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Κοινή, dialetto, lingua comune: le radici greche di un dibattito rinascimentale (2010)

Date post: 02-Feb-2023
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Critica del testo XIII / 2, 2010 viella
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Critica del testoXIII / 2, 2010

viella

Critica del testo, XIII / 2, 2010

Nadia Cannata

Κοινή, dialetto, lingua comune: le radici greche di un dibattito rinascimentale

1. Apollo in Vaticano

Un visitatore che in un giorno qualunque, diciamo del 1515, avendo accesso alla biblioteca del pontefice, oggi meglio nota come la Stanza della Segnatura, fosse entrato nella sala dalla porta che si apre fra la Segnatura e la stanza di Eliodoro, avrebbe partecipato, su invito dell’anziano personaggio dipinto subito sopra il vano della fi-nestra sulla destra, ad un incontro campestre di Muse e poeti raccolti intorno ad Apollo. Come rifratta da uno specchio, anzi, quasi richia-mata in primo piano entro lo spazio chiuso della Biblioteca del papa da una lente di ingrandimento, la scena coinvolge il visitatore in un dialogo con i personaggi che vi intervengono, poeti contemporanei ben noti allora a qualunque frequentatore della Curia – Castiglione, Tebaldeo, Ariosto, Sannazaro – e maestri di cultura poetica collo-cati in tempi passati: Dante con Ennio, Omero, Virgilio e Stazio; Petrarca con Anacreonte, Pindaro, Saffo e Corinna, Boccaccio e i moderni accanto ad Ovidio, l’anziano maestro di cerimonie a destra del dipinto; tutti assorti in una conversazione intensa, raggruppati in piccoli crocchi, secondo il genere del loro comporre. La finestra che si apre sotto questa scena di poeti guarda verso nord e rende im-mediatamente chiaro che la parete su cui sono animate quelle figure altro non è che il proscenio su cui è proiettata, come a teatro, la sce-na reale, che si svolge fra le quinte, verso la collina del Belvedere e il colle Vaticano dove sin da epoca antica vi era stato un giardino di delizie, il Belvedere appunto, dedicato alle arti e al bello.

Il primo artista che dipinse in età moderna un Parnaso fu Andrea Mantegna, anch’egli coinvolto, sul finire del Quattrocento, nei lavo-

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ri di restauro della villa di Innocenzo VIII al Belvedere. Mantegna immaginò il suo Parnaso, realizzato nel 1497 per Isabella d’Este, senza traccia di poeti: vi si trovano invece Marte e Venere che amo-reggiano al centro della composizione, il cerchio delle nove Muse che danza allegro ai loro piedi, e – di contorno – Apollo con Vulcano da un lato e Pegaso e Mercurio dall’altro.

Nel dipinto di Raffaello, poco più di un decennio dopo, ogni ri-ferimento mitologico è stato rimosso: la scena finge una prospezione ideale entro la biblioteca del Papa del luogo ove vivono i più grandi poeti di tutte le età, senza distinzioni di tempo o di lingue, raccolti in piccole corone a seconda del genere poetico prediletto. Un mondo ideale, ma popolato di figure vere, che conversano appena al di là della finestra, nei giardini del palazzo al centro della città eterna: figure riconoscibili nel viso e dotabili di un nome, uomini e donne, antichi e moderni, greci, latini, romanzi.

Ma da dove veniva l’idea che Apollo avesse mai avuto residen-za sul colle vaticano e come è successo che tutti questi poeti si siano riuniti in serena conversazione fra Muse e siepi di alloro?

2. Il Parnaso Vaticano

La presenza di un tempio di Apollo in Vaticano è registrata in una carta della Roma antica compresa fra le tavole che costi-tuiscono la stampa romana delle Antiquitates Urbis Romae cum simulachro pubblicate per Marco Fabio Calvo nel 1527. Vi è raf-figurata la Roma descritta da Plinio con le sue 34 porte, e anche, in bella evidenza, un tempio di Apollo sul colle Vaticano, impo-nente e unica costruzione localizzata sul sito. Né Plinio, né Cice-rone, né Orazio e nemmeno Marziale o Giovenale ne fanno cenno e non se ne trova menzione in Vitruvio, Varrone o Pompeo Festo, né tantomeno negli antichi trattati di topografia che andavano per la maggiore fra fine ’400 e primo ’500, fra i quali il cosiddetto Curiosum dello pseudo-Publius Victor continuamente compulsato nella Roma degli antiquari a cavallo fra i due secoli e utilizzato da Raffaello come fonte principale per la lettera a Leone X. Non vi erano allora, e nemmeno sono affiorate fino ad oggi testimonianze archeologiche di un simile tempio; è noto infatti che a Roma esi-steva un tempio di Apollo Palatino alle pendici dell’omonimo col-

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le, ma non è dato conoscere templi dedicati al dio in zona Vaticana, un’area fuori dal cerchio delle mura della città antica e per giunta notoriamente malsana e ingrata anche per la coltivazione, come ci testimoniano fra gli altri Cicerone, Marziale e Giovenale1.

