Caterina Peroni, dottoranda in Sociologia del Diritto presso
l’Università Statale di Milano, collaboratrice del Centro
Interdipartimentale di Ricerca – Studi sulle Politiche di Genere
dell’Università di Padova. I suoi ambiti di ricerca spaziano tra
le teorie femministe, la criminologia critica, la violenza di
genere, la prostituzione.
2
In questo contributo cerco di mostrare come i corpi femminili
continuino a rappresentare un punto cruciale per la definizione
dell'ordine sociale e delle sue norme sociali e giuridiche.
Intorno alla sessualità delle donne, subita o agita, si
costruiscono ordini discorsivi - diversi e articolati di volta in
volta e a seconda dell'utilità o dell'opportunità del momento -,
ma tutti in ultima analisi finalizzati da un lato all'affermazione
della norma eterosessuale, e dall'altro all'espropriazione della
capacità di autodeterminazione e presa della parola da parte dei
corpi differenti – in questo caso le donne – che abitano questo
paese.
Confronto due ondate discorsive diverse, da un lato quella
securitaria (2007-2009) che ha visto violenza e prostituzione
entrambe dispositivi per agitare allarmi sociali, giustificare
provvedimenti repressivi, riprodurre retoriche securitarie e allo
stesso tempo riaffermare ruoli sociali di genere essenzializzati,
dall'altro quella successiva, in cui siamo ancora immersi nostro
malgrado, nella quale la violenza sulle donne “torna a casa” (dove
di fatto è sempre stata), mentre imperversano gli scandali
sessuali legati a Berlusconi e la diffusione di un ordine
discorsivo neo-moralistico che ancora una volta distorce termini
come prostituzione, violenza, autodeterminazione e libertà con
l'obiettivo di ristabilire l'ordine delle relazioni di genere e di
esautorare la presa di parola – articolata e politica – delle
donne.
In questo dibattito è il femminismo, come prospettiva cognitiva e
politica, che, nelle sue ambivalenze e declinazioni diverse,
4
ancora una volta rimette in discussione l’ordine del discorso,
mostrandosi cifra e cartina di tornasole delle trasformazioni
sociali ed antropologiche avvenute negli ultimi anni: è dentro a
questa dimensione, in cui si rovesciano continuamente ordini
discorsivi e regimi di verità, che si gioca la partita - tutta
immanente – della ridefinizione dei rapporti tra generi e
generazioni, tra politica e morale, tra i corpi e le loro
rappresentazioni.
Il “caso” Reggiani. Genealogia della vittima perbene
L'omicidio Reggiani, avvenuto nell’Ottobre 2007, segnò un
passaggio paradigmatico per quanto riguarda la violenza di genere
e la sua rappresentazione mediatica e normativa in Italia. Come
sottolinea Shannon Woodcock1, quell’episodio fece emergere in modo
decisivo la centralità del genere nei processi di etnicizzazione
del nemico come stupratore. Moglie di un ammiraglio in pensione
(come ripetutamente sottolineato da tutti i mass media come un
mantra), Giovanna Reggiani rappresentava nel discorso pubblico una
donna del ceto medio, sposata, non più giovane, che ciò nonostante era
stata vittima di rapina, omicidio e forse di stupro2.
1 S. Woodcock, “Gender as catalyst for violence against Roma incontemporary Italy”, Patterns of prejudice, Vol.44, No. 5, 2010.
2 Anche se questo aspetto risulta controverso: vedi Un giorno in pretura,puntata dell'8 Maggio 2011
5
Come è noto, la reazione delle forze politiche3 fu fortemente
repressiva e allarmistica: in due giorni fu approvato il Decreto
legge 181/2007, dal titolo “Disposizioni urgenti in materia di
allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica
sicurezza”, che inseriva la cosiddetta norma “Anti-rom”, ovvero
l'espulsione di cittadini comunitari dal territorio nazionale per
motivi di pubblica sicurezza. Il decreto aprì la strada alla
legittimazione informale dei pogrom contro i campi nomadi di
diverse città, mentre le forze dell'ordine provvedevano a
sgomberarli con violenza. La norma decadde due mesi dopo, ma il
clima di allarme sociale fomentato da mass media e discorso
pubblico istituzionale sedimentarono il processo di
criminalizzazione degli stranieri in relazione allo stupro (delle
donne italiane), tanto da determinare un aumento particolarmente
sensibile della percezione dell'insicurezza legata proprio alla
paura dei reati sulla persona commessi da stranieri.
Vinte le elezioni proprio sul tema della sicurezza e grazie al
panico morale che ne scaturì, nel maggio 2008 il governo
Berlusconi approvò il c.d. “Pacchetto sicurezza”, che, tra
l'altro, istituì la partecipazione dell'esercito nel controllo del
territorio e lo stato d'emergenza per la presenza dei campi nomadi
in Campania, Lazio e Lombardia.
Meno di un anno dopo, nel febbraio 2009, in seguito ad altri casi
di violenza sessuale attribuiti a stranieri, venne presentato in
parlamento un nuovo decreto legge sulla violenza sessuale e gli3 Ricordiamo che sindaco della città di Roma era il Democratico Veltroni, mentre al governo si svolgevano gli ultimi mesi di una coalizione di centro sinistra, cosa che Woodcock, curiosamente, non registra.
6
atti persecutori, intitolato per l'appunto “Misure urgenti in
materia dei sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Tale atto metteva
in relazione per la prima volta l'allarme sull'immigrazione e la
violenza di genere, utilizzando come collante il discorso
securitario: un decreto che aveva ad oggetto il contrasto alle
molestie sessuali prevedeva allo stesso tempo norme
sull'espulsione degli stranieri irregolari e sulle ronde4 (norme
che furono in seguito espunte, ma che esercitarono un forte potere
di condizionamento dell'opinione pubblica), come se i due fenomeni
fossero legati da una qualsivoglia relazione.
