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Un "populismo 2.0"? Note sul Movimento 5 Stelle

Date post: 29-Jan-2023
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Un "populismo 2.0"? Note sul Movimento 5 Stelle (Flavio Chiapponi) Pavia, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Centro Interuniversitario di Analisi dei Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP) "Mario Stoppino", 19 dicembre 2013 Non presento una relazione strutturata, piuttosto una serie di note (appunti per la ricerca) che sto sviluppando intorno ad una possibile via per dare conto del populismo (e del Movimento 5 Stelle) nel quadro del sistema politico italiano. Mi soffermerò su tre snodi principali: 1) in primo luogo, provo a mostrare in quale senso il partito di Grillo può essere ricompreso in una definizione generale del populismo in democrazia (in altre parole: perché il M5S è un partito populista); 2) in secondo luogo, sposto il fuoco sui contributi specificamente dedicati al M5S, allo scopo di ricostruire le linee lungo le quali la ricerca si è (finora) indirizzata, nonché le conclusioni alle quali è pervenuta; 3) infine, alla luce di quel che c’è e, soprattutto, di quel che manca in letteratura, il mio tentativo sarà non tanto quello di proporre una interpretazione dell’emersione e del successo del M5S, quanto piuttosto di focalizzare le condizioni empiriche che paiono presiedere alla (nel senso di favorire la) ascesa del 1
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Un "populismo 2.0"? Note sul Movimento 5 Stelle

(Flavio Chiapponi)

Pavia, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Centro

Interuniversitario di Analisi dei Simboli e delle Istituzioni

Politiche (CASIP) "Mario Stoppino", 19 dicembre 2013

Non presento una relazione strutturata, piuttosto una serie di

note (appunti per la ricerca) che sto sviluppando intorno ad una

possibile via per dare conto del populismo (e del Movimento 5

Stelle) nel quadro del sistema politico italiano. Mi soffermerò su

tre snodi principali:

1) in primo luogo, provo a mostrare in quale senso il partito di

Grillo può essere ricompreso in una definizione generale del

populismo in democrazia (in altre parole: perché il M5S è un

partito populista);

2) in secondo luogo, sposto il fuoco sui contributi specificamente

dedicati al M5S, allo scopo di ricostruire le linee lungo le quali

la ricerca si è (finora) indirizzata, nonché le conclusioni alle

quali è pervenuta;

3) infine, alla luce di quel che c’è e, soprattutto, di quel che

manca in letteratura, il mio tentativo sarà non tanto quello di

proporre una interpretazione dell’emersione e del successo del

M5S, quanto piuttosto di focalizzare le condizioni empiriche che

paiono presiedere alla (nel senso di favorire la) ascesa del

1

populismo (e del particolare populismo del M5S) nel sistema

politico della Seconda Repubblica.

I

Procedo in modo sintetico e, dunque, semplificato. Comincio col

dire che un rapido sguardo ai contributi aventi per oggetto il

populismo in democrazia consente di identificare tre caratteri

invarianti dei partiti e movimenti populisti, che appaiono

necessari a definire il fenomeno (Chiapponi 2012a). In

particolare, considero populista ogni partito che, nelle

poliarchie mature:

- si appella al popolo (variamente declinato: Canovan 1999, Mény e

Surel 2001) come portatore di dignità etica ed esclusiva fonte

della legittimità politica – questo riferimento plasma il polo

positivo del discorso politico populista; i populisti si

rappresentano come gli outsider che, rispetto alla classe politica

tradizionale, incarnano le virtù genuine del popolo, il che ci

porta al secondo elemento invariante, per cui i populisti

- propugnano uno strenuo anti-elitismo (non solo in politica: si

schierano infatti contro le élites intellettuali, sociali,

finanziarie, economiche, culturali, ecc.); ossia, il populismo

veicola una veemente protesta anti-élites (che incarna così il

polo negativo del discorso populista) – sul terreno politico hanno

come bersaglio il governo, ma anche, solitamente, i partiti

mainstream di opposizione, accusati di avere tradito il mandato

popolare, di usurpare il potere perseguendo interessi

particolaristici a danno del bene comune (del popolo);

2

- infine, sono insofferenti rispetto alle mediazioni istituzionali

(anti-istituzionalismo): i leader populisti oppugnano le norme, le

procedure, i filtri che presiedono al funzionamento delle

istituzioni nelle poliarchie e preferiscono il legame diretto

leader/seguaci. Questo tratto distintivo li conduce, da un lato,

ad esprimere diffidenza e fastidio per le regole ed i vincoli

propri delle istituzioni democratiche e rappresentative (rispetto

alle quali viene esaltato il mito del pieno dispiegamento della

sovranità popolare, sovente in connessione a istituti quali il

referendum oppure le leggi di iniziativa popolare); dall’altro, ad

optare per organizzazioni politiche a struttura leggera, che

approssimano in massimo grado i tratti del partito personale

(Calise 2010), dove si osserva una distribuzione interna delle

risorse potestative tendenzialmente piramidale, con al vertice il

leader e i pochi facenti parte del suo “inner circle” (Taggart 1995).