La convinzione che sul monte Vaticano, la collina sulla quale oggi si trova l’ingresso ai Musei, ci fosse un tempio di Apollo è per-ciò il frutto di una ricostruzione simbolica che più che con l’archeo-logia ha a che fare con la retorica e con l’immagine della Roma anti-ca costruita in epoca moderna da Giulio II e poi dai papi medicei.

Biondo Flavio nella prima opera moderna che si sia occupa-ta della topografia di Roma, la Roma Instaurata (1444-46) ricorda l’etimologia proposta per Vaticanus da Varrone e Pompeo Festo, autori di due opere enciclopediche che ebbero un’importanza fon-damentale per gli studi di linguistica ed antiquaria, discipline sorelle nel primo Rinascimento romano:

Restat Vaticanus de quo Festus Pompeius sic scribit: Vaticanus collis appella-tus est quo eo potitus sit populus Romanus vatum responso pulsis Hetruscis.

Sed Aulus Gellius in noctibus atticis lib. Xviii [ma xvi] de eodem sic dicit: Et agrum Vaticanum et eiusdem agri deum praesidem appellatum accepimus a Vaticiniis(…) Fuit ergo in monte illo Vaticani dei templum, quod supra ad Aulum Gellium descriptum ostendimus2.

Biondo, come si vede, non specifica a chi fosse dedicato il tem-pio e non menziona Apollo, del quale non parla nemmeno Gellio nel passo ricordato; ma discute di vaticinii e di mantica, e dalla mantica ad Apollo il passo non è lungo. In effetti, la dedica della collina alle arti intese come sistema ha un’origine complessa e piuttosto ibrida: già Tacito – citato dal Flavio – colloca in Vaticano il circo di Nerone e ricorda l’atmosfera dissoluta legata a divertimenti e orge che si respirava nell’ager Vaticanus3; al tempo stesso, il Liber Pontificalis riferisce che Pietro venne crocifisso presso un tempio di Apollo sul-

1. Cic., Att., 13, 33, 4; Mart., Epigr., I, 18; Juv., 6, 344. Sull’ubicazione dei templi del dio a Roma si veda E. M. Steinby, Lexicon topographicum urbis Romae, I (A-C), Roma 1993.

2. I riferimenti sono, rispettivamente, a Gell., Noctes, XVI, 17E, e Pomp. Fest., l. XIX, sub voce.

3. Tac., Annales, XIV, 14-15.

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la via Aurelia, accanto al palazzo neroniano sul quale oggi sorge la moderna basilica.

La grande persecuzione neroniana del 65, nel corso della quale Pietro venne catturato e giustiziato – come anche le testimonianze archeologiche hanno confermato – ebbe in effetti come principa-le scenario i malsani boschi del colle Vaticano, sul quale sarebbe avvenuta la crocifissione. Secondo Prudenzio la tomba dell’apo-stolo si trovava Vaticano sub monte; secondo il Liber Pontificalis, Pietro «sepultus est via Aurelia, in templum Apollinis, iuxta locum ubi crucifixus est» dove si collocava, come segnalato negli studi di Ferdinando Castagnoli, un santuario di Mitra, ovvero di Cibele, il cosiddetto Frigiano4. L’intuizione di Castagnoli è stata in seguito so-stanziata di argomenti e prove epigrafiche, archeologiche e letterarie da Paolo Liverani, che ha collocato con certezza sul mons Vaticanus un tempio dedicato alla mater deum Transtiberina, che è stato in seguito identificato con il tempio di Apollo. Questo edificio, secon-do Liverani, va collocato in base a considerazioni cronologiche e topografiche «in un luogo risparmiato dalla basilica e dal suo atrio, a nord o a ovest della basilica stessa»5. Il sito dunque si troverebbe proprio sulla collina alle spalle del Belvedere, nella direzione verso la quale si dirige lo sguardo di chi si affacci dalla finestra settentrio-nale della Stanza della Segnatura, sopra la quale è dipinto il Parnaso, nel luogo doppiamente simbolico sul quale era posto il tempio del dio delle arti, e dove era stato perseguitato Pietro. Il giovane Raffa-ello – consigliato dagli artisti ed umanisti che lo avevano introdot-to al mondo della Curia romana, molto più esperti di lui sia per la conoscenza della tradizione degli antichi, sia per cultura letteraria – raffigurò su quella parete il Parnaso romano, la conversazione di poeti antichi e moderni nella Roma che Giulio aveva giustamente posto al centro del mondo.