Il ruolo che ebbero i mass media in queste vicende fu
determinante. Basti osservare come il rapporto tra andamento
effettivo dei reati, loro rappresentazione mediatica (dal punto di
vista quantitativo e qualitativo), e percezione di insicurezza
principalmente legata all'immigrazione sia significativo: in
questo senso i dati combinati del secondo rapporto (2008) sulla
percezione della sicurezza in Italia di Demos & Pi assieme
all'Osservatorio di Pavia-Media Research per la Fondazione
Unipolis, La sicurezza in Italia. Significati, immagine e realtà. Seconda indagine sulla
rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza5, mostrano una tendenza
chiara: mentre l'andamento dei reati nel 2007 era in decrescita,
la loro rappresentazione mediatica cresceva (eravamo già in piena
campagna elettorale) e il 47% degli intervistati dichiarava di
percepire l'immigrazione come un pericolo per la sicurezza (le
4 A. Simone, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio, Mimesis, Milano20105 http://www.osservatorio.it/download/sicurezza_italia_2008.pdf
7
interviste curiosamente vennero somministrate pochi giorni prima
dell'omicidio Reggiani, che quindi avvenne in un clima già segnato
da un profondo sentimento di paura verso gli stranieri). Il dato
come accennato va ricondotto alla campagna elettorale in corso, in
cui il tema della sicurezza veniva utilizzato come catalizzatore
mediatico sia dal centro sinistra uscente che dall'opposizione di
centro destra6.
Nel dibattito pubblico sulla violenza sulle donne inoltre,
sembrarono essere spariti i dati della ricerca ISTAT 2007 “La
violenza e i maltrattamenti contro le donne fuori e dentro la
famiglia”, che restituivano una fotografia impietosa della realtà
della violenza sulle donne in Italia, calcolando che quasi il 70%
delle violenze viene commesso da conoscenti, attuali o ex partner,
familiari e intimi. Denunciavano cioè che la violenza avviene tra
le mura di casa e non per le strade ad opera di sconosciuti e/o
stranieri.
Lo stereotipo dello straniero stupratore rese ancora una volta
evidente il legame intrinseco tra sessualità e etnicizzazione del
nemico pubblico, attraverso la costruzione mediatica del panico
morale7 (Maneri 2001, Giomi 2010, Bonfiglioli 2010). A questo ruolo
si adatta perfettamente la rappresentazione pubblica del Rom (poco
6 S. Woodcock, cit.7 Sulla produzione del panico morale e la criminalizzazione degli stranieriintorno alla violenza sulle donne da parte dei mass media: M. Maneri, “Il panicomorale come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza”, Rassegna italianadi Sociologia, I, 2001; C. Bonfiglioli, “Intersections of racism and sexism incontemporary Italy: a critical cartography of recent feminist debate”,http://www.darkmatter101.org/site/2010/10/10/intersections-of-racism-and-sexism-in-contemporary-italy-a-critical-cartography-of-recent-feminist-debates; E.Giomi, “Neppure con un fiore? La violenza contro le donne nei media italiani”.Il Mulino, VI, novembre-dicembre 2010
8
importa di che etnia, provenienza nazionale etc: agitare la paura
del Rom è sufficiente a mobilitare l'opinione pubblica verso la
paura e l'odio etnico producendo ondate di razzismo violento). In
questo senso
“[…] La stereotipizzazione razziale dei Rom si fonda su
caratteristiche sessualizzate: gli uomini Rom come primitivi
stupratori e come minaccia sessuale alle donne italiane; le donne
Rom come rapitrici di bambini. Entrambi gli stereotipi incarnano
quello più ampio che vede il Rom come etnicamente primitivo e non
civilizzato in quanto incapace di contenere i suoi presunti tratti
determinati biologicamente al maschile (sesso) e al femminile
(maternità).
È evidente d'altronde come il profondo “potere mobilitante” dello
stupro sia determinante per concentrare l'attenzione dell'opinione
pubblica su allarmi sociali indotti, utili di volta in volta a
costruire i contorni di un folk devil (Cohen 1972) contro cui
proiettare le ansie e le preoccupazioni sociali. Di certo questa
non è una novità: il capro espiatorio è sempre stato utilizzato
per costruire discorsi pubblici intorno alla minaccia incombente
di un nemico pubblico che attraversa le nostre città rendendole
pericolose, degradate, insicure. Il nemico è lo straniero,
l'Altro, che con la sua presenza mette in pericolo l’identità
(presunta unica e monolitica) di una supposta comunità (etnica,
nazionale, morale o religiosa). Ed è proprio questo il punto. Nel
caso dello stupro ciò che conta è che sono “gli altri” che
stuprano, segnando una linea di confine insormontabile tra un
“noi” e un “loro” (Pitch 1998): un confine culturale, di civiltà,
9
di religione, e così via. In altri termini la violenza sulle donne
è un fatto sociale che definisce un'identità, prima che definire
la differenza da sé di chi stupra. Strumentalmente quindi la
mobilitazione emotiva che scaturisce dalla violenza o
dall'omicidio di una “nostra” donna stabilisce cosa questa donna
rappresenta: una comunità etnica, nazionale, religiosa, che va
contrapposta allo straniero, al nemico, allo stupratore.
Questo processo di vittimizzazione delle donne (italiane e per
bene) ha anche un’altra funzione performativa sostanziale: quella
di schiacciare gli attori in gioco in ruoli predeterminati
(colpevole/vittima), neutralizzati e avulsi dalla materialità dei
rapporti umani e sociali. Ruoli che non rendono conto delle
ambivalenze e delle contraddizioni delle relazioni e dei
conflitti, che non riportano alla luce gli aspetti culturali e
sociali della violenza di genere e che, soprattutto nel caso della
violenza sulle donne, espropriano queste ultime della possibilità
di prendere parola a partire dalla propria autodeterminazione.
Ma non solo.
La distinzione tra buona e cattiva vittima (o “imputata”), oltre
che a individuare comunità di appartenenza, serve anche a definire
cos'è la “nostra” donna, a dire quali doti deve avere una vittima
legittima per essere difesa o in nome della quale muovere una
guerra. La vittima per bene, come nel caso Reggiani, è utile a
delineare la condotta alla quale una donna altrettanto per bene
deve attenersi per essere riconosciuta vittima appunto e non
colpevole (o imputata: Simone 2010).
10
In questo senso dunque la violenza di genere è un potente
dispositivo biopolitico: attraverso il quale è possibile definire
identità etniche e nemici pubblici, allarmi morali, comportamenti
sessuali normali e devianti, ruoli di genere essenzializzati e
così via. È questa la storia dello statuto di vittima-imputata
assegnato alle donne dalla normativa sulla violenza. “Buona”
vittima da difendere, quando non portatrice di istanze di
emancipazione e autonomia, e se utile a confermare simbolicamente
un ruolo femminile subordinato, eteronormalizzato, di remissione.
