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SICUREZZA, LEGALITÀ E TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELLA GOVERNANCE DELLA SOCIETÀ MULTI-ETNICA.

Date post: 26-Jan-2023
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1 CIRO SBAILÒ SICUREZZA, LEGALITÀ E TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELLA GOVERNANCE DELLA SOCIETÀ MULTI-ETNICA RELAZIONE ALL’UNAR – UFFICIO NAZIONALE ANTIDISCRIMINAZIONE RAZZIALE DEL DIPARTIMENTO PARI OPPORTUNITA’ PRESSO LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2008
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CIRO SBAILÒ SICUREZZA, LEGALITÀ E TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELLA GOVERNANCE DELLA SOCIETÀ MULTI-ETNICA RELAZIONE ALL’UNAR – UFFICIO NAZIONALE ANTIDISCRIMINAZIONE RAZZIALE DEL DIPARTIMENTO PARI OPPORTUNITA’ PRESSO LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2008

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1. GOVERNARE LA SOCIETA’ MULTIETNICA a. L’immigrazione cambia volto b. Il rischio dell’“integrazione antagonista” c. Verso una “normale” società multi-etnica

2. I VANTAGGI DEI “RITARDI” ITALIANI

a. Assimilazionismo/Multiculturalismo: cosa imparare dagli errori altrui. b. Allarme razzismo? c. Varietà età etnico-culturali e centralità delle politiche formative: la proposta delle

“classi ponte”

3. LA CORNICE DI LEGALITA’ GARANTITA DALL’INIZIATIVA LEGISLATIVA DEL GOVERNO IN MATERIA DI SICUREZZA

a. Alla ricerca di un bilanciamento tra risposta alla domanda di sicurezza e tutela dei diritti

b. L’introduzione del reato di immigrazione c. Contro la strumentalizzazione del diritto di ricongiungimento d. Il patto di integrazione

4. VERSO UNA NUOVA POLITICA DELLA CITTADINANZA

a. Le recenti posizioni espresse dai vertici delle istituzioni b. Il comportamento asimmetrico del Legislatore c. Cittadinanza e diritti politici nell’evoluzione della forma di Stato italiana d. L’attività del Parlamento nei primi dieci mesi della XVI Legislatura

5. PROCESSI DI INTEGRAZIONE E “DEMOCRAZIA PROTETTA”

a. Le nuove sfide del Legislatore italiano, tra rispetto per le diversità culturali e difesa dell’identità costituzionale e dello Stato di diritto

b. Sicurezza e libertà: dalla difficile sintesi alla “deriva entropica” c. A quale “comunità” deve far riferimento il Legislatore? d. L’impossibile “neutralizzazione” delle identità culturali nel processo di integrazione

costituzionale

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1. GOVERNARE LA SOCIETA’ MULTIETNICA

a) L’immigrazione cambia volto

Nel dibattito pubblico avviatosi all’inizio della XVI Legislatura su sicurezza, immigrazione e diritti fondamentali sono venuti al pettine, tutti i principali nodi degli ultimi anni in materia di governance della società multi-etnica. S’è fatto, cioè, evidente il carattere tumultuoso e complesso del fenomeno migratorio italiano, che ha cambiato volto e consistenza negli ultimi anni. In primo luogo la presenza di immigrati aumenta in maniera geometrica, con ricadute notevoli in tutti gli ambiti del sistema-paese, dalla sicurezza all’economia, dall’educazione alla gestione dello stato sociale. La diffusa presenza di immigrati, inoltre, riguarda ogni area del Paese, non solo i centri urbani, e si caratterizza per una composizione sempre più variegata, tanto che risulta estremamente difficile individuare la prevalenza generale di una cultura o di una zona di provenienza,1 se non in relazione alla distribuzione finale sul territorio, che si articola sulla base delle esigenze del mercato del lavoro.2 Questo processo ha colto impreparati sia il Legislatore sia l’opinione pubblica, che hanno fatto fatica a uscire da una logica emergenzialistica, caratterizzata dall’alternarsi di fasi di buonismo e aperturismo indiscriminato ad atteggiamenti di chiusura preconcetta e di allarmismo. La tradizionale cultura della tolleranza degli italiani e la prudenza del Legislatore hanno sinora contribuito a impedire il verificarsi di gravi conflittualità sociali. Ma è diffusa la consapevolezza, sia nella classe politica sia nell’opinione pubblica, che occorra individuare soluzioni strutturali e di lungo periodo sul fronte dell’integrazione e della governance sia per quanto riguarda le politiche di sicurezza sia per quanto riguarda le politiche di integrazione.

b) Il rischio dell’“integrazione antagonista”

Le ragioni dell’allarmismo non sono certo infondate. Le connessioni tra il fenomeno migratorio e l’aumento della criminalità sono state ampiamente dimostrate in sede scientifica, sia dal punto di vista sociologico sia dal punto di vista criminologico. La questione riguarda tutta l’Europa, nell’ambito della quale gli immigrati provenienti dai paesi extracomunitari ed extraeuropei hanno apiamente superato, dal punto di vista numerico, gli immigrati provenienti dalla stessa UE. In altre parole, in ambito UE, gli extracomunitari concorrono in maniera assai più che proporzionale alla determinazione della dimensione ufficiale della criminalità. In tale contesto, la situazione italiana si presenta peculiare per la sua gravità: “La quota degli irregolari sul totale dei cittadini extracomunitari denunciati è senza dubbio altissima” se paragonata ad altre esperienze europee.3 Pare da escludere, in linea di massima, che questo dato sia da attribuirsi, se non in misura molto piccola, a un atteggiamento discriminatorio da parte della giustizia nei confronti della popolazione immigrata. Gli alti tassi di detenzione per i non-nazionali – vale a dire, la sovrarappresentazione dei non nazionali tra i denunciati per reati standard – coincidono, infatti, con gli alti tassi di denuncia nei confronti degli stessi non nazionali. Sembra poco corretto anche spiegare il fenomeno in termini di “conflitto culturale”. Se la sovrarappresentazione della popolazione immigrata tra i denunciati e i detenuti fosse spiegabile in questi termini, allora il fenomeno dovrebbe riguardare solo alcuni reati, vale a dire quelli connessi, per l’appunto, ai processi di

1 F. Amato (a cura di), Atlante dell’immigrazione in Italia, Società Geografica Italiana, Roma, 2008, pp. 15 e ss.

2 A. Colombo – G. Sciortino, Gli immigrati in Italia, Bologna, il Mulino, 2004, p. 41.

3 M. Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 91-92.

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integrazione sociale (rissa, spaccio di droga, eccetera). Mentre, se è vero che i gruppi etnici tendono a “specializzarsi” (ad esempio, gli ex jugoslavi nei reati contro il patrimonio e i marocchini nei reati contro lo Stato o la persona), i comportamenti criminali degli immigrati in generale riguardano una gamma molto vasta di reati. Pare scorretto anche sostenere che la sovrarappresentazione carceraria degli immigrati sia dovuta al “numero oscuro” dei non nazionali. I paesi con la più alta immigrazione clandestina - Spagna, Italia, Portogallo e Grecia - sono anche i paesi nei quali è più alto l’indice relativo di carcerazione per non nazionali. Anche riconsiderando l’indice di carcerazione sulla base del numero “stimato” di clandestini, rimarrebbe in quei paesi una forte sovrarappresentazione di non nazionali nella popolazione carceraria. Per quanto riguarda ancora l’Italia, la causa della notevole crescita di reati commessi da immigrati sembra da doversi indicare principalmente nell’incremento del fenomeno dell’immigrazione clandestina: l’85% dei furti commessi da extracomunitari viene compiuto da un clandestino e così anche il 70% delle lesioni volontarie e il 75% degli omicidi. “La clandestinità – dunque - aumenta l’esposizione all’illegalità e alla devianza”.4 La sicurezza è un problema immediato, su cui, comprensibilmente, il legislatore sta intervenendo con i criteri dell’emergenza. Non bisogna, però, trascurare altri gravi problemi, proiettati sul medio e lungo periodo, che, se non affrontati nella fase germinale, potrebbero rivelarsi difficilmente gestibili nel futuro. Tra questi, merita particolare attenzione l’aspetto anagrafico dell’immigrazione. A fronte del progressivo invecchiamento della popolazione italiana, si registra, nell’ambito dell’universo migratorio, una crescente percentuale di giovani. Il rischio che in queste giovani generazioni si possano sviluppare strategie identitarie conflittuali con il contesto politico-culturale nazionale non ci pare da sottovalutare.5 In altre parole, pare da doversi prendere in considerazione l’eventualità che l’integrazione dei giovani immigrati si sviluppi negli ambiti e nei circuiti sociali e politico-culturali in violento conflitto con le istituzioni e i valori della Repubblica, nonché con l’ordine sociale del Paese. Si tratterebbe, dunque, di un’“integrazione antagonista” che renderebbe estremamente difficile allo Stato perseguire una politica repressiva senza, oggettivamente, indirizzare la propria azione prevalentemente verso la popolazione proveniente dai flussi migratori, trovandosi in questo modo esposto a gravi accuse di discriminazione etnica. A ciò si aggiunga la tendenza, di una parte non trascurabile dell’universo migratorio, quella di religione islamica con forte senso identitario, a rivendicare, nei confronti dello Stato, forme di riconoscimento “collettivo” che si configurano come vere e proprie istanze giuspubblicistiche, tese a creare zone franche nell’ambito dello Stato di diritto. La recente esperienza inglese delle Corti sciaritiche è certamente irripetibile nel nostro Paese. Ma non è irripetibile il manifestarsi di quell’istanza alla quale quella istituzione ha dato risposta. Anzi, ci sono forti segnali in tal senso, come dimostrano alcune richieste di stipula di Intese ex art. 8 Cost., da parte di determinati gruppi islamici.6 L’esperienza dimostra, inoltre, che, nelle seconde generazioni dell’immigrazione islamica, si affermano con facilità strategie identitarie che “neutralizzano” l’identità nazionale sia del Paese di provenienza della famiglia sia del Paese in cui si vive.

