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GIULIO SCHIAVONI, Si può ri-pensare un'armonia? Considerazioni su "Grazia e dignità" di Friedrich...

Date post: 22-Feb-2023
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Il nome della collana già contiene il suo programma: non solo vuole diffondere, esplorare, passare al vaglio critico la letteratura di lingua tedesca, ma si prefigge anche di aprirsi al mondo, seguendo in questo il cosmopolitismo dello stesso Goethe, che disse a Eckermann: «Letteratura nazionale, oggigiorno, vuol dire poco. È giunto il momento di una letteratura universale». E infatti, la “compagnia” di Goethe era composta da autori di tanti paesi e, se vivesse oggi, ne siamo convinti, comprenderebbe non poche scrittrici. A ciò corrisponde l’inclusione dei gender studies e degli studi comparati fra le priorità di questa collana. Goethe & company Collana di studi germanistici e comparati 9
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Il nome della collana già contiene il suo programma:non solo vuole diffondere, esplorare, passare al vaglio critico

la letteratura di lingua tedesca, ma si prefigge anche di aprirsi al mondo, seguendo in questo il cosmopolitismo dello stesso Goethe,

che disse a Eckermann: «Letteratura nazionale, oggigiorno, vuol dire poco. È giunto il momento di una letteratura universale».

E infatti, la “compagnia” di Goethe era composta da autoridi tanti paesi e, se vivesse oggi, ne siamo convinti,

comprenderebbe non poche scrittrici.A ciò corrisponde l’inclusione dei gender studies

e degli studi comparati fra le priorità di questa collana.

Goethe & company

Collana di studi germanistici e comparati

9

Goethe & company

collana di studi Germanistici e comparati

fondatoriuta treder (†) e hermann dorowin

diretta dahermann dorowin

sezioni

TestiSaggi critici

Letteratura tedesca e letteratura comparataLetteratura tedesca e gender studies

comitato scientifico

Fabrizio Cambi (Università di Trento),

Maria Teresa Fancelli (Università di Firenze),

Maria Carolina Foi (Università di Trieste),

Antonella Gargano (Università di Roma “La Sapienza”),

Hans Höller (Universität Salzburg),

Claudio Magris (Università di Trieste),

Riccardo Morello (Università di Torino),

Rita Svandrlik (Università di Firenze),

Leonardo Tofi (Università di Perugia).

* * *

Questo volume è peer-reviewed.

Ulteriori informazioni su www.morlacchilibri.com

Sguardi sulla letteratura e sulla cultura tedesca

Studi in onore di Luigi Forte

a cura di Daniela Nelva e Silvia Ulrich

Morlacchi Editore U.P.

In copertina: Johan Christian Dahl, View of Pillnitz Castle, 1823. Olio su tela (70 x 45,5 cm), Museum Folkwang, Essen.

Questo volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Torino.

isbn: 978-88-6074-666-5

Impaginazione e copertina: Jessica Cardaioli

Copyright © 2014 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, non autorizzata. Finito di stampare nel mese di novembre 2014 dalla tipografia “Digital print-service” Segrate (MI).

indice

Introduzione di Daniela Nelva e Silvia Ulrich 9

***

Saggi

Anton Reininger

Die Ambivalenz der Liebe in Goethes Drama Torquato Tasso 13

Giulio Schiavoni

Si può ri-pensare un’armonia? Considerazioni su Grazia e dignità di Friedrich Schiller 37

Gerhard Friedrich

Im Labyrinth des J.M.R. Lenz: Der Waldbruder 51

Daniela Nelva

«E tutto, tutto era bello…». Il Taugenichts di Joseph von Eichendorff e l’utopia di un mondo perduto 67

Norbert Miller

„Die italianisierte Natur.“ Franz von Lenbach malt den Titusbogen 85

Gabriella D’Onghia

Mechtilde Lichnowsky: «Un pesce d’aprile al posto di una lettera» 113

Guido Massino

Praga, gennaio 1922. Thomas Mann legge La montagna magica. Kafka scrive Il castello 125

Alberto Destro

Rilke e Kierkegaard – ancora sull’amore infelice 139

Riccardo Morello

La figura del musicista in due romanzi del Novecento: il “Verdi” di Werfel e il “Ciajkovskij” di Klaus Mann 153

Anna Chiarloni

Gerhardt Hauptmann: un’Ifigenia tedesca 167

Sandra Bosco

Gli animali in Mutter Courage di Bertolt Brecht 181

Silvia Ulrich

«Ich bin unterwegs. Mein Gepäck ist leicht». L’ebreo Fred Wander, europeo “spaesato” 205

Massimo Bonifazio

«Una smania terribile di vivere». Appunti sull’esuberanza vitalistica nell’opera di Friedrich Dürrenmatt 221

Manuela Poggi

«Scrivere è qualcosa di completamente diverso dal parlare». Alcune riflessioni su teoria e prassi letteraria in Rolf Dieter Brinkmann 235

Chiara Simonigh

Der Himmel über Berlin. Alla ricerca di un’etica dello sguardo 251

Amelia Valtolina

Le “forme del dissenso” nella poesia di Durs Grünbein 263

Marcella Costa

Generi del parlato nella letteratura della “svolta”:il caso di Simple Storys 273

Mariana-Virginia Lăzărescu

Herta Müller ever and ever for ever 287

Lucia Cinato

La folìa. Störung. Considerazioni sul testo di Luigi Forte e la sua traduzione in tedesco 301

***

Indice dei nomi 317

Note biografiche 323

Tabula gratulatoria 329

Introduzione

I saggi di questo volume sono dedicati a Luigi Forte, studioso po-liedrico della cultura tedesca nelle sue varie manifestazioni, dai

grandi momenti del Sette-Ottocento al fin de siècle, dalle avanguar-die di inizio Novecento alla lirica e alla prosa più recenti.