“Cattiva” vittima, quindi in qualche modo colpevole, quando il suo
comportamento non rientra nel binario indicato dalle norme penali
e sociali. Paradossalmente, il consenso richiesto come condizione
per distinguere la violenza dal rapporto sessuale è un concetto
che può sacrificare quello di libertà (creando un’aporia non
indifferente).
L'altra faccia della medaglia: i corpi criminalizzati
Se nel caso della violenza la vittimizzazione del corpo femminile
nativo è dunque utile alla definizione di identità etniche, di un
certo ordine sociale e di ruoli essenzializzati eteronormati, a
confermare il potere di mobilitazione che ancora suscita la
strumentalizzazione della sessualità femminile troviamo l'altra
faccia della medaglia: la criminalizzazione delle condotte
sessuali devianti, fuori dalla norma, eccedenti. Il caso della
prostituzione e della sua normazione sociale e giuridica è
particolarmente interessante da questo punto di vista, perché ri-
disegna, confermandoli, i confini della norma eterosessuale
11
intorno alla devianza dei corpi femminili, ma aprendo, come
vedremo, alcune ambivalenze sulle quali è il caso di soffermarsi.
Mentre esplodeva la bolla mediatica della sicurezza, che trovava
piena traduzione nella sovrarappresentazione mediatica della
violenza sessuale commessa da stranieri, e di conseguenza la
vittimizzazione delle donne italiane cosiddette perbene, si apriva
una nuova emergenza, alimentata da mass media e imprenditori
morali, speculare alla prima: la prostituzione di strada.
La questione della prostituzione tornava infatti al centro delle
polemiche nel dibattito politico a seguito di alcune ordinanze
comunali proibizioniste e del disegno di legge Carfagna-Maroni-
Alfano approvato dal Consiglio dei Ministri nel settembre 2008. Un
provvedimento significativamente emanato, assieme al Ministro
delle pari Opportunità, dal Ministro dell’Interno e quello della
Giustizia: segnalando così come il fenomeno dovesse essere
ricondotto ad un mero problema di ordine pubblico e di giustizia
penale.
Vale la pena sottolineare come il Dl non sia mai stato approvato
in Parlamento, ma ciò nonostante abbia imposto nel dibattito
pubblico una griglia discorsiva alla quale le agenzie
istituzionali e i mass media hanno dovuto (o voluto) adeguarsi: in
questo senso sembra interessante rilevare come, più che il testo
normativo in sé, abbia avuto risalto la relazione introduttiva al
disegno di legge presentata in sede di conferenza stampa, che
mostra un inedito circolo di rimandi simbolici al linguaggio
giornalistico sul piano della rappresentazione della percezione
dell’insicurezza. Un circolo che, ancora una volta, si chiude
12
intorno alla dimensione tautologica della descrizione del fenomeno
stesso:
“Le condizioni di miseria sociale e morale in cui in prevalenza si
consuma il fenomeno della prostituzione impongono alle Istituzioni
di intervenire attraverso misure che, in primo luogo, tutelino la
dignità ed i valori della persona umana e la sua libertà di
determinazione ed, inoltre, prevengano le cause di un diffuso
allarme per l’ordine pubblico e la sicurezza”8.
La diffusione dell’allarme sulla prostituzione produce un maggior
allarme sociale: sembra non esistere alcuna via d’uscita.
D’altro canto il taglio fortemente repressivo del disegno di legge
si allineava perfettamente al clima di “guerra” al degrado e paura
delle diversità che veniva diffuso dai mezzi di comunicazione di
massa e dalle istituzioni politiche a livello locale e nazionale.
Si voleva colpire infatti esclusivamente la prostituzione di
strada, quella più visibile oggetto di paura e insicurezza nella
cittadinanza, mettendo sullo stesso piano clienti e sex workers9.
La prostituzione veniva così stigmatizzata attraverso un
dispositivo che nulla aveva a che fare con la sicurezza o la lotta
allo sfruttamento: si trattava solo di “ripulire le strade” alla
vista dei cittadini “per bene”, spostando eventualmente di qualche
chilometro i luoghi d’incontro per i clienti, in una manovra che
da sé alimenta, attraverso campagne stampa di allarme sociale, la
percezione di insicurezza e la paura nei cittadini.
8 http://www.pariopportunita.gov.it/Pari_Opportunita/UserFiles/PrimoPiano/relazione_illustrativa_prostituzione.pdf 9 Ibid.
13
La rappresentazione pubblica della prostituzione accendeva quindi
un’ulteriore riflettore sulle contraddizioni e sui conflitti che
si intrecciano intorno alla questione della sicurezza urbana: un
riflettore che fotografava un aspetto più profondo e trasversale
della nostra società, radicalmente connesso alla sessualità: la
definizione e il rapporto tra i generi e l’autodeterminazione.
Emergeva infatti attraverso questi dispositivi una “questione
etica”, riguardante l’ordine sociale tout-court insieme alle
problematiche di ordine pubblico o di sicurezza richiamate (“Il
tema della prostituzione è da sempre assai controverso per le sue
implicazioni etiche, culturali e di ordine pubblico”10). Si tratta
di un dispositivo che, in questo caso, attraverso la
criminalizzazione della prostituzione, parla dei limiti alla
libertà sessuale disegnando le caratteristiche basilari delle
relazioni sessuali legittime e legittimate socialmente.
Il dibattito pubblico si limitava alla qualificazione della
“devianza” sessuale della prostituta, assunta come dato oggettivo:
chi si prostituisce, o meglio, la donna che si prostituisce, è
schiacciata nella categoria di colpevole o vittima. Il presupposto
è che la sessualità femminile è di per sé – naturalmente – non
violenta, tenera, paritaria; viceversa quella maschile è
altrettanto naturalmente aggressiva e prorompente: quando questo
rapporto si rovescia, “sembra aprirsi, per l’ordine sociale così
come per quello simbolico, l’abisso del caos”11.
10 Ibid.11 T. Pitch, cit.
14
Se quindi la prostituzione, come la violenza di genere, porta
nella sua rappresentazione simbolica (normativa e mediale) la
definizione di ruoli e modelli culturali di relazione, permettendo
la distinzione e la criminalizzazione della devianza rispetto alla
norma sessuale, nel primo caso emerge però una forte ambivalenza
intorno alla determinazione di ciò che è o sarebbe la “naturalità”
sessuale femminile: le prostitute sono vittime o colpevoli?