Tale definizione del populismo è volutamente generale e

parsimoniosa; pare inoltre possedere una buona “capacità di

viaggiare” per dirla in termini sartoriani, e riflette i

principali risultati ai quali le diverse traiettorie di

approfondimento sono approdate (Mény e Surel 2001; Tarchi 2003;

Canovan 2004; Mudde 2004; Pasquino 2008; Zaslove 2008). A questo

riguardo, si rendono necessarie alcune, rapide, precisazioni.

Prima precisazione: allorché un partito o movimento politico

presenta i tre caratteri enunciati, esso viene incluso nel campo

del populismo a prescindere dalla sua collocazione sul continuum

destra-sinistra. In tal senso, malgrado vi siano posizioni che

assegnano le manifestazioni concrete del populismo allo spazio

politico della destra, sovente “radicale” o “estrema” (Taggart3

1995; Betz e Immerfall 1998; Betz 2002), è ormai un dato acquisito

dalla letteratura che, proprio perché la mentalità populista non

fatica guadagnare consensi ed adepti anche nelle organizzazioni

politiche della sinistra di derivazione marxista (v. tra gli altri

Lazar 1997, Mair 2002), il metro ideologico basato sull’asse

destra-sinistra si dimostra del tutto inadeguato a misurare un

fenomeno che si rivela contraddistinto da una relativa ubiquità

(Canovan 1981, Taggart 2000, 2004), specialmente nel nostro paese

(Tarchi 2002, 2003, 2008). Per altro, non di rado tanto i

militanti, quanto gli elettori di questi partiti si mostrano

refrattari a collocarsi sul continuum ideologico, considerandolo a

vario titolo superato o inutile.

Ne viene che, seconda precisazione, le distinzioni entro il campo

populista possono essere tracciate in ragione della concreta

fisionomia che assumono i tre caratteri così enucleati, in

particolare la declinazione del popolo, che naturalmente possono

mutare in connessione alle variabili di tempo (anche in capo al

medesimo movimento o partito) e/o di luogo.

Terza precisazione: dire che i partiti populisti sono insofferenti

rispetto alle procedure della democrazia rappresentativa non

significa affermare che rifiutino en bloc le istituzioni della

poliarchia: non solo perché partecipano alle elezioni, ma anche

perché, laddove questi attori sono giunti a controllare ruoli di

governo (Italia, Austria, Olanda, Svizzera), non hanno operato per

stravolgere gli istituti della democrazia rappresentativa (e

questo dovrebbe suggerire agli analisti cautela nel classificarli

come “anti-sistema”). Piuttosto, essi paiono promuovere il

rafforzamento dei meccanismi di controllo delle non-élites sulle

élites politiche, in obbedienza ad una concezione della4

rappresentanza politica che sovente assume le sembianze della

“rappresentanza descrittiva” (il rappresentante come specchio del

rappresentato: Pitkin 1972).

Quarta precisazione: la presenza di un leader carismatico, che

spesso costituisce la modalità concreta attraverso cui si

realizza, sul piano organizzativo, l’immediatezza del contatto con

i seguaci, non costituisce un elemento necessario né per

l’esistenza, né per il successo di un partito populista. Il punto

è controverso in letteratura (v. ad esempio Hermet 2001, Zaslove

2008), tuttavia, da una parte, la qualifica di “carismatica” è

stata utilizzata forse con eccesiva disinvoltura in rapporto alla

leadership dei partiti populisti (Chiapponi 2013), trascurando il

rigore che dovrebbe sempre accompagnare l’utilizzo del concetto

weberiano nell’analisi dei partiti politici («molte perplessità

sono state manifestate sull’uso di un concetto che rischia sovente

di essere utilizzato come un passe-partout mediante cui descrivere

qualsiasi forma di potere personale», Panebianco 1982, 263), che

non di rado è stato applicato al di fuori dei limiti (stringenti)

che Weber stesso aveva indicato (Friedrich 1961), annacquandone la

specificità – a dare retta a certi contributi, si arriverebbe al

paradosso per cui nei vari sistemi politici europei sono presenti

pletore di leader carismatici, tanti quanti sono i partiti

populisti e anche di più, quando una delle peculiarità della

leadership carismatica sta, per definizione, nella sua stra-

ordinarietà. Dall’altra parte, inoltre, l’evidenza empirica è che

vi sono partiti politici populisti che hanno ottenuto od ottengono

un considerevole consenso elettorale senza esibire una leadership

carismatica (ad es., la Lega Nord dopo Bossi, oppure il Partito di

Centro in Svizzera sotto il controllo di Cristoph Blocher).5

Perciò, il carisma del leader non può rappresentare una componente

necessaria in vista di una definizione generale del fenomeno. Lo

stesso Grillo, dal mio punto di vista, mentre è sicuramente

portatore di una leadership politica definita in termini

assolutamente personalizzati, non è inquadrabile nella categoria

carismatica.