4 L. Turco, con P. Tavella, I nuovi italiani, l’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza, Milano, Mondadori, 2006, p. 21.

5 G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro Paese?, Bologna , in

corso di stampa, il Mulino, 2009, pp. 139 e ss. 6 Cfr. C. Sbailò, La problematica questione delle Intese dello Stato con l’Islam, “Rassegna parlamentare”, vol. 3, 2007,

pp. 627-638.

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c) Verso una “normale” società multi-etnica

Si pone, dunque, il problema di un processo di integrazione, specificamente diretto alla formazione e lo sviluppo culturale di queste giovani generazioni, che, da un lato, sia rispettoso delle appartenenze e delle identità culturali (considerate, beninteso, in maniera dinamica, non statica ed etnicistica), e, dall’altra, si svolga in una cornice ben salda di garanzie e di valori costituzionali. Nella maggior parte degli immigrati è presente una forte volontà di integrazione, come dimostra la loro sempre più diffusa presenza in molti settori dell’economia e della società. E’ in crescita anche l’associazionismo comunitario, con molteplici sedi “virtuali” su internet, nelle quali si offrono scambi e informazioni relative non solo al soggiorno e al lavoro, ma anche all’attualità italiana e alla cultura del nostro Paese. Un ruolo preponderante, in questo senso, viene svolto dalle Organizzazioni Non Governative, operanti nel nostro Paese, alcune legate alla Chiesa o ad altri gruppi cristiani, altre di carattere laico, nel cui lavoro trova concreta applicazione il principio della sussidiarietà orizzontale, ampiamente affermata nelle politiche europee di integrazione. Insomma, le ragioni di allarme non sono infondate, ma non vanno assolutizzate. L’Italia, da questo punto di vista, si sta avviando a diventare una “normale” società multi-etnica. Il compito più arduo per il Legislatore sarà quello di costruire un quadro normativo congruente con una politica di integrazione bilanciata sulle esigenze della sicurezza e su quelle della tutela e promozione dei diritti fondamentali e sociali. La ricerca di un tale bilanciamento, che non sia pura e semplice parificazione tra istanze potenzialmente contrapposte, bensì equilibrio evolutivo tra elementi che tendono a potenziarsi a vicenda e integrarsi, richiede uno sforzo non piccolo alla nostra cultura costituzionale. Al centro di tale sforzo si colloca, senza dubbio, il ripensamento della declinazione giuridico-formale del principio costituzionale della “cittadinanza”.

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2. I VANTAGGI DEI “RITARDI” ITALIANI

a) Assimilazionismo/Multiculturalismo: cosa imparare dagli errori altrui.

Come s’è visto, il ritardo con cui l’Italia arriva ad affrontare i problemi dei flussi migratori e della società multietnica rende gravoso il compito del legislatore, ma presenta anche diversi vantaggi. E’ possibile, infatti, una elaborazione critica di altre esperienze. Una lezione utile potrebbe venire, al riguardo, dalla normativa sull’infibulazione7. L’Italia è riuscita a fare tesoro delle esperienze critiche fatte, rispettivamente in Francia e nel Regno Unito. Il modello assimilazionistico a lungo adottato in Francia, e oggi apertamente discusso, si concretava in meccanismi egualitaristici, che, entrando in contatto con una situazione fluida come quella dei nuovi processi identitari e comunitari, hanno prodotto vistose diseguaglianze di trattamento. L’Haut Conseil, nel 1991, si pronunciò per una “logica di uguaglianza” e contro una logica “di minoranze”, ovvero per un primato assoluto dei diritti individuali e della norma astratta, sulle identità comunitarie e le situazioni concrete. Ma, l’esperienza di questi anni ha dimostrato che la struttura individualistico-razionalistica del sistema non riesce a dominare la complessità delle differenze identitarie che caratterizza la società francese. Nel caso dell’ifibulazione il sistema s’è trovato costretto a passare da una sostanziale tolleranza a un brusco irrigidimento, a sua volta accompagnato da una maggiore tolleranza nell’applicazione della legge, il che ha finito, cosa di non poco conto nella patria del civil law, per demandare sostanzialmente al singolo giudice la determinazione dell’atteggiamento dello Stato nei confronti del problema. Altre conferme della criticità del sistema francese sono poi venute in più ambiti, dalla sicurezza (la rivolta delle banlieue) all’educazione (la richiesta avanzata da studentesse islamiche di non vedersi imposta la “laicità” e l’“emancipazione” a scuola). Completamente diversa appare la situazione nel Regno Unito. Nel 1985 è stata varata una norma specifica, il Female Circumcision Act, che aderisce alla logica del pragmatico riconoscimento delle differenze etnico-culturali. Il sistema inglese è stato criticato in patria perché promuoverebbe la formazione di nuovi “ghetti”, meno visibili che nel passato, ma decisamente più lesivi di questi, sia degli interessi della comunità sia dei diritti del singolo. Il membro di una comunità, secondo queste critiche, verrebbe indebolito nella propria capacità di definire la propria identità, come sarebbe suo diritto anche contro la comunità di appartenenza. L’esempio classico del fallimento del modello inglese è Londonistan, un universo autoreferenziale portato alla ribalta dopo gli attentati del 7 luglio e la recente istituzione di tribunali islamici. Per quanto riguarda l’infibulazione, il Legislatore italiano ha avuto la possibilità di fare tesoro delle esperienze dei due sistemi, contemperando i principi dello Stato di diritto con l’istanza di tipo comunitario proveniente dal mondo islamico. La recente legge italiana sull’infibulazione8 rappresenta, per diversi aspetti, un terzo modello, alternativo sia a quello francese sia a quello inglese, in quanto non nega a priori la “diversità etnica”, ma, anzi, se ne prende “cura”, all’interno dei rigidi paletti fissati dalla nostra cultura costituzionale.

7 Cfr. C. Sbailò, Equality or difference? European legal experience and their influence on Italian bills on Female

circumcisium, “Mediterranean Journal of Human Rights”, 2004, vol. 8, n. 1, pp. 361-367. 8 Legge 9 gennaio 2006 n. 7

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b) Allarme razzismo?

Facendo tesoro di quelle esperienze, è possibile, in Italia, avviare un processo di integrazione che, per un verso, contrasti la crescita di fenomeni di xenofobia e di razzismo e, per l'altro, inibisca lo sviluppo di strategie identitarie conflittuali presso le giovani generazioni di immigrati. In Italia, stando ai dati in possesso del Governo, non c’è ancora un’emergenza razzismo. Ma vi sono forti segnali di una possibile evoluzione in tal senso. I moniti lanciati sia da papa Ratzinger sia dal presidente Napolitano devono farci riflettere sulla necessità di fare terra bruciata intorno a xenofobi e razzisti, stabilendo il principio della “tolleranza zero” nei confronti dell’intolleranza e avviando, nel contempo, una rigorosa politica di integrazione che abbia di mira soprattutto le seconde generazioni di immigrati. Gli immigrati extracomunitari rappresentano, infatti, una componente significativa del sistema-Paese. Essi contribuiscono in maniera non insignificante al PIL del Paese e sono presenti nel mondo dei servizi, nell’agricoltura, nel commercio e nella piccola e media impresa, contribuendo, pertanto, anche alla nostra domanda interna: ci sono quartieri delle nostre città, dove i commercianti hanno tra i loro clienti soprattutto immigrati. La tensione e l’insicurezza crescenti intorno ai problemi dell’immigrazione sembrano, pertanto, dovuti non all’emergere di un nuovo spirito di intolleranza, bensì al fatto che la nostra società è accogliente, ma ancora poco organizzata per gestire la realtà multi-etnica. In questo senso, le norme sulla sicurezza recentemente varate dal Parlamento su proposta del governo, fissano con chiarezza i limiti giuridici all’interno dei quali costruire un processo di integrazione e sviluppare politiche di accoglienza attraverso un equilibrio tra le esigenze della legalità e della sicurezza e il rispetto dei principi garantiti dalla nostra costituzione. Tali norme scoraggiano i comportamenti illegali e incoraggiano, al contrario, l’adesione degli immigrati ai principi e alle regole che governano la nostra società. Si pongono così le premesse per affrontare il problema dell’immigrazione, non più solo in termini di ordine e di sicurezza, ma anche nei termini di una politica dell’integrazione, che comporti anche una revisione delle attuali norme sulla “cittadinanza”. c) Varietà etnico-culturali e centralità delle politiche formative: la proposta delle “classi ponte”. Altra caratteristica da valorizzare in positivo, dell’universo migratorio italiano, dovrebbe essere la grande varietà delle culture e dei Paesi di provenienza. Tale varietà fa sì che il rischio della formazione di comunità-ghetto isolate dal contesto sociale, ovvero potenzialmente autosufficienti e conflittuali verso l’esterno, sia piuttosto contenuto. D’altra parte, questa peculiarità comporta un supplemento d’impegno, da parte delle autorità italiane, nelle politiche di integrazione, in particolare per quel che riguarda la garanzia delle pari opportunità per gli stranieri, sia nel mondo della formazione sia nel mondo del lavoro. In materia di formazione, e con riferimento alla variegata composizione dell’universo migratorio italiano, pare essere di particolare significato la proposta, forse troppo presto accantonata, anche se recentemente rilanciata dal Presidente del Consiglio, di istituire “classi ponte” nelle scuole italiane per gli alunni extracomunitari che possono in questo modo, apprendere le nozioni fondamentali della lingua e della cultura italiana. Sono sempre, infatti, più numerosi, soprattutto nelle aule scolastiche del Nord, i bambini che non riescono a interagire con i compagni di classe o con gli insegnanti, per la semplice ragione che non comprendono l’italiano. Inserire un bambino in un gruppo di cui non comprende la lingua, significa, infatti, condannarlo all’isolamento o all’antagonismo sociale. La classe ponte, in questo senso, sarebbe un vero strumento di integrazione, e non un ghetto, come pure qualcuno ha detto, soprattutto se, accanto alla storia e