Dipende. Quello che rileva in ogni caso è che esse non hanno voce
né soggettivazione sul piano politico, e, di volta in volta, la
loro criminalizzazione - o tutela - contribuisce comunque alla
costruzione simbolica e mediatica delle retoriche securitarie.
Corpi a rischio, oltre l’ondata securitaria
Corpi, sessualità, sicurezza, devianza, controllo. La violenza
sulle donne, come ha detto Tamar Pitch, è un fatto sociale totale
proprio perché coinvolge molteplici sfere del sociale, andando ad
incidere sulle definizioni di ciò che siamo attraverso ciò che non
vogliamo essere, sulle rappresentazioni e i simboli, sulle norme
sociali e giuridiche, sulle identità sessuali, e così via. È un
criterio ordinatore di una società, che dice tutto sulla libertà e
l'autodeterminazione dei soggetti, e in particolare delle donne,
sugli spazi di agibilità, sul potere. Il nesso tra violenza e
prostituzione, tra come vengono rappresentate e la percezione che
ne abbiamo, mostra quanto il dispositivo sessuale sia pervasivo
nel governo della società.
E lo è tuttora, nonostante le retoriche mediatiche
sull'immigrazione come causa principale di allarme per la
15
sicurezza dopo il 2007 abbiano avuto una flessione decisiva, così
come la percezione dell'insicurezza dovuta a fatti criminali:
secondo i dati del rapporto dell'Osservatorio Europeo sulla
Sicurezza del primo trimestre 2011, “La sicurezza in Italia e in
Europa. Significati, immagini e realtà”,
“Rispetto a qualche anno fa, le paure legate alla presenza
straniera appaiono più contenute. Così come per la delinquenza
comune, anche per l’immigrazione il valore massimo è stato
osservato nel 2007, in corrispondenza della già richiamata
“sindrome criminale”: i due temi, del resto, hanno sempre mostrato
una stretta associazione, nelle opinioni (e nelle paure) dei
cittadini. Oggi appena il 6% degli intervistati cita
l’immigrazione quale primo problema, quando negli ultimi anni
aveva superato il 10% (con un picco del 13% nel 2007). Il tema
figura al sesto posto della graduatoria, superato dall’inflazione
(9%) e dal deterioramento ambientale (8%)”12.
Dal 2007 molte cose sono cambiate. La crisi economica globale, la
devastazione ambientale, la disoccupazione costituiscono una nuova
agenda per media e politica, che fanno scivolare l'allarme
immigrazione fra gli ultimi punti del dibattito pubblico.
Eppure in questo quadro la notiziabilità dei “fatti criminali”
resta alta e disancorata rispetto all'andamento effettivo dei
reati, collocati dall'Osservatorio all'interno della
rappresentazione delle insicurezze: e di questi la maggiore
12 http://www.osservatorio.it/download/REPORT_Osservatorio_Europeo_Sicurezza_Luglio%202011.pdf, p.8
16
visibilità, ancora una volta, appartiene ai casi mediatici di
omicidio di donne: Yara Gambirasio, Sarah Scazzi e Melania Rea.
Mentre in Spagna la violenza di genere viene tematizzata al punto
che “in tutti i casi in cui si sospetta un reato di violenza
maschile, il telegiornale aggiorna la cronaca delle vittime, “è la
quarantesima vittima della violenza maschile”13, nei nostri
telegiornali principali le notizie vengono riportate senza
contestualizzazione, come eventi eccezionali sganciati dalla
realtà sociale, in cui la violenza sulle donne resta sempre,
viceversa, una costante fissa intrinsecamente legata
all'asimmetria delle relazioni di genere dentro e fuori la
famiglia. Gli uomini italiani che uccidono le proprie mogli,
fidanzate, amanti divengono
““diversamente extracomunitari”, “diversamente altri”, strumenti
di un esorcismo attraverso cui le problematicità della sessualità
e dell’identità maschile sono giustificate come incontrollabile
gelosia, la violenza di genere sospinta nelle zone periferiche
della marginalità, i suoi aspetti culturali e sociali nascosti
sotto il tappeto rigorosamente individuale della devianza o
dell’improvvisa follia. L’ordinarietà del fenomeno è camuffato da
eccezione mostruosa, da ab-norme, appunto, cosicché l’ordine
simbolico dominante ne esce illeso, e con esso la società tutta”14.
Allo stesso tempo, trovano il loro posto nello schema binario
eteronormato le “vittime”, le donne uccise che meritano di
ricevere attenzione mediatica e quindi di vedere riconosciuto il
13 Osservatorio sulla Sicurezza in Europa, etc.14 E. Giomi, “Neppure con un fiore? La violenza contro le donne nei mediaitaliani”, Il Mulino, VI, novembre-dicembre 2010
17
loro status. Anche in questo caso la loro soggettività scompare
dietro alla necessità di rappresentare un femminile debole,
afasico, devoto a mariti, figli e familiari.
Chi ha ucciso Melania Rea?
“Troppe cose non tornano. Melania, o nel parco San Marco o nel
chiosco, una volta scoperto l’inganno avrebbe reagito, avrebbe
gridato, pianto. O magari, su quella macchina, non sarebbe mai
salita. […] Passiamo al movente del delitto. Melania aveva forse
un amante? Era una ragazza facile, pronta a saltare sulla prima automobile che
le capitava e senza perdere tempo andare a fare l’amore per i
boschi, lasciando la figlioletta con il marito? Gli inquirenti
hanno passato al setaccio la sua vita, ed è risultata limpida e
trasparente. Melania Rea era assolutamente devota al marito, e soprattutto
era una donna di sani principi. Era moglie di Gabriele e madre di una
bellissima bambina, tutto qui. Perché allora è stata uccisa?”15
La voce fuoricampo segue le immagini del boschetto di Ripe di
Civitella, dove il corpo deturpato di Melania è stato ritrovato.
Sono immagini inquietanti, spezzate, instabili, che trasmettono a
chi guarda una sensazione di solitudine, angoscia, paura. La
ricostruzione della scena del crimine, disegnata, mostra un corpo
denudato ed oltraggiato da incisioni sulla pelle e una siringa
conficcata nel petto. L’effetto potente di drammatizzazione16 è
immediato.15 Il corsivo, evidentemente, è aggiunto da me per sottolineare l'enfasi dialcune espressioni chiave che in seguito esplicherò più approfonditamente16 G.Gili, La violenza televisiva. Logiche, forme, effetti. Roma, Carocci 2006
18
Chi l'ha visto?, trasmissione del 29 settembre 2011.