L’ampiezza tematica e cronologica della raccolta, in cui si rispec-chia la molteplicità degli interessi del suo dedicatario, consente di individuare alcuni temi che percorrono il mondo tedesco in una parabola tesa dalla Goethezeit al presente: si tratta del rapporto tra etica ed estetica, del rovello dell’artista nel suo corpo a corpo con l’opera e nel suo problematico interagire con la realtà, del diffici-le confronto con una modernità incipiente o ancora delle diverse forme della dissidenza e della dialettica tra il singolo e il potere. A emergere nei contributi è ora la dimensione della Storia e della collettiva vicenda umana nei suoi momenti e luoghi più significativi – la ferita nazista, la guerra, l’esilio, la Berlino divisa e poi riunifi-cata – ora la sottile filigrana del vissuto soggettivo, rintracciabile nella fragile e umbratile scrittura privata. Ecco allora che accanto ai grandi autori – Goethe, Schiller, Rilke, Kafka, Thomas Mann, Dürrenmatt e, naturalmente, Brecht – si profilano figure meno note e quindi tanto più interessanti per il lettore.

In questo quadro si delineano poi altre due prospettive di let-tura: una che definiremmo “geografica” e una “antropologica”. Da un lato viene infatti focalizzato il concetto di de-territorializzazione della letteratura, volto a stimolare la riflessione sull’interazione fra centro e periferia che la germanistica ha ormai assunto come pro-spettiva interpretativa e che il conferimento del premio Nobel a Herta Müller ha riproposto con acceso interesse. Dall’altro si inda-ga sul Mensch, colto in alcune manifestazioni problematiche quali l’amore, il vitalismo, la follia. Quest’ultima, in particolare, è un tema caro a Luigi Forte, che negli anni lo ha perseguito sia sul versante

IntroduzIone10

accademico sia sul piano della scrittura, al punto da comporre egli stesso una pièce intitolata La Folia, di cui in queste pagine è propo-sta un’interessante analisi della traduzione tedesca.

Nel volume trovano infine spazio contributi dedicati alle altre arti – pittura, musica e cinema – che mostrano, in ultimo, la sinergia operante tra la cultura tedesca e quella italiana di cui Forte in più occasioni si è fatto mediatore.

Desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di quest’opera. Altri ancora avrebbero partecipato volentieri ma purtroppo per svariati motivi non hanno potuto farlo: anche a loro va la nostra gratitudine.

Daniela Nelva, Silvia Ulrich

***Nota delle curatrici

Per snellire la struttura del volume, solo in assenza di una tradu-zione edita si è deciso di accogliere le citazioni in originale, ripor-tandole in nota, a meno che il contributo in oggetto non si occupi nello specifico di problemi traduttivi.

SguardI Sulla letteratura e Sulla cultura tedeSca

Studi in onore di Luigi Forte

Giulio Schiavoni

Si può ri-pensare un’armonia?Considerazioni su Grazia e dignità di Friedrich Schiller

1. Oltre il sonno dei sensi e la misère del presente

L’arte – ci assicura Schiller – è tensione conoscitiva e morale, rimando alla libertà come «intima e suprema necessità», pu-

rificazione dell’impulso dal «sonno dei sensi»1, di quei “sensi” ai quali – nella sua epoca – si guarda con attenzione ma non senza ap-prensione, come mostra in particolare il pensiero di Kant, sospeso fra aperture intellettuali e rigorismo. Di qui la difesa della «grazia», manifestazione tangibile – secondo Schiller – di quell’armonia o equilibrio ideale fra «sensibilità» e «ragione» e fra «dovere» e «in-clinazione» che la bellezza, a suo giudizio, promette. Di qui però infine, contemporaneamente, anche l’impulso a problematizzare la perfezione dell’«anima bella», chiamata a trasformarsi – sotto gli attacchi della sensibilità – in «sublime» o, secondo la dicitura pecu-liarmente schilleriana, in «dignità».

Nel contesto di fine Settecento, in cui storia e natura si rivelano vieppiù contrassegnate dalla violenza e dalle disarmonie (non sol-tanto dagli “eccessi” della rivoluzione francese, ma più in generale dai disagi introdotti dalla dilagante divisione del lavoro e dai ritmi frenetici della società industriale), non sorprende che autori come Herder e Schiller, Hegel e Novalis avvertano l’urgenza di recupera-re una nuova forma che preconizzi il superamento dell’alienazione, lenisca la ferita che la civiltà infligge all’uomo moderno disartico-lando e rendendo antagonistiche dimensioni centrali dell’esistenza come sensualità e ragione.

Quest’enfatizzazione dell’arte e della pulchritudo in quanto ele-menti essenziali nella formazione degli esseri umani in vista del con-

1. f. schiller, Die Künstler [Gli artisti], in Poesie filosofiche, testo originale a fronte, a cura di G. pinna, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 10-36, qui pp. 20-21.

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seguimento di moralità e libertà e del raggiungimento di una verità intesa quale alterità rispetto al mondo dei sensi serpeggia, come una variazione musicale dal tono ora discreto ora quasi maniacale, in vari testi poetici e saggistici di Schiller, uno fra i non molti scrittori tedeschi del Sette-Ottocento (insieme soprattutto a Lessing, Moritz, Friedrich Schlegel e Goethe) capaci di coniugare felicemente la cre-azione letteraria con la riflessione sulla letteratura producendo una compiuta teoria estetica.