Una volta chiarito, sul piano definitorio, il profilo dei partiti

populisti, resta da giustificare l’inclusione del Movimento 5

Stelle in questo insieme. In effetti, il punto non è scontato, né

condiviso.

A ben vedere, a volte anche la definizione di “partito”, nel caso

del M5s, viene messa in discussione (Lanfrey 2011): qui, tuttavia,

mi è facile appoggiarmi sulle spalle dei giganti e sostenere, con

Sartori, che ogni gruppo politico organizzato che, sotto l’egida

di un simbolo, di programmi e di ideali comuni, presenta liste di

candidati per concorrere alla elezione delle istituzioni

rappresentative della democrazia, ai diversi livelli di governo, è

un partito (in tal senso, v. anche Passarelli, Tronconi e Tuorto

2013); da questo punto di vista, detto in altri termini, la

partecipazione alla prassi autonoma e necessaria della lotta per

il potere politico, che nelle poliarchie si dispiega nel modo più

evidente in occasione delle elezioni, fa di una qualsiasi

organizzazione un partito politico (Stoppino 2001) – non mi sembra

possano sussistere ragionevoli dubbi in materia.

Dico che il punto non è scontato né condiviso poiché in uno dei

principali contributi dedicato al Movimento si legge: Il discorso di Grillo recupera molti degli argomenti usati dai movimentipopulisti … La traduzione della protesta in proposta del comico genovese

6

è però molto diversa. Per i partiti della destra populista il popolo puòriacquistare la sovranità affidandosi ad un leader “forte” in grado difare valere nelle istituzioni la volontà della gente comune. Il progettodel M5S è invece di riconquistare la sovranità popolare attivando tuttele forme di partecipazione dei cittadini, in particolare diffondendo leesperienze di democrazia diretta e di democrazia deliberativa (Biorcio eNatale 2013, 140-41).

A me sembra che l’opposizione istituita tra discorso populista (di

destra) e M5S sia del tutto apparente e che solo l’adesione ad un

punto di vista che riflette un (pre)giudizio di valore può

condurre alla esclusione del M5S dall’orbita del populismo. In

effetti, Grillo e il suo partito si appellano al popolo (declinato

e trasfigurato nei termini dei cittadini comuni), si proclamano

suoi portavoce, scagliandosi contro la “casta” e i professionisti

della politica, ai quali viene imputata la responsabilità delle

difficoltà nelle quali il popolo si dibatte; propugnano inoltre la

piena realizzazione della volontà popolare, in spregio delle

istituzioni politiche nazionali e sovranazionali (UE), descritte

in termini negativi e caricaturali (non si contano, a questo

riguardo, gli attacchi verbali di Grillo e dei suoi seguaci al

Parlamento, alla Presidenze delle Camere e della Repubblica). Dal

mio punto di vista, questi aspetti paiono sufficienti per

considerare il Movimento come un partito populista. Populista e

non portatore dell’antipolitica tout court (ovvero di una visione

negativa della politica), poiché, come altri hanno chiarito

(Schedler 1997, Mete 2010), se da un lato il registro antipolitico

viene sovente impiegato dai partiti populisti, vi possono

dall’altro essere leader, partiti e movimenti che sono

antipolitici ma non populisti (ad esempio, in Italia Mario Monti

ha dato spazio ad un tipo di antipolitica tradizionalmente

7

ascrivibile alle élites economiche, secondo cui la politica

sarebbe una sfera di attività distante dalle esigenze concrete

della popolazione, nella quale dominano l’inefficienza,

l’inefficacia, a differenza di quanto accade nel mondo della

produzione e dell’impresa).

II

Volgendo lo sguardo ai contributi che hanno specificamente per

oggetto il M5S (Biorcio e Natale 2013, Corbetta e Gualmini 2013,

Diamanti e Natale 2013), sembra possibile identificare quattro

linee di approfondimento principali:

a) la mappatura degli orientamenti e degli atteggiamenti che

albergano nell’elettorato del M5S;

2) la caratterizzazione del M5S sul piano organizzativo;

3) la delineazione dei tratti distintivi della comunicazione del

M5S e del suo leader;

4) la specificazione delle cause che hanno alimentato il successo

del M5S entro il sistema politico italiano.