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alla cultura del nostro paese, il giovane immigrato potrà essere aggiornato, in lingua italiana, anche sulle vicende politiche e sociali del suo paese. La vera integrazione, infatti, nasce dalla consapevolezza delle proprie radici, non certo dall’oblio di queste. Ma le radici non sono qualcosa di statico, bensì una realtà in evoluzione che può interagire con la realtà del paese in cui si vive. Il confronto con tale realtà può efficacemente contrastare, nel giovane immigrato, strategie identitarie conflittuali nei confronti delle istituzioni e delle culture del nostro Paese. In questo modo, si può fare vera inter-cultura: si valorizzano le differenze, che diventano strumento di comunicazione tra mondi e non elementi di discriminazione o di ghettizzazione

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3. LA CORNICE DI LEGALITA’ GARANTITA DALL’INIZIATIVA LEGISLATIVA DEL GOVERNO IN MATERIA

DI SICUREZZA

a) Alla ricerca di un bilanciamento tra risposta alla domanda di sicurezza e tutela dei diritti

In generale, le norme in materia di sicurezza proposte dal Governo (A.C. 2180/XVI) sono dirette a integrare una complessiva politica della sicurezza, volta ad agire, simultaneamente, sui due fronti: difesa della sovranità dello Stato e della legalità, da una parte, e tutela dei diritti dei cittadini, dall’altra. Per la prima volta, ad esempio, si delinea una visione non emergenzialistica del fenomeno migratorio, ponendo le basi per una politica di integrazione vera e propria, e non di pura e semplice apertura delle frontiere. Le disposizioni proposte dal Governo delineano una politica della sicurezza articolata, sostanzialmente, in quattro punti:

a) Contrasto all’immigrazione clandestina e all’abuso delle norme sull’immigrazione, per un nuova politica di integrazione basata sul principio di legalità e sulla cooperazione al bene comune.

b) Riaffermazione del controllo territoriale dello Stato, sia sul fronte della malavita organizzata sia sul fronte della cd microcriminalità.

c) Tutela delle fasce deboli delle popolazione, maggiormente esposte ai fenomeni della criminalità.

d) Coinvolgimento degli amministratori pubblici e dei cittadini nella difesa della legalità. Le norme contro l’immigrazione clandestina vanno, dunque, a collocarsi in un quadro di previsioni normative volte ad applicare il principio della “democrazia protetta”. In altre parole, l’intervento del legislatore punta a trovare un bilanciamento tra la recente domanda di sicurezza da parte dei cittadini e il rispetto dei diritti fondamentali imposto dalla nostra cultura costituzionale. La normativa sull’immigrazione clandestina si fa più stringente, dunque, mentre si gettano le basi per un quadro giuridico sulla governabilità dei problemi di ordine pubblico e sicurezza relativi all’incremento dei flussi migratori. La norma della quale s’è maggiormente parlato è quella relativa all’introduzione del reato di immigrazione clandestina. In realtà tale norma va vista nel contesto della proposta del Governo. Rileva, innanzitutto, che l’associazione finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina venga inserita tra quelle previste dal reato di associazione a delinquere9. Coerentemente, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene fatto rientrare tra i reati che comportano, in determinate condizioni e in presenza di gravi indizi di colpevolezza, l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza, la confisca del mezzo di trasporto, la custodia cautelare in carcere10, nonché, in alcuni casi una durata massima delle indagini preliminari di due anni11, come per altri gravi delitti, quali quelli di devastazione, saccheggio e strage12, guerra civile13 e associazione di tipo mafioso14. Viene, inoltre, precisata la disciplina relativa al divieto di dare alloggio agli stranieri irregolari presenti nel Paese e si introducono norme più severe e restrittive relative sia all’ingresso

9 V. art. 416 c.p.

10 art. 1 c. 26 lettera b

11 V. art. 407 c.p.p.

12 V. art. 285 c.p.

13 V. art. 286 c.p.

14 V. art. 416 bis c.p.

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irregolare sia all’ingresso regolare, subordinando, ad esempio, il rilascio dei permessi a un rigoroso rispetto della legalità.

b) L’introduzione del reato di immigrazione

Per quanto riguarda, nello specifico, l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, esso avviene grazie a modifiche al Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25/7/1998 n. 286, tali che l’immigrazione clandestina diventa un reato “punito con l’ammenda da 5000 a 10000 Euro”. L’oggetto della condotta vietata allo straniero, dunque, consiste nel fare ingresso e nel trattenersi “nel territorio dello Stato, in violazione” dello stesso Testo Unico nonché della “disciplina di soggiorno di lunga durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio”.15 Va, qui, ricordato che il reato di immigrazione clandestina è già previsto in altre grandi democrazie, come la Francia16 e nel Regno Unito.17 Il legislatore italiano appare nel complesso rispettoso dei principi di tassatività e di determinatezza della fattispecie incriminatrice. Ciò non toglie che siano possibili, in una fase di prima applicazione, rischi di abusi e fraintendimenti. C’è, infatti, il problema di un’individuazione del soggetto ex-ante, quale lo straniero, al quale, per ragioni linguistiche può essere preclusa la sua perspicua ed esatta “precognizione” della norma. Il reato previsto dal legislatore italiano è di natura contravvenzionale, in altre parole non si tratta di un delitto e la sanzione ha un carattere sostanzialmente simbolico. Il legislatore ha voluto così, stabilire un principio, quello della punibilità della violazione dei confini nazionali. Ciò consentirà, prevedibilmente anche di meglio agire, nel futuro, sul piano della previsione normativa così come su quello della repressione nei confronti di tutto l’“indotto criminale” che si muove intorno al mondo dell’immigrazione clandestina. In occasione della promulgazione del disegno di legge, il Capo dello Stato ha redatto una nota indirizzata al Governo nella quale, dopo avere spiegato che il capo dello Stato ha ritenuto “di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme, ampiamente condivise in sede parlamentare, volte ad assicurare un più efficiente contrasto – anche sul piano patrimoniale e delle infiltrazioni nel sistema economico – delle diverse forme di criminalità organizzata”, si manifestano perplessità e preoccupazioni per l’insieme del provvedimento che, ampliatosi in modo rilevante nel corso dell’iter parlamentare, risulta ad un attento esame contenere numerose norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive dei necessari requisiti di organicità e sistematicità; in particolare si rileva la presenza nel testo di specifiche disposizioni di dubbia coerenza con i principi generali dell’ordinamento e del sistema penale vigente”. “Su tali criticità – conclude il comunicato del Capo dello Stato – il presidente Napolitano ha ritenuto pertanto di richiamare l’attenzione del presidente del Consiglio e dei ministri dell’Interno e della Giustizia per le iniziative che riterranno di assumere, anche alla luce dei problemi che può comportare l’applicazione del provvedimento in alcune sue parti. La lettera, ampiamente argomentata, è stata inviata, per conoscenza, anche ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati”. Il Governo, da parte sua ha espresso l’intenzione di valutare con la massima attenzione le osservazioni del Capo dello Stato, di cui si terrà conto “già a partire dalla prima applicazione della legge”. Ciò è stato subito evidente nel modo in cui il governo ha affrontato la cosiddetta questione

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art. 1, legge 68/2007. 16

CESEDA, art. L. 621-1, Entretè et séjour irreguliérs. 17

Immigration Act 1971, section 24.

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“badanti”, ovvero di quei lavoratori extracomunitari che sono entrati nel circuito economico del Paese, svolgendo funzioni socialmente utili, e che, in applicazione della legge sulla sicurezza sono esposte al rischio della contestazione del reato contravvenzionale di immigrazione clandestina. La soluzione trovata dal governo consentirà di regolarizzare secondo le funzioni, la posizione di circa 170 mila extracomunitari. Questa soluzione pare chiaramente indicare l’intenzione di superare una visione emergenzialistica dell’immigrazione, per stabilire un quadro certo di regole, a tutela della sicurezza dei cittadini, entro cui costruire una politica di integrazione. La costruzione di un saldo quadro di legalità viene perseguita attraverso misure volte a scoaraggiare le varie forme di collaborazione nella attività di immigrazione clandestina. Si agisce, ad esempio, sulle procedure di trasferimento di denaro, obbligando chi opera in questo settore ad acquisire e conservare per 10 anni copia del titolo di soggiorno, se il soggetto che ordina l’operazione è un cittadino extracomunitario o a segnalare, in assenza del permesso di soggiorno, il soggetto alle autorità di pubblica sicurezza.

c) Contro la strumentalizzazione del diritto di ricongiugimento

Un secondo fronte della lotta contro l’immigrazione clandestina viene individuato dal Governo nelle tecniche, molto diffuse, di aggiramento delle attuali norme al soggiorno e al ricongiungimento dei familiari. Viene previsto, innanzitutto, un ruolo più incisivo del Ministro dell’Interno, responsabile primo delle politiche di sicurezza, nelle procedure del riconoscimento dello status di rifugiato18. Inoltre, le condanne per i reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza saranno valutate ai fini della revoca o del rifiuto del permesso di soggiorno, mentre chi produce o utilizza documenti falsi per l’ingresso o il soggiorno sarà punito con una pena da 1 a 6 anni. Per quanto riguarda le questioni matrimoniali viene, in primo luogo, stabilito che nessuno straniero potrà sposarsi in Italia, salvo che sia regolarmente soggiornante19, fatta eccezione per alcuni casi e per alcuni Stati, con riferimento ai quali il nulla osta al matrimonio potrà essere sostituito da un’autocertificazione dell’interessato nella quale si attesti l’assenza di cause ostative al matrimonio. Sarà, inoltre, proibito il ricongiungimento con chi ha già un altro coniuge in Italia, mentre verrà scoraggiato un uso strumentale anche del ricongiungimento dei genitori ai figli. Infine, norme più restrittive vengono introdotte per l’ottenimento della cittadinanza italiana a seguito di matrimonio con cittadino italiano20.