Supportato da un vistoso idealismo cui non si direbbe estraneo un platonismo di fondo, l’intento di ri-pensare l’armonia e di ripri-stinarla con il favore dell’esercizio estetico si affaccia già in alcuni testi schilleriani della fine degli anni Ottanta. Specialmente nella celebre lirica “filosofica” Die Künstler [Gli artisti, 1788], esempla-re testimonianza di una poetica in formazione che si preciserà so-prattutto in Über die ästhetische Erziehung des Menschen [Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, 1795], è possibile ravvisare una prima enunciazione della funzione degli artisti, nei quali – seguendo sollecitazioni di Karl Philipp Moritz e di Alexander Baumgarten – si individuano i nobili educatori dell’umanità, chiamati a tener testa – col loro “superiore” sguardo estetico – allo sguardo della ragione e delle scienze esatte, e una prima definizione della bellezza come «ra-diosa porta» attraverso cui entrare «nel paese della conoscenza»2. Il medesimo concetto viene, del resto, ribadito da Schiller in una lette-ra del 25 dicembre 1788 all’amico Christian Gottfried Körner nella quale egli osserva che tutte le opere d’arte, appagando la propria

2. «La dignità dell’uomo è affidata alle vostre mani, / serbatela! / Con voi essa affonda, con voi si eleverà». f. schiller, Gli artisti, cit., p. 35. Il debito intel-lettuale, riconosciuto dallo stesso Schiller, nei confronti dello scritto Über die bil-dende Nachahmung des Schönen [Sull’imitazione plastica del Bello, 1788] di Karl Philipp Moritz in questa celebre lirica è evidente nell’idea dell’opera d’arte quale insieme armonico di parti, della bellezza intesa come «un linguaggio più elevato» («das Schöne ist eine höhere Sprache») e nel motivo della natura che si fa incontro all’uomo favorendone – proprio grazie agli artisti – l’uscita dall’inerzia animalesca e dalla mera materialità. In proposito cfr. a. costazza, Genie und tragische Kunst. Karl Philipp Moritz und die Ästhetik des 18. Jahrhunderts, Peter Lang, Bern et al. 1999, pp. 37-87, e id., “Wenn er auf einen Hügel mit euch steiget / Und seinem Auge sich, in mildem Abendschein, / Das malerische Tal – auf einmal zeiget”. Die ästhetische Theorie in Schillers Gedicht Die Künstler, in p.-a. alt, a. Kośenina, h. reinhardt, w. riedel (a cura di), Prägnanter Moment. Studien zur deutschen Literatur der Aufklärung und Klassik, Königshausen & Neumann, Würzburg 2002, pp. 239-248.

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esigenza di bellezza, appagano indirettamente ogni altra esigenza, dato che «ogni bellezza si risolve alla fine in verità generale».

È però soprattutto nei grandi saggi della fase di ripensamen-to filosofico, nel decennio di dialettico travaglio in cui l’attività drammaturgica di Schiller – dopo il Don Carlos (1787) – subisce una lunga interruzione, che diviene via via evidente l’esaltazione di una Bildung (di una “formazione” non priva di richiami all’ideale dell’antica humanitas) concepita come premessa programmatica per il superamento della miseria politica del presente. Tra i frutti di questo intenso cimentarsi con la storia e la filosofia si segnalano dapprima alcuni scritti “minori” di estetica risalenti agli anni 1792-1793, tra cui Über die tragische Kunst [Sull’arte tragica], Vom Erha-benen [Del sublime] e Über das Pathetische [Sul patetico], e infine le tre trattazioni filosofiche “maggiori”: Über Anmut und Würde [Grazia e dignità, 1793], Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, in cui Schiller, ribadendo la necessità che la «disposizione esteti-ca dell’animo» sia «un dono della natura», preconizza l’ideale di uno Stato dominato dalla bellezza-verità e reso possibile grazie a un programma di «educazione estetica» dell’umanità, e Über naive und sentimentalische Dichtung [Sulla poesia ingenua e sentimenta-le, 1795-1796]. Proprio in quest’ultimo decisivo saggio si afferma che la massima espressione della poesia e del bello (che «da un lato deve concordare con la natura, dall’altro con l’ideale») va intravista nella sintesi fra il carattere ingenuo e quello sentimentale, più che nella loro drastica contrapposizione.

2. Come armonizzare sensibilità e ragione

Il saggio Grazia e dignità, redatto nella primavera del 1793, in sole sei settimane3, al fine di assicurare un adeguato contributo te-

3. Schiller inviò a Körner il manoscritto di Grazia e dignità il 20 giugno 1793. Una stesura tanto rapida fu possibile naturalmente perché egli si era già misurato con questioni estetiche sin dalla fine del 1792 e aveva enucleato a grandi linee la sua teoria del Bello già nei Kallias-Briefe [Lettere sulla bellezza]. La novità più evidente dell’articolo per la «Neue Thalia» fu costituita dall’intento di dimostrare «negli esseri umani» il nesso fra «bellezza e libertà».

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orico alla rivista «Neue Thalia»4, può considerarsi come l’appro-fondimento e il perfezionamento di una teoria estetica da Schiller precedentemente abbozzata nel fitto scambio epistolare da lui in-trecciato con il giurista jenese Christian Gottfried Körner (1756–1831) in forma di “dialogo filosofico” fra il 25 gennaio e il 28 feb-braio 1793. Quell’epistolario, che egli intendeva pubblicare sotto forma di trattato con il titolo Kallias oder Über die Schönheit [Callia o Della bellezza]5 e che è noto per lo più con il nome di Kallias-Brie-fe [Lettere sulla bellezza], era infatti rimasto allo stato di frammen-to. Di fatto il Kallias, il cui ruolo nella formazione di Schiller appare oggi agli studiosi sempre più determinante, non verrà mai scritto, sebbene il pensiero di portare a compimento quell’ambizioso dialo-go si riaffacci nello stesso saggio Grazia e dignità, allorché, sfiorato il problema del fondamento oggettivo della bellezza, se ne rimanda «la trattazione a una teoria analitica del bello»6.

