di discriminazione basata sul sesso: alle donne vengono garantiti periodi di tempo più
brevi all’aria aperta; gli spazi ricreativi, se presenti, sono più piccoli e male attrezzati; gli spazi
privati sono generalmente molto carenti e le donne si devono occupare personalmente di effettuare
le pulizie nel proprio reparto, mentre in quelli maschili queste vengono garantite da ditte di servizi
esterne. Le migranti trattenute spesso faticano ad ottenere i prodotti necessari alla propria igiene
intima73
e nella gran parte dei casi non è in alcun modo permesso l’accesso ai contraccettivi orali o
ad altri mezzi di controllo delle nascite.
In chiusura di questa panoramica sulla detenzione amministrativa in Spagna vorremmo segnalare un
fenomeno particolare, che può essere individuato come uno dei punti più evidentemente
problematici del sistema di gestione dei flussi migratori predisposto dal paese iberico: la detenzione
extraterritoriale. A partire dai primi anni 2000, il Governo spagnolo si è impegnato
73
Una donna detenuta nel centro di Barranco a Las Palmas riportava, ad esempio, il proprio disagio nel dover
richiedere di giorno in giorno che le venissero forniti gli assorbenti igienici, che non erano distribuiti con regolarità
alle detenute. Costretta ad indicare il numero di assorbenti che le erano necessari era stata costretta a specificare
all’ufficiale di polizia di avere un flusso mestruale abbondante poiché questi le chiedeva sospettoso come mai le
servissero in numero maggiore rispetto a tutte le altre detenute.
161
nell’incrementare la cooperazione con diversi paesi africani, per coordinare con essi i controlli di
frontiera e le misure di contrasto all’immigrazione clandestina, ivi compresa l’istituzione di diversi
centri per la detenzione degli irregolari situati direttamente nei paesi extraeuropei. Accordi per il
controllo dei flussi migratori e la riammissione degli espulsi sono stai conclusi con la Mauritania
nel 2003 e nel 2006. La Spagna ha anche finanziato la creazione di un centro di detenzione a
Nouadhibou (Mauritania) che è stato usato sistematicamente per detenere i cittadini di paesi terzi
intercettati in alto mare in rotta verso le Isole Canarie (secondo quanto riportato, tra gli altri, da
Amnesty International). Il ruolo del Governo, della polizia e dell’esercito spagnolo nella gestione di
questi centri “esternalizzati” non è ben chiaro, ma non pare limitarsi all’aspetto del finanziamento:
il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha segnalato almeno un caso accertato in cui
l’autorità di P.S. e la marina spagnola hanno esercitato il loro controllo sui migranti a partire dal
momento del loro salvataggio in mare per proseguire durante tutto il periodo della loro detenzione
in Mauritania74
. La prassi in vigore sembra essere quella per cui se un migrante proveniente dal
Nordafrica viene intercettato in alto mare dalle autorità spagnole (anche in acque territoriali), se non
è in immediato pericolo di vita viene automaticamente respinto verso la Mauritania, dove le autorità
del paese africano dovrebbero occuparsi di determinare l’effettiva nazionalità dei migranti e
provvedere al loro rimpatrio definitivo: la violazione sistematica del principio di non-refoulement è
evidente.
Cercando di concludere la nostra analisi sulla detenzione amministrativa dei migranti sulla base
dell’esperienza italiana, spagnola e britannica, raffrontandola con quanto abbiamo detto in apertura
di capitolo in merito alle caratteristiche generali della normativa in materia di immigrazione in
ambito europeo ci sembra di poter affermare che in ciascuna nazione europea il sistema dei Centri
presenta da un lato proprie caratteristiche peculiari, dall’altro una matrice comune
nell’impostazione finalistica. La c.d.“via europea” alla gestione dell’immigrazione sembra ridursi al
fatto che ciascun paese del vecchio continente ha sempre e comunque necessità di espellere un certo
numero di migranti. La creazione dei Centri è lo strumento più efficace per riuscire effettivamente
ad espellerne una parte, seppur esigua, ma è soprattutto lo strumento essenziale per ottenere il
74
Così riporta la relazione del Comitato : «the State party maintained control over the persons on board the Marine I
[la nave a bordo della quale i migranti erano stati intercettati] from the time the vessel was rescued and throughout
the identification and repatriation process that took place at Nouadhibou. In particular, the State party exercised,
by virtue of a diplomatic agreement concluded with Mauritania, constant de facto control over the alleged victims
during their detention in Nouadhibou. Consequently, the Committee considers that the alleged victims are subject to
Spanish jurisdiction insofar as the complaint that forms the subject of the present communication is concerned»
(Cfr. J.H.A. v. Spain, CAT/C/41/D/323/2007).