Va detto che tutte concorrono a comporre un significativo

avanzamento nella cognizione di questo oggetto, per certi versi

ancora inesplorato. Da questo angolo visuale, non sono poche le

informazioni che si possono ottenere.

1) Quanto agli elettori, le analisi finora più raffinate dei loro

atteggiamenti, raccolti grazie alla somministrazione di survey

(Pedrazzani e Pinto 2013, Bordignon e Ceccarini 2012, 2013a,

2013b) convergono nell’affermare, da una parte, che lo spartiacque

nella “normalizzazione” dell’elettorato “pentastellato” si situa8

in corrispondenza delle amministrative del 2012, dopo le quali

aumenta il bacino potenziale del Movimento, in particolare

arricchendosi di coloro che, sul piano delle caratteristiche

sociodemografiche, provengono da tutte le fasce di età (e non più,

in misura prevalente, dai più giovani) e che, sul piano dei

precedenti comportamenti di voto, arrivano dalle fila del

centrodestra (Lega e PDL) e non più (quasi) esclusivamente dal

centrosinistra o dal non voto; dall’altra parte, si osservano

diversi punti di contatto con la composizione del sostegno

elettorale che nelle altre democrazie continentali premia i

partiti neopopulisti (Bordignon e Ceccarini 2013a), malgrado

alcuni contributi, in modo forse un po’ forzato, sottolineino la

contiguità con gli elettori della sinistra ambientalista e post-

materialista (partiti verdi), rifiutandosi di caratterizzare i

sostenitori del M5S in senso definitivamente populista (Pedrazzani

e Pinto 2013).

2) Circa l’organizzazione del M5S, dalla letteratura specialistica

affiorano sostanzialmente due dati. Primo: il forte accentramento

in rapporto alla direzione nazionale del Movimento, agevolata

dall’uso del web quale unico strumento di raccordo tra leadership

e seguaci (Chiapponi 2012b), attraverso il quale si realizza

l’immediatezza del contatto (virtuale) tra capo e masse tipico del

populismo. Occorre osservare che la peculiarità sta qui nel mezzo

impiegato per tale collegamento, che è di per sé fonte di

problematicità: giacché un movimento nato in maniera “orizzontale”

online incontra difficoltà allorché vuole tradursi in partito

politico offline, nella misura in cui la leadership politica

configura un rapporto accentuatamente verticale – di qui le

frequenti rivendicazioni di maggiore autonomia degli eletti o la9

contestazione a Grillo e Casaleggio di esercitare una guida “non

democratica” del Movimento; a tale proposito, non di rado il

modello di riferimento del M5S è stato indicato nel partito

“azienda” (Hopkin e Paolucci 1999), dove, analogamente a quanto

accade nel contratto di franchising aziendale, la leadership è

proprietaria del brand che concede in esclusiva solo alle

rappresentanze certificate sul territorio (come per altro

stabilisce l’art. 3 del “non Statuto”, il documento che

disciplina il funzionamento interno del partito di Grillo) –

Bordignon e Ceccarini 2013a. Secondo dato messo in luce dai

contributi: a tale concentrazione di risorse potestative nelle

mani del vertice nazionale fa da contraltare l’esistenza di una

relativa indipendenza decisionale in periferia, dove, a seguito di

un processo genetico che ha prevalentemente seguito il percorso di

germinazione per diffusione (Passarelli, Tronconi e Tuorto 2013),

le rappresentanze subnazionali del M5S conservano margini di

autonomia significativi in rapporto alle necessità poste dalla

competizione politica locale.