Quando a Donato Bramante venne affidato il compito di costruire un raccordo fra il nuovo palazzo del papa e la villa di Innocenzo VIII sul colle del Belvedere, egli progettò l’enorme cortile – oggi inter-

4. F. Castagnoli, Il Vaticano nell’antichità classica, Città del Vaticano 1992, p. 19 ss.

5. P. Liverani, La topografia antica del Vaticano, con un contributo di A. Wei-land, Città del Vaticano 1999, p. 31.

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rotto dall’edificio della Biblioteca – sul quale affaccia la Segnatura: l’idea di Bramante era di ricreare in quel sito che Tacito aveva descrit-to come luogo di dissolutezze neroniane, giochi e circhi, un cortile che congiungesse il palazzo pontificio completamente rinnovato con la villa del Belvedere, concepita appunto come una villa romana de-scritta da Plinio6. Bramante fece del cortile un teatro, nel quale furono rappresentate commedie e tragedie (fra cui i Suppositi di Ariosto con scenografia di Raffaello nel 1519) e sul quale si svolsero tauromachie, giochi e sfilate di ogni tipo. Ieri come oggi, insomma, quello spazio veniva dedicato ai riti di intrattenimento più secolari per non dire pa-gani e quelli contemporanei non erano in fondo troppo lontani dalle dissolutezze di Nerone e dalle sue battaglie navali.

La spina dorsale del progetto architettonico che Giulio II aveva affidato a Bramante era dunque il Cortile sul quale affaccia la Se-gnatura – primo intervento urbanistico “globale” di ricostruzione ex novo dell’antico – e il dipinto del Parnaso deve essere letto in rela-zione al sistema architettonico del quale fa parte. James Ackermann7 ha ricostruito le fonti letterarie ed archeologiche sulle quali Braman-te basò la sua invenzione urbanistica, dimostrando inoltre che tale creazione architettonica era stata ispirata dal tempio della Fortuna di Palestrina8 e dalla descrizione dell’ager vaticanus contenuta proprio nella già ricordata Roma Instaurata di Biondo Flavio, che collocava alle pendici del Belvedere uno stagno per le naumachie. La fonte di Biondo Flavio fu il passo degli Annali di Tacito; lo stagno venne in seguito dettagliatamente rappresentato anche da Perin del Vaga, ulti-mo allievo di Raffaello attivo a Roma, in un affresco del 1545 oggi a Castel Sant’Angelo che raffigura tutto il gruppo architettonico com-prendente la villa e il cortile di Bramante con una contaminazione fra antico (la naumachia) e moderno (il cortile bramantesco) che altro non è se non la rappresentazione ideale non di come fu Roma, ma di come avrebbe dovuto essere.

6. Fondamentale, al proposito, resta H. H. Brummer, The Statue Court in the Vatican Belvedere, Stockholm 1970.

7. J. S. Ackermann, The Belvedere as a classical villa, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 14 (1951), pp. 78-89; e Id., The Cortile del Belvedere, Roma 1954 (Studi e documenti per la storia del Palazzo Apostolico Vaticano, III).

8. Ackermann, The Belvedere as a classical villa cit., pp. 85-89 e tav. 15.

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Non sarà perciò casuale che il viso di Omero nell’affresco del Parnaso riproduca l’espressione tragica del Laocoonte come lo im-maginarono gli autori della statua che Giulio II, subito dopo il ri-trovamento nel gennaio 1506 aveva collocato sul cortile delle dove ancora si trova; né che la musa dell’epica, mollemente sdraiata al centro del dipinto, abbia l’aspetto della Cleopatra-Arianna che trovò posto nel cortile prima del 1512 e che Castiglione avrebbe descritto in un famoso carme.

All’epoca della quale stiamo parlando all’ingresso del cortile delle statue era posta l’iscrizione procul este prophani, citazione dal VI libro dell’Eneide, riferita al luogo ove la Sibilla interrogava il dio9. Si ricorderà che la figura della poesia, dipinta sul soffitto della Segnatura in corrispondenza con il Parnaso, porta sul cartiglio la scritta numine afflatur, citazione anch’essa dal VI libro dell’Eneide, riferita alla Sibilla cumana, e al suo stato nell’atto della divinazione. Il verso di Virgilio, infine, è citato nel lessico di Pompeo Festo, a proposito della mantica, dei vati e dell’etimologia di Vaticanus, nel passo già citato, che varrà qui la pena di rileggere:

Vates antiqui vocabant quos graeci dicunt prophetas, hoc est antistites phano-rum, et divinorum oraculorum interpretes. Vel quasi fates, ut supra diximus, quia futura farentur, sive fata praedicerent, vel a versibus viendis, hoc est connectendis solebant nam afflati divino numine versibus contextis futura prae-dicere, unde deducta sunt ‘vaticinor’, ‘vaticinium’, ‘vaticanus’, de quibus dixi-mus. Vaticanum agrum primus Leo iiij Romanorum pontifex moenibus cinxit Nicolaus V instauravit et vatidicum, quod graeco vocabulo propheticum dicitur ab huiusmodi vatibus poetae quoque vates appellati sunt tam masculino, quam foeminino genere, quia et ipsi musarum furore pleni carmina componere existi-mantur. Nam qui absque camoenarum furore ad poesin accedunt et ipsi (ut Plato inquit) inanes sunt, et vana est eorum poesis. Iidem poetae appellantur, hoc est ποιηταὶ ἀπὸ τοῦ ποιῶ, quod est ‘facio’, ‘effingo’, ‘formo’, quasi fictores unde opus eorum poema, et poesis dicitur hoc est figmentum, sive fictio.