Il caso è noto. Si tratta dell’omicidio di Melania Rea, 29 anni,
moglie di un sottufficiale dell’esercito, Salvatore Parolisi,
trovata brutalmente assassinata il 18 aprile 2011 in un bosco a
Ripe di Civitella, in provincia di Teramo. Un omicidio efferato,
segnato da una violenza feroce, che ha visto gli inquirenti
brancolare nel buio per settimane, fino alla svolta nelle indagini
e l’arresto del marito per “omicidio volontario pluriaggravato dal
vincolo di parentela e crudeltà e vilipendio di cadavere in
eventuale concorso con altri”17.
Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia18, è il secondo “caso
criminale” più riportato dai tg nazionali (21 volte) nei primi
mesi del 2011, dopo il ritrovamento del corpo di Yara Gambirasio
(46 volte) e prima dell'omicidio di Sarah Scazzi (19 volte). Un
caso mediatico che, come ha scritto Aldo Grasso19, ha attirato
l'attenzione di tutte le reti televisive in tutte le fasce orarie,
arrivando quasi ad essere presentato a “reti unificate” nel maggio
2011, in una sorta di “staffetta” inedita che ha visto le
trasmissioni Chi l'ha visto e Porta a Porta unite e complici nella
ricostruzione del caso, con il supporto di un “plotone” di inviati
sul luogo del delitto pronti a testimoniare con loro mera presenza
della “morbosità” della notizia.
17 http://www.ilrestodelcarlino.it/ascoli/cronaca/2011/07/19/546639-arrestato_salvatore_parolisi.shtml18 http://www.osservatorio.it/download/REPORT_Osservatorio_Europeo_Sicurezza_Luglio%202011.pdf19 http://www.corriere.it/spettacoli/11_maggio_13/grasso-vespa_5245caf6-7d1f-11e0-9624-242b96a6d52e.shtml
19
Il “caso” Rea è quindi un episodio decisamente significativo per
la comunicazione mediatica rispetto alla rappresentazione della
violenza di genere e alla formazione dei significati e degli
ordini discorsivi che da questa rappresentazione scaturiscono; e
lo è per diversi aspetti che mostrano contemporaneamente delle
ambivalenze e delle inversioni di tendenza rispetto al passato. Si
tratta di ciò che dice (ancora) e di ciò che non dice (più)
rispetto al fenomeno della violenza sulle donne e al modo in cui
viene rappresentata.
In primo luogo, il caso di Melania Rea è, per l'appunto, un
“caso”. Viene selezionato e spinto nella cronaca nera, nei
programmi di intrattenimento, negli approfondimenti serali come
quello di Chi l'ha visto?. È un delitto orribile che suscita sgomento
ed emozioni forti nell'opinione pubblica. È un episodio quindi che
dice molto sulla percezione e sulla sensibilità che attraversano
il sociale. L'analogia con un altro caso di violenza ed omicidio,
assurto alle cronache nazionali di qualche anno fa, risulta quasi
immediata. Si tratta di un'analogia parziale ed è in questa
parzialità che sta l'aspetto interessante che vorrei sottolineare:
l'omicidio di Melania Rea inevitabilmente richiama l'altro delitto
“eccellente” per la cronaca nera degli ultimi anni: quello di
Giovanna Reggiani. Come quest'ultima, Melania Rea era moglie di un
militare e faceva parte di una famiglia benestante, italiana,
perbene.
È per così dire una vittima buona e una buona vittima: una donna
normale, moglie devota e di sani principi, dalla vita limpida e
20
trasparente. Melania Rea potrebbe essere una qualunque di noi. E
allora perché, si chiede Chi l'ha visto?, è stata uccisa?
La domanda risulta piuttosto ambigua. Perché presuppone tra le
righe che ci sia qualcuno che viceversa merita di essere di
ucciso. Probabilmente si riferisce a chi non conduce una vita
cristallina, a chi invece salirebbe sulla macchina di uno
sconosciuto dimostrando così di essere facile e quindi di
essersela cercata. Il “chi” in questione è, naturalmente, sempre
al femminile. Ma Melania, invece, oltre che una vittima buona è
appunto una buona vittima, da presentare in prima serata in
programmi di attualità, come dimostrazione esemplare che
l'eccezione sempre confermi la regola. E cioè che all'interno
della famiglia normale queste cose non succedono, che sono
straordinarie e devono suscitare il nostro scandalo, il nostro
disorientamento.
L'altra faccia della medaglia: i sexgate di Silvio Berlusconi
L'altra faccia della medaglia, questa volta, è meno altra.
Alla costruzione della vittimizzazione femminile, incorniciata
dallo stereotipo materno, amorevole, debole, bisognoso di
protezione, ha contribuito, venuta meno la centralità assoluta
della minaccia sessualizzata straniera nelle retoriche
securitarie, un altro ordine del discorso. Un discorso che è
rimasto interno ai confini dell'identità nazionale ed è immerso
nel dibattito politico attuale, quello che ha a che fare con la
sessualità, il potere e la libertà di autodeterminazione. Un altro
modo di parlare di prostituzione.
21
Si tratta del dibattito intorno ai sexgate del presidente del
consiglio Silvio Berlusconi.
Il 28 aprile 2009, con una mail di risposta ad un articolo
pubblicato da Fare Futuro, fondazione culturale legata al
presidente della Camera Gianfranco Fini, la moglie di Berlusconi
Veronica Lario inaugura il capitolo degli scandali sessuali legati
al marito. L’oggetto dell’articolo consisteva nella dura critica
al reclutamento delle candidate per le elezioni europee,
considerato "una pratica di cooptazione di giovani signore con un
background che difficilmente può giustificare la loro presenza in
un'assemblea elettiva come la Camera dei deputati o anche in ruoli
di maggiore responsabilità"20.
La Lario nella missiva prendeva le distanze dal marito, per la
seconda volta, denunciando i vizi del marito, e aprendo così
l'affaire torbido che ha infiammato nel nostro paese un dibattito
pubblico scandito da continue nuove rivelazioni, confessioni,
indagini, gossip. Una lettera significativa, per i termini che
utilizza, che verranno ripresi poi dai suoi detrattori o dalle sue
sostenitrici. “Frequenta le minorenni”, “bisognerebbe aiutarlo,
come uno che non sta bene”. Un problema legato al potere e al
sesso, antico come la storia, che però da un lato apriva un
problema giudiziario (la prostituzione minorile) e dall'altro una
questione sullo stato della libertà e dell'autodeterminazione
delle donne.