d) Il patto di integrazione

Le proposte del Governo non sono solo volte a controllare l’immigrazione clandestina, ma anche a incoraggiare l’integrazione, agendo, in particolare, sul piano socio-culturale. Il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo sarà, infatti, subordinato al superamento di un test sulla conoscenza della lingua italiana. Inoltre, gli studenti stranieri che hanno conseguito in Italia il dottorato o il master universitario potranno iscriversi, per 12 mesi,

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Art. 35 del D.Lgs. 25/2008, art. 5 del ddl 19

art. 116 del c.c., art. 1 c. 15 20

art. 4, della L. 91/1992

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all’elenco anagrafico delle persone in cerca di lavoro, oppure potranno chiedere la conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Forme di incoraggiamento sono previste anche per gli extracomunitari che svolgono mansioni di dirigente, tecnico specializzato o professore universitario. Costoro potranno sostituire la richiesta di nulla osta con una comunicazione da parte del datore di lavoro. A coronamento di queste norme proposte, vi è la previsione di un “accordo di integrazione” dell’immigrato, il quale disporrà di una serie di crediti, esauriti i quali, interviene la revoca del permesso di soggiorno o l’espulsione amministrativa. L’integrazione viene, infatti, definita come “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società”. Secondo la proposta del Governo, dunque, ci può essere una corretta integrazione, solo sulla base del rispetto e anzi, della promozione dei nostri valori costituzionali. La severità verso chi viola la legge e l’incoraggiamento all’integrazione, specialmente quando è accompagnata da impegno culturale o professionale, sono due facce della stessa medaglia.

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4. VERSO UNA NUOVA POLITICA DELLA CITTADINANZA

a) Le recenti posizioni espresse dai vertici delle istituzioni

In coincidenza con il dibattito sulle misure adottate dal Governo in materia di sicurezza, è riemersa la questione della partecipazione degli extracomunitari alla vita pubblica nazionale o locale. Il Presidente Giorgio Napolitano incontrando al Quirinale i nuovi cittadini italiani il 13 novembre 2008, ha affermato: “Gli immigrati sono un fattore di forza e freschezza per il Paese e che “debbono cadere vecchi pregiudizi, occorre un clima di apertura e apprezzamento verso gli stranieri che si fanno italiani”. Per questo, secondo il Capo dello Stato, occorre incrementare politiche "volte a stabilire regole e a rendere possibile non solo la più feconda e pacifica convivenza con gli stranieri, ma anche l'accoglimento di un numero crescente di nuovi cittadini". Il punto di partenza, aggiunge, non può essere che "una presa di coscienza collettiva del carattere non temporaneo che ha assunto il fenomeno dell'immigrazione in Italia". Il presidente chiedeva anche meno rigidità sui tempi per la cittadinanza, specificando, nel contempo, che per diventare italiani è necessaria "una piena identificazione con i valori di storia e di lingua", ed è "necessaria anche la condivisione dei principi giuridici e costituzionali che sono propri della nazione e del nostro stato democratico". Sulle disposizioni e sugli strumenti da adottare a questo riguardo, la discussione è aperta. "Osservo solo - aggiunge il capo dello Stato - che più si mette l'accento su forme di verifica per l'avvenuta piena adesione, da parte dei singoli stranieri, al nostro sistema di valori e di principi, meno si può irrigidire il criterio del tempo di residenza che si è trascorso in Italia". Nelle scelte sull'immigrazione, il presidente invitava, dunque, a "procedere con serietà" e a rispettare "elementari diritti umani che non possono conoscere barriere". Il presidente della Camera Gianfranco Fini intervenuto alla cerimonia, ha espresso, a sua volta, un convinto consenso alla posizione del Capo dello Stato, giudicando maturi i tempi per una nuova legge sull'immigrazione "La legge attuale mostra gli anni che ha: non perché siano tanti (gli immigrati, ndA), bensì perchè in questi anni la società italiana è cambiata profondamente". Secondo il presidente della Camera, la questione dei tempi della concessione della cittadinanza è, per certi versi, assorbita da quella dei criteri: "Se si mette l'accento sulla necessità, per diventare italiani, di riconoscersi pienamente nei valori di fondo della nostra Costituzione e della nostra cultura, non è poi così importante stabilire quanti anni bisogna trascorrere ininterrottamente sul suolo nazionale per diventare cittadini italiani", o "attendere il compimento della maggiore età" per i figli degli immigrati. Commentando le parole del presidente della Repubblica e del presidente della Camera, il Ministro dell’Interno Roberto Maroni è intervenuto dicendo: "Il rispetto dei nostri valori fondanti e la conoscenza essenziale della nostra lingua e della nostra storia devono essere accertati con serenità ed equilibrio affinché non si giunga a concedere il beneficio della cittadinanza indistintamente a tutti attraverso valutazioni superficiali". Secondo il Ministro dell’Interno, "la sfida che abbiamo avanti è quella di considerare l'attribuzione della cittadinanza quale traguardo di un percorso di reale integrazione e non semplicemente come uno degli strumenti attraverso i quali perseguirla", ribadendo, in qualche modo, una posizione già espressa in passato, ad esempio il 21 giugno 2002, quando, intervenendo a un convegno a Milano sulla “città multietnica” affermò, tra l’altro, che al diritto di voto alle amministrative per gli extracomunitari regolari “ci si può pensare, all’interno di un percorso sull’immigrazione, con tutte le garanzie del caso”. Emerge con chiarezza, nel dibattito, come il problema sia non tanto quello del riconoscimento del diritto di voto, quanto della costruzione di percorsi di integrazione in grado di facilitare l’accesso alla cittadinanza. A tale proposito, il Presidente del consiglio Silvio Berlusconi intervenendo alla

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celebrazione della Giornata internazionale per i diritti dell'infanzia, svoltasi nell'aula della Lupa nel palazzo di Montecitorio il 21 novembre 2008, ha rilanciato la proposta delle “classi ponte” per alunni extracomunitari: «Minori stranieri nella scuola italiana, comprendendo le scuole dell'infanzia, le primarie e le secondarie, sono in costante e forte aumento. Oggi sono più di mezzo milione, pari al 5,6 % della popolazione scolastica» rispetto allo 0,8% di dieci anni fa. «L'insufficiente conoscenza della lingua italiana - ha proseguito il presidente del consiglio - fa sì che le percentuali di insuccesso scolastico di questi ragazzi sia addirittura il triplo di quelli italiani. Se non sanno l'italiano non possono seguire le maestre. Quindi abbiamo pensato, per porvi rimedio, di approvare una mozione per introdurre corsi e classi che non sono separate ma che sono semplicemente tese a dedicare molto tempo all'insegnamento della lingua italiana agli alunni stranieri”. Berlusconi ha, dunque, tenuto a sottolineare che non si tratta di una discriminazione ma di un'iniziativa «logica e doverosa a loro vantaggio». b) Il comportameno asimmetrico del Legislatore

Il Legislatore italiano ha avuto un comportamento asimmetrico in favore degli emigrati e dei loro discendenti, a discapito degli immigrati21. La legge italiana su cittadinanza risale al 1992, quando ancora l’immigrazione veniva vista come un’emergenza nazionale e non ancora se ne percepiva il carattere globale e strutturale. Si tratta di una delle leggi più restrittive d’Europa occidentale. In sintesi, la legge 91/1992, prevede che lo straniero sia stato legalmente residente nel territorio della Repubblica e, di fatto, esclude dall’accesso alla cittadinanza le “seconde generazioni” di immigrati, quelle verso le quali dovrebbero essere dirette le politiche di integrazione. Essa venne approvata proprio mentre in Europa si sviluppavano legislazioni tese a favorire la concessione di cittadinanza a stranieri residenti. L’Italia registra un grave ritardo su questo fronte rispetto ad altre grandi democrazie europee. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti si applica rigorosamente lo ius soli: è sufficiente nascere sul territorio nazionale per essere cittadino. Anche in Germania, patria dello ius sanguinis, l’accesso alla cittadinanza da parte degli immigrati è più facile che in Italia: se uno dei genitori ha un regolare permesso di soggiorno, il neonato diventa cittadino tedesco. Mentre in Francia si è francesi se i genitori sono entrambi francesi, anche se naturalizzati, se si nasce da cittadini stranieri dopo 5 anni di residenza a partire dall’età di 11 anni se si è figli di un cittadino francese, indipendentemente dalla nascita del genitore in Francia. c) Cittadinanza e diritti politici nell’evoluzione della forma di Stato italiana

Negli ultimi due decenni s’è affermata nella dottrina una tendenza favorevole alla introduzione per via ordinaria dell’estensione del diritto di voto agli stranieri, sulla base, soprattutto, di una visione storico-sostanziale della “comunità politica”, l’appartenenza alla quale dovrebbe essere accompagnata, al di là del dato giuridico formale, dal riconoscimento dei diritti politici. Da questo punto di vista il riferimento alla “cittadinanza”, di cui all’art. 48 Cost., andrebbe interpretato in senso inclusivo nei confronti di tutti i soggetti titolari di garanzie costituzionali. Su questa base si è anche proposto di leggere il combinato disposto degli artt. 2, 3, 10 c. 2 Cost. come un’apertura del Legislatore costituente verso la possibilità di estendere, sulla base del contesto storico, il

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G. Tintori, Fardelli d’Italia?, Conseguenze nazionali e transnazionali delle poltiche di cittadinanza italiane, Roma, Carocci, in corso di pubblicazione, pp. 121 e ss.