È perciò Pompeo Festo che rende esplicito il rapporto fra Apol-lo e la poesia e illustra l’argomento secondo il quale i poeti, afflati divino numine, siano appunto detti “vati” e quale sia la natura della poesia e della finzione e il suo rapporto con il vero, nonché perché il colle Vaticano sia per definizione, è il caso di dire, la casa dei poeti.

9. Così testimonia Francesco Albertini nei sui Mirabilia Urbis Romae del 1510.

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3. Canone dei poeti e canone delle lingue

Per rispondere invece alla seconda delle domande che ponevo – cioè come siano arrivati poeti antichi e moderni a trovarsi in un ozio comune, dove lo spazio, il tempo, le differenze di lingua e di con-suetudini sono improvvisamente svanite – credo che sia necessario ricordare che il luogo ideale dove le leggi dello spazio e del tempo sono magicamente sospese è, in letteratura, il canone.

Anche Ariosto – già nell’Orlando del 1516 – racconta come solo la poesia sia in grado di salvare dal Lete i destini degli uomini i cui nomi scorrono, mescolati alla rinfusa, grandi e piccoli, sia quelli scritti nell’oro o nell’argento sia quelli affidati a piastre di ferro, nel gran fiume: si salvano solamente quelli che il canto dei poeti saprà collocare fuori dal flusso10. Così vivono i poeti sul Parnaso romano, salvi, grazie alla loro arte, dalle ingiurie del tempo: dimentichi di affanno e senza paura né della povertà, né della morte, Tebaldeo, Ariosto, Castiglione, Sannazaro vestiti condecentemente conversa-no; Petrarca discorre d’amore con Tibullo, Catullo, Properzio, Saffo e Corinna; Dante con Ennio e Virgilio è intento a cogliere il canto di Omero, Ovidio invita con un gesto della mano il visitatore ad entrare e lo introduce ad osservare un’idea della poesia che il tempo non potrà alterare. Ariosto aveva visitato i lavori di pittura dell’affresco nel suo soggiorno romano del 1511. Chissà poi che cosa nella sua imprevedibile fantasia ne sarà rimasto.

La concezione che il canone sia uno e uno solo e sia costituto da quanto di meglio la tradizione letteraria di ogni lingua ha saputo pro-durre era, all’epoca, un’idea molto recente, alla quale da poco più di un lustro Aldo Manuzio aveva dato corpo e sostanza con la sua attività editoriale. Il canone trilingue trovò posto nella sua collana di tascabili in carattere corsivo, che si inaugurò nel 1501 con l’edizio-ne di Virgilio, a cui seguirono Orazio, Petrarca, Persio e Giovenale; poi, nel 1502, la triade dei poeti d’amore latini – Catullo, Tibullo e Properzio – con Dante, Sofocle, Ovidio; e infine, nel 1503, Euripide e l’Antologia greca.

La collezione voleva raccogliere i testi che ogni uomo colto e amante delle lettere avrebbe voluto o dovuto possedere e leggere per

10. L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXV, 12 ss.

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sé, liberi da commenti e ingombri scolastici, ma nella loro classica semplicità specchio del piacere dell’immaginazione e del raccon-to. L’edizione di Euripide e degli epigrammi a cui sarebbe seguito Omero, significava non solo un’estensione al greco del programma editoriale, ma proprio «la proposta, che prima si era levata solo dalla cattedra universitaria di Poliziano, ripetuta e confermata ora ad altro livello, per un altro pubblico, di un culto della poesia nelle tre lin-gue, greca, latina e volgare»11.

Questo canone trilingue si trova già nella silva Nutricia, con il suo catalogo di poeti greco-latini e moderni, grandi, piccoli e minimi, del 1486; fra 1493 e 1494 poi, a ridosso della sua morte prematura, Poliziano aveva anche progettato di pubblicare un’antologia bilin-gue dei suoi epigrammi greci e latini. L’epigrammatica greca occupò un posto di grande rilievo come fonte di moderne iconografie: come ho detto altrove12, credo che il IV libro dell’Anthologia graeca, con-tenete gli epigrammi ecfrastici, sia la fonte diretta delle gallerie di poeti e filosofi – inclusi Platone che indica il cielo e Aristotele che misura la terra con la mano – rappresentate nella Segnatura.

Qui merita invece soffermarsi sul fatto che fondamento del nuovo canone, come è normale a quest’epoca, furono anzitutto gli studi linguistici.