Si è sovente e giustamente ribadita la prossimità della dottrina del Bello schilleriana alla filosofia kantiana, studiata a partire dal 1787 attraverso la mediazione di Karl Leonhard Reinhold7 (oltre che alla riflessione moritziana). Dell’entusiasmo di Schiller in par-

4. «La “Thalia” non deve restare in secca, e io vengo sostenuto in troppo malo modo dai miei collaboratori. Per tale ragione in questi giorni mi sono dedi-cato ad essa con due saggi. L’uno tratta di “grazia e dignità”, l’altro è sulla “rap-presentazione patetica”. Credo che ti interesseranno entrambi» (lettera di Schiller a Körner in data 27 maggio 1793. Dove non altrimenti indicato le traduzioni sono di chi scrive).

5. Per la versione italiana si vedano: f. schiller, Kallias o Della bellezza, Mur-sia, Milano 1993; Callia o Della bellezza, in Lettere sull’educazione estetica dell’uo-mo - Callia o Della bellezza, Armando, Roma 1984. Il Körner-Schiller-Briefwechsel [Carteggio Körner-Schiller], in cui Schiller tenta una prima elaborazione della «filosofia del Bello» (come egli affermerà in una lettera del 9 febbraio 1793 al Principe von Augustenburg), fu edito per la prima volta nel 1847. Tra le edizioni successive vanno segnalate: Briefwechsel zwischen Schiller und Körner. Von 1784 bis zum Tode Schillers, Cotta, Stuttgart 1892-1896, Bd. III); Kallias oder über die Schönheit. Fragment aus dem Briefwechsel zwischen Schiller und Körner, in Kallias oder über die Schönheit - Über Anmut und Würde, hrsg. von K.l. berGhahn, Re-clam, Stuttgart 1994, pp. 3-65 (con una buona postfazione di K.L. Berghahn che aiuta a comprenderne l’importanza).

6. Si veda f. schiller, Über Anmut und Würde, in Kallias oder über die Schöhnheit - Über Anmut und Würde, cit., pp. 69-151, qui p. 80; tr. it. Grazia e dignità, a cura di d. di maio e s. tedesco, SE, Milano 2010, qui p. 22.

7. Sul ripensamento del «sublime come libertà dal sensibile» quale primo risultato di tale confronto si veda l. pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Mursia, Milano 1983, pp. 35ss.

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ticolare per la Kritik der Urteilskraft [Critica del Giudizio, edita nel 1790] si ha testimonianza in una sua lettera del 3 marzo 1791 all’amico Christian Gottfried Körner:

Indovina che cosa, ora, sto leggendo e studiando? Kant, nientemeno. La sua Critica del Giudizio, che mi sono procurata, mi attrae per la vivacità spirituale e la luminosità del suo contenuto, e ha destato in me il più grande desiderio di addentrarmi gradatamente nella sua filosofia. La mia limitata conoscenza delle questioni filosofiche mi faceva trovare troppo difficile la Critica della Ragion pura, come pure qualche scrit-to di Reinhold: era una lettura che esigeva da me troppo tempo. Ma dato che ho molto riflettuto autonomamente sull’estetica e che – tutto sommato – in essa sono ancora maggiormente versato, procedo mol-to più facilmente nella lettura della Critica del Giudizio, e per questa via giungo fortuitamente a conoscere molti concetti kantiani, dacché Kant in quest’opera ne tratta e applica alla Critica del Giudizio molte concezioni della Critica della Ragion pura. Ho il presentimento, tutto sommato, che Kant non costituisca per me una montagna insormonta-bile, e di certo me ne occuperò in maniera ancora più approfondita8.

Le ricerche estetiche di Schiller ricevettero infatti un impulso determinante proprio dal confronto appassionato con la Critica del Giudizio kantiana e dal conseguente tentativo di offrirne una personale rielaborazione. I primi risultati di tale confronto diretto e autonomo con l’opera kantiana sono evidenti un anno e mezzo più tardi, nelle lezioni di estetica del semestre invernale 1792-1793 – a partire dal 5 novembre 1792 – trascritte da uno degli studen-ti (Christian Friedrich Michaelis) e riguardanti sostanzialmente i medesimi argomenti affrontati nella corrispondenza con Körner.

8. «…Du errätst wohl nicht, was ich jetzt lese und studiere? Nichts Schlech-teres als Kant. Seine „Kritik der Urteilskraft“, die ich mir selbst angeschafft habe, reißt mich hin durch ihren lichtvollen, geistreichen Inhalt und hat mir das größte Verlangen beigebracht, mich nach und nach in seine Philosophie hineinzuarbei-ten. Bei meiner wenigen Bekanntschaft mit philosophischen Systemen würde mir die „Kritik der Vernunft“ und selbst einige Reinhold-Schriften für jetzt noch zu schwer sein und zu viel Zeit wegnehmen. Weil ich aber über Ästhetik schon selbst viel gedacht habe und empirisch noch mehr darin bewandert bin, so komme ich in der „Kritik der Urteilskraft“ weit leichter fort und lerne gelegentlich viel Kanti-sche Vorstellungen kennen, weil er sich in diesem Werke darauf bezieht und viele Ideen aus der „Kritik der Vernunft“ in der „Kritik der Urteilskraft“ anwendet. Kurz, ich ahnde, daß Kant für mich kein so unübersteiglicher Berg ist, und ich werde mich gewiß noch genauer mit ihm einlassen». f. schiller, Briefe, hrsg. von G. fricKe, Hanser, München 1955, p. 256.