20 http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/politica/elezioni-2009-1/futuro-veline/futuro-veline.html
22
Gli scandali sono molti, legati tra loro in un’intricata rete di
corruzione, utilizzo indebito di mezzi e soldi pubblici, incarichi
politici affidati a escort e così via. L'inizio fu segnato, pochi
giorni prima la pubblicazione della lettera di Veronica Lario,
dallo scoop di Conchita Sonnino21 su Repubblica che ci informò
della partecipazione di Berlusconi in quanto dubbio “amico di
famiglia” al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia, una
studentessa di Portici. Dalla debolezza per la giovane “angelica”,
i mass media, e in particolare Repubblica, si occuparono di
svelare uno ad uno gli scandali sessuali che coinvolgevano
Berlusconi, arrivando appunto a descrivere una dimensione
complessa quanto radicata di favori sessuali e serate orgiastiche
che vedevano coinvolte anche minorenni, in un intreccio
inestricabile tra politica, potere e sesso.
Nel luglio 2009 scoppia il nuovo scandalo D'Addario, una escort
che registra e rende pubbliche – stavolta attraverso il
settimanale L'Espresso – le conversazioni inequivocabili avute con
il premier. Infine il cosiddetto Rubygate e le cosiddette
Olgettine, lo scandalo più grave, perché, oltre a rivelare
l’organizzazione di numerose serate a sfondo sessuale a cui
partecipavano, invitate da faccendieri al servizio di Berlusconi,
decine di ragazze immagine ed escort, vede coinvolta una
diciassettenne marocchina, nome d’arte “Ruby rubacuori”, in
rapporti sessuali a pagamento con Berlusconi, durante orge
denominate “bunga-bunga”. Il rubygate assumerà rilevanza penale
21 C. Sonnino, La bolgia. Silvio a Napoli. La vera storia dietro la maschera. Il Saggiatore,Milano 2010
23
anche per un episodio collegato: Berlusconi intervenne
personalmente per liberare la ragazza arrestata a Milano per
furto.
Su tutta questa vicenda molto è stato detto e molto ci sarebbe da
dire. I principali quotidiani nazionali – e non solo – hanno
radiografato tutti i particolari di questi scandali, con una
notevole quanto prevedibile dose di voyeurismo – le foto, le
rivelazioni, le confessioni e le dissociazioni delle ragazze, e
così via. D’altronde mediaticamente il sexgate (come la violenza
sessuale) dà sempre i suoi frutti: il potere mobilitante di uno
scandalo sessuale che vede coinvolto il presidente del consiglio
non può che essere enorme – quanto ambivalente, complesso, e per
molti aspetti rischioso.
Di questa mobilitazione si è fatta carico principalmente la stampa
di centrosinistra antiberlusconiana – in particolare Repubblica,
l’Unità, il Fatto – facendone un’arma a doppio taglio, che, se da
un lato mirava a colpire la corruzione del potere, dall’altro però
apriva una contraddittoria dimensione moralistica che ha per certi
versi spiazzato parte del femminismo proprio sui suoi stessi
terreni di battaglia. Il dibattito tra e sulle donne si è
sviluppato in maniera articolata e ricca, con decine di contributi
che hanno analizzato i nodi attorcigliati dell’escortgate: il nesso
sesso-potere, il significato di libertà e autodeterminazione
sessuale (e non solo) e il rapporto tra ruoli e modelli di genere,
l’autonomia sui propri corpi. In maniera molto schematica si
possono individuare tre filoni principali: il “fronte”
antiberlusconiano, il femminismo radicale (dalle sex workers ai
24
collettivi GLBTIQ), e il dibattito ospitato dal Corsera. In questo
contributo mi limito per questioni di spazio ad analizzare i due
interventi più significativi del primo, che hanno dato il via alla
discussione sul tema, e che dicono molto, a mio parere, delle
ambivalenze che sono emerse sul tema del legame tra libertà
femminile, sessualità, criminalizzazione delle condotte.
Innanzitutto, sul tema della prostituzione e della sessualità
vengono applicate nuovamente le etichette “colpevole”o “vittima”,
spersonalizzando o addirittura mostrificando le ragazze che hanno
frequentato le “feste” a sfondo sessuale, colpevoli di aderire ad
un modello perverso e corrotto di potere e di riprodurlo, vittime
probabilmente di esserne inconsapevoli, o di essere state plagiate
dalle tv di Berlusconi, o di esserne vittime e basta.
Tutto ciò, negli appelli, nei commenti editoriali, nei siti e nei
blog vicini alla stampa antiberlusconiana, viene schiacciato in
una questione di dignità (delle donne). Un concetto, quello di
dignità, ripetuto ossessivamente, al punto da scivolare in una
specie di mantra prescrittivo-moralistico: dignitoso – per le
donne - è il non essere promiscue, il sacrificio, la dedizione, la
devozione, la cura, il rapporto di parentela non incestuoso,
l’eterosessualità (mai infatti vengono citate le soggettività
GLBTQI).
A muovere il primo passo è Concita De Gregorio, sulle pagine
dell’Unità, di cui era direttrice (e di cui commissionò una ormai
famosa quanto controversa pubblicità ad Oliviero Toscani che
ritraeva il perfetto “lato b” di una modella in minigonna con il
giornale in tasca: “nuova, libera, mini, bella, forte,
25
rivoluzionaria”…22). Nell’articolo, dal titolo significativo “Le
altre donne”, la De Gregorio scrive:
“[…] Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E’
l’assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità.
L’assenza di un’alternativa altrettanto convincente. E’ questo il
danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo
il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera
verso il medioevo catodico, infine l’Italia ridotta a un bordello.
Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne
italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la
prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno
e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la
scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una
minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono
due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte:
dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di
sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie
di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di
possibilità uguale e libero, dove siete? […]
Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio
senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi – e come li ha
fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per
comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi,
deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il
primo fra gli italiani, il modello, l’esempio, la guida, il
22 C. Bonfiglioli, cit.
26
padrone.
Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano – al di
là dei reati, oltre i vizi – un potere decadente fatto di una
corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del
despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è
sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti,
che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i
soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non
penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il
momento di dirlo23”.
Nel suo appello accorato De Gregorio ci dice alcune cose
significative: innanzitutto che ci sono delle donne (che si
prostituiscono al potere) e delle “altre” donne: “noi”. “Noi”
siamo “madri, nonne, figlie, nipoti” di qualche uomo, ci
qualifichiamo per questo, e non siamo puttane.
Essere ”altre” viene qualificato neutralizzando completamente la
soggettività politica delle presunte interlocutrici della
giornalista. Lo status delle donne è ancora “essere parenti di”,
poco importa che siano di destra o di sinistra, da dove parlino,
che posizionamento abbiano scelto. Donne diventa un’unità
essenziale, se e quando declinata come per bene. Tutte le “altre”,
e gli uomini che non dimostrano “amicizia” alle donne per bene,
sono per male. Le “altre” non scelgono quello che fanno. Anche a
loro non è riconosciuta l’autonomia, pur nella scelta non
condivisibile (da De Gregorio) di usare il proprio corpo per
passare
23 http://concita.blog.unita.it/le-altre-donne-1.266857, corsivi miei.
27
“le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e
farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua
virilità”. Non scelgono liberamente ma sono ostaggio di un’idea di
siccesso sbagliata: “[…] pensano che avere fortuna sia questo: una
valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo
pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone
l’esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte
eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive
che diventano titolari di ministeri24”.
Inoltre l’errore – il peccato - è ancora una volta riconducibile
alla responsabilità e alla volontà dell’uomo: “un popolo di
mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso…”. Le donne che
partecipano al bunga bunga invece sono “puttane portate a
domicilio come pizze”: spersonalizzate, esautorate di volontà
propria, neutralizzate come oggetti.
Pochi giorni dopo, all’appello di De Gregorio fa eco l’appello “Se
non ora quando?”, firmato da donne famose e che investono cariche
pubbliche, donne dello spettacolo, giornaliste e scrittrici25:
“APPELLO ALLA MOBILITAZIONE DELLE DONNE ITALIANE DOMENICA 13
FEBBRAIO 2011
Se non ora, quando?
In Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa,
crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce),
24 Ibid.25http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com/2011/01/30/ciao-mondo/ , (corsivi miei). http://www.petizionepubblica.it/?pi=mobdonne
28
studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si è
scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, occupandosi di figli, mariti,
genitori anziani.
Tante sono impegnate nella vita pubblica, in tutti i partiti, nei
sindacati, nelle imprese, nelle associazioni e nel volontariato
allo scopo di rendere più civile, più ricca e accogliente la società in cui
vivono. Hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della
dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di
donne che – va ricordato nel 150esimo dell’unità d’Italia – hanno
costruito la nazione democratica.
Questa ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla
ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come
nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali,
televisioni, pubblicità. E ciò non è più tollerabile.
Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di
raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza
e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a
scambiarle con risorse e ruoli pubblici.
Questa mentalità e i comportamenti che ne derivano stanno
inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe
rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione.
Così, senza quasi rendercene conto, abbiamo superato la soglia della decenza.
Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle
massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di
vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi
della dignità delle donne e delle istituzioni.
29
Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a
vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene
la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità
internazionale.
Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro,
della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? è il tempo di dimostrare
amicizia verso le donne”26.
Questo appello è stato oggetto di numerosissime critiche,
impossibili da riportare in questa sede27. In realtà il testo parla
da sé e richiede davvero pochi commenti. Il modello di donna per
bene è il riferimento unico di questo appello, rivolto peraltro
significativamente esclusivamente alle “donne italiane” che si
“sacrificano” per affermarsi, eterni angeli del focolare che si
prendono cura delle relazioni affettive - naturalmente e in forma
esclusiva interne alla famiglia eterosessuale (ancora madri,
sorelle, figlie etc). Le donne per bene e la loro dignità,
ottenuta (come?) in 150 anni di storia nazionale (e il femminismo?
E le lotte sociali? E l’antifascismo?), ripetuta ancora una volta
come vessillo di purezza e onorabilità. Le donne per bene e
l’inganno in cui sono cadute, senza quasi rendersene conto,
superando la soglia della decenza e per questo bisognose di
26 Corsivi miei27 Per una panoramica del dibattito intorno all’appello di Se non ora quando? Rimando ai seguenti siti: http://www.universitadelledonne.it/dossier_politica.htm, http://www.ilmanifesto.it/?id=347, http://liberetutte.noblogs.org/post/2011/02/02/puttanamente_manifesto-per-un-godimento-polimorfico-costituente/, http://www.lucciole.org/content/view/665/3/,http://www.corriere.it/cronache/11_febbraio_08/il-disagio-delle-donne-gli-interventi_fa937ec8-3360-11e0-ae6d-00144f486ba6.shtml (elenco sicuramente non esaustivo).
30
ricevere dimostrazioni di amicizia dagli uomini, come se solo
attraverso attestati di solidarietà maschile fosse possibile
riconquistare la dignità (ancora una volta) perduta.
Il processo di de-sogettivazione delle donne e la
criminalizzazione dei comportamenti sessuali considerati devianti
si situa quindi paradossalmente (nel senso etimologico del
termine: contro quella che potrebbe essere opinione comune)
all’interno di discorsi che pretenderebbero di liberare
l’autonomia delle donne contro la mercificazione dei loro corpi e
della loro persona. Ciò che avviene invece è che la
rappresentazione pubblica e politica delle donne, della loro
sessualità, della loro responsabilità e della loro
autodeterminazione è una questione che risulta molto più complessa
ed articolata.
Conclusioni
Se torniamo alle parole usate durante la trasmissione Chi l’ha visto?
sul caso Rea, troviamo delle analogie stupefacenti con il
dibattito sui sexgate e i modelli performativi di genere che ha
imposto nella comunicazione pubblica. Il modello di donna che si
impone come meritevole di protezione (e mai di autonomia) e
rispetto (solo in caso di dignità conclamata) è sempre lo stesso.