162
risultato mediatico che molti governi nazionali sembrano aver inseguito nell’ultimo ventennio:
sedimentare nell’opinione pubblica l’idea che lo Stato protegga i suoi cittadini; li protegga prima
chiudendo dietro alte mura e poi spedendoli lontano coloro che sono portatori di disordine,
violenza, criminalità - gli stranieri.
Al di là di questo fil rouge facilmente rinvenibile - nel discorso politico prima e nella normativa poi
– in tutti i maggiori paesi dell’U.E., non possiamo far altro che constatare come il tentativo della
legislazione europea di creare uniformità normativa negli stati dell’Unione non abbia avuto la forza
di penetrazione auspicata originariamente dalle istituzioni comunitarie. La Direttiva Rimpatri ha un
contenuto troppo elastico e il diritto di opting out esercitato da alcuni Stati non ha fatto che
peggiorare il quadro generale, permettendo, ad esempio, che l’effettività del diritto alla piena tutela
giurisdizionale contro la detenzione amministrativa si perdesse nelle mille piccole anse
dell’ordinamento giudiziario (in Italia è stata l’attribuzione del giudizio di convalida al Giudice di
Pace, nel Regno Unito la creazione e quasi immediata abolizione dell’Asylum and Immigration
Tribunal).
Il sistema dei centri per la detenzione amministrativa ha le proprie falle, più o meno gravi in
ciascuno dei paesi dell’area europea (per il Regno Unito le più evidenti sono sicuramente della
mancata previsione di un termine massimo per il trattenimento, la gestione privata dei centri e la
mancanza di un sistema di controllo giurisdizionale automatico su ogni provvedimento di
espulsione e detenzione; per la Spagna l’esternalizzazione dei centri a paesi extraeuropei, la
presenza di diverse lacune normative che lasciano alcuni migranti in situazioni di “limbo legale” e
la generale condizione di incuria in cui sono lasciate le strutture permanenti e temporanee). Quello
che sembra fare la differenza (l’elemento che fa in modo che paesi come il Regno Unito siano
considerati «safe for returns» mentre altri, come l’Italia, siano nella black list dei paesi che non
rispettano i basilari diritti umani dei migranti) è l’impiego delle risorse, in grado di incidere
fortemente sulle modalità di azione della pubblica amministrazione nella gestione dei luoghi
destinati agli immigrati irregolari. Il confronto tra le 130£ al giorno spese per ogni migrante
dall’erario inglese, i 35 euro pagati alle ultime imprese aggiudicatrici da quello italiano e i 17 euro a
persona concessi dal Ministero dell’Interno spagnolo75
è impietoso La scelta di investire nel
miglioramento e nella manutenzione delle strutture, l’accurata determinazione dei luoghi in cui
costruire i centri, la formazione specifica del personale amministrativo e degli agenti di polizia, il
monitoraggio costante sulla gestione delle strutture: se parlare di abolizione della detenzione
75
Non esistono cifre ufficiali rilasciate dal Ministero o dal Governo spagnolo in merito ai costi della detenzione
amministrativa nel paese. Il dato qui riportato è quello riportato da LEGALCITY (2012 ?).
163
amministrativa rimane un tabù, questi almeno ci sembrano gli elementi cruciali per garantire che il
soggiorno, seppur forzato, all’interno dei un Centro non si trasformi in un esperienza altamente
traumatica per i migranti e in una ferita aperta nel sistema di tutela nazionale e sovrannazionale dei
diritti umani.
164
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