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Il 21 dicembre 1792, Schiller poteva scrivere programmaticamente a Körner:

Sulla natura del bello ho avuto un’idea illuminante, per cui credo di poterti conquistare alla mia teoria. Ritengo di aver trovato quel con-cetto oggettivo del bello, che eo ipso si qualifica anche per un principio oggettivo del gusto, e di cui Kant dispera. Sistemerò i miei pensieri sull’argomento e li pubblicherò nella Pasqua prossima in un dialogo intitolato Kallias oder Über die Schönheit9.

Dato che Schiller si sente trasportato in un «campo estrema-mente vasto» che lascia prefigurare per lui «territori ancora asso-lutamente sconosciuti», non sorprende che l’11 gennaio 1793 egli inviti Körner a mettergli a disposizione «scritti importanti sull’arte», tali da consentirgli anzitutto di disporre di un quadro storico dell’e-stetica, scienza ancora non molto sviluppata, aggiungendo di essere già in possesso delle opere di una nutrita serie di autori: «Burke10, Sulzer11, Webb, Mengs, Winckelmann12, Home13, Batteux, Wood, Mendelssohn14, oltre a cinque o sei brutti compendi». Nella rispo-

9. «…Über die Natur des Schönen ist mir viel Licht aufgegangen, so daß ich Dich für meine Theorie zu erobern glaube. Den objektiven Begriff des Schönen, der sich eo ipso auch zu einem objektiven Grundsatz des Geschmacks qualifiziert und an welchem Kant verzweifelt, glaube ich gefunden zu haben. Ich werde meine Gedanken darüber ordnen und in einem Gespräch „Kallias oder Über die Schön-heit“ auf die kommenden Ostern herausgeben». Ivi, p. 273.

10. Il riferimento è a edmund burKe (1729-1797), uno dei principali espo-nenti dell’estetica dell’empirismo inglese, autore della Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of Sublime and Beatiful (London 1757; tr. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. sertoli e G. miGlietta, Aesthetica, Palermo 1985), letto da Schiller probabilmente nella traduzione di Christian Garve (Riga 1773).

11. Il riferimento è al compendio di J.G. sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste [Teoria generale delle Belle arti, 1771-1774], che conteneva an-che il brano intitolato «Reiz», parola che nel Settecento è sinonimo del termine tedesco Grazie (grazia). Fra i punti sicuramente tenuti successivamente presenti da Schiller si possono ricordare la distinzione fra bellezza architettonica, grazia e dignità, e gli exempla mitologici, tra cui la rievocazione del «Gürtel des Reizes» (la «cintura della grazia») di Venere.

12. In particolare la Storia dell’arte, parte I (nell’edizione viennese).13. In particolare gli Elements of Criticism [Princìpi della critica] di henry

home, nella traduzione del Meinhard: un testo che, nella II parte, trattava diffusa-mente dei concetti di «grace» e di «dignity».

14. In particolare i testi Über die Hauptgrundsätze der schönsten Künste und Wissenschaften [Sui princìpi delle belle arti e delle scienze, 1757], Briefe über die Empfindungen [Lettere sulle sensazioni, 1761] e Rhapsodie, oder Zusätze zu den Briefen über die Empfindungen [Rapsodia, ovvero Aggiunte alle Lettere sulle sen-

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sta del 18 gennaio 1793 l’amico jenese non manca di rimpolpare quella lista di letture obbligate, integrandola con aggiunte preziose: «Hogarth sulla linea della bellezza, le considerazioni sulla pittura di Hagedorn, le Réflexions sur la peinture et la poésie di Dubos, il Lao-coonte di Lessing, i Kritische Wälder di Herder, la Neue französische Enzyklopädie, le lezioni di Reynold all’Accademia inglese delle belle arti, la vita dei pittori più famosi di D’Argenville, la Vita dei pitto-ri del Vasari, l’Accademia delle belle arti di Sandrart, i più deliziosi viaggi in Italia, come: Lalande, Volkmann, Moritz».

Si tratta effettivamente di un campo «estremamente vasto» che Schiller ripercorre partendo dalla teoria kantiana del bello, ap-prezzata per lo sforzo di purezza e di universalità, oltre che per la distanza rispetto al “sensualismo” francese e inglese, che in Ger-mania viene generalmente interpretato in chiave intellettualistica, specialmente nelle considerazioni di Mendelssohn sulla Philosophi-cal Inquiry (1757) di Burke15. D’altro canto egli non nasconde al suo amico Körner la propria inquietudine di fronte a due principali elementi che ravvisa nella concezione kantiana: da un lato lo smar-rimento della consistenza “oggettiva” del bello (che per il filosofo sembrava restar legato unicamente a un libero gioco delle facoltà dell’individuo, dunque risolversi in un fatto soggettivo qual è il sen-timento di piacere); dall’altro la forte limitazione rappresentata dalla bellezza d’arte.

Di qui l’affannosa ricerca di un «contrassegno oggettivo» del bello, contrassegno che Schiller codifica – secondo una celebre de-finizione destinata a riemergere anche in Grazia e dignità – nell’i-dea della bellezza in quanto «libertà nel fenomeno» (Freiheit in der Erscheinung), in quanto forma che trova nella spontaneità naturale la sua più intima connotazione. Rispetto alla soggettività del senti-mento kantiano della bellezza, assume qui rilievo una forma auto-noma, capace di sussistere (come si precisa in una famosa lettera del 23 febbraio 1793) «anche se si pensi assolutamente inesistente

sazioni, 1729-1786] di moses mendelssohn, nei quali il grande illuminista tedesco teorizza il Bello come perfezione percepita attraverso i sensi o espressa attraverso il sentimento.