3) Spostando l’attenzione sugli elementi comunicativi che paiono

contraddistinguere i “grillini”, gli studiosi sono approdati a due

conclusioni principali. Per un verso, è fuori discussione, in

vista dell’efficacia della proposta politica avanzata dai

“pentastellati”, la rilevanza cruciale assunta dall’impiego del

web e del web 2.0, cioè dei social networks e delle piattaforme

informatiche del tipo MeetUp (Bentivegna 2013). Nel caso in esame,

tali elementi non designano semplicemente degli strumenti di

comunicazione del programma e delle prese di posizione del

Movimento, bensì rappresentano specifiche modalità di

organizzazione e di mobilitazione politica: sotto questo profilo,10

il M5S si può plausibilmente considerare come il partito italiano

che più degli altri ha tratto pieno vantaggio dalle potenzialità

offerte dalla Rete, tanto da costituire una vera e propria “meta-

organizzazione” offline che ricalca le peculiarità strutturali dello

spazio mediatizzato online (v. in particolare Lanfrey 2011,

Bordignon e Ceccarini 2013b, Vaccari e Mosca 2013). A questo

proposito, è stato osservato che, in tal guisa, i candidati del

M5S sono stati capaci di guadagnare il sostegno di cittadini che,

proprio in virtù dell’utilizzo di questi media, non si sono

collocati al di fuori del mercato elettorale (Mosca e Vaccari

2013). Per l’altro verso, cominciano ad affiorare contributi che

mirano ad isolare i tratti distintivi della retorica di Grillo,

non solo sul piano dei contenuti del suo discorso politico

(Bordignon e Ceccarini 2013a), che sostanzialmente richiamano

quelli propri dei movimenti e partiti populisti (in primis la

polemica “antipolitica” contro la “casta”), ma anche sul piano

stilistico e della organizzazione semantica. Da questo angolo

visuale, i primi risultati (Cosenza 2013) mostrano che l’eloquio

di Grillo inclina a riprodurre, non a caso, molti dei tratti

tipici del linguaggio comico-satirico (a partire dal meccanismo

della “bisociazione” e del turpiloquio), che massimizzano

l’appello all’emotività dell’uditorio piuttosto che la ricezione

razionale del messaggio. L’impatto di tali aspetti risulta

accresciuto, specialmente in occasione dei comizi pubblici,

allorché si accompagna ad un sapiente impiego della gestualità e

del linguaggio del corpo. Tutti aspetti, questi ultimi, che paiono

funzionali alla trasmissione di un messaggio nel quale campeggia,

al di là di qualche accenno alle tematiche ambientali, la

11

corrosiva critica alla politica mainstream (Passarelli, Tronconi e

Tuorto 2013), nel solco appunto dei movimenti e partiti populisti.

4) Quanto alle ragioni che presiedono all’affermazione, per certi

versi inaspettata nelle dimensioni elettorali, del M5S entro il

sistema politico italiano, i contributi che affrontano di petto la

questione sono ancora scarsi. Conviene perciò fissare l’attenzione

sui pochi tentativi finora avanzati. In tal senso, Roberto Biorcio

(2013) ha identificato le cause del crescente consenso che il

Movimento ha ottenuto, fino all’apice raggiunto in occasione delle

elezioni politiche del 2013, in tre fattori: la fama e la grande

considerazione del Grillo comico presso vasti strati di pubblico

(elettorato) – da questo punto di vista, asserisce Biorcio,

“L’ingresso in politica di un comico può avere … un’efficacia

particolare perché utilizza e trasforma elementi molto importanti

della cultura popolare, più volte messi in evidenza dagli studi

degli antropologi”(Biorcio 2013, 45); la mobilitazione politica

che ha fatto leva sull’utilizzo del web; la raccolta e la gestione

della protesta contro i partiti tradizionali e il governo, attuata

dal neonato movimento politico “che si propone per un nuovo tipo

di rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni democratiche”

(44).

Alcuni di questi temi sono presenti anche nelle analisi approntate

da altri autori. Ad esempio, Bordignon e Ceccarini (2013a)

individuano essenzialmente quattro fattori che hanno facilitato il

successo grillino: a) la crisi del sistema politico italiano,

intesa soprattutto come la destrutturazione sul lato dell’offerta

politica, che l’uscita di scena di Berlusconi ha reso evidente

(nel senso che

12

“ha portato allo scongelamento politico del sistema,caratterizzato da mutamenti tra ed entro i partiti. Il ‘vuoto’creato dalla dissoluzione di partiti esistenti, la ridefinizionedell’offerta politica e, più in generale, l’apertura di uno spazioelettorale competitivo hanno finito per avvantaggiare ilprotagonismo del M5S” – 13);

b) il clima antipolitico, inteso quale «La diffusa

delegittimazione sociale dei leader e dei partiti ‘tradizionali’»

(14); c) la crisi economica e finanziaria globale, che pone ai

governi e più in generale alla politica istanze che paiono

rimanere prive di una risposta efficace; d) la ribalta offerta al

M5S dalle elezioni “di secondo ordine” del 2012, che ne hanno

decretato lo “sdoganamento” come alternativa elettorale viable entro

il sistema politico italiano.

Dal canto suo, Diamanti (2013), pur riconoscendo le venature

populiste presenti nella strutturazione e nella proposta politica

del M5S, afferma dall’altra parte che “la stessa categoria di

«populismo» appare non troppo definita” (14). Egli tende perciò a

considerare questo nuovo soggetto politico come il veicolo

attraverso cui si esplicita una sorta di inventario o di

“catalogo” che assomma in sé le tensioni presenti nelle democrazie

contemporanee, situato a cavallo di due modelli, la democrazia dei

partiti e la democrazia del pubblico (Manin), senza appartenere a

nessuno dei due. In tal senso, il successo del Movimento

costituisce una specie di “termometro” attraverso il quale è

possibile leggere lo stato di salute del sistema politico

italiano.