Lo stesso Manuzio aveva preparato il terreno con l’edizione, nel 1496, delle Cornucopiae di Niccolò Perotti, il repertorio di stilistica e dialettologia greca che Aldo stesso presentava come l’opera nella qua-le «fere omnia reposita sunt, quae desiderare quis possit ad perfectam absolutamque cognitionem litterarum graecarum», in appendice alle quali si potevano leggere anche Pompeo Festo, il De lingua latina e il De Analogia di Varrone e il De Compendiosa doctrina di Nonio Mar-cello, i testi fondamentali per lo studio dei lessici antichi e del latino arcaico, considerato da molti, nella Roma del Quattrocento, l’anello

11. Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, introduzione di Carlo Dionisotti, testo latino con traduzione e note a c. di Giovanni Orlandi, 2 voll., Milano 1975, I, p. xlv.

12. N. Cannata, Evidentia in narratione. Il Cupido di Michelangelo e l’icono-grafia della Stanza della Segnatura, in Segni per Armando Petrucci, a c. di Paola Supino e Luisa Miglio, Roma 2002, pp. 53-76; e, da ultimo, Ead., Son come i cigni, anche i poeti rari: l’immagine della poesia fra umanesimo volgare e tradizione greco-latina, in «Letteratura e arte», 2010 (in stampa).

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di congiunzione con il greco, dal quale aveva tratto le sue origini. Il formidabile volume venne riedito anche nel 1503 e nel 1519.

Nella prefazione, firmata da Aldo si legge questo passo:Imitamur tamen hanc linguarum varietatem et copiam lingua vulgari. Non eadem est Romanis lingua quae Parthnopaeis, quae Calabris, quae Siculis; aliter Florentini loquuntur, aliter Genuenses; Veneti a Mediolanensibus lingua et pronuntiatione multum intersunt; alius Brixianus, alius Bergomatibus ser-mo. Quod latine caput vulgo Romani capo appellant. Veneti vero abiectione p litterae per concisionem dicunt cao. At qui Padum accolunt, ex ao crasin facientes, co. Item cenato, cenao, cenò, et idem genus innumera. Sic graeci dicunt communiter tou kératos, Iones vero, apobolé tou t, kéraos, at Dores, katà kràsin, keròs. Quid, quod unaquaeque urbs peculiarem habet linguam, plerunque etiam in eodem oppido varie loquuntur? Utinam tantam copiam Latine haberemus: longe antecelleremus Graecos.

Come si vede l’elemento di novità e di straordinario interesse per il tema in oggetto è il rapporto che si instaura qui fra la situa-zione linguistica della Grecia e quella dei volgari d’Italia; Manuzio propone, per la prima volta per quanto ne so io, l’argomento che la situazione linguistica italiana, con il suo policentrismo e la sua varietà di parlate, è analoga a quella del greco di cui è figlia: en-trambe le lingue comprendono idiomi diversi, ma tutti riconducibili entro un alveo comune. E non solo: lungi dall’essere un elemen-to di disvalore nella valutazione della qualità di una lingua, questa caratteristica è invece un elemento di ricchezza; anzi, se la lingua latina avesse la stessa varietà che hanno la greca e la volgare allora potrebbe di gran lunga superare il greco in bellezza ed espressività, cosa che invece non è. Il passo di Manuzio è anche notevole perché in esso lingua communis e l’avverbio communiter riferito alla lingua risultano essere la traduzione del greco κοινή.

Già Pietro Crinito, allievo di Poliziano, si era occupato nei pri-missimi anni del Cinquecento di storia del latino e, nel capitolo VIII del suo De Honesta Disciplina aveva sostenuto che la lingua lati-na è formata dall’incontro di molte e diverse lingue: Ennio parlava osco, e altri hanno scritto in etrusco, come testimonierebbero anche Livio e Cicerone. Anche Guarino Veronese, risalendo indietro, ave-va sostenuto nella lettera a Leonello d’Este dell’agosto 144913 che

13. M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umani-stica, Padova 1984, pp. 228-238.

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il latino aveva avuto un’evoluzione descrivibile in quattro tempi: dapprima era stata in uso una lingua pervetusta, che risalirebbe ai tempi di Giano e Saturno; a partire dal tempo del re Latino se ne sa-rebbe invece sviluppata una seconda, «quo loquendi more duodecim tabularum leges anno ab urbe condita tercentesimo scriptae credun-tur»; poi una terza, la lingua dei poeti, degli oratori, degli storici (Plauto, Nevio Ennio, Ovidio, Virgilio e Cicerone) che egli chiama finalmente romana cioè la varietà più solida e robusta. Infine egli registra la lingua della decadenza, o mixta, frutto delle invasioni e le commistioni inevitabili con Galli, Germani, Goti e Longobardi14. Mario Equicola nella sua prefazione alla redazione manoscritta del Libro de Natura de Amore del 1510 circa fa anch’egli un riferimento distinto al sermone prisco latino e alla romana lingua con un chiaro riferimento alla nomenclatura adottata dagli umanisti15.