15. m. mendelssohn, Rezensionsartikel in Bibliothek der schönen Wissen-schaften und der freyen Künste (1756-1759), in Gesammelte Schriften, hrsg. von e.J. enGel, Jubiläumsausgabe, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1977, pp. 216-235.

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il soggetto giudicante». Causa e condizione diretta del bello sono soltanto la sua «libertà», il suo potersi sciogliere da un oggetto (ad esempio una figura umana) e il suo spontaneo e intimo inerire a una nuova materia (ad es. un blocco di marmo) senza sforzarla, quasi che quest’ultima l’abbia espressa da sé. Rispetto a ciò, la “tecnica” non è che condizione indiretta. In un certo senso, dunque, con la sua ossimorica formula di sapore kantiano della «libertà nel fenomeno», Schiller tenta una sorta di mediazione fra la Critica della Ragion pura (regno della necessità) e la Critica del Giudizio (regno della libertà).

Proprio in questa combinazione dei concetti di libertà e di fe-nomeno, in questa percezione di una spontaneità naturale (di un «essere così, per se stessi», per la propria libertà, senza violazione delle proporzioni) trova giustificazione teorica anche il piacere su-scitato nell’uomo dal bello, quel piacere estetico che anche a Schiller (come già in Kant) appare come il frutto di un’armonizzazione della sensibilità e della ragione. Al punto che l’argomentazione finisce per offrire di fatto una riformulazione della teoria kantiana del libero gioco delle facoltà. Illustrando ed esemplificando questa sua celebre definizione e riunendo alcuni dei grandi concetti portanti della sua poetologia, nella medesima lettera Schiller scrive all’amico Körner:

Bello è quel vaso che, senza contraddire al suo concetto, rassomigli a un libero gioco della natura. Il manico c’è solo per l’uso che si fa del vaso, dunque per un concetto; ma se il vaso è bello, il manico deve balzarne fuori così spontaneo o naturale da far dimenticare la sua de-stinazione. Se invece questo manico si piegasse ad angolo retto, se la pancia del vaso si assottigliasse a un tratto in uno stretto collo e così via, l’improvviso mutamento di stile disperderebbe ogni parvenza di spontaneità, e l’autonomia del fenomeno scomparirebbe. Quando di-ciamo che una persona è ben vestita? Quando né l’abito dal corpo, né il corpo dall’abito sono impediti nella loro libertà; quando l’abito pare non aver relazione col corpo e purtuttavia risponde perfettamente al suo scopo. La bellezza, o meglio il gusto, considera tutte le cose come fini in sé e non permette che l’una serva di mezzo all’altra o ne porti il giogo. Nel mondo estetico ogni ente naturale è libero cittadino con gli stessi diritti del più nobile, e non può subir costrizione neppure nell’in-teresse del tutto: al contrario, esso deve sempre dare a tutto il proprio consenso. In questo mondo estetico, ch’è ben diverso dalla più perfet-ta repubblica platonica, perfino la giacca che ho indosso esige da me rispetto per la sua libertà, e vuole da me, come un servo vergognoso, ch’io non lasci vedere a nessuno ch’essa mi serve. In compenso essa s’impegna a sua volta a far della sua libertà un uso così moderato che

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la mia non abbia a patirne; e se manterremo entrambi la nostra parola, tutti diranno ch’io sono ben vestito. Se invece la giacca tira, entrambi noi – la giacca e io – perderemo qualcosa della nostra libertà. È per questa ragione che le fogge del vestire o molto attillate o molto larghe non sono belle: infatti, senza considerare che le une e le altre limitano la libertà di movimento, nella foggia attillata il corpo dà a vedere la propria figura a spese dell’abito, mentre in quella larga è l’abito a na-scondere la figura corporea, gonfiando sé e la propria figura e svilendo il padrone a semplice manichino. Una betulla, un abete, un pioppo sono belli se si drizzano snelli verso l’alto; una quercia, se si torce: il motivo ne è che questa, lasciata a sé stessa, predilige la linea storta, quelli invece la linea diritta. Sicché, ove la quercia si mostri snella e la betulla scontorta, né l’una né l’altra saranno belle perché le loro linee tradiranno un influsso estraneo, una eteronomia. Invece troviamo bello il pioppo incurvato dal vento, perché con questo suo oscillare manifesta la propria libertà16.

Si direbbe bandita, in questo modo, ogni definizione che iden-tifichi la bellezza con la perfezione, o che la faccia coincidere con un mero fatto di gusto o di esperienza soggettivo-sensibile. D’altro canto è evidente che la natura di cui qui si ragiona appare libera non per pura assenza di costrizione, ma per il fatto di essersi data da sola delle regole. Sicché il Bello non si configura né come incon-trollata libertà né come pura e semplice natura, ma come “natura” scaturita dall’esercizio della libertà, come un paradigma conosciti-vo cioè sorretto da una salutare tensione.

A ulteriore chiarimento del suo postulato della bellezza come «libertà nel fenomeno», poco prima – nel suo carteggio del 18-19 febbraio 1793 con Körner – Schiller si era avvalso della parabola evangelica del buon Samaritano giunto in soccorso dell’uomo assa-lito dai briganti. Al riguardo, egli aveva presentato cinque possibili modelli comportamentali di persone generose: dalla generosità di cuore all’aiuto interessato, dall’agire etico nel senso del dovere kan-tiano al soccorso del magnanimo nemico e infine all’offerta di soc-corso da parte del quinto viandante, oppresso da «un grave carico sulle spalle». È significativo che nel commento si indugi proprio su quest’ultimo, che il ferito vorrebbe lasciar proseguire per suo con-to, non confidando nel suo aiuto:

16. f. schiller, Kallias oder Über die Schönheit, cit., pp. 48-50; tr. it. Kallias o Della bellezza, cit., pp. 78-79. Corsivo nel testo.