Pure Corbetta (2013) rinviene in Grillo e nel suo Movimento tutti

i tratti distintivi del tipo ideale di partito populista, inclusa

la presenza del un leader carismatico: ma proprio su questo

13

terreno, secondo questo autore l’esperienza del M5S rivelerebbe la

sua spiccata originalità, giacché “Da una parte, la presenza di Beppe Grillo, leader carismatico eprofeta, è incontestabile. Nessuno ha il minimo dubbio sul fatto chesenza Grillo il Movimento non sarebbe mai nato e che senza la sualeadership probabilmente oggi non sopravvivrebbe. Dall’altra parte, èproprio l’utopia di una democrazia diretta resa oggi possibile graziealla rete … che rappresenta l’intuizione originale del M5s e ne faqualcosa di nuovo rispetto a tutti gli altri movimenti populisti.Partecipazione diretta che naturalmente è l’antitesi esatta di qualsiasiforma di leadership.” (205).

Sotto questo profilo, Corbetta intravede nel Movimento una sorta

di “terza via” (ibidem) alla soluzione del problema della

leadership, che non sfocia né nella leadership carismatica né

nella gestione collegiale – il problema è che non indica la natura

di siffatta leadership, a parte un allusivo collegamento a

Internet quale nuovo mezzo di gestione strutturale del movimento,

che permetterà la piena realizzazione della sovranità del

cittadino. Aderendo a questa impostazione, attenua l’assegnazione

del M5S al campo populista laddove afferma che, pur

rispecchiandone i tratti distintivi, il Movimento ““Presenta tuttavia l’assoluta novità – non solo in campo nazionale maanche internazionale – di un rapporto particolare e di una valorizzazionepolitica nei confronti di quella che abbiamo sinteticamente definito la«rete». Si apre qui una finestra di opportunità nuova e sconosciuta.”(211).

Qui stanno le potenzialità espansive del M5S, che egli riconduce,

sul piano delle condizioni facilitanti, alla “triplice crisi” che

ha investito il sistema politico italiano, di matrice cioè

economica, politica e morale, di impatto “superiore” a quello

registrato in occasione di Tangentopoli (Corbetta 2013, 212).

Quanto alla durata nel lungo periodo del successo grillino, questo

14

autore appare scettico, tuttavia la connette alla capacità, da

parte della nuova formazione politica, di risolvere due dilemmi:

il raccordo tra dimensione locale e dimensione nazionale; il

processo di istituzionalizzazione del Movimento.

III

Vengo alla parte conclusiva del mio intervento, per la quale muovo

da una duplice considerazione che traggo dal materiale fin qui

illustrato. Primo: si osserva nella letteratura dedicata al M5S

una certa cautela, quando non riluttanza, ad assegnare

risolutamente e definitivamente il partito di Grillo al campo

populista, pure in presenza di molteplici indicatori che paiono

giustificare appieno questa scelta sul piano scientifico. In altre

parole, sembra qui registrarsi una ennesima ripresa del tema della

eccezionalità italiana, una lettura secondo la quale gli sviluppi

politici del nostro paese sarebbero dotati di una presunta

originalità, tale da sottrarli dalla applicazione delle categorie

abitualmente adoperate dalla scienza politica per designare,

classificare ed interpretare i fenomeni politici. Oltre a quanto

già esposto, bastano due citazioni a rivelare pregiudizio:“Perché, alla fine, se ne (del M5S, ndr) possono cogliere e ricavaresuggerimenti, puttosto che definizioni definitive. Perché l’oggetto diindagine – e di discussione – sfugge, cambia di segno e immagine nonappena si tenta di fissarlo e di riassumerlo in modo conclusivo”(Diamanti 2013, 4).

“Il Movimento 5 Stelle presenta analogie con diversi tipi di esperienze eattori politici, ma è importante cogliere i tratti che lo caratterizzanocome formazione politica originale e difficilmente riproducibile”(Biorcio 2013, 44).

15

La seconda annotazione che traggo dalla rassegna proposta è che

manca ancora una indicazione chiara dei fattori che, sul terreno

del funzionamento delle istituzioni poliarchiche in Italia, hanno

facilitato l’emersione ed il successo del M5S. Il che è

paradossale, se si pensa alla natura dell’oggetto indagato

Dal mio punto di vista, i due aspetti sono connessi: ovvero, è il

mancato inquadramento del fenomeno grillino nella categoria del

populismo che ha finora ostacolato un esame ravvicinato del

fenomeno stesso nel quale la variabile istituzionale ricopra un

ruolo non trascurabile. Di qui allora bisogna partire se si

vogliono lumeggiare le condizioni che, entro il sistema politico

italiano, hanno alimentato l’affermazione di Grillo e del suo

partito.