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“riconoscimento” di cui all’art. 2 Cost. anche ai diritti politici. E’ di conforto, in merito, la giurisprudenza costituzionale, laddove si afferma che “la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, tra soggetti eguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova limite se non nella razionalità del suo apprezzamento”22. In altre parole, nel riconoscere la legittimità di trattamenti differenziati, la Corte sostiene il primato della interpretazione storica e sostanziale della norma sull’elemento giuridico formale. Su questa base, come affermato in altra occasione, il Legislatore può fare riferimento a “una comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto”23. È fuori di dubbio, ormai, che non esistono possibilità di intervento legislativo in materia al di fuori dell’ambito statale: i vari tentativi di introduzione del diritto di voto agli immigrati nelle elezioni amministrative, realizzati in ambito regionale o locale, si configurano come puri “manifesti” politici.24 Il quadro, inoltre, è destinato a mutare anche in considerazione dell’evoluzione della forma di stato italiana verso il modello federale, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione. Nell’elencare le materie che rientrano nella legislazione esclusiva dello Stato, infatti, la Costituzione tiene nettamente distinte tra loro la “condizione giuridica dello straniero”25, da una parte, e l’“immigrazione”26, dall’altra, il che potrebbe voler dire che spetta al legislatore ordinario qualsiasi decisione concernente lo status giuridico del non italiano residente nel nostro Paese, ivi compresa la sfera dei diritti politici. Non è qui il caso di entrare nel merito di quale voto riconoscere agli stranieri. Basti osservare che, nel quadro dell’evoluzione in senso federalistico della nostra forma di Stato, e della conseguente equiparazione degli enti territoriali costituenti la Repubblica specialmente in riferimento alla collaborazione nell’applicazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, nonché sulla base sia dell’interpretazione evolutiva del concetto di cittadinanza, di cui all’art. 48 della Costituzione, sia dell’attribuzione al legislatore ordinario della competenza in materia di condizione giuridica dello straniero, è possibile per il legislatore nazionale muoversi secondo la logica di un “costituzionalismo multilivello” in senso sia diacronico sia sincronico, ovvero con riferimento tanto al grado quanto all’estensione dei diritti politici, sulla base dell’evoluzione concreta della società italiana.

d) L’attività del Parlamento nei primi dieci mesi della XVI Legislatura

Nella XVI legislatura sono state presentate diverse proposte in materia di integrazione della popolazione extracomunitaria, con riferimento alle questioni connesse alla determinazione dello status di “cittadino”. Alcune di queste hanno carattere di disegno di legge costituzionale, in quanto comportano la revisione dell’art. 48 Cost. Nel ddl n. 1088 A.S./XVI, primo firmatario Incostante (PD), si propone, ad esempio, di introdurre proprio nell’art, 48 cost. la previsione di una normazione per via ordinaria del “diritto di voto attivo e passivo” sia dei sedicenni sia degli extracomunitari residenti in Italia da almeno 5 anni, con esclusione dell’elezione dei deputati e dei senatori. Mentre al bilanciamento tra le politiche di legalità e sicurezza e le politiche di integrazione è espressamente diretta la proposta di legge costituzionale A.C. 1635/XVI, primo

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Corte Costituzionale 104/1969. 23

Corte Costituzionale 172/1999. 24

T. F. Giupponi, Il diritto di voto agli stranieri, tra “cittadinanza” e autonomie territoriali, Forum di “Quaderni Costituzionali”, 2007, www.forumcostituzionale.it 25

Art. 117 c. 2 lettera a Cost. 26

Art. 117 c. 2 lettera b Cost.

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firmatario Veltroni (PD), recante “Modifiche agli articoli 48, 50, 51 e 75 della Costituzione, in materia di diritti politici degli stranieri residenti in Italia”. Nella relazione, infatti, da un lato, vengono giudicati “decisivi” i “respingimenti alle frontiere e le espulsioni con rimpatrio” e, dall’altro, si rileva che “oltre allo Stato, le regioni e gli enti locali, l’associazionismo e il volontariato stanno assumendo rilevanti responsabilità nel territorio” al perseguimento di “obiettivi di integrazione: lavoro, assistenza e previdenza, sanità, casa e cultura”. Attraverso la revisione degli artt. 48, 50, 51 e 75 della Costituzione si prevede, dunque, che gli stranieri regolarmente residenti in Italia da oltre 5 anni: a) godano di elettorato attivo e passivo nelle lezioni provinciali e comunali e nelle altre elezioni locali; b) possano presentare petizioni alle Camere, possano accedere agli uffici pubblici che erogano servizi sanitari e sociali; c) possano partecipare ai referendum nelle materie delle autonomie locali. Anche se non strettamente collegata alla questione relativa all’integrazione della popolazione extracomunitaria, merita attenzione la proposta di legge A.C. 673/XVI, primo firmatario Menia, dove si propone di sanare l’incongruenza delle norme regolanti l’elettorato attivo e passivo negli Statuti speciali del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta, che prevedono il requisito della residenza territoriale. Di particolare interesse è anche la proposta di tenere ben distinta la “cittadinanza civile” dalla “cittadinanza piena”, per la quale ultima la legge 91/1992 prevede che possa essere ottenuta solo dopo dieci anni di residenza legale, (progetto di legge costituzionale A.C. 848/XVI primo firmatario Pisicchio). Sulla base di questa distinzione si prevede, per coloro che risiedono in Italia da oltre cinque anni, anche se non in possesso della cittadinanza italiana, la concessione della cittadinanza civile, che si esplica attraverso l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative, nelle elezioni locali, nelle elezioni per il Parlamento europeo e nella partecipazione ai referendum per le leggi in materia di autonomie locali (art. 2). Altre proposte sono dirette a modifiche per via legislativa ordinaria. In linea di massima, esse sono dirette alla revisione dell’attuale norma della cittadinanza. Alcune di queste sono ispirate a una chiara logica di attenzione, come il ddl A.S. 588 a prima firma Francesco Cossiga (UDC-SVP-Aut), “Norme sulla cittadinanza, immigrazione e residenza degli stranieri”, dove si propone di “preservare la situazione di fatto che dura da tempo” attraverso la concessione della cittadinanza italiana allo straniero o all’apolide titolare di un permesso di soggiorno permanente e che risieda in Italia da almeno 5 anni, con estensione ai familiari (comprese le “mogli”) e il permesso di soggiorno permanente a tutti gli immigrati, anche clandestini, che si trovino in Italia da oltre cinque anni e non abbiano subito condanne per reati gravi. Altre, invece, sono di segno nettamente opposto, come la (proposta di legge costituzionale A.C. 1241. primo firmatario On. Andrea Gibelli (LNP), recante “Modifica all'articolo 22 della Costituzione in materia di cittadinanza” 4 giugno 2008, che prevede un irrigidimento della norma o controlli più rigidi sulle procedure di giuramento (ddl A.S. 1101, primo firmatario Sen. Maurizio Saia (PdL) recante “Modifica della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza”). Altre proposte di legge si muovono alla ricerca di un equilibrio tra le esigenze di legalità e sicurezza, sempre più avvertite dalla popolazione e sempre più importanti nel quadro della collaborazione internazionale nella lotta al terrorismo, e il rispetto e il rafforzamento della nostra tradizione costituzionale, in ordine alla tutela e alla promozione dei diritti fondamentali e di quelli politici. Alla politica del governo in materia di legalità e sicurezza fa esplicito riferimento la deputata Souad Sbai (PdL) con una proposta, in via di presentazione, per la modifica dell’art. 12 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di revoca della cittadinanza. La deputata, che è anche presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia, nonché componente della Consulta per l’Islam italiano, ribadisce lo stretto legame tra la concessione della cittadinanza e il rispetto della nostra cultura costituzionale, con particolare riferimento ai molti abusi dell’istituto della ricongiunzione

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da parte di cittadini stranieri. La parlamentare propone, infatti, di revocare dalla cittadinanza dello straniero che dichiari il falso o produca falsa certificazione volta a ottenere la cittadinanza. La norma è volta a contrastare eventuali situazioni di poligamia. Numerose sono, poi, le proposte incentrate sul concetto di “integrazione”, con riferimento sia agli aspetti sociali sia a quelli culturali. Anche la deputata Jole Santelli (PDL) propone modifiche alla legge 91/1992 di modo che si affermi un concetto di cittadinanza che vada oltre il mero ambito amministrativo. La cittadinanza, secondo la parlamentare, non si può ridurre al semplice rilascio di un passaporto, ma è “il riconoscimento di far parte di un popolo, riconoscendone i valori sociali e politici”, la storia, la cultura e le tradizioni giuridiche. Per questo, si propongono criteri più selettivi per l’acquisto della cittadinanza; aver adempiuto all’obbligo scolastico dentro scuole italiane, dieci anni di residenza stabile e legale in Italia, buona conoscenza della lingua, della cultura e della costituzione, nonché la rinuncia alla precedente cittadinanza e frequentazione di corsi di cultura e di educazione civica. Vengono inoltre proposte misure volte a evitare i “matrimoni di comodo”. Al “costituzionalismo” come “programma normativo per il futuro” si ispira la proposta del deputato Gianclaudio Bressa (PD), che vorrebbe vedere modificata la legge 91/1992 in modo da prevedere: a) chiare agevolazioni sull’acquisto della cittadinanza per chi è nato in Italia; b) un nuovo regime per l’acquisizione della cittadinanza da parte di minori stranieri; c) “un nuovo e più garantistico percorso per la cittadinanza denominato attribuzione”. In particolare per quel che riguarda la nascita, la nascita sul territorio italiano dà diritto alla cittadinanza italiana su espressa volontà di uno dei genitori all’atto della nascita, quando almeno uno dei genitori sia residente in Italia da almeno cinque anni o, in alternativa, sia nato in Italia e vi risieda da almeno un anno. Per quanto riguarda poi, il minore straniero legalmente residente in Italia, l’acquisizione della cittadinanza viene subordinata a un percorso scolastico e formativo che lo ponga nella condizione di accedere agli studi superiori o a una professione. Con l’A.S. 770 primo firmatario Gianpiero D'Alia (UDC-SVP-Aut), “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”, si intendono “valorizzare” elementi oggettivi di integrazione come l’identità e la cultura italiana” con norme di varia natura, tra le quali rileva quella che rende possibile l’acquisto della cittadinanza italiana al minore, figlio di genitori stranieri di cui almeno uno residente legalmente in Italia da cinque anni, abbia frequentato integralmente un ciclo scolastico o un corso di formazione (art. 2).