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Ma non appena il viandante lo scorge, depone il suo fardello. “Vedo”, incomincia spontaneamente a dire, “che sei ferito e che le tue forze ti hanno abbandonato. Il prossimo villaggio è ancora distante, e morrai dissanguato prima di averlo raggiunto. Montami in spalla, ch’io andrò di lena e ti porterò”. “Ma che ne sarà del tuo fagotto, che devi lasciar qui sulla strada maestra?” “Non lo so e non me ne curo”, dice il facchi-no. “So però che tu hai bisogno d’aiuto, e che io te ne son debitore”. […] La bellezza della quinta azione deve consistere in quel suo aspetto ch’essa non ha in comune con nessuna delle precedenti. Ora si ha che: 1. Tutti e cinque hanno inteso aiutare. 2. I più hanno scelto un mez-zo a ciò idoneo. 3. Parecchi non hanno voluto risparmiarsi. 4. Alcuni hanno dato prova d’un grande dominio di sé. Di questi, uno ha agito per purissimo impulso morale. Ma soltanto il quinto ha aiutato senz’es-servi sollecitato e senza indugio di deliberazione, benché fosse con suo svantaggio. Soltanto il quinto è stato, nella sua azione, dimentico di sé, adempiendo il suo dovere con tale facilità quasi il semplice istinto abbia operato in lui. Un atto morale sarebbe quindi un’azione bella quando esso apparisse come un effetto spontaneo della natura. Insom-ma: un’azione libera è un’azione bella quando autonomia dell’animo e autonomia nel fenomeno coincidono. Per questa ragione la somma perfezione nel carattere d’un essere umano è bellezza morale, poiché questa si manifesta quando il dovere è per lui diventato natura”17.

È facile avvedersi che tale parabola, lungi dal focalizzare l’at-tenzione sulla “bellezza morale”, rinvia di fatto a un gesto (quello del quinto viandante, per l’appunto) che si configura come evento “naturale”, come opera spontanea della natura: una natura che ap-pare agire in libertà, e che dunque viene sentita come espressione della Bellezza. A quest’idea Schiller resterà fedele anche nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, allorché affermerà (nella lettera 26) che la «disposizione estetica dell’uomo» è un «dono della natura».

3. Verso una faticosa compiutezza ideale

Rispetto ai Kallias-Briefe, il saggio Grazia e dignità approfondi-sce ulteriormente i concetti del bello (e del sublime)18, estendendo-ne l’applicazione dai fenomeni della natura alla “persona umana”,

17. Ivi, pp. 31-32; tr. it. ivi, pp. 64-65. Corsivo nel testo.18. Per una rassegna storica delle moderne riflessioni sul “sublime” a partire

dal Settecento cfr. p. Giordanetti e m. mazzocut-mis (a cura di), I luoghi del sublime moderno. Percorso antologico-critico, Led, Milano 2005.

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attuando dunque un impegnativo passaggio alla dimensione etica e antropologica. Viene dunque a mutare l’angolatura prospettica dell’indagine. Sin dall’avvio del saggio interviene peraltro una signi-ficativa differenziazione, individuata nel mondo greco: la nozione di bellezza che veniva distinta da quella di grazia. Ben presto ci si avvede comunque che in gioco è assai più che la finezza della ter-minologia.

Basandosi in particolare sul concetto di «moral grace» elaborato da Shaftesbury, la cui riflessione costituisce una delle principali fon-ti schilleriane19, anche se non citata esplicitamente, Schiller elabora ora la sua teoria dell’«anima bella» (schöne Seele) che «effonde» la «grazia» (Anmut) e di cui la «grazia» vuole essere espressione. Dif-ferenziata nettamente dalla bellezza statica delle fattezze corporee, la «grazia» viene dunque presentata come una qualità morale che, nei gesti stessi e nelle movenze dell’individuo, si manifesta come bellezza.

In questo caso si tratta di una moralità che – a differenza del rigorismo etico di Kant, assimilato con durezza, in questo saggio, a un Dracone della morale e definito qui come un pensatore che «espone, nella sua filosofia morale, l’idea del “dovere” con una durezza che fa arretrare, spaurite, le Grazie e potrebbe facilmente indurre un intelletto debole a cercare la perfezione morale lungo la via di una oscura e monastica ascesi»20 – non si basa sul principio del dominio della ragione (Vernunft) e sul principio per cui l’uomo etico deve imbrigliare i propri sentimenti per obbedire all’impera-tivo categorico del dovere, ma piuttosto su una libera e armoniosa consonanza fra ragione e sensibilità, su una coincidenza di dovere e inclinazione:

19. In proposito cfr. soprattutto K. hamburGer, Schillers Fragment “Der Menschenfeind” und die Idee der Kalokagathie, in «Deutsche Vierteljahrsschrift» 30 (1956). L’accostamento schilleriano di grazia e dignità s’innesta peraltro su una consolidata tradizione concettuale, che va dall’antichità (si pensi al venustus et gra-vitas di Quintiliano) fino ai “sensualisti” inglesi, i quali avevano ragionato di grace and dignity, e alle riflessioni di Mendelssohn e Sulzer. Quel binomio concettuale era ormai familiare a tanti intellettuali della metà del Settecento. È accertato inol-tre che su Schiller esercitarono indubbie suggestioni anche, da un lato, la filosofia delle Grazie di Wieland e, dall’altro, la teoria del “sublime” esposta da Kant nella sua Critica del Giudizio (soprattutto l’Introduzione e i §§ 10-11, 14 e 23).

20. f. schiller, Über Anmut und Würde, cit., p. 107; tr. it. Grazia e dignità, cit., p. 48.