La fonte a tutti comune, Equicola compreso, è Isidoro di Sivi-glia il quale, nel IX libro delle Etimologiae descrive le fasi di evo-luzione del greco e del latino e introduce la classificazione del greco in cinque dialetti, o lingue come le chiama Isidoro:

Tres sunt autem linguae sacrae: Hebraea, Graeca, Latina, quae toto orbe ma-xime excellunt. His enim tribus linguis super crucem Domini a Pilato fuit cau-sa eius scripta. Unde et propter obscuritatem sanctarum Scripturarum harum trium linguarum cognitio necessaria est, ut ad alteram recurratur dum siquam dubitationem nominis vel interpretationis sermo unius linguae adtulerit. [4] Graeca autem lingua inter ceteras gentium clarior habetur. Est enim et Latinis et omnibus linguis sonantior: cuius varietas in quinque partibus discernitur. Quarum prima dicitur koinou, id est mixta, sive communis quam omnes utun-tur. [5] Secunda Attica, videlicet Atheniensis, qua usi sunt omnes Graeciae auctores. Tertia Dorica, quam habent Aegyptii et Syri. Quarta Ionica, quinta Aeolica (…). Et sunt in observatione Graecae linguae eiusmodi certa discri-mina; sermo enim eorum ita est dispertitus. [6] Latinas autem linguas quattuor esse quidam dixerunt, id est Priscam, Latinam, Romanam, Mixtam. Prisca est, quam vetustissimi Italiae sub Iano et Saturno sunt usi, incondita, ut se habent carmina Saliorum. Latina, quam sub Latino et regibus Tusci et ceteri in Latio sunt locuti, ex qua fuerunt duodecim tabulae scriptae. [7] Romana, quae post reges exactos a populo Romano coepta est, qua Naevius, Plautus, Ennius, Vergilius poetae, et ex oratoribus Gracchus et Cato et Cicero vel ceteri effuderunt. Mixta, quae post imperium latius promotum simul cum moribus et

14. Ibid., pp. 230-231.15. M. Equicola, La redazione manoscritta del Libro de Natura de Amore, a

c. di L. Ricci, Roma 1999, p. 93 e nota.

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hominibus in Romanam civitatem inrupit, integritatem verbi per soloecismos et barbarismos corrumpens16.

Che il latino dunque avesse avuto una sua evoluzione storica è nozione che si accompagnava con quella dell’esistenza di diverse varietà al suo interno, secondo un’evoluzione storica comune anche al greco; il quale, però, in analogia con i volgari d’Italia, era evoluto anche in modo policentrico.

La riflessione sulle lingue classiche nella Roma dei primi due de-cenni del Cinquecento era già in parte funzionale all’interesse per il volgare, inteso sia nelle sue manifestazioni letterarie, sia nelle forme in cui si presentava negli usi quotidiani, argomento di studio e discus-sione al principio del Cinquecento a Roma, come lasciano intuire fra le altre le testimonianze, magari non troppo numerose e certamente spo-radiche, ma comunque eloquenti, di Gaspare Visconti, Marcantonio Sabellico, Raffaele Maffei, Paolo Cortesi o Giovanni Battista Pio17.

La Roma antiquaria fu centro di questi interessi per le lingue parlate in antichità e quelle riconducibili a usi “volgari”: gli strati bassi, arcaici o tardi del latino, le lingue straniere e infine il greco – la lingua di cultura “comune” per eccellenza, diffusa per molti secoli fra le genti più varie e su un territorio vastissimo – inteso come ori-gine dei volgari d’Italia e dunque fonte, grammaticale e regolata, di volgari agrammaticali e incomprensibili. A questo proposito, sepolte fra le carte manoscritte e disordinate di Angelo Colocci si trovano alcune riflessioni utili per conoscere la humus dalla quale fiorirono teorie in materia di lingua e di tradizione di molti degli intellettuali della curia papale; alcune tracce di queste riflessioni sono rimaste – come abbiamo visto – nei palazzi e nelle immagini scelte per ab-bellirli, altre – soprattutto le teorie linguistiche – si sono perdute nel tempo, in parte perché poco sistematiche, in parte perché poco cogenti, e certamente perché gran parte di quel pensiero linguistico è stato rivisto e superato da teorizzazioni ben più mature e convin-centi, quali – per tacer d’altre – quelle di Pietro Bembo.

16. Isid. Hisp, IX, 3-7.17. D’obbligo per questa materia il rimando a C. Dionisotti, Gli umanisti e

il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968; cui vanno aggiunti almeno R. Drusi, La lingua cortigiana romana, Venezia 1995, e C. Giovanardi, La teoria cor-tigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma 1998.

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Tuttavia merita fermarsi un momento sugli studi di lingua greca avviati a Roma, in subordine a Firenze e Venezia, perché essi si sono saldati con le prime teorie di linguistica romanza, anche con esiti a volte sorprendenti.