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5. PROCESSI DI INTEGRAZIONE E “DEMOCRAZIA PROTETTA”

a) Le nuove sfide del Legislatore italiano, tra rispetto per le diversità culturali e difesa

dell’identità costituzionale e dello Stato di diritto

L’attività del Legislatore in materia di equilibrio tra rispetto delle diversità culturali e difesa dello Stato di diritto non può prescindere, oggi, dal riferimento alla Convenzione UNESCO sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005 e recentemente ratificata dall’Italia. 27 Bisogna tenere conto del fatto che secondo la Dichiarazione, le espressioni culturali non vanno confinate nei musei, ma vanno immesse nel circolo delle relazioni politiche, sociali ed economiche, anche al fine di potenziare la forza innovativa e riformatrice di queste. Qui si pone un problema fondamentale di ordine etico e giuridico: la compatibilità della diversità culturale con i diritti fondamentali. Secondo una recente sentenza della Cassazione non sempre vi è schiavitù quando i bambini mendicano28. Il confine tra riduzione in schiavitù, maltrattamenti in famiglia o esigenze dettate dalla forte povertà sarebbe molto “labile” soprattutto quando si tratta di popolazioni rom dove i genitori “anche per tradizione culturale” mendicano per le strade assieme ai figli. La sentenza ha fatto molto discutere, in quanto in essa sembrerebbe configurarsi la tradizione etnica come fonte giuridica, il che potrebbe aprire la strada alla legalizzazione parziale di altre usanze, quali, ad esempio, la poligamia o l’infibulazione, quasi si stesse tornando alla antica “personalità del diritto”, in vigore in parte dell’Europa in età medievale e attualmente prevista per alcuni consistenti gruppi etnici, quali i musulmani del subcontinente indiano. Occorre, allora, al riguardo, ricordare che uno dei principi della Convenzione UNESCO sulle diversità culturali è quello in base al quale in nessun caso la protezione e la promozione della diversità culturale possono essere assicurate comprimendo i diritti umani e le libertà fondamentali. Questo principio va letto insieme a quello dell’apertura e del bilanciamento, in base al quale non ci può essere, da parte di uno Stato, una difesa della propria diversità culturale interna senza una corrispettiva apertura alle altre culture del Pianeta. Sicché, l’obiettivo, sembra essere quello di costruire una governance della diversità culturale, caratterizzata da un ruolo di primo piano della società civile. Questo vuol dire che nessuna misura volta a proteggere o valorizzare la diversità culturale può essere lesiva di quei diritti fondamentali che garantiscono la convivenza civile. Il Legislatore, insomma, deve confrontarsi con il complesso tema del rapporto tra “costituzionalismo e intercultura”, ovvero con una sorta di mission impossible29. Il massimo sviluppo critico nei confronti del modello monoculturalista si è avuto di recente con le formulazioni di una prospettiva “transculturale” e di una prospettiva “interculturale”, entrambe consapevoli che le identità culturali sono sempre risultanti da interazioni tra culture diverse e su questa base entrambe interessate non solo a “studiare”, ma anche a promuovere esperienze di interazione tra culture diverse. La storia delle civiltà, e ancor più gli sviluppi recenti dell’antropologia, ci hanno insegnato che ogni cultura si è costruita una propria identità solo mediante un confronto talvolta anche conflittuale, con altre culture. In tal senso si può affermare che ogni cultura, si produce e si costituisce solo in quanto “intercultura”, ossia in quanto risultante – in ogni fase della sua nascita e del suo sviluppo – di scambi culturali.

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Legge 19 febbraio 2007, n. 19, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005”. 28

Corte di Cassazione, Quinta Sezione penale, sent. 44515 del 28 novembre 2008. 29

Cfr. L. D’Andrea, Diritto costituzionale e processi interculturali, Forum di Quaderni costituzionali, 2009.

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Ma ciò significa che anche la cultura costituzionale è chiamata a interagire con le altre culture andando oltre la mera “accoglienza” e la filosofia della “tolleranza”. Si configura, invece, per lo Stato costituzionale quale, Stato di cultura, un dovere di intervento, senza il timore che venga rivolta nei confronti del Legislatore l’accusa di “etnocentrismo giuridico”30. In altre parole, il “monoculturalismo”, dal punto di vista della cultura costituzionale, inteso intesa non come sterile conservazione del nostro apparato normativo, ma come coerente rielaborazione dei valori alla base del patto costituzionale italiano sulla base dei diversi contesti sociali che vengono a determinarsi, può ben configurarsi, oltre che come un diritto di auto protezione del Legislatore, anche come un dovere di quest’ultimo nei confronti di persone che provengono da altre culture e da altri sistemi politici e alle quali va assicurato, senza cedimenti “relativistici” (ad esempio, in materia di usi e costumi familiari o di condizione della donna), un quadro saldo dei principi che regolano la società in cui hanno deciso di integrarsi. b) Sicurezza e libertà: dalla difficile sintesi alla “deriva entropica”

“Non si può difendere la democrazia violandone le regole”, “Non si può attaccare la democrazia violandone le regole”31. Tra questi due divieti potrebbe essere racchiusa la problematicità dell’odierna democrazia costituzionale, con riferimento allo spinoso problema del rapporto tra sicurezza e libertà di fronte alla nuova “sintassi” del terrore. Da sempre il rapporto tra libertà e sicurezza è al centro del dibattito scientifico e politico nelle democrazie contemporanee. Basti pensare alla nota divergenza emersa al riguardo tra Einaudi e Croce nel 1945, quando il secondo, in contrapposizione al primo, sosteneva la legittimità dell’uso della forza per difendere la libertà. Ma oggi il concetto di sicurezza è fortemente cambiato. Con l’11 settembre negli Stati Uniti s’è resa evidente nel modo più tragico e doloroso la crisi dei modelli di sicurezza e di intelligence costruiti all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale. La minaccia del nuovo terrorismo è qualitativamente diversa dalle tradizionali minacce con cui ci si è confrontati nell’ultimo mezzo secolo. Le coordinate per definirla e affrontarla non sono più quelle degli stati nazionali, ma quelle delle «visioni del mondo» e degli «interessi economici». Per questo, si richiede uno sforzo di tipo «culturale». Così come i protagonisti delle “nuove guerre” - le “netwars” - non sono più gli stati, ma terroristi, bande armate, gruppi etnici eccetera, allo stesso modo i protagonisti delle nuove battaglie sociali e politiche sono organizzazioni non governative e gruppi transnazionali “diffusi” sul pianeta, che si aggregano e disaggregano sulla base degli “eventi” e degli “obiettivi”, in un modo che sembra sfuggire, per ora, alle dicotomie coerenza/incoerenza e, unitarietà/frammentazione. Così come le nuove guerre sono caratterizzate dalla difficoltà a distinguere “guerra” e “terrorismo”, o dalla sinergia tra obiettivi simbolici e

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Cfr. C. Sbailò, La religione nell’età della tecnica: quale tolleranza. In S. Andò-C. Sbailò, Oltre la tolleranza. Libertà religiosa e diritti umani nell’età della globalizzazione, torino, Marco Valerio, 2003, pp. 210-301; G. Pasqualotto, Cultura, multiculturalismo, intercultura, in G. Pasqualotto (a cura di), Per una filosofia interculturale, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2008, pp. 7-9 e p. 15. E’ in ambito UNESCO che il termine “intra-culturale” si sostituisce progressivamente a “multiculturale”. V. UNESCO, Introduzione agli studi interculturali, 1980.

31 A. Di Giovine, La protezione della democrazia fra libertà e sicurezza, in A. Di Giovine (a cura di) Democrazie protette

e protezione della democrazia, Torino, Giappichelli, 2005, p. 9.

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obiettivi strategici, le nuove battaglie politiche e sociali sono spesso caratterizzate dal gioco di specchi tra rivendicazioni sociali e strategie identitarie, così come dalla continua interazione tra proposte pragmatiche e dettagliate di riforma e contestazioni dell’“ordine globale”. Dopo la fine della guerra fredda la sicurezza riguarda, dunque, direttamente i popoli, le persone, le comunità: questo mutamento s’accompagna all’affermazione dell’unicità dei destini della terra e della crescente interdipendenza tra i vari settori dell’attività umana. Per questo, non è più possibile occuparsi di sicurezza basandosi esclusivamente sulle interrelazioni esistenti tra soggetti politici nazionali e internazionali formalmente riconosciuti. Vi sono soggetti che non sono riportabili nell’ambito delle vecchie categorie – immigrati, minoranze etniche non riconosciute, comunità “diasporiche” – ma che pure sono rilevanti dal punto di vista della sicurezza. Per combattere queste nuove minacce, le più antiche democrazie del mondo tendono a svincolarsi “dai parametri giuridici – nazionali e internazionali – che fanno parte del loro patrimonio di civiltà”. “Si è materializzato davanti ai nostri occhi un ambiente hobbesiano dove bios e nomos si fronteggiano nella loro nuda inconciliabilità e le ragioni della sicurezza (e della forza) sono apparse in certi momenti irresistibili, radicate come erano in uno stato di emergenza, per così dire normalizzato e nemico della persona umana nella sua essenza più intangibile, capace di piegare alle sue esigenze le strutture portanti dello stato di diritto e della democrazia costituzionale”32. D’altra parte, l’idea che la democrazia debba essere “protetta” dai suoi nemici, anche attraverso disposizioni che deroghino, temporaneamente, alle norme sulla tutela internazionale dei diritti fondamentali, non è più considerata in contraddizione con la nostra tradizione costituzionale, almeno a partire dalla fine delle Seconda Guerra mondiale in poi. Gli esempi sono numerosi, ma può essere qui fatto riferimento all’art. 15 CEDU, che “In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” autorizza l’adozione di “misure in deroga agli obblighi previsti dalla Convenzione”, o all’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato dall'Assemblea Generale il 16 dicembre 1966, entrato in vigore nel diritto internazionale il 23 marzo 1976, ratificato dall'Italia il 15 settembre 1978, reso esecutivo con legge 25.10.1977, n. 881), in base al quale “in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l'esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto”. Nelle democrazie, insomma, il diritto alla sicurezza gode di uno status giuridico autonomo, anche se “complementare” rispetto ai diritti fondamentali della persona.33 A ben vedere, democrazia costituzionale è per definizione una democrazia “protetta”: protetta rispetto alla maggioranza e all’opinione pubblica (v. combinato disposto tra artt. 1, 2 e 139 Cost., che, di fatto “blindano”, in due cerchi concentrici, i diritti fondamentali e la forma repubblicana, rendendo queste materie indisponibili a qualsiasi maggioranza parlamentare), protetta rispetto allo stesso pluralismo ideologico (per restare all’Italia, si pensi alla XII Disposizione Transitoria Cost.). La complessità sociale e la “fluidità” giuridica del mondo contemporaneo, cui sopra s’è fatto cenno, potrebbe, forse, spingere il Legislatore a scartare a-priori l’idea di una “massimizzazione”

dei valori in gioco (libertà, sicurezza), e ad adottare, piuttosto, il paradigma della “deriva

entropica”34

. Questo, in pratica, comporterebbe, tornando al problema dell’integrazione in Italia, a un approccio elastico e dinamico dell’equilibrio tra sicurezza e libertà, e cioè non ancorata a una visione rigida del testo costituzionale.