La mia proposta allora si articola, in primo luogo, nel situare lo

sviluppo del M5S entro la cornice generale del populismo in

democrazia. Da questo angolo visuale, la mia opinione è che appare

del tutto plausibile assegnare questo soggetto politico alla

famiglia politica populista: una famiglia certamente variegata al

suo interno, ma che condivide alcuni tratti comuni (i tre

caratteri che ho esposto nella prima parte) che, appunto,

giustificano la presenza di partiti e movimenti emersi negli

ultimi vent’anni nelle democrazie europee nella medesima categoria

– una categoria che viene ampiamente utilizzata nell’analisi

politologica e la cui consistenza non appare soffrire di un

ancoraggio precario nella disciplina (o almeno, non più precario

di quello che sorregge altri strumenti largamente impiegati nella

ricerca empirica orientata secondo i canoni della scienza

politica); né vale, a questo riguardo, invocare presunte

originalità o tipicità proprie del M5S e non di altri movimenti e16

partiti populisti: per quanto il Movimento esibisca tratti

inediti, come l’efficace utilizzo del web, le peculiarità così

evidenziate non sembrano tali da sottrarre il partito di Grillo

dalla archiviazione sotto il genere populista – possono, tutt’al

più, segnalare la sua possibile appartenenza ad una particolare

specie di quel genere. A tale proposito, risponderei

all’interrogativo contenuto nel titolo della mia relazione

affermando che il M5S è certamente un movimento populista,

lasciando provvisoriamente in sospeso la questione del 2.0 – sì se

si intende un tipo di populismo che si appoggia in modo

preferenziale alla Rete, per quel che riguarda i media attraverso i

quali si realizza la presenza organizzativa del populismo; no, se

questa etichetta intende designare un tipo particolare di

populismo, una assoluta novità che si rivela refrattaria al

trattamento sistematico secondo le categorie concettuali

attualmente in uso).

Fissato questo punto, il passo successivo a mio avviso sta

nell’interrogarsi su quali sono le cause presiedono alla

manifestazione del populismo in democrazia. Da questo punto di

vista, la mia posizione è che, in primo luogo, la carta del

populismo può essere sempre giocata al tavolo della democrazia (v.

in tal senso Canovan 1999, 2002, 2004; Mény e Surel 2001), per una

congerie di fattori strutturali che sarebbe qui complicato

esaminare – ne cito però almeno uno: tanto il populismo quanto il

codice ideologico che legittima le poliarchie (la democrazia)

hanno in comune il mito della sovranità popolare. In altre parole,

la configurazione stabile dei regimi democratici è tale da rendere

endemica la presenza del populismo entro tale assetto potestativo.

17

Quel che varia è, semmai, il grado di successo della proposta

populista: accanto a paesi nei quali, nell’ultimo ventennio,

queste formazioni politiche hanno sistematicamente ottenuto quote

ragguardevoli di consensi elettorali (oltre all’Italia, in questo

elenco possono essere incluse altre poliarchie mature, quali

Olanda, Belgio, Francia, Austria, Svizzera, Norvegia, Danimarca),

figurano casi nei quali il populismo o non è presente, oppure

riceve un sostegno del tutto marginale (Germania, Gran Bretagna,

Spagna, Svezia fra gli altri).