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È dunque in un’anima bella che sensibilità e ragione, dovere e inclina-zione sono in armonia, e la grazia è la sua espressione nel fenomeno. Soltanto servendo un’anima bella la natura può possedere al tempo stesso libertà e conservare la sua forma, mentre sotto il governo di uno stato d’animo rigoroso perde la libertà, e sotto l’anarchia della sensibi-lità perde la forma21.

Si tratta dunque, ora, della prefigurazione di una compiutezza ideale (non a caso v’è il ricorso alla Grecia come età della bellezza; non a caso Grazia e dignità prende le mosse proprio da un mito gre-co: Venere che possiede una cintura in grado di conferire grazia), di un equilibrio realizzato, di una riconciliazione riuscita fra i poli an-tagonistici dei sensi e della ragione, di un superamento della doppia natura (sensibile-morale) dell’uomo, in quanto gli opposti sembra-no armonizzarsi nell’ideale di perfezione e di compiutezza umana, simboleggiato dalla bellezza stessa del carattere. Certo, Schiller non si nasconde che per l’osservatore moderno tale bellezza mostrataci dall’«anima bella» rappresenti un’armonia che questi difficilmente raggiungerà, che essa sia cioè «soltanto un’idea», ovvero un com-pito infinito.

La trattazione della «dignità» (Würde), che occupa la seconda parte del saggio, ricorda infatti al lettore che l’«anima bella» che si esprime nella «grazia» è il “compito” morale che lo attende. Non a caso la “dignità” viene presentata come «l’espressione di una disposizione d’animo sublime»22, improntata propriamente alla «calma nel patire»23 e segnata dal dominio della ragione e sorretta dalla «volontà» (in quanto volontà «morale», in grado di far «in-nalzare l’uomo sino alla divinità» e di farlo affermare «come essere morale»24). Proprio la “dignità” in quanto «dominio degli istinti attraverso la forza morale» – conclude Schiller – costituisce, «nel fenomeno», la «libertà dello spirito»: attraverso di essa la natura viene infatti sottomessa allo spirito, e l’inclinazione viene sottratta al bisogno. Affermazioni che si direbbero tuttavia non prive di ten-sioni problematiche (forse non del tutto consapevoli) per lo stesso Schiller, costretto per così dire a diventare «draconiano» e a sot-

21. Ivi, pp. 111-112; tr. it. ivi, p. 52.22. Ivi, p. 113; tr. it. ivi, p. 54.23. Ivi, p. 121; tr. it. ivi, p. 61.24. Ivi, pp. 115 e 117; tr. it. ivi, pp. 55 e 58.

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tomettere drasticamente la natura, dato che a questo punto le sue formulazioni non lasciano più affatto intravedere un’armonia fra inclinazione e dovere morale, ma implicano il fatto che, per diveni-re «sublime», il dovere morale deve sconfiggere l’inclinazione e la sensibilità.

Il Bello cui dunque ora Schiller fa riferimento non appare più – come avveniva invece nei Kallias-Briefe – come un attributo de-gli oggetti, bensì come un attributo dei soggetti, degli esseri umani stessi. Questi ultimi sono, sì, chiamati a vivere la bellezza, ma nel puntare – nella storia – al raggiungimento del «sublime» (che impli-ca scontro e violenza) non potranno esimersi dal percepire lo iato inevitabile fra bellezza e sublime.

In altre parole: il rinvio alla «dignità» che fa rifulgere l’anima bella nell’agire «moralmente grande» sino a trasformarla in «anima sublime»25 è lì a ricordare la presenza di un’energia morale insita nell’uomo e volta in direzione della ricerca (per quanto pressoché inattingibile) della perfezione. E in ciò è stata giustamente indivi-duata una sorta di sollecitazione interiore quasi a «costruire la vita sociale come un’opera d’arte»26. D’altro canto, tuttavia, ci si può domandare se il progetto antropologico schilleriano di preconiz-zare un’armonica, utopica fusione – negli umani – della «grazia» e della «dignità»27 (espressioni rispettivamente dell’“agire” e del “pa-tire”, della libertà corporea e della libertà spirituale), non si risolva di fatto in un recupero – sia pure a livello depurato, alto e raffinato – proprio di quel rigorismo etico kantiano nei cui confronti Schiller aveva cercato di tenere le distanze.

A ben vedere infatti si direbbe che, nell’itinerario della riflessio-ne estetica schilleriana, il saggio Grazia e dignità segni di fatto un ri-dimensionamento e una riproblematizzazione della prefigurazione dell’armonia stessa, di un’armonia che – per l’autore dei Masnadieri e del Wallenstein – può avere il suo fondamento soltanto nell’ideale dell’«anima bella», non nella realtà e nella storia, che sono il re-gno dell’irrazionalità, della violenza e della distruzione. Alla storia l’uomo può soltanto opporre le virtù stoiche, come mostrano in

25. Ivi, p. 119; tr. it. ivi, p. 59.26. Cfr. G. pinna, p. montani, a. ardoVino (a cura di), Schiller e il progetto

della modernità, Carocci, Roma 2006, p. 64.27. Cfr. d. di maio e s. tedesco, “Postfazione” a f. schiller, Grazia e di-

gnità, cit., p. 92.

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particolare due degli ultimi scritti schilleriani: Del sublime e le Let-tere sull’educazione estetica dell’uomo. Per questo il programma di un’“educazione estetica” che Schiller arriverà a elaborare nell’ulti-ma sua fase riflessiva appare, oltre che faticoso da realizzare e pro-blematico nel suo carattere élitario, ancora oggi come un lascito irrealizzato e – insieme – come un possibile compito per individui sensibili.


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