32

A. Di Giovine, cit., p. 5. 33

T. E Frosini, Il diritto costituzionale alla sicurezza, www.forumcostituzionale.it; G. De Vergottini, La difficile convivenza fra libertà e sicurezza: la risposta delle democrazie al terrorismo. Gli ordinamenti nazionali, www.associazionedeicostiuzionalisti.it 34

A. Di Giovine, Protezione della democrazia, cit., p. 10.

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Ad esempio, un processo di integrazione della popolazione immigrata, come ha dimostrato l’esperienza di altre democrazie, deve, infatti, prima o poi approdare al riconoscimento del voto attivo e passivo, almeno a livello comunale, ai cittadini extracomunitarii residenti nel Paese. Ma, per l’appunto, si tratta di un “approdo”. Quel riconoscimento, cioè, si configura come la conseguenza e non la causa del processo di integrazione. In altre parole, il problema non è nel riconoscimento o meno del diritto di elettorato attivo o passivo, bensì nei nuovi percorsi per l’acquisizione della cittadinanza. Da questo punto di vista, il vincolo costituzionale italiano della cittadinanza rispetto all’esercizio dell’elettorato attivo e passivo può rappresentare uno stimolo per il legislatore ad avviarsi verso un’interpretazione della nozione di “cittadino” inclusiva e dinamica, e al tempo stesso rigorosamente ancorata ai valori posti alla base del nostro ordinamento costituzionale. Lo stesso problema dell’equilibrio tra sicurezza e libertà può essere letto in questa luce. Dopo l’11 settembre, appare alquanto irrealistico, ad esempio, rinunciare a subordinare l’acquisto della cittadinanza italiana a una serie di impegni in ordine, non all’adesione ideale, ma al rispetto dei principi fondamentali della Repubblica nonché, secondo la recente esperienza tedesca, alla conoscenza della storia e delle istituzioni del Paese di approdo. Non si tratterebbe, beninteso, di richiedere all’aspirante cittadino una sorta di “impegno interiore” verso i principi della democrazia occidentale e verso l’identità italiana, perché questo sarebbe contrario alla concezione laica dello Stato, bensì di rafforzare nello straniero la consapevolezza di entrare a far parte di una comunità politica “sovrana”, che, al di là del proprio pluralismo culturale, fonda la propria convivenza civile sui valori di libertà, tolleranza e solidarietà così come formulati nella prima parte della Costituzione. c) A quale “comunità” deve far riferimento il Legislatore?

Anche in Italia, come in altri paesi occidentali, l’architettura dei poteri pubblici e del sistema delle garanzie ha risentito non poco delle “turbolenze migratorie” e dei processi di “deterritorilizzazione”.35 Tutte le esperienze costituzionali contemporanee, anche quelle più recenti, presuppongono, infatti, l’omogeneità dei rappresentati, ovvero presuppongono il dato Stato-nazionale territoriale. La nazione resta fino a tutto il XX secolo la comunità “naturale”, rispetto a cui devono legittimarsi la politica e il diritto. Il carattere “naturale” della Nazione fa sì che essa sia portatrice di valori universali. Si riproduce, su scala geopolitica, un meccanismo simile a quello delle “nazioni” dell’Università medievale, così come ricostruito nelle pagine di Chabod. Potremmo, dunque, definire la nazione come l’etnia culturalmente “trattata”, perché essa possa essere incorporata nello Stato. Il démos della democrazia resta un’entità determinabile solo in ambiti territoriali abbastanza circoscritti, quale esito di un processo politico-culturale di integrazione. Il sistema delle garanzie è nato dentro questo orizzonte culturale e giuridico, che oggi viene grandemente destabilizzato dai processi di integrazione economica, dal “globalismo giuridico” e, per l’appunto, dalla moltiplicazione dei flussi migratori. Oggi la società tende a produrre le proprie istanze al di là dei meccanismi di razionalizzazione rappresentativa statale, e in maniera variegata, non riportabile a un profilo politico unitario, sicché lo stato si trova spesso nella condizione di dover negoziare la propria sovranità con una “società degli interessi” sempre più multiforme e aggressiva. In questo senso, la moltiplicazione di istanze di riconoscimento identitario collettivo da parte di “comunità” di varia natura (etnica, culturale, economica, professionale, eccetera) può essere anche considerato come l’effetto evidente di un processo che riguarda tutta la società. Tendono oggi a

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N. Papastergiadis, The Turbolence of migration: Globalization, deterritorialization and Hibridity, Cambridge, Polity Press, 2000, pp. 156 e ss.

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formarsi comunità di carattere politico, economico e culturale, che prescindono dai confini territoriali. Le affinità si incontrano e si sviluppano secondo un modello reticolare. Mentre sul piano delle relazioni politiche e sociali lo Stato tende a essere affiancato, sostituito o integrato da altre entità territoriali, ad esempio, di carattere regionale o comunale, nel senso più ampio del termine e non solo in chiave amministrativa. L’individuo perde la propria tradizionale centralità e tende ad avere un ruolo sempre più importante la community, che è qualche cosa di diverso dalla “comunità” nel senso tradizionale, di aggregazione stabile di individui. La community è un luogo d’incontro, un “progetto”, una sorta di agorà in cui si incontrano persone, nel senso latino del termine, vale a dire “maschere”, “ruoli”, “progetti” per l’appunto. I rapporti a carattere comunitario si sviluppano anche a prescindere da limiti territoriali, ma sulla base di affinità culturali, comuni interessi o comuni avversari. In questo modo diventa sempre meno efficace sul piano della razionalizzazione sociale il paradigma del “soggetto”, ovvero la coppia concettuale noi/loro. “Gli altri siamo noi”: questa affermazione, forse banalizzata dall’eccessivo uso mediatico, rivela a nostro avviso abbastanza bene il processo di cui parliamo. Il “ritorno dello Stato” di cui si è parlato immediatamente dopo l’11 settembre e, con rinnovato vigore, dopo la crisi economico-finanziaria globale cominciata tra il 2007 e il 2008 non sembra smentire questa descrizione. Si registra, indubbiamente, un ritorno dello Stato nell’economia, anche con fenomeni di vero protezionismo. Ma, a ben vedere, questo ritorno ha una natura eminentemente emergenziale, in quanto subordinato, per l’appunto, agli interessi di razionalizzazione espressi dallo stesso mercato globale. La revisione delle regole del mercato globale appare sostanzialmente finalizzata a consolidare questo stato di cose, come dimostrano le conclusioni dell’ultimo G20. La nuova concentrazione di poteri nelle mani dello Stato centrale, in materia economica e di sicurezza, appare palesemente destinata a funzionare come elemento di razionalizzazione economica globale. Non è nemmeno lontanamente pensabile che si possa arrivare a una nuova geopolitica rigidamente fatta da Stati nazionali secondo il classico modello vestfaliano, anche perché non sarebbe chiara la destinazione di questa governance. Essa non potrebbe essere l’interesse delle popolazioni del singolo Stato, per la semplice ragione che il reticolo degli interessi interdipendenti avvolge già l’intero pianeta. Il numero dei soggetti esposti a più culture, a più sistemi giuridici e a più sistemi economici, non solo non diminuisce, ma aumenta. Lo stesso volume di incontri, per ciascun soggetto, tende a svilupparsi secondo un andamento geometrico. Checché se ne dica, cresce il numero di persone che vivono in uno stato di poli-affiliazione spazio-temporale, o, come è stato detto, di “poligamia” di luoghi e tempi. Si afferma una sorta di “porosità giuridica”, fatta di una costante coappartenenza a ordinamenti e valori diversi, a volte tra loro complementari, a volte conflittuali. Ciò fa sì che si indeboliscano i vecchi sistemi di controllo sociale, affidati alla spersonalizzazione dei rapporti e alla centralizzazione delle decisioni. C’è, dunque, un’oggettiva difficoltà, oggi, a trovare una composizione nazionale e unitaria degli interessi sociali. Se è vero, infatti, che la categoria del cittadino è servita a “neutralizzare le differenze per lasciare spazio al dominio del bourgeois”, è anche vero, come è stato autorevolmente osservato in un saggio dedicato al “mito” della rappresentanza politica, che oggi il riferimento al cittadino “pacifica soggetti forti e soggetti deboli, unifica ciò che è strutturalmente diviso”.36 D’altra parte, le strategie costituzionali sviluppatesi in ambito neocomunitaristico non si sono rivelate convincenti. Nell’ambito del movimento neocomunitarista si sono sviluppati tre tentativi di superare nuove forme di “cittadinanza” e, dunque, di “rappresentanza”. Il primo è quello della ricerca di forme di rappresentanza più

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A. Barbera, La rappresentanza politica: un mito in declino? “Quaderni costituzionali”, 4, Dicembre, 2008, pp. 853-888.