Uno dei molti appunti linguistici di Colocci, consegnato alle carte del Vat. Lat. 4817, databile all’incirca intorno al 1525, riprende verbatim il contenuto della prefazione alla Cornucopia del Perotti, ma lo completa con una riflessione nuova:

latine caput vulgo Romani capo appellant. Veneti vero abiectione p litterae per concisionem dicunt cao. At qui Padum accolunt, ex ao crasin facientes, co. Item cenato, cenao, cenò, et idem genus innumera. Se homero dice δω δωμα perche nel mio dialecto non possa dir casa ‘Ca’ et ‘capo’ ‘cao’ ‘co’ (c. 3v)

“Dialetto” in questa occorrenza costituisce la prima attestazione del termine in volgare. Si tratta di un trasporto in volgare di un termine ben noto alla lessicologia latina in riferimento al greco. Il grecismo si giustifica in volgare per il fatto che Colocci notava nei volgari parlati all’epoca sua una varietà di forme analoga che egli credeva specchio della situazione linguistica del greco: egli dunque partiva dal presup-posto che i dialetti del greco erano varietà interne di una lingua lettera-ria, spesso legate al genere letterario e all’epoca e non una deviazione da una norma che andava corretta. Dunque l’estensione del termine a “dialetti” del volgare è tanto più interessante.

Questa interpretazione mi sembra confermata dalle altre due occorrenze del termine negli appunti del Vat. lat. 4817: nella pri-ma si registra la sostanziale equivalenza fra il concetto di dialetto e quello di lingua – Colocci sottolinea infatti che “dialetto” non è termine che abbia a che fare con quelle che oggi chiameremmo le varietà diastratiche del greco, ma è il termine che denota le diverse lingue greche – nella seconda egli chiarisce che il concetto derivato dal greco si applica perfettamente anche alla situazione linguistica italiana:

Siculi (…) et quamvis videretur tamen Theocritus inimitabilis et dorice Or-pheus et Pindarus et dic laudes siculorum.Tange dialectus omnes. Atque parum refert qua quis lingua scribat modo ele-ganter scribat sicut Herodotus ionice Thucydides attice; Constantino Lascari fa una opera de laudibus sicilie (74v)[“Siciliani (…) anche se Teocrito sembra inimitabile, e ha scritto in dorico,

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orfeo e pindaro e fa’ le lodi dei siciliani.Occupati di tutti i dialetti. Non importa in quale lingua si scriva, ma solo se si scrive in modo elegante. Così Erodoto scrive in ionico, Tucidide in attico”]Nembroth dialecti Mutar delle lingue etiam in Franciahor 183; cantamini Apul 72; catania fico, in mesina ficaRa l’arbor, Apruzzo ficoRa, Rom, March le fica, altri Toscani li ficHi. Rythmi Nonius de indistinctis generibus in dictione Melos. Caper fol 2, dicit litteras supra non exprimunt et bona pars populi Romani tusci sunt (c. 126v).

La storia del termine “dialetto” in italiano è stata ricostruita in due contributi successivi pubblicati al principio degli anni ’80 da Mario Alinei e Paolo Trovato. Secondo Mario Alinei18, il termine “dialetto” in volgare entrò nel medio Rinascimento con una con-notazione negativa, da far risalire ai fiorentinisti e al Varchi. Pao-lo Trovato dimostra invece, con dovizia di documentazione, che il termine deriva da Quintiliano, fu ripreso nel 1502 nel dizionario di Ambrogio Calepino e attraversò il Cinquecento grazie anche alla mediazione di Isidoro di Siviglia che aveva aggiunto informazioni sul nome e sul canone di quelle cinque lingue greche e – soprattutto – che il termine non fu richiamato per designare le lingue inferiori al fiorentino e svalutate dai fiorentinisti di metà secolo, ma piuttosto entrò di risulta agli studi del greco per definire una nozione legata intimamente alla storia di quella lingua19,

Già Lorenzo Valla nelle Elegantiae (1440 ca.) aveva contrappo-sto la sterile molteplicità delle lingue greche all’unitarietà del latino (l’esatto rovescio di quanto in base agli stessi dati avrebbe argo-mentato Manuzio mezzo secolo dopo); e Cristoforo Landino nella sua prolusione petrarchesca (1467) aveva parlato dei quattro e più idiomi greci, concetto ribadito nel commento dantesco (1481) nel quale istituiva un parallelo fra la situazione linguistica in Grecia e quella italiana.

18. M. Alinei, Dialetto: un concetto rinascimentale fiorentino. Storia e anali-si, in «Quaderni di semantica», 2 (1981), pp. 147-173.

19. P. Trovato, ‘Dialetto’ e sinonimi (‘idioma’, ‘proprietà’, ‘lingua’) nella ter-minologia linguistica quattro- e cinquecentesca, in «Rivista di letteratura italiana», 2 (1984), pp. 205-236.

Nadia Cannata270

Poliziano nell’Oratio in expositione Homeri (1486-87) l’an-no della Nutricia riprende nuovamente il concetto, nel medesimo significato. Se dunque il termine greco era noto, vi fu una lunga esitazione a traghettare il crudo grecismo in latino, o forse non era necessario, non avendo il latino dialetti, bensì un’evoluzione storica scandita lungo quattro epoche (Isidoro); ma l’italiano sì e Colocci riprende subito il termine come lo ritrova nei lessici.