Proprio alla luce di queste osservazioni, in secondo luogo, la

ricerca ha spostato il fuoco sulle variabili processuali, ovvero

sui dinamismi che caratterizzano la lotta per il potere entro le

poliarchie mature (v. ad esempio Taggart 1993, Kitschelt 2002). A

tale proposito, la prospettiva storica consente di porre in luce

il fatto che vi sono periodi nei quali la mobilitazione populista

ottiene più successo di quanto non accada in altri. Qui, procedo

per estrema semplificazione, gli elementi che presiedono

all’ascesa dei partiti e movimenti populisti sono due: per un

verso, il declino delle ideologie, in particolare quelle che

avevano articolato politicamente le fratture sociali sottostanti

ai sistemi politici europei, che prende avvio dai primi anni

Settanta e culmina con l’89; per l’altro, l’affacciarsi di crisi,

di diversa natura (economica, ma non solo, si pensi alle crisi di

legittimità) che, come hanno osservato diversi autori passati in

rassegna, pongono sotto scacco i governi nazionali e facilitano

gli imprenditori della protesta, come i populisti – che nella

cornice della fine delle ideologie rischiano di rappresentare

l’unica ipotesi viable di voice. Di nuovo, però, identificare questi

fattori non significa rendere conto compiutamente delle cause che18

agevolano l’affermazione dei populisti in democrazia: giacché si

tratta di fenomeni assolutamente generali. Molti paesi sono

investiti tanto dal declino della polarizzazione ideologica,

quanto dall’impatto delle crisi, ma non tutti esibiscono la

continuativa presenza di partiti populisti di successo: allora, se

queste componenti designano condizioni necessarie all’emersione

del populismo, non possiamo plausibilmente affermare che

costituiscano nel contempo condizioni sufficienti.

Per avanzare nella nostra ricognizione, la mia tesi è che occorre

spostare lo sguardo sulle istituzioni e sul loro funzionamento. In

particolare, mi sembra che vi siano diversi indizi che consentono

di affermare che fa differenza, in vista del successo della carta

populista, la capacità del sistema democratico di produrre esiti

processuali che vanno nel senso del governo e del cambiamento.

Governo, nel senso della produzione di decisioni politiche (policies)

che si rivelano efficaci nel rispondere positivamente alle domande

degli elettorati, specie in un contesto critico – dalla protezione

sociale alla moralizzazione della vita pubblica; ma governo anche

in un secondo significato, che mette a fuoco le precondizioni

necessarie a tale efficacia, prima tra tutte la stabilità di

governo, ovvero il fatto che gli esecutivi possano disporre di un

orizzonte temporale sufficiente a licenziare e ad implementare

misure efficaci di contrasto alla crisi. Cambiamento, nel senso

che le regole del sistema permettono il ricambio nei ruoli di

governo, ossia la circolazione delle élites: il fatto che ad una

coalizione o ad un partito succeda una coalizione di diverso

orientamento o il partito avversario, in una logica di più o meno

frequente ricambio – non deve in altre parole realizzarsi la

condizione per cui il governo è appannaggio continuativo dello19

stesso personale politico. Si tratta di aspetti che, volendo

utilizzare un termine alla moda, potremmo ricondurre agli ombrelli

concettuali della “qualità” o del “rendimento” della democrazia.

A me sembra che, almeno in prima battuta, queste ipotesi reggano

ad una prima verifica empirica. Sono queste le condizioni entro le

quali è maturata la prima insorgenza di successo del populismo

contemporaneo in Europa (Partito del Progresso norvegese, 1974);

le medesime variabili paiono all’opera nel caso del crescente

consenso che la FPÖ di Haider ha intercettato in Austria negli

anni 90-2000, così come sembrano guidare l’emersione della Lista

Pim Fortuyn in Olanda o del Vlaams Blok (ora Vlaams Belang) in

Belgio.

Venendo al caso italiano, non si può non notare che le due

elezioni nelle quali finora si è registrato il massimo consenso

per una proposta politica populista, in qualche occasione

articolata su più partiti (FI e Lega Nord), sono quelle del 1994 e

del 2013. Non a caso situate nel bel mezzo di una crisi economica

e di legittimità della classe politica tradizionale; che

chiudevano legislature traumatiche ed instabili; non a caso

precedute da governi tecnici (Ciampi e Monti), la cui nomina è

stata sottratta al circuito democratico-elettorale, sorretti da

una maggioranza trasversale che nei fatti rispecchiava tanto la

riduzione per quanto provvisoria, delle distanza ideologica tra

partiti avversari, quanto la difficoltà di fronteggiare

efficacemente le domande sociali rese impellenti dalla crisi.

Da questo punto di vista, la difficoltà a produrre governo e

cambiamento, nei significati velocemente illustrati, costituisce

il leit motiv del processo politico nella Seconda (e Terza?)

Repubblica ed è cruciale in vista sia della caratterizzazione20

dell’Italia come un “paradiso populista” (Tarchi 2003, 2008), sia

nel dare luogo a diversi populismi, ciascuno dei quali tende a

proporre una diversa configurazione dei tre caratteri invarianti

del populismo. In tal senso, credo che il M5S costituisca solo

l’ultima incarnazione, in ordine di tempo, del populismo italiano;

e che il suo successo, in prospettiva futura, così come il

successo di altre (possibili) carte che potranno uscire dal mazzo

populista, dipenderà, oltre che dalle capacità del Movimento di

risolvere positivamente i dilemmi organizzativi che gli studiosi

hanno brillantemente messo in rilievo, dalla capacità delle

istituzioni di dotarsi di dispositivi in grado di porre rimedio

alle lacune che ho sinteticamente posto in luce (governo e

cambiamento).

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