Maternità, cura, amore, devozione. La vittima dev’essere buona e
per bene, deve confermare una ruolizzazione di genere, deve
aiutarci a leggere la realtà delle relazioni tra sessi così come
31
devono essere: pacificate, ordinate, eteronormate. Ci deve dire
chi siamo, rispetto a ciò che culturalmente non vogliamo e non
possiamo essere, pena la rimessa in discussione dell’identità e
quindi dell’ordine sociale stesso (e della nostra collocazione al
suo interno). I processi di vittimizzazione e di criminalizzazione
passano attraverso la costruzione di stereotipi, ruoli
essenzializzati, corpi culturalizzati.
In primo luogo, le retoriche securitarie utilizzano
strumentalmente il corpo femminile sia nel caso della violenza che
della prostituzione, per giustificare interventi normativi
repressivi e razzisti, segnando ancora una volta la profonda
interconnessione tra sessualità, identità, processi di
criminalizzazione e di etnicizzazione. Dispositivi che trovano nei
corpi reali – corpi sessuati, differenti, meticci, eccedenti –
l’oggetto del potere e del governo biopolitico di cui ci ha
parlato Foucault. Violenza e prostituzione si inseriscono quindi
all’interno dei processi di costruzione sociale dei generi, della
sessualità, dell’eteronormatività e dei processi di
naturalizzazione e culturalizzazione dei corpi.
Successivamente, anche quando l’allarme securitario rientra, sia
nella rappresentazione massmediatica che nella percezione sociale,
resta centrale, nella comunicazione pubblica, la violenza di
genere come evento spettacolarizzato ed eccezionale, riproducendo
lo stereotipo della figura femminile come debole e normalizzando
l’asimmetria delle relazioni di genere che intercorrono
all’interno della famiglia eterosessuale.
32
Questi due casi sono epifenomeni di una tendenza per certi aspetti
controversa, ma, di fatto, del tutto coerente, che vede i corpi
delle donne e la loro sessualità oggetto di dispositivi e ordini
discorsivi utili a riaffermare, come accennato, la norma
eterosessuale, le relazioni asimmetriche di genere, e più in
generale un determinato ordine sociale fondato sul controllo dei
corpi. E lo fa principalmente attraverso processi di
vittimizzazione e criminalizzazione delle condotte sessuali, non
solo delle donne.
Infatti, allo stesso tempo, il dibattito pubblico che si è in
seguito sviluppato intorno agli scandali sessuali del premier ha
concentrato l’attenzione massmediatica in maniera quasi ossessiva
sulla sessualità “perversa” – o finalmente liberata dall’ipocrisia
– di Silvio Berlusconi e con lui di tutti coloro che si sono
riconosciuti nel modello sessuale e di genere che lui stesso
rappresenta (oggettivamente e soggettivamente).
Una rappresentazione pubblica della sessualità che ha fatto
emergere l’intricato nesso che collega sesso, potere e libertà,
radicati stereotipi di genere e inediti moralismi, producendo
schieramenti politici e aprendo nuove contraddizioni etiche e
politiche per quanto riguarda i concetti di libertà e
autodeterminazione. Ancora una volta cioè il tema della
prostituzione e della strumentalizzazione dei corpi femminili ha
imposto al discorso politico la necessità di una riflessione
approfondita che trovasse nel mutamento sociale nell’emancipazione
dei generi da se stessi il proprio epicentro.
33
Allo stesso tempo l’opposizione parlamentare, appoggiata da parte
dei mass media nazionali, in una dinamica piuttosto discutibile di
contrapposizione e criminalizzazione delle condotte del presidente
del consiglio, riafferma un modello “sano”, “normale” e legittimo
di sessualità e rapporti tra generi, stigmatizzando il
comportamento delle cosiddette escort, considerato non conforme a
principi moralistici condivisi ed accettabili socialmente.
La violenza di genere e la prostituzione sono storicamente fatti
sociali che nel modo in cui vengono rappresentati e costruiti
socialmente producono dunque processi di etnicizzazione,
essenzializzazione, culturalizzazione, e lo fanno a partire dalla
costruzione dei corpi e della loro sessualità. Per questo gli
ordini discorsivi che riguardano questi due fenomeni speculari tra
loro sono così centrali: perché hanno ad oggetto il corpo,
elemento centrale del dispositivo di sessualità e del nesso
sapere-potere su cui si fonda il controllo sociale contemporaneo.
D’altro canto, gli stessi ordini discorsivi si intrecciano e si
sovrappongono, dimostrando come il controllo dei corpi sia una
priorità del tutto trasversale:
“Ai discorsi sul sesso non va chiesto innanzitutto da quale teoria
implicita derivino, o quale ideologia – dominante o dominata –
rappresentino; bisogna piuttosto interrogarli ai due livelli della
loro produttività tattica (quali effetti di potere e sapere
garantiscono) e della loto integrazione strategica (quale
congiuntura e quale rapporto di forza rende necessaria la loro
34
utilizzazione in questo o in quell’episodio degli scontri diversi
che producono)28”.
Infatti, come nota Lidia di Cirillo in un suo intervento interno
al dibattito sul Rubygate ospitato e promosso dalla Libera
Università delle Donne29, la gravità politica degli scandali
sessuali sta nel fatto che “un individuo con una condotta così
disinvolta si fa poi paladino della più retriva morale cattolica,
promette una legge contro la prostituzione, ne fa approvare
un'altra che vieta l'analisi pre-impianto degli embrioni nelle
tecniche di fecondazione assistita, resiste al riconoscimento del
sia pur minimo diritto di lesbiche, gay e trans, celebra il family
day..”.
Nel caso della violenza e della prostituzione, come abbiamo visto,
da un lato il corpo femminile viene utilizzato per giustificare
interventi normativi repressivi e razzisti, segnando ancora una
volta la profonda interconnessione tra sessualità, identità,
processi di criminalizzazione e di etnicizzazione: dispositivi che
trovano nei corpi reali – corpi sessuati, differenti, meticci,
eccedenti – l’oggetto del potere e del governo biopolitico di cui
ci ha parlato Foucault.
Dall’altro lato, la rappresentazione culturalizzata dei corpi
serve ad affermare in generale un ordine tra i generi, in cui
quello femminile viene definitivamente esautorato di soggettività
e presa di parola. Vittima o colpevole saranno altri a parlare di
28 M. Foucault, cit., p. 91
29 http://www.universitadelledonne.it/rubygate.htm
35
lei. Perché attraverso la censura della sua soggettività si
nascondono anche i processi di emancipazione, di
autodeterminazione e di libertà che sono all’origine di un
conflitto fondamentale nelle nostre società.
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