Nel 1502, quando diálektos compare nel dizionario di Ambro-gio Calepino, il termine – secondo la definizione di Prisciano – viene spiegato come uno dei genera loquendi del greco di cui vengono elencati canone e nomi. Con Colocci, tuttavia, il termine acquisisce una marcatura nuova e un’accezione astratta: egli infatti estrapola dalla realtà linguistica del greco l’idea che possa darsi una varia-zione entro un sistema linguistico apparentemente fisso a cui si dà il nome di “dialetto”, ma anche che l’importante non è tanto con quale lingua si scriva, ma lo stile che in essa si adopera: «Tange dialectus omnes atque parum refert qua quis lingua scribat modo eleganter scribat sicut herodotus ionice Thucydides attice»; viene così introdotta l’idea di idiomi diversi che convivono senza minare l’unità riconosciuta della lingua, ma introducono una “mutazione”: «Nembroth dialecti: Mutar delle lingue (…) catania ‘fico’, in mesina ‘ficara’ l’arbor, Apruzzo ‘ficora’, Rom, March ‘le fica’, altri Tosca-ni ‘li fichi’». Da qui deriva l’equivalenza “dialetto” – “varietà del volgare” («Se homero dice δω δωμα perche nel mio dialecto non possa dir casa ‘Ca’ et ‘capo’ ‘cao’ ‘co’», c. 3v), e, forse, il desiderio di difendere – sulla base del modello offerto dalla letteratura greca – l’uso dei dialetti d’Italia, intesi come varietà di un unico volgare ricostruibile nelle sue caratteristiche “comuni” ovvero di koiné. La nozione di “volgare” comprendeva tutte le lingue materne dei nativi della penisola italiana, compresi il siciliano e il provenzale.

Nel 1512 uscì per i tipi di Aldo il trattatello Περί διάλεκτων di Giovanni Filopono (De idiomatibus linguarm tres tractatus Ioannis grammatici) e il De literis graecis ac diphtongis & quemadmodum ad nos ueniant. De potestate literarum graecarum dello Pseudo-Plutarco che egli poteva leggere in traduzione latina in appendice ad una stampa dell’edizione del De octo partibus orationis del Lascari: sia Filopono sia Plutarco sono citati ripetutamente nel Vat. lat. 4817 e mettono insieme il concetto di lingua comune e quello di dialetto:

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Giovanni Filopono, Περί διάλεκτωνDe communi linguaQui volunt communem adnumerare dialectum praedictis quatuor, argunt hoc modo (…) communis dialectus ex quatuor cohartata, non debet admunerari his --- Ionica scripsit Homerus, Attica Aristophanes, Dorica Theocritus, Aeo-lica Alcaeus, communi Pindarus.Aliter de dialectis(…) Dialecti autem sunt, si et communem quis adnumeraverit, quinque: Io-nica, Attica, Dorica, Aeolica, communis. Nam quinta, propriam non habens notam, communis nominata est, vel quia communiter omnium notis utitur et ex quatuor constat [scil. Perché utilizza le caratteristiche di tutte e da queste quattro è formata], vel quia communiter ea omnes utuntur, vel quia ex hac incipiunt, tamquam ea subiecta, omnes.

Ps-Plutarco, De literis graecisDe dialectisDialectus est idioma linguae, vel dialectus est dictio proprium characterem formulae ostendens.Ionica appellata est an Ione filio Apollinis, et Creuse Erechthei filiae, qua scripsit Homerus.Attica ab Atthide Granai filia, qua scripsit Aristoph.Dorica a doro Hellenis, qua scripsit Theocritus.Aeolica ab Aeolo Hellenis, qua scripsit Alaceus.Communis, qua omnes utimur, sed et Pindarus hac usus est.

La koiné greca è il risultato di una sintesi (coartare è il contrario di dilatare): essa deriva dai dialetti e non ne è alla base, tanto che bisognerebbe ritenere che le lingue greche fossero in realtà quattro e non cinque, la quinta essendo il risultato di una sintesi delle altre.

Se è vero, perciò, che la definizione lingua commune applicata alla situazione linguistica italiana contemporanea dai linguisti ro-mani della prima metà del Cinquecento, fra cui Colocci, è un calco dal greco κοινή, nel senso di una lingua risultato dell’adattamento di altre ad essa preesistenti, ne consegue che il concetto di lingua comune è figlio sia della riflessione linguistica dedicata al greco e alla sua estraneità al latino, sia di una concezione linguistica che a partire da Isidoro riconosce la lingua comune o di κοινή come uno strumento pratico, la lingua quam omnes utuntur e che, come molte delle testimonianze coeve rilevano, a Roma veniva senz’altro utiliz-zata, almeno nei primi due decenni del secolo XVI.


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