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aderenti alle diverse figure sociali da rappresentare37. Si tratta di una posizione che, portata alle sue estreme conseguenze, comporta un superamento dello stesso criterio della maggioranza, a favore del criterio della rappresentanza delle differenze. Emblematico, al riguardo, il problema più volte sollevato negli Stati Uniti, delle circoscrizioni che andrebbero disegnate tenendo conto della composizione etnica. Il secondo tentativo tende a superare la neutralità “totalizzante” del cittadino per “affermare una cittadinanza sessuata”, attraverso la quale superare la logica maschile dell’”identità” che tende a negare le differenze. A tale riguardo, si fa l’esempio del sistema delle “quote rosa” adottato in Italia con la Legge n.81 del 1993 per le elezioni comunali e la legge n.277 del 1993 per le elezioni della Camera dei Deputati. Occorre rilevare, al riguardo, che, dopo la costituzionalizzazione del principio delle pari opportunità,38 la Corte Costituzionale ha parzialmente rivisto la posizione espressa in partenza, pur paventando il rischio di una messa in discussione della “generalità e universalità della rappresentanza” (sent.n.9/2003).39 Il terzo tentativo può essere individuato nell’incorporamento dei diritti del cittadino in quello della “persona”, per arrivare a una visione cosmopolita del principio di rappresentanza. Giustamente, ci si chiede se non sia meglio estendere il diritto di cittadinanza piuttosto che rivedere l’articolo 48 della Costituzione per riconoscere il diritto di voto a chi cittadino non è. Se da un lato, la strada sostanzialistica appare alquanto incerta, in quanto potrebbe comportare la perdita dell’“ancoraggio sicuro a talune categorie classiche del costituzionalismo liberal democratico”,40 dall’altra, pare inevitabile che la “rappresentanza nazionale” debba coesistere con altre rappresentanze, a cominciare da quelle “territoriali”. Forse siamo di fronte non tanto a un superamento del principio della rappresentanza, quanto all’esaurimento di un ciclo storico nel quale occorreva scegliere tra vari tipi di rappresentanza e al ritorno a una visione complessa della rappresentanza, congruente con la complessità sociale cui fa riferimento. Il “popolo”, la cui volontà dovrebbe essere “riflessa” negli organi rappresentativi, è un’entità di sempre più difficile determinazione in termini giuridici. Oggi, per effetto dei processi di globalizzazione e deterritorializzazione, in virtù dei quali può essere – a più livelli – parte di comunità politiche sottoposte a più ordinamenti giuridici territoriali. Il modello multiculturalistico mostra limiti proprio di fronte all’evoluzione della società globale. Nel multiculturalismo, infatti, le identità vengono, in qualche modo, schiacciate sulla loro storia, private della possibilità di interagire con il contesto socio-culturale e giuridico. Ma una cultura statica delle identità oltre a essere inaccettabile da un punto di vista teorico, è anche poco generosa nei confronti della nostra cultura costituzionale che si caratterizza proprio per una forte progettualità di integrazione, volta non solo a far coesistere valori diversi, ma a fare interagire, sul piano sociale, questi insieme alle strategie identitarie degli associati.

37

Corte Costituzionale, Sentenza 9/2003. 38

Riformulazione degli articoli 117 e 51 della Costituzione, rispettivamente con le leggi costituzionali n.3/2001 e n.1/2003. 39

Cfr. A. Barbera, La rappresentanza politica, cit., p. 869. 40

Cfr. A. Barbera, La rappresentanza politica, cit., p. 869. In questo senso, il problema potrebbe essere visto anche come quello della distinzione concettuale tra il binomio oppositivo “differenza-uguaglianza” e quello “differenziazione-uniformità” - distinzione sulla cui base è possibile affermare che un contesto differenziato può garantire “l'affermarsi di modalità di tutela dei diritti sociali più efficaci che quelle praticabili in una logica di uniformità” (L. Antonini, Metodo della differenziazione versus metodo dell'uniformità, in A. Mastromarino e J. M. Castellà Andreu (a cura di), Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Milano, Giuffré, 2009, p. 15.

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d) L’impossibile “neutralizzazione” delle identità culturali nel processo di integrazione

costituzionale

Uno degli aspetti centrali che, di recente, la dottrina costituzionale ha evidenziato consiste nell’esigenza di superare la logica delle “neutralizzazioni” delle identità etnico-religiose, ovvero di andare “oltre” la mera tolleranza delle diversità, per costruire percorsi di integrazione costituzionale aperti alle istanze della società multi-etnica, ma al tempo stesso bene incardinati nei principi dello Stato di diritto, in quanto la piattaforma politica per cui in passato quelle “neutralizzazioni” sono state costruite, lo Stato nazionale territoriale non pare più adatto al compito. Oggi, è stato, inoltre, osservato, in sede non di dottrina giuspubblicistica, ma di ricerca sociologica, “non c’è potere politico (Leviatano) che possa garantire le libertà individuali neutralizzando i conflitti culturali (e religiosi) nella sfera pubblica. L’ideologia del multiculturalismo come politica pubblica non è una soluzione a questo vuoto”41. Si tratta, dunque, di riprendere il concetto di integrazione nella sua valenza giuspubblicistica, senza, però, che sia più possibile identificare la sfera “pubblica” con quella “statale”, rispetto alla quale ultima quel concetto è stato originariamente elaborato, nella dottrina giuspubblicistica tedesca degli inizi del novecento. Del resto è stato lo stesso legislatore costituzionale italiano, attraverso il combinato disposto dell’art. 3 c. 2 e 114 della Costituzione a esprimere, chiaramente, un progetto di integrazione che fa capo all’intera Repubblica, di cui lo Stato è solo una parte. Si tratterebbe, anche in questo caso, di un’integrazione funzionale, di tipo contrattualistico, che riguarderebbe sia il rispetto di comuni regole di convivenza civile, di confronto culturale e di battaglia politica, sia l’adesione a una serie di principi e valori comuni, da intendersi non astrattamente, ma come il passato di una storia nazionale, che riguarda tanto le istituzioni quanto le individualità e le comunità del Paese. Della Repubblica, in questo senso, potrebbe dirsi quel che fu detto dello Stato, e cioè che essa “esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”42. Scrive al riguardo Peter Häberle: “La tipologia Stato costituzionale, ovvero la democrazia pluralistica, si presenta oggi come un modello vincente (certo costantemente perfettibile) che si contrappone agli Stati totalitari di ogni colore e a tutte le pretese fondamentalistiche di verità, ai monopoli dell’informazione e alle ideologie chiuse. Si caratterizza per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere invece destinato a una mera ricerca della verità. Si fonda su verità provvisorie, che assume in linea di principio al plurale e non al singolare e “per decreto”43. Nessuna istanza “identitaria” – per quanto fondata sul legittimo timore dello smarrimento della tradizione – può autorizzarci a mettere tra parentesi il codice genetico della nostra storia costituzionale. “Il potere costituente – scrive ancora Häberle – non è un potere incostituito che decide dal nulla”44. Esso si fonda su una legittimità extragiuridica derivata dalla cultura e dallo spirito del tempo. Tanto è vero che nessuna Costituzione possiede al proprio interno un efficace meccanismo di autodifesa. Non c’è Costituzione che non possa essere sovvertita in maniera “costituzionale” con riferimento, appunto, alle “norme scritte”. L’integrazione della popolazione immigrata, da questo punto di vista, non può avvenire, né in

41

P. Donati, Oltre il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 124. 42

R. Smend, Costituzione e diritto costituzionale (1928), Milano 1988, p. 76. 43

P. Häberle, Diritto e verità, Torino, Einaudi, 2000, p. 85

44 P. Häberle, Per una dottrina costituzionale come scienza della cultura [1982], edizione italiana con aggiunte e

aggiornamenti dell’Autore, a cura di Luther, Roma, Carocci, 1991, 35.

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termini di pura assimilazione né in termini di passiva accettazione delle diversità culturali. Il processo di integrazione non può, oggi, che svolgersi sulla base di una visione dinamica e politica, non statica ed etnica, della diversità culturale. Si tratta, come s’è accennato, di superare sia il paradigma multi-culturale sia quello identitario attraverso una visione inter-culturale. Di qui, lo stretto collegamento tra le politiche di integrazione sociale e le politiche culturali volte non solo a conoscere gli “altri”, ma anche a far si che gli “altri” conoscano “noi”. “Diventare italiani” non può ridursi a una questione burocratica e anagrafica. Si tratta di una svolta culturale in senso lato. Al tempo stesso, non si può pensare di imporre semplicemente dall’alto la nostra cultura costituzionale, senza riaprire i termini del nostro “patto costituzionale”, tenendo conto della nuova realtà sociale ed etnica dell’Italia. Di fronte a una crisi di legittimità costituzionale, infatti, non c’è norma che tenga. D’altra parte, qualsiasi decisione costituente può avere effetti solo se accompagnata dal consenso e se ha, alle proprie spalle, un retroterra culturale. Questo non vuol dire, certo, che ogni Costituzione vada giustificata sulla base del fatto che essa, in quanto esistente, è legittima, ma significa che la comprensione di una Costituzione, così come la sua elaborazione e la sua interpretazione, non può prescindere dall’analisi del terreno culturale su cui è nata: “Prima di ogni drafting, il “campo” di lavoro è già fornito di tanti diversi elementi di costruzione utilizzabili per le nuove costituzioni”. La cultura, infatti, “tratta”, elabora i sentimenti, le convenzioni, sulla cui base, poi, la Costituzione si forma e si regge. Lo Stato costituzionale “ha bisogno di arte e letteratura in quanto emanazioni di libertà”45.

45

P. Häberle, Per una dottrina della Costituzione, cit., pp. 48, 51 e 56.


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